IL PRIMO PASSO VERSO L'UNITA' D'ITALIA 1848 - 1849

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MINI ST ERO DELLA DI FESA STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO - UFFIC[O STORICO

IL PRIMO PASSO V E R S O ~, UN I T À D' I TAL I A

PRESEKTAZIONE (GENERALE EFISIO 1\IIARRAS, CAPO DI S. M. E.) PREMESSA (UFFICIO STORICO)

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LE OPERAZIONI MILITARI DEL 1848 (GJ:'.NERALE FIVJ.NCESCO SAVERIO GRAZ /OLI) LE OPERAZIONI lvULITARl DEL 1849 (GENERALE CARLO GELOSO) I L CONTRIB UTO D ELLE ART I E DELLE LETTERE (PROFESS ORE ALBERTO MARIA GHISALBERTI) IL

CO:-ITRI8UTO MILITAR.E DEGLI STATI ITALIA:s.11 (GENERALE MARIO CARACCIOLO DI FEROLETO)

I VOLONTARI (GENERALE CESARE CESARI) LE RI VOLUZIONI DEL 1848 • 49 IN ITALIA (GEN ER A.LE" RODOLFO CORSELLI)

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PRESENT AZIONE

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L'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito ha preso la iniziativa ed ha curato la pubblicazione di questi studi sul

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848-49,

iniziativa da me approvata ed assecondata, perchè non rivolta a rievocazioni erudite, ma a riprospettare, in forma storica, problemi che tornano a presentarsi, sia pur sotto aspetti diversi, alla vita italiana, in questa prima ora del sÙo nuovo ciclo storico, la quale, tenendo conto delle diversità particolari, tante analogie presenta con quet primo passo concreto del suo ascensionale cammino. Gli studi che vengono qui presentati son dovuti a Maestri, nel campo militare e civile, di elevata dottrina e di particolare comperenza negli argomenti da ognuno rispettivamente trattati. Nel loro complesso, essi vengono a comporre un quadro organico degli aspetti fondamentali onde si manifestò, nella sua realtà storica, il Il

gran moto del 1848-49: lavoro preparatorio nel campo letterario, artistico, intellettuale in genere; azione militare nelle sue varie forme; cizione popolare. Gioverà sottolineare questa circostanza del non aver limitato l'orizzonte di questo panorama all'aspetto militare degli avvenimenti, ma di averlo, con consapevole proposito, voluto affiancare con quelli


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che, nella realtà della vita e della storia, furono con esso concomitanti. Organicità di visione che è indice di quel nuovo indirizzo che è nostro proposito presieda agli studi militari italiani, auspicio di una meglio acuita e più aggiornata sensibilità del nostro pensiero militare.

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C.A.PO DI ST/\TO MAGGIORE DELL'ESERCITO


PREMESSA

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Ognuna .delle fasi in cui può distinguersi il processo s!orico del Risorgimento fino al 1848-49, ritiene un suo particolare carattere che spiega, anche se contrasta, quello della fase successiva, e poi tutte insieme - quali aspetti distinti nell'organica unità di un solo processo storico - si scontrano, cozzano e vicendevolmente si limitano in quella del 1848-49, non nettamente comprensibile se isolata da quelle che la precedono. Parlando di fasi e dei loro caratteri, è chiaro per altro che le suddivisioni e le caratterizzazioni hanno sempre un valore relativo. Intento di libertà politica (governo costituzionale), ma in orizz onte regionale; protagonisti provenienti ·o ispirantisi al ciclo che -si impersonò in Napoleone; ristretto numero di seguaci in connessione con il segreto spirito che li anima (Carboneria): sono questi alcuni dei tratti più e meglio distinguibili nella prima fase, compresa, grosso modo, fra il 1815 e il 1830. Intento di libertà, allargato in una visione che non ·è più soltanto di carattere strettamente politico, ma anche sociale; ampliamento del/' orizzonte, nel programma mazziniano, da regionale a nazionale, onde l'affermazione esplicita e consapevole della necessità dell'unità nazionale; inizio della estensione del moto dai ristretti nuclei di militari e di funzionari del tramontato regime napoleonico, o da essi ispirati, alla borghesia e, nelle aspirazioni se non nella effettuale realtà, anche al popolo: ecco alcune delle linee dominanti nel panorama del moto_ storico compreso alt'incirca fra il r 8 3 r e il I 84 5, panorama domz~a~o dalla figura, dalla parola e dal!' apo.1tolato di Giuseppe A1azztnt.


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Lo sviluppo del moto è evidente: vi sono interessati ormai, oltre i militari ed i Carbonari, anche notevoli e sempre più larghi strati della borghesia e rappresentanti dell'aristocrazia; accanto al problema della libertà politica, è chiaramente posto quello dell'unità nazionale, mentre il metodo pe.rmane ancora quello dell'insurrezione. Il problema dell'organizzazione nazionale si andò poi complicando con aìtre soluzioni, come quella federale repubblicana del Ferrari e del Cattaneo. In due as.petti principali si distinguerà la successiva fase ( 1846rispetto alla precedente. Uno riguarda il metodo: rifiàtato quello delle insurrezioni e proposto ora quello dell'azione dei prìncipi. L'altro riguarda la necessità di risolvere innanzi tutto il problema dell'indipendenza dall'Austria, e risolverlo appunto per via di accordo fra i prìncipi italiani; donde l'idea d'una più o meno' estesa federazione degli Stati italiani con a capo il Papa, secondo il Gioberti, o la Casa di Savoia, secondo il Balbo e il D'Azeglio. L'idea dell'unità, in questa fase, era meno presente agli spiriti. 1 847)

I termini essenziali del complesso problema erano ormai tutti posti: libertà, unità, indipendenza, monarchia, repubblica unitaria, repubblica federale. Sono termini spesso contrastanti l'uno con l'altro. Il I 848 segnerà lo scoppio del contrasto. E contrasto sul terreno dell'a.zione, non solo delle idee. Per questo il '48 è anno tempestoso: (<tempesta magnifica >>, disse il Carducci. E come tale è rimasto anche nell'immaginazione popolare. Tutte le tendenze si scontrano nel I 848-49: la federativa, la 1nonarchica, l'unitaria repubblicana, la federale repubblicana. Il moto perderà, di massima, carattere « municipale)>, regionale e, per· quanto tale carattere non sarà del tutto dimenticato, il movimento assumerà fondamentale intonazione na:àonale, attraverso l'idea federativa. Vi pc1,rteciperanno pure strati popolari, specie artigiani delle città. Palermo, alt alba del 12 gen1Jaio 1848, lancerà il grido di riscossa. Milano, Venezia (per limitarsi alle città più illustri) seguiranno. Verrà indi l'ora del Gioberti, del neo-guelfismo. Ma Pio IX con la sua allocuzione del 29 aprile 1848, con cui dichiara di non poter combattere gli Austriaci, in quanto cattolici, rompe il <( roseo sogno d'un mattino di primavera )> .


PREMESSA

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Subito dopo avrà parte da protagonista l'idea monarchica piemontese: è l'ora di Carlo Alberto. Ma i prìncipi italiani si ritraggono a poco a poco dalla guerra nazionale, e la parte democratica rimane fredda, talvolta avversa, di fronte a quella monarchica. In questo contrasto - sia qui detto per inciso - è da ricercarsi una delle cause fondamentali, perchè lavorante in profondità, dell'insuccesso della prima guerra d'indipendenza. Il motivo forse essenziale della stasi apparentemente inspiegabile delle operazioni piemontesi sul Mincio, è da ricercarsi nell'ambiguità della situazione politica italiana. Dopo la sconfitta di Carlo Alberto, prevarrà l'idea democratica: è l'ora di Maz.zini e di Garibaldi, a Roma; di Manin, a Vene.zia; l'ora della resistenza popolare della « leonessa d'Italia >) ( la strenua resistenza di Messina era stata già stroncata nel settembre '48): il ciclo, iniziatosi con carattere di « guerra di popolo », passato attra, verso una fa.re di « guerra regia>), si concluderà con la prima. Il contrasto politico più profondo e intenso, che fu uno dei motivi essenziali del!'insuccesso militare ( vi contribuì anche l' assenza di capi all'altezza della situazione, assenza tanto più grave in quanto l'Austria potè invece valersi di un capo di notevole valore, il Radetzky) può sintr:tiz:zarsi nel dissidio fra il principio tradizionalista, sebbene riformatore, simboleggiato dalla monarchia, e il principio profondamente trasformatore, con tinte e guiz.'Z:Ì rivoluzionari, simboleggiato dalla repubblica e che si può complessivamente denominare democratico . Ambo i principi escono battuti: quello monarchico a Novara, quello democratico a Roma e a Venezia. Sconfitte su cui aleggia un luminoso ç,,lone di gloria. E a quella luce, come suole avvenire, hanno volto lo sguardo i poeti, dal Fusì-nato, al Carducci, al D'Annunzio . Ma, tuttavia, sconfitte. Ambo i princip1, se isolati o contrastanti, sì erano dimostrati impari alla lotta . . Occorreva l'unificazione degli intenti, delle varie correnti politiche, della rivoluzione con la tradizione. Occorreva, per la vittoria su un potente impero, la inserzione organica del problema italiano nel più vasto problema della politica europea. Tali gli insegnamenti del r 848-49: tale l'opera di Camilla Cavour. · Insegnamenti ed opera di carattere essenzialmente politico, ma anche militare, per quella organica interdipendenza fra politica e


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guerra, postulata e dimostrata da quel grande teorico delltz guerra, ¡ che fu il Clausewitz. Quegli insegnamenti e quell'opera dicono infatti che è vano sperare la vittoria senza aver posto a base dell'azione militare, fra L'altro e innanzi tutto, una adeguata, anche se non assoluta, base di concordia politica nel PaeJe e senza una commisurazione, apprassimata quanto umanamente possibile, dei mezzi disponibili agli scopi perseguiti. Lezione valida ancor oggi, domani, sempre. Unificazione d'intenti, adeguazione dello scopo ai mezzi disponibili ovvero ( e non è la stessa cosa) dei mezzi allo scopo fissato: ecco mete e problemi ben vivi ed attuali, che la vicenda dolorosa, anche se gloriosa, del ' 48 ci indica, imponendoli alla nostra attenzione, con la forza dell'esperienza vissuta.

L'UFFICIO STORICO




LE

·oPERAZIONI J\1ILIT ARI DEL 1848

Gli avvenimenti di guerra che ebbero per teatro l'Alta Italia dal 26 marzo all'8 agosto del 1848, a volerli costringere, per brevità, nel quadro di una concisa visione sintetica, ci appaiono come un breve ma emozionante dramma che si apre con un prologo di fiammeggiante generale entusiasmo; si protrae alquanto lento ed incerto per alcuni atti solcati in ogni senso da splendidi episodi di valore, ma anche da contrastanti passioni, fin che sbocca in un rapido epi. logo fra lampi di fosca tragicità. Prologo del dramma, la rivoluzione siciliana, le Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo) e la contemporanea insurrezione di tutto il Lombardo-Veneto contro l'aborrita dominazione austriaca, ultimo evento, in ordine di tempo, degli sconvolgimenti poìitici scatenatisi in Europa nei mesi precedenti in un generale anelito di libertà. La furia di un popolo esasperato che, a Milano, aveva posto in difficile situazione un presidio austriaco forte di ben dieci battaglioni, quattro squadroni e trenta cannoni sotto il comando dello stesso maresciallo Radetzky, ebbe immediato contraccolpo in Piemonte dove già da qualche tempo gli avvenimenti di Lombardia erano seguiti con indicibile ansietà . li Piemonte, che stava proprio in quei _giorni esperimentando il suo nuovo libero regime interno in seguito alla promulgazione dello Statuto albertioo, era la regione d'Italia che più di ogni altra aveva saputo tener desto nel suo « popol bravo >) il culto delle armi e lo spirito guerriero, e dove un re « a la morte nel pallor del viso sacro e nel cuore )) non faceva mistero da qualche anno della sua cocente passione di porsi alla testa, quando se ne fosse offerta l'occasione, della grande impresa di liberare l'Italia dallo straniero, pronto


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a sacrjfìcare per la santa causa « la sua corona, la sua vita e quella dei suoi figli se fosse stato necessario ». E l'occasione venne quando, insorta contro gli Austriaci e inalberato il tricolore, Milano si affrettò a chiedere a Carlo Alberto l'aiuto dell'esercito piemontese per sbaragliare a fondo il nemico. Il Re, fedele a promesse già fatte, non esitò; e sebbene non avesse ancora l'esercito pronto all'offesa, accolse l'invito e la guerra scoppiò. Simile a risonante diana di guerra corse allora per l'Italia e scosse le fibre dei patrioti il primo proclama del magnanimo Sovrano ai popoli della Lombardia e della Venezia. Ricordiamolo nella sua integri tà. « Popoli della Lombardia e della Venezia!

« I destini d'Italia si maturano: sòrti più felici arridono agli

intrepidi difensori di conculcati diritti. << Per amore di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza <li voti, Noi ci associamo primi a quell'unanime ammirazione che vi tributa l'Italia. e< Popoli della Lombardia e della Venezia, le nostre anni, che già si concentravano sulla vostra frontiera quando voi anticipaste la liberazione della gloriosa Milano, vengono ora a porgervi nelle ulteriori prove quell'aiuto che il fratello aspetta dal fratello, dall'amico l'amico. « Seconderemo i vostri giusti desiderj, fidando nell'aiuto di quel D.io che è visibilmente con N oi, -di quel D io che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con sì meravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di fare da sè. « E per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana, vogliamo che le nostre truppe entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana. « Torino, 23 marzo 1848. Carlo Alberto». Giammai forse inizio di guerra ebbe più pieno e generale consenso di popolo. Dalla forte regione subalpina alla punta estrema della Sicilia, mentre i governi, più o meno volonterosamente, dichiaravano di voler partecipare alla guerra di liberazione, una vampata di entusiasmo invase tatti i cuori. La stessa mente pensosa ed equi-


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librata dì un giovane piemontese, predestinato a grandi cose, Camillo Benso di Cavour, non esitò a lanciare in quei giorni sul suo giornale il Risorgimento, frasi infiammate , come queste : ~< L' o.ra supre7:1a ,Per la monarchia sarda è suonata : l ora delle forti deliberazioni, l ora dalla quale dipendono i fati degli imperi, le sorti dei popoli... Uomini noi di mente fredda, usi ad ascoltare assai più i dettami della ragione che non gli impulsi del cuore, dopo di avere attentamente ponderata ogni no,stra parola, dobbiamo in coscienza dichiararlo : una sola via . è aperta per la nazione, per il Governo, per il Re: la guerra, la guerra immediata e senza indugi>> . E pure l'impresa, più che audace, poteva sembrare temeraria. Il piccolo esercito di Piemonte, sorpreso dal precipitar degli eventi, scendeva in campo incompletamente preparato contro l'esercito austriaco d'Italia, scosso, è vero, dalla improvvisa e vittoriosa insurrezione popolare, ma che aveva dietro di sè la formidabile potenza dell'Impero asburgico, appena scalfita dalla contemporanea insurrezione di Vienna. Era la prima volta d'altra parte che le armi sarde ~tffrontavano da sole uno dei due potenti tradizionali vicini senza l'appoggio dell'alleanza con l'altro. Anzi quest'altro, cioè la Francia, da pochi giorni repubblicana, non dimentica deile sue fortunate precedenti invasioni in Savoia e al di qua delle Alpi, era alle spalle tutt'altro che amica sicura. Il dramma che stava per incominciare era dunque veramente emozionante. Tutto era ancora oscuro in quel tempo in cui così lenta era ancora la trasmissione delle notizie. Incerte o contradditorie quelle sulle reali condizioni dei presidì austriaci scacciati dalle città e in probabile ritirata verso .le fortezze fra Mincio ed Adige. Del Veneto nulla sì sapeva fuor della insurrezione dì Venezia che aveva inalberato il vecchio glorioso vessillo della Repubblica di S. Marco. Nessun dato sicuro circa l'arrivo nella valle del Po delle milizie degli Stati italici. Evidente soltanto l'accorrere tumultuoso in Piemonte e nella vicina Lombardia dì forti nuclei dì volontari, ardenti bensì cli volontà dì combattere, ma poco disciplinati, male armati, mediocremente comandati e per i quali le rigide gerarchie militari piemontesi non nutrivano certo soverchie simpatie, avverse come erano a quella guerra di bande allora assai esaltata e propugnata col solito profetico ardore da Giuseppe Mazzini. Questo il prologo del dramma. Prima di narrarne la tela, vediamone un po' più da vicino i principali personaggi, o meglio i due più prossimi alla r ibalta: l'esercito regolare piemontese e il contrap-


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posto esercito austriaco; poichè degli altri (eserciti regolari o volontari dei vari Stati d'Italia) sarà detto in particolare in altri capitoli.

L'esercito piemontese era, a quei tempi, ordinato tradizionalmente così : una robusta ossatura di soldati e graduati detti di ordinanza, con ferma assai lunga e periodicamente riaffermabili. Intorno a questa ossatura di ottimi ed esperti militari di mestiere si avvicendavano ogni anno le classi di leva (provinciali) per un limitato periodo cli fe rma, salvo ulteriori richiami per aggiornarne l'istruzione. All'atto della mobilitazione le classi in congedo, richiamate, completavano la forza di guerra dei reggimenti o dei reparti delle varie armi. I reggimenti di fanteria erano stabilmente raggruppati a due a due in brigate col nome della città nella cui zona venivano reclutate. Le divisioni invece non si formavano che all'atto della guerra e ne erano prev.iste cinque. Si faceva conto altresì per la guerra su riserve di classi più anziane da mobilitarsi in secondo tempo e con le quali i depositi avrebbero costituito battaglioni di seconda linea, cosiddetti quarti o quinti battaglion i. La mobilitazion·e piemontese era piuttosto lunga e complicata. Nel '48 essa aveva però avuto inizio fin dal gennaio con qualche parziale richiamo di classi in relazione al rapido intorbidarsi della situazione politica generale. Sui primi di marzo poi, avendo le circostanze consigliata la formazione immediata di un corpo d'osservazione sui confini orientali ciel Regno, le operazioni si erano ancor più complicate; fino a che, per il brusco precipitar degli eventi, resasi necessaria un pronta radunata cli tutto l'esercito fra basso T icino e Po, mobilitazione e radunata. finirono per intrecciarsi al punto che, al momento del passaggio del Ticino al · 26 marzo, le due operazioni erano ben lungi dall'essere ultimate. Questa incompleta preparazione iniziale pesò poi, gravida di non lievi inconvenienti, su tutta la pr.ima fase della campagna e ne impedì, purtroppo, un più rapido sviluppo. L'esercito piemontese difatti non potè dirsi veramente a punto st non sul Mincio e intorno alla metà cli aprile. Così che per avere un'idea più concreta della formazione di guerra dell'esercito sardo conviene senz'altro riferirci a quella che si ebbe a completamento avvenuto, la quale è · schematicamente indicata nel seguente quadro di battaglia:


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L ARM,\ 'l'i\ P!E MONTF.S.E CUIDA'i'A DA CARLO ALBER'J'O PASSA IL TICINO A T URBIGO (Sttrmpa ddl'epoca )


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Comandante in capo: S. M. il re Carlo Alberto Capo di S. M.: magg. generale Carlo Canera di Salasco Sottocapo di S. M.: colonnello Luigi Fecia di Cossato I

coRPO D'ARMATA :

generale E usebio Bava

divisione: generale Federico Millet d' Arvillars Brigata Regina (9° e 10° fanteria) Brigata Aosta (5° e 6° fanteria) Reggimento Genova Cavalleria 6a e 8" batteria da battaglia e 3., da posizione Distaccamento genio 1""

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divisione: generale Vittorio Garretti di Ferrere Brigata Casale (II e 12° fanteria) Brigata Acqui (17° e 18° fanteria) Reggimento Nizza Cavalleria 2• e 5a batteria da battaglia Distaccamento genio 2'

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Truppe di corpo d'armata Battaglione Real Navi 1° battaglione bersaglieri l a divisione del treno provianda Il

CORPO

o' ARMATA: generale Ettore Gcrbaix de Son naz

3"·

divisione: generale Mario Broglia di Casalborgone Brigata Savoia ( 1° e 2° fanteria) Brigata Savona (16° fanteria, Piacentini, Parmensi, Modenesi) (1) Reggimento Novara Cavalleria i batteria eia battaglia - 2 .. da posizione (Modenesi e Parmensi) 1' batteria a cavallo Distaccamento genio

4"

divisione: generale . G. Battista Fedcrici; dal 4. gi ugno: S. A. R. Ferdinando di Savoia, Duca cli Genova Brigata Piemonte (3° e 4° fanteria) Brigata Pinerolo (13° e 14° fan teria) (1) li 15° rgt. ftr. rimase <li presid io in Savoia. Fu soslituito nella brigata Savona dalle truppe piacenti ne, parmensi e modenesi. L~ briga ta fu perciò detta brigata composta.

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Reggimento Piemonte Reale Cavalleria la e 4" batteria da battaglia Distaccamento genio Truppe di corpo d'armata 2° e 3° battaglione bersaglieri divisione del treno provianda

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DIVISIONE

DI

RISERVA: S.A.R. Vittorio Emanuele, Duca di Savoia

Brigata Guardie (1° e 2° granatieri) Brigata Cuneo (7° e 8° fanteria) Reggimento Aosta Cavalleria 3a e 9" batteria da battaglia - 2" e 3• batteria a cavallo Distaccamento genio 3" divisione del treno provianda CoL QUARTIER GENERALE

3 squadroni di CC. RR. I reggimenti di fanteria, a completamento avvenuto, ebbero circa 2600 uomini (800 per battaglione). I reggimenti di cavalleria contavano 450 cavalli; più tardi ne ebbero altri 50. Le batterie da battaglia ed a cavallo erano su otto pezzi (6 cannoni da 8 e 2 obici); quelle da posizione su otto pezzi da 16. In complesso, computando anche le formazioni di riser va, il Piemonte mise in campo da 70 a 75 mila uomini. Qual era l'efficienza di questo piccolo esercito, nocciòlo pri ncipale intorno al quale si sarebbero poi schierate le altre forze degìi Italiani? Quanto ad armamento e mezzi bellici, si può dire che essi (come su per giù in tutti gli eserciti di quel tempo) erano di ben poco progrediti rispetto all'epoca napoleonica. Assai più arretrati pertanto di quanto si cominciò a vedere appen a qualche decina d'anni dopo il '48 per i rapidi progr~ssi che l'industria bellica andò via via realizzando di pari passo con le meravigliose conquiste dell'ingegno umano sulle forze misteriose della natura. Nel '48, ancora fucili ad avancarica e ad anima liscia, con tiro efficace non oltre i 300 metri. Quattro tempi e otto movimenti per la carica. Meccanismo a percussione da poco adottato e considerato


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gran progresso sul sistema a pietra focaia dei fucili napoleonici. Poche carabine più perfezionate pei nostri bersaglieri, come pei cacciatori tirolesi austriaci. Cannoni di bronzo, pur essi ad avancarica e ad anima liscia, su affusti di legno (mod . 44) di poco più leggeri dei vecchi affusti Gribeauval delle campagne napoleoniche. Gittata efficace delle artiglierie non oltre i 1000 metri; massjma per gli obici 1400. Proiettili sferici simili a palle di ferraccio di vario peso; qualche primitiva granata dirompente; grande uso di mitraglia aJle brevi distanze. Polveri fumogene. Cavalleria, pesante o leggera, ancora arma essenzialmente di linea ; caricava compatta per reparti a lancia e sciabola. Quasi sconosciuta l'esplorazione lontana e vicina. Mezzi di trasporto rudimentali. Ferrovie appena agli albori del loro successivo rapido sviluppo; su tutto il teatro d'operazione dal T icino al Mincio e oltre, solo brevissimi tronchi ferroviari staccati di nessuna utilità logistica. Rifornimenti e sgomberi tutti per via ordinaria, su lentissimi convogli di carri mal trainati, affidati a imprese private poco disciplinate e riluttanti a g iungere fino a buona portata dalle truppe combattenti. Marce lunghe e faticose per tappe, rese più penose, specie in estate, dall 'inadatto vestiario ed equipaggiamento di quei tempi, quando si andava romanticamente alla guerra in uniforme di parata. Se ne può avere un'idea dalle quattro belle statue di soldati del '48 che adornano il piedestallo del monumento a Carlo Alberto in Torino. Forza massima complessiva di ciascuno dei due eserciti regolari contrapposti in quella campagna, ben poco s~per~ore a quella di un solo grosso corpo d'armata dei nostri g1on11. Ma in guerra, lo si sa, non soltanto i mezzi materiali e il numero, ma è anche lo spirito che conta, insieme ali ' ascendente e alla capacità dei capi. Quanto allo spirito, si può dire che pochi eserciti di quell'epoca potevano vantarne uno così alto e vigoroso come quello che animava l'esercito piemontese. Nelle sue modeste proporzioni emulava le qualità dell'esercito prussiano, considerato allora il migliore d'Europa. Fondato sulle semplici e rud i virtù del popolo subalpino, forte come le rocce delle sue montagne, alimentato dalle secolari tradizioni degli avi usi a militare con tenace bravura sotto la guida dei loro saggi e valorosi sovrani , lo spirito dell'esercito del vecchio Piemonte non si era certo affievolito durante la quasi ventennale parentesi della dominazione francese al tempo della Rivoluzione e dell'Impero. Anzi il largo contributo di energie e di sangue prodigato dal Piemonte nelle campagne napoleoniche ne aveva tem-


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prate ancor più le natìe virtù guerriere. Furono piuttosto i pnrn1 anni della Restaurazione a stendere sui reggimenti piemontesi una certa qual aria di ostinato misoneismo che non scalfì. però il puro acciaio della loro anima militare. Interessante è, sotto questo punto di vista, la testimonianza che ce ne dà nei suoi Ricordi Massimo D'Azeglio. Vivevano d'altronde nel 1848 a Torino, molti ancora di coloro che, in gioventù, nel 18J 4, avevano visto il buon re Vittorio Emanuele I rientrare dall'esilio nei suoi Stati con tanto di tricorno in testa, parrucca e codino, beatamente persuaso di aver fatto un brutto sogno e convinto che tutto sarebbe ben presto ritornato come prima dell'89. Ma l'atmosfera pesante durò poco e i ricordi di coloro che avevano combattuto con Napoleone vi reagirono ben presto. Soprattutto nell'ultimo quindicennio del regno di Carlo Alberto notevoli riforme furono apportate agli ordinamenti militari per l'opera assidua e sagace del generale Pes di Villamarina che fu a lungo ministro della guerra. L'aristocrazia piemontese, per antica tradizione, costituiva il principale vivaio del corpo degli ufficiali. Era un'aristocrazia che alla specchiata fedeltà al monarca univa uno spirito militare elevatissimo, sebbene un po' altezzoso e formalistico. Con l'andar degli anni anche la borghesia dette ottimi quadri in tutti i gradi, mentre prezioso contributo di minuta esperienza pratica dettero pure taluni provetti elementi provenienti dalla bassa forza. Nel complesso era un corpo di ufficiali, a dir vero non molto numeroso pei bisogni di guerra, ma esem plare dal punto di vista morale e della pratica del servizio. E difatti, durante la campagna, gii ufficiali piemontesi d'ogni grado ed arma dettero prove straordinarie di valore personale, sempre primi coi loro reparti sotto il fuoco nemico e impareggiabili nel dare l'esempio nei momenti più critici del combattimento. Meno brillante era però il livello medio culturale dei quadri, e, in quelli di grado più elevato, la preparazione alla condotta strategica e tattica della guerra. Si sarebbe detto che i trenta anni e più di ininterrotta pace avessero offuscata nella mente dei più l'immagine viva e concreta dell a vera guerra. Il formalismo, la routine, la smania eccessiva di far bella mostra nelle riviste e parate, l'artificiosità geometrica delle evoluzioni nelle manovre annuali al campo cli San Maurizio presso T orino, lo stesso modo di combattere meticolosamente prescritto dai regolamenti tattici dell'epoca coi reparti in ordine chiuso e su più linee e con fuochi a massa sì da ricordare i me-

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todi pre-napoleonici del tempo di Federico, avevano fatto passare in secondo piano lo studio realistico deìi'arte della guerra. Non mancavano certo onorevoli eccezioni : giovani ufficiali di grande ingegno che di loro iniziativa si facevano campioni di idee più aperte e lungimiranti. Per citarne alcuni, l'allora maggiore Giovanni Cavalli, artigliere e ponti.ere già famoso per le sue geniali invenzioni di risonanza mondiale (retrocarica, rigatura, artiglierie mobilissime, ecc.); i due fratelli Lamarmora : il primo, Alessandro, ben noto per la felice istituzione del' corpo dei bersaglieri, fanteria scelta e superbamente addestrata al tiro individuale e al combattere sciolto e dinamico, e il secondo, Alfonso, fervido propugnatore e magnifico istruttore delle batterie a cavallo, primo esempio di artiglieria campale idonea a più celere impiego. Ma erano eccezioni; la m assa si teneva assai più a fior di terra nel suo ostinato conservatorismo. Gli stessi reduci delle campagne napoleoniche (e ce n'erano molti anche nei gradi più elevati) sembrava non conservassero più deìle loro gesta giovanili se non il ricordo del modesto episodio cli cui erano stati attori o testimoni; nulla che sapesse di meditata scienza bellica; forse perchè abituati, sotto Napoleone e in gradi ancora inferiori, a considerarla compito esclusivo del formidabile accentratore che li aveva condotti col suo genio alla vittoria e alla gloria. Scarsa dunque educazione a condur guerra dinamica e risolutiva; anche perchè non esisteva in Piemonte un vero organo ausiliario del comando che meritasse sul serio il nome di stato maggiore, costituito come era, quello piemontese, da una classe di ufficiali ,. scelti bensì, ma le cui mansioni normali erano più che altro burocratiche e topografiche . Non era ancor giunta nell'alta gerarchia militare sarda, più ilìustre per vigor di carattere che non per larga e profonda coltura, la eco della poderosa sintesi teorica tedesca, tratta dalle magistrali campagne napoleoniche clali'acuta mente del Clausewitz; nè in Piemonte era sorta una scuola di aperti ingegni, come quella napoletana, vòlta allo studio razionale della guerra sulle orme di precursori quali, per non citar che i migliori, il Palmieri ed il Blanc. Ma, ciò che p iù conta, a ben meditare sugli eventi storici della campagna. del 1848, dalla nostra parte si cercherebbe invano fra i capi di pit1 alto grado chi veramente eccellesse per doti personali di condottiero, tali da renderlo capace di tenere con ferma mano il ti· mone della guerra e di condurre a buon fine una impresa che, per tutte le ragioni già esposte, si. delineava fin dall'inizio estremamente difficile ed esigeva soprattutto fulmi nea rapidità di concepimenti


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e di ~os~e per non lasciarsi strappare dal nemico l'iniziativa delle operaz10m. • Non certo possedeva qualità superiori di condottiero il re Carlo Alberto, comandante supremo di tutte le forze italiane in quella campagna. Generosa anima di soldato era senza d ubbio, e geloso fino allo scrupolo dell'onor militare. Lo aveva d'altronde luminosamente dimostrato da giovane, montando all'assalto del Trocadero, quando, in veste di semplice granatiere, lui principe designato a suecedere al trono, era stato inviato in Spagna a purgare le sue giovanili velleità liberali. Più ancora seppe darne prova durante la campagna del '48, quando, in fiera emulazione con i due suoi figli il Duca di Savoia e il Duca di Genova, fu visto costantemen te esporsi, fra i suoi' soldati che adorava, sotto il fuoco nemico, più assai che l'alto suo grado non comportasse ed essere a tutti di esempio, di calma e di coraggio. Ma non pari al sangue freddo e alla nobiltà dell'animo aveva la tempra di condottiero e forse nessuno ne era più di lui persuaso. Il suo temperamento, tormentato da tante contrastanti passioni durante la travagliata vita; il suo carattere piuttosto chiuso ed enigmatico, quale apparve almeno ai contemporanei; i suoi scrupoli politici e religiosi; la sua molto modesta preparazione tecnica al comando, gli toglievano il soccorso di quella forza imperiosa di volontà che è la dote essenziale di un comandante supremo in guerra. Si dimostrò pertanto spesso oscillante fra i discordanti pareri dei suoi più vicini consiglieri sul campo; incerto fra i vari partiti da prendere; irresoluto davanti alle grandi decisioni e, troppe volte, propenso ad attendere dal tempo una via d'uscita, quando invece le circostanze premevano per audaci e rapide risoluzioni. Ciò non toglie però che, nel leggere la storia documentata di quella guerra, l'animo nostro si senta commosso dinanzi a quella nobile figura di sovrano che, nella istintìva magnanimità del cuore, par quasi intuisca il suo finale doloroso destino, e con religiosa rassegnazione, pur di tener fede al sacro impegno preso verso il suo popolo, va fino in fondo, fino al sacrificio supremo d'ogni sua cosa più cara, fermo nel proposito di farne, se necessario, olocausto sull'altare della patria. Intorno a lui i maggiori esponenti dell'alta gerarchia militare sarda : il Franzini, primo ministro della guerra in regime costituzionale; i due comandanti di corpo d'armata, Bava (I) e De Sonnaz (II); il suo capo di stato maggiore di Salasco. Tutti uomini egregi e che, dal più al meno, avevano vista da vicino la g uerra in gioventù

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militando negli eserciti napoleonici. Il Franzini seguì al campo il Re come ministro e come suo più intimo consigliere tecnico; poco felice ripiego e gravido di inconvenienti, escogitato per risolvere in gualche modo la questione costituzionale, che, per la prima volta, si presentava, dei rapporti fra Comando Supremo in guerra e Governo. Altra novità di dubbia opportunità fu la creazione, per la guerra, dei due comandi di corpo d'armata, a dir vero non indispensabili, trattandosi di manovrare in campo solo cinque divisioni. Nel fatto quei due alti comandanti finirono per assumere di volta in volta la direzione temporanea di determinati atti tattici e, verso il termine della campagna, rientrato il Franzini a Torino per malattia, uno fra essi, il Bava che, per quanto duro ·e poco malleabile di carattere, era senza dubbio il più esperto, finì per diventare il più ascoltato consigliere del Re ed in ultimo il vero direttore delle operazioni. L'altro il De Sonnaz, bel tipo di generale sabreur, insofferente di pastoie burocratiche, adorato dai soldati pel suo fare bonario e cordiale, non aveva però doti superiori di comando paragonabili a quelle del Bava. A fianco del Re, il di Salasco, suo cosiddetto capo di stato maggiore, era bensì uomo di chiare idee, ma gli nuocevano il carattere troppo mite e accomodante, la scarsa energia ed anche una non piccola dose di conformistica cortigianeria. Tali gli uomini che il destino aveva posto al sommo della piramide gerarchica dell'esercito piemontese nella immediata vigilia del gran dramma che stava per incominciare. Nel loro insieme, costituirono un alto comando di incerto e non sempre sereno funzionamento; non ultima causa, fra le tante, del lento procedere della campagna e del rapido declinare della fortuna delle armi piemontesi dopo le prime prove di indomita bravura ed anche di fel.ici spunti direttivi specialmente sul campo tattico.

L'esercito austriaco, o meglio, le forze austriache, già da tempo dislocate permanentemente nel Lombardo-Veneto, stavano, sul declinar di marzo, convogliandosi dopo aver subìto non lievi perdite, con direzione generale verso il cosiddetto quadrilatero, costituito, come è noto, dalle quattro fortezze di Verona, Mantova, Peschiera e Legnago. Erano in complesso (Lombardia e Veneto) due corpi d'armata la cui forza totale, prima dell'insurrezione, ammontava a circa 70.000 uomini (6r battaglioni, 36 squadroni, 108 pezzi da campagna). Durante la ritirata dalle città, avevano però subìto notevoli


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perdite specialmente per la naturale diserzione dei militari di nascita italiana in essi incorporati e che costituivano almeno un terzo della forza totale. Ma al comando in capo di quelle truppe, indubbiamente scosse e disorganizzate per la patita sorpresa, c'era il maresciallo Radetzky, vecchio, è vero, cli 81 anni, ma di carattere fermo, di mente fredda e riflessiva e ancor dotato cli suprema energia. Era, per età, coetaneo del grande morto di S. Elena di 27 anni prima, e avendo combattuto guasi sempre contro di lui nella sua gioventù e maturità aveva potuto trarre esperienze preziose alla scuola di quell'insuperabile genio della guerra. Se lo era trovato g.iovanissimo di fronte, fin dal 1796-97 in Italia, proprio su quel terreno fra Adige e Mincio su cui stava ora per cimentarsi, lui maresciallo e comandante in capo, contro l'Itaii:1 in armi. Balenavano altresì nella sua mente i ricordi di Marengo, di Austerlitz e poi ciel 1809 e finalmente della vittoriosa riscossa dal 1813 al 1815 cui aveva preso parte in alto grado quale capo di stato maggiore di Schwarzenberg e a fianco dei grandi alleati germanici, Bli.icher e Gneisenau, ormai rotti alla scuola del loro formidabile avversano. Fin dal 1831 Radetzky era al comando delle forze austriache in Italia e da allora aveva profusa la sua inesauribile attività non solo nell'istruire magistralmente le truppe proprio su quelle colline del Garda dove ora il destino lo chiamava a nuova guerra, ma anche nel rafforzare sempre più quel quadrilatero che doveva diventare, in quel!'anno 1848, provvidenziale sua àncora di salvezza dopo le tragiche Cinque Giornate di Milano. L'esercito austriaco non valeva in sostanza, nè per spirito, , nè per armamento, qualcosa di più di quel che valesse l'esercito piemontese. In quel momento anzi al fiammeggiante entusiasmo onde erano invasi i combattenti italiani, quelli austriaci opponevano una spiegabile depressione cli animi pur contenuta dal lungo abito cli una ferrea disciplina. Ma l'eccezionale carattere e capacità del loro capo supremo stava per supplire a tutte le deficienze e per aver ragione di tutte le avversità. Non a torto certamente gli Italiani serbano di quel loro antico nemico, il maresciallo Radetzky, un ingrato ricordo per la antipatica durezza dei suo.i sentimenti implacabilmente osti.li alle nostre sacrosante rivendicazioni nazionali. Ma, come soldato e come condottiero, è pur duopo riconoscere in quel vecchio nemico qualità rnperiori cli comando, tali che ad esse, e forse ad esse soltanto, l' Au-

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stria dovette se nel '48 potè resistere allo sforzo insurrezionale e militare degli Italiani e poi volgere in suo favore i risultati di quella memorabile campagna.

Esaurito così il prologo, entriamo nel primo atto del dramma : la marcia dal Ticino al' Mincio e i primi scontri sul Mincio. Procederemo naturalmente a grandi linee per tentar di dare soltanto una visione sintetica della campagna, chè impossibile sarebbe in poche pagine indugiarci nei pur tanto interessanti particolari. Predomina in quel primo atto da parte italiana l'ansia di far presto nella speranza di cogliere ancora le colonne austriache in flagrante ritirata dalle città lombarde. L'ansia è alimentata dall'illusione generale che, dopo gli insperati successi delle insurrezioni cittadine, più non si tratti che di dare col pronto intervento dell'esercito regolare piemontese, il colpo di grazia al fuggente nemico, sbaragliarlo e ricacciarlo addirittura al di là delle Alpi. Ma, a parte la troppo ottimistica persuasione dei governi provvisori e clelie popolazioni circa la pretesa fuga del nemico, fanno ostacolo al desiderio comune di un pronto e rapido intervento dell'esercito sardo, tiranniche necessità di tempo e di spazio e il già accennato incompleto apprestamento delle forze armate regolari, pur esse sorprese dal rapido precipitar degli eventi. La situazione è inoltre tuttora molto oscura, ne è facile chiarirla con la rudimentalità dei mezzi di comunicazione di quel tempo e con una cavalleria che, come si è detto, aveva dimenticati gli insegnamenti napoleonici in materia di esplo razione lontana e vicina e baciava soltanto a riserbarsi per la carica o per far da scorta. In tali condizioni, il Comando piemontese adottò un mezzo termine: gettare cioè subito (26 marzo) al di là del Ticino quanto c'era di più pronto, due brigate all'incirca con qualche cannone e qualche squadrone; una col generale Bes per Magenta su Milano per dar cuore ai Milanesi; l'altra col generale Trotti da Pavia verso Lodi. Intanto i) grosso dell'esercito andavasi affrettatamente radunando nell'angolo fra basso Ticino e Po per sconfinare a sua volta, appena possibile, sboccando dal ponte di Pavia. Ondate di volontari accorrono da ogni parte d'Italia in Piemonte e in Lombardia, impazienti di combattere. Nulla essi sanno delle difficoltà tecniche di un'avanzata di grosse forze regolari. Credono il nemico in fuga disordinata e pensano lo si possa mettere fuori causa


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con gli stessi metodi spicciativi e quasi senz'armi con i quali lo ·SÌ era allontanato dalle città. Il Comando piemontese non vuole avanzare alla cieca. Esorta alla prudenza fino a laséiare il generale Bes a Milano senza chiare direttive circa la sua ulteriore azione ·e a richiamare alquanto indietro il generale Trotti giudicando che si era troppo esposto nella sua rapida marcia su Lodi. Bes si trova a Milano pressato da vicino da quel Governo prov,,isorio e relativo battagliero Comitato cli difesa che vorrebbero spingerlo subito su Treviglio sulle orme delle prime formazioni volontarie che di là contavano tormentare sul fianco la marcia del nemico che si sapeva raccolto in quei paraggi. Ma, Bes, non educato a iniziative, tentenna; chiede istruzioni superiori; poi, costretto dagli eventi, si decide e si sposta a Treviglio, dove trova un capo di volontari di eccezionale valore, Luciano Manara, col quale concorda una comune azione su Brescia, l'eroica città già liberatasi dagli Austriaci che però chiedeva soccorsi contro le ancor minacciose scorrerie nemiche. Il grosso piemontese, e ii Re stesso, passano il 29 il T icino a l'avia fra il delirante entusiasmo della città e inizia la marcia preceduto dall'avanguardia Trotti, lungo la grande diagonale PaviaLodi-Crema-Brescia, che risultava asse principale della ritirata delle _colonne nemiche. Infatti Radetzky, uscito da Milano nella notte dal 22 al 23, s'era diretto, con quel che gli era rimasto sottomano, per Melegnano su Lodi, dove il 23 stesso aveva passato l'Adda. Vi si era fermato due giorni, il 24 e il 25, per riordinare alquanto le sue truppe. Là gli erano giunte le prime notizie della insurrezione generale del Veneto, e, quanto alla Lombardia, aveva saputo che anche tutti gli altri presid1 erano in via di ritirata naturalmente verso est. Il più lontano, quello di P._avia, sotto il comando del giovane generale Benedeck (quello stesso che dieci anni dopo avem mo tenace avversario a San Martino e che fu poi, nel '66, lo sfortunato comandante supremo a Sadowa) stava pur esso ripiegando per Pizzighettone diretto a Mantova. Così stando ìe cose, il vecchio Maresciallo si era convinto che non c'era altro di meglio da fare che convogliare tutte le sparse colonne marcianti verso l'Oglio e il Chiese, nell'intento di riannodarsi al più presto sotto la protezione delle fortezze del quadrilatero, che sapeva in buone mani. E perciò il 26, quando cioè le avanguardie piemontesi passavano il Ticino, egli era già a Crema e, di là, prose-


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guendo indisturbato oltre Oglio, giungeva al Chiese il 29, quando cioè il grosso dell'esercito sardo sboccava da Pavia ; oltrepassava poscia il Chiese fermandosi al di là sotto la protezione di retroguardie lasciate sulla riva destra. Respirava; perchè, oltre il Chiese, aveva la forte posizione di Montichiari antistante al margine occidentale delle storiche colline del Garda e con le spalle assicurate dalle retrostanti fortezze. Un semplice confronto tra le date suesposte dimostra che Radetzky era ormai sfuggito alla presa; ed avendo alquanto riordinate e rianimate le sue truppe, poteva considerarsi uscito dalla crisi che lo aveva angustiato tra il 22 e il 29. Troppa prudenza del Comando piemontese? Forse. Ma è certo che, anche giocando di audacia, dati i mezzi di allora e le caotiche circostanze che avevano accompagnato lo scoppio della guerra, non sarebbe stato comunque possibile cogliere in marcia gli Austriaci. Non vi riuscirono neppure le formazioni volontarie radunatesi a Treviglio che avevano puntato bensì su Crema ma che vi erano giunte quando già Radetzky ne era ripartito. La marcia del grosso dell'esercito piemontese, orientata, come si è detto, sulla direttrice diagonale Pavia-Lodi-Crema-Brescia, fa pensare che inizialmente il Comando sardo si proponesse come piano generale delle operazioni di spuntare l'ala destra del nemico nella ipotesi che questo riuscisse a rifar fronte ad ovest appoggiato alle fortezze. Ed era intendimento logico, in quanto che l'esercito austriaco una volta riparato nel quadrilatero, con la generale insurrezione del Veneto alle spalle, non avrebbe avuta altra linea di comunicazione sicura col territorio della Monarchia, se non quella assai difficile di val d'Adige, già presidiata è vero, ma pur già m inacciata dall'estendersi delle insurrezioni anche nelle adiacenti valli alpine. Poter quindi coìpirlo in quel primo momento proprio nella delicata regione di sutura fra quadrilatero e val Lagarina era intendimento giusto e promettente fel ici risultati. Inoltre, operando in quella direzione, si veniva indirettamente a coprire il cuore della Lombardia da eventuali ritorni offensivi del nemico e a dare tranquillità assoluta a Milano, dove il re Carlo Alberto aveva dichiarato cavallerescamente di non voler entrare se non a guerra finita e dopo conquistata la vittoria. Se non ch e, giunto il grosso dell'esercito piemontese sull'Adda, e avendo già spinta il 31 la sua avanguardi a su Crema, nacque improvvisamente nel Comando sardo il sospetto che Pizz ighettone, sulla

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bassa Adda, fosse ancora occupata dal nemico. Pizzighettone era una piccola e trascurabile fortezza nel quadro generale delle operazioni. Tutto al più sarebbe stato sufficiente guardarla e passar oltre. Invece si volle chiarire il sospetto; e, per chiarirlo, vi sì impiegò il I di aprile in cautelosa ricognizione offensiva l'intera divisione di riserva, comandata dal Duca di Savoia, arrestando per di più la marcia del grosso in attesa dell'esito dell'attacco. Pizzighettone fu trovata sgombra; il generale Benedeck l'aveva abbandonata fin dal 28 marzo. Ed allora, allegando l'altro sospetto di supposte minacce nemiche dal basso Oglio, la direz,ione generale del movimento subì una brusca sterzata a destra, per puntare, invece che su Brescia, su Cremona, dove difatti il Re entrò con ·1e truppe sui primi di aprile, accolto come al solito dal festoso entusiasmo della città. Questa brusca deviazione dal presupposto piano d'azione iniziale, che si risolse in sostanza in una perdita di tempo, trova qualche maggior luce da quanto risulta si sia discusso in un consiglio di guerra tenuto dal Re il 4 aprile in Cremona. Pare che la ragione vera dello spostamento consistesse essenzialmente nella convenienza di avvicinarsi ai contingenti degli altri Stati italici (Toscana e Stati Pontifici) tuttora in marcia da sud verso il Po . Tuttavia in quel consiglio affiorò anche da parte del Bava l'idea di tentare una sorpresa su Mantova; ma appare idea al guanto strana, poichè anche il Bava non doveva ignorare a quella data che Mantova era solidamente fortificata e preparata a difesa sotto la rude mano del suo comandante generale Gorzkowsky, sì che l'attimo fuggente, propizio a una contemporanea insurrezione di quella popolazione, era g ià purtroppo passato. In conclusione fu con.venuto di limitarsi a continuare la marcia nella nuova direzione intrapresa, cioè verso il basso Oglio, puntando su Piadena e Marcaria e tli là contro il Chiese e il Mincio, in modo di aggirare da sud la regione di Ghedi, Montichiari e Medole, ritenuta troppo forte per essere attaccata di fronte e troppo favorevo le all'impieg0 della cavalleria austriaca considerata allora ben più manovriera di quanto non fosse in realtà. E in tal senso furono difatti emanati gli ordini di marcia per il 5 aprile. Comunque già saltano agli occhi le oscillazioni che accompagnarono il primo disegno d'azione in quella campagna. Il dilemma se attaccare in forze il nemico sulla destra o sulla sinistra si delineò fm dal principio e lo vedremo poi ripercuotersi più volte e dannosamente nel corso delle operazioni. Resta ad ogni modo il dubbio se, 0


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persistendo invece nel primitivo intendimento, di colpire cioè senza indugio e pur con le forze non ancora perfettamente a punto e con la massa dei volontari disponibili la zona allora tanto vulnerabiìe del nemico allo sbocco di val d'Adige in piano, non si sarebbero ottenuti subito risultati più decisivi. Ma questa è scienza del poi e conta fino ad un certo punto nel quadro storico cli una campagna. Certo è che le remore e le indecisioni finora accennate, acuirono sempre più il deplorevole contrasto cli sentimenti fra le impazienze degli strateghi dilettanti che pullulavano nelle città ciel Lombardo-Veneto, pervase in quell'ora dalle più accese passioni bellicose e dalle più romantiche illusioni sul vero stato ciel nemico, e la meditata, se pure eccessivamente prudente~ linea cli condotta ciel Comando sardo, animato bensì da pari desiderio di affrontare il nemico, ma nello stesso tempo alle prese con le diffìcoltà di raccogliere prima tutte le forze e i mezzi d'azione in parte ancora .in lento trasferimento sulle lunghe linee di . tappa retrostanti.

Ormai i due eserc1t1 sono però a contatto tattico fra di loro. Ne era stato un chiaro indizio un allarme in Marcaria sull'Oglio la sera del 6 aprile determinato dalla fortunata infiltrazione di un plotcme di usseri austriaci fra le maglie degli avamposti piemontesi. Radetzky aveva bensì abbandonata anche la linea del Chiese, ma si era schierato dietro il Mincio con le solite retroguardie al di qua del fiume. Fra basso Oglio e Mincio intercedevano non più di diciotto chilometri in linea d'aria; lo spazio di una marcia. Così che per la esecuzione degli ordini di avanzata per il 7 aprile, la r" divisione sarda del corpo d'armata Bava marciante in direzione di Goito sul Mincio sarebbe venuta ad urtare contro la retroguardia austriaca colà apprestata a difesa. Era già notte quando vi giunse e perciò il Bava ne rimandò l'attacco all'indomani. E l'indomani 8 ne derivò il combattimento di Coito, modesto in se stesso, perchè in sostanza impegnò soltanto truppe della Ia. divisione e, da parte austriaca, pochi battaglioni di cacciatori tirolesi disposti sulle due rive del fiume con alcuni cannoni · appostati al di là. Combattimento però importante come prima brillante manifestazione cli un grande ardore combattivo dei nostri e come primo battesimo del fuoco dei bersaglieri istituiti nel 1836 da Alessandro La Marmora. Il quale, benchè tenente colonnello, impaziente di vedere lo slancio dei suoi piumati soldati, non esitò


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a porsi alla testa della prima compagnia presente all'azione e con tale sprezzo del pericolo sotto. il violento fuoco nemico da riportarne una ferita alla bocca così grave che lo rese inabile per tutto il resto della campagna. Nè fu la sola nota eroica di quel primo scontro. Fu un impetuoso correre innanzi di capi d'alto grado mescolati alle truppe più avanzate a dar bravamente l'esempio ai combattenti e ad incuorarli nei momenti di esitazione di fronte a quel ponte semidistrutto e spazzato da vicino dai cannoni d'oltre fiume. Si vide lo stesso CO.· mandante della divisione, generale d'Arvillars, farsi in prima linea a cavallo ·col cappello sulla punta della sciabola al grido di Viva il Re, mentre sulla piazza di Goito, e sotto l'imperversare dei proiettili, una musica reggimentale suonava romanticamente l'inno piemontese! Un pezzo di artiglieria, staccatosi dalla sua batteria, osò mettersi in posizione proprio all'imboccatura del ponte per meglio controbattere i cannoni austriaci e vi restò finchè non fu smontato da un colpo bene aggiustato. Insomma un tipico pittoresco combattimento di puro stile quarantottesco. Dopo circa cinque ore di varie vicende gli Austriaci, battuti, lasciarono presa, ed allora audaci fanti e bersaglieri preceduti dai loro ufficiali si lanciarono sull'altra sponda percorrendo di corsa la spalletta, unico resto del ponte rimasto in piedi dopo il brillamento ·delle mine. Gli Austriaci abbandonarono allora anche la riva sinistra del fiume allontanandosi rapidamente in direzione di Villafranca, Battaglioni piemontesi, subito transitato il Mincio, si arrestarono al di là fortificandosi speditamente. Con pari valore ed eguale fortuna, nei seguenti giorni dal 9 all'n aprile, truppe del II corpo d'armata (De Sonnaz), operando più a nord, forzavano i passaggi sul Mincio di Monzambano e di Borghetto-Valeggio, mentre all'estrema sinistra la colonna Bes, che da Brescia e Montichiari si era ormai riunita al grosso dell'esercito, stringeva da presso la piazza di Peschiera allo sbocco del Mincio dal lago di Garda e un reggimento di cavalleria, all'estrema destra dello schieramento, occupava ì'importante posizione di Volta. Così che, fin dalla sera dell'n aprile, tutta la linea del Mincio dagli approcci di Peschiep (tuttora presidiata dagli Austriaci) a Goito era ormai in pieno possesso dei Piemontesi. Altri notevoli progressi si erano intanto realizzati più a nord nella regione del Garda per opera delle formazioni volontarie già stormeggian ti intorno alla brigata Bes nel Bresciano. Per iniziativa

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del Governo provvisorio di Milano quei volontari (lombardi, ticinesi, genovesi, ecc.), che, in complesso, ammontavano ormai a circa 3.000 uomini, erano stati messi sotto un unico comando affidato al generale Allemandi, un emigrato piemontese pei fatti del '21. Così riuniti, per quanto male agguerriti e peggio armati, avevano dato prova di grande slancio e di intraprendente valore. Fin dal 5 aprile avevano occupato quasi senza colpo ferire Salò e Desenzano e si erano impadroniti di alcuni vaporetti e pontoni sul lago. D'accordo col Comando piemontese, avevano poi transitato il Garda sbarcando con un forte nucleo a Lazise e Bardolino allo scopo di stringere da presso Peschiera anche da nord e tentare un colpo di mano su quella piazza. Poi, constatato che un tal progetto non era per allora attuabile, tanto per far qualcosa avevano felicemente sorpresa una polveriera austriaca nei pressi del villaggio di Castelnuovo a oriente di Peschiera; se ne erano impadroniti e avevano occupato anche Castelnuovo. Subito però il vigilante Radetzky dalla non lontana Verona vi aveva spedito un forte distaccamento con artiglieria che, nonostante la fiera resistenza dei volontari, aveva ripreso il villaggio, respinti i volontari al loro punto di sbarco e puniti barbaramente gli abitanti di Castelnuovo creduto, a torto, covo di insorti. Questo avveniva l'u di aprile. Scacciati così dal terreno a oriente del Garda, i volontari si accinsero ad altra impresa ben più importante e la tentarono col soli to slancio tra l'II e il 20 aprile; quella cioè di risalire le valli bresciane mirando a sboccare nel Trentino nella speranza che le popolazioni di quella regione, insorgendo, favorissero l'impresa. Ma il Trenlino era sufficientemente presidiato dagli Austriaci prontissimi alla difesa e alla contro.ffesa. Si ebbero pertanto vad scontri sostenuti dai volontari con molto eroismo nelle alte valli bresciane ma senza alcun risultato concreto; si che in definitiva i volontari dovettero ripiegare su Bergamo e Brescia lasciando però avamposti sul confine amministrativo fra Lombardia e Tirolo, oltre il quale gli Austriaci per allora non si spinsero. Concorsero alla non felice riuscita dell'impresa varie cause: la resistenza nemica alimentata anche dall'occhiuta ostilità della Confederazione germanica sospettosa di veder dilagare le operazioni militari in Tirolo considerato territorio proprio per i trattati del 1815; la mancanza da parte del corpo dei volontari di una organica preparazione della non facile impresa troppo tardi tentata; l'inadeguatezza dei mezzi; le gelosie fra i van capi delle formazioni e la scarsa energia del comando superiore e infine le intemperie che tormentarono i combattenti punto rotti alla guerra di


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montagna. Tentato subito, con altri mezzi e con più abile direzione, forse l'attacco sarebbe potuto riuscire con risultati di incalcolabile efficacia. Ma ci sarebbe voluto un Garibaldi e non un Allemandi; e l'Eroe dei due Mondi era purtroppo ancora lontano in America e non doveva giungere in Italia che troppo tardi, anche per lui. Allemandi fu sostituito dal Governo di Milano col generale Giacomo Durando che attese subito a meglio ordinare quelle schiere di valorosi ma non agguerriti combattenti.

A metà aprile, come si è detto, l'esercito piemontese era ormai padrone della linea del Mincio e stringeva da presso alla sua estrema sinistra Peschiera. A quell!l data gli erano finalmente giunti i rinforzi d'uomini e materiali lungamente attesi. Poteva contare ormai su una forza complessiva di circa 40.000 uomini con 5.000 cavalli e 80 cannoni; lo spirito era altissimo e anelante alla lotta; il grosso del nemico, assai a corto di vettovaglie, si era ritirato su Verona disponendosi a difesa intorno a quella forte città. Che aspettava il Comando piemontese? Dai documenti si intravedono le ragioni dell'incertezza di quel Comando a procedere senz'altro nell'azione offensiva. Gli eventi e la mancanza iniziale di un piano d'operazione ispirato a un concetto organico cli guerra manovrata, avevano condotto l'esercito piemontese a dar di cozzo frontalmente al fom1idabile ostacolo del quadrilatero, fra i due fiumi Mincio ed Adige. Il nemico, è vero, non contava allora che poco più di 30.000 uomini e per giunta era molto a corto di risorse e non poteva sperarne pel momento che dall'unica e difficile via del Tirolo. Ma aveva per sè la poderosa capacità di resistenza delle fortezze specie di Verona e di Mantova, ostacoli passivi ma ben provveduti di bocche da fuoco. L'attaccarlo di fronte in queste condizioni, prima che si facesse sentire il peso degli eserciti degli altri Stati d'Italìa tuttora in marcia verso il basso Po e quindi in direzione opportuna per agire sul fianco del nemico, sembrava impresa troppo arrischiata. L'eventuale fallimento dell'attacco avrebbe potuto avere incalcolabili conseguenze. Avrebbe potuto mettere a repentaglio addirittura l'esistenza dell'esercito piemontese ancora solo a combattere; di quell'unico strumento cioè di cui poteva disporre il Piemonte mentre tuttora assai oscura era la situazione europea in ebollizione e tutta l'Europa ostile alla guerra scatenata nell'Alta Italia. Da occidente, la infida Francia repubblicana occhieggiava sempre verso


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la Savoia ed oltre. Per di più, non era ancora del tutto spenta, anche nel pensiero del Comando piemontese, l'illusoria speranza che una improvvisa insurrezione delle popolazioni di Verona e di Mantova potesse fare il miracolo di indurre quei presidi austriaci a venire a patti, come era successo a Venezia e altrove. Tutto sommato dunque, a un Comando in capo così poco audacemente manovriero come il piemontese, la momentanea attesa doveva parere, e parve, il miglior consiglio. E in questa intesa statica trascorsero difatti i giorni di quel resto d'aprile sul Mincio. A questo punto il primo atto del dramma può considerarsi chiuso. Ora s'apre il secondo, ma il panorama della campagna si allarga. Entra sullo schermo anche il vasto territorio veneto fra il lontano Friuli e l'Adige e si estende anche sulle sovrastanti regioni alpine. Entrano in azione altri eserciti d'Italia, altre ondate impetuose di volontari. Quale mente superiore sarebbe occorsa nel Comando Supremo sardo per dominare e volgere a profitto della grande causa un così vasto teatro d 'operazione popolato di elementi impazienti di combattere ma così var1, così poco dominabili e perfino così discordi fra di loro!

Il vecchio Radetzky serrato con i suoi 32.000 uomini fra le fortezze del quadrilatero, costretto per nutrirsi a povere scorrerie nei dintorni, volgeva ansioso il suo sguardo verso oriente. Colà, sull'Isonzo, c'era un altro uomo energico e pieno di iniziative, il generale Nugent, che proprio a mezzo aprile stava febbrilmente organizzando un corpo di soccorso con abbondanti rifornimenti da recare a Radetzky a Verona. Ma, per arrivarvi, bisognava attraversare la vasta pianura veneta e purgare sul fianco le valli alpine infestate pur esse da insorti. Non era impresa facile. Il Veneto era tutto in mano agli insorti; ogni luogo abitato ne era un centro. Ma erano nuclei staccati, senza legame fra di loro, poverissimamente armati, animati più che altro da spirito di resistenza municipale e sui quali assai tenue riflesso aveva la pretesa direzione superiore del Governo centrale di Venezia. Si dicevano crociati in gergo quarantottesco, ma erano in sostanza popolani armati, volontari d'altre terre, guardie civiche (! molti italìani disertori dell'esercito austriaco. Il Governo di Venezia, preoccupato della grossa minaccia che andava addensandosi sull'Isonzo, premeva con ansiose richieste di 3


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aiuti tanto sul Comando in capo piemontese quanto sui governi degli altri Stati d'Italia, compreso il Re di Napoli. E non aveva torto. Difatti il 17 aprile, Nugent essendo riuscito a raggranellare una forza di II battaglioni, 7 squadroni e 16 cannoni, senza attenderne altri ancora in via di raccolta, passò senz'altro l'Isonzo, e, superando sul Versa una prima resistenza oppostagli dagli insorti, limitandosi da buon capitano a bloccare le due modeste fortezze di Palmanova e di Osoppo, si era gettato prontamente su Udine e, un po' con le minacce e un po' con le blandizie, se n'era impossessato il 23 aprile. Dopo di che puntò rapidamente al Tagliamento che raggiunse col grosso il 26. Non erano certo gli slegati piccoli drappelli di volontari veneti, quasi senz'armi e senza esperienza tattica, che potevano impedirgli di passare quel fiume, nonostante proprio in quel punto, inviato in tutta fretta dal Governo di Venezia, giungesse fra loro un abile capitano, il generale piemontese Alberto La Marmora per prenderne il comando. Ma che poteva egli fare con quel pulviscolo di semi-armati? Si limitò a far bruciare l'impalcatura del ponte della Delizia fra Codroipo e Casarsa e con la sua gente si ritrasse al Piave dove sperava poter fare più seria resistenza. E Nugent, che frattanto aveva portato il suo corpo di operazioni alla cospicua forza di 16.000 uomini con 54 pezzi, il 28 aprile passò il Tagliamento. Alberto La Marmora con i suoi appena 1200 volontari si schierò dietro il Piave dove, con sua somma gioia, vi fu raggiunto il 29 da un primo scaglione di truppe regolari bene 'attrezzate : un battaglione granatieri pontifici che il generale Giovanni Dunndo, comandante della 1" divisione pontificia, aveva spinto innanzi a marce forzate da Ostiglia. Per questo arrivo e per la rottura del ponte della Priula presso Nervesa, nonchè per la piena del fiume, Nugent, sprovvisto di equipaggio da ponte, fu costretto a fermarsi a Susegana. Qui conviene seguire un po' il suggerimento manzoniano. Quando l'azione si intreccia e i personaggi si moltiplicano, bisogna saltare un po' di qua e un po' di là e correr dietro ai var1 attori come fa il pastore con le pecore che si sbandano. Durando dunque, arrivato sul basso Po, lo aveva passato il 21 aprile e aveva raccolta la sua divisione di regolari. pontifici a Ostiglia. Il Comando dell'esercito sardo contava molto sull'arrivo di quelle truppe ed anche della 2a divisione pontificia composta di volontari e guardie civiche e comandata dal generale Ferrari di prossimo arrivo anch'essa sul Po. Pensava di impiegare quelle forze senz'altro in direzione Ostiglia-Isola della Scala per farle concorrere a un grande attacco combinato contro Verona. Ma

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di fronte all'improvvisa e poderosa minaccia del Nugent dall'Isonzo e alle pressioni di Venezia, aveva per necessità mutato avviso e dato giustamente incarico al Durando di recarsi con entrambe le divisioni nella regione veneta in direzione di Treviso per proteggerla dall'imminente invasione e impedire al Nugent di raggiungere Verona. Il 29 aprile Durando riuniva difatti la sua divisione a Treviso e concordava col La Marmora la difesa sul Piave in attesa dell'arrivo della divisione Ferrari.

A questo punto conviene per poco ritornare sul Mincio dove abbiamo lasciato l'esercito piemontese fe rmo fra Peschiera e Goito. A dir vero, fermo sino a un certo punto; poichè, premuto come era dalle insistenti spronate a sbaragliare il nemico che gli venivano dagli impazienti politicanti dei varì Governi provvisori retrostanti ~ antistanti, ed anche per tagliar corto a certe insidiose proposte d1 tregua rivolte dall'Austria ai Governi di Milano e di Torino sulla hase della cessione della Lombardia fino al Mincio, si era orientato da qualche giorno su una via di mezzo: compiere cioè alcune ricognizioni offensive oltre Mincio per riconoscere il terreno e tastare in certo qual modo il nemico prim a di attaccarlo risolutamente. Decisamente il ricordo delle campagne napoleoniche, di cui proprio quel terreno era stato testimonio, non funzionava più se non per suscitare qualche vana rievocazione retorica. Di tali ricognizioni offensive se ne fecero non poche in quei giorni, verso Verona, verso Villafranca, verso Man tova, sempre ritornando però alla zona di partenza e senza mai incontrare il nemico in forze. Gli Austriaci, difatti, erano fermi, bene asserragliati nelle fortezze e, davanti a Verona, avevano avamposti su una ìinca fortissima sulla destra dell'Adige assai prossima alla città. In questa situazione unico vantaggio pei Piemontesi fu la facile presa di possesso del margine dclfr colline di fronte a Verona sulla linea S. Giustina-Sona-Sommacampagna. Tuttavia l'attenzione del Comando in capo era sempre più attratta verso la fortezza di Peschiera, come obbiettivo più vicino e più proporzionato alle possibilità dell'esercito sardo e ormai oltrepassata dallo schieramento. Ma i pareri in proposito erano discordi nel Quartier Generale. C'era chi voleva limitarsi al blocco, puntando invece risolutamente su Verona e chi preferiva al contrario di far cadere prima Peschiera per assedio regolare. Quest'ultimo partito pre-


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valse e fu dato ordine perchè il parco d'assedio da Alessandria raggiungesse al più presto Peschiera. N ell'attesa, oltre a tener stretta da vicino la piazza, si volle circondarla altresì da un più vasto accerchiamento. E poichè si era ormai, come si è detto, a S. Giustina-Sorra e Sommacampagna, si sentl natural mente il bisogno di estendere questo schieramento avanzato anche verso nord, cioè nel settore fra il lago di Garda e la strada Peschiera-Verona, cosi da chiudere il largo investimento anche da q uella parte e nello stesso tempo avere il fianco sinistro protetto nel caso di dover marciare offensivamente su Verona. Questo proposito, razionale e logico in se stesso, ma che avrebbe stirata ancor pitt la fronte già eccessiva dell'esercito piemontese, fu tosto messo in atto. E poichè Radetzky aveva stabilito proprio in quel settore fra Garda ed Adige una specie di testa di ponte sulla destra del fiume con centro nell'importante posizione di Pastrengo, l'esecuzione degli ordini dette luogo il 28 aprile ai combattimenti preliminari di Colà e Sandrà e il 30 al ben più grosso combattimento di Pastrengo, prima segnalata e gloriosa vittoria dell'esercito piemontese. Vi parteciparono quasi tutte le truppe del II corpo d'armata rinforzate dalla divisione di riserva del Duca di Savoia, circa 13 .000 uomini in complesso, contro poco più di 7 .000 austriaci. Il Re fu presente a tutta l'azione avendo in quel giorno al suo seguito anche il capo del governo Cesare Balbo, venuto al campo per conferire col sovrano. E tanto si espose il Re in quella giornata che si trovò ad un punto assalito da tiragliatori nemici, sì che il bravo maggiore Sanfront, comandante degli squadroni carabinieri di scorta, non esitò a lanciarli a quella impetuosa carica che restò storica nei ricordi di quella giornata e a cui le cronache narrano partecipasse anche il Re. Verso sera gli Austriaci sconfitti, ripiegarono in disordine verso 'l'Adige, affollandosi sul ponte di barche di Ponton dove furono inseguiti da alcuni nostri reparti col concorso anche di una batteria a cavallo. Nel mattino successivo fu occupata anche Bussolengo, sì che l'intera cerchia di investimento al largo di Peschiera fu saldata. Vittoria dunque autentica e che avrebbe potuto servire di ottimo esordio per ancor più felici imprese. Grande la risonanza sull'opinione pubblica, anche perchè quel fortunato evento militare coincise con la famosa enciclica del 29 aprile con la quale Pio IX sconfessava la sua partecipazione alla guerra di indipendenza nazionale, ciò che però non impedì alle truppe di Durando e di Ferrari di continuare a combatterla.

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Maggio si apriva sotto prognostici abbastanza propizi. Bisognava · perseverare nella fervida iniziata attività. Questo era anche il pensiero del Comando piemontese. Continuare in certo qual modo la azione di Pastrengo, parve però impresa troppo difficile con le sovrastanti alture della storica Rivoli occupate ancora dal nemico. Passare di viva forza, in quelle condizioni, l'Adige a monte di Verona ed aggirar Verona dai Lessini era bensì (se ricordiamo) l'antica mira, purtroppo abbandonata, dei primi giorni della campagna. Ora appariva impresa superiore alla mentalità così poco manovriera di un esercito alquanto anchilosato nei più che trent'anni di pace dopo Napoleone. E nessuno, lo abbiamo detto, aveva lontanamente le ali dì quel grande italico condottiero. Non restava che rassegnarsi a prendere, come suol dirsi, il toro per le corna e tentare l'attacco frontale m Verona, partendo dalla buona base sul margine delle colline di Sona e Sommacampagna. E ciò fu fatto il 6 di maggio, in quella giornata che prese il nome di battaglia di S. Lucia. Non staremo a narrarla, soprattutto perchè, a parte lo splendente valore con cui fu combattuta ·dai nostri capi e gregari, nulla ci direbbe che valesse a testimoniar qualche progresso sotto il punto di vista dell'arte militare. Fu una operazione in grande, concepita però con la stessa mentalità delle solite ricognizioni offensive. Una gran parata di forze in cospetto di Verona, ma col non celato proposito che, incontrando troppo tenace resistenza, si ritornasse alla base di partenza. Mancò in sostanza il lievito che rende probabile la vittoria, e che consiste nel proposito fermo, checchè accada, cli vincere o cli morire. In tali false condizioni di partenza, l'azione parziale sul villaggio di S. Lucia folgorò bensì di incomparabile valore e segnò un autentico successo piemontese locale; ma la dura resistenza nemica incontrata alle ali su Crocebianca e S. Massimo indusse, forse troppo presto, le altre colonne d'attacco a ricordare la prevista ritirata. E così, anche per l'abile difesa manovrata diretta personalmente dal Radetzky, una giornata che poteva essere una completa vittoria nostra, si mutò in una vittoria pel nemico, il quale a ben ragione trasse motivo dal1'evento per riacquistare intero il senso e la coscienza della propria forza, finalmente recuperata dopo tante avversità. Dopo quella giornata non restò nell'esercito sardo che il magro conforto di dedicarsi con alacre attività all'assedio di Peschiera, la cui direzione venne affidata al Duca di Genova. Contro Mantova si concentrarono invece le truppe toscane insieme alle modenesi per


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una specie di blocco, limitato però, in relazione alle loro scarse forze, ai settori sud-ovest e sud della piazza ed anche in questi, lasciando indifesi larghi intervalli fra i vari gruppi, come larghissimo risultava l'intervallo fra i Toscani dislocati a Curtatone e Montanara e la estrema destra dello sclùeramento piemontese che non scendeva sul Mìncio oltre Goito.

Per seguire il filo degli avvenimenti ritorniamo ora alquanto sul teatro d'operazione del Veneto che abbiamo lasciato il 30 aprile quando il Nugent aveva dovuto arrestarsi sulla riva sinistra del Piave, ormai difeso sulla destra da gruppi di volontari veneti e dalle truppe pontificie. In questa bella regione che noi tutti abbiamo nel cuore pei ricordi fiammeggianti della prima guerra mondiale, stava per aprirsi nel maggio del 1848 un breve ciclo di operazioni assai movimentate ma punto decisive da parte nostra; qualche cosa insomma che ricorda un po' l'arte della guerra del secolo XVIII prima di Federico e di Napoleone. Principali artefici il Nugent da parte austriaca (poi ammalatosi e sostituito dal Thurn) e, da parte italiana, il Durando e il Ferrari al comando di divisioni pontificie. Quella del Ferrari, composta di guardie civiche e di volontari, era però assai meno agguerrita dell'altra. Nugent, impaziente di avanzare su Verona, ha un'idea: portarsi con le truppe da Ceneda e Serravalle (il nostro Vittorio Veneto) e per la via d'Alemagna entrare nel Bellunese, e, di là, seguendo il Piave, sboccare a Quero su Montebelluna e Castelfranco. Nonostante la generosa resistenza dei valligiani, riesce il 5 maggio ad occupare Belluno e poi Feltre. Durando, conosciuta questa diversione austriaca, accorre alla parata; ma poi, saputo della occupazione di Feltre, si intesta nell'idea che il nemico tenda a sboccare non su Quero, ma per val Brenta su Bassano, e si limita perciò a chiamare il Ferrari a guardia di Quero. Dopo di che, con i sei buoni battaglioni di cui disponeva, due squadroni e otto cannoni, si sposta su Bassano e vi rimane testardo anche quando il Ferrari, occupata con i suoi Montebelluna e Cornuda allo sbocco di Quero, lo avverte insistentemente il 9 maggio, che è alle prese contro grandi forze nemiche a Cornuda è stenta a reggere alla loro pressione. A Cornuda si svolge pertanto un aspro combattimento, che, per

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la troppa disparità delle forze e nonostante l'eroico valore di quel pugno di combattenti italiani, termina alla sera del 9 col rovescio completo della divisione Ferrari, e, quel che è peggio, provoca il sorgere di nefasti malintesi e di deplorevoli contrasti fra i due generali pontifici fino all'accusa di tradimento lanciata contro il Durando per il mancato soccorso più volte invocato invano dal Ferrari in quella giornata. Un fatale spirito di disgregazione si ripercosse ben presto fra le truppe, con grave danno del corso delle operazioni nel Veneto; sì che più tardi ne fu minacciata la stessa difesa di Treviso dove in tutta fretta era stata ordinata la raccolta delle forze nella speranza di riannodarle e di riordinarle. A Nugent, difatti, sboccato da Quero, era giunto nel frattempo il sospirato equipaggio da ponte, sì che potè finalmente costruirne uno a circa 800 metri a monte di Nervesa, sul quale passò il Piave con tutte le forze e le impedimenta. Un tentativo di occupare Treviso fu stornato per virtù specialmente dell'eroico generale Guidotti che, in uno scontro poco a nord della città, si gettò per primo contro il nemico e vi perdette gloriosamente la vita. D'altronde gli Austriaci impegnati ad accorrere presto a Verona non insistettero e forti ormai di circa 18.000 uomini e 53 cannoni ripresero la marcia sotto il comando del Thurn puntando su Castelfranco e Cittadella. Durando, con le poche forze agguerrite che gli restavano (circa . 3000 uomini ed una batteria) si era bensì raccolto il IO maggio su Castelfranco; ma non sperando più soccorsi dall'esercito piemontese (il cui Comando, dopo S. Lucia, gli aveva dichiarato di non poter più togliere un sol uomo dal già troppo esteso schieramento) non potè far altro che bruciare il ponte di Fontaniva sul Brenta e trasferirsi il 13 a Piazzola, in posizione centrale per tentare di disturbare almeno il nemico nella sua marcia. Ma là gli giunsero nuove pressanti richieste dal Governo di Venezia che pretendeva dirigere tutte le operazioni di difesa del Veneto. Intralciato nelle sue mosse e sfiduciato, il 16 maggio finì per spostarsi anche lui a Mestre, dove già Ferrari stava raccogliendo i resti della sua •divisione, nell'intento di riformare un corpo unico capace di riprendere appena possibile le operazioni in campo aperto. Il corpo di soccorso austriaco di Thurn aveva ormai via libera. Il 19 raggiungeva Cittadella; il 20 superava il Brenta e puntava su Vicenza. Ma là lo attendeva una sorpresa. La città, l'eroica Vicenza, e.ra in armi e risoluta a difendersi, e Durando, saputo a Mestre che


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Vicenza stava per essere assalita, non aveva esitato ad accorrervi con quante forze pronte aveva sottomano, usufruendo in parte del tronco ferroviario Mestre-Padova-Vicenza. Così che il 20 Vicenza, attaccata, potè bravamente resistere; tanto che gli Austriaci, sempre più risoluti a non perdere tempo, preferirono passar oltre e con largo giro da nord raggiunsero S. Bonifacio e il 22 maggio Verona portando a Radetzky l'atteso rinforzo. Erano 18.000 uomini; troppo pochi per permettergli una seria offensiva fuo r delle fortezze, troppi per le scarsissime risorse in vettovaglie e altro disponibili. Radetzky non approvò la mancata occupazione di Vicenza. Troppo gli importava specialmente il possesso della stretta fra i Lessini e i Berici prossima a quella città e sbocco verso l'ampia pianura veneta da cui sperava ulteriori rinforzi e campo fecondo di scorreria per il vettovagliamento. Perciò ordinò senz'altro al Thurn di ritornare sui suoi passi e prendere ad ogni costo Vicenza. Il nuovo attacco su quella eroica città riuscì però ancora una volta vano. Vicenza resistette impavida al secondo fierissimo attacco e allo spietato bombardamento. Thurn, scornato, rientrò a Verona. Il vecchio Radetzky era ormai chiuso più che mai nel suo covo fortificato. Nel Veneto orientale resistevano ancora Palmanova e Osoppo; sui monti, fra le balze del Cadore, divampava l'insurrezione capitanata dalla grande anima di Pietro Fortunato Calvi speditovi da Venezia; nella pianura si estendeva ancora, non sottomessa, una vasta plaga con base a Venezia e vertice a Treviso, minacciosa contro movimenti austriaci da est a ovest, fra il Friuli e il quadrilatero, e, sul mare, facevano buona guardia a Venezia e verso Trieste le fiotte riunite veneta e piemontese, ancora (ma per poco) affiancate · dalla napoletana. Bisogna convenire che la situazione di Radetzky, pur dopo l'arrivo dei rinforzi dal Friuli, era tutt'altro che rosea. Ma è proprio nelle più ardue situazioni che si manifesta la tempra di un vero condottiero. Ventidue anni più tardi, sarà Bazaine che, di fronte alle armate prussiane del 1870, stretto da presso, non saprà escogitare altra soluzione che rinchiudersi sempre più in Metz. Radetzky del 1848 invece trae motivo proprio dalle angustie in cui si trovava, per sortir audacemente da Verona e, attraverso Mantova, osar di assalire, con quanto di mobile aveva in sua mano, il fianco destro e il tergo del nemico schierato da Pastrengo a Goito di faccia a Verona. L'audacissima risoluzione del vecchio Maresciallo condusse alla battaglia di Coito del 30 maggio. Battaglia memorabile, nella quale,


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anche da parte dell'esercito sardo, si rivelano ad un tratto (e per merito specialmente del Bava) superbe qualità contromanovriere e un dinamismo addirittura insospettato. La parata piemontese fu così pronta ed energica sul campo di Goito che, fino a un certo punto, assolve il Comando in capo sardo dalla sua troppa precedente staticità e dalle ripetute oscillazioni del suo pensiero direttivo. Per essere però obbiettivi bisogna dire che è inspiegabile come la temerari.a marcia notturna del Maresciallo su tre colonne da Verona a Mantova abbia potuto svolgersi senza che gli avamposti e 1~ pattuglie piemontesi se ne siano accorte. Difetto di esplorazione. Se fosse stata rilevata, la mossa austriaca avrebbe potu to essere esemplarmente punita. Ma quando le truppe di Radetzky, pervenute, per miracolo, sane e salve a Mantova, ne sboccarono per rovesciarsi come una valanga sull'eroica gioventù toscana posta a guardia di Curtatone e Montanara sotto il comando del prode De Laugier, fu proprio questo ostacolo a dar tempo al Bava di escogitare e di tessere le fila della sua felice contromanovra. I Toscani furono sommersi; ma Radetzky trovò a Goito pan per i suoi denti. Invano attaccò con furia; fu fermato; poi costretto a retrocedere, e buon per lui che la presenza della fortezza di Mantova valse a salvarlo da un inseguimento a fondo piemontese. La nostra brillante vittoria di Goito fu resa più completa, come è noto, dal contemporaneo giungere sul campo di battaglia della fausta notizia della resa di Peschiera, inviata al Re dal Duca di Genova che ne aveva diretto l'assedio. Tornano in mente, nella rievocazione di questa duplice gesta, gli ispirati versi della famosa ode carducciana al Piemonte : Languido il tuon de l'ultimo cannone dietro la fuga austriaca moria: il re a cavallo discendeva contra il sol cadente: a gli accorrenti cavalieri in mezzo, di fumo e polve e di vittoria allegri, trasse, ed, un foglio dispiegato, disse resa Peschiera. Oh qual da i petti, memori degli avi, alte ondeggiando le sabaude insegne, surse fremente un solo grido: Viva il re d'Italia!


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Goito e Peschiera del 30 maggio segnarono. veramente il vertice radioso della parabola nel corso di quella durissima campagna. Dopo . di allora, nel nuovo atto che stava per aprirsi, l'ultimo dell'emozionante dramma, vedremo la ruota della fortuna invertire bruscamente j1 suo giro, e, pur fra bagliori di purissimo eroismo guerresco, declinare rapidamente le speranze per un lieto fine della nostra sacrosanta causa.

Siamo dunque al terzo atto del dramma. Radetzky, anche battuto, non era uomo da sentirsi l'animo depresso; anzi raddoppiò di energia. Durante il ritorno su Verona ripensò a Vicenza non ancora conquistata, spina dolorosa tuttora inflitta nel suo vecchio cuore. Ed escogitò, con quanto ancora di mobile aveva sottomano, di ritentarne l'attacco. Questo fu sferrato con grandi forze il 10 di giugno e con tale foga brutale che questa volta, nonostante l'eroica difesa capitanata superbamente dal Durando e che resterà memorabile nella storia, Radetzky riuscì ad averne rag10ne. Altrettanto eroica e fiammeggiante di gloriosi episodi, fu, in quel mese di giugno l'estrema difesa del Cadore sotto i ripetuti convergenti attacchi austriaci da est, da ovest, da sud. Vi campeggia sovrana la splendida figura di Calvi magnifico condottiero di guerriglieri. Con pochi fucili da caccia e qualche vecchio cannone, con le falci e i tridenti, ma soprattutto con le famose batterie di sassi giù rotolanti come valanghe dalle ripide balze, quei maravigliosi montanari contesero palmo a palmo le loro valli all'odiato nemico e non cedettero se non verso la metà di giugno, sommersi dallo stragrande numero degli assalitori. Calvi, serbato ad altri magnanimi destini per la causa italiana, riuscì a stento a riparare a Venezia per dare poi il forte braccio alla difesa dell'antica gloriosa dominante. Risoluti ormai gli Austriaci a rioccupare tutto il Veneto approfittando dell'arrivo di un nuovo forte corpo di soccorso dal Friuli, c0mandato dal generale von Welden, Or~ è la volta dell'attacco al triangolo Treviso-Padova-Venezia. Per la defezione funesta dell'esercito napoletano, richiamato purtroppo in patria dal fedifrago sovrano, non c'erano più per difendere quell'importante plaga veneta che i residui delle forze armate pontificie e pochi gruppi di volontari. Facile ne fu dunque la riconquista col peso di forze nettamente pre-


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valenti in numero e mezzi. Il 13 giugno cadde Padova; il 14 dopo violento bombardamento Treviso e il presidio ne uscì con l'onor delle armi. Il 18 fu la volta di Mestre e il 19 il nemico potè affacciarsi alla laguna fra Marghera e Fusine, iniziando il blocco di Venezia. Infine il. 24 giugno, dopo quasi tre mesi di eroica resistenza sotto il comando del generale Zucchi, cadeva anche per fame la lontana fortezza di Palmanova. T utto il Veneto era così riassoggettato; salvo Venezia che si preparava animosamente alla sua lunga gloriosissima resistenza, ed Osoppo, scoglio isolato in tanto naufragio, che doveva fieramente resistere ancora per alcuni mesi.

Ma è tempo di ritornare sul campo principale della lotta, fra Mincio ed Adige, dove l'esercito piemontese, ormai solo a sostenere il peso della magnanima impresa, sentiva avvicinarsi, ma senza inflettere la sua incrollabile fede, ben più decisivi eventi. La situazione non era tuttavia incoraggiante. Svanita ormai ogni speranza di ulteriori rinforzi . Già entrati in campo i quarti battaglioni costituiti in Piemonte dai depositi, ed anche i quinti estremo sforzo delle limitate risorse demografiche del paese. Dagli altri ·Stati d'Italia, dopo il ritiro dell'esercito napoletano e il polverizzamento dell'esercito pontificio, non si era avuto che qualche rinforzo ai Toscani e una così detta divisione lombarda di circa 8 .000 uomini in assai scadenti condizioni di armamento e di arredamento, di cui fu dato il comando al generale piemontese Perrone di S. Martino. Le fonti dei volontad, col declinare del focoso entusiasmo iniziale, andavano ognor più inaridendosi. Nulla dunque che facesse sperare in un reale rinsanguamento delle forze in campo che controbiianciasse il rapido accrescimento delle forze nemiche attraverso le ormai libere strade venete per le valli alpine e per la pianura. Tutto ciò può spiegare la non breve stasi che si nota durante la prima metà di giugno nella condotta dell'esercito sardo. Ma gli eventi premevano; si delineava proprio allora la tragedia che stava scatenandosi sul Veneto . Saputo in ritardo del poderoso attacco austriaco su Vicenza, si pensò a un nuovo attacco su Verona, ma troppo tardi e il progetto restò sulla carta. Tuttavia, in vista di ritentarlo in seguito, parve buona cosa togliersi prima dal fianco la spina di Rivoli sempre occupata in forze dagli Austriaci; la si volfe prenderla e la si prese senza troppo sforzo, spingendosi anzi fino alla


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Corona, col magro risultato di essersi cacciati fra i monti quando ciò non poteva dare più nessun vantaggio e col danno di avere stirato ancor più, e per non pochi chilometri, il già eccessivamente esteso, e quindi debole, schieramento (1). Dopo di ciò si ritornò alla stasi che durò terribil mente snervante per tutto il resto di quel triste giugno. Truppe stanche, continue marce e contromarce inutili, ripercussione del continuo oscillare del pensiero direttivo dell'alto Comando. Si discuteva di continuo nel Quartier Generale sardo sul da farsi, ma i pareri erano generalmente discordi. Il Duca di Genova, che ora comandava la 4a divisione dislocata nel settore settentrionale, propendeva per tentar l'attacco di Verona attraversando J'Aclige a Ceraino e di là pei Lessini, in modo di colpire la città nella zona dove non c'erano i nuovi forti staccati eretti da Radetzky durante la campagna e quindi non c'era da superare che la cinta interna. Bava preferiva metter da parte ormai l'attacco su Verona e rafforzarsi invece molto sul fro nte di. schieramento in attesa del rinforzo di nuove divisioni lombarde in via di formazione. In complesso però egli era molto pessimista sulla situazione. Ma il Re, preoccupato, e non a torto, dell'effetto deleterio di quella sosta, si decise per il ritorno all'antica idea del blocco di Mantova, da eseguirsi questa volta però in modo completo sì da ottenerne a più o meno lunga scadenza un qualche concreto risultato. E questo piano trionfò; ma, come spesso succede, con una specie di compromesso, e cioè : blocco di Mantova, ma senza rinunziare a coprire con adeguato schieramento il territorio retrostante dell a Lombardia e dei Ducati. Infelice progetto perchè ampliava ancor di più il già estesissimo schieramento debole da per tutto e non teneva conto che la massa principale del nemico era a Verona e non a Mantova e quindi, bloccando Mantova, non c'era da sperare alcun risultato decisivo. Così, fra 1'8 e il 20 di luglio il blocco intorno a Mantova fu predisposto e compiuto con abbondanti forze, mentre il rimanente restava disteso da Rivoli, lungo il margine collinoso di Sorra-Sommacampagna, a Villafranca. Il Quar6er Generale col Re si stabilì a Roverbella, e fu là che in quei giorni non lieti si presentò a Carlo Alberto Giuseppe Garibaldi reduce appena 9-llora dalle sue grandi gesta d'America. Giungeva animato eia sacro fuoco cli offrire il suo braccio e il suo impareggiabile genio di capo di guerriglieri alla gran(1) 65.000 uom ini e 7 .000 cavall i d iluili su uno schieramen to di 60 chilometri circa in linea d'aria cb Rivoli a Goito e Governolo.

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de causa. Il Re Lo accolse con principesca cortesia; molto lo lodò per le sue prodezze di America, ma in sostanza, per quanto chiedeva, lo rimandò ai suoi ministri a Torino. E Garibaldi ne restò alquanto amareggiato. Purtroppo era giunto troppo tardi! Siamo così prossimi alla fine del terzo atto che si concluderà con la grande, manovrata, e, per noi, tristemente decisiva battaglia di Custoza (23-26 luglio). L'iniziativa delle operazioni era da tempo (lo abbiamo .detto) passata al nemico, e il vecchio lupo di guerra dal suo covo di Verona spiava paziente il momento propizio per sferrare il gran colpo che avrebbe dovuto por :fine a quella guerra arenata ormai fra le montagne di Rivoli e le paludi di Mantova. Probabilmente rinacque in lui più vivo in quei giorni il ricordo dell'antico avversario, quel diavolo di còrso, che egli aveva avuto tante volte di fronte su tut6 i campi di battaglia d'Europa. E, sul ~uo esempio, gli sorse spontanea l'idea di sferrare contro l'esercito sardo diluito, la classica manovra di sfondarlo al centro, separarne i tronconi e poi batterli separatamente. Per rendere più debole la zona di sfondamento egli cominci'a il 22 luglio con un attacco preliminare dimostrativo su Rivoli, nella speranza che il nemico accorra colà traendo altre forze dal settore su cui sta per sferrarsi l'attacco principale (qualche cosa che ricorda il nostro preliminare attacco sul Grappa nella battaglia di Vittorio Veneto del 1918). La finta non riesce in pieno, perchè il De Sonnaz, sebbene riesca a tener fermo a Rivoli, invece di insistervi con altre forze, preferisce giustamente .ripiegare alquanto col vantaggio di raccorciare di qualche chilometro il fronte. Ma ora viene il colpo grosso. La zona prescelta dal Maresciallo per lo sfondamento è il margine collinoso che da S. Giustina per Sona e Sommacampagna fronteggia Verona. E' una zona naturalmente forte, ma sommariamente preparata a difesa. Sfondandola, per la povertà delle riserve che i Piemontesi hanno dietro la prima linea, si può sperare di giungere d'un balzo al Mincio e forse di oltrepassarlo rendendo irreparabile la frattura dello schieramento sardo. I passaggi sul Mincio sono tenuti dai Piemontesi debolmente. Vi sta a guardia il generale. Visconti con truppe della 2 .. divisione di riserva da poco messa insieme con i poco agguerr.iti quarti battaglioni con quadri scarsi e poco esperti. Il gran colpo riesce nella giornata del 23, nonostante l'eroico valore e la splendente difesa delle poche truppe sarde aggrappate ai tre villaggi suaccennati contro l'urto formidabile di ben tre corpi


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d'armata austriaci. A sera il fronte è sfondato; un troncone si ritira verso Cavalcaselle e Peschiera col D e Sonnaz, l'altro, più a sud, resta in aria. Le truppe più avanzate del cuneo di penetrazione austriaca arrivano al Mincio; qualche reparto, di sorpresa, lo oltrepassa. Lo stesso gran parco d'assedio piemontese, raccolto a Pozzolengo è minacciato. Il grosso dell'esercito sardo è tuttora inerte al blocco dì Mantova. Si chiude così la prima giornata della battaglia. Nella seconda, il 24, Radetzky, vecchio tenace e fermo nel suo piano iniziale, intende persistere nella penetrazione a fondo oltre Mincio e in tal senso dà gli ordini per quella giornata. A rendere più poderoso il suo strumento di penetrazione vi chiama a rinforzo altre truppe da Verona ed anche una brigata, la Simbschen, che era a Isola della Scala ordinando loro di recarsi a Sommacampagna. Spera a sera di essere con grandi forze al di là del Mincio e di sbaragliare a fondo il troncone di De Sonnaz e forse di riprendere Peschiera. Non si preoccupa troppo delle numerose truppe nemiche intorno a Mantova; si limita a guardarsi il fianco da quella parte con buon nerbo di cavalleria. Ma il Comando Supremo piemontese non sta inerte. Ha saputo confusamente di quanto è avvenuto il 23 a Sona e a Sommacampagna; nulla di preciso sa ancora sulla sorte del De Sonnaz; pensa che in ogni caso avrebbe tenuto forte sul Mincio. Immagina pertanto una manovra audace: raccogliere quanto più può di truppe del settore nord del blocco di Mantova, concentrarle a Villafranca e di là tentare una forte puntata verso nord sul fianco del cuneo di penetrazione nemica in direzione di Custoza e Staffalo su Sommacampagna. Tali le intenzioni delle due parti in lotta. Nel fatto il 24 luglio avviene questo: De Sonnaz, sicuro che la linea del Mincio non fosse stata ancora oltrepassata dal nemico, lasciando Peschiera guardata, inizia con le sue truppe una marcia verso sud lungo la destra del Mincio mirando a Volta, col proposito lodevole cli ridar la mano colà, attraverso il ponte di Goito, al grosso pell'esercito dislocato intorno a Mantova. Ma a un certo punto della marcia viene attaccato sul fianco dalle truppe austriache che a Monzambano, a Valeggio e a Salienze avevano già passato il Mincio. La sua colonna è tagliata in due; la parte minore, la coda, ripiega in disordine su Peschiera e da quel punto sfugge ormai dal campo di battaglia; la maggiore col De Sonnaz riesce a continuare la marcia e alla sera è a Volta, da dove ri-

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prende comunicazione col Comando in capo che ora è a Villafranca. Gli Austriaci penetrano ancor di più oltre Mincio. Il parco d'assedio piemontese e i carreggi si salvano come possono ritirandosi. Ma da Villafranca con magnifico slancio ìe truppe sarde, in tutta fretta raccolte al comando del Duca di Savoia e del Duca di Genova e presente il Re, irrompono sulle colline di Custoza e giungono fino a riprendere Sommacampagna. Specialmente a Staffalo si accende un'ardentissima mischia terminata decisamente a vantaggio dei Piemontesi e con gravissime perdite per i reparti austriaci incontrati sul cammino dell'attacco, che erano poi quelli della disgraziata brigata Simbschen in marcia da Isola della Scala su Sommacampagna e altre truppe giungenti da Verona. Siamo alla terza giornata, il 25. E' la giornata delle g randi decisioni, il culmine della battaglia. Una di quelle ore fatidiche che sembrano dominate dal destino. Radetzky sa confusamente quanto è avvenuto sul suo fianco. Non bisogna dimenticare che siamo nel '48, e cioè la radio è ancora di là da venire ed anche il telegrafo elettrico è nella sua infanzia. Non ci sono che portatori d'ordini e di notizie di dubbio arrivo sul campo di battaglia. Tuttavia il vecchio Maresciallo, nel suo rude buon senso, pensa che se i Piemontesi, così poco manovrieri, si sono arditi di attaccarlo sul fianco debbono aver riserve importanti alle spalle. E giustamente se ne preoccupa e con agilità di mente non comune alla sua grave età, non esita un attimo a parare il colpo richiamando indietro quanto può delle sue forze per lanciarle sull'importuno assalitore, senza mollare tuttavia il possesso dei ponti sul Mincio, prezioso pegno per la continuazione del suo piano in caso di felice riuscita del suo contrattacco sul fianco. Assai più scabrosa è la decisione che ora si impone al Comando sardo. Due partiti si offrono al suo spirito : disimpegnarsi rapidamente dall'attacco pur così bene avviato per rifar massa con tutte le forze a Goito e a Volta e, levando il blocco a Mantova, ritentar la fortuna a nuova battaglia ad occidente del Mincio, ovvero insistere ancora nell'attacco sulle colline di Custoza sul fianco e a tcnro del nemico fino a fargli pagar cara la sua audacia. Dinanzi a simiÌi bivi, così. frequenti sui campi di battaglia, non c'è, per risolverli, che il freddo calcolo dei fattori di tempo, di spazio, di forze disponibili. Nel Comando piemontese mancò la freddezza cli questo calcolo. La parziale vittoria del giorno innanzi venne (solito vizio italico) euforicamente esaltata. La certezza che il De Sonnaz tenesse fermo a


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Volta, anzi riprendesse l'offensiva verso nord su Valeggio e Borghetto, concorrendo così all'attacco generale, accresceva la fiducia nel buon successo. E il proseguimento dell'attacco sul fronte ValeggioCustoza-Sommacampagna venne pertanto deciso, e determinò gli avvenimenti della giornata del 25. Fu la goccia che fece traboccare il vaso; il colpo del destino che voltò la ruota della fortuna a nostro danno e a vantaggio del nemico. Il valor militare di nostra gente scrisse in quella giornata pagine incancellabili di vigorosa bellezza. La furia di una battaglia così dinamicamente manovrata aveva sconvolto il già deficientissimo funzionamento dei. servizi, e le truppe combatterono sotto l'assillo della fame e di una terribile stanchezza. E tuttavia capi e gregari si coprirono di gloria. Ma alla fine l'enorme peso della controffensiva austriaca e la mancanza di riserve disponibili, impose la ritirata su Villafranca, che avvenne tuttavia in buon ordine e tenendo .fieramente testa all'avanzante nemico. Nello stesso giorno De Sonnaz, non potè muovere da Volta su Borghetto e Valeggio per lo stato di estrema stanchezza delle sue truppe che avevano combattuto tutto il 23 e marciato combattendo tutto il 24. Il suo mancato attacco su Borghetto fu non ultima causa che fece decidere la ritirata su Villafranca. Ora la battaglia riprende il suo fatale corso. Radetzky ben lungi dal lasciarsi trascinare dall'inutile soddisfazione di · inseguire oltre Villafranca lo sconfitto nemico, ritorna imperturbabile al suo piano maestro: passare il Mincio in grandi forze fra Peschiera e Valeggio e in tal senso dà gli ordini per l'indomani 26. Gli preme anche il possesso di Volta, estremo punto di probabile appiglio dei Piemontesi ormai ridotti al piano. Il Comando sardo fa (ma dopo essere stato battuto) quel che avrebbe dovuto fare il 25: ritentare di far massa a Goito e Volta nella speranza di dare altra battaglia al nemico ad occidente del fiume. Ed ordina perciò la ritirata da Villafranca a Goito che avviene difatti indisturbata nella giornata del 26 e nella fiducia assoluta che Volta fosse tuttora in salda mano di De Sonnaz. Ma ha ben ragione il Clausewitz quando avverte che i campi di battaglia sono solcati in ogni senso dai 'più imponderabili casi. Una malaugurata missiva, stilata dal sottocapo di stato maggiore dell'esercito e spedita al De Sonnaz nel giorno 25, viene da lui interpretata (e così, purtroppo, autorizzava a interpretarla l'infelice testo) nel senso che egli era arbitro di tenere o di sgombrare Volta qualora il tenerla fosse ritenuto troppo arduo. De Sonnaz l'aveva purtroppo

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sgombrata. Furia del Re in arrivo a Goito nel pomeriggio del 26. Ordine imperioso di riprenderla la sera stessa. Quindi impetuoso attacco su Volta, trovata appena allora occupata da avanguardie nemiche. Caotico ed emozionante combattimento notturno e nelle prime ore del 27. Invano; Volta rimane al nemico. L'ultima speranza di risalire di là in grandi forze per schierarsi fronte a est da Volta a Cavriana e a Solferino per rifar testa al grosso del nemico avanzante oltre Mincio, è svanita. La ritirata generale verso l'Oglio è inevitabile. Un tentativo di armistizio con arresto sull'Oglio è respinto da Radetzky che vuol essere padrone fino all'Adda e vuol sgombrate subito tutte le fortezze compresa Peschiera, nonchè i Ducati. <.< Meglio morire » dice fieramente il Re, e la ritirata tristemente riprende.

Siamo così all'epilogo del dramma; al doloroso calvario che sempre succede a una grande battaglia perduta: scoramento, intralci, ingombri, ordini male intesi ed anche qua e là funesti casi di indisciplina. Però il nocciolo essenziale, cioè l'esercito regolare piemontese, non vacilla nemmeno sotto l'influsso di tante cause disgregatrici. E' in pugno ancora al suo Re e ai suoi capi che ha visto sempre impavidi fra le sue file, anche nelle situazioni più disperate. Il Re assiste calmo alla marcia delle colonne soffocando nel fiero animo l'acerbo dolore e pieno di benevolenza per i suoi prodi soldati. La ritirata si orienta, come era naturale, verso il basso Oglio e Cremona. Il nemico, pur esso estremamente stanco, insegue fiaccamente. Ma la linea del basso Oglio che corre quasi parallela al Po non offre possibilità di seria difesa. Bava, che ormai è, di fatto, la mente direttiva dell'esercito, preferisce l'Adda. E verso l'Adda prosegue la ritirata dopo aver sgombrata con sommo dolore la patriottica Cremona che quattro mesi prima aveva accolto con tanto entusiasmo travolgente le truppe piemontesi avanzanti. Abitanti in fuga e sbandati ingombrano le vie; spettacolo angoscioso. Il 31 luglio l'esercito è raccolto dietro l'Adda da Pizzighettone in giù. Ma era, per rispetto a Milano, una ritirata eccentrica perchè scopriva la Lombardia. Il Governo provvisorio di Milano, preoccupatissimo, era corso come poteva alla parata. C'erano ancora sulle prealpi bresciane i 5000 volontari del generale Giacomo Durando che avevano battagliato fino allora con varia fortuna in quelle valli. Furono richiamati an4


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ch'essi sull'Adda e fra loro e l'esercito piemontese fu schierata alla meglio la divisione lombarda. Il generale Bava stimava miglior consiglio ridurre l'esercito dietro il Po per riordinarlo e costituire così una minaccia in potenza contro l'ulteriore avanzata del nemico in Lombardia. Questa idea, militarmente opportuna, era molto diffusa fra i capi, tanto da influire sull'animo di taluni di essi inducendoli a non opporre sull'Adda una seria resistenza contro le colonne nemiche sopravvenienti. Una divisione piemontese retrocesse addirittura su Piacenza dove passò sulla destra del Po. E Bava lasciò fare, persuaso che il passar sulla destra del Po era il meglio che si potesse fare, e ne fece senz'altro proposta al Re. Ma il Re insorse : « No, no, - esclamò - voglio che si corra al soccorso dei bravi milanesi!» . Cavalleresco e generoso come sempre, vedeva meno chiaro l'aspetto militare della questione. La volontà del Re prevalse e il cambiamento di rotta verso Milano fu deciso. Non fu estranea alla risoluzione del Re la viva preoccupazione che destavano nel suo animo certe voci allora correnti ·di un soccorso di armati francesi (20 o 25.000 forse) che sarebbe stato discusso a Parigi da inviati del Governo provvisorio di Milano col beneplacito del Governo di T orino. Il Re, sempre fermo nel suo patriottico sentimentalismo dell' « Italia farà da sè », aborriva da questa idea. Meglio morire da soli sotto le mura di Milano. Una delle tante controversie storiche per cui quell'amletico sovrano fu « per tant'anni bestemmiato e pianto! ». Ma era il suo gran cuore che dominava, come sempre, il suo spirito. N el mattino del 1° agosto furono date le disposizioni per la marcia delle sole quattro divisioni disponibili (la I .. era ormai a Piacenza) su Milano, dove esse giunsero il 3 agosto dopo una tappa a Lodi sotto un furioso temporale. L'esercito austriaco il 1° agosto aveva passato l'Adda. Radetzky era convinto che i· Piemontesi avrebbero proseguito per Piacenza su Pavia e si era preparato a questa eventualità. Quando seppe la brusca sterzata della marcia nemica verso Milano, non esitò a volgere anche la marcia delle sue truppe verso nord sulle orme del nemico, pur lanciando il suo IV corpo su Pavia. Bava, precedendo le truppe, concreta il loro schieramento intorno alla città di Milano. Ormai è qui che si giocherà l'ultima carta. Il dramma, come abbiamo avvertito in principio, si colora di foschi bagliori di tragedia. La città è in fermento. L'idea di veder ritornar gli Austriaci fra le sue mura dopo l'epica insurrezione delle Cinque Giornate sconvolge gli spiriti più eccitati che non esitano a tacciare di tradimento q uel Re che tutto aveva dato per la grande


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causa. Le passioni politiche da tanto tempo frementi nelle conventicole cittadine divamparono. Lo spettro della guerra civile fra popolazione delirante e percossa fra l'eroismo e la paura e l'esercito sempre fedele ai suoi capi ben consci della situazione militare disperata, si levò tremendo davanti allo spirito ciel Re, risoluto ad evitare ad ogni costo l'immane sciagura di un conflitto fratricida. La difesa esterna addossata alle mura non aveva nessuna probabilità di durare a lungo, mentre il Re a palazzo Greppi era vituperato da una folla che aveva perduto il senso della realtà. Solo all'ultimo momento questa prevalse, e una commovente ondata di .reciproca generosa simpatia si delineò spontanea fra popolo e truppe combattenti: ma era troppo tardi! Il Re riunì a consiglio i generali; furono riconosciilte scarse le munizioni; i parchi erano vuoti; il tesoro aveva solo 120.000 lire; correvano voci di sommosse a Torino e a Genova; si diceva che Radetzky marciasse già al Ticino; tutti erano scorati e stanchi. All'unanimità fo deciso di chiedere un armistizio.

L'armistizio fu presto concluso e stabilì che l'esercito piemontese si sarebbe ritirato in due tappe oltre il Ticino; accordate 12 ore ai cittadini che volessero seguire l'esercito e fu promesso dal Maresciallo austriaco, per quanto stesse in lui, che sarebbero state rispettate le proprietà e gli abitanti. Tempo per la ratifica fino alle ore 16 del 5 agosto. Appena si seppe in Milano del concluso armistizio i torbidi ricominciarono e durarono per tutta quella tragica giornata. Cessarono nella notte, avendo notabili e clero inviato deputazioni al vincitor~ da cui ottennero maggiori assicurazioni di clemenza. Alle II di sera Carlo Alberto diede ordine aWesercito di ritirarsi al Ticino. Il 7 agosto i Piemontesi offersero una sospensione d'armi di tre giorni. Fu negoziato e concluso un nuovo armistizio di sei settimane che prese il nome dal negoziatore piemontese generale di Salasco. Rimanevano in armi soltanto le milizie volontarie sulle prealpi e sventolava ancora il tricol_ore a Venezia e a Osoppo.

La campagna del '48 era finita con una sconfitta, a cagione soprattutto della troppo grande sproporzione fra scopo e mezzi, nel


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duello a morte fra il piccolo Piemonte, insufficientemente soccorso dalle altre forze armate italiane, regolari e volontarie, e il colosso rappresentato dalla Monarchia austriaca deliberata a non ritrarre il piede dalle nostre terre. Ma quando nel panorama di una campagna di guerra brillano, come in quella del '48, punti luminosi come Pastrengo, Goito, Peschiera, Curtatone e Montana;:a, Vicenza, il Cadore, Palmanova e, più tardi, Osoppo, l'affermazione di forza morale è così fulgida di bellezza da confortare anche il dolore per la patita finale sconfitta.



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LE OPERAZIONI MILITARI DEL 1849 hALIA E PIEMONTE NEL 1849. _ , L'esito della campagna del 1848 aveva nuovamente diviso gli Italiani. A Custoza il valore non

era stato sufficiente per cogliere il frutto dell'eroismo di Curtatone e Montanara, di Goito, di Peschiera; soverchiato dalle maggiori forze e, più ancora, dalla migliore organizzazione l'esercito piemontese aveva dovuto cedere. A Milano, dove sperava di trovare appoggio materiale e morale dai patrioti delle recenti Cinque Giornate, re Carlo Alberto aveva assistito al sollevarsi di una tempesta contro di lui e contro il suo governo : le accuse di tradimento facevano sorgere dubbi sulla opportunità di compiere altri sacrifìzi quando al primo insuccesso, che pur da tanti gloriosi fatti d'arme era stato preceduto, le forze che avrebbero dovuto ancor più saldamente cementarsi per porvi riparo si accanivano contro coloro che tutto e più di tutti avevano arrischiato per la causa comune. Tornò, dopo l'armistizio .Salasco, la rivoluzione liberale ad essere viva; riprese anzi vigore con la sollevazione ungherese. Lungi però dal costituire una grande unica fiamma che tutto purificasse ed al cui cal.ore potessero fondersi le catene che avvincevano gli Italiani, si spezzettò in tanti piccoli focherelli al cui scarso tepore si scaldavano le idee dei singoli ma da cui nulla di concreto scaturiva. « Parve in Italia allora - ha detto il Croce - che tutti avessero perso la testa)>. La sconfitta non aveva domato gli spiriti, x:na ciascuno chiuso nella sua ideologia volle correre dietro ad una particolare finalità che svaniva presto in una chimera. Nessuna delle differenti concezioni seppe spogliarsi di qualche elemento nè sacrificare una parte di se stessa per dare forza all'unica aspirazione comune: l'indipendenza d'Italia.


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Così, mentre il Regno · di Sardegna si raccoglieva ancora una volta in se stesso per riapprontare le forze alla ripresa della lotta; mentre Venezia col Manin rèsisteva all'Austriaco scrivendo alcune delle più belle pagine della sua storia, nel resto d'Italia, dove pur la rivoluzione aveva trionfato, si battevano vie divergenti. In Toscana il movimento insurrezionale era riuscito ad estromettere l'absburgico principe, ma il Guerrazzi ed il Montanelli tendevano alla costituente italiana ed a fare dell'Italia centrale il nucleo attorno al quale tutte le altre regioni avrebbero dovuto raccogliersi. A Roma la fuga di Pio IX, atterrito dalle conseguenze della riforma andate molto al di là del suo pensiero e per forza di cose contrastanti con la sua veste di capo della Chiesa, aveva condotto alla proclamazione della repubblica; vi erano accorsi Giuseppe Mazzini, l'ingegno più fervido ed il cuore più generoso fra i patrioti italiani, e Giuseppe Garibaldi la spada eroica della rivoluzione. La Repubblica di Roma fu costretta a pensare a se stessa sotto le minacce delle potenze cattoliche ben presto tramutatesi in atti di forza. La Sicilia, in piena rivolta, tendeva all'autonomia, mentre il Borbone recedeva dalla concessa costituzione e vedeva la salvezza soltanto nella restaurazione dell'assolutismo con l'appoggio delle armi austriache; presso re Ferdinando, che dopo aver soffocato nel sangue e tra le macerie dei bombardamenti la rivolta di Messina lottava per sottomettere la Sicilia, trovavano rifugio il Pontefice ed il Granduca di Toscana: dava la loro presenza nuova forza alla reazione. In Lombardia di nuovo accampate le armate del Radetzky; puniti severamente i ribelli e ripresa la politica di accattivarsi la simpatia del contado incitandolo contro la città. In questa situazione e m entre la rivoluzione era anco~ viva :11 di là delle Alpi doveva il Regno di Sardegna condurre una politica che lo m ettesse nelle migliori condizioni all'atto della inevitabile ripresa delle ostilità e contemporaneamente preparare l'esercito ad affrontare nuovamente il nemico già pronto che lo sfidava dall'altra sponda del Ticino. Dallo stesso Piemonte era esulata la concordia. Genova si ribellava: l'incarico affidato all'esercito di ristabilire l'ordine provocava la sconfessione di quanto aveva fatto il generale Durando, con la conseguenza di gravi malumori nell'esercito. I ministeri si succedettero, dal luglio 1848 al marzo r849, a tempo di primato: tre in otto mesi; si avvicendarono sei ministri della guerra. La riapparizione sulla scena politica del Gioberti mise sul tappeto la costituzione della federazione di Stati italiani. L'azione del

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Gioberti, che trovò per lungo tempo larghi consensi nel popolo e nel Parlamento, non portò ad alcun frutto positivo: gli sforzi per la confederazione fallirono. Da un lato la resistenza dei prìncipi appoggiati dall'Austria, i quali temevano la preponderanza del Regno <li Sardegna; dall'altra la incomprensione dei liberali. Non volle Pio IX, e fu per la fortuna d'Italia, l'appoggio dal Gioberti profferto per rientrare a Roma; non si potè in Toscana trovare un punto d'accordo col Guerrazzi e col Montanelli. Pur tuttavia la confederazione era a tal punto radicata nel Gioberti da indurlo a far dichiarare a re Carlo Alberto, in occasione dell'apertura del Parlamento il 1° febbraio 1849: « la confederazione dei prìncipi e popoli italiani è uno dei voti del nostro cuore ed useremo ogni studio per mandarla prontamente•ad effetto >> . Fallirono tutti i tentativi di appoggio dall'estero: nulla in Germania, dove pure l'impero austro-ungarico era stato estromesso dalla Dieta, perchè questa non finisse con l'essere dominata dagli Slavi che dell'impero absburgico costituivano la maggior forza. Nessun accordo con gli Ungheresi, la cui rivoluzione aveva messo a mal partito il Governo degli Absburgo. L'ascesa di Luigi Napoleone alla presidenza della nuova Repubblica Francese apportò un bagliore di speranza, ma ben presto si vide che il presidente, pur amico personalmente dei liberali italiani, voleva anzitutto guadagnarsi simpatia e popolarità in Francia dove non era ben vista la creazione di un potente stato sul confine delle Alpi. Fallì infine la mediazione anglo-francese che doveva concretarsi in un congresso a Bruxelles; non volle il Governo austro-ungarico presentarvisi senza la preventiva assicurazione che non vi si sarebbe trattato dei territori assegnatigli nel 1815. L'opera del Gioberti si concluse con il progetto di intervento in Toscana, dove il 18 febbraio era stata proclamata la repub~ hlica; fallì per la recisa opposizione di tutti i ministri, col Rattazzi alla testa, dopo aver suscitato le meraviglie dello stesso Chrzanowski il quale chiese se il Piemonte dovesse apprestarsi a combattere gli Austriaci oppure gli Italiani. Alla vigilia della denunzia dell'armistizio il Gioberti lasciava il potere. Il Regno di Sardegna, dopo il grido di guerra lanciato da re Carlo Alberto nel discorso della Corona del 1° febbraio, era solo, tra Italiani discordi e stranieri indifferenti con il paese disunito e l'esercito ancora sconnesso, ad affrontare un nemico forte che aveva ben utilizzato i mesi dell'armistizio per irrobustirsi e per mettere i Lombardi nelle condizioni di non più arrecargli molestia.


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RIORGANIZZAZIONE E COMANDO DELL'ESERCITO PIEMONTESE. - Della necessità di riordinare e rafforzare l'esercito tutti in Piemonte erano convinti: dal Re ai comandanti, ai ministri. Ma la mancanza di un capo che fosse realmente tale per prestigio, capacità e possibilità di esercitarne le funzioni; il frequentissimo cambio di ministri; il pesante e tardo sistema burocratico piemontese, furono cause che vietarono di impostare un piano organico di riforme ed ostacolarono il compimento delle numerose deliberazioni prese dal Governo per migliorare l'efficienza dell'esercito. Se ne accrebbe, in realtà, la forza numerica, ma non si riuscì a migliorare l'organizzazione così da metterla in grado di sostenere il più pesante complesso che si era creato. La fanteria, che aveva originariamente i quadri per 58 battaglioni, fu portata a II9 di cui 8r nell'esercito di campagna. La forza complessiva, che prima della campagna del 1848 si aggirava sui 30.000 uomini, salì a 144.000 di cui 80.000 combattenti. Mancò a questa massa, enorme rispetto alle possibilità del piccolo Stato, l'inquadramento: si dovettero creare poco meno di 2000 nuovi u fficiali e 4000 sottufficiali, i quali naturalmente non potevano avere la preparazione necessaria e mancavano di prestigio e di pratica per addestrare j reparti, condurli al combattimento e mantenere rigida la disciplina. I quadri furono anche disordinati dalle soverchie eliminazioni, per ragioni professionali e politiche, in tutti i gradi e particolarmente nei più elevati. I reparti finirono con l'essere formati da uomini dalle più svariate età e di ogni provenienza; spesso sconquassati da congedamenti suggeriti da ragioni sociali e politiche e da innovazioni frequentissime nell'ordinamento. Vi fu una vera febbre di tutto rinnovare, ma tale era l'instabilità dei concetti direttivi, diversi e contrastanti ad ogni cambio di ministro, e tale la fretta con cui ciascuno cercava di realizzare le proprie idee nel breve tempo di permanenza al potere, da far nascere soltanto disordine e confusione. Il generale Bava, cui in un dato momento fu affidato il comando in capo, al Lamarmora che gli chiedeva il parere su talune innovazioni da lui concepite, rispondeva : « Quanto alla domanda che l'E. V. mi fa di un progetto per un nuovo ordinamento dell'armata, mi permetterei sottomettere che, nelle attuali condizioni, anzichè nulla innovare non potrei che vedere con pena qualsiasi variazione ... che riuscirebbe al presente di solo imbarazzo ed anzi di amaro pregiudizio ». Ma il vecchio generale, che era forse l'unico a ben conoscere l'esercito, non fu ascoltato, e si prosegu~ in una ridda di innovazioni

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che portarono sì ad un numero di uomini, di reggimenti e battaglioni assai superiore a quelli dell'esercito del 1848, ma finirono per togliere alle unità la coesione morale e la resistenza che più sarebbero state necessarie. L'esercito che aveva già avuto un ottimo corpo di ufficiali si trovò, per le perdite subìte per le eliminazioni e per l'invio di numerosi istruttori in altri paesi d'Italia per addestrarvi i volontari, ad avere ben pochi ufficiali provetti ed accanto ad essi una massa di giovani mal preparati ai quali non poteva essere sufficiente l'entusiasmo per ben comandare. Nè l'entusiasmo era di tutti, poichè come il popolo era diviso tra fautori e contrari alla nuova guerra, così era inquinato della stessa discordanza il corpo degli ufficiali e la stessa massa dei gregari. Ai primi del marzo 1849 le divisioni da cinque erano state portate a sette, in una delle quali, la 5\ erano raggruppate le truppe lombarde e quelle dei Ducati; le brigate di fanteria da dieci a quindici più un reggimento autonomo ed un battaglione Real Navi; sette i · battaglioni bersaglieri dall'unico già esistente. Le truppe del genio ammontavano a dieci battaglioni: quadruplicato il numero degli uomini e duplicati i quadri. Anche l'artiglieria era stata accresciuta portandone le batterie a diciannove e mezzo, ma quest'arma e la cavalleria, rimasta su . sei reggimenti, . non soffrirono per la caotica riorganizzazione. In esse l'inquadramento era assai abbondante e migliore, nè vi furono così numerosi i cambiamenti cui andò soggetta la fanteria; la disciplina rimase perfetta, l'addestramento ottimo e grandemente sentito lo spirito di corpo, tanto che non ebbero effetto apprezzabile le estranee politiche influenze che tanto profondamente intaccarono la massa delle altre armi. Anche ai servizi d'intendenza avevano pensato i vari ministri-; i magazzini erano al momento della denunzia dell'armistizio abbondantemente provvisti, ma l'intendenza non aveva ancora una organizzazione capace di far fronte alla mole del nuovo esercito. Fu però così breve la durata della campagna che il funzionamento dei servizi non potè in alcun modo influenzare l'andamento delle operazioni.

Complesso di forze e di mezzi numericamente imponente l'esercito del 1849 di fronte a quello dell'anno precedente, ma assai meno solido e per la incompleta organizzazione e perchè mancante di buoni quadri e di un comandante: un capo era necessario di grande pre5tigio e di assai elevate qualità morali per valersi bene di quel!' or-


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ganismo cui difettavano soverchiamente organizzazione e qualità tecnico-professionali perchè un generale comune, sia pure altamente dotato di intelletto e di cultura, riuscisse a ben governarlo nel campo operativo. Forse solo un Garibaldi, col fascino della eccezionale personalità; con la generosità del cuore, con l'audacia e la prontezza delle decisioni, avrebbe potuto galvanizzarlo ed infondergli quella eievatezza di spirito che sola avrebbe potuto far da contrappeso alle soverchiamente numerose manchevolezze. Ma nessuno pensò al Garibaldi, cui già nell'anno precedente era stato vietato di militare nell::: fila piemontesi. Il comandante scelto, quando fallirono le trattative per ottenere un generale francese e dopo che fu messa definitivamente da parte l'idea di valersi del Bava che pure aveva dato buone prove nella campagna dell'anno precedente, fu Alberto Chrzanowski, antico ufficiale di artiglieria dell'esercito polacco e che, di fronte ai partiti che ne suggerirono e favorirono la nomina, aveva il merito di aver combattuto per l'indipendenza del suo paese, senza però che le operazioni da lui condotte avessero fatto assurgere il suo nome agli onori della fama. In Italia ed in Piemonte era perfettamente sconosciuto, salvo ai pochi che avevano avuto contatti con i rivoluzionari polacchi. Difficile sarebbe stato a qualsiasi generale straniero, anche di grande fama, guadagnarsi rapidamente il prestigio necessario per comandare con sicurezza e per essere obbedito e coadiuvato senza tergiversazioni; difficilissimo riuscì allo Chrzanowski che non basava il potere ricevuto su qualità eccezionali universalmente riconosciut.: ed al quale erano ignoti lingua, paese, ufficiali, soldati. Egli stesso. che non mancava di buone qualità 'd'intelletto e di buon senso, riconobbe tali difficoltà e se ne rese conto subito dopo la proclamazione a comandante in capo, avvenuta il 15 febbraio con uno degli ultimi atti del ministero Gioberti. Non ebbe tempo di conoscere la poco buona impressione prodotta dalla sua nomina in paese e nell'esercito, poichè il giorno successivo scriveva al Gioberti palesando la preoccupazione di non avere sull'esercito l'autorità che carica e momento richiedevano e mettendo in luce l'opportunità che al Sovrano fosse lasciato, almeno nominalmente, il comando; perchè una tale misura, con la presenza di re Carlo Alberto tra le fila dell'esercito in campagna, avrebbe portato a più alto livello il morale e dato maggior valore alla sua azione di capo effettivo e responsabile. Il 21 febbraio il generale Chiodo, succeduto al Gioberti nella presidenza, modificava • il decreto conferendo allo Chrzanowski il titolo di « genera! mag-

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giore » dell'esercito: avrebbe dato gli ordini in nome del Re, assumendone però la responsabilità. Era. così consacrata la nomina di uno straniero, di mediocre reputazione militare, a comandante in capo di quell'esercito cui era affidato il compito di battere l'armata austriaca, liberare l'Italia dalla oppressione straniera, darle l'indipendenza. Quello straniero vide le numerose manchevolezze dell'esercito e le segnalò; insistette sino all'ultimo momento perchè vi si ponesse riparo, ma alla fine, spinto dal sentimento del dovere e dell'onore e dalla devozione verso il re Carlo Alberto, tacque ed accettò di condurre la guerra anche con uno strumento non pronto. A fianco dello Chrzanowski, quale capo di stato maggiore, fu posto Alessandro Lamarmora generale stimato e valoroso, ma assai più adatto a comandare brillantemente una divisione che non alla carica di capo di stato maggiore. Il generate Bava, pur assai considerato nell'esercito, fu messo completamente da parte: contro di lui si erano accaniti i partiti che non volevano assolutamente riconoscere doversi anche alla loro azione tumultuaria e discorde l'insuccesso del 1848: con l'esclusione dal comando di tutti i generali che avevano avuta parte preminente nella precedente campagna veniva ad essere ufficialmente sanzionato che la colpa era « tutta ed esclusiva » dei generali.

Piemontesi. Jl

marzo fu àenunziato l'armistizio: le ostilità dovevano cominciare il 20. Non fu estranea alla scelta del momento la ricorrenza dell'anniversario dei moti lombardi e delle Cinque Giornate di Milano: si sperava che l'annunzio avrebbe provocata la rivoluzione a tergo dell'esercito nemico. Pesò anche sulla decisione di affrettare gli eventi, a malgrado del parere contrario dello · Chrzanowski, la situazione finanziaria del paese, sul quale le spese militari gravavano in misura non più sopportabile. Tutto, così nel campo politico come in quello operativo, consi.gliava atteggiamento risolutamente offensivo. La penetrazione immediata in Lombardia avrebbe potuto riaccendere la miccia della rivoluzione e mettere in serio imbarazzo l'armata del Radetzky: avrebbe dato animo ai 17.000 Veneti e Romani che tuttora trovavansi sul basso Po e messa in valore l'azione della 6" divisione; rinvigorita la PIANI OPERATIVI E SCHIERAMENTO. -

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difesa di Venezia. Più ancora avrebbe sollevato lo spirito dell'esercito che, per le ragioni già esposte, non era in condizioni di attendere inoperoso nè di compiere le complicate manovre cui sarebbe stato costretto ove l'iniziativa si fosse lasciata al nemico. Lo Chrzanowski si propose di dare alle operazioni carattere offensivo: superare il Ticino ed attestare con l'esercito all'Oglio, occupando in pari tempo i Ducati. Ma tutto ciò doveva avvenire dopo che in una battaglia « offerta od accettata », cioè offensiva o difensiva, l'esercito piemontese avesse conseguito tale un successo da consentire allo Chrzanowski di sviluppare il suo piano. Quindi non risolutezza di varcare il Ticino e cercare il nemico per dargli battaglia, ma incertezza sulla opportunità di offrire od accettare la battaglia, il che davanti ad un avversario deciso significa sottomettersi alla sua volontà. Nella mente del General Maggiore prevaleva indubbiamente il concetto difensivo: prescelse infatti come centro della zona di ra<lunata Novara, di cui aveva mostrato di apprezzare la conformazione e la con.figurazione del terreno. Aveva inoltre lanciata l'idea, che non trovò però attuazione, di costruirvi un grande campo trincerato. Sull a base di questa concezione la massa dell"esercito doveva raccogliersi nella zona di Novara, pronta a varcare il T icino alla Buffalora: le ali fortemente protette a nord ed a sud per evitare che ì'avversario ne tentasse l'avvolgimento dalla zona del lago Maggiore o dal basso Ticino. Un grosso distaccamento sulla destra del Po doveva compiere dimostrazioni presso Piacenza, per ingannare il nemico sulle reali intenzioni del Comando piemontese. La divisione del generale Alfonso Lamarmora, la 6", già da tempo a Sarzana dove era stata mandata col proposito dell'intervento in Toscana, doveva superare l'Appennino alla Cisa e piombare su Parma; collegatasi quindi con i 17.000 Veneto-Romani del basso Po, mirare alravvolgimento del nemico nella pianura padana. Le forze piemontesi .finivano così per essere schierate su circa 160 km. di fronte, con i singoli gruppi a tale distanza l'uno dall'altro da non potersi prestare reciprocamente man forte in caso di attacco del nemico contro uno di essi. In particolare il mattino del 20 marzo la massa principale aveva cinque divisioni raggruppate attorno a Novara: la 2•, la 4a e la 3a fra Galliate, Trecate e Cassolnovo con la f a cavallo della rotabile Trecate-Buffalora pronta a varcare il Ticino. La I a. divisione a Vespolate con elementi verso Mortara; la divisione di riserva alla Bi-

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cocca, immediatamente a sud di Novara. A nord, sulla sinistra dello schieramento, fra Oleggio e Bellinzago, la 3"' brigata mista del Solaroli, collegata con la 2"' divisione per mezzo di un gruppo di quattro battagiioni dislocati fra Bellinzago e Galliate. Alla destra del grosso, nell'ansa fra Ticino e Po sulla sinistra di quest'ultimo, doveva trovarsi, secondo gli ordini dello Chrzanowski, la 5"' divisione lombarda comandata dal generale Girolamo Ramorino. Suo compito: vigilare le provenienze da Pavia ed opporsi ad un eventuale tentativo austriaco di passaggio del Ticino in quel punto. Austriaci. Durante l'inverno l'armata del Radetzky era dislocata con · la massa maggiore, I e II corpo e corpo di riserva tra Milano ed il Po; il III corpo fra Bergamo, Brescia e Verona; il IV fra Parma e Modena. Non appena in febbraio le discussioni in Parlamento e la loquacità della stampa piemontese, confermate dalle notizie degìi informatori, lo misero a giorno della situazione che si prospettava, provvide a raccogliere tutte le truppe a sud di Milano, fra Ticino, Adda e Po. Il 18 marzo l'intera armata era riunita e schierata tra Codogno, Corte Olona, Sant'Angelo, Landriano e Binasco, con la fronte rivolta a sud-ovest ed elementi avanzati a Pavia. Il Radetzky era perfettamènte informato della dislocazione del· l'esercito piemontese e delle sue condizioni; era a conoscenza di tutte le beghe che avevano circondata la nomina del comandante supremo e del malumore che questa aveva provocato fra gli altri generali. Pensò che in questa situazione fosse migliore partito dare immediatamente addosso al nemico, invaderne il territorio in una direzione vitale e, traendo profitto dal collasso morale che avrebbe colpito paese ed esercito, assestare alla parte maggiore di questo un colpo tale da annullarne ogni ulteriore possibil.ità. Il suo piano, probabilmente dovuto al capo di stato maggiore, generale Hess, fu audacissimo; lanciarsi con le forze riunite e con la massima celerità su Pavia, sbucare sulla destra del Ticino e volgersi contro il maggior nucleo di forze del nemico, che riteneva raccolto verso Novara-Vercelli, per batterlo e staccarlo dalla comunicazione con Torino. Il totale delle forze piemontesi era superiore a quello dell'armata del Radetzky, ma tenendo conto della lontananza della divisione Lamarmora impossibilitata ad intervenire nella battaglia, le forze si pareggiavano: vi era da parte piemontese superiorità di cavalleria,


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dal lato austriaco maggior numero di artiglierie. A favore del Radetzky militavano il grande prestigio del vecchio Maresciallo sulle truppe, la rigida disciplina di queste, l'organizzazione e l'addestramento assai curati, il perfetto inquadramento, la capacità dei vari comandanti e quella dello Stato Maggiore, a cui capo era un uomo, il maresciallo Hess, profondo conoscitore del servizio di aperto intelletto e di indomita energia, che completava assai bene il comandante in capo. Il morale dell'armata, col fresco ricordo della vittoriosa chiusura della campagna precedente, era assai elevato tanto che fra i numerosi elementi tedeschi. ungheresi ed in maggioranza slavi che la costituivano i pochi italiani che mal sopportavano di combattere contro altri italiani non potevano far sentire la loro voce ed erano costretti a mordere il freno. Il Radetzky trascurò la minaccia esercitata dalla 6" divisione e dai Veneto-Romani del basso Po ; non dette peso alla possibilità di una rivolta delle popolazioni a tergo. Per riunire in sol blocco il massimo delle forze limitò a 10.000 il numero totale di uomini lasciati nei vari presidì e nelle fortezze, ridusse le forze che assediavano Venezia. Il 18 marzo, quando già i movimenti erano in corso, il maresciallo Hess comunicava le linee del piano operativo al maresciallo Mollinary e concludeva prevedendo che nei pressi di Mortara e di Novara le forze austri ache avrebbero urtato contro il grosso dell'esercito piemontese; dopo di che, aggiungeva: << Andremo, se sarà necessario, a ricercare il Lamarmora, poi torneremo rapidamente in Lombardia per reprimere le insurrezioni che indubbiamente saranno scoppiate ».

GLI AusTRIACI PASSANO IL T ICINO A PAVIA. - Poche, il mattino del 20 marzo, le notizie sul nemico al Quartier Generale piemontese e le poche incerte e contraddittorie : provenivano dalle fonti più svariate, e la mancanza di un servizio informazioni seriamente organizzato rendeva difficile stabilirne l'attendibilità e sçeverare le vere dalle false. Non erano mancati indizi del concentramento austriaco fra Lambro e Ticino in direzione di Pavia; vi fu rono accenni a lavori intrapresi dal nemico sul basso Ticino, al Gravellone, l'isola che le due branche del fiume fanno prima della confluenza; ma era talmente radicata la convinzione che il Radetzky non avrebbe presa

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l'offensiva e che le sue forze si sarebbero raccolte dietro l'Adda, da non far dare alle notizie diverse alcun peso: così non si tenne affatto conto dell'intendimento espresso dal Maresciallo, nel proclama alle truppe del 12 marzo, di voler dettare la pace a Torino. Il 16 marzo re Carlo Alberto scriveva al Rattazzi compiacendosi della prospettiva di entrare in Lombardia senza incontrare forte resistenza, poichè dalle notizie raccolte appariva che « gli Austriaci concentravano le forze sull'Adda». In realtà i posti di vigilanza austriaci lungo il Ticino erano stati rìtratti e sostituiti con radi nuclei di cavalleria; le quattro brigate già schierate fra il lago Maggiore e Pavia ridotte ad una sola. Le marce compiute dai corpi d'armata austriaci per affluire nella zona di radunata dettero motivo ad alcuni informatori di supporre che il Radetzky volesse concentrare le forze tra Lodi ed il Po; questa notizia, pervenuta al Quartier Generale piemontese il r6 marzo, non fu ritenuta degna di fede. Il 19 marzo il Comitato dell'emigrazione di Stradella comunicava al generale Ramorino, la cui divisione trovavasi poco ad occidente, che il Quartier Generale nemico era a Sant'Angelo : a Corte Olona erano giunti 15.000 uomini, reparti marciavano su Pavia; tutte le forze austriache pareva fossero spiegate sulla sinistra del Po fra Piacenza e Pavia con equipaggi da ponte a Sant'Angelo ed a Landriano. Queste notizie, perfettamente rispondenti allo stato di fatto, non parvero al Ramorino tali da fargli prendere in qualche considerazione la possibilità che il Radetzky tentasse il passaggio ciel Ticino a Pavia. Il Ramorino, a sua volta, era convinto, non si sa in base a quali considerazioni, che gli Austriaci avrebbero tentato di gittarsi radicò mao-;. sulla destra del Po: la zona di radunata serrnalatagli o b giormente in lui tale convincimento. Queste notizie non pervennero allo Chrzanowski, il quale emanò gli ordini esecutivi per l'inizio delle operazioni, il 20 marzo a mezzodì, senza nulla sapere della effettiva situazione del nemico, del quale conosceva soltanto l'assenza fra la Buffalora e Milano.

Il General Maggiore aveva però prevista la possibilità che il nemico tentasse il passaggio del Ticino a Pavia e su tale previsione era basato il compito affidato alla 5"' divisione. Questa infatti avrebbe dovuto, sino dal 19 marzo, essere tutta sulla sinistra del Po e schierata sulla posizione della « Cava » per contrastare al nemico il pas-


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saggio del Ticino al Gravellone. Qualora non fosse riuscito a vietare il passaggio, il Ramerino doveva ripiegare per le due strade che da la « Cava » conducono, per Garlasco e per Sannazzaro, rispettivamente a Vigevano ed a Mortara; in queste località si sarebbe incontrato con elementi del grosso dell'esercito piemontese. Questi ordini non furono compresi dal Ramerino, non ostante fosse stato mandato a conferire con lui anche il capo di S. M., generale Alessandro Lamarmora, per precisargliene il valore in relazione alle operazioni del grosso. Il Ramerino, che già in Polonia aveva mostrata soverchia indipendenza ed aveva disobbedito allo stesso Chrzanowski, rimase fermo nella convinzione che il Radetzky non avrebbe passato il Ticino bensì il Po, e mantenne il grosso della divisione sulla destra dd fiume fra Casatisma e Stradella. Si limitò a mandare oltre Po il 21° fanteria ed il VI battaglione bersaglieri (Manara) cui avrebbe dovuto più tardi aggiungersi il reggimento Cavalleggeri Lombardi. Il comando di questo distaccamento, privo di artiglieria, fu affidato al generale Gianetti, cui il Ramerino scriveva : « Quantunque io abbia motivo di non credere probabile un attacco del nemico, nè che questo si spinga su di noi passando il Ticino ed il Gravellone, pure, ove ciò accada, Ella farà ritirare le sue truppe proporzionando la ritirata al vigore dell'attacco. Queste truppe, tutte così ritirandosi verranno a passare sul ponte di Mezzana Corti dove sarà postata a difesa del!'artiglieria di grosso calibro ». Il ponte doveva essere distrutto dopo che il distaccamento Gianotti fosse stato per intero sulla destra del Po. Lo Chrzanowski aveva bensì dato ordine di distruggere il ponte di Mezzana Corti, ma « dopo che la quinta divisione fosse stata tutta sulla sinistra del Po », allo scopo evidente di evitare che, non riuscendo ad impedire agli Austriaci il passaggio del T icino, non avesse neppure la tentazione di tornare sulla destra del Po e fosse costretta a congiungersi col grosso ripiegando per Garlasco e Sannazzaro. L'ordine era così interpretato ed eseguito in modo perfettamente opposto agli intendimenti dello Chrzanowski. Il grosso della 5~ divisione, oltre ad essere tenuto a sud del Po, fu dal Ramerino spostato verso Stradella con lo scopo di sostenere la brigata di avanguardia, che trovavasi a Castel S. Giovanni. In tal senso non solo si lasciava piena libertà di agire al nemico che avesse ~uperato il Ticino, ma si accentuava lo sparpagliamento delle forze e si accrescevano le difficoltà di una eventuale riunione con il grosso.


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L'armata del Radetzky era, la sera del 19, concentrata con i suoi cinque corpi d'armata poco ad oriente di Pavia. Nel mattino del 20 fn completato il gittamento dei ponti; a mezzodì iniziato il passaggio delle truppe e compiuto senza alcuna molestia. La divisione di avanguardia, arciduca Alberto del II corpo, varcato il ramo occidentale del Ticino, si scontrò con i bersaglieri del battaglione Manara. I tre battaglioni lombardi ed i bersaglieri erano sparsi su larga fronte e grande profondità: nessuno sulla posizione della « Cava » che domina il pianoro digradante verso il Ticino. Il battaglione del Manara in avamposti a S. Martino nei pressi del Gravellone; del 21° fanteria un battaglione a C. Limite, sulla strada per Garlasco, a guardia delle provenienze da Bereguardo dove esisteva un porto sul Ticino; gli altri due a Mezzana Corti. I bersaglieri del Manara riuscirono, manovrando fra S. Martino , e la «Cava», a resistere un paio d'ore ma alla fine, per quanto rinforzati dal battaglione studenti, dovettero ripiegare verso Mezzana Corti. Poco a nord, a C. Mandella, intervennero nell'azione i due battaglioni lombardi ed il combattimento si protrasse sino al tramonto senza ch e la divisione austro-ungarica riuscisse a sloggiare dalle loro posizioni i bravi bersaglieri e fanti. Ormai però il raggruppamento del generale Gianotti aveva espletato il suo compito e, di fronte alla sempre crescente preponderanza del nemico ed alla mancanza di qualsiasi comunicazione da parte del Ramorino, ripiegò in ordine sulla destra del Po distruggendo parzialmente il ponte di Mezzana Corti. Rimasero sulla sinistra, perchè separati dal grosso dall'avanzata delle colonne nemiche, il I battaglione del 21° fanteria ed il reggimento Cavalleggeri Lombardi, che non era riuscito a congiungersi con il raggruppamento Gianotti. Le colonne austriache, sfilando a tergo della divisione di avanguardia, si erano già dirette celermente su Vigevano e Mortara : nella notte sul 21 il I corpo era a Zerbolo; il II e III avevano per Carbonara raggiunto Groppello sulla strada per Mortara; il IV era alla «Cava», il I di riserva ancora a Pavia. Una brigata era rimasta di fronte al ponte di Mezzana Corti.

LA GIORNATA DEL 20 AL CAMPO PIEMONTESE.· - Il mattino del 20 nuove conferme al Quartier Generale piemontese sulla mancanza di forze nemiche fra Buffalora e Milano: sempre nessuna notizia sulla dislocazione dell'armata austriaca. 5


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Le cinque divisioni del grosso e la brigata Solaroli erano al loro posto; pronte le tre di prima schiera a varcare il T icino, mentre le due di seconda schiera guardavano il fianco dell'armata verso sud e cercavano il collegamento con la 5"' divisione della quale gli elementi esploranti della 2 a divisione trovavano presso Zerbolo il I battaglione del 21° fanteria. Tutto era tranquillo, soverchiamente tranquillo, a,d oriente ed a sud. Il Generale Maggiore più che mai incerto: non si udiva il cannone da sud il che era segno che null a era successo da quella parte. Alle 13 lo Chrzanowski prendeva una risoluzione intermedia: compiere una ricognizione su Magenta con una divisione. Il compito fu affidato alla 4&divisione che arrivò facilmente a Magenta; le pattuglie di usseri e di posti avanzati del nemico si ritirarono. A sera la divisione era per intero a Magenta; pur avendo disponibile il reggimento Aosta Cavalleria nessuna ricognizione fu spinta oltre la città, tanto che a non soverchia distanza l'ultima brigata austriaca che doveva ancora raggiungere il I corpo potè sfilare, indisturbata e senza che alcuno se ne accorgesse, verso Bereguardo. La puntata della 4a divisione lasciò il tempo che aveva trovato: sempre buio completo sul nemico. Gli abitanti tributarono accoglienze piuttosto fredde alle truppe piemontesi e nulla seppero dire sui movimenti degli Austriaci. E nulla per tutto il pomeriggio da Pavia e dalla « Cava », neppure l'eco delle cannonate che pure non avrebbero dovuto mancare se gli Austriaci avessero tentato il forzamento del Ticino. In realtà erano stati ben pochi i colpi di cannone: il raggruppamento Gianotti non aveva artiglierie ed il combattimento si era svolto con solo fuoco di fucileria; una sezione di artiglieria della divisione lombarda in posizione a sud del ponte di Mezzana Corti aveva protetto la ritirata delle forze 'del Gianotti ed aveva nel pomeriggio scambiato qualche cannonata con una batteria austriaca; quest'ultima non si era però attardata a controbatterla così come le fanterie austriache non avevano soverchiamente premuto sulle fanterie piemontesi. Al Radetzky interessava marciare rapidamente verso nord senza perdere tempo a combattere un avversario che, ripiegando, mostrava di non essere in grado di ostacolarne le mosse. Quei pochi col pi di cannone non erano stati sufficienti perchè il rombo ne fosse sentito nei pressi di Novara. Soltanto la sera, alle 20, il Generai Maggiore potè conoscere quanto era accaduto.

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Il o-enerale Bes, per mantenere il contatto con la 5" divisione che ritenev: schierata alla «Cava», aveva mandato ricognizioni a cercare .il colleo-amento ed assumere notizie: risultò che alla « Cava )> b e nell'ansa fra Po e Ticino vi erano soltanto i battaglioni del 21° fanteria ed i bersaglieri; il grosso della 5" era sempre sulla destra del Po fra Casatisma e Castel S. Giovanni; il generale Ramorino a Stradella. Forti reparti austriaci, superato il Ticino, marciavano in direzione di Vigevano e di Mortara . L'evento previsto dallo Chrzanowki ed a cui questi aveva cercato di far fronte appunto con la 5a divisione si era verificato in modo assai più grave del prevedibile: la mancata difesa del passaggio del fiume e la tardiva segnalazione dell'avvenimento avevano fatto guadagnare tempo e spazio all'armata del Radetzky, mentre il grosso delle forze piemontesi aveva perduto l'intera giornata del 20. L'in, certezza del Genera! Maggiore aveva fatto sì che l'armata non avesse passato il Ticino per lanciarsi decisamente in Lombardia nè avesse assunto in piena tranquillità ed in ordine nella· piana cli Novara quello schieramento difensivo sulle posizioni prestudiate dallo Chrzanowski che avrebbe consentito cli far fronte serenamente al nemico. Un comandante audace e deciso, nella situazione politica da cui nasceva la guerra ed a capo di truppe che avevano bisogno per il loro morale di essere lanciate, avrebbe passato il Ticino con tutte le divisioni il giorno 20 senza limitarsi alla inutile ricognizione compiuta dalla 4" divisione, la quale poteva condurre ad un dannoso disperdimento di forze e forse anche, se si fosse incontrato il nemico, all'annientamento della 4" divisione, giacchè le altre, sull'unico ponte di Buffalora, non avrebbero potuto accorrere in tempo per sostenerla. I ponti d'equipaggio di cui 1'esercito piemontese disponeva erano stati lasciati a Novara. Ad ogni modo il passaggio del Ticino con tutte le forze avrebbe potuto essere ancora eseguito la sera del 20. L'esercito piemontese era ancora in grado di imporre la sua volontà al nemico; già una parte di esso era sulla sinistra del Ticino: « proseguendo per Milano - dice jl Barone - o discendendo per la sinistra del Ticino su Pavia, si affermava che la direzione del gioco si voleva riservata a sè ». Puntando su Milano si sarebbe suscitata la rivoluzione in Lombardia; marciando su Pavia si sarebbero minacciate seriamente le retrovie del nemico che avrebbe potuto essere attanagliato tra il grosso e le forze della 5" divisione e della brigata Belvedere.


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Ma una concezione così ardita non poteva trovar posto nella mente dello Chrzanowski , cui più che tutto mancava l'animo per condurla ed il prestigio per imporla. Il partito preso fu quello di richiamare la f divisione e, retrocedendo con tutta la massa, andare a schierarsi sulle posizioni lungamente meditate della Lomellina per sbarrare la strada al nemico ed accettarvi battaglia. Era, dal lato morale, la peggiore delle risoluzioni : non poteva che deprimere lo spirito delle truppe le quali, prima ancora di combattere, si vedevano costrette a tar marcia indietro. Erano indotte a chiedersene il perchè ed a concludere con l'attribuirne la causa a scarsa previdenza del Comando ed a sentire ancora scemata la fiducia nel capo. Fu fatto compiere all'armata un cambiamento di fronte per schierarla fra Mortara e la Sforzesca : la 1" divisione avviata da Vespolate a Mortara seguita dalla divisione di riserva che ebbe ordine di appoggiarla; la 2 divisione da Cassolnovo, dove aveva costituito la destra del primo schieramento, fu spostata a Vigevano, dove furono anche dirette la 3" e la 4". La brigata Sol aroli a S. Martino, presso il ponte di Buffalora, per garantirne il possesso. Il grosso dell'esercito piemontese era così diviso in tre nuclei: uno, costituito dalle divisioni 1" e di riserva, a Mortara per assumervi posizione difensiva tra questa località e Garlasco con la 1" divisione in prima schiera; il secondo, con la 2• divisione in prima schiera e 3"' e 4• in seconda, a sud di Vigevano, dove la 2" divisione avrebbe dovuto mantenersi da sola sino all'arrivo delle altre due; la brigata Solaroli, infine, a guardia del ponte di Buflalora. I due nuclei principali distavano tra loro circa dodici chilometri; ciascuno aveva un compito preciso che si può concretare nella difesa, rispettivamente, di Mortara e di Vigevano. Nulla era previsto per il coordinamento dell'azione dei due gruppi ciascuno dei quali mancava di comandante. Nel terreno intermedio furono mandati dal Comando in capo quattro battaglioni di fanteria per collegare le divisioni 1" e 2\ ma ciascuno con un compito particolare e, per quanto i battaglioni appartenessero allo stesso reggimento, senza un comanòante unico chiaramente specificato. 11

La 5.. divisione non ricevette alcun ordine che tendesse a coordinarne l'azione con quella che si stava imbastendo sul fronte princi-

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pale. La sera stessa del 20 marzo, non appena a conoscenza della di. sobbedienza del Ramorino, lo Chrzanowski gli tolse il comando della divisione affidandolo al generale Manfredo Fanti sìn'allora comandante di una delle brigate lombarde. Il Fanti era stato il reale comandante della divisione durante il periodo di riorganizzazione e di addestramento, giacchè il Ramorino, deputato al Parlamento, si era sempre trai!tenuto a Torino e soltanto poco prima dell'apértura deJle ostilità aveva assunto il comando. Al Fanti, a complemento dell'ordine di sostituire il Ramorino, il Generai Maggiore scriveva: « Conoscendo Ella precisamente gli ordini emanati a cotesta divisione, di recarsi cioè alla Cava e dintorni, minacciare Pavia, tagliare il ponte di Mezzana Corti ed assicurarsi la ritirata per Sannazzaro, Ella dovrà conformarsi ai medesimi per quanto lo permetteranno le circostanze attuali ». Che cosa volesse significare un simile ordine non è facile com' prendere; la situazione era così diversa da quella prevista in precedenza, che il richiamarsi agli ordini già dati al Ramorino non poteva che essere fonte di confusione e di incertezza. Gli Austriaci avevano già passato il Ticino e n1carciavano risolutamente verso nord: non ·si trattava più nè di portare la divisione alla «Cava» nè di minacciare Pavia, ma di trovare ~n modo per molestare la marcia degli Austriaci e di ritardarla, oppure di portare ·la 5" divisione verso il_presumibile campo di battaglia. Vi erano, è vero, 50 km. di distanza ma in due giorni potevano essere superati; anche se la marcia avesse dovuto durare più a lungo, nessuno la sera del '.?0 potev~ prevedere che il giorno 23 la partita sarebbe già chiusa. · Al Fanti non fu neppure chiarita la situaz~one creatasi la sera del 20 nè furono comunicati i nuovi intendimenti del Comando Sl'premo. . Il Fanti fu abbandonato a se stesso; tormentato anche lui dall'assillo che il nemico pote~se ancora attaccare sul Po verso · Caste_! S. Giovanni, finì col rimanere inoperoso : non tentò di ripassare il fiume a Mezzana Corti, dove la campata mancante del ponte avrebbe potuto rapidamente essere sostituita, per mettersi alle_ calcagna del nemico ed attirarne a sè qualche nucleo, nè pensò a riu. nirsi col grosso. Il General Maggiore, con la comunicazione poco chiara ed affrettata della sera del 20, aveva escluso a priori la possibilità di concorso della 5"' divisione alle ulteriori operazioni, nè mai più si ricordò della divisione nei giorni successivi.


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CAMBIAMENTO DI FRONTE DEI PIEMONTESI E LA MARCIA DELL' AR-

La manovra di cambiamento di fronte fu compiuta nella notte sul 21 con celerità e con ordine. L a 1• divisione, generale Durando, all'alba del 21 era a Mortara, dove prese posizione, rafforzandovisi, al m argine meridionale del paese con la brigata Regina in prima schiera e l'Aosta in seconda : l'artiglieria ripartita in ragione di una batteria da battaglia per ciascuna brigata : il reggimento Nizza Cavalleria in ricognizione verso Tromello e Garlasco. La divisione di riserva, comandata dal Duca di Savoia, giunse verso le 12 e fu raccolta a nord di Mortara a cavallo della strada per Novara. La 2a divisione, generale Bes, era a Vigevano alle otto del mattino. Il Bes si preoccupò della sinistra e lasciò un battaglione ed una sezione d'artiglieria a g uard ia dei guadi del Ticino ad oriente di Cassolnovo. Non si arrestò a Vigevano ma si spinse notevolmente a sud per mettersi in grado di difendere ambedue le strade che si dipartono da Garlasco e portano a Novara per Vigevano e Mortara. Questa giusta iniziativa nacque dal non sapere il Bes a che ora la 1• divisione avrebbe potuto essere a Mortara e dal dubbio che non vi fosse ancora giunta. Schierò il Bes tutta la divisione con la brigata Casale una batteria da battaglia ed uno squadrone, fra Gambolò e Garbana e con la brigata provvisoria (17° e 23° fanteria) una batteria e due squadroni del Piemonte Reale alla Sforzesca. Un distaccamento, di cinque compagnie di fanti una di bersaglieri una sezione di artiglieria ed uno squadrone del Piemonte Reale, agli ordini del colonnello Montevecchio, fu spinto innanzi a Borgo S. Siro, sulla rotabile per Garlasco, per prendere contatto col nemico. Verso le undici giungeva a Vigevano metà della 3• divisione : il I fanteria Savoia, il Genova Cavalleria ed una batteria furono schierati fra Vigevano e Gambolò: il 2° fanteria fu per ordine del Generai Maggiore mandato alla Sforzesca a rinforzo della 2 • divisione. La brigata Savona, con la 7" batteria da battaglia, arrivò verso le 17. La 4" divisione, la quale soltanto nel mattino aveva ricevuto a Magenta l'ordine di retrocedere e recarsi a Vigevano, vi giunse nel tardo pomeriggio: fu collocata in riserva a cavallo della rotabile VigevanoGambolò. MATA AUSTRIACA. -

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Le disposizioni date dal maresciallo Radetzky per il giorno dirigevano :

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II e III corpo, nell'ordine, su Mortara da Groppello; IV corpo, marciando sulla sinistra della colonna principale, ad occidente di Mortara; I corpo anche esso su Mortara, però marciando ad oriente della colonna principale per Borgo S. Siro e Gambolò, a copertura del fianco destro dell'armata dalle offese che avrebbero potuto provenire da Vigevano; I corpo di riserva a seguito, per Trumello, del II e del III. La brigata Gorger, del I corpo, che era ancora sulla sinistra del Ticino, fu avviata a Bereguardo dove avrebbe ricevuto nuovi ordini per il passaggio del fiume e per riunirsi al suo corpo d'armata. Appare chiaro il piano del Radetzky: puntare su Mortara ad occidente di Novara, possibilmente su Vercelli, per tagliare l'esercito piemontese dalle comunicazioni con Torino; incontrando il nemico dare battaglia facendo massa sulla sinistra e sempre cercando di insinuarsi fra Novara e Vercelli. · Col dispositivo di marcia adottato una massa di sedici brigate era riunita per l'eventuale battaglia: tre guardavano il fianco destro; una era rimasta a fronteggiare a sud la divisione lombarda, le cui offese, come quelle della brigata d'avanguardia del colonnello Belvedere, erano evidentemente ritenute dal Comando austriaco poco probabili.

I COMBATTIMENTI A S. Srno ED ALLA SFORZESCA. - L'itinerario del I corpo austriaco portava, la mattina del 21 marzo, le truppe del Wratislaw a scontrarsi con gli avamposti della 2"' divisione. Le cinque compagnie di fanti del colonnello Montevecchio erano a cavallo della strada di Garlasco; la 6' compagnia bersaglieri ed il 1° squadrone del Piemonte Reale su quella di S. Biagio: non lungi la sezione della 2 .. batteria da posizione in grado di appoggiare col fuoco sia i fanti che i bersaglieri. Fra le IO e le I r i due battaglioni austriaci di avanguardia urtano nei bersaglieri che li arrestano e sventano un tentativo di aggiramento. Poco dopo giunge sul campo la brigata Strassoldo. Alle 13 le truppe austriache attaccano: sono sei battaglioni ed una batter~a e. mezzo contro sei compagnie uno squadrone e mezza battena p1e:11ontesi. L'attacco è arrestato. Ormai però il compito affidato agh avamposti era espletato: il colonnello Montevecchio decide


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di ripiegare, ma prima, alla testa dello squadrone del Piemonte Reale, carica gli Austriaci che sono costretti a ritirarsi in disordine. Nel rapporto ufficiale del maresciallo Radetzky è detto che « a S. Siro il nemico spiegò considerevoli forze >> e « mediante un forte fuoco di artiglieria produsse disordine fra le truppe e che una divisione · di cavalleria minacciò la sinistra della colonna austriaca attaccante ». Non potrebbe esservi miglior elogio per quei pochi valorosi che per cinque ore tennero in iscacco forze pressochè quintuple e che riuscirono poi a ripiegare sul grosso senza essere molestati. A S. Vittore, poco a sud della Sforzesca, il distaccamento Montevecchio incontrava òue battaglioni del 17° fanteria e la 1 compagnia bersaglieri che accorrevano al combattimento. Il grosso della divisione era alla Sforzesca. Qui il generale Bes, mentre aveva personalmente provveduto a far eseguire lavori di rafforzamento, aveva schierato la brigata provvisoria col 17° fanteria spinto innanzi verso S. Vittore ed il 23° ammassato alla Sforzesca, ciascuno con una aliquota di artiglieria: un battaglione del 17° guardava i guadi del Ticino, mentre sulla destra dello schieramento perlustravano due squadroni del Piemonte Reale. La brigata Casale sulla destra, verso Mortara. Avuta notizia, a mezzodi, che le truppe del Durando erano già a Mortara il Bes richiamò la Casale alla Sforzesca, dove l'azione svoltasi a S. Siro faceva prevedere si sarebbe diretto l'attacco nemico. Arrivava intanto sul campo anche la testa della 3" divisione, che il General Maggiore, presente sul posto insieme col re Carlo Alberto, schierava sulla destra della 2a. Alle 18 l'avanguardia del I corpo austriaco, il quale prima di partire da Borgo S. Siro aveva sostato per riordinarsi, urtava contro gli elementi avanzati della divisione Bes; ritenendo dii avere a che fare con le stesse truppe che avevano già ripiegato da S. Siro attaccò senz'altro. Si trovò invece davanti il 17° fanteria che resistè bravamente, ne arrestò lo slancio offensivo e, poco dopo, all' annunzio che l'altro reggimento, il 23°, stava per arrivare sulla sua destra si lanciò, insieme con due compagnie bersaglieri, al contrattacco; ben guidato dal suo bravo colonnello, il Mollard, sostenuto dall'artiglieria e subito appoggiato dal 23° fanteria del colonnello Cialdini il quale manovrò con grande rapidità e sicurezza, il contrattacco annientò quasi l'avanguardia nemica; la carica di due squadroni del Piemonte Reale mandati dal generale Bes completò il successo. Accorsero a sostegno


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òell'avanguardia elementi di un'altra brigata nemica, ma la colonna Mollard proseguì per ordine del Bes nell'avanzata e gli Austriaci, a malgrado dei rinforzi ricevuti, dovettero ripiegare celermente sino a Torrazza, pcco a nord di Borgo S. Siro. La 3., divisione, giunta con la testa a Vigevano verso mezzogiorno, aveva, d'ordine dello Chrzanowski, mandato innanzi sulla destra della 2" il 1° fanteria col Genova Cavalleria e la 3• batteria da battaglia spingendoli su Gambolò. Sulle 17, i cavalieri del Genova in ricognizione su Gambolò furono attaccati dall'avanguardia della brigata Strassoldo il cui grosso intanto dirigeva sulla Sforzesca. L'avanguardia constatata la presenza dei Piemontesi sostò in attesa di al.tre forze. Giunta la brigata Clam ctel I corpo, un distaccamento di un battaglione e mezzo, uno squadrone ed una sezione di artiglieria furono diretti da Gambolò verso Vigevano per prendere contatto con i Piemontesi; scontratisi con due battaglioni del 1° fanteria Savoia attaccarono ma, respinti e sopraffatti, dovettero anch'essi ripiegare sino oltre il Cavo delle Torrazze: la 3" divisione non inseguì, per quanto fosse in quel momento arrivata anche la brigata Savona. Sulla fronte della 2'' divisione si era intanto continuato a combattere. In soccorso agli Austriaci era arrivata la brigata Gorger; questa, giunta come da ordine ricevuto a Bereguardo, aveva trovato incustodito il porto sul Ticino, del quale il Comando supremo piemontese non si era curato; sentendo tuonare il cannone sull'altra sponda aveva passato di iniziativa il fiume con le fanterie proiettandole subito contro la 2 " divisione. Questa era ridotta sul campo alla sola brigata provvisoria - 17° e 23° fanteria - ; contrattaccò più volte il generale Della Rocca, comandante della brigata, con i due reggimenti coadiuvati da ripetute cariche del Piemonte Reale senza però riuscire a respingere decisamente le nuove e fresche truppe nemiche: queste, a loro volta, non ebbero possibilità di guadagnare terreno. A questo punto il generale Bes, poichè non arrivava sul campò la brigata Casale che aveva sbagliato strada nè si vedeva il rinforzo promesso dal Generai Maggiore, ordinò il ripiegamento. Fu indotto a tale decisione anche dalla minaccia sulla destra del 23° fanteria da parte di una colonna nemica che avanzava da Gambolò, cui egli non aveva elementi freschi da opporre nè sapeva che ad essa si sarebbe opposta la 3" divisione. Il ripiegamento, non molestato dagli Austriaci paghi di non essere stati ulteriormente attaccati, fu compiuto in perfetto ordine sino alla Sforzesca. Qui, finalmente, la · brigata Casale, .:he aveva inutilmente vagato l'intera giornata sul campo di battaglia, si ricongiunse con la divisione.


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IL COMBATTIMENTO DI MoRTARA. - Mentre la battaglia dava gli ultimi guizzi alla Sforzesca, dove la partita era rimasta indecisa fra il I corpo austriaco e la 2.. divisione piemontese, un duro combattimento si accendeva a Mortara. Quattro corpi d'armata aveva il Radetzky diretto su questa località, nodo di comunicazioni importante per la manovra che egli si proponeva di svolgere: in testa il II, per la grande strada Pavia-Mortara, che mosse da Groppello tra le IO e le n. A Mortara lo Chrzanowski aveva indirizzato la Ia e la divisione di riserva: in totale circa 25.000 uomini con 48 cannoni e tre reggimenti di cavalleria. Quando, alle 12, arrivò a Mortara il capo di stato maggiore, gen. Alessandro Lamarmora, inviatovi dal Generai Maggiore con l'incarico di « dirigere le due divisioni ,, trovò la Ia schierata con metà delle fanterie e delle artiglierie a sud del paese, quasi a ridosso delle ultime case, a cavallo della strada per Garlasco e col rimanente delle truppe, cioè un brigata di fanteria, una batteria di artiglieria ed il reggimento Nizza Cavalleria ammassati a nord di Mortara, dove pure si stava raccogliendo la divisione di riserva. Lo Chrzanowski, che al Durando si era limitato ad ordinare di (< prendere posizione dinnanzi a Mortara verso Garlasco ,> ed al Duca di Savoia di mettere la divisione di riserva in grado di sostenere la ra, aveva invece detto al capo di stato maggiore che cc le due divisioni dovevano coprire Mortara schierandosi a cavallo delle due strade di S. Giorgio e di Garlasco sino a Garbana ed ai Molini di Faenza; appoggiandosi da un lato a Castel d'Agogna e dall'altro ponendosi in comunicazione con Fogliano, dove giungerebbero le forze di Vigevano ,, . Non era fra le qualità del Generai Maggiore la semplicità e la chiarezza degli ordini, e già la sua ambigua prolissità era stata una delle cause della condotta del generale Ramorino. Ma in questo caso la presenza a Mortara del capo di stato maggiore il quale, oltre ad avere ricevuto ordini, doveva anche conoscere perfettamente idee e intenzioni del comandante, avrebbe dovuto chiarire ogni equivoco e precisare ai comandanti in sito, in modo inequivocabile, la volontà del capo responsabile. Non fu così. Il Lamarmora vide la divisione Durando con la prima schiera addossata ai caseggiati meridionali del paese e con la seconda a nord, in condizioni di poter difficilmente manovrare i reparti e ben lontana dalle posizioni volute dallo Chrzanowski, molto più a sud, le quali


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permettevano per la conformazione del terreno un miglior dominio un più spedito campo di tiro e maggiore facilità e respiro di manovra. Fece osservare la cosa al Durando e comunicò le idee del Generai Maggiore; non però come ordine ma come suggerimento non ritenendo di avere egli l'autorità di dare un ordine. Il Duca di Savoia, cui il Lamarmora fece le comunicazioni che lo riguardavano, spostò immediatamente la divisione di riserva e la schierò tra Castel d'Agogna e Fogliano; il Durando, che fra l'altro riteneva che non sarebbe stato attaccato nella giornata sostanzialmente per la mancanza di notizie sul nemico del quale nulla avevano riferito le ricognizioni di Nizza Cavalleria, rispose al Lamarmora che avrebbe occupato più tardi, dopo aver fatto mangiare la truppa, le nuove posizioni indicategli. In effetti la Ia divisione fu spostata innanzi verso le 15, ma il Durando non ritenne necessario avanzare sin dove gli era stato indicato e si limitò a portare più avanti di circa 1500 m., a cavallo della strada di Garlasco, la brigata Regina ed a prolungarne la linea sulla sinistra con la brigata Aosta; questa fece fronte alle provenienze da Vigevano e dalla Sforzesca ma non si spinse nè alla Garbana nè ai Molini di Faenza. Le batterie ripartite una per brigata: del reggimento Nizza due squadroni furono dati alla brigata Regina e collocati a tergo della destra sulla strada per Garlasco, due alla sinistra dell'Aosta mentre i rimanenti due, a nord di Mortara, costituivano l'unica riserva del comandante della divisione. La brigata Regina era schierata per linea con il 9° fanteria avanti, l' e< Aosta » per ala con due battaglioni di ciascun reggimento in prima linea ed uno in seconda. Fra le due brigate correva il cavo Passerini, canale largo e profondo inguadabile traversato da un ponte quasi sulla linea avanzata e da passerelle pedonali gittate nella stessa giornata dagli zappatori del genio. Le possibilità di manovra laterale erano assai limitate e potevano essere annullate se un ondeggiamento della linea avesse fatto perdere il possesso del ponte, giacchè le passerelle erano di scarso rendimento. Il terreno era inoltre ovunque intersecato da rivi e canali che ne limitavano la praticabilità; declinava con leggera pendenza verso sud dando un qualche dominio al difensore che però aveva vista e tiro limitati dalla fitta vegetazione. La po,sizione più avanzata ordinata dallo Chrzanowski sarebbe stata indubbiamente migliore per il più aperto campo di vista e di tiro ed ancor più perchè la divisione avrebbe avuto immediatamente davanti a sè l'ostacolo dello stesso cavo Passerini un cui ramo corre in direzione sud-est - nord-ovest. ' \.


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Sulla destra della 1• divisione si schierò quella di riserva con la brigata Guardie, il Novara Cavalleria ed una batteria appoggiate a Castel d'Agogna; la Cuneo con un'altra batteria poco a sud-ovest di Mortara scaglionata alquanto indietro rispetto all'ala destra della 1" divisione; in riserva, a nord di Mortara, il Savoia Cavalleria e le àue batterie a cavallo: Il Duca di Savoia, che mostrò in quella giornata intuito tattico e buon senso assai superiori agli altri comandanti presenti, intravide che il nemico avrebbe esercitato il massimo sforzo a cavallo del.la direttrice Garlasco-Mortara. Voleva perciò rinforzare con sue truppe la destra della ra divisione, ma il generale Durando ne lo dissuase perchè riteneva assai importante la posizione di Castel d'Agogna il cui indebolimento avrebbe potuto facilitare al nemico l'aggiramento della posizione. La situazione sino alle r6 appariva tranquilla: si sentiva tuonare j} cannone verso la Sforzesca ma nulla faceva trasparirè alcunchè di preoccupante sulla fronte. Le ricognizioni, compiute a raggio assai limitato, non avevano segnalato la presenza del nemico. I comandanti ritenevano che non sarebbero più stati attaccati in quel tardo pomeriggio ed il generale Lamarmora sperava di avere tempo disponibile sino al domani per migliorare lo schieramento ed anche per metter~i in condizione di prendere l'offensiva all'alba del giorno successivo. Lo scontro alle 16,30 di pochi cavalìeri del Nizza con elementi nemici ai Casoni di S. Albino, appena due chilometri, · o poco più, avanti alla linea di battaglia della brigata Regina, fu una sorpresa ma non riusd a scrollare il convincimento r>rofondamente radicato che per quel giorno non vi era più ragione di pensare ad un serio attacco. Lo si ritenne una piccola azione tra nuclei esploranti.

Il grosso dell'armata austriaca aveva regolarmente compiuta la marcia ordinata dal Radetzky che voleva nella giornata rendersi padrone di Mortara. · Era in testa il II corpo, seguito sulla stessa strada per Garlasco e Mortara da"l III e dal I di riserva; avanguardia la divisione arciduca Alberto del II. Non appena i pochi colpi di cannone sparati dalle batterie della r" divisione · contro gli usseri che inseguivano i cavalieri del Nizza dettero ai comandanti austriaci la sensazione di avere dinanzi forze piemontesi decise a difendere Mortara, il maresciallo D'Aspre, che mar-

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ciava con l'avanguardia, ordinò di attaccare con tutta la divisione. Le due brigate, su quattro colonne formate ciascuna di due battaglioni fanti e due compagnie cacciatori e con tutta l'artiglieria della divisione, furono lanciate tre ad occidente ed una ad oriente del cavo Passerini contro la divisione Durando: la massa maggiore, sei battaglioni di fanti e sei compagnie si rovesciarono sul 9° fanteria. Il fuoco simultaneo ed efficace delle due batterie austriache scompaginò le formazioni; l'unica batteria piemontese in grado di controbatterle entrò immediatamente in azione ma inferiore com'era per numero di bocche da fuoco non riuscì ad attenuare sensibilmente l'efficacia del fuoco nemico. Non descri~eremo nei particolari il combattimento che in fondo si limitò all'attacco della sola brigata Regina a favore della quale per il notevole disperdimento di forze e l'intricatezza del terreno non terono intervenire tempestivamente i rinforzi chiesti dal Lamarmora al Duca di Savoia e da questo immediatamente avviati. Si risenti_va nel combattimento il grande inconveniente di avere un paese, che rappresentava una vera stretta, immediatamente alle spalle e si ripercoteva altresì la ignoranza del terreno delle strade campestri e dell'abitato. Così i battaglioni dell'8° fanteria e la batteria avviata a rinforzo dalla divisione di riserva, costretti a traversare Mortara, trovarono le strade talmente ingombre da non poter proseguire; così mentre l'artiglieria difettava sul campo di battaglia due batterie restavano inoperose ed impotenti a nord di Mortara; e del pari vi restava inerte la cavalleria collocatavi in riserva. La brigata Aosta, che aveva facilmente respinto l'attacco tentato contro di lei dalla colonna austriaca operante ad oriente del cavo Passerini non potè o non seppe intervenire a favore della Regìna . . Ad aggravare la situazione era sopraggiunta la notte che rendeva ancora più difficile l'orientamento penosa la marcia in quel terreno intricato e sconosciuto ed assai laborioso il coordinamento delle varie azioni; coordinamento che, a dire il vero, mancò sino dal primo momento per la non esistenza di un capo che potesse e sapesse comandare. Il valoroso generale Lamarmora si comportò da magnifico soldato, riordinando fuggiaschi, costituendo e conducendo colonne d'attacco, ma non esercitò affatto l'azione di dirigere le due divisioni per la quale era stato mandato lì. Il Durando si trovò stretto nella cerchia delle stesse disposizioni da lui date che gli vietarono in modo assoluto di manovrare i vari elementi della divisione.

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Tutti furono sorpresi dall'improvviso attacco condotto così decisamente dagli Austriaci in sul calar della notte e non seppero reagire con prontezza alla sorpresa, così come nessuno aveva pensato ad organizzare il traffico nelle retrovie e specialmente nell'interno di Mortara in modo di evitare gli intralci e gli arresti al movimento che furono causa non ultima dell'insuccesso, giacchè vietarono alle batterie ed ai battaglioni della divisione di riserva accorsi a sostegno della brigata Regina di giungere sul posto e per poco non li travolsero nel caos creatosi nell'interno del paese. Entrava a Mortara verso le 20 la colonna Benedek, seguita da quella dello_ Stadion, alle calcagne dei reparti della brigata Regina e ad essi frammista: si combattè nelle strade e tali erano disordine e confusione che nell'oscurità furono scambiate fucilate fra italiani ed italiani e fra austriaci ed austriaci. Una colonna di elementi raccolti dal Lamarmora tentò di aprirsi la strada dentro Mortara: condotta dal valoroso generale era riuscita a rovesciare gli Austriaci ed a portarsi quasi allo sbocco settentrionale, quando il Lamarmora, per dare maggiore spinta ai suoi uomini, fece battere « la Generale >> con i tamburi. Ottenne naturalmente l'effetto di richiamare l'attenzione del Benedek che rovesciò subito la sua colonna sul manipolo del Lamarmora; solo pochi ardimentosi raccolti attorno al generale attraversarono le fila nemiche. Riuscì pure ad aprirsi la strada fra la colonna Stadion un gruppo di squadroni del Nizza.

La divisione di riserva era intatta: della I a divisione era pure intatta la brigata Aosta con una batteria. Il nemico non aveva proceduto oltre Mortara: era disordinato e sentiva di non poter essere prontamente appoggiato dagli altri corpi d'armata . La giornata non era perduta; si trattava in fondo di un episodio nel quale era stato impegnato non più di un quarto delle forze. Le perdite erano limitate a poco più di duemila uomini e quasi tutte accentrate nella brigata Regina. Il Duca di Savoia propose di contrattaccare subito il nemico con la divisione di riserva e scacdarlo da Mortara. Il Durando ed il Lamarmora si erano trovati confusi nel discrdine del ripiegamento della Regina; il Durando non aveva notizie dell'altra brigata della sua divisione e temeva che anch'essa fosse stata travolta; ambedue furono contrari al consiglio del Duca e fu decisa la ritirata: la I divisione su Novara e quella di riserva su Granozzo, nove chilometri a sud di Novara. 3

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LE DECISIONI DEL 22 MARZO. - A sera del 21 il II corpo austriaco, sorpreso e soddisfatto della facilità con la quale aveva occupato Mortara, vi sostava e perdeva il contatto col nemico. Il I, che non era riuscito a sloggiare le truppe del Bes dalla Sforzesca, pernottò fra San Vittore e Gambolò; il III a Remondò; il IV ed il I di riserva a Groppello. Delle brigate già rimaste indietro la Gorger si era riunit.a per Bereguardo al II; la Liechtenstein era stata richiamata lasciando incustodito il ponte di Mezzana Corti, da dove il Radetzky era ormai sicuro di non ricevere molestie; la Wimpffen era sempre a Pavia dove si stava trasformando in divisione con elementi raccolti dalle varie guarmg1om. Dell'armata piemontese la 1"' divisione e quella di riserva erano in marcia rispettivamente su Novara e su Granozzo. Il gruppo delle tre divisioni di Vigevano era ancora nelle posizioni del mattino con la 2a che fronteggiava il corpo austriaco del Wratislaw e le altre due fra Vigevano e la Sforzesca: la brigata Solaroli sempre tra Romentino e San Martino. Il quartiere generale del maresciallo Radetzky a Tromello; quello piemontese col re Carlo Alberto ed il Generale Maggiore alla Sforzesca, mentre il capo di stato maggiore era con le divisioni che ripiegavano su Novara. Quali le condizioni dell'armata piemontese? Tre divisioni, la 3"', la 4" e quella di riserva, intatte come lo era la brigata Solaroli. La 2" divisione aveva onorevolmente combattuto alla Sforzesca: era riuscita a vietare qualsiasi progresso al nemico, e condotta più volte all'attacco, aveva dimostrato valore disciplina e tenacia. La I ... soltanto era scossa: inimpiegabile ne era la brigata Regina, che aveva perduto metà degli effettivi, ma l'Aosta non contava che pochissime perdite ed aveva nella giornata del 21 respinto senza difficoltà il tentativo di attacco della colonna W eiler. Artiglieria e cavalleria in ottime condizioni. Le perdite complessive dell'armata erano tutt'altro che elevate: tra ·san Siro e la Sforzesca 21 morti, 94 feriti e 100 dispersi; a Mortara 45 morti, 76 feriti e 2000 dispersi: in totale meno di 2500 uomini di cui circa 2000 concentrati in una sola brigata. Il General Maggiore ricevette le prime notizie sul disgraziato combattimento di Mortara poco dopo la mezzanotte, riferite da due ufficiali dello stato maggiore del generale Lamarmora che erano stati travolti nel disordine di Mortara. Erano catastrofi.che: concludevano che le due divisioni avevano dovuto ritirarsi in disordine in direzione-


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a loro ignota. Giunse anche una lettera del Lamarmora: questi, che non aveva potuto esercitare una vera azione di comando e non aveva uria chiara idea dell'insieme si riferiva unicamente a quanto era accaduto alla brigata Regina nel cui disordine era stato travolto e tratteggiava la situazione con la tinta del più nero pessimismo. Non era il sereno rapporto di un comandante, ma quello di un soldato valoroso ed impressionabile c~e, gittatosi nella mischia, aveva visto accadere accanto a sè episodi, dolorosi ma umani, di un momento sfor: tunato e da essi traeva deduzioni di carattere generale. Lo Chrzanowski, dopo la prima notizia, concepì il disegno di puntare sul fianco del nemico a Mortara con le divisioni che erano alla Sforzesca, ordinando in pari tempo alla 1" ed a quella di rise1 va di ritornare su Mortara ed attaccare di fronte. Era una concezione ~.rdita ma che avrebbe potuto salvare la situazione: re Carlo Alberto lo appoggiò. La concezione dello Chrzanowski era dal lato operativo consona alla situazione: un attacco condotto dalle tre divisioni del gruppo orientale e dalla brigata Solaroli - circa 40.000 uomini avrebbe colto di sorpresa il nemico ed avrebbe potuto conseguire ri· sultati assai vantaggiosi, tant? più che le forze erano fresche e di morale alto dopo i combattimenti favorevoli della Sforzesca. Si correva certamente un'alea: se l'operazione non fosse stata fortunata l'esercito piemontese poteva finire con l'essere addossato al Ticino. Ma era sicuramente minore di quella che già correva l'armata del Radetzky con la linea d'operazione legata allo stretto ed unico passaggio di Pavia che avrebbe potuto essere da un momento all'altro intercettata dalle forze della 5" divisione e della brigata Belvedere ove i capi avessero avuto un minimo di iniziativa e se il Comando in capo piemontese si fosse ricordato della esistenza di quelle truppe ed avesse impartito loro un qualche ordine chiaro e risoluto. Ma il piano del General Maggiore naufragò nello scoraggiamento prodotto dalla relazione del Lamarmora. Tutti i generali furono nettamente contrari: ritennero più conveniente concentrare le forze a Novara da dove, con la minaccia esercitata sul fianco del nemico, si impediva a questo di internarsi in Piemonte, senza tener evidentemente conto che, puntando col grosso delle forze su Mortara ed assumendo atteggiamento risolutamente offensivo, non si sarebbe l'esercito piemontese limitato ad esercitare una minaccia ma avrebbe potuto materialmente infliggere un grave colpo all'avversario in un momento per lui critico ed in una direzione che poteva essere fonte di grandi vantaggi per i Piemontesi oltre a quello, inestimabile, di ri-


CARTA DEL LO STATO MAGGIORE SARDO (ED .

1852) :

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prendere in mano l'iniziativa delle operazioni e di imporre la propria volontà. Non ostante l'appoggio di re Carlo Alberto, lo Cbrzanowsky non ebbe la forza. d'animo di insistere e di volere decisamente. Oltre alla suggestione esercitata su di lui dal nero pessimismo del Lamarmora, concorse a farlo inclinare verso il partito più prudente la coscienza dello scarso suo prestigio sui Piemontesi: non volle, egli straniero, andare contro il parere degli altri generali. Decise la radunata delle cinque divisioni a Novara, dove avrebbe dato battaglia: la 3\ la 4" e la 2" furono durante la notte stessa avviate a Trecate e qui un successivo ordine ne prescrisse lo schieramento in battaglia insieme con le altre due del gruppo di Mortara. Le divisioni r"', 2" e 3• furono sclùerate, nell'ordine, da occidente ad oriente a sud di Novara fra il torrente Agogna e la rotabile Mortara-Novara, a cavallo della quale, alla Bicocca, trovavasi la 3a divisione; la divisione di riserva e la 4a in seconda schiera rispettivamente dietro l'ala destra e la sinistra. La brigata Solaroli ritratta indietro sulla rotabile Novara-Trecate ad occidente del torrente Terdoppio: doveva garantire la sinistra ed il tergo dell'armata dalle provenienze dal Ticino. Anche in quest'ultimo ordine del Generai Maggiore non vi è accenno alla 5" divisione ed alla brigata d'avanguardia; erano è vero lontane e non in grado di intervenire in una battaglia che si fosse svolta il 23, ma nessuno poteva ancora prevedere che questa sarebbe stata la giornata decisiva, e forse non si poteva neppure dare sicuro l'incontro col nemico. Ad ogni modo avvicinare quelle truppe, specie la 5" divisione, sarebbe stato indubbiamente utile sia col proposito di riunirle al grosso sia per lanciarle sulle retrovie del Radetzky, fra Ticino e Po, del tutto incustodite. Il Maresciallo austriaco aveva avuta tale ferma volontà di riunire tutte le forze che, sino dalla sera del 21, aveva ordinato alla brigata Liechtenstein di abbandonare il ponte di Mezzana Corti lasciandolo del tutto incustodito di fronte alla s· divisione. Ma il generale Chrzanowski aveva rinunziato, sino dalla sera del 20, al concorso prezioso di quelle truppe, come, sino dal 12 marzo, si era privato di quello della 6" divisione la quale, se richiamata al momento della denunzia dell'armistizio, avrebbe ancora potuto riunirsi al grosso. La Sa divisione non ebbe il 22 nessun ordine, come non ne aveva avuti il giorno precedente. Il Fanti, che pure in appresso doveva di6


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mostrare di essere un buon generale, all'oscuro di quanto si proponesse il Generai Maggiore e di fronte alle direttive della sera del 20 che ribadivano concetti di impiego ormai di impossibile esecuzione, si trovò nel più serio imbarazzo e purtroppo non comprese che l'unico modo per concorrere alle operazioni del grosso nella nuova situazione era quello di mettersi alle calcagna del nemico ed attaccarlo a tergo, il che avrebbe se non altro ridotto le conseguenze dell'errore del Ramorino. Durante la giornata del 21 il forte cannoneggiamento proveniente da Mortara aveva convinto il Fanti che una parte dell'esercito piemontese era stata attaccata; intuì che si trattava della r" divisione e cercò di mettersi in collegamento col Durando. Non riuscì e non prese alcuna decisione, che avrebbe potuto essergli facilìtata dalla situazione che intanto si creava davanti a lui. Infatti, il mattino del 22, fu notato qualcosa di nuovo sulla sponda sinistra del Po: gli Austriaci avevano tentato di bruciare le barche da ponte ed il tentativo era stato frustrato dall'artiglieria lombarda. Ricognizioni inviate poco dopo constatarono l'assenza del nemico di fronte al ponte; gli unici reparti austriaci esistenti nei pressi erano qu~lli di Pavia. Ma il comandante della 5" divisione restò inattivo. Rimase così la divisione lombar,da, che pure dal fanti stesso era stata preparata sino a farne un ottimo strumento di guerra, in una specie di equilibrio instabile tra la maggior massa che si batteva a nord, di cui non sentì la forza d'attrazione, e le due minori ad oriente, la brigata Belvedere e la 6a divisione anche esse perfettamente inutili ai fini operativi. Alla battaglia decisiva 1.'esercito piemontese, forte di ben sette divisioni e di due brigate autonome, si presentava con sole c.inque divisioni ed una brigata: un quarto delle forze era lontano dal campo di battaglia sul quale dovevano decidersi le sorti della prima guerra per l'indipendenza d'Italia. Vi furono, è vero, errori di interpretazione di ordini, disobbedienza di un comandante di divisione, mancanza di iniziativa di altri, ma le cause principali della situazione in cui l'esercito piemontese si trovò il 23 marzo 1849 vanno ricercate nella disseminazione iniziale, nella sibillinità di taluni ordini del General Maggiore e nella non comprensione da parte di quest'ultimo del principio basilare dell'arte della guerra : riunire le forze per combattere.

LA BATrAGLIA del

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DI NovARA. - Manovra austriaca. Nella giornata gli Austriaci avevano avuto di fronte, rispettivamente a Mor-

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tara ed alla Sforzesca, le divisioni piemontesi I" e 2 " : i combattimenti e le ricognizioni non avevano dato alcuna notizia sulle altre truppe del grosso; poteva questo avere ripiegato su Novara, poteva anche essersi diretto su Vercell i. Qui, oltre a trovare un'ottima posizione di schieramento sulla Sesia, avrebbe coperto la capitale si sarebbe assicurata la linea di rifornimento ed avrebbe avuta la possibilità di chiamare a sè la 5(1, divisione. Pur attribuendo al nemico quest'ultima soluzione, che egli riteneva la più logica, non credette il Radetzky di .i.vere elementi sufficienti per una decisione netta : provvide allora a raccogliere maggiormente le sue forze per mettersi in condizioni di attaccare il nemico se fosse schierato a Novara o di agganciarlo e costringerlo a battaglia prùna che avesse superato la Sesia nel caso fosse in marcia su Vercelli. Il II corpo da Mortara fu diretto a Vespolate sulla strada di Novara; il I, rimasto fermo a Gambolò dopo l'azione della Sforzesca, piegò a nord-ovest dirigendo su Cilavegna, fiancheggiato sulla destra da una brigata. Il III ed il I di riserva dovevano seguire il II ; il IV, spostandosi più ad occidente, doveva portarsi a Robbio da dove avrebbe continuato verso l'Agogna. Con tale dispositivo, mentre il II ed il IV corpo erano in grado di impegnare forze nemiche che avessero rispettivamente incontrate verso Novara o verso Vercelli, gli altri tre corpi, raggruppati nel triangolo Borgo La\·ezzaro-Cilavegna-Alb:mese, potevano facilmente essere spinti sull'una o sull'altra direzione. Il II corpo, alle 16 del 22, era col grosso a Vespolate : l'avanguardia prese contatto a Garbagna con i Piemontesi senza però im pegnarsi. Il IV raggiunse Robbio : le ricognizioni trovarono occupato il ponte sull a Sesia e libera la strada per Casale. Gli altri tre corpi d'armata giunsero nella notte alle località a ciascuno assegnate. Il Maresciallo seppe del contatto avvenuto a Garbagna; ritenne, così come credeva il D'Aspre comandante del II corpo, si trattasse di retroguardie di unità nemiche in ritirata e precisamente della divisione che aveva combattuto il 21 alla Sforzesca e che ripiegava su Vercelli per Novara. In questa convinzione il Comando austriaco, che aveva già avvertiti i comandanti di corpo d'armata di tenersi pronti a muovere per le ore 9 del 23, ordinò alle ore 8 che il II corpo da Vespolate marciasse su Novara e se ne impadronisse, proseguendo il 24 marzo su Vercell i dopo aver assunto notizie sulla direzione di ripiegamento del grosso nemico. Il IV corpo, dopo che il Il si fosse reso padrone di N ovara, doveva per Confienza e Borgo


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Vercelli marciare su Vercelli. Il I ed il I di riserva dovevano seguire lo stesso itinerario del IV. Il III cor.e_o doveva atten dere che tutti gli altri fossero sfilati e poi dirigersi anche esso su V ercelli, dove la sera del 23 avrebbero così dovuto essere riuniti quattro corpi d'armata. Il generale Wimpffen, da Pavia, doveva marciare su Casale. Tutte le forze, anche le più lontane, erano chiamate a raccolta per la battaglia, che il Maresciallo austriaco presumeva di ingaggiare il 24; egli non prevedeva azioni tattiche in grande stile per la giornata del 23 ed iniziava la manovra dalla quale doveva scaturire la conversione su Vercelli, mantenendosi però sempre in condizioni di far fro nte ad avvenimenti imprevisti in direzione di Novara. Il mattino del 23, mentre il II corpo muoveva da Garbagna e da Vespolate verso N ovara, il IV era a Torre del Robbio: da qui il maresciallo Thurn mosse verso Borgo Vercelli soltanto dopo aver avuto dal comandante del II assicurazione che questi non aveva bisogno del suo aiuto per impossessarsi di Novara. 'Gli altri tre corpi eseguirono gli ordini ricevuti.

Schieramento dell'esercito piemontese. La notte sul 23 il grosso era raccolto attorno a Novara: cinque divisioni, una brigata mista, due reggimenti fanteria a quattro battaglioni e due battaglioni bersaglieri. U n complesso di 75 battaglioni, 34 squadroni e 14 batterie e mezzo; cioè 44.000 fucili, 2500 sciabole, 109 pezzi; le m ancanti 5~ e 6" divisione e brigata Belvedere ammontavano a 16.000 fanti , 6 50 cavalli e 40 cannoni. Intendeva il General Maggiore accettare battaglia sulle posizioni scelte a sud di Novara, far logorare il nemico contro le tre divisioni di prima schiera, prendere poi la controffensiva e batterlo con le altre tenute in riserva. La posizione scelta si stendeva dal cavo Dassi, che corre parallelo all'Agogna, sino a poco oltre la Bicocca, forte gruppo di case sulla rotabile Mortara-N ovara. Il terreno è pianeggiante: lo solca al centro il torrente Arbogna che nasce fra due piccole alture, quella della Bicocca .e quella di C. Gabinelli formanti una m inuscola stretta valle. Molti i caseggiati rurali , tra cui di particolare importanza, oltre quelli della Bicocca, l'altro del T orrione situato poco ad oriente del gomito del cavo Dassi, quando questo assume andamento parallelo col nome di cavo Prina. Fitta l'alberatura, m a gli alberi ancor privi di foglie permettevano sufficiente campo di vista; difficili le comunicazioni per le numerose interruzioni del terreno do-


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vute ai frequenti rivi e fossatelli. Le strade tutte ad andamento meridiano corrono sulla piana; si eleva su tutte la Novara-Mortara che traversa la Bicocca e corre sopra un poco elevato ciglione che limita la piana ad oriente. Un solo villaggio: Olengo. Una zona boschiva, il bosco del Vescovo, a cavallo del cavo Prina al centro della posizione circa trecento metri a sud della linea avanzata piemontese. La 1" divisione, che costituiva l'ala destra della prima schiera ebbe assegnato un reggimento su quattro battaglioni per colmare i vuoti <lella brigata Regina. Appoggiò la destra al cavo Dassi; con la sinistra arrivava alla carrareccia di Garbagna. Un nucleo avanzato di tre battaglioni e mezza batteria era spinto all'altezza del gomito del cavo Dassi : il rimanente, cioè cinque battaglioni della brigata Aosta ed i quattro del reggimento provvisorio con due batterie e mezzo, alquanto arretrato su due schiere; l'artiglieria riunita in una unica massa in modo da battere efficacemente il Torrione che il generale Durando non aveva voluto occupare perchè troppo lontano ma che poteva costituire per il nemico 1.m buon appiglio tattico. In ris~r~a il Nizza Cavalleria, salvo uno squadrone mandato in ricogn1z10nc. La 2 .. divisione era a contatto con la sinistra della la. e si stendeva sino al torrente Arbogna, schierata per ala con la brigata provvisoria a destra e la Casale a sinistra: fra le due brigate l'artiglieria; dietro l'ala destra il Piemonte Reale Cavalleria. La divisione Perrone (3") alla Bicocca a cavallo della rotabile Novara-Mortara. Il Generai Maggiore riteneva che la Bicocca costituisse posizione chiave, dove la battaglia si sarebbe risolta. La 3°' divisione era schierata su tre linee: un reggimento, il_ 15° Savona, avanti alla Bicocca; il 16° a cavallo dei caseggiati; la brigata Savoia più a nord. Un gruppo di due battagliòni bersaglieri, il III ed il IV, sulla destra, due compagnie a guardia della sinistra. Le due batterie della divisione in posizione a sud della Bicocca. Il reggimento Genova Cavalleria in riserva. In seconda schiera: la 4.. divisione, la brigata Solaroli e la divisione di riserva. La 4a divisione, del Duca di Genova, a sud-est di Novara su due scaglioni: quello avanzato composto della brigata Piemonte e da due batterie d'artiglieria; più arretrata la brigata Pinerolo con l'Aosta Cavalleria. · La brigata Solaroli era schi~rata ad occidente del Terdoppio per ~uardare _le provenienze da Trecate: aveva due battaglioni di fanti, il battaglione Real Navi e la Guardia Mobile Bergamasca, a guardia


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delle provenienze indicatele; il rimanente, quattro battaglioni di fanti · · _e due sezioni di artiglieria, in riserva. La divisione di riserva era dietro !-a.la destra, non lontana dalla strada di Vercelli; su ti-e colonne così da poter sostenere sollecitamente la 1 .. divisione ed anche far fronte verso le provenienze da Vercelli. Alle 9 del 23 marzo tutte le truppe erano ai loro posti. La posizione era tatticamente buona: ben appoggiata sui fianchi e protetta sulla fronte dall'ostacolo del cavo Prina. Soverchie le forze in prima schiera in relazione all'ampiezza della posizione ed al proposito controffensivo dello Chrzanowski; soverchia ancora la preoccupazione per le provenienze da oriente. Scarse, come sempre, le notizie sul' nemico, salvo quelle derivanti dai contatti recenti a Mortara ed alla Sforzesca. Intanto il II corpo austriaco marciava da Vespolate verso Novara, naturalmente destinato a scontrarsi con la 3" divisione alla Bicocca: un distaccamento di un battaglione e mezzo, due pezzi d'artiglieria e mezzo squadrone lo fiancheggiavano sulla sinistra diretto a Novara per la carrareccia del Torrione. Alle u le avanguardie austriache furono avvistate. Posti avanzati dei bersaglieri del II e del IV battaglione erano all'altezza delle cascine « la Boiotta >> e << la Boriala >> : indietro, tra la Cavallotta ed il Castellazzo, il 15° Savona con la 3"' batteria da battaglia. Sotto la fucileria dei bersaglieri la divisione arciduca Alberto si spiegò e, per ordine del marèsciallo D'Aspre, mosse all'attacco: una colonna con l'Arciduca puntò sulle due cascine tenute dai bersaglieri mentre la colonna di destra guidata dal generale Kolowratt attaccò il Castellazzo. Fu facile alla colonna di sinistra impadronirsi della Boiotta e della Boriola che i bersaglieri non avevano ordine di tenere; ma i fanti del 15° fanteria, sostenuti dalla 3"' e dalla i' batteria da battaglia, arrestarono nettamente davanti alla Cavallotta ed al Castellazzo le due colonne austriache. Un contrattacco prontamente condotto dal Castellazzo con alcune compagnie del 16° fanteria ed il III battaglione del 2° . fanteria condotti innanzi dal generale Ansaldi respinse in ,disordine e con gravi perdite la colonna Kolowratt. Nel frattempo l'arciduca Alberto, col rinforzo di un battaglione e di una batteria, riesce ad impadronirsi della Cavallotta e si spinge su Villa Visconti. Qui si combattè accanitame·nte e valorosamente da


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ambo le parti: attacchi e contrattacchi si susseguirono ininterrottamente. I fanti italiani andarono più volte alla baionetta, gli artiglieri portarono i cannoni a trecento metri da quelli nemici per ridurli al silenzio, la cavalleria austriaca tentò di cadere sul fianco delle batterie piemontesi ma fu caricata e ricacciata dai cavalieri di Piemonte Reale: questi, .dopo aver liberato le batterie, proseguirono e respinsero in disordine la fanteria austriaca con una carica che suscitò l'entusiasmo dei fanti e meritò l'elogio di re Carlo Alberto; i bravì fanti della Savona, animati dal concorso della cavalleria e dalla presenza del Re e del valoroso generale Perrone, comandante della divisione, ricacciarono da Villa Visconti la colonna dell'Arciduca. Entrò in linea, a rinforzo di quest'ultimo, la brigata Stadion mentre giungeva ad Olengo l'altra divisione del II corpo, la Schaffgotsche. Il maresciallo D ' Aspre, dalla resistenza incontrata aveva compreso di avere a che fare con forze rilevanti e non con semplici retroguardie; ricevette anche notizie che davano il grosso dell'esercito piemontese, valutato a 60.000 uomini, tutto raccolto attorno a Novara. Mandò allora un messo al comando del III corpo, a Vespolate, perchè accorresse subito in suo aiuto; informò il comandante del IV di non andare più a Vercelli ma cli deviare su Novara, e comunicò al Comando dell'armata la nuova situazione.

La colonna dell'arciduca Alberto, rinforzata dalla brigata Stadion e da nuove batterie riprende l'attacco su Villa Visconti, dove la difesa della Savona è costretta a cedere. Si tratta però di perdita momentanea chè il bravo generale Perrone tornò all'attacco ancora con elementi della Savona e della Savoia che riconquistarono la villa, mentre una carica del Genova Cavalleria ricacciava ìl nemico sino alla Cavallotta. Si combatteva duramente anche al centro ed alla sinistra della 3., divisione; qui l'azione si era spezzettata fra i vari casolari senza · che nessuno dei due avversari riuscisse a compiere progressi. Alle 13 la divisione Schaffgotsche, giunta ormai tutta sul campo, era dal maresciallo D'Aspre ripartita fra le due colonne attaccanti che ebbero così la possibilità di riprendere l'attacco. L'arciduca Albe_rto sRinse le sue truppe fra i due nuclei della 3"' divisione di Villa V1scont1 e di C. Castellazzo: riuscì così a giungere fin sotto la Bicocca. Il Generai Magrriore, che trovavasi col Re su una vicina col~ b . 1metta, mandò ordine alla brigata Savoia, che si stava raccogliendo


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nei pressi, di contrattaccare. L'ordine, invece di essere trasmesso al comandante fu dato direttamente ai primi reparti incontrati i quali mossero senz'altro contro il nemico, ~guiti da tutti gli altri che però ignoravano dove e che cosa si andasse a fare: e lo ignoravano anche i comandanti di reggimento e di brigata. Ne nacque un tale disordine che l'azione, dalla quale avrebbero potuto conseguire risultati brillanti, riuscì invece soltanto a contenere il nemico. In questo episodio, mentre in prima linea cercava di riordinare i reparti e li incitava all'attacco, cadde il comandante della divisione Ettore Perrone di S. Martino. Il vecchio e valoroso soldato di Napoleone, l'ardente rivoluzionario e patriota chiuse con una morte eroica la vita tutta dedicata alla patria ed all'ideale di libertà. L'attacco della colonna Kolowratt aveva con temporaneamente provocato la caduta del Castellazzo : gli Austriaci erano riusciti ad in:ipadronirsi anche della C. Farsata, dove furon arrestati dalla resi· stenza dei bersaglieri e dal fuoco dell'artiglieria. Elementi della colonna Kolowratt, aggirata sulla sinistra la linea dei bersaglieri, procedettero verso la rotabile di Trecate. Il movimento fu subito avvertito dagli avamposti della brigata Solaroli che fece fronte a sud e li respinse; i bersaglieri valtellinesi contrattaccarono e costrinsero la colonna a riparare oltre il T erdoppio, verso Trecate. Il Solaroli non mosse oltre perchè aveva ordini precisi e tassativi di « difendersi ma non attaccare, chiedere soccorsi al Duca di Genova se ne avesse avuto bisogno ed aderire alle richieste di quest'ultimo ». In quel mentre la 4a divisione avanzava a sostegno della 33 • A mezzodì il generale Chrzanowski aveva mandato ordine al Duca di Genova di dare il cambio alla 3,. divisione; intendeva il General Maggiore continuare con la 4a a logorare il nemico con una difensiva molto attiva, ritirare la 3• divisione in seconda schiera> riordinarla e poscia passare con tutte le riserve all'offensiva. Ma nel momento in cui la 4" divisione arrivava alla Bicocca non si trattava più di sostituire in linea la 3a ma di ricacciare le truppe del II corpo austriaco che erano arrivate assai da presso ai caseggiati e di cui la colonna dell'arciduca Alberto era particolarmente minacciosa. Il Duca di Genova arrivò alla Bicocca con la brigata Piemonte in testa; le due batterie erano già in posizione a sud del cimitero di San Nazario; seguiva la brigata Pinerolo. I fanti della Piemonte furon lanciati subito all'attacco. Il 3° fanteria Piemonte, alla cui testa era il generale Passalacqua comandante della brigata, avanzò impetuosamente a destra della strada ed


BATTAGLIA Dl NOVARA: UFflCIALI DELLA BRIGATA SAVONA> RIUNITI

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ebbe rapidamente ragione degli Austriaci che occupavano i vari cascinali; cadeva iJ Passalacqua, colpito al petto, ma i fanti del reggimento non si arrestavano: infiammati anzi dal desiderio di vendicare la morte del valoroso comandante si gettarono alle calcagna degli Austriaci arrivando nella foga dell'inseguimento sino alla Cavallotta: gui artiglierie nemiche site nei pressi del Castellazzo batterono violentemente, da posizione dominante, il reggimento che era contemporaneamente contrattaccato da fresche fanterie austriache : fu costretto a ritirarsi. Ma fu successo di brevissima durata per gli Austriaci: il Duca cli Genova fece subito avanzare, sulla stessa direttrice del 3° fanteria Piemonte, il 13° Pinerolo: contemporaneamente, per ordine del General Maggiore, un reggimento della 2'). divisione, l'n° Casale, concorreva al nuovo attacco nella valle dell' Arbogna insieme con una batteria. L'attacco, ben condotto ed appoggiato assai efficacemente dalle batterie, riuscì in pieno: sono riconquistate C. Gavinelli e Villa Visconti costringendo i difensori della prima a fuggire verso i Torrioni di Quartara e gli altri a trovare riparo alla Cavallotta. Maggiori successi conseguiva l'altra colonna della divisione. Il 4" Piemonte, del colonnello Cucchiari, con un battaglione della Savona aveva raggiunto il Castellazzo; gli Austriaci tentavano di resistere e cercarono altresì di contrattaccare, ma sopraggiunto il 14° Pinerolo col Duca di Genova all a testa furono costretti ad abbandonarlo. Il Duca di Genova non ritenne sufficiente il successo conseguito e volle completarlo liberando del tutto e profondamente il terreno dai nemici davanti alla Bicocca. Riprese perciò la marcia e puntò risolutamente su Olengo da dove cacciò gli Austriaci.

Erano le 14. Il II corpo austriaco era stato ripetutamente battuto. Delle forze piemontesi la 3.. divisione aveva sostenuto duri combatti.menti: i successivi attacchi e contrattacchi l'avevano un po' disordrnata e tra le fila dei suoi reparti vi era un certo numero di dispersi: era n el complesso in condizione di riprendersi rapidamente. La 4a era in ordine: elev:1tissimo il morale, non gravi le perdite. Le altre truppe pressochè intatte : non avevano, può dirsi, combattuto. Oltre al concorso di un re<Y<YÌmento della 2• divisione . b~ aIla operazione controffensiva della 4• ed all 'episodio della brigata Solaroli, rapidamente e vittoriosamente conclusisi, vi era stata verso mezzodì una piccola azione sulla fronte della 1" divisione. Il


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distaccamento inviato dall'arciduca Alberto sulla sua sinistra era giunto al Torrione Quartara dopo aver incontrato pattuglie del Nizza che non avevano potuto valutarne l'e,utità; occupò facilmente il Torrione ed aprì il fuoco con la sezione di artiglieria contro le linee della divisione Durando. Fu subito messo a tacere dalla superiore artiglieria della divisione e costretto a ritirarsi al riparo dei caseggiati. 11 Durando, pur avendo avuta conferma del ripiegamento da ricognizioni del Nizza Cavalleria, non mosse ritenendo di non dover deflettere dall'atteggiamento difensivo ordinatogli. La divisione del Duca di Savoia non aveva impiegato nessuno dei suoi reparti. Nuclei di cavalleria mandati ad esplorare verso Vercelli nulla avevano segnalato. Alla stessa ora, circa le 14, il III corpo austriaco, mentre il Duca di Genova si impossessava di Olengo, stava per arrivare con la testa a Moncucco, a due chilometri da Olengo. Tenuto conto del tempo necessario per completare la marçia e per schierare le truppe il III corpo non sarebbe stato in grado di intervenire con tutte le forze prima delle 16. Gl i altri corpi erano ancor lontani. Il maresciallo Radetzky, non appena ricevuta notizia che a Novara vi erano forze considerevoli, aveva mandato ordine al IV corpo di abbandonare la direttrice di Vercelli e puntare su Novara; al I ed al I di riserva di accorrere sul campo di battaglia. Qualche ordine non giunse, qualche altro arrivò in ritardo, però fra le 14 e le 16 i tre corpi d'armata avevano iniziata la marcia su Novara. Il Thurn ed il W ratislaw di iniziativa aveva.no cambiato direzione di marcia dirigendosi su Novara. Gli altri ricevettero l'ordine, ma ad ogni modo pur marciando con la massima celerità il IV, il I ed il I riserva non potevano essere sul campo di battaglia che fra le r7 e le 20.

Questa situazione del nemico non era nota al generale Chrzanowski, ma non gli era certamente ignoto che nel momento del fortunato contrattacco della 4" divisione non vi erano altri nemici all'infuori di quelli contro i quali si era combattuto alla Bicocca, e del piccolo distaccamento del T orrione; parrebbe perciò che a questo punto la prosecuzione dell'attacco del Duca di Genova sostenuto dallà 2"' divisione, la quale dal mattino assisteva alla battaglia con le anni al piede e non aveva nemico davanti, sarebbe stato più che mai opportuno: avrebbe potuto portare alla completa distruzione del nemico presente e battere anche il III corpo che stava per arrivare,


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decidendo della battaglia. Il generale Chrzanowski non seppe trarre pro.fitto del momento fortunato ed ordinò invece alla 4• divisione di ripiegare da Olengo a nord del Castellazzo. Era la peggiore delle risoluzioni : il morale già altissimo delle brigate Piemonte e Pinerolo non poteva che cadere di colpo e con loro anche . quello di tutti gli altri che al felice con trattacco avevano partecipato o assistito: gravissimi dovevano essere i pericoli su altre parti della fronte se si era costretti a troncare, ripiegando davanti al nemico in fug a, un'operazione cosl ben avviata. Doveva per contro elevarsi il morale del nemico i cui capi vedevano già con la prosecuzione dell'attacco le loro truppe riversate in disordine sulle colonne in marcia del III corpo il quale era già stato alquanto disordinato dal carreggio del II. Il ripiegamentc della 4a divisione dette modo agli Austriaci di spiegare con tutta tranquillità il III corpo la cui divisione Lechnowski rinforzò immediatamente le colonne dell'arciduca Alberto e del generale Kolowratt che i due capi avevano riordinate e riportate avanti non appena accortisi del ripiegamento piemontese. Con questi elementi, al cui tergo avanzavano la divisione Lechnowski del III corpo e la cavalleria, gli Austriaci marciarono di nuovo contro la Bicocca. Qui lo Chrzanowski aveva chiamato parte della divisione di riserva : il reggimento Cacciatori Guardie, il 7° fanteria Cuneo e la I n batteria · da posizione. La battaglia riprese violenta verso le 16: ancora vi erano alla Bicocca soltanto la 4• divisione ed i resti della 3a che combattevano frammischiati con i primi; tutte le batterie delle due divisioni erano schierate. Il combattimento, dopo le prime avvisaglie tra il Castellazzo e la Cavallotta, divenne accanito a C. Farsata ed a Villa Visconti. A C. Farsata resistevano tenacemente il 4° Piemonte ed il 14° Pinerolo; a Villa Visconti, insieme col 3° Piemonte e col 13° Pinerolo, anche l'n° Casale della 2" divisione, la quale col resto delle sue truppe continuava, per ordine del Generai Maggiore ad assistere inoperosa alla battaglia. Quattro batterie sostenevano i difensori. Neanche con l'intervento del III corpo il nemico riusciva ad avere ragione delle valorose truppe della 4n divisione che ancora costituivano il nucleo della difesa: la colonna austriaca diretta a C. Farsata conseguì sulle prime qualche progresso ma non potè proseguire; gli attaccanti Villa Visconti furono costretti a ripiegare sulla Cavallotta.


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Le fanterie àei due avversari erano stanchissime; tacque per qualche tempo la fucileria, mentre proseguiva vivacissimo il fuoco delle batterie. Quattro nuove batteri~austriache furono schierate alla Cavallotta per avere ragione della tenace resistenza nemica, ma ad esse rispondeva ancora assai validmente l'artiglieria piemontese. Il maresciallo Radetzky aveva assistito all'ultimo attacco; si era poi spostato verso l'Agogna per accelerare l'arrivo sul campo di battaglia del IV corpo, la cui comparsa avrebbe dovuto decidere le sorti della battaglia: non riteneva di poter conseguire la vittoria con le sole forze del II e del III; gli altri erano ancor troppo lontani. Il generale Chrzanowski, sempre presente alla Bicocca col re Carlo Alberto, credette, alle 17, venuta l'ora di prendere una decisione. Egli ormai non riteneva più possibile vincere la battaglia, ma presumeva che lanciando verso la Bicocca la 2" divisione, sostenuta dalla 1", sarebbe riuscito ad arrestare l'impeto del nemico qualora, come egli riteneva sicuro, avesse rinnovato l'attacco contro la Bicocca. Sperava così di non abbandonare il campo di battaglia, trarre profitto della notte per riordinare le truppe e ricominciare la battaglia il giorno seguente. Concezione di un uomo che ha perduta la fede e che spera sempre si presenti un momento migliore. Tardivo in ogni caso l'intervento delle due divisioni 1 .. e 2 3 che erano state inutilizzate l'intera giornata, mentre parecchie occasioni si erano presentate per un impiego utile della 2 .. divisione la quale aveva già dimostrato alla Sforzesca di essere un ottimo strumento di guerra. Alle 17 la 2" divisione ebbe ordine di far avanzare la brigata provvisoria con movimento di cambiamento di fronte obliquo, l'ala destra avanti, per cadere sul fianco sinistro delle colonne austriache che attaccavano la Bicocca. Il movimento fu ben eseguito, in ordine, e le batterie messe in grado di appoggiare la brigata; il Piemonte Reale: Cavalleria era a sostegno dell'ala destra; il 12° fanteria Casale in riserva. Alla stessa ora perveniva alla la divisione ordine di « avanzare senza però compromettersi, onde assecondare il movimento offensivo che stava per eseguirsi dalla divisione Bes contro la Bicocca >>. A malgrado della sibillinità dell'ordine, dove la frase « senza però compromettersi )) toglieva ogni slancio al comandante, il Durando ritenne che per risollevare le sorti della giornata la migliore cosa era lanciarsi risolutamente all'offensiva: mosse quindi all'attacco del Torrione Quartara con la brigata Aosta sostenuta da tutta l'artiglie-


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r ia. Lasciò l'aitra brigata sulla linea di partenza per garantirsi la destra. Rapida e facile fu la conquista del Torrione Quartara.

Ma era purtroppo v1cmo il momento del tragico epilogo. Mentre la 1"' divisione conqui stava il Torrione e la 2"' si accingeva a cadere sulla colonna austriaca che nuovamente attaccava la Villa Visconti, pervenne ai due comandanti, dal capo di stato maggiore, ordine di ripiegare. Il generale Alessandro Lamarmora aveva assistito al cedimento dell'ala sinistra della 4" divisione, che però ancora si manteneva davanti alla Bicocca; aveva visto nuove colonne nemiche avanzarsi sulla strada di Mortara ed aveva temuto che, ove fosse riuscito al nemico di conquistare la Bicocca, sarebbe arrivato a Novara tagliandone fuori le altre forze piemontesi. Di sua iniziativa, senza che il Generai Maggiore ne fosse a conoscenza, ordinò la ritirata alle due divisioni. Non pensò il Lamann ora che l'attacco che la divisione Bes tra sul punto di condurre rappresentava l'unico espediente capace di evitare quanto egli temeva. Il generale Bes rilevò l'inopportunità dell'ordine che lo costringeva a far retrocedere le truppe mentre erano già a contatto col nemico e decise, in un primo momento, di proseguire nell'attacco; ma di fronte alla conferma dell'ordine dovette obbedire. La battaglia era, a questo punto decisamente perduta: non già perchè gli Austriaci fossero riusciti ad avere il sopravvento sul campo nè per la minaccia, ancora ignota al quartier generale, del IV corpo austriaco ; ma perchè il Comando supremo piemontese ritenne di aver perduta la partita prima di avere assennatamente impiegato tutte le forze di cui disponeva.

Alle 17,30 giungeva ad Olcngo il I corpo di riserva. Le divisioni di tre corpi austriaci mossero compatte contro la Bicocca. Tutte le artiglierie furono schierate per preparare ed appoggiare l'attacco. Nessuna molestia sul loro fianco sinistro perchè la divisione Bes già ripiegava; nessuna alla destra, dove avrebbe potuto essere chiamata ad agire la brigata Solaroli, poco lontana e sempre in attesa di un ipotetico attacco da oriente.


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Di fronte, a difesa della Bicocca, la 4"· divisione con i resti della 3": sulla loro destra il reggimento Guardie, il 7° fanteria Cuneo e la batteria giunti in rinforzo dalla divisione di riserva. L'artiglieria austriaca era ormai in netta prevalenza. Sul cadere del giorno la Bicocca, sulla quale così valorosamente avevano combattuto le due divisioni, era in mano del nemico. La 4" divisione però, tuttora combattiva e sempre nelle mani del suo valoroso comandante, il Duca di Genova, impedì al nemico di entrare in Novara e permise lo sfilamento delle altre divisioni.

Mentre così dolorosamente si concludeva alla Bicocca una giornata che era stata onorevole per le armi piemontesi, ad occidente di Novara la divisione del Duca di Savoia impediva al IV corpo austriaco di trasformare in rotta disastrosa la disgraziata giornata. Il Thurn, la cui avanguardia era giunta alle 17,30 al ponte sull'Agogna, aveva subito tentato di irrompere in Novara. I Granatieri Guardie, i reggimenti Savoia e Novara Cavalleria, due batterie a cavallo respinsero l'avanguardia del IV corpo e vietarono alla divisione austriaca di testa di proseguire l'avanzata. Intanto la colonna di destra del IV corpo e la brigata Aosta della divisione Durando che sfilavano l'una ad occidente e l'altra ad est del cavo Dassi si erano avvistate e ne era nato uno scambio di fucileria che aveva provocato l'arresto e lo schieramento della colonna austriaca. Il Thurn, impensierito dalla minaccia di cui l'oscurità vietava di valutare la consistenza e nell'ignoranza dell'esito della battaglia, non volle avventurarsi in un attacco notturno ed arrestò le sue truppe. Anche i corpi austriaci che avevano conquistato la Bicocca non inseguirono. Stanchi per le lunghe marce e per i duri combattimenti si arrestarono, paghi di una vittoria che per molte ore non avevano neppure osato intravedere e che la fortuna, non certamente il maggior valore delle truppe, aveva loro donato. La giornata era costata agli Austriaci 4IO morti, 1850 feriti, 877 dispersi; ai Piemontesi 518 caduti sul campo, 1405 feriti, 409 dispersi. Perdite quasi uguali, come pari era stato il valore. Il piccolo numero cli dispersi dell'armata piemontese, inferiore a quello del vincitore, sta a dimostrare che n:on lo sbandamento della fanteria sul campo di battaglia sia stato causa dell'insuccesso, come poi sostenne il Genera! Maggiore. I reparti combatterono e si mantennero saldi di fronte al nemico nelle cui mani lasciarono un assai piccolo numero


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di prigionieri. Se sbandamento poi vi fu entro Novara esso fu causato dalle disposizioni . date per l'affrettato ripiegamento e dal momento in cui l'ordine fu dato. Lontane, la 5a e la 6" divisione e la brigata d'avanguardia non avevano esercitato altra influenza sull'andamento della campagna all'infuori di quella di far mancare al momento risolutivo un quarto delle forze sul campo di battaglia. La 5" divisione la sera ciel 23 marzo, dopo aver sentito tuonare violentemente il cannone da Novara, si mise in marcia per Alessan<,Ìria seguita dalla brigata d'avanguardia. La divisione del Lamannora aveva occupato Parma il giorno 22; vi fu fermata da una comunicazione del ministro della guerra, generale Chiodo, che esprimeva nere previsioni sull'andamento della campagna a causa dell'episodio di Mortara. L'armistizio la trovò a Parma. Re Carlo Alberto abdicò: la morte non lo volle sul campo dove era stato esempio di valore ai soldati nei momenti più duri e nei punti più caldi. L'ascesa al trono di Vittorio Emanuele II, che doveva mostrare, con la fierezza davanti al Radetzky e la fermezza nel mantenere lo Statuto, di essere già il simbolo dell'Italia una, indipendente e libera; l'armistizio, la pace esulano dal nostro intento di rievocare le operazioni militari che, or è un secolo, gettarono pur nella sfortuna le basi del Risorgimento italiano. Ma pur nella sfortunata prova delle armi, che non erano state ben temprate nella mancanza di concordia, gli Italiani si batterono valorosamente : Piemontesi, Lombardi, Valtellinesi, Bergamaschi nel breve cido della campagna, Veneti e Romani a Venezia ed a Roma; i Bresciani nelle Dieci Giornate,: i Siciliani contro la reazione del Borbone. Nello stesso Piemonte la gloriosa difesa di Casale concludeva con un magnifico episodio di valore la sfortunata campagna. Piccolissimo il presidio: un centinaio di fanti e qualche diecina di artiglieri; otto i cannoni del Castello; scarse le munizioni. Saldo però il cuore del comandante, il fiero e risoluto Solaro di Villanova; fortissimi i Casalesi e fermi nel non volere che la città cadesse in mano del nemico. Il Solaro aveva apprestata la difesa non appena conosciuti gli avvenimenti di Mortara: chiamata la Guardia Nazionale, questa risponde compatta alla chiamata ed entra subito in azio-


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ne; si aggiungono sbandati provenienti da Mortara. La difesa è rapidamente organizzata; ricognizioni sono spinte oltre Po. La sera del 23 il Wimpffen da Pavia marcia"'.a su Casale: fu avvistato. Attaccò il 24 alle nove ed ingiunse la resa per le ore dodici. Solarolo rifiutò; i cittadini lo sostennero. Nel pomeriggio un attacco in forze riesce a rendere gli Austriaci padroni del ponte, ma cittadini e soldati si battono disperatamente e mantengono il possesso del Castello e della città. Nella notte sul 25 arrivano mun.izioni da Alessandria; ufficiali giunti da Torino si uniscono ai difensori e li inquadrano meglio. Si combatte ancora furiosamente il mattino del 25 : l'attacco tentato con tutte le forze della_divisione austriaca è respinto; gli otto cannoni ciel Castello hanno m ietuto largamente tra le fila austriache; i difensori hanno tenuto fronte al nemico vietandogli qualsiasi progresso. Nel tardo pomeriggio del 25, fu ufficialmente nota ·1a conclusione dell'armistizio: le ostilità furono sospese. Gli Austriaci non entrarono in città e dovettero porre il campo fuori del tiro dei cannoni del Castello. Popolo e soldati avevano difesa la libertà e tenuto alto l'onore. Valore e .fierezza pari a quelli dei tanti eroi che in tutte le regioni d'Italia, come sui campi di Novara, si erano battuti e si battevano per la libertà, l'unità, l'indipendenza della nostra sacra e bella terra.

Un ignoto scrittore, forse Carlo Promis, scriveva nel 1849: « Se tutti i prodi Italiani che caddero in Sicilia tra gli orrori di qudla guerra fratricida, e quelli che_soccombettero a Napoh sotto il ferro dei pretoriani di quel re; se i generosi che caddero a Roma, e gli sventurati che vennero trafitti a Milano, a Bologna, a Firenze, a Livorno, ad Ancona, a Brescia, dal piombo dell'inesorabile conculcatore dei diritti dei popoli, fossero stati tutti sui campi di Novara, il concorso di tanta risoluta ed intrepida gioventù avrebbe potuto assicurare la vittoria all'italico vessillo ... ». Ma, aggiunge, << le intestine discordie suscitate dai nostri irreconciliabili nemici, che dir possiamo i nemici del progresso e dell'in-· civilimento europeo, portando la divisione ... >>. Parole amare: rispecchiano però la situazione ciel 1849, che da una politica incerta fece nascere una guerra mal preparata; condt1sse a Novara, dove il valore dei singoli non valse a porre un riparo agli errori di impostazione e di condotta, dove al comandante straniero mancarono fede ed energia.


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Da valorosi si batterono i bersaglieri del Manara ed i fanti lombardi alla Cava; i bersaglieri, i fanti, i cavalieri del Montevecchio a S. Siro; i fanti delle brigate Savona e Savoia, i cavalieri di Piemonte Reale alla Sforzesca; ed ancora le brigate Savona, Savoia, Piemonte, Pinerolo, Casale, Aosta, Granatieri a Novara con i cavaiieri del Piemonte Reale, del NÌzza e del Novara; i bersaglieri valtellinesi; i marinai del Real. Navi. Gli artiglieri su tutti i campi di battaglia. Si immolarono generali come Perrone e Passalacqua: compirono prodigi di valore i Principi cli Savoia. Ma a nulla valse. Il sacrificio doveva compiersi: il servaggio sotto lo straniero continuare ancora lunghi anni, la reazione essere più dura e più spietata perchè fosse possibile concludere, con la concordia degli animi e l'unità degli intenti, la grande opera del Risorgimento.

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1848-1849 A LLEGATO 1 .

QUADRO DI BATTAGLIA DELL'ESERCITO PIEMONTESE NELLA CAMPAGNA DEL

1849

Comandante supremo: S. M. il re Carlo Alberto. Generale Maggtore: generale Alberto Chrzanowski. Capo di S. M.: generale Alessandro Lamarmora. Sottocapo di S. M.: generale Luigi Fecia di Cossato. Truppe a disposizione del Comandante supremo:

III e IV battaglione bersaglieri; · 3.. batteria da posizione; ¾10" batteria modenese; 2 "' compagnia pontieri; 1 .. e 2 .. compagnia minatori; 8" compagnia zappatori; parchi. la

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divisione:

Comandante: generale Giovanni Durando; brigata Aosta (5° e 6° fanteria); brigata Regina (9° e 10° fanteria); 5.. compagnia bersaglieri; Nizza Cavalleria; 6" ed 8" batteria da battaglia; 2" compagnia zappatori; parco divisionale. 2"

divisione:

Comandante: generale Bes; brigata Casale (n° e 12° fanteria); brigata composta (17° e 23° fanteria); 6a. compagnia bersaglieri; Piemonte Reale Cavalleria; 4°' batteria da battaglia; 2 batteria da posizione; 3" compagnia zappatori; parco divisionale.

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LE OPE RAZIONI MILITARI DEL

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]"' divisione:

Comandante: generale Perrone; brigata Savoia (1° e 2° fanteria); brigata Savona (15° e 16° fanteria); 7'' compagnia bersaglieri; Genova Cavalleria; 3.. e 1 batteria da battaglia; 6.. compagnia zappatori; parco divisionale.

....

4a divisione: Comandante: S. A. R. il Duca di Genova; brigata Piemonte (3° e 4° fanteria); brigata Pinerolo (13° e 14° fanteria); 8.. compagnia bersaglieri; Aosta Cavalleria; 9" batteria da battaglia; 4"' batteria da posizione; 5"' compag nia zappatori; parco divisionale. 5"' divisione:

Comandante : generale Ramerino; Ia brigata lombarda (19° e 20° fanteria); 2" brigata lombarda (21° e 22° fanteria); VI battaglione bersaglieri; battaglione studenti; legione ungherese; legione polacca; reggimento Cavalleggeri Lombardi; una batteria da battaglia; una batteria da posizione; una compagnia zappatori del gemo; parco divisionale. Divisione di riserva:

Comandante: S. A. R. il Duca di Savoia; brigata Guardie (1° e 2° Granatieri Guardie, 6° Cacc. Guardie); brigata Cuneo (7° e 8° fanteria);

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IL PRIMO PASSO VERSO L'UNITÀ D'ITALIA.

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Savoia Cavalleria; Novara Cavalleria; ra e 2., batt.eria a cavallo; r"' batteria da battaglia; r" batteria da posizione; compagnia zappatori; parco divisionale.

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Brigata d'avanguardia:

Comandante: colonnello Bel vedere ; 18° reggimento fanteria; I battaglione bersaglieri; V battaglione bersaglieri; 3"' batteria a cavallo. 3., brigata composta:

Comandante: generale Solaroli ; 30° reggimento fanteria; 31° reggimento fanteria; battaglione Real Navi; battaglione Valtellinesi; battaglione Bergamaschi; due squadroni cavalleria; batteria lombarda; 4a compagnia zappatori. Nota: Alcune divisioni disponevano anche di un certo numero di quarti battaglioni.

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LE OPERAZIONI MILITARI DEL

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IOI ALLEGATO 2.

QUADRO DI BATTAGLIA DELL'ARMATA AUSTRIACA NELLA CAMPAGNA DEL

1849

Comandante: feldmaresciallo Radetzky. Capo di S. M. : feldmaresciallo Hess ..

I corpo d'armata: Comandante : feldmaresciallo W ratislaw; quattro brigate di fanteria; 5° reggimento ussari; cinque batterie; ma compagnia pontieri.

11 corpo d'armata: Comandante: feldmaresciallo D'Aspre; quattro brigate di fanteria; 7° reggimento ussari; cinque batterie; II"' compagnia pontieri.

Ili corpo d'armata: Comandante: feldmaresciallo Oppel; cinque brigate di fanteria; reggimento cavalleria Liechtenstein; otto batterie;

IV corpo d'armata: Comandante: feldmaresciallo Thurn; tre brigate di fanteria; reggimento ulani aciduca Carlo; cinque batterie. Corpo di riserva:

Comandante : feldmaresciallo Wocher; quattro brigate di fanteria; tre squadroni; sette batterie. Artiglieria di riserva: quattro batterie. Nota: Le batterie austriache erano su 6 pezzi; quelle piemontesi su 8.


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IL CONTRIBUTO D ELLE ARTI E DELL E LETTERE « Quando le lettere formavan, come debbono, parte delle istituzioni, che reggevano i popoli, e non si consideravano ancora come confor to, bensì come utile ministero, fu detto il poeta non essere un accozzatore di sillabe metriche, ma un uomo libero, spirato dai Numi a mostrare agli uomini la verità sotto il velo dell'allegoria >i . Così un giovane genovese poco più che ventenne, pochi anni dopo il fallimento della grande esperienza rivoluzionaria del '20-21, .si chinava pensoso a indagare l'ufficio della poesia, che « come figlia del cielo, si nutre di libertà », nella ricerca intrapresa delle ragioni e delle forme dell'amor patrio di D ante. « N e' bei secoli della Grecia, i poeti, non immemori della loro sublime destinazione, consacravano il loro genio all'utile della patria », ma la degenerazione della civiltà, l'immoralità, il lusso e il tempo avevano piegato lo spirito degli uomini alla servitù, ed allora anche la poesia era decaduta dalla sua alta missione: Pochissimi erano stati i poeti che non si fossero prostituiti alla tirannide politica; tra questi primo l'Alighieri. Al culto e allo studio di lui il giovane Mazzini incitava i suoi contemporanei, a suggerne dalle pagine « profondamente energiche » lo « sdegno magnanimo >> di cui si nutriva l'anima sua, « chè l'ira contro i vizi e le corruttele è virtù ))' ad apprendere da lui << come si serva alla terra natìa, finchè l'oprare è vietato; come si viva nella sciagura ». Era, con l'invocazione a non dimenticare mai « che il primo passo a produrre uomini grandi sta nello onorare i già spenti», l'eco della foscoliana esortazione « alle istorie », il rinnovato riconoscimento dell'ufficio civile, della missione patria dell'arte e delle lettere. E ancora nel '28, recensendo l'opuscolo di Paride Zaiotti « Del romanzo in generale ed anche dei Promessi Sposi », ribadiva il Maz-


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zini l'invito a dar vita ad una letteratura originale, nazionale, « interprete eloquente degli affetti, delle idee, dei bisogni e del movimento sociale», esaltando contro il Botta « gli uomini che s'aggirano religiosi tra le rovine dell'antica grandezza, e dissotterrano a conforto ed esempio dei nipoti ogni reliquia de' tempi trascorsi)). Ma non sterile contemplazione, nè retorica esaltazione di quella grandezza chiedeva agli scrittori ed agli artisti, perchè << abbiamo bisogno di convalidare l'anime giovani con forti esempli e magnanime imprese. Poi, dalla religione delle memorie alla religione dei fatti, il passo è breve; e il tempo deciderà se i figli dei forti, che versarono il sangue per lo straniero, rifiuteranno versarlo per la loro terra nei campi delle patrie battaglie )) (prefazione all' << Orazione per Cosimo Delfante di F. D. Guerrazzi )) , 1832). E, bandito ormai il credo della Giovine Italia, convocava letterati e scrittori a questa grande opera di pedagogia nazionale: << Pensate a rinnovare l'edificio intellettuale cogli scritti, poichè il politico non potete; scotete le menti, mutando il punto di mossa, e la linea di direzione, scrivete storie, romanzi, libri di .filosofia, giornali letterarii: ma sempre colla mente all'intento unico che dobbiamo prefiggerci, col core alla patria. Scrivete, ma rinfiammando sempre colle allusioni, colla riverenza a' grandi intelletti liberi, coll'adorazione alla patria, col concetto dell'indipendenza, i vostri lettori. Dissotterrate i documenti delle nostre glorie e delle nostre virtù, ch'oggi dormono ne' sepolcri de' nostri grandi, risuscitate, colla pittura delle antiche battaglie e ·degli antichi sacrifici, l'antico valore)) . (« Pensieri ai poeti del secolo XIX))' 1832). La funzione dell'arte e delle lettere era per lui interamente subordinata a un fine etico, la creazione di una letteratura nazionale. La quale, però, ricordava agli Inglesi nel '37, non poteva esistere in Italia se prima non si risolveva la questione politica, come lo dimostrava il fatto che << ogni scritto intorno al moto intellettuale italiano dovrebbe avere a commento la lista dei proscritti d'Italia )) e « tra le carceri e le proscrizioni andava maturandosi al meglio la mente italiana l> (« Moto letterario in Italia ))). Ma, in realtà, questo ufficio al quale il Mazzini voleva indirizzare l'animo e le forze di poeti, letterati ed eruditi era stato sempre in qualche modo sentito, nè l'idea della patria s'era mai spenta del tutto nella coscienza degli Italiani colti, anche se troppo spesso ridotta ad esercitazione meramente letteraria. Senza risalire agli esempi famosi dei grandi secoli della nostra letteratura, durante lo stesso periodo della preponderanza spagnola troviamo numerosi gli scrittori

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e i poeti preoccupati per la decadenza italiana e per gli eventi che si compiono a danno della Penisola. Quando, alla .fine del '600, Luigi XIV fa bombardare Genova, le dolenti rime di C. M. Maggi lamentano non senza efficacia la debolezza e le sciagure d'Italia. E ai suoi versi fa eco G. B. Pastorini, che immagina la Libertà che s'aggira tra le macerie prodotte dalle artiglierie francesi e le bacia, esclamando « mine sì, ma servitù non mai ». E i poeti cbe traggono la loro ispirazione dagli avvenimenti contemporanei e deplorano le condizioni d'Italia, augurando nuove e migliori fortune, sono numerosissimi anche durante l'inquieto e riformatore Settecento. Frequenti sono gli elogi in prosa e in versi, soprattu'tto, per i sovrani sabaudi, ai quali tanta gloria procuravano gli eventi militari e politici. Nè ci stupisce, se .fin dal 1629 un grande letterato e fine politico spagnolo, F rancisco de Quevedo, aveva saputo leggere nell'animo del « duque de Saboya » l'intenzione di far propria l'esortazione del Machiavelli a liberare l'Italia dai barbari e di « edificarse libertador de Italia, tfrulo difkil cuanto magnifico ». Un'eco di predizioni politiche e di aspirazioni nazionali si coglie nei fluenti decasillabi che Paolo Rolli dettava per la incoronazione di Vittorio Amedeo II a re di Sicilia. In quella « nostra caput regni, regumque corona Panormus J>, come suona il solenne esametro della cattedrale palermitana, tutte le speranze appaiono lecite, da quando l'antico valore italiano, rifugiatosi ai piè delle Alpi, ha dato vita a questo nuovo audace trono. Nel primo cinquantennio del Settecento questi prìncipi sabaudi godono effettivamente di una grande popolarità in Italia e ~ll'estero, suscitando speranze negli uni, timori negli altri. Il marchese Rinuccini, inviato di Toscana a Utrecht, vede in Vittorio Amedeo II, prossimo a diventar re di Sicilia, un'aspirazione a impadronirsi di Milano e di Napoli, e cc in qualche favorevole congiuntura>) pronto senz'altro ad andare « in groppa a disegni più vasti e niente inferiori al capitale, dell'avvicinare la sua Casa alla Corona di tutta l'Italia». E addirittura come « il re di Prussia d'Italia )) paventeranno un trentennio dopo alla Corte di Roma il suo successore, secondo quanto scriveva al proprio Governo nel 1744 il segretario dell'ambasciatore imperiale. E, un biennio più tardi, l'inviato di Francia a F irenze sottolineerà il progetto attr ibuito al Re sardo e< de tacher de devenir le maitre de toute Italic >J, progetto tanto più grave « qu'elle (l'Italia) connait qu'elle ne sera heureuse que lorsqu'elle sera sous la domi-


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nation d'un seul souverain, et parce qu'elle regarde le Roi de Sardaigne comme son patr.iote ». Il sentimento d'una coscienza nazionale, anche se spoglio ancora d'un preciso contenuto politico, si fa vivissimo in scrittori nobilissimi d'ogni parte d'Italia, dal Tosini, che in qualche modo anticipa il << Primato », al Radicati di Passerano, che salda Machiaveili al riformismo del secolo. Alcuni avvenimenti del Settecento assunsero, inoltre, vero e proprio carattere nazionale, e come tali ispirarono poeti e scrittori, che riuscirono a sottrarsi alla troppa archeologia poetica delle rovine gloriose e alla pedissequa imitazione del sonetto fìlicaiano, condannato dal Foscolo come « il refugio degli infingardi, il testo apologetico dei timidi ». Tra codesti avvenimenti, la liberazione di Genova nel 1746 suscitava gran .fioritura di poesie patriottiche, moltissime delle quali d'origine popolare. Il popolo, che aveva compiuto la gesta, mostrava di comprenderne il significato più della vecchia e logora oligarchia governativa. E una vera attestazione di solidarietà nazionale provocava anche l'eroica resistenza della Corsica ai Francesi, e « infaticabile difensore della Patria e gloria dell'armi e del valore italiano>> veniva salutato nel 1796 Pasquale Paoli, al quale il Parini consacrava un discorso, il Pignotti una canzone. La volontà di non rinunciare alla propria patria si coglie anche in quelli che ne andavano mendicando una per le contrade d'Europa, come nell'Algarotti, che augurava la redenzione d'Italia dalla presente decadenza, timoroso solo che la gioia di assistervi fosse serbata ai tardi ncpoti. E, nel 1752, da Potsdam, esaminando quanto avesse contribuito l'Italia alla superiore cultura francese, scriveva al Frugoni ,, quando gli altri dormivano ancora, noi eravamo desti l> . Come non pensare al Giusti di « Gino, eravamo grandi e là non eran nati » ? Contro l'invadenza straniera e il non meno pericoloso regionalismo combattono molti dei letterati e degli eruditi del secolo, mentre altri mirano in varia misura alla glorificazione dell'Italia in ogni campo del sapere e le accademie bandiscono concorsi su temi non diversi da quello della Mantovana (1784), « Con quali mezzi promuovere l'amor di patria >>. Ma, verso la fine del secolo, più potente delle altre, poichè non fu nè la sola nè la prima, tuona la voce di Vittorio Alfieri, che grida nel suo « Del principe e delle lettere » la fede in un prossimo risorgimento della patria, morale e politico insieme, ed incita gli Italiani a liberarla dai barbari. E al popolo italiano futuro dedicherà poco dopo il « Bruto secondo l>. Ormai l'Italia è

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pronta ad accogliere la rivoluzione, a salutare liberatore e vendicatore jl giovane generale ventisettenne, del quale, nel consacrargli un'ode, riassumeva lapidariamente la gloria Ugo Foscolo. C'erano, sì, ancora Italiani che s'acconciavano solleciti a tutti i mutamenti e a tutti i ritorni purchè fosse salvo il pane quotidiano, ed eran pronti a cantare,. come un molle poetastro veneziano, Per mi la vaga come la sa andar, che se la xe la volontà de D io andemo tuti a farse buzarar,

ma, o per Francia, o contro Francia, in un' Italia rigenerata molti credevano, anche se la voce di Vittorio Barzoni, auspicante un unico impero italiano con Roma capitale e l'arciduca Carlo imperatore, rimaneva senza eco, nè apparivano meglio giustificate le speranze di chi sognava la fusione di Genova, di Venezia, del Piemonte « colla repubblica ora Cisalpina, ma, quanto prima italiana» . L'angoscia di riconoscersi « liberi no, ma in altro modo schiavi » dettava versi roventi ad alcuni, mentre molti altri alla nuova libertà consacravano prose e canzoni. E qualcuno di quei poeti sconterà nella reazione del N ovantanove la generosa passione, come Eleonora Fonseca Pimentel e Ignazio Ciaia. Se l'illusione di una unificazione italiana ad opera deila Francia non si avverava, nè si adempieva il voto di A ntonio Buttura, Parigi e R oma leveran la fronte: Se il mondo intero fe' tremar ciascuna, Che farann'ambe in leal nodo aggiunte ?

il radicale rinnovamento suscitato dalla rivoluzione e la successiva sistemazione imposta dal genio e dal prepotere napoleonico non passavano invano per l'Italia. L'Alfieri, spiemontizzatosi e disvassallatosi per la libertà, poteva invitare i proprì connazionali a odiare « con implacabile abborrimento mortale ... quei barbari d'oltramonti », e il Monti giudicare negativa l'opera della Francia, che avrebbe potuto ..... col senno e col valor far tutto libero il mondo; e il fece di tremende follie teatro e lo coprì di lutto,

e il Dandolo e il Foscolo protestare aspramente contro la rinnovata cessi?n~ di Venezia all'Austria, ma una più vigile e più salda coscienza patnott1ca sapeva scorgere gli aspetti positivi e i sicuri affidamenti


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per il futuro suscitati dalle grandi trasformazioni in atto. Il Cuoco nelle colonne del « Redattore Italiano » esalta lo spirito nazionale, il Gioia nel « Ragionamento sui destini della Repubblica Italiana)> fa voti per un più grande avvenire di quella patria, alla quale il Lomonaco consacra nel 1802 le « Vite degli eccellenti italiani» con una dedica che è una riaffermazione di primato : « A te, degna madre di tanti chiari intelletti, a te, maestra delle europee nazioni, a te, Italia mia ». E il Cuoco e il Micali riprendono la tesi vichiana della antica nostra eccellenza culturale, e pensatori, economisti, storici, giuristi, dal Gioia al Custodi, dal Fabbroni al Delfico, d al Romagnosi al Botta, mirano ad infondere negli Italiani la coscienza del proprio valore e della necessità dell'unione. Sensibili agli appelli dell'anima nazionale e alla loro volta interpreti e guide di questa, letterati, poeti e uomini di cultura sanno mettere a frutto durante il periodo napoleonico la profonda trasformazione degli spiriti, che, preparata dal risveglio della coscienza civile e nazionale italiana anteriore al 1796, era venuta maturando per l'esempio e la spinta dei grandi eventi europei del ventennio. Anche se la musa popolana, illusa e dimentica, all'indomani della caduta dell'Imperatore poteva cantare

Parigi è preso; piangete, Pramassoni, l'impero e regno de' vostri Napoleoni terminò .. ... , se, ingeneroso ed ingenuo, il mite Pellico s'inchinava appena al cadavere del Prina e si esaltava all'idea che Milano avesse « scosso il fango sotto cui giaceva» , un ben più grande poeta sentiva nell'ultimo sforzo disperato d'un tragico Napoleonide, « delle imprese alla più degna accinto », la sola possibilità di realizzare, contro l'Austria, ostacolo fatale, l'unità della patria. Poichè, caduta anche questa speranza, doveva apparire desolatamente vera la rampogna del Benedetti, che aveva a sua volta incitato gli Italiani a seguire il Murat,

Bella Italia, a te che vale l'onor primo in tele e marmi, se trattar non sai quell'armi che del mondo eran terror? Ma, all'indomani del Congresso di Vienna, restaurata, nei modi e con lo spirito che si sanno, l'Italia, con quel gran bisogno di pace che era nella massa, con quella in.finita stanchezza, che pareva definitiva, delle guerre, delle r ivoluzioni, delle avventure, quelle ram-

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pogne e quegli appelli, quegli incitamenti e quei voti non scotevano l'anima popolare, ma, al più, erano cagione di dolore ai pochi, che non dimenticavano le promesse napoleoniche d'un tempo, le illusioni accarezzate e la g ara di valore superata su tutti i campi di battaglia, da Saragozza a Malo Jaroslavetz, a fianco dei migliori soldati europei, sotto gli occhi del più grande capitano del secolo. « Il ridurre gli Italiani a redimersi pare impresa oggimai che non possa trovarsi se non fra' fantasmi dell'immaginazione », scriveva sconfortato nella << Lettera apologetica >> l'autore dei « Sepolcri ». Eppure proprio da quella generazione che si era rieducata alle armi sotto il primo Napoleone e alla sua potenza aveva dato non solo cortigiani e pretoriani, ma ministri e finanzieri, prefetti e legislatori, scienziati e letterati, dovevano balzare gli oppositori primi dei Governi restaurati, gli ispiratori e i capi delle prime rivolte, in parte i cantori dei tentativi di riscatto dal giogo del '15 e dalla oppressione straniera. E altri di questi cantori sorgeranno dalle file degli oppositori al « fatale dagli occhi d'aquila », ma saranno stati pur sempre testimoni della sua azione e da questa scossi e turbati. In parte, una impostazione un po' troppo tradizionalista, in parte, necessità prevalentemente didattiche hanno contribuito ad una rigida e artificiale suddivisione della storia del nostro Risorgimento fi no all'esaltazione di Pio IX in due grandi sezioni, delle quali la prima e, agli occhi dei più, la più importante, cospiratoria e rivoluzionaria, l'altra, più tarda e attuatasi solo dopo il consacrato fallimento pratico di quella, moderata e riformista. Comoda, ma fallace dicotomia, che permette di elencare con ogni rilievo le cospirazioni e le congiure milanese e bresciana del '14-15, il moto di Macerata del '17, gli arresti di Fratta del '18, le rivoluzioni napoletana e siciliana del '20, la piemontese del '21, le agitazioni romane del '25, la presa d'armi del Cilento nel '28, la rivoluzione dell'Italia centrale del '31, il drammatico biennio mazziniano del '33-34, il vario agitarsi siciliano, abruzzese e laziale del '37 e le vicende aquilane del '41 e le audaci speranze e i tragici fallimenti degli accordi e dei conati romagnoli e meridionali del '43-44, con il sacrificio dei Bandiera, per finiri;: al tentativo tra rivoluzionario e riformistico di Rimini del 1845. E per~ette anche di vedere a parte, ben distaccato, l'affermarsi di un pensiero politico non mazziniano (perchè, dei rivoluzionari o radicali, al solo Mazzini la tradizione manualistica fa abitualmente l'onore d'~ver _pensato), un pensiero, che, in genere, si fa nascere col G1obert1 del «Primato» , cui si dànno in buon ordine seguaci il


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Balbo delle «Speranze», il Torelli, il Durando, l'Azeglio e, qualche volta, il Cavour della recensione al libro famoso del Petitti sulle ferrovie. Ma è questo un modo arbitrario di intendere la concatenazione dei fatti. Quando il De Sanctis ci ricorda l'apparire dell'« Ettore Fieramosca J>, all'indomani del fallimento della rivoluzione del Trentuno e mentre matura la prima crisi mazziniana, unisce idealmente quegli eventi al contemporaneo movimento ideale, letterario e po· litico. « Oggi era la poesia dello Stivale, domani le Fantasie sulla Lega Lombarda. Ora ci giungeva l'Arnaldo da Brescia; ora il coro dell'Adelchi; ora l'Assedio di Firenze. E noi ci comunicavamo furtivamente la Buona Novella, e ci sussurravamo all'orecchio i colpevoli versi e dicevamo il libro vietato J>. E non va dimenticato che la comparsa del «Primato» s'accompagna al moto di Savigno e quella delle « Speranze d'Italia >J al vasto movimento cospiratorio che ebbe radici e manifestazioni in Bologna, nelle Romagne, a Roma stessa, nelle Calabrie e trovò le sue vittime più illustri nei ricordati fratelli Bandiera. Una viva e operante letteratura civile era, in realtà., ormai sorta, anche se il Mazzini ne andasse ancora auspicando l'avvento. A torto il Settembrini affermerà più tardi che il romanticismo ha finito col « reprimere e rattenere JJ il moto italiano, poichè, invece, quella grande rivoluzione spirituale ha contribuito a dare ufficio civile e intento politico nazionale alle nostre lettere. Il credo della « Lettera semiseria >> : (< la poesia deve essere l'espressione diretta della vita J> non sarà diversamente interpretato dai più di quella scuola, e l'intera redazione di un periodico romantico, si può dire, quella del « Conciliatore >J, andrà a testimoniare nelle carceri austriache la propria fede in quel credo. Ma, classici o romantici, i letterati italiani nella loro grande maggioranza si fanno assertori del verbo nazionale e invano l'Austria li lusingherà con la gloriuzza della Biblioteca italiana ' e i prìncipi vassalli con il loro modesto e scettico mecenatismo di tardi discenàenti dei Signori del Rinascimento. Vincenzo Monti, al principio del secolo, aveva fatto urlare dalla sua plebe romana nel << Caio Gracco >J

No, itali siam tutti, un popol solo, una sola famiglia, ma ben più alta e più sincera passione quattordici anni dopo agitava Paolo Malatesta nella tragedia del Pellico. E il grido dell'amante di

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hancesca da Rimini esaltava un pubblico ben altrimenti attento e commosso :

. . . . . E non ho patria forse cr,1,i sacro sia de' cittadini il sangue? Per te, per te che cittadini hai prodi, Italia mia, com batterò, se oltraggio ti moverà la invidia ..... Modesto poeta il Pellico, ma quei versi facevano fremere 1 giovani che saranno i protagonisti delle imminenti rivoluzioni. · E, tre anni dopo, l'anno della congiura di Fratta, u n più nobile poeta, il Leopardi, chiedeva all'Italia

Nessun pugna per te ? Non ti difende nessun de' tuoi ? e s'augurava potesse essere fuoco « agl'italici petti» il proprio sangue. La spinta è data. Nessun evento nazionale sar à ora privo delrmcitamento, del conforto, o del compianto dei poeti, ispirati dalla passione patria. Si esalterà Gabriele Rossetti per la costituzione napoletana del r820 e si illuderà

che d'Italia nell'almo giardino il servaggio per sem pre finì; e il Manzoni, che all'idea dell'unità nazionale aveva già fatto il sacrificio d'un brutto verso, canterà le grandi speranze suscitate dagli eventi del Ventuno e inciterà gli Italiani alla lotta ritenuta imnunente con l'Austriaco:

Per l'Italia si pugna, vincete! Il suo fato sui brandi vi sta. Falliscono i moti e crollano le speranze, e il Berchet fa muovere rampogne dal « Romito del Cenisio ,, all'Italia, che ha creduto nei giuramenti dei prìncipi.

Libertà volle; m a stolta! credè ai prenci e osò commettere ai lor giuri il suo voler. I suoi prenci l'han travolta, l'han ricinta di perfidie, l'han venduta allo stranier.


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Ma appena baleni nuova speranza, ma appena sorga nuova possibilità di riscossa, ecco ancora il poeta. E sarà lo stesso Berchet a dare un canto cli guerra alla rivoluzione del Trentuno: Su, figli d'Italia, su, in armi! coraggio: il suolo qui è nostro; del nostro retaggio il turpe mercato finisce pei re,

e ad invocare l'unione cli tutti gli Italiani: Fratelli, a' fratelli correte in aiuto/ Gridate al Tedesco che guarda sparuto: L'Italia è concorde; non serve. a nessun.

E, a poco a poco affrancatosi dall'alfìerismo e dal classicismo della sua prima formazione, e indulgendo, sia pure a suo modo, ai trionfante romanticismo, Giambattista Niccolini incendierà le platee con l'intimazione del suo « Giovanni da Procida,, all'invasore fraricese: « ripassi l'Alpe e tornerà fratello,, (1831), e farà riconoscere argutamente al rappresentante austriaco a Firenze che, se la busta era per il suo collega di Francia, la lettera era per lui. Accademie di giovani agitano, intanto, problemi di cultura nazionale e preparano l'azione. Sotto il plumbeus auster torinese fioriscono per qualche tempo quella dei Concordi, nella quale s'im:ontrano un Balbo, un Ornato, un Provana, un V.idua, e la Società ltalianCl di Solaro della Margarita, degli Azeglio, del Passalacqua, che morirà combattendo nel '49 a Novara, l'una e l'altra ispirate all'Alfieri. Dalla prima verrà l'incitamento al Balbo a stendere un romanzo, rimasto incompiuto, su « La Lega di Lombardia>> (1816), tutto pervaso da quel fremito di libertà e di indipendenza, che al futuro autore delle <( Speranze,, apparirà l'elemento fondamentale nella gran lotta dei Comuni contro l'Impero; nell'altra i soci assumeranno nomi di Italiani illustri nel tempo posteriore alla dominazione longobarda, considerato <( come quello della l.ibertà della patria)), e nelle proprie adunate mensili saranno invitati a trattare argomenti riguardanti le antiche glorie italiane. E' da questo clima che un turbinoso ex ufficialetto di Piemonte Reale, fattosi italiano in Roma attraverso varie singolari esperienze, trarrà il primo incitamento a consacrarsi alla causa nazionale. Saranno prima quadri, « Leonida alle Termopili))' apparso così audacemente liberale che il padre del pittore non oserà presentarlo a Carlo Felice, « La difesa di Nizza contro il Barbarossa e i Francesi))'


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già di chiaro intento patriottico, « La disfida di Barletta ))' « La battaglia di Legnano». Ma che cos'erano questi quadri del cavaliere Massimo d'Azeglio e come li interpretavano i contemporanei? << Erano una storia del medioevo ad uso degli Italiani del· suo tempo - dirà il De Sanctis - ...Milano accorreva ogni anno all'esposizione di Brera, e vi trovava sotto gli occhi dell'Austria un nuovo frammento della grandezza nazionale, una nuova protesta contro la dominazione straniera)). E perchè quella protesta fosse più efficace, perchè quella e~altazione delle antiche glorie italiane fosse più viva, ecco il pittore farsi romanziere. « Mio scopo - confermerà più tardi - non fu di raccontar noveJle; bensì rialzare a poco a poco lo spirito pubblico in Italia)). E « per mettere un po' di fuoco in corpo agli Italiani)> . affrontava la polemica domestica col grande suocero -- il quale, se con i cori dell' «Adelchi>) e del « Carmagnola)) aveva esaltato la resistenza allo straniero, negava ora l'opportunità del romanzo storico - e buttava giù in fretta quell'« Ettore Fieramosca>) (1833), che nel ricordato « Moto letterario in Italia >l appariva al Mazzini " freddamente corretto e privo di fervore poetico ))' ma ricco di pagine « ardenti di sentimento patriottico )). Lo spirito del romanzo intendeva anche meglio il censore livqrnese, che, nel maggio di quell'anno, accusava l'autore di aver voluto << esaltare la mente degli Italiani presenti con i soliti stimoli di gloria nazionale e di sangue da spargersi in pro' della patria)). Il successo spingeva l'Azeglio alla p.iù vasta tela e alla più ardua impresa del « Nicolò de' Lapi l> (1841) e a quella incompiuta « Lega Lombarda)) (1843), che avrebbe dovuto chiudere il ciclo della esaltazione del valore nazionale. Ma gli eventi politici soffocarono nel 1845 per sempre il romanziere: la sua open in questo campo era compiuta, perchè anche per merito di quelle sue << fantasie l> il De Sanctis potrà asserire cc ne' nostri animi c'era il '48, c'era già l'Italia)). Ed anche opere di battaglia politica saranno i più turgidi e drammatici romanzi di F. D. Guerrazzi, il cui byronismo tribunizio e la polemica politica soddisfacevano meglio i gusti di quel più vasto pubblico che amava una qualche demagogia letteraria, la « Battaglia di Benevento », uscita nel 1827 a pochi mesi di distanza dai così diversi « Promessi Sposi))' e l'« Assedio di Firenze» apparso a Parìgi con la falsa attribuzione ad Anselmo Gualandi nel '36. « Poeta della prosa italiana l> fu allora salutato il Guerrazzi, ed era esagerazione, ma quelle roventi invettive, quelle apostrofi sdegnose ((<Popolo italiano, già signore, oggi locandiere di tutte le genti del 8


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mondo ! >>), quella continua esasperazione esaltavano le menti e scuotevano i cuori e i giovani adoravano chi « infondeva zolfo e pece infuocata » nelle ferite della patria per destarla da quello che. a lui pareva ancora letargo. E non era, perchè il movimento che in ogni campo, m assime in quello culturale, si veniva affermando era il segno più chiaro che !'Italia si era destata. I vari periodici scientifico-letterari, le opere . degli scr1ttori di ogni regione attestavano una volontà di resurrezione che, prima e più ancora che politica, era morale. Poichè il compito che assegnava il Mazzini alla rivoluzione, di « rifare nell'italiano l'uomo))' era precipuamente un compito morale, in armonia, del resto, con il pensiero dei migliori uomini del Risorgimento, che appunto come problema morale intendevano essenzialmente quello italiano. Niccolò Tommaseo, che nel '34 invocava:

Sola, inerme, tramortita Giaci, o donna delle genti. Delle febbri e de' tormenti che sentir ti fean la vita più tremendo è il tuo languor. Manda, o Padre, alla sopita una scossa avvivatrice; dona, o Padte, all'infelice; eh'ella inte1J.da il suo dolor, ribadiva l'anno dopo nei libri « D ell'Italia » il tema fondamentale dell'idealismo nazionale: << prima che politico, lo scopo di quanti attendono a vera libertà sia morale ». Per questo rifioriva il culto di D ante, genio tutelare della patria, simbolo e ispiratore della sua grandezza, « la più ·perfetta incarnazione individuale della nazione », come lo definiva il Mazzini nel '44; per questo si testimoniava con amorose indagini l'unità fondamentale della lingua; per questo si esaltavano le antiche glorie e le medievali lotte contro l'impero tedesco e si chiedevano alla tradizione storica nazionale insegnamenti e affidamenti per un nuovo assetto che rispondesse alle condizioni e alle necessità del popolo italiano. Tutta la cultura assecondava i fini e le necessità nazionali: O mura cittadine, sepolcri maestosi, fin le vostre ruine sono un'apoteosi.


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Cancella anco la fossa, o barbaro inquieto, chè temerarie l'ossa scuotono il sepolcreto, gridava il Giusti nella « Terra dei morti>> . E in . queìlo stesso anno 1841 l '« Archivio Storico Italiano >> , che raccoglieva in certo modo l'eredità dell' « Antologia Italiana l> , soppressa nel '33, prendeva a pubblicare saggi importanti di carattere e di spirito nazionale. E quanto si faceva a Firenze trovava eco altrove, come quando a Napoli si cercava di imitare l' « Archivio >> del Vieusseux. Tutta la storiografia italiana, o ispirata dalla trionfante corrente neoguelfa, della quale un primo avviamento si ha col « Discorso su alcuni punti della storia longobarda in Italia>> (1822) di Alessandro Manzoni, di colui che aveva portato la letteratura italiana al centro dei problemi nazionali, o accesa, a contrasto, di preoccupazioni ghibellineggianti, serve gli ideali patriottici, sacrificando più o meno coscientemente a questi l'intento scientifico. A Torino Carlo Alberto istituiva nel '33 una Deputazione di storia patria, e, nel '46, una cattedra universitaria di storia d'Italia, che fu affidata al Ricotti, dei quale fra il '42 e il '45 apparve la grande << Storia delle compagnie di ventura» . Il Balbo (di cui erano usciti la « Storia d'Italia sotto i Barbari», 1830; la « Vita di Dante>>, 1839; le << Meditazioni storiche», 1842-45; e uscirà nell'anno di Pio IX il « Sommario della Storia d'Italia >>, imperniato più che ogni altra sua opera sul problema dell'indipendenza), il Troya (il cui « Veltro allegorico di Dante>> è del 1826, di tredici anni anteriore alla sua poderosa « Storia d'Italia del Medioevo ))), il Capponi (che pubblica nel '44 le sue <' Lettere sulla dominazione dei Longobardi in Italia >> ), il Cantù (che il '38 e il '46 dà in luce la sua « Storia universale))), tutta la scuola cattolico-liberale, compresi quelli che il Croce definirà gli « sviati )> della stessa, cercavano i segni e i titoli di nobiltà della patria nelle cronache e nei documenti del medioevo. La restaurazione ne aveva raccomandato e favorito lo studio, ed ecco, come rievocherà il De Sanctis, che esso diveniva un'arma contro la restaurazione stessa, uno dei più efficaci fattori della redenzione italiana. « Noi vi cerc~m'?o non diritti storici, non pergamene, non codici, non istituz10m, non pretese di papi e di imperatori; ma Je tradizioni e la carta della nostra nazionalità, una più chiara coscienza di noi stessi, le testimonianze e i documenti del nostro valore e della nostra grandezza 1>.

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A quell'Olimpo della 1~ivoluzione itaHana volgevano iì proprio interesse anche gli storici che si definivano in qualche modo neoghibellini, quali lo stesso trageda G. B. Niccolini, Giuseppe La Farina, men sicuri come studiosi, ma non meno ardenti di passione patria nel loro unitarismo contrapposto al leghismo o al federalismo neoguelfo; mentre più alta e degna opera di scienziato e di italiano compiva Michele Amari con la sua « Storia del Vespro Siciliano >> (1842), nella quale l'intento politico di esaltare una rivolta di popolo e non sorta da congiura aristocratica non falsava i risultati della ricerca scientifica. Altri poi narravano con fede e con passione di testimoni o di attori avvenimenti più recenti, come il Colletta, che, ospite del Capponi, scriveva in esilio la « Storia del Reame di Napoli », dalla conquista borbonica al suo tempo (1837), come Lazzaro Papi, che otteneva il premio dell'Accademia della Crusca per quei suoi « Commentarii della rivoluzione francese» (1830-36), nei quali aveva narrato e giudicato con animo italiano i grandi eventi che avevano scosso l'Europa. L'opera delle polizie, facile anche troppo nel reprimere congiure e tentativi, si rivelava inutile e improba fatica nella ricerca e nella repressione dell'ondata irrefrenabile che traeva con sè tutte le forz~ vive della cultura italiana. La discussione aperta di idee e cose possibili, auspicata dal liberalismo moderato, contribuiva insieme con la stanchezza crescente delle rivoluzioni e delle cospirazioni, al rafforzamento della tendenza verso un nazionalismo riformatore, dal quale si sperava di fare uscire quando che fosse le soluzioni politiche invocate nei libri del Gioberti e del Balbo, del Torelli, del Durando e dell'Azeglio. L'unità dei bisogni imponeva chiaramente l'unità dei rimedi, e l'una e l'altra confermavano la fondamentale unità della nazione, come bene apparve, tra l'altro, nelle discussioni dei Congressi degli scienziati, che dal 1839 in poi si tennero annualmente nelle maggiori città italiane e giovarono a promuovere feconde intese e utili riforme. Pur senza accennare mai scopertamente a problemi politici, in quelle adunanze veniva ribadito il concetto della unità storica, geografica, morale della patria italiana, venivano cercati e confermati i caratteri della nazionalità, si affacciavano proposte pratiche di effettive riforme. L'intimo significato dei Congressi scientifici comprendeva uno tra i più rappresentativi paladini della tradizione conservatrice, il Solaro della Margarita, che li battezzava senz'altro come un'emanazione della Giovine Italia ... « Poco fecero per la scienza, ma molto

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per la liberazione della nazione. I patrioti s'intesero, e apertamente, fuori d'ogni setta, salutarono l'aurora del Risorgimento italiano a Torino, a Genova e a Venezia>>. Così commentava la satira del Giusti sul primo Congresso il Montanclli. Infatti, sia che il Gerbi, presidente generale di quello, dimostrasse nel discorso inaugurale che tutte le scienze avevano avuto cominciamento o incremento dagli Italiani, sia che si battagliasse contro chi pensava non si dovesse parlare in italiano ai Congressi, dovunque risonava la nota nazionale. Il Ridolfi, presidente di quello di Firenze (1841), affermava che « dai Congressi scientifici altro bene aspetta l'Italia, certo nè il più piccolo, nè il meno desiderato. La divisione della Penisola in piccoli Stati, l'antica divisione politica infinitamente pjù minuta, privò il bel paese d'un centro scientifico, quale, per esempio, Londra e Parigi. Ma il genio italiano brillò comunque sparso e diviso dappertutto e fece spesso gli umili borghi segno d'invidia alle città popolose>>. Ma da questa esaltazione generica, si passava, nel '43, a Lucca, per merito del Griffi dell'Università di Torino, alla citazione commossa, durante w1'esposizione ..... sul reumatismo e sulla gotta, delle sofferenze del Pellico, del Maroncelli e del Confalonieri allo Spielberg, provocando gli applausi dell'assemblea e l'inevitabile espulsione dell'oratore. Nel Congresso di Genova del 1846, alla vigilia dei grandi eventi della nuova fase rivoluzionaria, Cesare Cantù chiedeva l'appoggio e il consenso dei rappresentanti della scienza italiana a un progetto di ferrovie utile a tutta l'Italia. L'anno dopo, in quello di Venezia, il principe di Canino, turbinoso Napoleonide, promotore primo di queste riunioni, suscitava tali dimostrazioni patriottiche da farsi espellere dalle sedute ... Diplomatici e poliziotti seguivano con inquieto occhio queste riunioni, tanto ormai era chiaro come anche per quegli uomini di scienza avesse valore di assioma la conclusione del Giusti al suo "Delenda Cartago ))' che è dell'anno del Congresso di Genova:

Scriva: vogliam che ogni figlio d'Adamo conti per uomo; e non vogliam Tedeschi; vogliamo i capi col capo; vogliamo leggi e governi; e non vogliam Tedeschi. Scriva: vogliamo, tutti, quanti siamo, l'Italia, Italia; e non vogliam Tedeschi; vogliam pagar di borsa e di cervello, e non vogliam Tedeschi; arrivedella.


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Ma accanto ai puri di cuore, ai convinti, agli entusiasti, erano tuttavia i fiacchi, i pavidi, gli scettici, gli opportunisti, sui quali si abbatteva la dura sferza della satira del Giusti. Questi sapeva esprimere la pensosa malinconia della sua umana comprensione per gli schiavi d'oltr'alpe spinti a tener schiavi gli Italiani(« Sant'Ambrogio », 1846): A dura vita, a dura disciplina, muti, derisi, solitari stanno, strumenti ciechi d'occhiuta ,·apina che lor non tocca e che forse non sanno,

ma non esitava ad esultare per la morte di Francesco I d'Austria (<< Dies irae », 1835) · D ies irae ! è morto Cecco; gli è venuto il tù·o a secco ci levò l'incomodo, (ma per Francesco IV di Modena sarà anche più volgarmente acre : Quando lo porteranno al cimitero questo Ducaccio finalmente morto, io prego Dio che gli faccia da clero tw cento d'aguzzini a collo corto ... ),

presentava, comiche belve in gabbia, i tirannelli italiani ne l'« Incoronazione » (1838), creava il tipo imperituro del vol tagabbana, dell'eroe del doppio giuoco nel « Brindisi di Girella » ( 1842), canzonava il Balbo nel « Poeta e gli eroi da poltrona » e il Gioberti nel « Papato di Prete Pero>> (1845) e nel « Congresso dei birri» (1847) faceva riconoscere a questi ultimi, compiendo l'accennato consiglio del <• Delenda Cartago », l'inutilità di opporsi alle nuove idee e la necessità di acconciarsi ai nuovi tempi, dominati dal sentimento nazionale divenuto patrimonio dei più. Quando alla moltitudine, bestia presurztuosa, il caso ha fatto intendere che la testa è qualcosa; darete un fermo al secolo lì, col boia alla mano? Collega, riformatevi; siete antidiluviano.

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Voi vi pensate d'essere a quel tempo beato, quando gridava Italia soltanto il letterato. Amico, ora le balie l'insegnano ai bambini; e quel nome dagli Arcadi passò ne' contadini..... Che i contadini avessero ereditato dagli Arcadi quel riome i futuri colleghi del Giusti nel Parlamento toscano del '48 poco crederanno, come appare dai verbali di quell'assemblea, ma che all'Italia si pensasse non più come ad un'espressione geografica o letteraria, che dell'Italia si parlasse come della patria comune in ambienti e compagnie un tempo estranei o indifferenti, era certo. E non solo per opera di una letteratura e d'una cultura privilegio di pochi, ma per la conquista dei cuori e delle menti di parte del popolo non tanto ad opera della pittura romantica (chè se è in qualche modo vero quello che ebbe a dirne l'Ojetti, che essa ebbe sullo scoppio della rivoluzione italiana azione molto indiretta, l'efficacia di alcuni quadri di argomento nazionale e liberale non può essere negata. Dei « Profughi di Parga » di Francesco Hayez, per esempio, scriveva nel 1840 il Mazzini che l'autore era stato « entrainé peut-etre par des analogies de situation qui doivent se présenter à tout italien >> ), quanto per l'influsso del teatro e della musica. Povera cosa a rileggerli oggi tutti quei drammi storici e quelle tragedie mal mescolate d'Alfieri e di Shakespeare, che dal Corelli al Checchetelli, dal Turotti al Marenco, dal Sabbatini al Brofferio misero a prova i polmoni di bronzo degli attori dell'Ottocento. Povera cosa, ma le tirate dei varì <<Farinata)) e dei vari « Arduini d'Ivrea» e « Fornaretti », i cori più o meno manzoniani delle molteplici Leghe Lombarde hanno fatto allora palpitare platee e loggioni, versare lacrime ingenuamente sincere, proferire giuramenti ardenti d'amor pat_rio. Quasi tutti quegli autori avrebbero potuto ripetere col Niccolini: « Se non ho scritto una buona tragedia, credo di aver fatto almeno un'opera coraggiosa». E coraggiosa era anche la polemica che lo stesso Niccolini conduceva contro le fortunate correnti politiche moderate del momento. Chi aveva invocato nel ricordato « Giovanni da Procida » l'unità italiana sotto un solo forte monarca


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( Qui necessario estimo un re possente: sia di quel re scettro la spada, e l'elmo la sua corona; le divise voglie a concordia riduca; a Italia sani le servili ferite e la ricrei), non esitava a scrivere al Vannucci, intorno al '41, in piena fioritura di reminiscenze napoleoniche: « io non son gran fatto devoto alla Corona di ferro, credendo con un mio amico ch'ella sia fatta non coi chiodi che trafissero Nostro Signore, ma coi ferri di qualche cavallo dei barbari che devastarono il nostro paese. Pure, quando la vedrai, dì un paternostro per l'anima di Napoleone, perchè Dio gli perdoni di non aver fatto all'Italia quel bene che egli solo potea ». E contro il neoguelfismo levava nell'« Arnaldo» la protesta e l'appello al popolo

All'armi, Romani I Tra queste ruine udite la voce dell' alme latine, che « Sorgi J> ti grida « o popolò· re! )) mentre contro il Balbo e i moderati, che aspiravano a conciliare i prìncipi e il progresso, lanciava ·gli strali del << Filippo Strozzi)). Vasta e profonda anche l'azione del teatro lirico. Se la rivoluzione provocata dal << Guglielmo Teli )) del Rossini non esce dal campo musicale (ma il Cigno di Pesaro dedicherà anche lui più tardi la sua brava cantata a Pio IX), se il Donizetti e il Bellini paiono non accorgersi del fermento nazionale, l'irrompere di Giuseppe Verdi segnerà anche per questo un'epoca. Il popolo italiano invocherà fremente la patria perduta con il coro del « Nabucco » (1842), griderà la propria passione con quello dei «Lombardi>> (1843) « che tanti petti ha scossi e inebriati))' si ribellerà alla tirannide e alla violenza con l'ardente melodia dell' «Emani» (1844), griderà la propria speranza in un redentore con i ritmi tempestosì dell' « Attila » (1846). Con sicuro intuito del significato nazionale dell'opera verdiana l'anonimo resocontista della «Pallade)) scriverà, alla vigilia della prima rappresentazione romana della « Battaglia di Legnano» (27 gennaio 1849), che l'autore « offre con la penna il tributo che non potrebbe con la spada alla sua patria infelicissima, affinchè dalle ricordanze delle glorie passate prenda ella ristoro delle sventure presenti e presagio dei trionfi avvenire )) . Speranze d'un disperato erano state definite le « Speranze d'Italia )) del Balbo, che tanto apertamente bandivano la fede in una


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azione italiana accentrata attorno alla monarchia piemontese. « In lui volete che speriamo ? >> chiedevano tra scettici e irosi gli inter1.ocutori dell'Azeglio, durante l'avventuroso suo viaggio lungo le tappe della trafila marchigiano-romagnola nel settembre 1845. In lui, in Carlo Alberto ? Ancora fremono nell'aria le sdegnose invettive degli esuli antichi del '21, degli scampati ai processi del '33. Ancora « esecrato, o Carignano, va il tuo nome in ogni gente», ancora l'invettiva del Giusti ferisce l'erede di Carlo Emanuele. Vedi i ginocchi insudiciar primiero il Savoiardo di rimorsi giallo, quei che purgò di gloria un breve fallo al Trocadero. O Carbonari, è il duca vostro, è desso che al palco e al duro carcere vi ha tratti; ei regalmente del Ventuno i patti mantiene adesso ...

Ma, d'altro canto, a molti non sfuggiva il nuovo fervore d'opere, l'ansia di rinnovamento che caratterizzava dopo il '40 l'azione sovrana di Carlo Alberto. « Re Tentenna>> per la satira di Domenico Carbone, ma appunto perchè riusciva difficile comprendere quel singolare alternarsi di azione e di inerzia, di buoni propo~iti e di pentimenti, che parevano caratterizzare la sua politica. Il segreto del suo spirito inquieto cercavano di penetrare i diplomatici stranieri e i più nobili patrioti italiani, gli uni temendo, gli altri sognando quello che ai poeti appariva già chiaro. · Viva il Re I Tra' suoi gagliardi benedetto, ei muove il pie', cantava nel '43 ( (( Per una fanfara militare ») il Prati, vaticinando Sin che ferva in ogni schiera il coraggio e la pietà, guai chi l'Itala bandiera temerario offenderà. Tutti all'Alpe e sul Ticino ci raccolga un sol pensier « Carlo Alberto e il suo destino » sia la voce dei guerrier.


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Tutti siam d'un sol paese solo un sangue in noi traspar; a ogni tromba piemontese mandi un'eco e l'Alpe e il mar !

E tre anni dopo, volgendosi direttamente al Re, chiedeva Carlo, che sotto ai liberi venti dell'Alpe antica, le arcane sorti armarono di scettro e di lorica, pei crismi e per le vivide fon tane della fede fatto di Cristo erede figlio d'Italia e re; quando cavalchi intrepido per le tue file ardenti, dimmi: l'assalto all'anima di un gran desio non senti ? E il breve suol che scalpiti, l'aura natal che spiri, l'arco di ciel che miri non è minor di te ?

E gli additava Oltre il Ticin, due popoli posti a fatal tributo, che s' han, nell'ozio, il calice d'ogni dolor bevuto,

quali a ogni romor che elevisi sulla regal tua via, l' avide orecchie intendono per ascoltar che sia: « Fossero mai le vindici ugne de' suoi cavalli? Fosser le tende e i valli, . .... ? l' aste e z. percossi. accia1· ».


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Pensi il Re a chi soffre ed alla propria gloria, prepari le ali al volo fatale e guardi alle Alpi onde scesero gli oppressori d'Italia.

Carlo, se è ver che l'itale ire nel cor tu covi, se con l'antica in giuria senti gl'insulti nuovi, se quel desio, che t'agita fiero e gentil, non langue, se de' tuoi padri al sangue degna ragion vuoi far; co' mille tuoi presentati alle lombarde prode; vieni a snidar quest'aquila che il senno e il cor ci rode; e non temer che al folgore. della regal tua spada s'abbia d' ostil rugiada Italia a imporporar. E, quasi rimando le « Speranze d'Italia »,

.Alza la mano al Brennero che qua tant' odii ha scarchi, grave intimando alt' ospite che in pace lo rivarchi; indi a sperar confoi·talo che Dio cui toglie un trono forse più largo dono serba nel suo pensier. L 'incitamento del poeta al dubbioso sovrano era l'incitamento della coscienza nazionale.

Di conculcato palmite resa mirabil pianta, braccio de' suoi pontefici sarà guerriera e santa. Carlo ! per te dai secoli fatta è la via che vedi; credi una volta, oh credi nel tuo possente cor !


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L'idea del Piemonte capo e guida dell'impresa d'indipendenza era in atto e già nasceva il mito di Carlo Alberto, quando a Roma ne sorgeva un altro non meno nobile e anche più di quello suscitatore di entusiasmi, di energie e di grandi illusioni: il mito del Pontefice ispiratore e santificatore del moto nazionale: il Papa del «Primato)). Tristi gli ultimi tempi del regno di Gregorio XVI, turbati da congiure e da rivoluzioni, come già l'anno del suo avvento al trono. Anche a lui la satira non aveva risparmiato colpi. Solo a Roma riman Papa Gregorio fatto zimbello delle genti ausonie, aveva ne c<L'incoronazione )) sogghignato il Giusti, e più fieri e più spietati dardi gli aveva avventato il Belli, viva eco dello scaduto prestigio di quel Sovrano dopo le deluse speranze clell'éra novella promessa alla sua salita al soglio. Nulla si salvava di lui agli occhi del poeta, pronto a dar credito alla voce popolare della sua intemperanza: Ho sentito mo proprio de risbarzo (mah ! mosca veh ! nun me ne fate utore) che lui, Su' Santità, Nostro Signore, spesso se scola un quartarolo scarzo, o a trovare una singolare giustificazione al desiderio attribuito al Papa d'una comunicazione sotterranea dal Vaticano a Castel Sant' Angelo: Drent'a Castello po' giucà a bon gioco, er Z anto Padre, si je fanno spalla uno pe' parte er cantignere e er coco. E sotto la banniera bianca e gialla, po dà commidamente da quer loco benedizzione e cannonate a palla. Neppure morto l'aveva lasciato in pace: Papa Grigorio è stato un po' scontento; ma pe' viscere, poi, ma pe' bon core, eh'avessi in petto un cor de imperatore ce l'ha fatto vede' col testamento . ...


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Quel testamento per il quale il credenziere .... e mica so' carote: ventiseimila scudi ha guadagnato sortanto a vetro de bottije vote.

Ma sale sul trono di San Pietro Pio IX e tutto muta. La musa del Belli trova accenti di popolana gentilezza. Quanno te guarda lì co' quel'occhietti, co' quella su' boccuccia risarella, nun te senti arimòve le budella ? nun je daressi un bacio a pizzichetti ?

Tutto è serenità e gioia, tutto promette .finita l'era dei triboli e l'incomprensione tra il Sovrano e i sudditi, tanto j ] nuovo Papa è buono, alla mano, caritatevole. Ma tu vàcce, Matteo, fa a modo mio, tu va a l'udienza e nun avè paura. Nun je vedi a la sola incornatura sì che razza de core ha, Papa Pio? Vacce e nun dubbità che te strapazzi; anzi, èsse certo ch'a udienza finita, si t'ha detto de no, tu. l' aringrazzi.

Il popolo, che aveva subito acclamato ed amato Pio IX, in realtà sapeva di lui ben poco, meno ancora di quanto ne sapessero i cauti diplomatici. Ma, nell'accesa atmosfera di quei giorni, tutte le speranze parevano lecite, e la folla fece presto di Pio IX, non solo, com'era per la sua pietà e tolleranza, un modello di virtù evangeliche, ma creò fin dai primi momenti del suo regno la leggenda del Papa liberale, riformista, innovatore, al quale si doveva guardare come a colui che avrebbe iniziato la rigenerazione italiana. Pochi erano disposti ad accettare lo scetticismo del Metternich: « le Pape libéral n'est pas possible », e un grande equivoco tra le intenzioni reali del Pontefice e le interpretazioni e le speranze degli elementi liberali doveva sorgere fin dal primo grande gesto pubblico di Pio IX, quello che Pellegrino Rossi aveva chiamato j} magnifico esordio del suo regno, l'amnis.tia del 17 luglio 1847.


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Quante fai sparger lacrime di gioia non mendace, tanti per te risplendano giorni di gioia e pace, gli augurava Giovanni Marchetti, che sarà suo m1111stro al te.fDpO del Mamiani. E la Musa colta e la popolare gareggiavano in quei primi giorni dell'idillio italico-papale nell'esaltare il nuovo Pontefice, nell'invocargli « gloria e onor», nell'inneggiare al « senno immortale di Pio - che un'etade novella segnò». Nè scemavano la fede e l'entusiasmo col nuovo anno, salutato dall'inno di Filippo Meucci, musicato dal Magazzari: Del nuov'anno già l'alba primiera di Quirino la stirpe ridesta, e l'invita alla santa bandiera che il vicario di Cristo innalzò. Ma il '47 è l'anno dell'occupazione austriaca di Ferrara, che al moto riformatore e costituzionale affida un più ampio e deciso significato nazionale antiaustriaco. Già nell' « Ode a Pio IX >> Pietro Sterbini mira a imprimere questo nuovo carattere all'opera del successore di Gregorio XVI: Salve de' grami italici alba di speme, o Pio! Oh ! salve: a farci liberi mandato a noi da Dio; oh dal tuo labbro mistico la gran parola tuoni, e gli avviliti popoli risorgeran leoni a far redenta Italia tutta dall'Alpe al mar! E quasi polemizzando in anticipo con l'allocuzione del 29 aprile, il poeta della « Vestale ,, ammonisce: Nè mai l'idea ti mitighi che padre a tutti sei, a rattenere i fulmini sulle cervici ai rei; padre, pur là all'Empireo


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era l'Eterno a tutti, ma molti un dì fra gli Angeli fur empi e gli ha distrutti . .. Tu, dell'Eterno imagine, gli empi distruggi qui. Più nobile poeta, anche Alessandro Poerio, che lascerà la vita sul campo alla difesa di Venezia, spronava gli Italiani ad accorrere alla Roma di Pio IX a trarne auspici per la patria(« Roma ») e nell'ode « Ai martiri della causa italiana », del dicembre 1847, associava il ricordo dei caduti per ]'Italia al nome del Pontefice.

Alziam concordi il cantico alla virtù di Pio, nel qual rivela lddio questa novella età : ma pèra chi dimentica quei che con largo affetto fer della vita getto per nostra libertà. Ormai i due concetti, Italia e Pio IX, sono inseparabili. Ne è prova il nuovo coro dello Sterbinj, musicato dal Magazzari, la cosidetta « Marsigliese dei Romani l>, scritto in occasione dell'arrivo a Roma della bandiera donata dai Bolognesi.

Scuoti, o Roma, la polvere indegna, cingi il capo d'alloro e d'olivo, il tuo canto sia canto giulivo di tua gloria la luce tornò. Dio possente che muovi la terra come foglia rapita dal vento, tu spavento, tu fulmine in guerra de' tuoi figli la gloria sei tu. Dio possente il tuo popol difendi, tu di Pio lo ricopri col manto, tu di santo valore l'accendi, tu ridesta le patrie virtù . Perfino quella vecchia guardia civica, fatta già segno al disprezzo popolare e alla sferzante ironia del Belli


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(Ma, cosa voi? nun me potei difenne. E archibucio, e sciabbola, e bainetta ! Co' sta battaieria d'impicci addosso, come avevo da fa' sì benedetta ? )

rinnovata ora da Pio IX, era nobilitata nell'inno di Filippo Meucci. All'onore, alla pace devote son le spade che un Padre ci diede; chi tremante da quelle recede è ribaldo che patria non ha.

E buon uso di quelle spade seppero fare i Civici romani a Cornuda, a Vicenza, a Treviso. I tempi erano ormai maturi. La fede in Pio IX e la speranza in Carlo Alberto diventavano religione. In nome di questa Giuser,pe Bertoldi chiedeva al Re sabaudo il compimento del suo vasto disegno: Presto in armi, è la voce di Dio che ti chiama, ascoltarla dèi tu.

Avvenimenti interni e contingenze esterne erano, o parevano, favorevoli. Avrebbero saputo giovarsene gli Italiani ? La concordia degli spiriti e delle volontà era reale ? Le forze per l'azione erano sufficienti ? L'avvenire doveva dar presto una risposta a questi interrogativi, che, in quel momento di effusione e di gtoia, sembravano tormentosi solo a pochi. Ma, per allora: « Viva Pio IX » ! » e « Guerra all'Austria ! ». « E il Quarantotto scoppia, tempesta magnifica », come scriverà il Carducci, e un terzo potente elemento si aggiunge a quelli imperniati sulla fede neoguelfa e sulla forza militare del Piemonte, il popolo italiano. I tumulti milanesi dei primi giorni dell'anno, la rivoluzione siciliana del 12 gennaio, l'eccidio studentesco padovano clell'8 febbraio, le dimostrazioni di Firenze, di Roma, di Napoli, la rivolta improvvisa di Venezia e l'epopea delle Cinque Giornate, banno tutti a protagonista il popolo senza distinzioni di classi, di fortune, di cultura, di fede. E per quel popolo, come ai tempi eroici dell'anttca Grecia, cantano, combattono e muoiono i poeti. Il Panzacchi, cinquant'anni fa, presentando il Quarantotto « come una sonante e fulgida pagina di poesia », affermava che quel grande anno non ebbe g1·andi poeti e, mescolando insieme lo Sterbini e il D all 'Ongaro, il Poerio e il Montanelli , il Mercantini e il Prati, il


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Grossi e il Mameli, si diceva costernato dall'intervallo enorme che separa il valore dei lo~o versi, che « non si elevarono mai, anche nei momenti più felici, dalla aurea mediocrità », dall'importanza degli avvenimenti cantati. E sia pure, ma il popolo comprese ed amò quei poeti, si esaltò ai loro canti e li gridò per le piazze e sulle barricate, nelle trincee e negli assalti. Che era anche questo un modo di riconoscere il valore di quella poesia. Il repubblicano Goffredo Mameli, che cadrà « fra un inno e una battaglia», nel '46 aveva incitato i giovani italiani a ispirarsi all'esem· pio dei Bandiera : Qui presso all'ossa, o giovani che alt' avvenir vivete, la sanguinosa pagina qui del dover leggete,

con l'Inno fatidico (1847), che accompagnerà da allora in poi sul campo i soldati d'Italia in tutte le loro guerre; lanciava l'appello all'unione di tutto il popolo in un unico intento: Noi siamo da secoli calpesti e derisi; perchè non . siam popolo, perchè siam divisi. Raccolgaci un'unica bandiera, una speme, di fonderci insieme già l'ora sonò.

E, alla fine dell'anno delle dure prove e degli ardimenti eroici, nell'inno « Dio e popolo» univa con impeto rivoluzionario i due terniini del sacro binomio mazziniano: Che se il popolo si desta Dio si mette alla sua testa, la sua folgore gli dà. « L'orizzonte si leva fosco quest'anno>', scriveva il 2 gennaio il Mazzini al Lamberti, l'orecchio intento ai sordi rumori che preannunciavano in Italia e in Europa l'uragano imminente. E le violenze soldatesche milanesi di quell'alba ne davano l'annuncio. << L'Austria è ridotta all'assassinio))' grida l'Azeglio nei « Lutti di Lombardia,, atto d'accusa .presentato più che all'Europa, « alla in9


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tera civiltà », nel quale l'autore del « Fieramosca J> e del « Niccolò de' Lapi JJ sembra strappare di mano la penna al grande apostolo del dogma dell'unità, tanto è ardente il suo grido, tanto è vibrante la sua fede. I mezzi sin qui adoperati dall'Austria, i tribunali eccezionali, le commissioni speciali, le tombe dello Spielberg, ripete, « non noi l'affermiamo, essa ha confessato, ha proclamato che non bastano, ci vuol l'assassinio! JJ. Ma anche questo sarà inutile, perchè « siamo nazione! nazione! nazione! J). A lui fa eco il « Metastasio romantico dei democratici », Francesco Dall'Ongaro, la cui facile vena improvvisa la trenodia popolana de « La donna lombarda»: Toglietemi d'attorno i panni gai: voglio vestirmi di bruno colore. Vidi scorrere il sangue ed ascoltai le grida di chi fere e di chi more. Altro ornamento non porterò mai fuor che un nastro vermiglio sopra il core. Mi chiederan dove quel sangue è tintoJ ed io : nel sangue del fratello estinto. Mi chiederan come si può lavare, ed io: nol può lavar fiume nè mare: macchia d'onore per lavar non langue, se non si lava nel tedesco sangue!

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Ed a Milano, come a Palermo, è protagonista il popolo, che unisce i nomi ugualmente benedetti di Italia, di Sicilia e di Pio nei suoi canti di guerra e di vittoria. All'armi, a la vittoria gridamu tutti uniti, fratelli di l'Italia, Siciliani arditi; lu sangu pri la patria O gnunu spargirà.

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La forza è intra lu populu e lu putiri in Diu, rimissu a lu Vicariu, lu nostru santu Piu; ad iddu nui cunusciri duvemu, e a nuddu cchiù.


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Era, in fondo, lo stesso spirito che animava Luigi Tosti, il grande benedettino, a condurre a termine in quell'anno la sua « Storia della Lega Lombarda >) e a consacrarla a Pio IX con una dedica che riprendeva il tema dei poeti d'allora. « Affacciatevi, Beatissimo Padre, alla rocca dei secoli, ed ascoltate la voce dei tempi nuovi. Scrutate i nostri cuori, e vedrete che noi siamo sempre degni nepoti di quei Lombardi, che così eroicamente congiunsero la fede e l'amor di patria ... T ogliete, o Padre Santo, la bandiera che Alessandro III appese al sepolcro del beato Pietro, dopo aver debellato Barbarossa; e fatela sventolare al sole d'Italia l>. La strage degli studenti .padovani suscita fremiti di sdegno e di dolore. Dio, che ti nomini delle vendette, perchè non stridono le tue saette sulla vandalica turba de' mostri che brandi infiggono nei petti nostri ? chiede commosso il Prati (« L'8 febbraio 1848 in Padova,,). E' ora che si stronchi Ja violenza straniera, è ora che l'Italia balzi in armi contro l'oppressore, con tutti i suoi vivi, con tutti i suoi morti.

Su, artieri e villici, popolo e plebe, di sangue fumano le vostre glebe: su, vecchi e bamboli, su, cittadini, su, stritoliamoli, questi assassini. Contro le perfide bande di ladri lasciate i tumuli, larve dei padri; e su quest'orrida furia di stolti tutti scagliamoci · vivi e sepolti!


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L'amore di patria diventa religione, l'odio allo straniero una fede. Con noi combattono concordemente l'Odio, la Patria, l'Onnipotente.

Promessa di nuova era anche le costituzioni, che, rinnovando il patto tra principi e popoli, paiono assicurare il raggiungimento delle più ardue speranze. L'idea di nazione si associa all'idea di libertà nel canto del Bertoldi per lo Statuto albertino. Della risorta Italia il cantico s'intuoni: han vinto i tuoi campioni, o santa libertà.

Ma questa vittoria non è e non può essere fine a se stessa. Chi soffre ancor ? chi lagrima in giorni così belli ? Oh poveri fratelli, il vostro dì verrà ! Dal pian lombardo al siculo noi sarem tutti uguali sotto le tue grand' ali, o santa libertà !

E, a difesa di guesta rivendicata libertà, il poeta pone il suo sovrano, quello che già altri ha salutato « spada d'Italia}>.

O Carlo Alberto, il cantico che a libertà s' intuona di te favella e suona la gloria tua maggior. Salve, o beato Principe, padre, sovran, guerriero, terror dello straniero speme d'Italia e amor I Le memorie e le glorie antiche, i dolori e le umiliazioni recenti, l'odio e la speranza, tutto diventa motivo di poesia in quei giorni, e la poesia si fa azione. Il popolo italiano improvvisa nel Quarantotto

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il suo più bel paema epico. I sogni dei neoguelfi e il gigantesco afflato unitario del Mazzini, le aspirazioni repubblicane e le correnti monarchiche, la fede religiosa dei più e la razionalità laica di molti, la tumultuosa passione popolana e il temperato ponderare dei politici, tutto sembra fondersi in un unico gigantesco rogo. E giganteschi roghi .fiammeggiano a Parigi ed a Vienna, chè la rivoluzione travolge tutta l'Europa . La solenne retorica dei ben numerati esametri di Pietro Pasini aveva nelle « Adriades )) cantato la catastrofe veneziana di mezzo secolo prima, e più il timore e la viltà dei suoi concittadini :

Heu Patria infelix, stragem tibi tetra paravit . perfidies, stolidusque timor, vecordia turpis! perdidit una dies quod tot peperere labores .per tot saecla virum, per tot discrimina rerum. Essa, ora, cedeva il passo alla commozione per il generoso insorgere dei figli di quei Veneziani degeneri a riconquistare la propria libertà. Alla « vedovella incoronata d'alghe e di coralli))' l'Austria aveva strappato i suoi capi, Manin e Tommaseo. Nel nome di quest'ultimo amico il Poerio concitava alla lotta:

Su, su, moviam costretti da quell'ira, che puote-e mai non langue. M oviam, da quante il sole piagge saluta dell'ausonia terra; come un sol uom, che vuole, m'oviam a certa, sacra, ultima guerra. E a guerra era mosso il popolo, disprezzando ostacoli e pericoli, travolgendo a Venezia e a Milano le difese nemiche e la pavidità degli incerti, e aveva riconsacrato nel sole della vittoria il tricolore della libertà.

Ond'io che intento vate, vigilo l' opre per le vie degli anni, pien de' tuoi lunghi affanni - e dell'ardire, sento il carme venire, con novella esultanza, vittorioso de la mia speranza, :·_,

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IL PRIMO PASSO VERSO L'UNITÀ D'ITALIA.

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cantava ancora il Poerio, il più lirico dei molti poeti d'allora, alla notizia della vittoria milanese. Guerra di popolo, fatale preludio a guerra regia.

Alleluia! E' Dio risorto con l'insegna del riscatto, intona Luigi Carrer, nell'impeto delle sante illusioni di quella primavera della patria.

Che fan là quei sgherri ignavi, in Val d'Adige e d'Isonzo? Non dal ferro , non dal bronzo, la vittoria vien dal cor. Vuoti pur chi ci vuol schiavi d'armi e genti i regni suoi. Alleluia! E' Dio con noi, la sua croce e il suo pastor. Ai sovrani italiani tocca ora il compito di continuare l'impresa iniziata, e a loro si rivolge il Prati perchè non siano inferiori al destino:

Armi, o prenci d'Italia, anca una volta, armi, o leoni del sabaudo sir. O Italia grande, o parricida o stolta, eleggere v'è d'uopo. Armi, o perir. Chi disse: il regtio d'Italia è mio? stolto! l'Italia regno è di Dio. Intima il Bertoldi all 'indomani delle Cinque Giornate, spronando Carlo Alberto a scendere in campo per dileguare i timori e i sospetti dei Lombardi :

Su, Piemontesi, l'arme impitgnate, sovra il Ticino pronti volate, il vostro sangue l'onta cancelli, chè mal sospettano forse i fratelli: il vostro sangue suggellercì d'Italia tutta la libertà. Primo accenno questo ai dubbi, alle debolezze, alle incomprensioni, alle gelosie, che tanto doloroso peso avranno nel fallimento dei

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programmi e delle speranze. Ma allora, in quei primi giorni di gioia e di fraternità rinnovata, i poeti non sanno vedere se non ii compimento imminente dei sogni lungamente sognati: Oh giornate del nostro riscatto, oh dolente per sempre colui che da lunge, dal labbro d'altrui, come un uomo straniero, le udrà! che a' suoi figli narrandole un giorno, dovrà dir sospirando: io non v'era; che la santa vittrice bandiera salutata in quel dì non avrà. Questo solo poteva essere motivo di rimpianto e di trepidazione, come, nel completare ora il suo vecchio « Marzo r82r J> , il Manzoni cantava. Chè la voce di colui, al quale giustamente poteva il Mazzini dire di lì a poco in Milano : « Solamente io e Lei, don Alessandro, abbiamo serbato fede al culto dell'unità ll, non mancò neppure in quei g1or111. Al ritmo del popolare « Addio, mia bella, addio >J di Carlo Alberto Bosi, modesta Marsigliese della rivoluzione italiana, partono per il campo regolari e volontari. E sul campo fanno loro prove generose e si battono e si immolano per la vittoria comune poeti e pittori. Cade gravemente ferito a Vicenza il pittore e il romanziere della « Disfida di Barletta » ; è pianto morto sul campo a Curtatone il Montanelli, delicato poeta, in cui il De Sanctis saluta.va « tutta una poesia, l'angelo della nostra rivoluzione )) ; muore per Venezia Alessandro Poerio, che con la sua « Lirica civile J> aveva fatto dire aUo stesso Montanelli: « Mi cresce il sentimento religioso nel leggere questi tuoi versi, come nel pregare JJ . E l'anno dopo, sugli spalti di Roma repubblicana, lascia la giovine ardente vita « quel gentilissimo fiore di po,esia >J che fu il Mameli, e conosce lo strazio delle carni Girolamo Induno, il pittore che più e meglio d'ogni altro, forse, seppe narrare coi pennello le lotte per la patria. « Dio lo vuole! J> era il grido di guerra, e la Croce campeggiava sulle diverse divise dei corpi volontari, che muovevano veramente a nuova crociata. Cantava allora il popolare Barcariol, Vincenzo Foscarini, che imbraccerà bravamente il fucile, malgrado gli anni, durante l'assedio di Venezia: Italiani, all'armi, all'armi! fero, piombo, bronzo, foga!


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piere, copi, travi, marmi, doparemo in ogni logo per cassar via da de qua la todesca crudeltà! De l'Italia ogni contrada che se veda alzar la Crose, schiopo in spala, e in m an la spada, una sola sia la vose che ripeta libertà: Dio lo voi, Dio n'a ciamà! Altri in questo volume ha narrato le vicende della campagna e come e perchè ai primi entusiasmi e alle prime vittorie seguissero le tragiche delusioni che portarono a Custoza e alla battaglia di Milano. Immatura ancora l'Italia a rivendicare la propria libertà, inferiori gli Italiani ancora al grave compito. Altre dure prove occorrevano, altri dolorosi anni di espiazione, altra maturità di esperienza e di consiglio. L'alba degli immancabili giorni lieti era ancora lontana. Ma quante generose ire, allora, e quanto dolore per il fallimento della gesta iniziata!

Italian, che tardi ancora ? A/men liberi si mora I La catena invan fu sciolta; sarai schiavo un'altra volta. ltalian, se hai braccio e cuor, salva, salva almen l'onor. ltalian, che tardi ancor? salva, salva almen l'onor. tonava sdegnoso nell'ottobre di quell'anno il Bertoldi.

Non è tempo di rampogna, di noi tutti è la vergogna ... Agli sdegni e al rimpianto, agli incitamenti e alle preghiere faceva eco dalla prigionia il Montanelli, ancora sperando nel miracolo.

O rimasti alla difesa del vessillo tricolor, voi con l'ira in campo accesa, io combatto col dolor.

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Ma la sognata riscossa non verrà e saranno vani il cupo ardore cli morte di Carlo Alberto a N ovara, il martirio popolano di Brescia, l'epopea fulgida di Roma, dal Mazzini fatta guida ideaie e simbolo d'Italia, il sacrificio eroico di Venezia, domata, come canterà il suo ultimo poeta, il Fusinato, non dal nemico, ma dalla fame.

Ma non le ignivome palle roventi, nè i mille fulmini su te stridenti troncaro ai liberi tuoi dì lo stame. Viva Venezia: muore di fame! L'Austria aveva sotto l'antico giogo. giorni in esilio il « re pregava pace il poeta

vinto: tutto era stato inutile, l'Italia ricadeva Simbolo dell'espiazione comune finiva i suoi per tant'anni bestemmiato e pianto », sul quale che più lo aveva amato, il Prati.

Pace, o mio re! Chinatevi, drappi sabaudi a terra! Nel mesto cor dei militi muori, o canzon di guerra .. . Ma tutto era veramente perduto? Il pittore che aveva cercato di mettere « un po' di foco » in petto agli Italiani, lasciati penna e pennello per assumere il compito di guidare per l'aspra via della resurrezione il Piemonte, saliva al potere armato di quella fede profonda che gli aveva fatto scrivere nell'incompiuta « Lega Lombarda » : « può talvolta essere sprecato il sangue, l'esempio non mai ». E Daniele Manin, il dittatore veneziano, una delle più nobili figure di tutto il Risorgimento, gridava agli Italiani la sua certezza incrollabile: « N ostra consolazione è pensare che una pace durevole non Ha che nella giustizia ; che male si edifica sull'abisso; che per le nazioni il martirio è anche redenzione ».


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IL CONTRIBUTO MILITARE DEGLI STATI ITALIANI SITUAZIONE GENERALE Il contributo militare degli Stati italiani alla guerra del '48 contro l'Austria - che, operazioni escluse, viene qui esaminato fu, in pratica assai modesto e in ogni modo non adeguato alle capacità, alla popolazione, ai mezzi degli Stati stessi. « Su 25 milioni di Italiani - scrive il Ferrero - non si riuscì a costituire un esercito di 200.000 uomini ». Si può dire, tutto sommato, che, mentre tutta l 'ltalia sembrava divampare di sacro fuoco, la guerra fu essenzialmente condotta dali'esercito piemontese con l'aiuto limitato di poche forze regolari e di valorosi, ma discordi e frazionati volontari. Le cause di questo fenomeno sono essenzialmente politiche, non militari; derivano, sì, in parte dalia costituzione stessa delle forze armate, dal loro stato di armamento e di addestramento, ma soprat• tutto dalla varia situazione politica, dall'intervento di fattori spirituali, da campanilismi, da sospetti, da giuoco di partiti. Non è quindi possibile parlare dell'intervento delle forze regolari (dei volontari sarà trattato a parte) senza inquadrarlo negli avvenimenti da cui l'intervento stesso prese fisonomia e indirizzo morale e direttive d'azione.

La rivoluzione del '48 in Italia fu la prova generale del grande dramma del nostro Risorgimento. Per la prima volta, dopo i tentativi sporadici e locali che ebbero inizio sin dal 1820-21 , un movimento generale e contemporaneo parve scuotere dalle fondamenta l'edificio


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costruito dalla Santa Alleanza e mettere a pericolo il suo più fermo strumento, l'Austria. Fu l'anno degli entusiasmi e delle illusioni, ma anche della disorganizzazione e dei sacrifici e delle discordie; se non portò a immediati concreti risultati, servì tuttavia a precisare la posizione il ruolo - dei diversi attori, a creare il clima indispensabile per il successivo svolgersi degli avvenimenti, a insegnare, col prezioso tributo dell'esperienza e la constatazione evidente degli errar.i commessi, il modo di evitare la ripetizione degli stessi errori, almeno nel cicìo storico che si chiama del Risorgimento. Passati gli anni, ad un secolo di distanza, molti di quegli errori sono ripetuti; le stesse intemperanze, discordie, visioni partigiane invece che di patria, perfino gli stessi sospetti e le stesse ingiurie. E' destino che ogni generazione, se può imparare (e non sempre) dalle proprie esperienze, poco o nulla apprende da quella delle generazioni passate. Sotto questo aspetto è solo parzialmente vero che <' la Storia è maestra della vita».

Ad onta della lunga serie di agitazioni degli anni precedenti, si può dire che alla vigilia del '48 la coscienza nazionale italiana non era ancora formata nè orientata; troppe differenze ed anche diffidenze erano tra i vari Stati; incomprensione fra N ord e Sud (male, ahimè non scomparso o meglio riapparso oggi, nell'ora della sconfitta, come quelle tare costituzionali che riaffiorano quando l'organismo è indebolito da qualunque altra malattia); eccessi di visioni particolaristiche; predicazioni verbose, esagerate, talvolta esasperate; prevalenza, spesso assoluta, di interessi partigiani anche al disopra di quelli della patria comune. Gli insuccessi dei moti rivoluzionari avevano dimostrato che la via migliore non era quella; a molti parve che con successive riforme,. piuttosto che con la rivoluzione, si sarebbe meglio arrivati alla mèta o almeno agli obiettivi essenziali : libertà di pensiero, di stampa, forma di governo rappresentativa, libertà personale, e via dicendo: fo la corrente dei « liberali moderati », che volevano sostituita alla congiura la propaganda. Nemica ugualmente di unità, di libertà e di indipendenza era l'Austria : l'Austria dunque il primo ostacolo da abbattere. Così la lotta per la libertà si fuse con quella per l'indipendenza; ancora non si vedeva l'unità, ma si tendeva a forme diverse di federazione,.


IL CONTRIBUTO MI LITARE DEGLI STATI ITALIANI

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con a capo o il Papa (neo-guelfi, Gioberti) oppure il Piemonte (albertisti, Balbo). Erano questi essenzialmente i postulati del partito moderato. Il partito r epubblicano, auspice Mazzini, riteneva invece necessaria la rivoluzione per raggiungere l'ideale di libertà ; era fieram ente anticlericale (Guerrazzi) e avversario deciso dei moderati. Fu grande suo m erito aver tenuto desto lo spirito d'italianità, l'amore alla Patria, la fiamma della speranza anche nelle ore grige ·e specialmente tra la gioventù. Anche più in là andava il partito radicale, che non vedeva se non l'abbattimento delle monarchie, quali che fossero, e del papato, portando l'idea di libertà alle sue più teoriche ed estreme conseguenze, anteponendo spesso le ideologie alle possibilità pratiche, fino talvoita a danneggiare la stessa propria causa. Ne erano principali esponenti il Cattaneo e il Ferrari. Sentiva questo gruppo, sotto un certo punto di vista, quasi meno l'ideale della patria italiana che quello di regione o di municipio (Cattaneo era strettamente milanese) ; voleva la fede~ razione, anche perchè vedeva nelle regioni meridionali d'Italia una « catena al piede » per le regioni più progred ite. Questo partito s'infeudò alle idee ed ai programmi francesi ( 1); per cui, ad esempio, mentre si combatteva sui campi di Lombardia, il Ferrari accorse dalla F rancia e si agitò perchè fossero chiamati i Francesi, a preferenza dei Piemontesi, poichè i successi di Carlo Alberto m ettevano in pericolo l'idea repubblicana. L 'idea di parte sopraffaceva in alcuni quella della patria in guerra : vecchia colpa, vecchia mentalità italiana : l'appello allo straniero anche nelle ore supreme.

Sotto la spinta dell'opinione pubblica, caute riforme erano cominciate nei principali Stati d'I talia, quando la morte cli Gregorio XVI e l'elezione del papa Pio IX Mastai Ferretti (16 giugno 1846) parvero dare il segnale della redenzione. L 'amnistia da lui concessa, atto di bontà più che di significato politico, qualche modesta concessione parvero, a quelli che ricord avano i rigidi princip1 di Gregorio, segnale di grandi innovazioni. Trascinato al di là _dei suoi propositi, prigioniero di parole dette o anche non dette, Pio IX divenne per qualche tem po simbolo di libertà. ( 1~ <?attanc?, l)cl suo libro « Dell'inwn·ezione di Milano .. . » nfferma, a pag. 97 : siamo I annguardo del popolo franJ;csc . .. ».

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Non era precisamente così. Nel.l;i. sua azione noi. oggi, a mente fredda, vediamo il contrasto fra il « buon pastore», indulgente per il suo gregge, e il sovrano, custode del diritto divino. Questo non fu visto o non si volle vedere, donde le esagerazioni in un senso nel primo tempo e nel senso opposto dopo. Sta di fatto che le sue concessioni, piccole o grandi, portate al cielo, furono esca per maggiori richieste e soprattutto furono incentivo negli altri Stati ad analoghe o maggiori concessioni. Intanto il Piemonte, che sotto Carlo Alberto era stato in principio così cauto anzi ostile a riforme interne, aveva assunto verso l'Austria un atteggiamento di fierezza che attirò l'attenzione e le speranze dell'Italia. Ecco che l'idea di indipendenza prende il sopravvento su quella di libertà. A mano a mano i sentimenti e le aspirazioni di Carlo Alberto ·andarono sempre meglio precisandosi. Come la gran massa degli Italiani, egli vide che il nemico primo era l'Austria. Significativa a questo proposito è la lettera che scrisse nel luglio '46 al ministro Pes di Villamarina: « ...il Papa è deciso ad avanzare sulla via delle riforme. Che sia benedetto! E' una campagna che Egli fa contro l'Austria! Evviva ... Una guerra d'indipendenza nazionale che si unisse alla difesa del Papa sarebbe per me la più grande fortuna ... >> . Un incidente politico, di non grande importanza per sè, l'assunse per il momento in cui avvenne e pel modo come si svolse: la controversia con l'Austria a proposito del trasporto del sale. L'energia con cui il Piemonte resistè alle proteste austriache e alla ritorsione nel divieto pei vini piemontesi acquistò un valore simbolico e richiamò sempre più l'attenzione degli Italiani su quel piccolo Stato che prendeva un atteggiamento deciso contro il tanto più potente Impero. E tuttavia ancora una volta la scintilla partì, non dal Piemonte, ma dal Sud. La rivoluzione della Sicilia, coi suoi inattesi sviluppi, e le minacce dei liberali indussero Ferdinando II, dopo minori concessioni, a promettere addirittura la « Costituzione » (27 gennaio '48) e a promulgarla il 10 febbraio. La Costituzione era allora, negli animi degli Italiani, il toccasana che doveva arrecare la felicità e il benessere e guarire le popolazioni da tutti i mali... Comunque, sull'esempio del Re di Napoli, gli altri sovrani non poterono non fare altrettanto: la. Costituzione fu in Toscana l'II febbraio promessa e il 17 concessa; in Piemonte 1'8 febbra io annunziata e il 4 marzo concessa; nello Stato del Papa il 17 febbraio promessa,


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concessa il 14 marzo. Così il primo passo era compiuto; fatalmente si doveva passare al secondo: la guerra contro l'Austria. E qui, per continuare l'elenco cronologico, aggiungerò: 19 marzo Carlo Alberto ordina l'adunata sul Ticino e il 22 dichiara la guerra all'Austria; notte 22-23 marzo gli Austriaci abbandonano Milano; il 25 vi entrano le truppe piemontesi. La fiammata rivoluzionaria non era limitata all'Italia ma diffusa m tutta Europa. In Francia la monarchia di Luigi Filippo fu spazzata via e sostituita dalla repubblica, e non per volontà della maggioranza dei Francesi, agricoltori e conservatori, ma per l'azione di forza di una minoranza borghese, socialisteggiante e rumorosa. Grande influenza ebbe sugli spiriti italiani questa nuova rivoluzione francese, per quanto Gioberti ammonisse che essa « non era imitabile da noi>>. Mazzini prese subito contatto col nuovo Governo francese e giurò sulle promesse del ministro degli esteri, Lamartine. Tutta Italia fu piena di entusiasmo per la « nazione sorella >l che cercò di penetrare fra noi attraverso illusi o compiacenti suoi ammiratori. Con maggior senso realistiéo il Piemonte si dimostrò diffidente, anche perchè era a immediato contatto con la Francia. Infatti il Lamartine, ad onta delle sue parole per la platea, era pronto in un modo o nell'altro, preferibilmente attraverso l' « antiguardo » dei radicali, a intervenire in Italia dove gli interessi francesi, immutabili anche se mutava la forma del regime, erano contrari a che si formasse un forte regno di qua dalle Alpi. E già avanzava pretese su futuri « compensi,> e già guardava verso Nizza e Savoia. Subito un gruppo di circa duecento Italiani, fuorusciti per cause politiche, fra cui Pietro Giannone e lo stesso Mazzini, fondava una « Associazione nazionale fra gli esuli » che accettò a priori « qualunque forma di governo ,>, pur di « riunire gli Italiani attorno ad una sola bandiera»: nell'elevatezza del sentimento patrio anche i repubblicani seppero, di massima, anteporre l'idea dell'indipendenza e dell'unità d'Italia alle proprie convinzioni dottrinarie. Disgraziatamente non tutti perseverarono. In Germania movimenti regionali ottennero concessioni varie; a Vi_enna - e qui è per noi il punto importante - i moti popolari obbligarono alle dimissioni di Metternich e alla concessione della Costituzione.


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Nell'Ungheria si volle, oltre alla Costituzione, l'autonomia se non completa almeno per l'esercito e per la diplomazia. Nel grave disordine austriaco, l'Imperatore in maggio dovè fuggire a Innsbruck; solo l'esercito rimase saldo presidio intatto, colonna dell'Impero in Boemia, in Galiz.ia, in Italia.

I moti rivoluzionari d'Italia e quelli più generali d'Europa si influenzarono mutuamente, soprattutto" nell'alimentare nei liberali le speranze, ne~ prìncipi le preoccupazioni, mentre la situazione in. terna dell'Austria pareva dar segno che proprio l'edificio base scricchiolasse e che molte possibilità si aprissero alla nostra causa. Perciò, alla notizia della rivoluzione a Vienna, Venezia e Milano si mossero e la vampata, unendosi al movimento dell'Italia meridionale, corse l'Italia. Bisogna però notare che tutti questi movimenti non erano fra loro coordinati nè predispòsti. Nella impreparazione degli animi; divisi tra varie opinioni, con un programma unitario ancora vago ed informe, gli Italiani, se avevano comune il proposito della lotta contro l'Austria, non sapevano ancora raccogliersi in meditata visione su ciò che si sarebbe dovuto fare dopo. Più ancora, nell'entusiasmo del momento, al primo ritirarsi degli Austriaci dalle città: credettero la partita vinta definitivamente e non apprezzarono le difficoltà che rimanevano da superare. Per ottenere l'indipendenza bisognava affrontare l'esercito del1'Austria, potenza militare di primo ordine; e per ciò erano pur necessari armi, danari, mezzi e soprattutto capacità e spirito militare, il che significa disciplina, coesione, rinunzie e pratica del mestiere. Ormai, dopo tanti anni di pace, pochi rimanevano dei reduci delle campagne napoleoniche; le masse eran disabituate non solo al maneggio delle armi ma anche allo spirito militare; salvo forse in Pìemonte. La condizione di soldato era in molte parti in discredito; la guerra ripugnante. Chiusi nei loro piccoli Stati, lontani dalle grandi .correnti internazionali, gli Italiani conoscevano la guerra dai raccontì dei romanzieri, i grandi duelli, gli episodi di valore individuale. Ma l'arte della guerra, intesa come un tutto, le sue difficoltà, i suoi bisogni, la sua tecnica erano ignorate anche dalle classi colte. Mazzini, nella sua chiara visione dell'avvenire d'Italia, capiva che la lotta era indispensabile e occorreva prepararvisi; ma, com-


BOMBARDAMENTO DI VENEZIA


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prendendo che l'organizzazione di eserciti nazìonalì avrebbe richiesto molto tempo e d'altronde conseguente a tutta la sua linea dì con. dotta, trasse dal ricordo della guerra di Spagna l'idea della lotta « per bande». Gruppi di valorosi avrebbero dovuto formarsi - da 25 a 50 uomìni ciascuno - animati di amor patrio, armati con quello che si sarebbe trovato, fucili, spade, picche, sperando di prendere armi migliori al· nemico. Le bande dovevano molestarlo e stancarlo, dando il tempo necessario alla costituzione di veri e propri eserciti. Erano idee generose e, come tali, rispettabili, ma ognuno capisce quanto poco pratiche. In ognì modo, a parte che la necessità di eserciti regolari era dallo stesso Mazzini riconosciuta indispensabile per la definizione della lotta, non potevano bastare gli isolati episodi di valore, per quanto mirabili, contro la coesione, la capacità combattiva, l'armamento dell'esercito austriaco. E se il sisteina piaceva e poteva sembrare adatto all'indole indipendente e sempre un po' ribelle del popolo ìtàliano, non potè dare la soluzione del problema, che cominciò solo ad aversi nel '59 quando non uno ma due eserciti regolari, il piemontese e il francese, affrontarono quello austriaco. Era chiaro che contro una potenza militare quale l'Austria non · bastava l'azione delle sole «bande», per dì pìù disperse in tanti centri e spesso fra loro discordi. Era indispensabile, e del resto ne aveva convenuto lo stesso Mazzini, l'intervento di un esercito regolare. E questo non poteva essere che l'esercito piemontese, per ragiom geografiche, storiche, politiche, militari. Dei due Stati italiani che possedessero un esercito, il Piemonte era quello più vicino, anzi confinante con l'Austria; Napoli ne era lontana. Se entrambi gli Stati avevano avuto in passato l'appoggio dell'Austria, il Borbone aveva perseverato nella sua politica, Carlo Alberto aveva invece a mano a mano accentuato la freddezza di rapporti fino ad una vera animosità contro Vienna. Su lui già convergevano gli sguardi degli Italiani, il suo intervento appariva non solo utile, ma addirittura indispensabile. Ma qui affiorarono le discordie italiane. Erano pienamente favorevoli all'intervento di Carlo Alberto i liberali moderati e cioè la grande maggioranza, benchè anche fra essi fosse qualcuno cui l'eccessivo ingrandimento del Piemonte non pareva opportuno. I repubblicani, naturalmente, non potevano vedere di buon occhio un'azione regia, che avrebbe significato il consolidamento di una istituzione da loro combattuta. Ma d'altra parte anche essi sentivano che l'intervento di Carlo Alberto era indispensabile p~t IO


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il raggiungimento dell'obbiettivo italiano. Combattuti fra l'attaccamento alle proprie ideologie e l'amor di patria e la logica dei fatti, tennero contegno diverso. Alcuni seppero dare il primo posto al1'amor patrio e alle evidenti necessità dell'indipendenza e furono collaboratori leali. Altri oscillarono; trascinati. dall'entusiasmo, sep- · pero per qualche tempo conformarsi a lealismo, ma non resistere a lungo ai preconcetti ideologici e, talvolta inconsapevolmente, tal altra consapevolmente, costituirono ostacolo o crearono difficoltà all'opera di liberazione. I federalisti di Cattaneo, infine, furono sempre e decisamente contrari a Carlo Alberto e ai Piemontesi e diedero talvolta spettacolo di intemperanza politica. Nell'atmosfera arroventata delle passioni, non solo ostacolarono lo svolgimento delle operazioni militari con le agitazioni interne e non si contentarono cli lottare contro i moderati e gli « albertini », ma attaccarono perfino gli stessi repubblicani meno intransigenti e perfino il Mazzini, cui il Cattaneo, in un momento di collera, gridò: « Quest'uomo è venduto! ,, . E a Ve11ezia un -patriota come Tommaseo si scagliava contro Manin; e il Ferrari, antesignano di analoghi sistemi, dopo essersi precipitato da Parigi a Milano, per << mettere un freno ,, all'azione di Carlo Alberto e far invece intervenire i Francesi, quando vide l'impossibilità di creare la repubblica a Milano, preferì tornare in Francia a fare il fuoruscito, piuttosto che combatter coi Piemontesi contro l'Austria.

A completare il quadro generale è necessario aggiungere che, nell'ora in cui per la prima volta suonò la campana dell'indipendenza d'Italia, se nelle città il fervore patriottico portò ai movimenti, alle rivoluzioni e infine all'intervento dei Governi alla guerra contro l'Austria, nelle campagne la popolazione poco o nulla partecipò nè ai movimenti nè agli entusiasmi nè alle operazioni belliche. Non solo l'idea dell'unità ma nemmeno quelle dell'indipendenza e della libertà erano capite dalle masse rurali che rimasero assenti e in molti posti contrarie. Nella stessa Lombardia, dove si combatteva, dove dominava lo straniero, i contadini erano decisamente per lo statu quo, anzi spiccatamente avversi ai Piemontesi che consideravano più stranieri degli Austriaci. Così avvenne che in tutta la campagna non solo non favorirono i movimenti delle truppe italiane, ma negavano ad esse quegli stessi rifornimenti che poi davano agli Austriaci. Significativo il fatto che in tutta la guerra si trovò in Lom-


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bardia un solo informatore per i Piemontesi, mentre gli Austriaci trovavano notizie e complicità da per tutto. E fu perciò e per gli ostacoli opposti .da alcuni alle decisioni del Governo provvisorio di Milano che le truppe combattenti nella più ricca pianura d'Italia e:bbero spesso a soffrire la fame e la sete. Ciò è pur necessario dire perchè è un fattore dell'andamento delle operazioni. Col proseguire delle operazioni fu chiaro che l'esercito austriaco non era affatto battuto, come avevano gridato alcuni partiti, anzi la lotta assumeva gravità sempre maggiore. Era necessaria la unione degli sforzi e degli obbiettivi. Specialmente le città minori, a maggior contatto col pericolo e con la guerra, sentirono la necessità della fusione col Piemonte e col suo esercito. ·così, superate molte difficoltà, prima i Ducati di Parma e Modena, poi le città lombarde e venete. infine Venezia e Milano decretarono l'annessione al Piemonte.

Quanto ai Governi degli Stati italiani, è facile capire che, se essi dovettero in un primo tempo, premuti dai disordini di piazza, promettere il loro concorso alla guerra di liberazione, non potevano farlo nè voleÌ1tieri nè in buona fede. Quale interesse potevano avere nell'esito vittorioso della guerra? Questa avrebbe portato all'ingrandimento del Piemonte, spostando l'eguilibrio fra gli Stati italiani. Era forse logico, ad esempio, che il Borbone contribuisse con le proprie forze a questo mutamento a suo danno e a favore del suo · rivale? Già il Piemonte primeggiava fra gli Stati italiani; conveniva ai Governi di Napoli e di Firenze aumentare questa prevalenza? Senza dire poi che un'attuazione dei programma massimo dell'unità avrebbe significato addirittura far fagotto. Come si poteva dunque pretendere un vero e deciso contributo che sarebbe stato un suicidio?

. Le difficoltà così prospettate spiegano in buona parte .l'insuccesso della guerra, iniziata nell'entusiasmo generale, proseguita in condizioni sempre più difficili, quando cioè, mentre il nemico si riprendeva ed aumentava di forze, crescevano alle spalle dei combattenti italiani gli elementi di discordia e di debolezza, le ostilità dei partiti, le rivalità fra i governi. Converrà ora esaminare particolarmente il contributo dato dai van Stati italiani alla guerra contro l'Austria.


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IL CONTRIBUTO MILITARE DEI VARI STATI REAME DI NAPOLI.

Dopo il Piemonte, lo Stato più importante era il Reame di Napoli, come è uso chiamarlo, superiore al primo per popolazione (6 milioni di abitanti in continente e più di 2 in Sicilia) e per territorio, ma più isolato e meno attivo nella politica europea. La dinastia dei Borboni, che aveva brillato sotto Carlo III, andò moralmente e politicamente decadendo. Isolata dall'Europa e anche dal resto d'Italia - Ferdinando II soleva dire che il Regno di Napoli era « tra l'acqua santa e l'acqua salsa », gli Stati pontifici e il mare - viveva un po' a parte, ma tutt'altro che tranquilla; Napoli era, con lo Stato del Papa, la regione più frequentemente in agitazione. Dal 1799, prima fuga del Re in Sicilia, rivoluzioni e movimenti, intermezzo del Buonaparte e di Murat, restaurazione e via dicendo: il Reame aveva subìto parecchi scossoni. Ferdinando II, salito al trono (1830), parve irrigidirsi nel concetto di assolutismo politico, che riteneva il solo adatto ai suoi popoli. Bisogna riconoscergli però il merito di una notevole indipendenza di fronte alle ingerenze straniere e l'abile equilibrio fra le inframmettenze francesi ed austriache. Come afferma il Croce, il nuovo sovrano volle e seppe resistere aJle influenze esterne, coltivando l'idea di una indipendenza, sì, ma napoletana non italiana. E Croce conferma « l'impossibilità che Napoli si metta alla testa dell'unità italiana», perchè « l'Italia meridionale, per la sua posizione geografica, per le sue condizioni sociali ed economiche, per la sua storia stessa non possedeva la forza, l'autorità e la capacità di dirigere l'opera della unificazione. Murat non aveva, per quella parte, lasciata una tradizione ai suoi successori; e quell'impresa stessa del Murat, col nessun séguito che trovò nei popoli dell'Italia media e alta, confermava il carattere di un colpo di testa e di un'avventura >> . Le concezioni politiche di Ferdinando II non potevano non portare alla diffidenza verso il Piemonte che si andava affermando sempre più come campione di italianità, diffidenza di cui si videro le conseguenze nella campagna del '48. In politica interna, convinto che contro il dilagare delle idee liberali occorresse il pugno fermo e contro le aspirazioni autonomi-

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stiche siciliane un'assoluta intransigenza, Ferdinando fu nelle repressioni spietato. « La libertà è fatale ai Borboni! )) ' diceva, e non sapeva egli stesso con quanto spirito profetico. Dati questi concetti, trovò necessario occuparsi dell'esercito, fin allora tanto trascurato, per . farsene uno strumento solido del potere reg10. L'esercito napoletano aveva oscillato fra grandi prove di valore e giornate di evidente inconsistenza. Quegli stessi soldati napoletani che nelle campagne napoleoniche avevano scritto le più gloriose pagine tra i combattenti italiani, così da esser citati ad esempio da Napoleone; quegli stessi, che si eran comportati con tanto valore in Spagna, avevano poi tanto mal figurato a Velletri; mentre, sotto l'austriaco Mack, avevano ceduto contro i Francesi di Championnet, pochi giorni dopo gli opponevano quella tremenda e feroce resistenza, sotto Napoli, che lo stesso Championnet dichiarò fra le più eroiche che avesse mai visto. Soldati sensibilissimi, come e più degli altri Italiani, alle qualità dei capi, s'erano andati deprimendo sotto il comando di generali stranieri (Ulloa scrisse: « Sopra ogni altra cosa fu alle milizie napoletane fatale di aver dovuto combattere sempre le battaglie dello straniero ... >J, tale considerando anche il Borbone), Negli ultimi tempi, poi, s'erano infiltrati nell'esercito le passioni politiche, il carbonàrismo da una parte e l'aumentata reazione legittimista dall'altra. Con la sfiducia dall'alto, il disordine amministrativo e la scarsa · considerazione del pubblico, l'esercito che aveva meritato le lodi di Napoleone era profondamente decaduto sotto i predecessori di Ferdinando II, tanto che per sicurezza erano stati creati quattro reggimenti di svizzeri, i « puntelli del trono JJ • . Ferdinando II credette utile, sempre per fini dinastici, di procedere ad un riordinamento delle forze armate. Con l'ordinamento del '32, l'esercito napoletano fu aumentato in proporzione di un soldato ogni I 30 abitanti, raggiungendo, almeno sulla carta, la cifra di 60.000 uomini in pace e 80.000 in guerra. Le spese militari erano di ducati 7.000.000 per l'esercito e r.500.000 per la marina, su un bilancio complessivo di 26.874.948 ducati: un quarto delle spese statali. Reclutamento con sistema misto: leva e volontariato. Gli obblighi di leva importavano un servizio di 5 anni nell'attiva e 5 nella riserva. Per le armi a cavallo 8 ann.i di servizio alle anni e poi congedo assoluto. Esisteva anche l'arruolamento volontario, sotto la forma dei « figli di truppa >J, con 8 anni di ferma, e dei raffermati.


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IL PRIMO PASSO VERSO L'UNITA o'rTALIA.

Gli ufficiali, salvo i non molti che erano reclutati fra i sottufficiali in seguito ad appositi corsi, provenivano in gran parte dal glorioso collegio militare dell'Annunziatella, che ha .dato all'Italia soldati ed uomini insigni per provato patriottismo: Colletta, d' Ayala, i due Mezzacapo, Cosenz, Pianell, Primerano, De Benedictis, Guglielmo Pepe, Carlo Pisacane, Vincenzo Orsini e altri molti, così come aveva dato scrittori militari fra i migliori d'Italia, da Giuseppe Palmieri e Luigi Blanch (dimessosi all'entrata degli Austriaci a Napoli nel '21) fino a Nicola Marselli. L'ambiente di quel vivaio di ufficiali era improntato a italianità, f.er quanto lo consentivano i tempi. Basilio Puoti, il celebre purista, nel suo insegnamento delle lingue diceva: « ... Scrivete la vera lingua · d'Italia. Io voglio avvezzarvi a sentire italianamente ed avere in cuore la patda nostra )>; e de Sanctis dava lezioni di letteratura che erano lezioni di italianità. Al gruppo di giovani più colti ed ardenti, cui pesavano gli ingiusti giudizi sull'esercito, si opponevano gli assolutisti, fanatici adoratori del Borbone. Era quindi vivo ed aperto il contrasto fra liberali e assolutisti, fra ammiratori di Murat e seguaci del Borbone, fra unitari e meridionalisti. L'ordinamento dell'esercito era: Fanteria:

reggimenti granatieri e I cacciatori della Guardia Reale; r3 reggimenti fanteria di linea, nazionali (di 2 battaglioni a 6 compagnie di roo uomini); 4 reggimenti fanteria svizzera; 9 battaglioni .cacciatori. 2

Cavalleria: 2 reggimenti Guardia Reale; 3 dragoni; gimento su 4 squadroni di 148 uomini).

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lancieri (ogni reg-

Artiglieria: 2 reggimenti a piedi, ciascuno di 4 brigate. di 4 compagnie (più la 1t compagnia deposito); r batteria artiglieria a cavallo con 8 pezzi.

Genio: 2 battaglioni: 148 uomini.

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zappatori e

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pionieri, a 6 compagme di


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Treno: 1 battaglione di 6 compagnie, una del~uali deposito. · !;.i,,,.

Totale forze combattenti: 45 battaglioni di fanteria, 28 squadroni di cavalleria, 8 compagnie di artiglieria (l'altra metà era addetta al servizio delle piazze), r batteria, oltre formazioni varie (gendarmeria, guardie del corpo, ecc.). La lunga ferma, l'istituzione dei « figli di truppa)) (ragazzi figli di ufficiali o sottufficiali, ammessi in servizio a dieci o dodici anni di età) e del « reingaggio )) ; le speciali concessioni ai militari; la coabitazione delle famiglie in caserma, tutto contribuiva a far dell'esercito una casta chiusa, fuori dal contatto del popolo, come appunto Ferdinando voleva. Egli infatti aveva cercato di consolidare uno strumento personale di fedeltà e di dominio, completamente estraneo alla popolazione, e vi era riuscito, poichè la maggior parte . dell'esercito, specialmente della truppa, gli era devota. Così gli elementi liberali ed i reduci delle campagne napoleoniche rimanevano isolati e senza séguito. I · movimenti liberali, qua e là risorgenti e presto repressi, . il fremito di libertà che corse la penisola col nuovo papa Pio IX, se ebbero riflessi tra gli ufficiali, non allontanarono la truppa dalla sua devozione personale al Re nè scossero Ferdinando, stretto alla sua politica antiliberale. Anzi egli dichiarò che non intendeva « imitare nessun figurino di moda))' alludendo al Papa e a Leopoldo di Toscana. In realtà, nella seconda metà del '47 re Ferdinando, impressionato dalla situazione generale, sentì che doveva fare anche lui qualche concessione alla corrente, e lo fece specie in materia di tributi, senza però cambiare la sua direttiva di governo. Al contegno del Re rispose una più intensa attività dei liberali e più frequenti contatti fra le varie regioni d'Italia. L'atmosfera del '48 era troppo satura di elettricità e la forza degli eventi superava la resistenza degli uomini. . In gennaio scoppiò, preannunziata, la rivoluzione in Sicilia. Vi furoi:io subito inviate truppe, che però non seppero o 1101:_ poterono dominare la situazione. In breve l'isola fu sgombra da forze regie. Il trionfo della rivoluzione siciliana ebbe eco profonda in tutta Europa. A Napoli grave fu la ripercussione. In Ferdinando la pre-


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occupazione era accresciuta dalla notizia di rivolte scoppiate anche nel Cilento e dai rumori di disordini che contemporaneamente nascevano un po' da per tutto, perfino nell'amica Austria, che in tali circostanze sue interne non avrebbe potuto come in passato aiutarlo. Riforme parziali (fu concessa la guardia nazionale e vi fu messo a capo Guglielmo Pepe, reduce dall'esilio; furono cambiati i ministri; licenziato l'odiatissimo del Carretto) non bastarono. E; allora (il 27 gennaio), sorpassando d'un balzo le più limitate concessioni degli altri prìncipi italiani, Ferdinando promise senz'altro di concedere la Costituzione e la concesse infatti il 10 febbraio (pur maledicendo « quel pretarello romano che aveva guastato la pace d'Italia >> ). Fu un delirio. Il popolo, non abituato a libertà (molti ignoravano perfino che cosa fosse la Costituzione e qualcuno spiegò che era ... la figlia di Garibaldi) passò senz'altro alle esagerazioni ed agli eccessi. Parve allora che tutto fosse lecito; ingiurie ed accuse; arrembaggio per ottener posti e prebende. Scrive Settembrini nelle « Ricordanze » : <, La stampa sfrenata pubblicava vergogne, calunnie, verità, nefandezze, mordeva tutti. La plebe diceva: - E se non si lavora e così siamo digiuni, che libertà è questa? Prima il Re era uno e mangiava per uno; ora sono mille e mangiano per mille ... - Nelle campagne i contadini invadevano e dividevano fra loro le terre appartenenti al demanio ... >>. In tale confusa situazione, la notizia della guerra dichiarata da Carlo Alberto all' Austr;ia parve dare un qualche orientamento alle correnti liberali. Da ogni parte si gridò che bisognava partedpare alla guerra di liberazione nazionale. L'idea di indipendenza si sovrappose a quella di libertà. Molti ufficiali .chiesero di partire volontari per la Lombardia, e il. Re li lasciò andare ben volentieri, dicendo: « A nemico che fugge, ponti d'oro! )) . La principessa Cristina di Belgioioso, che si trovava a Napoli, sempre irrequieta e fremente di libertà, accolse con sè duecento volontari napoletani , giovan.i in gran parte delle migliori famiglie, e s'imbarcò per Livorno, donde proseguì per la Lombardia (dove i volontari napoletani furono accolti con molta diffidenza e chiamati con disprezzo « i Calabresi ... ))). Ma la piazza reclamava · passi più decisivi. Il 26 marzo il ministro Serracapriola avvertì che non solo avrebbe aiutato ad armare i .volontari, ma avrebbe portato « soccorso ai nostri fratelli lombardi >J con un corpo di 6000 uomini, ed allo scopo chiamava alle armi la classe 1847.


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Infine i moti popolari e qualche agitazione fra militari indussero il Re (7 aprile) a promettere di partecipare alla guerra d'indipendenza << con tutte le forze di terra e di mare». Intanto avviò l'irrequieto 10° reggimento di linea che, via mare, fu mandato a Livorno, dove era al completo il 16 aprile, benchè scarso di forze (aveva in tutto 900 uomini). Di là si portò sul teatro di guerra, dove si battè valorosamente insieme con le truppe piemontesi e i volontari toscani. Esaminando ad un secolo di distanza la situazione, è evidente che Ferdinando non poteva esser sincero nelle sue promesse. Non solo, come ho già detto, non aveva nessun interesse a partecipare ad una guerra contro l'Austria, ma anzi i suoi interessi erano proprio opposti. Perchè avrebbe dovuto mettersi contro l'Austria, da cui era stato sempre aiutato e che ancora domani avrebbe potuto farlo ùi nuovo, in una situazione tanto incerta? Deviare verso l'indipendenza i bollori della gente che chiedeva libertà, questo sì era utile per qualche tempo, ma fino ad un certo punto e senza lasciar troppo via libera alle correnti liberali che prima o poi si sarebbero voltate contro di lui. Comunque, non potendo e non volendo fronteggiare l'ondata di entu siasmo, manovrò di abilità. Anche lui pensò di lasciar « sfogare» l'agitazione. Inviò truppe regolari, ma a spizzico. Opportuna per lui fu l'imposizione papale di non lasciar passare attraverso lo Stato della Chiesa più di un battaglione per volta. La cattiva volontà anzi la chiara ostilità del ministero fece sì che alle unità partenti mancasse un po' di tutto, quadri, equipaggiamento, armi. Si aggiunse poi una buona ragione: la necessità di organizzare forze contro la rivoluzione della Sicilia, dove il concetto dell'autonomia cli fronte a Napoli non faceva per altro dimenticare, almeno nei capi di più elevato sentire, quello dell'unità italiana, federativa anche se non assoluta. Con mossa abile il Re diede il comando delle truppe partenti a Guglielmo Pepe: dati i sentimenti liberali di lui, era bene allontanarlo e magari comprometterlo. In ogni modo gli fu messo accanto il vecchio e fidato generale Statella. Le forze avrebbero dovuto ammontare ad un corpo d'arm ata di due divisioni. Il generale Pepe avrebbe voluto sbarcare a Venezia con l'aiuto dell'ottima marina da guerra napoletana. Per di più il 14 aprile giunse richiesta dal Governo provvisqrio di Venezia che la flotta napoletana intervenisse per impedire un eventuale sbarco austriaco sulle coste italiane. E il conte Rignon, inviato di Carlo Alberto,


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insisteva perchè navi e forze accorressero a Venezia, per « concorrere così alla guerra d'indipendenza» . Re Ferdinando promise tutto sul giornale costituzionale del 17 aprile. Al solito, guadagnar tempo. Ma il generale Pepe si ammalò per le enormi difficoltà che dovette superare; l'idea dello sbarco tramontò. Fu deciso il movimento per via di terra, salvo il trasporto di una parte che per mare doveva andare a Pescara o Ancona. In definitiva, le forze partecipanti alla guerra, che pure secondo la promessa avrebbero dovuto essere « tutto l'esercito e tutta la marina », furono stabilite in una divisione di 16.000 uomini cui avrebbero seguìto altri 24.000 uomini. Il 13 aprile cominciarono le partenze via terra. Il 30 passò da Ancona il primo dei battaglioni che marciavano, come si è detto, uno al giorno e a cui si aggiunsero successivamente le truppe trasportate per mare. Ricordo che a quella data erano già avvenuti i combattimenti di Goito, Monzambano, Colà, ed era in corso quello di Pastrengo.

Quali erano i compiti delle forze napoletane? Quali gli obiettivi ? Il 3 maggio il generale Pepe ebbe istruzione dal ministro della guerra di raccogliere il corpo di spedizione sulla destra del Po ed attendervi ordini; il Governo napoletano era in trattative con quello piemontese circa i termini della partecipazione alla guerra « con tutti gli altri Stati italiani >i . L'8 maggio Pepe assunse il comando. Subito si diede a riordinare le sue forze, a sollevarne il morale, a raffermare la disciplina, facendo appello ai grandi ideali di libertà, appello non solo inutile ma forse dannoso fra gente che i disordini degli ultimi tempi e le predisposizioni spirituali avevano reso diffidente ed ostile, e che~ più ancora, stanca della lunga marcia attraverso l'Italia (trentacinque giorni fra Capua ed il Po), si trovava anche in grave disagio m ateriale. Cosi, quando il Pepe, passando in rivista alcuni battaglion i, gridò che ~mdavano a combattere per una nobilissima causa, dalle fila partirono grida : « E pel nostro Re !. .. » . Chiaro dunque che l'idea della guerra contro l'Austria era subordinata alla volontà di Ferdinando IL L'impreparazione delle forze era tale che lo stesso Pepe, e lo Statella con lui, vedeva l'impossibilità di impiegarle subito ed accusava il ministro della guerra, il quale si scusava con le difficoltà della non preparata mobilitazione e con le necessità per la spedizione in Sicilia.


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In questo momento scoppiò - provvida per il re Ferdinando, tanto che si potrebbe pensare da lui provocata (ma lo fu invece dall'inesperienza dei deputati) - la rivoluzione del 15 maggio a Napoli. Ne son noti gli eventi e le cause. Alla incomprensione dei deputati si aggiunse la preconcetta volontà del Re, la separazione netta di sentimenti fra l'esercito e la parte migliore del popolo. Dei soldati il Settembrini dice: « ... Stavan cagneschi contro i liberali... Sospetti, gelosie, interesse, e poi star sempre su l'armi e palpitanti; non dormire, non posare e chiusi come belve nei quartieri, dove era vietato leggere ogni carta ... Tutte queste cose li aspreggiavano, li irritavano; li tenevano come mastini alla catena ... )). La rivolta del 15 maggio, dunque, a parte le sue conseguenze interne, offrl un buon pretesto al Re, già preoccupato per la rivoluzione siciliana e per nuove agitazioni nelle . Calabrie : ne profittò per richiamare le forze dal Po, almeno quelle regolari; i volontari rimanessero pure: tanti agitati di meno nel Regno! L'ordine per il ritorno delle truppe, spedito il 16 maggio, giunse al quartier generale del Pepe il 22. Vi era specificato che, qualora Pepe non volesse prendere il comando delle truppe in ritirata, dovesse cederlo allo Statella. L'ordine giunse quando già Pepe aveva ricevuto da Carlo Alberto disposizione di passare il Po ed avviarsi nel Veneto, prendendo · sotto il suo comando le forze romane del Ferrari. E' facile immaginare l'effetto disgregatore che ebbe l'ordine di richiamo in u n ambiente già così poco saldo e meno ancora omogeneo. Pepe non volle tornare indietro e in primo tempo cedette il comando a Statella; la popolazione di Bologna, dove era il quartier generale, insorse; Pepe dovette riprendere il comando; Statella si ritirò. Ma tutto ciò non servì a cambiare gli animi. Pepe tentò tutti i mezzi; cercò resistere; ordinò alla 1"' divisione, che era a Ferrara, di passare il Po, ma la massa non obbedì, anzi iniziò la marcia di ritirata verso Ancona. La 2"' divisione, comandata dal brigadiere K lein, seguì; entrambe continuarono la loro marcia tra l'ostilità e le ingiurie delle popolazioni. Furono giorni di dura crisi spirituale che ebbe le sue vittime: il colonnello Lahalle, stretto fra l'obbedienza al suo Sovrano e i sentimenti di italianità, si uccise con un colpo di rivoltella. Il colonnello Testa morì di dolore ... Solo un migliaio di fanti, trecento artiglieri con otto cannoni e pochi altri rimasero con Pepe e passarono con lui a Venezia, dove con la loro veramente splendida condotta dimostrarono che l'esercito


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napoletano, ove ben guidato, avrebbe saputo rinnovare i fasti del periodo napoleonico. Il 10° di linea, che già aveva combattuto con valore e con successo a San Silvestro, a Montanara, a Curtatone, alle Grazie, a Goito (a Montanara un suo battaglione perdette 104 uomini su 287), fu :mch'esso richiamato da speciale ordine del Re. Il suo comandante, colonnello Rodriguez, ebbe ordine reciso : « far rientrare al più presto le truppe. A quelli che non retrocedevano, sarebbero confiscati i beni e presi in ostaggio il capo della famiglia)>. Metodi che abbiamo rivisto applicare anche noi ... Sotto la dura minaccia, il 10° di linea lasciò il campo di battaglia dove si era comportato con tanto onore. Al suo ritorno a Napoli, in compenso della sua bravura, trovò l'ordine di scioglimento. In conclusione, la partecipazione dell'esercito napoletano alla guerra contro l'Austria è limitata all'azione brillante, ma parziale, del 10° di linea e a quei duemila uomini circa che, con Pepe, Ulloa, i due Mezzacapo, Cosenz, Carrano, Boldoni, Musto ed altri nobilissimi si batterono a Venezia. Concluderò con Benedetto Croce che la rivoluzione del '48 a Napoli e la sua repressione costituirono una vittoria, però effimera, dei Borboni e del Governo. La borghesia egoista e poco combattiva. I liberali in minoranza. Il popolo assente o contrario. Ma i migliori emigrarono in Piemonte e contribuirono alla riscossa che doveva sorgere e sorse su più larghe basi.

Due parole sole per la Sicilia - che benchè per qualche tempo indipendente e guidata da un Governo provvisorio - non potè inviare alla guerra d'Italia che un piccolo nucleo di volontari. La situazione interna dell'isola dopo la cacciata dei Borboni era delle più caotiche; a ben poco potè riuscire l'azione onesta e diritta del presidente Ruggero Settimo e dei valentuomini che lo coadiuvavano, presi, a somiglianza di quelli di Milano, dalle lotte di partito, dalle ambizioni personali e guidati da un così tenace senso cli regionalismo che neanche la concessione della Costituzione a Napoli e il pensiero della guerra d'indipendenza nazionale e l'appello di Mazzini a dimenticare le questioni locali nel supremo interesse della patria, bastarono a farli recedere dall'idea della separazione. Un ministero della guerra, con a capo il barone Riso, non riuscì a organizzare delle vere e proprie forze armate, poichè il valore


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personale, se basta a fare le rivoluzioni, non è sufficiente per costituire degli eserciti. Scrive il Ranalli: « ... quanti credevano di averlo promosso [il Risorgimento] volevano ricompensa negli uf fìci... tanto più che la maggior parte, rimanendo in arme, aveva costretto i diversi comitati a largheggiare nel conferire gradi e onori, che non bastando quelli che v'erano, fu mestieri crearne dei nuovi, massime nella milizia... ebbe tanti colonnelli e capitani da quasi il numero dei soldati superare. I quali, non avendo dalla presunzione in fuori altra qualità militare, fecero che proffertisi di difendere la patria uomini probi e nel mestiere dell'armi esercitati, furo no tumultuariamente rigettati sotto pretesto che avevano servito il Borbone... )>.

Un cenno particolare merita l'azione della flotta napoletana. La marina del Reame godeva di meritata fama ed era certo la più importante fra quelle d'Italia, tanto che nel 1847 il Piemonte aveva mandato a Napoli una commissione, col Persano, per studiarne i progressi. Le brillanti campagne combattute contro gli Inglesi o contro i Francesi, le spedizioni africane, i viaggi in America avevano addestrato i quadri e il personale; i nomi di Caracciolo, di Bausan, dei due de Cosa, e di altri molti erano conosciuti ben fuori del Regno. Tecnicamente, la marina era all'avanguardia, specie nelle navi a vapore, il cui macchinario veniva in gran parte costruito nello stabilimento sorto nel '39 a Pietrarsa, presso Napoli. Veramente, nel '48, anche nella marina erano apparsi segni di decadimento, tuttavia assai meno che nell'esercito, per un fenomeno generale e per le speciali modalità di vita che tengono i marinai un po' a parte dalle correnti politiche. Per la guerra d'indipendenza, re Ferdinando fece armare una squadra di due fregate, un brigantino, cinque corvette a vapore. A comandarla fu designato dapprima l'amm. Jauch, poi - per la malattia di costui - il brigadiere (e poi contrammiraglio) Raffaele de Cosa. Era questi. un vecchio e glorioso ufficiale che, già distintosi nella marina di Murat, aveva fatto le campagne contro gli Inglesi ed era stato l'eroe di una brillante azione a Tripoli; amato e stimato da tutti, era un po' sospetto a corte per i suoi principi liberali. Fu per questo che, prima cli partire, consigliò moderazione ai liberali napoletani per non dare appiglio a reazioni: aveva previsto giusto.


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Il 27 aprile la squadra partì fra entusiastiche acclamazioni. di popolo. Il Re si portò a bordo della corvetta <<Ruggero», su cui aveva issato l'insegna il de Cosa, e gli consegnò personaimente un plico da aprirsi « otto miglia a levante da Capri)). Nell'accomiatarsi, lo ammonì: « Ricordati che sei vecchio ed hai famiglia ... », significativo discorso a chi partiva per la guerra! Il plico conteneva quest'ordine: « Sbarcare a Pescara e a Giulianova le truppe che ha portato a bordo e subito far ritorno a Napoli>>. Aggiungeva che il Re era sicuro della fedeltà del de Cosa. Questi comprese quale era il giuoco; cercò resistere. A ppro.fìttò del fatto che il Governo provvisorio di Venezia gli aveva mandato a chiedere aiuto contro la squadra austriaca che bloccava la città e si fermò a Pescara, mandando a Napoli per istruzioni. Il ministro della marina, del Giudice, a nome del Consiglio gli prescrisse di « andare a Venezia, difenderla dal naviglio austriaco, unendosi alla flotta sarda; non molestare i legni del commercio; rimandare indietro due delle pirocorvette». Nello stesso tempo il Re ordinò con lettera personale a de Cosa « di non assalire gli Austriaci». L'Ammiraglio trovò modo di non rimandare le due pirocorvette. Partì per Venezia dove giunse il 16 maggio, accolto col più grande entusiasmo: il blocco era rotto. Intanto il 26 aprile - un giorno prima dei Napoletani - era partita da Genova la squadra sarda: otto navi, di cui una a vapore, sotto il comando dell'ammiraglio Albini. La squadra piemontese, che aveva ritardato per difficoltà varie (tra l'altro aveva a bordo equipaggi appena reclutati e non rholto disciplinati), giunse ad Ancona il 20 maggio; seppe che le navi napoletane erano già partite per Venezia; proseguì. Il 22 era in vista di San Marco. Là, secondo gli accordi che un ufficiale piemontese aveva stipulato col Governo della Repubblica, l' Albini pr'ese il comando delle flotte riunite, la sarda, .l a napoletana e quella veneta, composta per allora di due brigantini ed una corvetta. Intanto la flotta austriaca, in totale tre fregate, una corvetta, quattro brigantini e una goletta. oltre due vapori del Lloyd, si era ritirata a punta Salvore. Il 23 !'Albini volle affrontarla, ma fu troppo prudente e indeciso; gli Austriaci nella notte si ritirarono nel porto di Trieste. Il giorno dopo la flotta italiana si presentò avanti Trieste, ma intervennero i consoli stranieri; sorsero difficoltà diplomatiche;


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i rappresentanti degli Stati tedeschi trovarono che Trieste faceva parte della Confederazione germanica. Nelle remore di queste divergenze la flotta italiana si ancorò a Pirano e vi rimase diversi giorni, facendo spesso dimostrazioni avanti Trieste. Azioni isolate si svolsero a Caorle e avanti Trieste, dove due fregate piemontesi, trascinate dalla corrente, rimasero sotto il fuoco delle batterie di terra, fìnchè non accorsero due navi a vapore napoletane a trarle in salvo. . Intanto a Torino si discuteva sulla legalità delle obbiezioni mosse al blocco di Trieste; infine fu deciso di attuarlo. L'ammiraglio Albini già preparava l'ordine di blocco, che doveva iniziare il 15 giugno> quando al comandante della flotta napoletana venne, come al generale Pepe, l'ordine di rientrare in patria. Il de Cosa cercò di guadagnar tempo; scrisse al ministro Ischitellà una nobilissima lettera, per far presente i danni materiali e morali di un abbandono della campagna (1). Ma l'n giugno un piroscafo napoletano di commercio raggiunse a Trieste la squadra; il brigadiere di marina Pier Luigi Cavalcanti era latore di una severa lettera del Re che ordinava al de Cosa di partire subito per Reggio con la squadra ed unirsi alle navi destinate alla spedizione in Sicilia. Se il de Cosa non obbediva, Cavalcanti doveva prendere senz'altro il comando della squadra e far eseguire l'ordine. Il Cavalcanti si diede premura di diffondere fra gli equipaggi la notizia del ritorno in patria. Ne furono costernati gli ufficiali; entusiaste le ciurme. De Cosa conosceva i suoi uomini; capì che non avrebbe potuto trattenerli. Col cuore stretto, ordinò di salpare. Le navi partirono fra i fischi e gli scherni dei marinai sardi e veneti, e più tardi, ad Ancona~ fra violente dimostrazioni ostili. Appena a Reggio, il vecchio ammiraglio scrisse al ministro una fiera lettera, avvertendo che egli non voleva contaminare il suo onore; aveva sperato di combattere per l'Italia, non voler combattere contro (1) ,, Malamocco, :,.7 maggio 1848, n. u3 . .. ...G iunto però in Malamocco, credeva m10 capitai dovere, come buon cittadino ed onorato milita re ... , rassegnare a cotesto Real Governo !'esimie conseguenze che un a tal precipitosa r itirata di tutte le forze di terra e d i mare avrebbe arrecato, non dirò solo alle ancor dubbie sorti d'I talia rutta, ma ezia ndio e forse con più specialità, a l nostro paese; rammenta re all 'E. V. che l' inviato soccorso delle truppe e della flotta non fu che un solo, unanime ardentissimo voto d isinteressato del Re, e di otto miliooi di generosi napoletani ..... e che quind i l'ordinata ritrattazione, nei momenti appunto più im pcrio-5i, avrebbe ricoperto il nome napoletano di taccia obbrobriosissima, e ridotta la re<luce milizia lo scherno d i tutti e in particolare dei loro medesimi cittadini ... >>.


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altri Italiani, per « abbattere la libertà per tanti anni agognata ,, (I). Con le coraggiose parole, lasciò il servizio, nè pjù volle vedere il Borbone. Nobile figura, troppo mal conosciuta al confronto dei suoi meriti. STATO PONTIFICIO.

L'elevazione al papato del cardinale Mastai Ferretti (Pio IX) segna una data capitale nella storia del Risorgimento italiano. Si può dire che da quella data il- Risorgimento, uscendo dal periodo delle predicazioni teoriche e dei generosi ma sterili tentativi, entrava in quello delle realizzazioni. Ed è da quella epoca che i contatti fra le popolazioni dei vari Stati italiani divennero non soltanto più frequenti, ma orientati verso qualche cosa che, pur essendo ancora incerto e controverso, era l'avviamento all'unità. Ma subito cominciarono discordie fra quelli che ritenevano doversi contentare delle riforme, gradatamente avvianti verso il « viver civile >> - liberali moderati - e quelli che ne traevano solo incentivo a più chiedere, anzi a più pretendere. Agli uni e agli altri si opponevano i Sanfedisti o Gregoriani, come si chiamarono i fautori del vecchio regime quale era al tempo di papa Gregorio. L'Austria guardava con sospetto le innovazioni; trasse pretesto dai primi disordini per occupare (17 luglio 1847) la città di Ferrara dove fin dal 1814 teneva solo la cittadella. Fu il banco di prova della politica di Pio IX. Avrebbe il Papa ceduto o avrebbe resistito. Pio IX protestò ripetutamente, energicamente, così che dopo non brevi trattative le truppe austriache dovettero rientrare in cittadella. Ne conseguì un notevole scacco per l'Austria e, viceversa, ragione di accresciuto prestigio per la parte liberale; soprattutto fu un grande, ma compromettente successo per il 'Papa, poichè il ( 1) « Reggio, 21 giugno 18~.8, n . 176 ....La mia acciaccata sa lute aveami fatto transigere per la sua guarigione pcrchè adibito al servizio del mio paese e per la prosperità dell'Italia. Ora che sembrami che tali ragioni siano cessate, dappoichè va a combattersi contro Italiani ed all 'abbattimemo della libertà per tanti anni agoguata. e che S. M. il Re nella sua clemenza concedeva ai suoi popoli, mi ve~lo nella necessità anche tenuto riguardo alla illegalità degli atti, di domandare la mia esonerazione <lai comando della squadra; amando meg-lio tornare nella m ia vi ta privata, che compromettere la mia reputazione, che il mio travaglio e il servizio onorato di tanti ann i mi ha procacciato. « L'E. V. nella sua alta saggezza comprenderà bene che troverà chi meglio di me tra' distinti uffiziali generali della R. Marina potrà nelle attuali circostanze prestare il suo servizio per l'esecuzione delle istruzioni riçevutc. Sottoscritto: Raffaele de Cosa».


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popolo, con a capo Ciceruacchio, non si stancò di applaudire, ma anche di chiedere sempre di più. Fu soprattutto l'atto che meglio dimostrò come il nemico principale alle aspirazioni italiane era l'Austria, come apparve del resto dalla lettera con cui Carlo Alberto si offrì di sostenere i diritti della Chiesa. Una conseguenza, che certo l'Austria non aveva previsto nè voluto, all'occupazione di Ferrara fu l'accendersi di spiriti bellicosi nel popolo e perfino nel Governo pontificio. Si parlò di guerra, di indipendenza; furono promosse sottoscrizioni per l'acquisto di armi; e il Governo lasciò fare, anzi appoggiò quelli che in Francia cercavano di acquistarle; ordinò la costituzione di un campo di milizia a Forlì, bcnchè poi praticamente non vi radunasse mai le poche truppe disponibili. E' qui necessario dare un cenno di quello che erano le forze militari dello Stato Pontificio. E' noto, ed era ovvio, che il Governo del Papa non avesse poderosi apprestamenti bellici e nemmeno ne avesse bisogno, dato l'indirizzo della sua politica e .la posizione storica e morale del Papa nel consesso degli Stati. Come per Napoli, ma per altre ragioni, le poche forze militari avevano essenzialmente scopo di politica interna e cioè di ordine pubblico. Nè il fatto di dipendere da autorità ecclesiastiche poteva favorire l'addestramento delle forze militari o il loro spirito bellicoso o la loro compagine morale, che viceversa era scossa, come in tutti gli altri Stati italiani, dalle discordie politiche e dall'azione demolitrice delle sette, che facevano a gara nel denigrare i « soldati del Papa >>. Del resto anche numericamente queste forze erano ben poca cosa, per uno . Stato di tre milioni di abitanti. Appunto per ragioni di sicurezza pubblica nel 1834 era stato stabilito che l'esercito dovesse avere la forza di circa 17.000 uomini, di cui 3700 carabinieri e bersaglieri, << ar!na politica >>, come si diceva, e cioè particolarmente addetti al servizio dell'ordine pubblico. Queste truppe si distinguevano in «indigene>>, reclutate sul posto con arruolamento volontario, ed «estere)>, e cioè svizzere, con arruolamento regolato da appositi patti stabiliti con la Svizz.era nel 1831. Inutile dire che fra indigeni e svizzeri era vivo antagonismo, che si aggiungeva agli altri mali. Nel '47, dati gli sviluppi della situazione politica, fu ritenuto necessario riordinare l'esercito e vi si accinse una commissione, presieduta dal « presidente alle armi l>, monsignor de Medici-Spada. 11


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Intanto Pio IX aveva concesso l'istituzione della guardia civica, che però anch'essa visse nei primi tempi soltanto sulla carta. Ma al 5 luglio '47 fu riformata e, per Roma, costituite). in 14 battaglioni, uno per rione, con compiti di tutela della sicurezza pubblica nei comuni di appartenenza o anche nella provincia o anche con possibile impiego in sussidio dell'esercito. Un grande entusiasmo per la guardia civica sorse nei giorni dell'occupazione austriaca di Ferrara, come ho già accennato. Pareva che la Civica avrebbe potuto in qualche modo sostituire l'esercito, tanto che il ministro delle finanze chiese di ridurre, in conseguenza di questa convinzione, le spese per le forze armate. Con l'incalzare degli avvenimenti in tutta l'Italia, sempre più fu sentita la necessità di rendere efficienti le forze mìlitari, che nel '47 in realtà non arrivavano a 10.000 uomini, 650 cavalli e 16 cannoni, sulla forza prevista di 15.000. Dati gli scarsi risultati dei lavori della Commissione, il IO gennaio fu proposta una istanza alla Consulta, per chiedere la riforma dell'esercito e la nomina di un comandante energièo e capace. Analoghe richieste vennero presentate da una petizione firmata da duecento ufficiali. La Consulta, facendo sue quelle proposte, presentò un rapporto del principe Odescalchi e del conte Pompeo Campello; in esso si chiedeva di invitare da qualche altra potenza italiana un « generale capace di dare utili consigli al ministro della guerra >> e poi specificava addirittura che bisognava rivolgersi al Piemonte, « in cui lo spirito militare rimase sempre vivo ed energico>>. In attesa, facendo uno strappo alle consuetudini, fu nominato ministro «allearmi» il principe Gabrielli, il primo laico fra i ministri del Papa. A piccoli passi lo Stato Pontificio si anelava evolvendo, ma più a forza di agitazioni popolari che per volontà dei governanti. Regnava dappertutto l'inquietudine e il sospetto; i moderati ' erano sopraffatti dai più audaci e intemperanti. Nelle Romagne la lotta aveva assunto forme violente e l'assassinio politico vi fu frequente ed efferrato. Così comincia a Roma il 1848, fra evviva e minacce, fra esposizione di bandiere e fatti di sangue. Il 10 febbraio Pio IX fece affiggere il celebre manifesto in cui ricordava di aver già pensato al riordinamento della milizia, prima che la voce pubblica glielo chiedesse e di aver cercato di « aver di fuori ufficiali che venissero in aiuto a quelli che onoratamente servono il Governo Pontificio».


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Fra il 14 e il 17 febbraio fu concretato un piano di riordinamento dell'esercito, accolto favorevolmente dall'esercito stesso, ma in pratica non attuato. Solo la guardia civica fu in marzo riformata e sostituita ai battaglioni di riserva e brigate di volontari, con una forza nominale di 12.000 uomini. I fatti di Ferrara, le agitazioni della piazza, l'oscurarsi dell'orizzonte politico spingono il Governo a preoccuparsi della situazione verso i confini; si pensa ad inviarvi delle forze, per ogni evenienza. Questo è essenziale per capire gli avvenimenti successivi: il Papa continuerà a dire che manda truppe per difendere le frontiere dei suoi Stati; gli altri vorranno che le truppe vadano a far guerra all'Austria, operazioni offensive, che non è la stessa cosa. Col crescere dei moti in tutta Italia, la rivoluzione a Milano, l'inizio della guerr.a contro l'Austria, l'intervento diventa inevitabile anche per gli Stati del Papa. Il 20 marzo il principe Aldobrandini, che era succeduto a Gabrielli quale ministro delle armi, col consiglio dei generali piemontesi Durando (Giacomo) e Alessandro Avogadro di Casanova - gli ufficiali chiamati « da fuori ,, - , ordinò la formazione di un « corpo di osservazione ,, al confine, formato da quattro reggimenti di fanteria, due di cavalleria, tre batterie, due compagnie genio, ecc. Il giorno successivo si aprì l'arruolamento dei volontari, e si gridò da ogni parte guerra all'Austria. Il 23 marzo il generale Durando, noto per il suo passato di liberale, fu destinato comandante del corpo di osservazione, col conte Campello come intendente. Il colonnello Giuseppe Ferrari, di idee liberali avanzate, fu nominato generale e messo al comando dei corpi civici e volontari, col marchese Gualtieri come intendente. Il 24 marzo partirono per Bologna le prime forze regolari che ufficialmente andavano « a difendere i confini,,. La partenza avvenne nel tripudio generale. Ai partenti le congregazioni religiose fecero ricchi donativi; molti donarono alle casse dello Stato gioielli e danaro: atmosfera d'entusiasmo. Il Papa benedisse le truppe partenti, che « andavano a difendere i confini della Chiesa>>, come Egli volle ripetere, sottolineando le parole. E il 30 marzo lanciò un manifesto con cui affermò che il rapido succedersi degli eventi era certamente opera divina e bisognava ascoltare la voce del Signore. Per quanto in alcuni punti oscure, queste parole suonarono come fanfara di guerra. Nella notte dal 25 al 26 partirono per Bologna Durando e Campello, ispezionando lungo il viaggio le guarnigioni delle città delle


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Marche e della Romagna. Il 27 Durando emanava un ordine del giorno con cui incitava alla « nobile impresa n. Ma quale ? Continuava l'equivoco. Intanto le forze si indavano concentrando e ordinando in due nuclei che furono dette divisioni. La prima, comandata dal Durando, doveva essere composta: da una b~igata «indigena)) con un reggimento • cacciatori, uno granatieri e uno fucilieri; da una brigata « estera )) di due reggimenti (ogni reggimento su due battaglioni); da due batterie, una indigena ed una estera con 16 pezzi; cinque squadroni e· mezzo di cavalleria; due compagnie genio e 600 carabinieri; in totale, circa 7000 uomini. La seconda divisione, col generale Ferrari, si sperava avrebbe raggiunto altrettanta forza. Da Roma partì una legione di civici e un reggimento volontari, una sezione di artiglieria e qualche cavaliere. Altre due legioni di civici e due reggimenti di volontari si andarono formando via facendo, ma scarseggiavano i quadri per quantità e per competenza. A questi due nuclei principali si aggiunsero i cosiddetti << corpi franchi», che agirono sempre indipendenti anzi spesso intolleranti di ogni autorità centrale. Fra essi notevole, anche per l'irruenza ed il carattere impetuoso del suo comandante, il corpo di Livio Zambeccari. Il comando dei Pontifici si stabilì a Ferrara il 13 aprile. Le prime unità volontarie cominciarono ad arrivare a Bologna il 20, dopo una marcia di venticinque tappe oltre sei «riposi». Notare che i bat· taglioni granatieri e cacciatori di Roma rinunziarono ai riposi per giungere più presto ai luoghi di radunata. Intanto furono mandati i corpi franchi lungo il Po, a Francolino, Pontelagoscuro, Bondena, Stellata, Revere, ed un battaglione era già ad Ostiglia, oltre Po. Come prima operazione si imponeva di liberare le fortezze di Comacchio e di Ferrara, dove erano guarnigioni austriache. A Comacchio, una colonna mobile di guardie civiche, giunta la sera del 29 aprile, intimò la resa ai 140 Tedeschi che vi erano di presidio. Il 30 i Tedeschi capitolarono e si imbarcarono per Trieste. A Ferrara, dopo qualche trattativa, si stipulò un compromesso per cui la truppa austriaca rimase nel castello, ma si doveva tener neutrale; strano accordo, quando si pensi che Ferrara era propno la sede del comando. Mentre fra mille difficoltà procedeva il concentramento delle forze, perduravano l'incertezza e il disordine spirituale circa il loro impiego. Che tutto quel movimento dovesse sboccare solo in un'attesa


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difensiva lungo il Po non pareva credibile. Molti pensavano che la forza stessa delle cose avrebbe spinto le truppe a passare il .fiume: il Governo vi si sarebbe adattato. Ma non appena a Roma si seppe che l'esercito piemontese aveva passato il Ticino, il cardinale Antonelli, tramite il Legato pontifici? di Bologna, fece sapere al generale Durando che Carlo Alberto desiderava « che la nostra truppa si raccogliesse nel maggior numero possibile al confine, per tenere in soggezione gli Austriaci>>. Aggiungeva che un diverso contegno « potrebbe intralciare le operazioni del Re di Piemonte >>. Ma lo stesso giorno il ministro Aldobrandini scrisse al Durando di mettersi in corrispondenza col Re ed « operare in concordia col medesimo>>. Direttive, come si vede, ben poco d'accordo. Il 2 aprile il Comando piemontese prendeva i primi accordi col generale Durando, il quale dichiarava di aver bisogno ·di una quindicina di giorni per concentrare le sue forze. Mentre fra mille difficoltà ferveva il lavoro di organizzazione delle forze, il 5 aprile Durando emanò un proclama (scritto da Massimo d'Azeglio, suo capo di stato maggiore) acceso d'amor patrio, ordinando di fregiarsi con una coccarda tricolore e concludendo: « Nostro grido sia: Dio lo vuole!>>. Ma il Papa, che pure il 18 marzo aveva permesso alla guardia civica di aggiungere una cravatta tricolore alla bandiera, disapprovò pubblicamente le parole di Durando. Questi aveva anche fatto qualche cosa di più. Aveva già mandato da Carlo Alberto il suo capo di stato maggiore d'Azeglio per chiedere disposizioni per un'azione comune. Tornò d'Azeglio, riferendo che il Re desiderava che le forze romane si portassero a Ostiglia e poi ad Isola della Scala per << proseguire con movimenti strategici d'accordo con l'esercito piemontese l>. Come si vede, si andava largamente al di là delle intenzioni del Papa. Questi infatti, preoccupato delle conseguenze e temendo uno scisma da parte dei cattolici austriaci, aveva fatto macchina indietro, con un'allocuzione (29 aprile) in cui dichiarava che, se non aveva potuto impedire la guerra per la pressione popolare, egli era sempre il padre di tutti i cattolici. L'allocuzione papale fu come una ventata fredda sull'entusiasmo generale; si può dire che da essa comincia il periodo di ripiegamento dalle prime e più patriottiche intenzioni. Ma se il Papa sembrava ritirarsi, il suo Governo manteneva la linea politica iniziale, donde confusione e incertezza facilmente comprensibili.


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Sarebbe a questo punto assai interessante un confronto fra gli Stati napoletano e pontificio, per esaminare tra i due le intenzioni, le disposizioni, l'esecuzione degli ordini. Ma non è qui il posto. Sta di fatto che tra il 22 e il 23 aprile Durando e la sua divisione si trasferirono ad Ostiglia, dove ebbero da Carlo Alberto l' « autorizzazione a portarsi con tutte le forze verso il Friuli». Accordatosi • con la Repubblica Veneta, questa si accollò il mantenimento dell'esercito pontificio. Spinto dalle sollecitazioni delle popolazioni, Durando il 3 maggio era a Treviso. Anche il Governo pontificio aveva mandato un messo a Carlo Alberto, nel suo quartier generale di Villafranca, per « determinare i rapporti delle truppe pontificie e sottoporle ad un unico comando generale)). Il Re volle, costituzionalmente, che si pronunziasse il Consiglio dei ministri e questo decise che il comando potesse essere accettato dal Re. Si stabilì allora una convenzione per la quale le truppe dovevano dipendere dal Re come ausiliarie delle truppe regie, pur rimanendo sotto il dominio del Governo pontificio, « che si riservava la facoltà di disporne per qualunque necessità fosse insorta nei propri Stati». Intanto da Venezia minacciata Manin sollecitava ( 19 aprile) il generale Ferrari di accorrere in aiuto; altre sollecitazioni venivano da Treviso e dal Friuli. Ferrari fece presente (23) che i suoi uomini non erano ancora impiegabili perchè « ancora non avvezzi al mestiere delle armi )) . Propose allora a Durando di frammischiare i suoi volontari coi regolari, metà e metà, per sollecitare l'addestramento dei propri. Durando acconsentì di massima, ma in realtà non se ne fece nulla. Le sollecitazioni da Venezia, Udine, Padova, Treviso - città minacciate sempre più da_ vicino - incalzavano; divennero quasi disperate e allora Ferrari cominciò ad avviare da Bologna su Ferrara (29 aprile) una prima colonna. Il 30 doveva partire la seconda, col 1" e 2° reggimento volontari, ma questi, al momento di partire, si rifiutarono, perchè non avevano abbastanza vestiario ed equipaggiamento ed anche perchè avevano osservato che « il loro sovrano, il Pontefice, non avesse dato consenso alla guerra anti-austriaca, ma solo alla difesa dei confini,>. Partirono il giorno successivo, spinti dall'esempio degli altri, pur rinnovando le loro proteste prima di passare il Po. Il 1° maggio nacquero nuove agitazioni. Si voleva soprattutto la dichiarazione ufficiale della guerra, perchè si temeva di essere, in


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caso contrario, considerati come corpi frandù e di non godere della protezione del diritto delle genti. Alfìne la divisione si avviò al passaggio del Po. Intanto Durando studiò con Ferrari la progettata amalgama delle forze volontarie con le regolari. Si stabilì che le divisioni sarebbero così formate : divisione Ferrari : 2 reggimenti granatieri e cacciatori; un numero proporzionato di guardie civiche e volontari; 2 squadroni cacciatori a cavallo; batteria indigena; divisione Durando: brigata estera; battaglioni guardie civiche e volontari in congruo numero; batteria estera; carabinieri a cavallo e a piedi; dragoni di riserva. Ma anche questo ordinamento - la cosiddetta fusione - non potè aver luogo, perchè Durando fu chiamato in gran fretta contro gli Austriaci che avanzavano minacciosi. In totale al 16 maggio le forze pontificie erano, secondo l'Ovidi : divisione regolare Durando: truppe regolari indigene 4.251, truppe regolari estere 3414, carabinieri (arma politica) 341,. totale : 8.006 uomin i; divisione civica, volontari e corpi franchi: 11.549 uomini. In complesso, con qualche altro elemento, circa 20.000 uommi. Contribuirono pure due guardacoste («Cesare>> e « Annibale»), cinque scorridore di finanza e il piroscafo « Roma )), che fu utilissimo per il passaggio del Po.

Quando si pensi alla situazione iniziale, alle deficienze organiche dell'esercito pontificio, alle difficoltà politiche ed anche finanziarie superate, si deve riconoscere che molto fu fatto. E del resto, tutto sommato, le forze del Papa, pur generalmente tanto mal giudicate, furono quelle che, dopo le piemontesi, diedero il maggiore contributo alla causa italiana. GRANDUCATO D I TosCANA.

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Dopo la restaurazione lorenese, la Toscana era forse la regione d'Italia più tranquilla e in certo senso più liberale. lvi accorrevano profughi di altri Stati; ivi le scienze e le lettere erano relativamente fiorenti.


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La vita tranquilla, la situazione politica del Granducato, tutto portava a trascurare gli apprestamenti militari. Veramente un trattato segreto del 1815 obbligava il Granduca a fornire 6.000 uomini, quando ragioni di « tranquillità politica» avessero richiesto all'Austria il suo intervento; in tal caso sarebbe intervenuta una sua forza di 80.000 uomini, cui i 6.000 Toscani dovevano unirsi. In realtà, non c'erano nemmeno i 6.000 uomini ; su una popolazione di un milione e mezzo di abitanti, erano alle armi solo 4.000 uomini così ordinati: 2 reggimenti ·di fanteria di linea (su due battaglioni a sei compagnie) ; I reggimento cacciatori a cavallo (due squadroni di due compagnie); I battaglione di artiglieria. Completavano la forza reparti vari e qualche battaglione per la difesa costiera, già previsti contro i pirati e ormai inutili. Il reclutamento era misto; volontari con ferma di tre anni e obbligati di leva, con l'ascrizione dei « discoli ». Era ammessa la surrogaz10ne. I due ultimi provvedimenti dànno chiara idea della poca considerazione in cui-era tenuto l'esercito, dove del resto non esisteva alcuna tradizione militare. Gli ufficiali erano in tutto 136 ed appartenevano a famiglie facoltose; istruiti nel Reale Istituto a Fortezza da Basso, il loro addestramento seguiva l'indirizzo dato dai reduci delle campagne napoleoniche. . . I sottufficiali di carriera invecchiavano a forza di remgaggi; spesso, ritiratisi a vita privata, continuavano a mantenere il contatto con l'esercito con piccole prestazioni e con rivendite di materiali necessari ai soldati. Era insomma anche nelle forze armate un sistema di vita bonario e familiare; non può quindi sorprendere, dopo ciò, che anche le armi fossero scarse ed antiquate. Ad esempio, erano in uso fucili di vari modelli, alcuni dei quali ancora a pietra focaia. Naturalmente nessuna funzione potevano avere le forze armate toscane oltre l'ordine pubblico; a tale scopo erano disseminate nei vari presidt Intanto a Lucca il duca Carlo Ludovico, dopo aver tentato di tergiversare di fron te all'agitazione dei suoi sudditi, cedeva il Du-

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cato alla Toscana (5 ottobre '47) contro un assegno di 1.200.000 lire. Cominciava il fenomeno agglutinante delle più piccole frazioni italiane. Con l'occasione entrò a far parte dell'esercito toscano qualche compagnia lucchese. Una compagnia di granatieri, giunta a Firenze, vj fu accolta con l'entusiasmo verboso di quei tempi come « simbolo della ricomposta unità etrusca ». Più importante e più grave di conseguenze fu l'occupazione della Lunigiana da parte del Duca di Modena, che, stanco delle lunghe trattative, al principio di novembre '47 occupò Montignoso e Fivizzano. Grandi grida si levarono, specie a Firenze, dove si arruolarono volontari per la difesa dei Lunigiani. L'opera pacificatrice del ministro Ridolfì e le sue promesse calmarono pel momento gli animi; ma appariva chiaro che era soltanto una tregua. Lo svilupparsi delle idee liberali, l'istituzione della guardia civica, la situazione politica, specialmente con la presenza degli Austriaci nei Ducati, tutto portava alla necessità di aumentare le forze armate. Il Mayer spingeva il ministro Ridol.fi ad aumentare le armi, ad esercitare le truppe, a ordinare la coscrizione. Nel novembre del '47 si aprì un arruolamento con ferma di tre anni ; si cercò di comprare armi, pur essendo scarsi i fondi disponibili. Al principio del '48 fu messo in assetto l'artiglieria; nel febbraio furono intensificate le esercitazioni militari, intanto che ufficiali dell'esercito piemontese erano anche qui chiamati per indirizzare la nuova attività guerriera. In sostanza, si era creato l'animus di guerra. Il 4 marzo il generale D'Arco Ferrari, comandante dell'esercito, affermava in un rapporto che le forze erano scarse per il duplice compito di difesa del confine, dove già verso i Ducati si trovavano battaglioni austriaci, e per l'ordine pubblico. Chiedeva aumenti e riforme. In questo stato di cose cominciarono ad arrivare le notizie delle varie rivoluzioni; gli animi, come è facile immaginare, ne furono sempre più agitati. Il 21 marzo gli studenti di medicina dell'ospedale di S. Maria Nuova, a Firenze, tumultuarono chiedendo armi per marciare alla frontiera. Il giorno stesso il granduca Leopoldo II emanò un proclama in cui affermava: « .. .l'ora del Risorgimento d'Italia è giunta improvvisa» ed assicurava che egli avrebbe assecondato lo slancio dei cuori italiani. Lo stesso giorno ed il 22 partirono da Firenze e da Livorno reparti regolari e volontari, che per via furono raggiunti da quel-


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li di altre città. Furono creati due « campi di osservazione » a Pietrasanta e Pistoia per la raccolta dei volontari e dei contingenti vari. Partiti i Duchi di Modena e di Parma, la Toscana si affrettò ad annettersi Massa, Carrara e Fivizzano, portando in tal modo avanti il confine, in attesa di altri e maggiori ampliamenti territoriali. ,. Ma il solo spostamento dei confini non poteva bastare. La marea dilagava; si voleva la guerra all'Austria. Mentre erano in corso le trattative per la lega doganale, il Governo del Granduca cercava di frenare i movimenti e le aspirazioni dei propri sudditi; ma la guerra era ormai oggetto dj tutti i pensieri. Intanto arrivavano volontari e corpi di truppa da Napoli e da Roma; era annunziato un dono del Re di Napoli alla guardia civica toscana : tre cannoni. L'atmosfera si riscaldava sempre di più. Infine il 29 marzo il Granduca dichiarò di associarsi alla guerra contro l'Austria e decretò che un corpo di truppe di linea e volontari si spingesse su Modena e Reggio, per agire d'accordo con le truppe piemontesi e romane. L'autorizzazione ad avanzare su Reggio giunse il 3 aprile alle unità adunate a Pontremoli (Baldini) composte di due battaglioni livornesi, un battaglione volontari pisani e i battaglioni universitari di Pisa e di Siena, che si fusero in un « battaglione universitario J>. In complesso circa 2 .000 uomini. Impedita di passare per Parma, la colonna Baldini partì il 6 per il Cerreto verso Reggio Emilia. Un'altra colonna, sotto il de Laugier, mosse direttamente da Firenze su Modena. Le due colonne traversarono per vie diverse l'Appennino e giunsero rispettivamente a Reggio e a Modena tra il 1 0 ed il 15 aprile, mentre il quartier generale si portava a Novi. Modenese. Intanto fin dal 9 aprile il generale D'Arco Ferrari aveva inviato il ten. colonnello Chigi con una lettera a Carlo Alberto, mettendosi ai suoi ordini, avvertendo che egli riteneva doversi mantenere in contatto anche col Durando. Per il Re rispose (12 aprile) il ministro F ranzini che chiese alle forze toscane di appoggiare la destra dei Piemontesi verso Gazzuolo, al di qua dell'Oglio, per tener impegnata la guarnigione di Mantova. Allo scopo doveva prender contatto col generale Bava. Il generale D'Arco Ferrari mandò subito le prime forze lungo il Po a S. Benedetto, Borgoforte, Suzzara e Luzzara.


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Il 16 le truppe iniziarono il passaggio àel Po; il 24 aprile erano di fronte a Mantova : un nucleo a Curtatone, uno a, Montanara e uno, col comando, a Castellucchio. Da quel momento l'azione delle forze toscane si fo nde in quella piemontese. In sostanza si può dire che anche lo sforzo toscano fu notevole, quando si pensi che le forze armate eran partite pressochè dal nulla, da elementi cioè che nè materialmente nè spiritualmente erano preparati alla guerra. Però, separ ati in due gruppi, ed anche spiritualmente divisi, come i Pontifici, tra volontari e regolari, resero difficile l'azione di comando del generale D 'Arco Ferrari, il quale si affannava a stabilire la disciplina, a raccomandar l'ordine, mentre molti elementi, nel loro stesso entusiasmo, erano riluttanti ad ogni costrizione e ritenevano che, come erano venuti di propria spontanea volontà, nella stessa maniera potevano andarsene, non fosse che per combattere altrove o in altro modo. Tanto è radicato in certi animi il senso di ribellione a qualunque principio di autorità da agire nella realtà dei fatti in contrasto con quello che pure era un purissimo e fortemente sentito ideale. Ne è prova l'episodio del battaglione studenti della colonna Baldini che il 3 aprile, invitato a rientrare a Firenze, chiese ed ottenne in primo tempo di arrivare fino a Reggio e poi tornare, via Bologna. Ma giunti a Reggio e presi dall'entusiasmo generale, deliberarono di (e non poter lasciare agli altri l'onore della guerra d'indipendenza ». Passato il Po, si portarono a Bozzolo e presero parte alle operazioni, come era loro desiderio. DucATO

DI

PARMA.

Il duca Carlo II credette di risolvere i gravi problemi del momento destreggiandosi fra gli scogli, ma sostanzialmente ~ttaccandosi all'Austria. Egli permise, ad esem pio, che rimanessero a Parma le truppe austriache venute col pretesto dei funerali di Maria Luisa ed in aggiunta a quelle che già erano a Piacenza. Più ancora, il 24 dicembre '47 - così come il D uca di Modena - sottoscrisse un trattato con cui metteva le sue truppe alla dipendenza del maresciallo Radetzky. Con ciò Parma era diventata un avamposto austriaco in Italia. D'altra parte, egli non poteva non sentire l'atmosfera riscaldata e le voci e le richieste di mutamenti. Pensò, un · certo momento, di riorganizzare le forze armate, ma furono provvedimenti puramente


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formali ; abolì il « Dipartimento militare » ed il « Comando delle truppe », sostituendoli con un « Comando generale delle truppe» e. un « Comando di brigata», che affidò al fratello Ferdinando Carlo: mutamento di poche conseguenze. Il Duca, privo dell'appoggio dei battaglioni austriaci, cerca di seguire la corrente; scrive a Carlo Alberto (29 marzo), promettendo • di mandare in Lombardia un battaglione di fanteria e volontari civici. Per capire questa offerta, bisogna vedere quali erano gli ordinamenti militari parmensi. Anche a Parma, come nella maggior parte degli Stati italiani, nè ragioni di politica estera nè moventi di prestigio richiedevano grandi forze; le poche esistenti erano più che altro destinate alla sicurezza interna, ed anche per questo facevano conto sull'appoggio austriaco. Al principio del '48 le forze del Ducato ascendevano a 2 battaglioni di fanteria, di sei compagnie ciascuno, con circa 1200 uomini; 4 squadroni di dragoni, per la pubblica sicurezza, con 3 50 uomini; reparti di artiglieria, genio, pionieri; I compagnia alabardieri; la scuola militare; piccoli enti vari. Il reclutamento, già a mezzo della leva, poi con Maria Luisa fatto per volontariato cui si aggiungeva il reclutamento dei « discoli», era infine tornato col sistema della leva sui giovani di diciannove anni che avessero statura non inferiore a 1,60. Questo piccolo esercito viveva nell'orbita delle forze austriache, essendo il D ucato, come si è detto, avanguardia dell'Austria; era di moda l'imitazione formale dei militaroni delle guarnigioni austriache. Quando il colonnello Pettinati prese il comando, p rovvide ad una epurazione, espellendo dalle unità gli austriacanti, i disonesti e i turbolenti. Ciò portò ad una sensibile diminuzione di forze; dovè ridurre a otto le dodici compagnie di fanteria. Con esse formò (8 aprile) un battaglione su sei compagnie, per avviarle alla guerra di indipendenza ; le altre due compagnie restarono a Parma come deposito e per servizio d'ordine. Acquistate le armi, i cavalli, i materiali che abbisognavano, il 18 aprile il battaglione era pronto. Intanto Carlo II lottava per salvare la Corona. Il IO aprile la Reggenza, che effettivamente si trovava in una assurda posizione, chiese le dimissioni. Si formò un Governo provvisorio, ma la situazione non poteva continuare cost Col crescendo che è fatale in tutte le rivoluzioni, il D uca fu infine obbligato a lasciare Parma.


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Il Governo provvisorio, che aveva a capo il conte Ferdinando de Castagnola, e per ministro della guerra il conte Cantelli, decise la par tecipazione alla guerra contro l'Austria. Due rappresentanti di Parma andarono da Carlo Alberto per « offrirgli quanto di forze di ogn i arma può disporre lo Stato>>. I delegati si accordarono col ministro della guerra piemontese, Franzini, che le truppe parmensi sarebbero partite il 19 aprile e collocate al « centro dell'esercito » piemontese. Ecco la formazione delle truppe parmensi partite agli ordini del colonnello Pettinati : I battaglione di linea, con due compagnie granatieri, due compagnie fucilieri e cacciatori u. 735 Volontari, guardie nazionali 1 93 )) Artiglieria, genio, pionieri . 99 )) Dragoni 42 ))

Totale uomini

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Per Colorno e Piadena le forze parmensi si avviarono a Valeggio, assegnate alla 3"' divisione piemontese, generale Broglia. D a q uel momento combatterono con le truppe piemontesi, comportandosi assai bene. Il Governo provvisorio di Piacenza aveva senz'altro deciso l'unione col Piemonte. Il 7 aprile fu indetto il plebiscito, col sistema dei « registri parrocchiali», come fu poi adottato anche a Milano. Il risultato fu il seguente : 37.089 per l'unione col Piemonte; 350 per l'unione con Roma. Intanto il Governo provvisorio faceva studiare la costituzione di forze armate e i relativi regolamenti; ma in realtà alle operazioni di guerra presero parte soltanto una compagnia di « crociati >J (volontari) e una di dragoni. Dopo l'annessione, giunte le truppe piemontesi e formatosi colà un deposito bersaglieri, i giovani piacentini vi si arruolarono. D UCATO DI MODENA.

Francesco IV d'Este, rientrato in possesso dei suoi Stati per opera degli Austriaci, rimase ad essi devoto, così come fermo restò


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nella sua concezione dell'autorità, in uno spirito strettamente conservatore. Perciò, mentre in Piemonte, a Roma, a Napoli si iniziarono riforme, a Modena le reclini furono tenute ben corte da un prìncipe senza dubbio intelligente e forse non cattivo, ma rigidamente convinto della. sua missione divina. Infatti egli non esitò davanti a quelle provvidenze che gli parvero non in disaccordo coi suoi principì: opere pubbliche e istituzioni scientifiche parvero illuminare il suo periodo, seppure da parte dei liberali si temesse per la sua eccessiva tendenza verso i preti, i conventi, gli ordini religiosi. E mentre infierivano i processi politici, pubblicò al Cattajo (1837) un « Atto di clemenza)) cui forse non fu estranea la duchessa Maria Beatrice di Savoia, moglie da lui molto amata. Il 28 novembre 1844 conchiuse un trattato col Duca di Parma e il Granduca di Toscana, trattato riconosciuto dal Re di Sardegna e dall'Imperatore d'Austria. Con tali accordi si modificavano alcuni articoli del trattato di Vienna, facilitando e semplificando le linee cli confine fra i tre Stati (benchè non sempre felicemente, dovendo a.cl esempio Pontremoli esser tolta alla Toscana, suo naturale centro di vita, e qualche altra località della Garfagnana esser staccata da Lucca). Il 26 gennaio '46 il duca Francesco IV morì.,, lasciando al figlio Francesco V l'eredità di sentimenti e di indirizzo inflessibili. Data la situazione, fu stipulato (24 dicembre 1847) un trattato con l'Austria, che avrebbe occupato il Ducato, in caso di disordini. Per intanto due battaglioni di fanteria e due squadroni austriaci furono mandati a << mantenere la tranquillità)>. Con tale indirizzo, è chiaro che anche Modena non poteva avere nessun interessamento per le forze armate. Ed esse erano ben poca cosa. L'esercito propriamente detto (a parte i volontari del Frignano, formazione con cui il duca Francesco IV aveva voluto premiare i paesani del Frignano che avevano operato per lui alla restaurazione) consisteva in : un battaglione cli fanteria con uno stato maggiore, due compagnie di granatieri, sei compagnie fucilieri; real corpo dei dragoni, con tre compagnie (una a cavallo e d_ue a piedi) per il servizio della « pubblica tranquìllità l>; real corpo d'artiglieria e genio, con tre compagnie d'artiglieria e un corpo del treno per l'unica batteria da campagna su sei pezzi; due compagnie di pionieri, con annessi i << cadetti matematici )).

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In totale 2400 uomini, su una popolazione di mezzo milione d'abitanti. Il reclutamento era per arruolamento volontario. Al principio del '48 anche a Modena gli spiriti erano inqmetl e sospettosi. Il 19 marzo scoppiarono gravi disordini a Modena, a Massa e a Fivizzano. Fra l'altro fu chiesto al Duca la formazione di una milizia civica di 300 uomini. La situazione era già difficile quando, con la notizia dei moti di Vienna, le truppe austriache ebbero ordine di ritirarsi a Verona (20 marzo). Il Duca, giudicando di non poter dominare coi propri mezzi fa situazione, lasciò la città (21 marzo), sciogliendo dal giuramento i soldati, che immediatamente si sbandarono. Si formò allora a Modena un governo provvisorio con a capo Giuseppe Malmusi; ma Reggio dichiarò di non riconoscerlo e formò un governo a parte. Trattative, deputazioni, proposte varie non risolsero il dissidio. Quanto alle forze armate, il Governo di Modena aveva ordinato la costituzione di un reggimento di linea, tre compagnie di artiglieria, un battaglione zappatori, uno squadrone cacciatori a cavallo e un battaglione gendarmi. Un complesso, si sperava, di 3000 uomini sotto il colonnello Brocchi. In realtà, nel giugno erano pronti II40 uomini di fanteria, 250 cacciatori a cavallo, 400 artiglieri, 500 zappatori e 400 gendarmi. E' però da osservare che già in maggio le prime forze pronte si portarono sul campo d'azione. Erano in genere truppe bene equipaggiate ed addestrate, ma poco entusiaste della causa nazionale. Particolarmente deficiente rimase il corpo degli ufficiali, anche perchè in maggioranza favorevoli al Duca e quindi non entusiasti dell'ordine di cose per cui dovevano combattere. Tutto sommato, tra Modena, Reggio e Guastalla i . volontari che si arruolarono furono 1600, ridottisi però a 800, quando si trattò di formare una colonna mobile per inviarla sul campo d'azione. Eppure, ad onta di così scarso numero di volontari, fu difficile trovar le armi in numero sufficiente per tutti. Il 4 aprile un corpo di Modenesi si portò al Po, agli ordini del maggiore Ludovico Fontana. Consisteva in due compagnie regolari, 31 dragoni a cavallo e gli 800 volontari di cui ho fatto cenno, con quattro pezzi d'artiglieria. Questo corpo si collocò tra l'esercito pontificio ed il toscano. In conclusione, l'apporto delle milizie estensi fu molto modesto. Parecchi soldati disertarono; molti ufficiali si ritirarono. Una parte


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dei volontari del Fontana ad un certo momento si ribellò e, lasciate le posizioni, s·i avviò su Modena, dove fu affrontata e dispersa. La pàrte che rimase passò poi nell'esercito piemontese, dopo il ritorno degli Estensi, e si comportò con molto onore. GOVERNO PROVVISORIO DI MILANO.

La situazione di Milano, per quanto si r iferisce al contributo· di forze regolari alla guerra contro l'Austria, è singolare. Finchè la Lombardia era sotto l'Austria, evidentemente non poteva esistere un esercito regolare lombardo; però molti giovani erano inquadrati nelle truppe austriache. Nei giorni della rivoluzione molti di essi disertarono le file nemiche e contribuirono alla formazione delle unità italiane sia regolari che volontarie. Di queste si dirà a parte. Per quanto riguarda le forze regolari, la loro storia è tanto intimamente legata agli avvenimenti politici che è necessario premetterne qualche cenno. Era da tempo podestà di Milano Gabrio Casati, che fin dal '38 era entrato in sospetto all'Austria, quando, insieme col podestà di Venezia, Correr, aveva chiesto a Vienna riforme, senza ottenere grandi risultati. Durante il periodo '46-47 la ferrea disciplina austriaca riuscì ad evitare nel Lombardo-Veneto gran parte delle agitazioni di piazza che commossero gli altri Stati .d'Italia, ma non impedì che sentimenti di italianità si sviluppassero e si diffondessero specie nelle città. Gli avvenimenti del Piemonte, i libri di Gioberti, Balbo, d'Azeglio e soprattutto l'atteggiamento decisamente antiaustriaco di Carlo Alberto fecero convergere sul Piemonte gli sguardi di molti, specialmente dei partiti moderati, ma anche di quella parte dei repubblicani che capivano, pur contro cuore, che non era possibile cacciare gli Austriaci senza l'intervento dell'esercito piemontese, e' che l 'indipendenza era il primo passo verso la libertà. Restavano ostili i « fedelissimi l> dell'Austria, e ve n'erano, e la parte più intransigente del partito repubblicano, incerto fra il desiderio di indipendenza e la fede antimonarchica. Anzi il Cattaneo era anche contrario al moto rivoluzionario, perchè « sarebbe impresa guidata da un re o da un papa l> . L'anno '48 cominciò a Milano sotto auspici di tempesta; le dimostrazioni antiaustriache si intensificarono: astensione dal fumare, dal giuocare al lotto, ecc. La polizia reagì mo~to duramente.


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MAGGIO

1848)

( Di.<eg'l/o di A. l'ram.polini ,'vluseo Civico di Reg{Jio Emilia)



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Si approfondì il solco separatore. Da una parte si accrebbe l'avversione all'Austria; dall'altra aumentarono i rigori del Governo di Vienna: rinforzi cli truppe, legge stataria con procedura sommaria e via dicendo: l'ambiente divenne saturo di elettricità. Il moto delle Cinque Giornate scoppiò improvviso, spontaneo, • senza specifica preparazione, su un fondo di aspirazioni e di risentimenti repressi. Il podestà, Casati, prende la direzione delle cose, aggregandosi altre personalità milanesi; si costituisce il « Comitato centrale l>. Ma · con l'estendersi della rivolta entrano in scena i più accesi repubblicani, i quali ritengono che l'azione del Casati sia troppo debole. Con alla testa Carlo Cattaneo costituiscono, il 20 marzo, un « Consiglio di guerra ll. Dico subito che, tra i molti inconvenienti di questo dualismo, se ne ebbe tuttavia qualche vantaggio, perchè il «Consiglio » spronò più volte i moderati di Casati e questi in più occasioni fecero da freno alle improvvisazioni eccessive e pericolose degli altri. Il 22 marzo si costituì finalmente il « Governo provvisorio», con a capo Casati; allora il « Consiglio di guerra >l del Cattaneo si fuse col Comitato di difesa ciel Casati e si formò per la parte militare il « Comitato di guerra», presieduto eia Pompeo Litta, uno dei vecchi generali di Napoleone. Lo stesso giorno (22 marzo) fu inviato a Carlo Alberto l'invito ufficiale ad accorrere sollecitamente in aiuto della rivoluzione. E' noto infatti che, a parte le private iniziative, il Re non voleva varcare il confine senza esser chiamato dai Milanesi, e ciò per ovvie ragioni, anche di politica estera. Nella notte dal 22 al 23 gli Austriaci abbandonarono Milano. La vittoria, dopo cinque giorni di dura lotta, giunse tanto piena ed inattesa che gli animi si trovarono impreparati sul modo di sfruttarla e sulle decisioni da prendere, sia nel campo politico che in quello militare. Il Comitato di guerra ordinò di inseguire il nemico « in ritirata su Bergàmo e Lodi » e, si diceva, « in piena rotta >>. Questa della piena rotta fu illusione, causa di molti mali. Nell'entusiasmo della vittoria si volle credere che le forze austriache fossero in sfacelo. La tesi era poi accolta volentieri non solo dagli ottimisti per temperamento, ma da quelli che per motivi politici speravano di evitare la partecipazione cli Carlo Alberto alla guerra. Infatti, a che serviva, poichè il nemico era già disfatto? Ecco perchè 12


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il Cattaneo del Comitato di guerra aveva pubblicato (23 marzo) un manifesto a stampa dichiarando : « ... La guerra è finita, comincia la caccia ... » . Dovè intervenire Casati, ordinando che il Comitato di guerra, che era parte del Governo provvisorio, non pubblicasse nulla senza la sua autorizzazione. Informò anzi che l'esercito piemontese avanzava, al che il Cattaneo replicò : « E' il soccorso di Pisa ! Ora che il nemico è in fuga, il Re vuole venire con tutto il suo esercito ... l>. Tanto l'odio di parte accecava l'animo di patrioti pur nobilissimi e di uomini di cultura, quale era indubbiamente Cattaneo. Intanto in un consiglio di ministri del 23 marzo, Carlo Alberto - che già fin dal 19 aveva deliberato misure militari e che ancora non conosceva la ritirata degli Austriaci - decise senz'altro la guerra all'Austria. Alla sera dello stesso giorno giungeva da Milano il conte Martini, inviato dal Governo provvisorio. Subito presentò al Re e ai ministri l'appello di Milano, riferendo sulla situazione. , Il maresciallo Radetzky si era reso conto che, dal punto di vista militare ed anche politico, non gli conveniva continuare la lotta fra le strade, con le guarnigioni distaccate e lontane; bisognava raccoglier le forze ed aspettare soccorsi. Certo i suoi eran stanchi e depressi, ma ben lontani dall'esser battuti in modo definitivo. Per questo sarebbe occorso un esercito forte e solido e pronto; ora i Piemontesi non erano ancora pienamente mobilitati e sboccavano appena dal Ticino. Contro gli Austriaci in ritirata furono avviate colonne di volontari, ma spesso all'entusiasmo dei singoli e, ai nomi altisonanti non corrispondeva la realtà e la forza. Così « l'esercito delle Alpi - afferma il Casati - come si chiamavano le legioni mobili, aveva 129 uomini con Luciano Manara ». Mentre le Jltre città della Lombardia seguivano l'esempio di Milano, i dissidi fra Casati e Cattaneo aumentavano. Il Governo provvisorio aveva stipulato una convenzione per cui l'esercito piemontese avanzante in Lombardia vi avrebbe avuto le « sussistenze » (come del resto i Pontifici nel Veneto), rimanendo a carico del Piemonte le paghe. Ciò suscitò le lamentele del Cattaneo, il quale mostrò la preoccupazione che per i soldati lombardi sarebbero mancati i viveri, avendo il Governo, a suo dire, sperperato fondi a vantaggio dei Piemontesi. Peggio quando fu chiesto al Piemonte di mandare ufficiali istruttori per il futuro esercito lombardo, a simiglianza di quanto avevano fatto tutti gli altri Stati d'Italia, o quando si trattò di dare un'uniforme ai soldati.


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Cattaneo, diffidente di qualunque ingerenza piemontese e desideroso di formare un esercito puramente lombardo, si oppose in tutti i modi e finì per dare le dimissioni dal Comitato di guerra. Il Governo provvisorio allora (1° aprile) costituì un « Ministero della guerra », affidato al generale Litta. Procedendo nella sua opera di organizzazione, il Governo provvisorio ritenne di allargare la sua base, associandosi i rappresentanti delle altre province lombarde liberate dagli Austriaci; si formò un « Governo provvisorio centrale», sempre sotto la presidenza del Casati. L'n aprile fu emanata la legge per « l'organizzazione della difesa della Patria ». Tutti i cittadini dai 18 ai 60 anni erano obbligati al servizio militare. Le classi da 20 a 25 anni fornivano i contingenti per l'esercito attivo; pel resto, servizio nella guardia nazionale. Comandante delle forze il generale Lechi, cui fu affiancato il generale piemontese Perrone di S. Martino, nel mentre che, ammalatosi Litta, gli fu sostituito come ministro della guerra Giacinto Provana di Collegno. Il 19 aprile furono chiamate alle armi le classi del 1826 e del 27, ma mancavano le armi, le uniformi, gli ufficiali. Tanto il Lechi, prima, quanto poi il Collegno avrebbero voluto che le reclute lombarde fossero incorporate nelle unità piemontesi, perchè fossero più presto istruite, amalgamandosi coi soldati già pronti, ed anche perchè troppe cose mancavano per costituire unità nuove. Era lo stesso provvedimento che per i Pontifici aveva chiesto il gen. Ferrari. Ma a Milano, per le solite ragioni di indole politica, non si riuscì. Fervevano le passioni. Gli animi erano accesi. I « fusionisti >) volevano l'immediata annessione al Piemonte e la « guerra unica >l , non separata. Gli avversari si opponevano tanto più disperatamente, quanto più si riconoscevano in minoranza. I giornali, insueti alla libertà di stampa, credevano lecita ogni contumelia e attizzavano le fiamme; attivi lavoravano agenti provocatori austriaci. In questa atmosfera surriscaldata giunse a Milano Mazzini, fi .. dente nelle promesse del Lamartine. Nei primi giorni di permanenza, Mazzini riuscì a mantenersi fedele alla « tregua J> e a non creare ostacoli a Carlo Alberto, anzi dichiarò che era doveroso « raccogliersi intorno alla nuova bandiera )) . Ma poi non seppe resistere alla suggestione dell'ambiente, alle spinte


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e infine alle accuse di Cattaneo. Riprese la sua via, affermando che <' l'Italia non può sorgere che all'ombra della bandiera repubblicana». G_iunge a Milano Gioberti: grandi feste, irrefrenabile entusiasmo; il partito « fus ionista >J prende sempre più il sopravvento. Il 12 maggio è promulgato dal Governo provvisorio un decreto per 1~ consultazione popolare; la Lombardia deve decidere se riunirsi subito al Piemonte o aspettare la .fine della guerra. Alla consultazione furono i repubblicani ostilissimi, perchè vedevano la corrente monarchica in grande prevalenza ed eran sicuri che l'unione col Piemonte avrebbe fatto tramontare per sempre la realizzazione della repubblica. Ad accrescere ìa tensione era venuto a Milano il fuoruscito Giuseppe Ferrari, anima ardente ma imbevuta di spirito francese e persuaso della convenienza di « invocare apertamente e con energia il soccorso della Francia ». Invano lo stesso Cattaneo cercò sulle prime di calmare il furibondo Ferrari, di ricordargli la tregua. Anzi, finì per lasciarsi trascinare anche lui e render titubante lo stesso Mazzini. Fu in questa circostanza che Cattaneo lanciò al Mazzini la dura parola « venduto ». Con tali precedenti, non fa meraviglia se tra il 28 e il 29 aprile si ebbero violenti moti di scalmanati contro il Governo provvisorio e contro lo stesso Casati; fu affermato, e non è da escludersi, che agenti provocatori operassero per aizzare la folla. Casati fu malmenato, così « quegli che aveva tanto lottato contro gl i Austriaci doveva ora difendersi dagli Italiani ! ». Ma fu breve eclissi della ragione; anzi gli stessi dimostranti, con improvvisa reazione, fecero al Podestà un'entusiastica dimostrazione d'affetto. Comunque, la votazione diede per Milano questi risultati : per l'immediata fusione 130.000 ; per la dilazione 228. Intanto Carlo Alberto doveva combattere gli Austriaci di fronte e insieme tener d'occhio a quel che avveniva alle sue spalle, sorvegliando i non disinteressati maneggi della Francia e dei suoi agenti più o meno clandestini (1). E' facile immaginare con quante difficoltà dovesse nascere, in questa atmosfera di contrasti, il nuovo esercito regolare lombardo. (1) Ad onta di LUttc le assicurazioni pacifiche, la Francia aveva costituito ai primi d 'aprile una grossa forza « Armée dcs Alpes » , circa 6o.ooo uomini sotto l"Oudinot, lo stesso della impresa contro Roma. E intanto tentò suscitare la rivoluzione in S3vo ia, non riuscita per la reazione dello stesso fedele !)Opolo sal'oi:mlo.


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Fin dai primi giorni, il Litta aveva iniziato la costituzione di truppe regolari) coadiuvato dai comitati che andavano sorgendo a Bergamo, Brescia, Lodi, Crema, Como e Pavia. Alla fine di aprile, e dopo la chiamata alle armi, erano in costituzione, però molto arretrata, i seguenti reparti: Milano: 2 reggimenti di fanteria, 2 reggimenti di cavalleria, 2 batterie di artiglieria, r battaglione genio; Brescia : 3 reggimenti di fanteria; Como : r battaglione di fanteria; Pavia: 1 battaglione di fanteria; Bergamo: 1 battaglione di fanteria. Le difficoltà per la costituzione di queste unità non erano nel numero degli uomini - che anzi fra i reduci del servizio austriaco e i nuovi chiamati alle armi se ne avevano ad esuberariza - ma nella deficienza di armi, equipaggiamento, istruttori. Missioni per acquisto di materiali furono inviate in Svizzera e in Francia, fra il contrasto dei partiti e con risultati non brillanti. Il popolo, ignaro delle cause dei ritardi e sobillato, inveiva contro i troppo lenti provvedimenti. Ufficiali e sottufficiali furono in parte forniti dal Piemonte, il quale però, avendo mobilitato il proprio esercito, non molto potè dare, nè dei migliori. Una parte del contingente (10.000) fu incorporata nei depositi piemontesi giunti in Lombardia; altra parte costituì ur;i.ità nuove, .tutte purtroppo uguali nella strettezza dei mezzi. Ai primi di giugno parve possibile raccogliere le nuove unità in una di visione su due brigate ( r" divisione lombarda) che fu messa agli ordini del generale Perrone di S. Martino; la divisione partì da Milano il 17 giugno. Il generale Perrone cli S. Martino avrebbe voluto trattenerla per un mese di addestramento nella zona di Montichiari , ma la popolazione milanese insisteva perchè « l'esercito facesse qualche cosa >>; allora la divisione fu avviata verso l'Oglio, dove sostò dieci giorni, e infine, il 13 luglio si avviò al Mincio e fu impiegata attorno Mantova. A fine giugno le forze lombarde, ancora incomplete, erano le seguenti (secondo il Brancaccio, (< L'esercito del vecchio Piemonte», pag. 326): · divisione Perrone : 8000 uomini, 200 cavalli, 12 cannoni; divisione Durando (Giacomo) (volontari): 2478 uomm1, 9 cannom;


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~orpo colonnello D'Apice: 1475 regolari, 1115 volontari, 11 cannom. Erano ancora ai depositi piemontesi 12.000 uomini; a quelli delle città lombarde 10.000 con 150 cavalli e 12 cannoni. Un totale insomma di 31.475 regolari, 3593 volon tari, 350 cavalli e 44 cannoni . Ma le condizioni d'armamento e d'equipaggiamento erano molto tristi: mancava il vestiario; mancavano scarpe, armi. E « la maggior parte dei soldati non aveva mai sparato un fucile, nemmeno a salve,,. Durante il mese di luglio si formarono altri battaglioni; poi tutte le truppe, al ripiegamento dell'esercito piemontese, si avviarono in Piemonte, ma le diserzioni furono molte. Una parte depose le armi in Svizzera. Dopo varie vicende, una divisione lombarda e un reggimento dragoni presero ancora parte alla campagna del '49.

SITUAZIONE GENERALE VERSO LA FINE DELL'APRILE '48 Verso la fine di aprile le forze italiane erano schierate lungo il Mincio e il Po, con un totale di circa 60.000 uomini, compresi l'esercito piemontese, i vari contingenti militari e i volontari: a) a sinistra, verso gli sbocchi alpini, gruppi di volontari; b) lungo il Mincio, tra Peschiera e Goito, l'esercito piemontese, i Parmensi e un battaglione del 10° di linea napoletano; e) tra Mincio e Po, di fronte a Mantova, regolari e volontari toscani e un battaglione del ro0 di linea napoletano; d) verso la confluenza Mincio-Po (Governolo), i Modenesi; e) verso Ostiglia, la divisione pontificia Durando (Giovanni). Queste le truppe in linea'. Erano poi più indietro: a) a Milano, battaglioni regolari in formazione; b) a Bergamo e a Brescia, nuclei di volontari; e) a. Bologna, i volontari e le guardie civiche romane del Fer. . ran, m norgamzzaz1one; d) lungo le coste adriatiche o ancora in Abruzzo le truppe napoletane, che andavano avanzando e che, nella migliore ipotesi,

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• non avrebbero potuto essere impiegabili che nella seconda metà di maggio. Non tutte queste forze erano in grado di combattere. Scarse le armi; incompleti i servizi. Giustamente fu lamentato che fossero rimaste nelle città, con le guardie nazionali o civiche, molte armi che, invece di servire per parate o manifestazioni, sarebbero state preziose alla fronte.

CONCLUSIONE Nelle pagine che precedono ho cercato di offrire un quadro sintetico del contributo di forze militari che i vari Stati italiani diedero alla prjma guerra d'indipendenza sostenuta dal Piemonte contro I' Austria, inquadrando tale esame nelle relative situazioni politiche dei vari Stati. Il quadro complessivo può parere ed è non lieto, a chi guardi solo i risultati immediati. E tuttavia anche le manchevolezze, anche le colpe non tolgono alla grandiosità del periodo storico, anzi forse ne accrescono il valore e il significato. « Mai nella storia - dice assai bene il Ranalli - si ebbero in minore spazio di tempo maggiori avvenimenti, come nella prima metà del '48. In Italia, la Sicilia sollevata ed autonoma, tre Prìncipi italiani e il Pontefice depongono J'assoluto impero >>. Fuori d'Italia, repubblica in F rancia, agitazioni in Germania e in Prussia, rivoluzione a Vienna. Poi le città lombardo-venete si sollevano e scacciano gli Aus_triaci; l'esercito del. piccolo Stato piemontese passa il Ticino, affrontando l'Impero nemico in una guerra cc che sei mesi prima pareva da pazzi solo desiderare». Per un momento gli animi paiono raccogliersi intorno alle due figure dominanti, Pio IX e Carlo Alberto. Ma alle premesse non rispondono le conseguenze; il primo slancio si affievolisce; agli entusiasmi patriottici subentrano gli interessi di partito, ambizioni personali, discordie fra gli Stati, gelosie municipali, assenteismo delle popòlazioni. Viene meno il concorso degli altri Stati al Piemonte, che finisce per trovarsi praticamente solo, in un'atmosfera di diffidenza e di lotte. E ancora Ranalli, rinnovando le roventi parole del Settembrini, lamenta la vanità dei parlamentari, la ribalderia delle fazioni, << gli scandali dello scrivere a stampa, i patimenti in casa


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propria dell'esercito italiano ... lo accusarsi e il calunniarsi scambievolmente di tradimento e di viltà ... ». Fu dunque il '48 anno di sconfitte e di inutili sacrifici? No. Fu anno di esperienza, dolorosa, ma necessaria. Se la coscienza nazionale ancora non era pronta, i nostri errori crearono le fondamenta per l'edificio della vittoria. E se io ne ho messi in vista alcuni-, è appunto per mònito ai presenti e nella speranza che la odierna situazione d'Italia, per tanti punti simile a quella del 1848-49 che pure fu seguita dalle vittorie che dal '59 al r918 portarono all'unità ed alla indipendenza da qualunque straniero, sbocchi ora nella libertà civilmente intesa, nella concordia degli animi, in un rinnovato culto ddla Patria.


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Fra le diverse fasi del nostro Risorgimento e le manifestazioni delle forze volontarie esiste una intima correlazione di pensiero e di azione, per cui ciascun momento della situazione politica e sociale della Nazione è rispecchiato dagli stessi atteggiamenti del volonta.rismo italiano. Questa dedizione spontanea alle armi sorse durante il periodo napoleonico, ma si affermò specialmente dopo il 1831 come un moto di aspirazione alla conquista delle libertà ed un impulso lungamente represso dagli avvenimenti reazionari del 1815. Numerosi italiani non potendo agire in patria ne varcarono i confini esulando infatti e sacrificandosi in Grecia ed in Spagna, dove, in battesimi di fuoco, prepararono falangi di gregari ed una eletta schiera di capi che furono poi di guida nelle guerre per la nostra unità nazionale. Gli eventi del 1848, il ritorno degli esuli e più ancora i fermenti rivo!uzionari di Milano, di Vienna, d'Ungheria, sollevarono dovunque subitanei entusiasmi, per i quali ogni città, ogni villaggio volle dare il proprio contingente d'azione in squadre volontarie che presero nomi di colonne mobili, di corpi franchi, di crociate e poi dì coorti e di legioni. Giovani imberbi e uomini maturi, con ammirevole slancio impugnarono un'arma e al suono di tamburi, fra lo sventolìo di ban·diere~ scesero in campo con esuberanti ardimenti e lodevoli propositi, ma purtroppo politicamente frazionati e tecnicamente impreparati p~r ~ffrontare quei sacrifici di guerra che richiedono soprattutto dis~1plma ~ ~ostanza. Ciascun gruppo volle indossare una propria divisa, ogm rnsegna volle recare nei propri colori simboli e tendenze


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non ben de.finite o attratte da particolari opinioni, considerate spesso di rapido conseguimento e di felice successo. Per tali motivi le formazioni del '48 peccarono fino dalle loro iniziali costituzioni di disgreganti teorie dottrinarie che trascesero talvolta in critiche e suggerimenti mal fondati sui piani e le operazioni militari. La politica prevalse e la voce· dei politicanti oscurò nei combattenti quanto di più elevato esisteva a propulsione di indubbi valori personali. Ciò non ostante è doveroso riconoscere che vaste correnti di patriottismo si profusero e si esplicarono in episodi gloriosi nei quali moltissimi volontari affrontarono la morte o quanto meno superarono con animo sereno tante difficoltà dovute a de.ficenze di armi ed a privazioni d'ogni genere per l'assenza di adeguate previdenze logistiche. La « guerra di bande » sostenuta da Mazzini come elemento insurrezionale, aveva invero incontrato numerosi fautori nelle popolazioni ed anche fra gli stessi volontari ritenendola quasi arbitra e decisiva sulle sorti della guerra; ciò che fu indubbiamente dannoso, in quanto ben pochi si erano resi ragione dello sforzo al quale si era accinto il piccolo e disciplinato esercito piemontese; nè ,ebbero visione della grande ef.ficenza delle forze austriache abilmente guidate. Soltanto quel « romanticismo >> che aleggiò nel popolo italiano, rimase la molla più potente e il più benefico contrappeso a tali manchevolezze, tenendo sollevati gli spiriti in _quella gioiosa accettazione di sacrifici che è rimasta impronta storica e caratteristica dell'epica pri· mavera del '48. La breve e pur salutare esperienza di quell'anno ed un più temperato influsso della politica agirono in miglior senso nel successivo '49, allorchè molte squadre d'azione si raggrupparono in unità al comando di esperti condottieri e rifulsero nelle memorande difese di Roma e di Venezia. Alcune formazioni si affiancaronò inoltre alle truppe sarde, altre agirono specialmente nel Tirolo e nelle valli bresciane, altre infine marciarono all'avanguardia di corpi regolari in circostanze degne di ricordo. Gli ammonimenti di uomini come Daniele Manin, che consigliarono di dimenticare i partiti e di « essere solamente italiani>> concorsero pure a creare nelle file dei volontari stessi un sentimento unitario ed una più valida comprensione di realismo nello svolgimento delle operazioni. Così apparvero opportune le disposizioni del generale Armandi intese a raccogliere le squadre in corpi di difesa a Ve-


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nezia; così non mancarono le ordinanze del Governo provvisorio di Milano perchè i maggiori gruppi, di Manara, di Arcioni, di Longhena, di Tannberg, si riunissero sotto la guida del generale Allemandi, anche se le istruzioni che si vollero impartire fossero inadeguate per la illusoria presunzione che tali forze bastassero a compiere l'ardua impresa dell'occupazione di Trento Emersero invece di vivida luce le forze volontarie del '49 allorchè furono chiamate a salvare la Repubblica Romana minacciata da quattro eserciti e sorretta soltanto dai deliberati di una assemblea; e se anche quella epopea si chiuse tristemente con l'entrata dei Francesi nella capitale del mondo cattolico e futura capitale d'Italia, i nomi del Vascello e di viìla Corsini resteranno eternamente incisi a caratteri d'oro in memoria dei volontari d'ogni provincia; come indissolubile rimarrà il ricordo delle giornate di Marghera nella lunga e penosa agonia di Venezia. Il decennale silenzio che seguì, modificò ancora molte idee fino allora prevalse, onde si ebbe nel '59 la fusione nei Cacciatori delle Alpi al comando di Garibaldi, il cui nome era già una bandiera, ma è d'uopo tener presente che concorse a tale fusione di criteri e di mezzi la maturità dei tempi. E quando, sette anni dopo, i volontari inquadrati in più numerose unità agirono alla dipendenza del Governo e di buoni generali, si profilò quel senso più profondo di disciplina che ebbe poi il suo più alto significato nel famoso « obbedisco » di Garibaldi. Fra il '59 e il '60 altri due tipici impieghi delle forze volontarie si manifestarono in stretta relazione con le sopraggiunte condizioni dell'Italia, onde si ebbero quelle legioni (non più .crociate o corpi franchi) che coadiuvarono l'avanzata delle truppe regolari nelle Marche e nell'Umbria, e poscia nelle operazioni per la repressione del brigantaggio nelle province meridionalì e infine nella leggendaria spedizione dei Mille, a seguito della quale 20 mila volontari in organiche divisioni, passarono dal Faro al continente e 12 mila di essi decisero poco dopo al Volturno le sorti del Regno di Napoli. Constatazioni inoltre di concorso a situazioni politiche, si ebbero nel 1859 per l'azione di qualche corpo speciale, come quello dei « Cacciatori della Magra» che operò in Lunigiana e nell'Emilia, o come quelle Legioni del Sannio, del Molise, delle Marche, del Montefeltro che nel 1860 predisposero il movimento delle annessioni. Da ricordare particolarmente i Cacciatori del Tevere al comando del ge-


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nerale Masi che rimasero in servizio due anni e si meritarono la medaglia d'argento al valor militare. Riapparvero una volta ancora i volontari nel 1867 a Mentana ma guella fu l'ultima apparizione sul suolo nazionale, giacchè nel 1870 combatterono per la Francia a Digione, poi nel 1897 per la Grecia a Domokos e nel 1914 sulle Argonne per contendere l'àvanzata tedesca in terra francese. Dal lontano 1848, la graduale evoluzione d'jmpiego dei volontari doveva finalmente suggellarsi nella prima guerra mon diale allorchè tutte le forze vive della Nazione si fusero nella grande anima dell'esercito italiano, nel quale i volontari stessi recarono i vecchi e i nuovi segni del loro valore ed un notevole contributo alle operazioni. Tale fusione, suggerita da motivi tecnici è da esigenze militari, fo inoltre opportuna per evitare quegli strascichi che si erano ripetuti in passato quando si affacciò l'increscioso dilemma di sciogliere reparti che avevano meritato della Patria o di mantenerli ancora per un senso di doverosa gratitudine, originando discussionj e dissidi che ebbero ripercussioni nel Paese e nel Parlamento. Questo il ciclo compiuto e ad esso ricorre oggi la nostra mente per onorare coloro che furono nel duro biennio del '48 e '49 antesignani e fautori dell'unità d'Italia.

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*** E' difficile poter stabilire con esattezza il numero dei corpi volontari che si formarono nel 1848, particolarmente considerando che taluni assunsero denominazioni diverse a seconda delle circostanze i:d altri, di poca entità si fusero presto in reparti maggiori. Su elementi positivi di numerose pubblicazioni e memorie, nonchè di ricerche in archivi pubblici e privati si può tuttavia fissare una cifra di circa 320, comprendendo in essa anche quelle formazioni che continuarono a prender parte alle azioni del 1849. La grande maggioranza di tali unità agì comunque e principalmente nel primo anno di guerra, fra i mesi di marzo e di ottobre, riprendendosi poscia in più determinati teatri d'operazione l'anno successivo, a Novara, a Roma, a Venezia e nelle giornate di Brescia. La proclamazione della repubblica in Francia, del 26 febbraio 1848, l'insurrezione di Vienna del 13 marzo e gli altri moti in Europa, vennero a gettare la scintilla nella capitale lombarda, dove il governatore Spaur e il conte Ficquelmont non trovarono di meglio

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che partire rapidamente lasciando solo in Milano il burocratico O' Donnell fiducioso che ogni tentativo di rivolta sarebbe presto cessato e che in ogni caso avrebbe saputo provvedere il maresciallo Radetzky. Fra le carte che questo Maresciallo lasciò nella sua abitazione si è trovato invece un manoscritto, in tedesco, nel quale egli presentiva il dilagarsi di una insurrezione contro l'Austria alimentata dalle classi più elevate, per cui occorreva fare affidamento soltanto su elementi rurali, giudicati fedeli. In questo documento il Lombardo-Veneto è considerato naturalmente come una provincia dell'Impero e vengono definite come « paesi stranieri» le altre regioni d'Italia, fra cui la più pericolosa era il Piemonte « avido di gloria e per sua tradizione guerriero » e verso il quale avrebbero potuto convergere la Toscana, i Ducati e forse anche lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Tale unione non ebbe in verità la compattezza cl1e l'arguto Maresciallo temeva, ma la propagazione ciel moto insurrezionale trovò, proprio nel Piemonte, l'incomparabile soccorso di un esercito valoroso e disciplinato. Nè il Radetzky si ingannava sul patriziato milanese in quanto era noto che stava versando ingenti somme per raccogliere armi offrendo perfino in ipoteche le proprie terre a garanzia ~ei capitali impiegati in questi preparativi. Non è compito di queste pagine, riguardanti i volontari, di rifare ia storia delle famose Cinque Giornate in cui fra il 19 e il 23 marzo Milano si liberò degli Austriaci, ma è d'uopo ricordare che durante quella lotta nacque il primo nucleo di giovani appartenenti alle migliori famiglie di Lombardia, assumendo, sotto il comando di Luciano Manara, il nome di « Esercito delle Alpi)) cambiato poscia nell'altro meglio conosciuto e più adatto di. « Bersaglieri Lombardi )> . Segno tuttavia del tempo, l'ordine ricevuto dal Governo provvisorio, di « fortificare villaggi, tribolare il nemico e inseguirlo perchè certamente si sarebbe ritirato )). I « Bersaglieri Lombardi » partirono con tali istruzioni per Treviglio e quindi si unirono a contingenti comaschi guidati dall 'Arcioni, pieni essi pure di entusiasmo ma con sole 80 carabine; poi con alcune squadre Ticinesi e con un gruppo di Genovesi, sì da formare un corp'o considerevole che fu chiamato « Legione Lombardo-Ticinese >) e che ebbe i suoi primi scontri cogli Austriaci a Sileno, a Rocca cl' Anfo e più specialmente a Manerbio, in provincia di Brescia, contro un attacco di sette battaglioni nemici. E forse avrebbe potuto continuare qualche altro buon risultato di guerriglia se il « Comitato di difesa ))


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non avesse imposto di « non avere legami coi Piemontesi», ciò che di fatto originò qualche malumore nelle .file dei volontari di Manara desiderosi di agire con l'appoggio o almeno con le direttive di un esercito regolare. Infatti essi non tardarono ad unirsi alla divisione Durando ed a passare più tardi a far parte delle truppe del generale Oliveri. Rimasti attivi, anche se cambiando qualche elemento nella loro formazione, combatterono poi nell'anno successivo alle dipendenze di Ramorino, si trovarono al fatto ·d'armi della Cava e infine alla difesa di Roma, dove, come vedremo, perdettero il 30 giugno a villa Spada il loro eroico comandante. Citando questo corpo fra i primissimi a costituirsi e particolarmente meritevole per disciplina, per la sua uniforme conservata in tutte le durissime prove di un intiero biennio, non bisogna però dimenticare che analogamente, nel marzo del '48 sorsero con unanime spontaneità altri considerevoli nuclei di volontari fra cui i << Bersaglieri Mantovani Carlo Alberto » che si segnalarono a Governolo, i « Bersaglieri del Po » che combatterono per due anni contro gli Austriaci, il « Battaglione Pietramellara )), i << Cacciatori del Sile », i <(Livornesi>> di Malenchini, la colonna Camozzi unica forse ad incorporare numerosi campagnoli delle valli bergamasche, la colonna l>resciana del Longhena, la colonna Vicari-Simonetta che fino dal 18 marzo era entrata in azione a Varese e si distinse poi a Peschiera alle dipendenze del generale Bes, la « Coorte Modenese e Reggiana >> di Lodovico Fontana che si trovò più volte al fuoco e diede un suo ultimo distaccamento al 23° fanteria, comandato dal colonnello Cialdini, a N ovara nel '49; e infine per non citarne separatamente tanti altri, i vari corpi franchi della Carnia, di Castel Bolognese, di Schio, di Vicenza, le crociate bassanesi che combatterono a Primolano contro i Croati. Tutto ciò oltre la « Crociata Padovana >) di Cristoforo Negri, forte di 1700 volontari, nonchè le « Guardie Mobili», le « Guide del Tirolo )>, il « Reggimento Italia Libera », unità nate simultanee, fra il marzo e l'aprile, come una generale esplosione di patriottismo in ogni provincia d'Italia. Mentre infatti quattrocento Piemontesi condotti dal Torres si erano presentati a Milano fino dal 29 marzo, Guglielmo Pepe reduce da 27 anni di esilio sbarcava a Napoli per iniziare di là la sua marcia liberatrice nell'alta Italia, e mentre una colonna romagnola dello Zambeccari passava il Po e occupava Borgoforte, .i Trentini del capitano Scotti instauravano a Malè un go-


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verno provvisorio; i « Corpi Franchi del Veneto >> guidati dal generale Sanfermo si scontravano con gli Austriaci nei pressi di Verona e lottavano disperatamente al passo della Rocchetta; e i coraggiosi Valtellinesi del Menghelli sostenevano un urto di forze nemiche al Tonale. Questi soli accenni dimostrano già per se stessi quanto vivo ed unanime fosse il desiderio di agire, ma in pari tempo quanta ·fosse invece la dispersione delle forze, con l'unico risultato bellico di obbligare gli Austriaci a difendersi da continue molestie che impedivano o ritardavano le mosse delle loro colonne. A coadiuvare in qualche modo le operazioni dell'esercito sardo, fu specialmente l'azione della « Legione Lombarda » del Manara, ma ad affiancare le truppe pontificie è doveroso aggiungere i « Bersaglieri del Po >> organizzati a Ferrara dal marchese Mosti ed aggregati nel maggio del_'48 in Tre-viso alla divisione del generale Ferrari. Inviati a Montebelluna per fronteggiare il corpo austriaco del Nugent, che scendeva su Bassano, essi furono impiegati fra Corn.uda e Onigo, sostenendo un attacco di sei compagnie nemiche comandate dal generale Culoz, meritandosi speciale elogio dal Durando nonchè la medaglia di bronzo al valore (concessa nel 1910) per la resistenza c;>pposta a Monte Berico dal 9 al 24 maggio. Quei « Bersaglieri del Po », restarono infine in campagna anche nel 1849, operando nella Marca d'Ancona e scontrandosi con gli Austriaci al ponte delle Sirene presso Bologna. Conservarono sempre la loro uniforme, una blouse cli panno scuro con una gran croce sul petto e un cappello all'italiana con piuma da un lato. La mancanza di un indirizzo unico e di prestabiliti obiettivi vennero comunque ad originare fra i volontari un senso di stanchezza e di disagio, dovuto in gran parte alle stesse loro condizioni materiali e morali, cioè ad una crescente disillusione sulle troppo facili · speranze concepite. L'eco dei meravigl iosi ardimenti delle « Milizie Cadorine>> bastò tuttavia a risollevare gli animi, e il nome di Pietro Calvi ;:ipparve come una luce che rischiarasse un nebuloso orizzonte. Il Calvi aveva infatti ottenuto da Venezia 400 fucili e 5 pezzi d'artiglieria e dopo avere rapidamente organizzati i suoi volontari in 5 compagnie si era accinto a sbarrare le strette delle Alpi che sboccano sul Piave. Una riserva di « 1.ruardie civiche >> armate di fucììi da caccia, era stata dislocata nelle ~etro'vie e in meno di una settimana aveva messo in istato di difesa le posizioni di Venas e di Tre Ponti.


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Contro queste resistenze marciava però il Nugent con una colonna scendente dal Tarvis e con obiettivo la strada d'Allemagna. Un reparto di essa, al comando del maggiore Hablitskek fu subito respinto e costretto a trincerarsi ad Acquabona, ma quando nuove truppe col generale Culoz riuscirono ad entrare in Belluno, i Cadorini si videro ~(ggirati alle spalle. Il Calvi lasciò allora un corpo franco a Comelico, armato in verità di sole roncole e falci, e decise di accorrere con tutte ie sue forze fra Rivalgo e il burrone della Taomella, dove riuscì almeno a fermarè l'afflusso di nuovi contingenti austriaci. Rimaneva tuttavia da difendere Longarone minacciata da una ripresa della colonna Hablitskek e quivi apparve ancora tempestiva la presenza del Calvi che con un gruppo di uomini arditissimi collocò e fece brillare alcune mine imponendo al nemico di retrocedere. Il pronto succedersi di tante azioni difensive parve allora, fra il ro e il 24 maggio, aver persuaso gli Austriaci sulla inutilità di ulteriori tentativi, ma tale sosta nascondeva un più vasto piano di attacco che infatti si sferrò il 24 su tre colonne concentriche nell'alto Tagliamento e alla chiusa cli. Venas dove il capitano cadorino Oppel oppose una prima resistenza senza poter infrangere l'offensiva nemica palesemente soverchiante per i rinforzi ottenuti e per l'assunzione delle operazioni da parte del generale W alclen. Tutto ciò indusse il Calvi a ritirare passo passo i suoi volontari, tanto più che il Comitato di difesa si era già premurato di consigliarlo a non prolungare una lotta ormai priva di speranze. Le milizie cadorine si sciolsero, ma molti componenti di esse presero la via di Venezia, decisi a difendere almeno quest'ultimo baluardo dell'indipendenza regionale.

,i** Altra bella pagina di storia del volontarismo italiano, scrivevano intanto i cc Volontari Toscani >) rimasta negli annali del nostro Risorgimento coi nomi di Curtatone e Montanara e già ampiamente illustrata nella relazione del generale Bava, nelle memorie del De Laugier, nei ricordi del Nerucci per il battaglione universitario pisano e più ancora nella relazione dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore sugli avvenimenti del '48 e '49, nonchè nell'opera del generale Giorgetti sulle Armi toscane, nella quale è riportata la corrispondenza fra il Bava, il Passalacqua e il De Laugicr.


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Senza quindi ripetere cose note è opportuno segnalare che quel corpo volontario ha un primato cronologico e sintomatico, perchè si era costituito .fino dal dicembre del 1847 con studenti di Siena e in grande maggioranza di Pisa, annoverando subito 460 universitari, dei quali poi, circa 300 diedero tanta prova di valore nella giornata del 29 maggio '48. La sua prima denominazione di « Guardia Civica» si cambiò ben presto in quella di « Battaglione Universitario Toscano» allorchè vi si aggiunsero nuovi giovani di Firenze, di Lucca e di Livorno e quando gli stessi professori assunsero il comando delle varie compagnie e il venerando Ottaviano Mossotti, insegnante di fisica celeste, assunse il comando del battaglione col grado, soltanto onori.fico, di maggiore. Superfluo aggiungere che i comandanti di compagnia erano uomini di larga fama, come il geologo Pilla che lasciò la vita a Curtatone, l'architetto Martolini, il biologo Corticelli e l'illustre scienziato Pacinotti. Partiti il 22 marzo da Lucca, giunsero il. 25 a Massa e di là per Pontremoli e Fivizzano scesero a Reggio Emilia, poi a Brescello, e a Guastalla, a guardia del Po. Dopo una lunga fermata a Viadana furono inviati il 27 maggio al bivio di Rivalta per fronteggiare, insieme al rn° di linea napoletano e al corpo del generale De Laugier la posizione di Curtatone verso la quale avanzavano su tre colonne r6 mila austriaci. Una di queste colonne puntava infatti su Curtatone, un'altra su Montanara e la terza aveva il compito di aggirare i Toscani alle spalle. I colonnelli Campia e Giovannetti tenevano il comando delle due posizioni anzidette e l'intiero corpo del De Laugier disponeva all'incirca di 4800 uomini. Esisteva pertanto una iniziale sperequazione di forze fra gli avversari e quando la battaglia si pro.filò su Curtatone, come primo obiettivo, gli Austriaci, agli ordini dei generali Benedek e Schwarzemberg attaccarono con grande risolutezza per cui i volontari con soli due cannoni dovettero sostenere una lotta oltremodo aspra e difficile, alla quale concorse con impareggiabile ardimento il « Battaglione Toscano» dopo aver superato a viva forza il ponte dell'Osane. Tale fu infatti l'irruenza della loro offensiva che per evitare una strage che sarebbe certamente avvenuta al contatto dei trinceramenti nemici fulminati dalle artiglierie della difesa, il maggiore Mossotti dovette intervenir_e a ~allentarne l'impeto, ponendosi egli stesso· alla testa degli studentr. Ciò nonostante gli universitari ebbero 16 morti, 20 feriti e perd_ettero ~5 dei loro, che fatti prigionieri ed inviati a Theresienstadt, non nmpatnarono che sul finire del successivo mese di agosto. 13


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Mentre poi si svolgeva questo memorando episodio, un gruppo di napoletani al comando del maggiore Berardi si scontrava sulla via di Mantova con la brigata Clam e per oltre due ore ne contendeva l'avanzata. Analogamente si combatteva a Montanara e la lotta continuò fino all'imbrunire, allorchè giunse l'ordine di una generale ritirata su Goito. L 'aggiramento compiuto dalla terza colonna austriaca aveva d'altronde reso ormai insostenibile qualsiasi ulteriore resistenza, perciò anche una compagnia di livornesi guidata dal Malenchini dovette abbandonare la località del Molino, rimasta isolata, e un ultimo gruppo pure di livornesi col capitano Mayer era costretto a seguire il movimento dopo aver conteso palmo a palmo la posizione delle Grazie. Ordinatissimi tutti questi distaccamenti toscani raggiunsero Goito, ponendosi agli ordini del colonnello Rodriguez comandante un reparto di napoletani. E così il tempestivo, efficace concentramento dei volo~tari valse a facilitare all'esercito piemontese la vittoria del 30 maggio. Destinato a Montichiari e poscia a Brescia, il « Battaglione Universitario >) fu sciolto il 18 giugno, m a parecchi dei suoi componenti lasciarono la città ai primi di luglio accompagnati dalle più vive manifestazioni della popolazione. Col decreto del 29 maggio 1910 fu finalmente conferita alla bandiera del « Battaglione T oscano >> la medaglia d'argento al valor militare, con questa significativa motivazione : « per la strenua, disperata resistenza contro un agguerrito e soverchiante nemico, ritardandone l'avanzata su Goito, dove riuscirono vittoriose le armi piemontesi ». Con tali formazioni di lombardi e di toscani, si può dire che si iniziassero concorsi positivi da parte dei volontari alle operazioni militari; concorsi tuttavia ancora indiretti, nel senso di aggregazioni occasionali alle forze regolari o di azioni parziali, che pur sempre giovarono al conseguimento di buoni risultati. Così anche gli aiuti della « Coorte Modenese e Reggiana >) alle truppe pontificie del generale Ferrari D'Arco sono parimente da ricordare per la prontezza con la quale 1200 volontari si portarono a San Benedetto Po, recandosi poscia in rinforzo al generale Durando con quattro cannoni già Estensi che avevano ancora impresso nella volata il motto: << contro i liberali ,>. Spostati a Guastalla in aggiunta ai T oscani per la guardia del Po, questi volontari occuparono inoltre le posizioni di Govçrnolo e di Borgoforte respingendovi un distacca-

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mento austriaco coman dato dal c_olonnello Castellitz e impedendo :il nemico che era a Colorno di congiungersi col grosso delle sue forze in Mantova, e quando la coorte fu aggregata al I corpo d'armata del generale Bava, si divise in due frazioni, una delle quali fece ritorno a Modena e l'altra, non volendo abbandonare l'esercito piemontese, si costituì in un battaglione che prese l'ordinativo di VIII allora comandato dal maggiore Araldi. Notevole infine il fatto, che alla destinazione del predetto maggiore al comando del V battaglione bersaglieri piemontesi, gli stessi suoi volontari vollero seguirlo, e benchè in condizioni assai tristi di armamento e di equipaggiamento, rimasero· con lui disciplinatissimi anche nella giornata di Novara.

Nelle ripetu te citazioni di taluni corp i volontari, si è avuto fin qui occasione di far cenno alla presenza di studenti universitari. A quanto si è detto è pertanto necessario di aggiungere che l'affluenza di questi giovani si manifestò assai notevole fino dal marzo del '48. con provenienze dal Piemonte, dalla Lombardia, dal Veneto, dal}'Emilia e dalle Romagne, e con aliquote pure di comaschi e di padovani. Perfino un gruppo di seminaristi, studenti di teologia, aveva fatto domanda di servire nell'esercito sardo e fu soltanto per disposizione delle autorità ecclesiastiche, se ottenne di essere adibito a funzioni spirituali. Una compagnia speciale, detta « Guardia Universitaria>> si costituì inoltre a Modena, indipendente dalla coorte, e prese parte alle operazioni intorno a Peschiera; un battaglione piemontese chiamato dal nome del suo comandante « Battaglione Cassinis » ebbe occasione di battersi a Madonna del Monte e a Calmasino e più ancora a Rivoli il 22 luglio contro gli Austriaci, meritandosi una menzione onorevole, che nel 1887 fu poi cambiata in medaglia di bronzo al valor militare; altri studenti di Padova formarono due colonne, una delle quali comandata 'dal capitano Gazzoletti e l'altra dal maggiore Gerrarini particolarmente impegnata nella difesa di Vicenza; e infine per non citarne altri si possono ricordare gli studenti delle città di Ferrara e Medicina che insieme ai « Cacciatori Alto Reno » dello Zambeccari, passarono il Po, occuparono Occhiobello, Monselice ed Este; nonehè c1uella « Legione Minerva » composta di universitari pavesi che fu-


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rono a Desenzano, a Trecate, nei pressi di Mantova, restando in campagna fino all'aprile del 1849. · Tali accenni si riferiscono a unità di fanteria, ma è doveroso non dimenticare che molti studenti fecero parte di gruppi di artiglieria, specialmente per la difesa di Venezia, inquadrandosi in formazioni locali o adibiti a speciali incarichi, come quei vicentini che presero il nome di « Cannonieri del Brenta », come quei friulani e padovani che contesero con tanto valore la posizione di Marghera e più specialmente quei volontari che si aggregarono alla « Legione BandieraMoro » agli ordini del colonnello Carlo Mezzacapo per la difesa dell'estuario. Nè mancò pure la cavalleria della «D ivisione Lombarda», nè lo squadrone napoletano del capitano Guglielmo D iaz che caricò a Mestre nel '48, nè il plotone di Jacopo Zorzi, nè infine quel mani polo di dragoni del colonnello Cima postosi a disposizione del Governo provvisorio di Milano fino dall'aprile del 1848. Non tutti i componenti q uesti piccoli corpi erano in realtà stuàenti universitari, ma molti, anche dei licei, avevano lasciato le varie scuole pur di far parte di reparti volontari, dove però il loro concorso fu improntato di entusiasmo più che fattiva cooperazione. Tranne che per le formazioni ricordate per lo spirito di coesione e di sacrificio, di cui diedero cosl luminose prove, gli avvenimenti che si svolsero nel giugno e luglio del '48 portarono tuttavia altri segni di stanchezza e di disagio nella maggior parte dei volontari. L'avanzata di Nugent dall'Isonzo su Verona, l'assedio di Vicenza, le defezioni ordinate dai Governi di Napoli e di Roma, le voci di un imminente arrivo di 40 mila austriaci su Mantova, offuscarono cosl, in senso deprimente molti dei primitivi entusiasmi, e il ricordo di esaltazione per la ritirata degli Austriaci da Goito, nonchè il grido di gioia che all'annuncio della resa di Peschiera aveva apportato un sorriso di compiacimento al malinconico Re, sfumarono soprattutto quando il 25 luglio l'esercito piemontese aveva dovuto subire una rotta sulle colline di Custoza, ripiegandosi per coprire Milano, dove si addossarono su Carlo Alberto colpe ed errori, dovuti a ben altre cause e a deluse speranze. Ma a deprimere gli animi risorsero inoltre le dispute sulla fo rma di governo, si palleggiarono responsabilità fra gruppi politici, si dimenticò (come ha scritto il Duran do) che in quelle ore solenni la politica aveva posto in non cale ciò che doveva invece sovrastare, cioè la conquista dell'unità nazionale. Alto suonò pure il monito di Manin all'assemblea veneta richiamando i vari partiti verso il

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dovere di sentirsi soltanto italiatù. Moniti questi che rispecchiano un tragico momento, del quale subì l'influsso qualche corpo volontario, come la « Legione Griffini )), che dopo aver dato tante prove di patriottismo, aveva inalzato la bandiera repubbìicana. Sbarcavano invero a Nizza il 23 giugno i gloriosi avanzi della « Legione di Montevideo )), 84 uomini in tutto, guidati da Garibaldi, ma purtroppo l'esito della guerra era ormai compromesso. Accolto festosamente a Genova, Garibaldi non trovava tuttavia eguale favore nell'ambiente governativo cli Torino, cosicchè soltanto a Milano poteva · ottenere dal Casati di riunire al nucleo dei suoi compagni d'America, alcuni gruppi sparsi di volontari italiani, formando quella « Legione Italiana >) che doveva restare memoranda l'anno dopo nella difesa di Roma, e che per il momento si avviava su Bergamo nella speranza di congiungersi con le bande cli Gabriele Camozzi. Ai tremila uomini male armati e peggio equipaggiati, Garibaldi rivolse subito il suo appello alla concordia, in quanto egli stesso sentiva il dovere di riconoscere in Carlo Albe.rto il difensore della causa nazionale e di offrire a lui il concorso suo e dei suoi camerati, primi fra tutti i Pavesi, i Milanesi e i N izzardi riuniti in un battaglione intitolato all' Anzani. Dopo il vano tentativo di avvicinarsi a Milano, la « Legione Italiana )) dovette ripiegare su Como e agire nei dintorni del lago Maggiore, scontrandosi finalmente il 14 luglio a Luino con una colonna austriaca alla quale inflisse la perdita di quasi 200 uomini e il 26 agosto successivo attaccando Morazzone difesa da un distaccamento nemico al comando del generale D'Aspre. E' noto il giudizio che questo generale diede allora su Garibaldi: « Italiani, l'uomo che avrebbe potuto esservi utile, l'avete disconosciuto)>. Furono quelle le ultime cartucce bruciate nel 1848 in terra lombarda dai volontari garibaldini e più particolarmente da un reparto di pavesi che guidati dal maggiore Perugini caricarono due volte gli Austriaci con l'intrepidezza di vecchi soldati. Se le sorti della guerra erano ormai purtroppo decise, un estremo episodio doveva ancora brillare, nella eroica resistenza del forte di Osoppo, dove Licurgo Zannini aveva da cinque mesi concentrato volontari friulani e disertori austriaci, che sull'esempio e la grande .fede del loro capo, resistettero alle granate nemiche fino al 9 ottobre, quando dovettero capitolare, ma con l'onore delle armi. · Si chiudevano così le azioni dei volontari durante l'anno 1848,. a tale proposito, e per la verità storica, è qui necessaria una breve parentesi nei riguardi delle « camicie rosse)>. Nessun corpo


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volontario del '48 indossò la camicia rossa, perchè essa apparve soltanto coi legionari di Montevideo e non si generalizzò che l'anno dopo durante la difesa di Roma, quando ·il sarto (certo Bassi) della caserma Serristori ebbe l'incarico di confezionarne alcune centinaia, modificando il tipo originario con l'adozione di un colletto e dì paramani color verde e di un cordoncino d'argento alle maniche per i distintivi di grado. Dopo il '49 tornò la camicia rossa nel 1866, e quattro anni appresso nei campi delle Argon.ne fu ricoperta, con dolore dei volontari, àalla tunica turchina. Un'ultima volta, nel 1915 sul Podgora un vecchio garibaldino romagnolo, Giuseppe Lavezzari, volle ancora portarla sotto al grigio-verde e, colpito a morte, sbottonò la giubba per mostrarla come monito e sfida al secolare nemico.

Fra l'armistizio Salasco del 7 agosto '48 e la denuncia dei 12 marzo '49 il Governo di Torino si era accinto alla riorganizzazione del1'esercito ed aveva in pari tempo disposto che le truppe lombarde, quelle dei Ducati e i corpi volontari si riunissero a Trecate in una sola divisione mista agli ordini del generale Oliveri. Quest'ultima disposizione incontrò subito notevoli difficoltà perchè alcuni corpi non vollero accettare le necessarie condizioni ed altri continuarono a promettere la loro cooperazione ma a patto di conservare le rispettive autonomie. Di più nel novero degli ufficiali e dei gregari si riscontrarono invero taluni elementi turbolenti che avrebbero dannosamente influito anche sui migliori e disciplinati volontari e infine molte piccole unità avrebbero dovuto scomparire, assorbite da formazioni maggiori e più omogenee. I corpi di notevole entità che entrarono nella divisione mista si ridussero pertanto al « Battaglione Istruttori )> di Milano, agli « Studenti Lombardi » del Pasotti, ai <e Comaschi )> del Bagolini, al battaglione del Bari eri, al <e Reggimento della morte )) già dell 'Anfossi e comandato allora dal colonnello Masserano, ai « Bergamaschi >) del Bonardi, alla cc Legione Borra», alle « Guide del Tirolo ))' ai cc Finanzieri » del Trotta ed ai cc Cremonesi >) del Tibaldi. Chiesero invece di restare « corpi distinti >) i legionari del Manara ridotti a un solo battaglione, la « Legione Tridentina ,, del mag.· giore Venini e i « Volontari Valtellinesi )> costituiti in un reparto di bersaglieri col capitano Guicciardi.

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La riduzione della « Legione Manara l> a un solo battaglione, che assunse la numerazione di VI della « Legione Lombarda )> fu una dura necessità, dovuta al fatto che parecchi volontari si congedarono per non essere più considerati autonomi. Il loro valoroso comandante, non mancò in realtà di esprimere il suo dispiacere, in quanto egli riconosceva il diritto del Governo piemontese che queste truppe si uniformassero alle disposizioni dell'esercito regolare, ma rilevò pure « come i signori, gli artisti, gli avvocati, i repubblicani che per i primi erano usciti da Milano con tanto entusiasmo, non volessero obbligarsi a divenire un corpo di linea)). Egli invece si rassegnò, pur di tenere ancora il comando dei suoi bersaglieri e di combattere con essi per la libertà d'Italia. Per queste diverse riduzioni, la divisione potè formare appena 12 battaglioni, raggruppandoli in quattro reggimenti che presero le numerazioni di 19°, 20°, 21° e 22°, a seguito dei reggimenti piemontesi, e completare i suoi effettivi con tre batterie di 8 pezzi ciascuna e sei piccoli squadroni di cavalleria. Trasferita a Vercelli la « Divisione Lombarda » passò poscia al comando del generale Ramorino, ma nonostante l'incorporazione di nuovi volontari di Mantova e dell'Emilia la sua forza andò ancora diminuendo e perciò i battaglioni furono ridotti a dieci. Opportuni provvedimenti in favore degli ufficiali e del personale di truppa furono tuttavia adottati dal ministro Da Bormida e così la « divisione )> potè entrare in campagna nel marzo del '49, assegnata a coprire la strada da Pavia ad Alessandria. E' noto come il Ramorino lasciasse soltanto quattro battaglioni nella importante posizione deila Cava e come queste deboli forze venissero facilmente travolte dall'urto preponderante di forze austriache. Per quanto riguarda i volontari si segnalarono in quella lotta del 20 marzo gli studenti pavesi e il battaglione Manara, che subirono perdite rilevanti. Contemporaneamente i « Cavalleggeri Lombardi>), pur non prendendo parte all'azione della Cava, ebbero occasione di respingere vittoriosamente a Carbonara e a Zinasco drappelli nemici che erano stati mandati in perlustrazione lungo la linea del Po. Se pertanto il contributo dei volontari alle operazioni del 1849 nell'alta Italia, fu piuttosto modesto, in quanto ne fu limitata la concessione a pochi reparti, sta ad ogni modo di fatto che altri gruppi e non pochi elementi isolati si aggregarono spontaneamente a unità dell'esercito sardo, dimostrando spirito combattivo e la lodevole fede che ancora li animava, a malgrado delle incertezze, degli errori e


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delle disillusioni per le quali avevano dovuto lasciare le loro formazioni, distrutte o disciolte. Coloro infatti che non poterono combattere con le truppe regolari si trasferirono nel Veneto e si trovarono ad · altri fatti d'armi, in Val d'Adige poi al ponte della Laguna, al forte di Bronclolo e finalmente nelle lunghe e sanguinose giornate dal 4 al 26 maggio del '49 a Marghera. Quivi le perdite maggiori si ebbero negli artiglieri, su 400 combattenti contando 84 morti e numerosi feriti, ma anche i vecchi corpi volontari dei « Cacciatori del Sile », il « Battaglione Veneto-Napoletano)), la « Legione Galateo>), il « Reggimento Italia Libera)), la << Legione Friulana », ricostruiti e posti alla dipendenza della difesa di Venezia, fecero prodigi di valore. N on soltanto ebbe ad elogiarli il generale Ulloa, ma ne diede testimonianza un ufficiale austriaco che nel suo diario, sinceramente dichiarò che « nessuna altra truppa avrebbe potuto prolungare una resistenza come quella sostenuta dai difensori di Venezia >>. Il Governo provvisorio, per le ristrettezze finanziarie a cui si era ridotto, pochi compensi potè accordare alle sue milizie, per cui si limitò ad accrescere da 20 a 30 centesimi al giorno le paghe dei gregari ed a promuovere di grado gli ufficiali che si erano maggiormente distinti. Una piccola eccezione fu fatta a favore del battaglione d'artiglieria « Bandiera-Moro» che ricordava ai Veneziani i nomi dei loro concittadini fucilati dal Borbone a Cosenza il 25 luglio 1844. La resa della città e dell'estuario, nonchè l'arrivo dei reggimenti croati, determinarono lo scioglimento di tutte le unità locali e volontarie, concedendo a gueste ultime di rimpatriare per via di terra (e ai Napoletani per via di mare) in conformità dell'accordo concluso a Papadopoli fra i rappresentanti del Municipio di Venezia e i generali austriaci Hess e Gorzkowsky.

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*** Nuove e splendide pagine nella storia del Risorgimento italiano dovevano infine scrivere i volontari di ogni provincia per la difesa di Roma. Qui emerse particolarmente l'opera e la guida di Garibaldi. Egli, dopo le ultime operazioni del '48 avrebbe voluto recarsi a Venezia, ma l'offerta fattagli dalla Repubbl ica Romana e il miraggio di Roma prevalsero su ogni altra decisione, cosicchè si recò da prima a Ravenna e poi per Fano e il passo del Furio arrivò a Mace-

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rata il 1° gennaio 1849. Eletto quivi deputato della Costituente, proseguì per Rieti e per Anagni con la sua Legione rinforzata da gruppi di studenti, di finanzieri e di emigrati, in tutto 2500 uomini, con i quali il 28 aprile faceva il suo ingresso in Roma. I Francesi, sbarcati intanto a Civitavecchia avevano spinto le loro avanguardie verso il Trastevere e due giorni dopo l'arrivo di Garibaldi si presentavano già in forze di fronte a San Pancrazio. Urgeva pertanto provvedere, chiamando a raccolta la popolazione, infondendole fede e coraggio e disponendo a difesa il settore maggiormente in pericolo del quale Garibaldi stesso assunse il comando, valendosi essenzialmente dei suoi legionari posti al comando di Sacchi e dei bersaglieri di Luciano Manara che da Portofino, per via di mare, erano sbarcati a porto d'Anzio ed avevano con mirabile celerità raggiu nte le porte di Roma. Il nemico, forte di 6 mila uomini con ,d ue batterie aveva posto il campo a Castel Guido, fiducioso che non appena le- sue truppe fossero state in vista della città, questa avrebbe aperto le porte ai «liberatori >> . Ma la sera del 29 aprile un drappello di cacciatori a cavallo comandato dal capitano Oudinot, fratello del generale, si presentò in ricognizione e si trovò d'improvviso accolto a fucilate da un posto d'osservazione. Sorpreso da questa inattesa presenza riprese in tutta fretta la via del ritorno. Il piccolo episodio persuase allora i Francesi che altri capisaldi avanzati vigilavano ed erano in pari tempo gruppi di copertura. Infatti dietro ad essi erano già schierate sulle alture di villa Corsini e villa Pamphili le legioni degli studenti e dei reduci. Accortamente il generale Oudinot giudicò ineffettuabile un attacco frontale e dispose che il generale Mollière avanzasse rapidamente su Roma e con i suoi due reggimenti 20° e 33° fanteria assalisse le mura fra porta Angelica e porta Cavalleggeri, per praticarvi una breccia attraverso la quale sarebbe entrata la brigata Lavaillant, tenuta in riserva fra i canneti. Nonostante l'impeto degli assalitori il tentativo di sfondare la breccia non potè riuscire, per il fuoco intenso dei difensori, nè fu possibile ricorrere alla riserva perchè l'estenuante marcia in terreno paludoso e sotto un cielo plumbeo ed afoso, aveva prodotto sintomi di gran de stanchezza. Del momentaneo arresto che ne seguì, approfittò invece Garibaldi ordinando ai volontari cli scendere per l'angusta via che da S. Pancrazio condticeva alla rotabile di Civitavecchia. Con leggendario disprezzo della morte e contro i tiri d'infilata


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del nemico, 250 studenti si precipitarono all'assalto e le loro perdite già gravi s~rebbero state gravissime se in tempo non fosse accorsa fa. « Legione Italiana » sostenuta a sua volta dalla « Legione Romana i> del colonnello Galletti. Conteso il terreno palmo a palmo fra piccoli ripari di alberi, di muretti, di cespugli, la lotta durò fino al tramonto, allorchè una generale carica alla baionetta sul fianco del 20° di fanteria obbligò questo reggimento a ritirarsi con gravissime perdite. Inoltre, per il fulmineo intervento dei cavalleggeri di Masina l'intiero battaglione Picard, forte di 300 uomini fu costretto ad arrendersi e fu fatto prigioniero. I difensori di Roma in quella giornata del 30 aprile ebbero più di 200 uomini fuori combattimento e la perdita di 1:i: ufficiali oltre ad altrettanti feriti. La « Legione Lombarda )> diede l'olocausto maggiore di giovani vite. Ai caduti francesi Roma rese le dovute onoranze e degne sepolture; ai feriti concesse piena libertà non appena dimessi dagli ospedali. In cambio l'Oudinot restituì il « Battaglione Pietramellara )> che aveva trattenuto in ostaggio a Civitavecchia e lasciò libero il prete Ugo Bassi l'eroico cappellano della « Legione Italiana ». Garibaldi e Galletti avrebbero voluto approfittare della vittoria e inseguire il nemico ma il Triumvirato si oppose nella illusione che una Francia repubblicana avrebbe tenuto conto di questa generosità. Se ne valse invece l'Oudinot ritirando indisturbate le sue truppe a Castel Guido e inviando poscia a Civitavecchia ammalati e feriti che senza alcuna molestia furono imbarcati per la Corsica. Dal te1egramma che egli spedì a Parigi per segnalare la grande resistenza incontrata, i giornali francesi misero però subito in rilievo la parola « fortunatamente >) con la quale il Comando francese si riferiva al mancato inseguimento, che sarebbe stato disastroso. Perciò nella seduta del 7 maggio al Parlamento, Jules Favre stigmatizzò l'imprevidenza e le deficienti informazioni di quel comandante per lo scacco subìto dopo tante illusioni di una facile e rapida conquista. In realtà, più che il timore di disgustare la Francia nella speranza di possibili intese, l'inseguimento avrebbe portato ad una disorganizzazione delle forze della difesa, composte in grandissima parte di volontari già duramente scossi .e non avrebbe permesso ai dirigenti della Repubblica Romana cli premunirsi invece eia una avanzata di Tedeschi dalla Toscana e dai preparativi che stava compiendo un forte contingente napoletano per entrare nel territorio pontificio.

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E poichè delle due minacce quest'ultima era la più prossima, fu deciso di arrestarla, affidandone il compito ai soli volontari sotto ìa guida di Garibaldi. Escluse pertanto le altre truppe più o meno regolari, la « Legione Italiana >> rinforzata dai consueti battaglioni di studenti, di finanzieri e di emigrati e più ancora dai bersaglieri di Manara che nella loro severa uniforme contrastavano alquanto con le varie e più strane divise degli altri corpi, uscì da porta del Popolo il 4 maggio per accreditare la voce che si avviasse su Civitavecchia, ma lasciata la via Flaminia passò con largo giro sulla Tiburtina e giunse il giorno 6 a villa Adriana dove accampò. La notizia che una intiera divisione napoletana al comando del generale Winspeare stava già marciando lungo la valle del Liri, indusse Garibaldi ad accelerare il suo piano ed occupare subito Palestrina, spingendo in pari tempo una ricognizione su Valmontone. Quivi infatti la colonna Manara ebbe un primo e fortunato scontro con una avanguardia nemica mentre la Legione, dalle rovine di Preneste, ributtava con aspro combattimento le truppe borboniche in direzione di Colonna. Questo iniziale e felice successo avrebbe potuto proseguire con maggiore fortuna se da Roma non fosse partito l'ordine di attendere l'arrivo di ro mila uomini al comando del generale Roselli, sottoponendo così Garibaldi in sottordine al nuovo comandante. Rifulse allora quella nobiltà d'animo di Garibaldi che doveva ancora ripetersi in accorata obbedienza nel '59 per il comando dell' « Esercito della Lega dell'Italia Centrale>>, poi nel '60 a Capua e a Caserta e infine nel '66 in vista di Trento. Senza una parola di rincrescimento egli assunse il comando dell'avanguardia per sbarrare almeno alle truppe di re Ferdinando la via di Velletri, e senza attendere i rinforzi lanciò in avanti il piccolo ma eroico gruppo di cavalleria sorreggendolo con l'impeto dei volontari e riuscendo a fermare l'avversario al quale catturò inoltre un intiero squadrone. In quella mischia, per puro miracolo, egli ebbe salva la vita per merito del suo fedele Aguyar che si interpose fra Garibaldi e un maggiore borbonico, facendo scudo di se stesso per impedire la cattura o la morte del generale. Invero disapprovò il Roselli l'iniziativa di una azione compiutasi senza suo ordine, ma il risultato ottenuto giustificò subito il subitaneo e tempestivo ardimento di Garibaldi, in c.1uanto nella notte stessa re Ferdinando fece sgombrare Velletri e dispose una generale ritirata del corpo d'operazioni su Terracina. Non mancarono i volontari di inseguire i fuggiaschi fino ad Aree ma quivi per la seconda volta


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furono fermati e richiamati a Roma dove il settore di San Pancrazio era seriamente minacciato dalle forze francesi. Il generale Oudinot aveva infatti triplicato i suoi effettivi portandoli a 30 mila uomini con 70 pezzi d'artiglieria ed aveva già posto il suo quartier generale a villa Santucci fuori porta Portese, disponendo inoltre un vasto accerchiamento di Roma nel settore fra monte Mario e ponte Milvio. Garibaldi, giunto rapidamente a Roma, intuì subito le difficoltà di difendere così ampio accerchiamento e chiese pieni poteri, ma il Triumvirato gli affidò invece la difesa del Gianicolo considerandola come il più importante punto d'onore. Non è qui il caso di ripetere nei suoi particolari l'eroica difesa del 3 giugno 1849, ormai sacra alla storia, ma non si può lasciare sotto silenzio l'ostinata resistenza del << Battaglione Pietramellara >) contro l'intiera brigata francese del generale Lavaillant ed il pronto soccorso della « Legione Romana » del Galletti che impedì a un battaglione nemico di assaltare la porta di · San Pancrazio. Occorreva tuttavia riprendere villa Corsini, rafforzarsi nel casino dei Quattro Venti e mantenere il possesso di vili a Giraud, chiamata « il Vascello>>. I Quattro Venti furono espugnati a viva forza da alcune compagnie della « Legione Italiana », il Vascello fu occupato dalla « Legione Medici ,, e i bersaglieri di Manara furono in gran parte sacrificati uscendo di corsa da porta San Pancrazio, fra gli applausi della popolazione e lanciati nella stretta via che conduceva a villa Corsini sotto un tremendo fuoco d'infilata, che alla sola compagnia di testa costò la perdita di 25 volontari su 60 che la componevano, oltre parecchi altri morti che ebbe quando fu costretta a ritirarsi. Il tumultuoso succedersi di repar ti spinti dal1'entusiasmo, ma nelle peggiori condizioni tattiche, costò così ben caro ai difensori di Roma in quella giornata nella quale frammischiati caddero legionari e popolani in gran numero, oltre a 19 ufficiali e una trentina di essi più o meno gravemente ' feriti. Fra i morti il Masina, il corpo del quale fu trovato qualche giorno dopo in uno dei viali adiacenti alla storica scalea dei Quattro Venti. Tristi giornate seguirono per le numerose bombe cadute anche nel centro di Roma e per parziali ma cruenti episodi alla immediata periferia della città. In uno di questi duelli di artiglierie fu ferito gravemente il Pietramellara, spentosi poi dopo lunga sofferenza ai primi di luglio quando la Repubblica era già caduta e senza gli onori che i Romani avrebbero voluto tributare alla venerata sua salma. I Francesi li impedirono.


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Un caposaldo era stato intanto occupato da Manara a villa Spada e un altro dal Sacchi a villa Savorelli, ma entrambi furono perduti poco dopo nell'ultima disperata difesa del 30 giugno, durante la quale l'eroico comandante dei « Bersaglieri Lombardi » lasciava la vita colpito in fronte da una palla francese. Portato a spalla dai suoi volontari, egli poteva essere pietosamente sepolto, fra il generale compianto, nella Chiesa di San Lorenzo in Lucina. La strenua resistenza del « recinto Aureliano » dove le batterie romane spararono per dieci ore continue tutti i loro colpi, servite $enza distinzione d'arma da volontari d'ogni corpo e d'ogni provincia, non valse ad impedire la fine di una lotta che il popolo credeva anco~a possibile per quella cieca e inconsapevole fiducia che è ignara della realtà. Lo stesso popolo di Roma, la sera del 29 giugno, festa di San Pietro, aveva creduto di sfidare il nemico facendo illuminare come per una prova di coraggio e di forza la cupola della basilica. Ma al mattino seguente i combattenti non erano più in grado di continuare a sacrificarsi, privi ormai d'ogni mezzo e mancanti di quasi tutti i loro migliori ufficiali. Senza scendere a patti la Repubblica si inchinava al destino. Solo Garibaldi non volle assistere all'entrata dei Francesi e riuniti il 2 luglio i suoi volontari in piazza San Pietro annunciò ad essi che la sera medesima sarebbe uscito da Roma, e alle ore sei del pomeriggio fra il mesto saluto della popolazione usciva infatti da porta San Giovanni con una colonna di volontari, ultimi resti di tante battaglie. Iniziava così quella pericolosa marcia, fra le insidie di quattro eserciti coalizzati, che doveva terminare decimata e sfinita alla ospitale Repubblica di San Marino. Con un piccolissimo gruppo di fedeli, l'invitto condottiero proseguiva poi di là per la via dell'esilio. I ricordi di quell'epopea sono ormai raccolti da una ampia bibliografia e finalmente eternati nel simbolico ossario eretto sul Gianicolo. Essi restano, e resteranno, a testimoniare lo spirito e le idealità che animarono i volontari italiani anche dopo le durissime prove del 1848. Giovani nel fiore degli anni, con la fede nel cuore e il nome d'Italia sulle labbra erano accorsi a Roma senza distinzione di casta per offrire se stessi come vindici di ataviche sofferenze di àue generazioni. . Il 1849 non fu quindi per i volontari che una perfezionata dediz10ne dell'anno precedente alla causa nazionale, sia per la guerra contro gli Austriaci, sia per impedire ai Francesi l'occupazione di Roma.


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Ma una prova ancora essi sostennero nelle dieci giornate di Brescia a fianco di una popolazione stremata da un lungo martirio e schiacciata dalle più crudeli misure di un implacabile nemico nella lotta che culminò fra il 23 marzo e il 2 aprile '49. Se inestinguibile è il ricordo delle cinque giornate di Milano, non meno degno è quello della reazione bresciana contro le tracotanti ordinanze del maresciallo Hainau e la ferocia di truppe imbaldanzite dai successi ottenuti sui campi di battaglia della Lombardia. Non pochi volontari, purtroppo isolatamente, condivisero privazioni e dolori con la popolazione, in continua attesa delle bande di Gabriele Camozzi che organizzate e pronte al soccorso erano scese dalle valli bergamasche, fermate da un potente servizio di spionaggio e dalle forze austriache, quasi alle porte della martoriata città. I nomi di Gabriele e Giambattista Camozzi, i nomi di Tito Speri, di Cesare Guerini, di tanti altri si associano con onore a quelli dei dirigenti il Municipio di Brescia più volte sequestrati in ostaggio, nonchè all'opera infaticabile di padre Maurizio ed al sacrificio di quei 12 popolani che anche dopo la resa furono appesi alle forche e lasciati esposti come tacito monito che in Italia imperava ancora inesorabile la spada dell'Austria. Caddero invero parecchi ufficiali e soldati nemici, fra cui il colonnello Favancourt e pagò con la vita le sue durezze lo stesso generale N ugent che tante volte si era scontrato con le unità volontarie del '48. Attanagliato forse da qualche rimorso egli lasciò nel suo testamento parte del suo patrimonio a soccorso di quelle famiglie che erano state depredate dei loro averi nei saccheggi compiuti da ufficiali e gregari tedeschi, nelle loro abitazioni. Vendette private continuarono anche dopo la partenza dell'Hainau e l'assunzione dell'Appel al comando della città; fucilazioni di sacerdoti, sevizie di indiziati ed ostentato disprezzo aJle salme dei cittadini caduti furono infine il triste epilogo di quella lotta ad oltranza nella quale si contarono 600 vittime su una popolazione che annoverava allora non più di 35 mila abitanti. Potrà la storia giustificare con imperiosi motivi d'indole militare taluni provvedimenti di rigore da parte degli Austriaci nella condotta àelle operazioni e trovare anche altrettante giustificazioni politiche in favore dei Francesi nell'assalto di Roma, ma siffatte rievocazioni non potranno distruggere quei segni di ampiezza e di unanime slancio che caratterizzarono il movimento popolare del duro biennio 1848-49.

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Quegli stessi volontari che nelle loro formazioni slegate avevano rjsposto al primo impulso delle libertà, si erano gradatamente temprati nel crogiuolo del sacrificio e si raccolsero in unità disciplinate, conservando sempre la medesima fede nella liberazione della Patria da qualsiasi dominazione straniera. Tale l'evoluzione compiuta, in armonia a maturazione di tempi e di idee, che l'Italia superò a prezzo di sangue in quel breve ma intenso biennio che preparò il decennio di raccoglimento e predispose la gloriosa rinascita del 1859.




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LE RIVOLUZIONI DEL 1848-49 IN ITALIA I PROLEGOMENI DEL 1848 Le guerre e lotte intestine, derivate in Europa dalla Rivoluzione francese del 1789 e continuate nel!' epoca napoleonica, si chiusero pel m.omento con la battaglia di Waterloo (18 giugno 1815). Caduto Napoleone, coi trattati di Vienna e di Parigi (9 giugno e 20 novembre 1815), le Potenze alleate intesero dare un definitivo assetto all'Europa, e imposero inoltre la restaurazione dei prìncipi e regimi anteriori al 1789, in base al principio del « legittimismo >> e del « diritto divino >> per cancellare qualunque traccia degli ordinamenti fondati sul principio della cc sovranità popolare». La Santa Alleanza, strettasi il 26 settembre 1815 a Parigi fra Austria, Prussia e Russia, si assunse l'incarico cli attuare e mantenere quelle decisioni, reprimendo ogni eventuale movimento rivoluzionario. Si credeva con ciò di poter mantenere un e< equilibrio stabile >> , evitando nuove guerre per l'avvenire. Senonchè il grande rivolgimento politico-sociale che era stato frutto in sostanza dell'opera letteraria, filosofica e politica, svolta più particolarmente nel secolo XVIII dagli · Enciclopedisti, dagl'Illuministi, dalla Massoneria e da altre scuole o sodalizi - non poteva tutto a un tratto sparire, dopo che aveva formato oggetto di venticinque anni di sanguinosissime lotte, e il programma « Libertà - Eguaglianza - Fratellanza», che richiamava tanto da vicino il Cristianesimo, era sempre troppo tentatore perchè venisse dimenticato, cosicchè larghi strati delle popolazioni .insorsero in Italia, Spagna, Francia, Polonia, e più tardi anche in Austria, Prussia e Ungheria, per ottenere riforme sociali e istituzioni liberali. 14


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Cronologicamente aveva già dato l'esempio la Sicilia, dove fin dal 1795 erano stati condannati alla forca alcuni liberali, fra i quali F. P. Di Blasi, dotto giureconsulto di chiarissima fama, che passò alla storia come « il primo martire della libertà in Italia ». Nuovi moti, avvenuti nel r8n, per protestare contro editti troppo gravosi, avevano costretto Ferdinando I a concedere nel r812 una Costituzione, ch'era l'antichissimo Statuto, rinnovellato sul m odello inglese. Più tardi in Sicilia alle idee liberali e riformiste apportate dalla Rivoluzione del 1789 si venne ad unire strettamente il desiderio della indipendenza o autonomia, dato che essa sotto la monarchia dei N ormanni aveva avuto un parlamento proprio .fin dal rr30, e che solo nel 1734 era stata unita a Napoli sotto Carlo III di Borbone, re delle Due Sicilie, il quale si era fatto amare, quanto invece il figlio Ferdinando si faceva molto aborrire. Alla Sicilia fece seguito Milano. Dopo gl'insuccessi napoleonici, nel 1814 il vicerè del Regno Italico, Eugenio di Beauharnais, era stato respinto dagli Austriaci fino al Mincio; il 20 aprile in quella città scoppiarono allora violenti tumulti al grido : « Non più Vicerè, non più Francesi! Vogliamo un Re italiano, indipendente, ed una Costituzione! ». L'unica vittima però fu il conte Prina, novarese, ex ministro delle finanze, che fu orribilmente strazi ato. Gli anni susseguenti .fino al '48 videro un continuo succedersi dall'Alpi al Lilibeo di moti rivoluzionari; quando riuscivano, le popolazioni ottenevano riforme liberali e sgravii; quando fallivano, le repressioni erano sanguinose, e si rincrudivano i precedenti sistemi. Nel 1820-21 s.i ebbero tali moti nel Napoletano, in Sicilia, nel Piemonte e a Modena; nel '30 a Palermo'; nel '31 si ebbero a Modena, Bologna, Parma; nel '32 a Cesena; nel '32-33 a Genova, nelle Romagne, Marche, Umbria e Toscana; nel '36 a Modena; nel '37 in Sicilia, Calabria, Abruzzi; nel '41 ad Aquila e a Catanzaro; nel '41 a Imola e nelle Romagne; nel '44 a Cosenza; nel '45 a Rimini; nel '47 in Calabria e Sicilia. Per sottrarsi al controllo dei governi e delle polizie pulllùavano nei vari Stati le società segrete, tra le quali era importantissima la « Carboneria », specie di Massoneria patriottica, che si proponeva fini spiccatamente nazionali; i governi opponevano ad esse sette antirivoluzionarie, come i « Calderari » a Napoli e i « Sanfedisti » a Roma. Poichè nelle repressioni era di pramm atica l'intervento di truppe austriache con le conseguenti stragi e rovine, così nella penisola il

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movimento liberale si venne presto ad affiancare a quello tendente all'indipendenza dallo straniero. L'Austria possedeva il LombardoVeneto, eh' era in sostanza una prefettura amministrata da Vjenna, aveva diritto di tener guarnigioni nel Ducato di Parma e Piacenza, dato a Maria Luisa vedova cli Napoleone, e nelle Legazioni di Ferrara e Ravenna; cli più la sua influenza si estendeva sul Ducato di Modena e Reggio, assegnato a Francesco IV d'Este-Lorena, e al Granducato di Toscana assegnato a Ferdinando III di Lorena. Il principio nazionale in Italia aveva avuto il primo riconoscimento ufficiale nel proclama lanciato da Rimini nel marzo 1815 agli Italiani da Gioachino Murat, allora re di Napoli, e dovuto alla penna di Pellegrino Rossi: « ...La Provvidenza Vi _c hiama ad essere una Nazione indipendente. Dall' Alpi allo stretto di Sicilia si oda un unico grido: l'indipendenza d'Italia». Il principio aveva poi avuto solenni applicazioni in Europa nel 1829 e 1830 a seguito delle guerre d'indipendenza della Grecia contro la Turchia e del Belgio contro l'Olanda. Altri due fatti importantissimi rappresentarono una imponente forza propulsiva per determinare gli avvenimenti che si svolsero dal '32 al '48 : la fondazione della Giovane Italia, fatta a Marsiglia nel '32 da Giuseppe Mazzini, che con le idealità contenute nel quadrinomio: « Dio e popolo, unità e repubblica>>, diede la massima diffusione al programma dell'unità naz.ionale italiana; e l'avvento al pontificato, nel giugno '46, di Papa Pio IX che levò il grido rimasto famoso: « Gran Dio, benedite l'Italia! ))' e introdusse nel suo Stato le più liberali riforme, cosicchè parve allora che potessero affiancarsi il patriottismo e la fede religiosa, contrariamente a princip1 che erano stati enunciati in precedenza.

IL PENSIERO POLITICO IN ITALIA ALLA FINE DEL 1847 Il pensiero politico in Italia alla fine dell'anno '47, quale era espresso dalle pubblicazioni e manifestazioni varie delle maggiori personalità, nei varì staterelli che la componevano, presentava le più svariate tendenze : Tendenza liberale riformista: era la più moderata rispetto alle altre, in quanto accettava la situazione politica esistente, purchè i


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varì prìncipi e dominatori concedessero << riforme democratiche >> a favore del popolo. La tendenza era molto diffusa in Toscana (Capponi, Ricasoli, Lambruschini), dove infatti il granduca Leopoldo fece importanti concessioni. Tendenza neo-guelfa, ra ppresentatà più particolarmente dal Gioberti; vedeva la soluzione del problema italiano in una confederazione di tutti gli Stati (Lombardo-Veneto compreso) sotto la presidenza del Pontefice. Tendenza democratica - rivoluzionaria - unitaria repubblicana di Mazzini. Era intransigente, e opposta al neo-guelfismo. Tendenza repubblicana federalista,_con a capo Cattaneo e Ferrari. Tendenza neo-ghibellina; era pur essa opposta al neo-guelfismo, perchè considerava il Papato come nemico politico dell'Italia una. Era sostenuta dal Niccolini, dal Guerrazzi e, meno intensamente, dal Giusti. Tendenza albertista o monarchico-piemontese. Intendeva affi. dare l'iniziativa del Risorgimento e ..kll'unità a Carlo Alberto (la spada d'Italia, come lo chiamava il Balbo) e al Piemonte. Oltre al Balbo anche il Manzoni, il d'Azeglio e il Cavour caldeggiavano (assai più temperato il Manzoni) lo stesso programma.

Come abbiamo accennato, anche in altri Stati d i Europa la situazione politica interna non era tranquilla ; l'alba del 1848 sorgeva perciò assai corrusca; essa annunz iava ai popoli, e più particolarmente a quello italiano, ansie e speranze, gioie e dolori. L'Italia contava allora 24 milioni di abitanti, ed era divisa in 7 Stati (non contando la Repubblica di S. Marino): Regno cli Sardegna (4.916.000 abitanti); Regno Lombardo-Veneto (5.000.000); Ducato di Parma (500.000); Ducato di Modena (500.000); Granducato di Toscaq_a (1.700.000); Stati della Chiesa (2.898.000) ; Regno delle Due Sicilie (8.430.000).

LE RIVOLUZIONI IN SICILIA E NEL NAPOLETANO La Sicilia per le ragioni su esposte era la più irrequieta fra le varie regioni italiane; aveva cominciato - come abbiamo visto le sue manifestazioni nel 1795, e le aveva continu.ate quasi rnmterrottamente fino al 1847.


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Ai primi del '48 s'intendeva fare a Palermo da taluni arditi una « dimostrazione armata ,, in occasione del 12 gennaio, natalizio del Re.

Un giovane animoso, Francesco Bagnasco, che seguiva le direttive del Mazzini circa la << Giovane Italia )) , aveva fatto stampare ed affiggere fin dal giorno IO un manifesto (1) dove chiamava « all'armi i figli della Sicilia per riconquistare i legittimi diritti ,, per il giorno 12 all'alba, « che segnerà l'epoca gloriosa della universale rigenerazione,, . Il manifesto era firmato « Il Comitato direttivo>', ma questo non esisteva. Comunque esso rappresentava una sfida a tempo fisso; il luogotenente generale De Maio e il maresciallo Vial, comandante della piazza, erano preavvisati. Albeggiava appena, e una salva di colpi di cannone rendeva dal castello le consuete onoranze all'aborrito Sovrano. Nelle strade principali, specie in via Toledo, detta anche Cassero, si andavano formando crocchi di cittadini con coccarde trico( r) Proclama riuoluzionnrio di Palermo del

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ge111111io 1848:

« Siciliani, «

li tempo delle preghiere inutili passò. Inutili le proteste, le suppliche, le p:icifìchc

dimostrazioni ... Ferdi nando tutto ha sprezzato. E noi, popolo, nato ]ibero, ridotto fra catene e nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi d iritti? All'armi , fi_gli della Sicilia! « La forza d i tutti è onnipossente; l 'un irsi dei popoli è b caduta dei Re. 11 giorno J2 gennaio 1848, aH'alba, segnerà l 'epoca glor iosa della universa le rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quanti Siciliani armati si presenteranno a sostegno del la causa comune, a stabilire riforme ed istituzioni analoghe al progresso dd secolo, volute dall'Europa, dall'Italia, da Pio. •< Unione, ordine, subordi1iazione ai capi! « Rispetto a ttUtc le proprietà, e che il fono ~i d ichi:vi trndimenro alfa cau~a della Patria, e come ta le pun ito! « Chi sarà. mancante di mezzi ne sarà provveduto. « Con giusti pr incipii il C ielo seconderà la giusta impresa. « Siciliani ali 'armi ! ,, Le masse armate, che d all'interno dd Regno corrono a p restare m ano forte all a causa nnio11ale, prenderanno posizione nei v:1ri pu nti delle nostre camp~gne, indicati dai rispettivi condottieri. Costoro dipenderanno dagli ord ini ciel Comitato d ire ttivo , composto dei m igliori cittadini di ogni rango. « La popolazione di P:,lermo uscirà, armata di fucile, al'l'alba dd 12 gennaio, 111ante11c.ndo il pit• imponenre contegno, e si fermerà nelle parti centrali, aspettando i capi che si far anno conoscere, e la dirigeranno. Non si tirerà sull a truppa se non dopo serie provocaziom cd aperte ostilità. « In q uesto intervallo nessuno ardisca di criticare gli ordini cd i provvedime11ti del Comitato. Ciò è del maggiore interesse, perchè non si alteri l'esecu7.ione del piano generale dire tto ad assi.c urare i destini della nazione, e la salute pubblica. · ,, Qualunque movimento, che sarà suscitato in Palerrno ~ fuori prima .del- giorno 12, sì ;:vvertc essere manovra di quella Poli'.l,ia, che cerca d i aggrav:1rc. le pubbliche catene. « Non si dom:ui dcranno contribuzioni ai propriernri quando non siano volon tarie, e spontaneamente esibite. Ciò serva a smentire quanto la Polizia va indegnamenrc praticando per di_scred itare il Comitato, incapace di esercitare concuss ion i di migliaia <l'onzc a çarico dei negoz1ant1 e proprietari. « Palermo, 10 gennaio J848. li Comitato Direttivo » .


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lori all'occhiello, che aspettavano come, quando e da chi sarebbe sorta l'iniziativa del movimento preannunziato; allo stesso scopo i balconi e le finestre si anelavano riempiendo di curiosi. Ad un tratto un Pietro Omodei trae da sotto gli abiti un fucile, e spara un colpo in aria, gridando: « Palermitani, alle armi! >>. A lui si unisce l'abate Ragona, che col crocifisso in una mano e una spada sguainata nell'altra eccita alla rivolta. Ai Quattro Canti, grande quadrivio che si apre nel mezzo della città, il sacerdote Venuti sale su un palchetto improvvisato, e arringa il popolo pure a tale scopo. Lo stesso fa nella piazza Fieravecchia l'avvocato Paolo Paternostro, mentre nella vicina via dei Cintorinari compariscono armati di tutto punto e pronti all'azione Paolo Briuccia, Pasquale Miloro con la sua intrepida compagna, Antonio Buscemi e Jacona. A Casa Professa si formano altri gruppi col barone Bivona, Ascanio Enea, Francesco Ciaccio. Sopravviene Giuseppe La Masa, noto cospiratore, eh' era stato tanti anni in esilio ; legati a una canna una pezzuola bianca, un'altra rossa e un nastro verde, fa sventolare i tre colori fatidici; incoraggia, sospinge, grida, arringa la gente che va a mano a mano ingrossando, firma proclami, ordina, dispone. Squillano frattanto le campane di Sant'Orsola e della Gancia; dalle finestre donnP. e ragazzi incoraggiano, gridano e gettano coccarde, e armi lungamente nascoste; si formano in tutti i quartieri «squadre», ossia bande di cittadini, munite di picche, forconi, falci, scuri, che disarmano e fugano le pattuglie regie, e invadono le cancellerie per impadronirsi delle armi ivi depositate. Tutti gridano: « Viva Pio IX! Viva la Sicilia! Viva l'Italia!» . Piazza della Fieravecchia diventa la piazza d'armi degl'insorti. Un mezzo squadrone di cavalleria, che si accinge a caricare, investito dal fuoco proveniente da ogni parte, va a rifascio, e deve ritirarsi molto malconcio. Cominciano intanto a calare dai paesi vicini, specie da Vìllabate, Parco, Monreale, Bagheria, squadre di contadini armati, guidate dagl'intrepidi Giordano, La Licata, Leone, Ferrante, Miceli, Scordato ed altri. La tempesta è scoppiata; non è pit1 oramai una rivolta, è una rivoluzione, così come era stato annunziato; Pietro Omodei, sopra ricordato, che quasi l'ha promossa, è caduto. Il forte cli Castellammare non lascia di bombardare la città, tuttavia il giorno 13 vengono occupate dalle « squadre n una caserma di polizia e l'ospedale di San Francesco Saverio; gli agenti e i soldati che li presidiano depongono le armi e fraternizzano col popolo.

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Dopo i primi successi, si forma il 14, nel palazzo del Comune, un Comitato, il quale assorbe quello provvisorio ch'era sorto alla Fiera vecchia; è diviso in 4 sezioni: una per l'annona col marchese di Spedalotto, una per le operazioni di guerra e la pubblica sicurezza, col principe di Pantelleria, una per le fina nze col marchese di Rudinì, che dev'essere subito sostituito, e una per le informazioni e la propaganda con Ruggiero Settimo. Quest'ultimo - nobile ultrasettan~ , tenne, già retroammiraglio della marina napoletana e poi deputato al Parlamento - assume più tardi la presidenza dei quattro Comitati, fusi nell'unico di « difesa e sicurezza », e chiama a segretario Mariano Stabile. Il 15 viene espugnata la « D irezione centrale di polizia » in piazza Bologni. Se durante la giornata del 12 i 7000 militari del presidio e il migliaio di poliziotti non erano stati capaci, per la insipienza dei comandanti, di sopraffare i 600 armati, che in tutto i ribelli avevano potuto presentare, con scarsissime munizioni, tanto meno potevano riuscirvi dopo. Il Governo vide allora la necessità di inviare a Palermo altre truppe. ta sera del 15 approda in quel porto una flotta di 5 fregate e 4 corvette col conte d'Aquila fratello del Re, e ne sbarcano il 16, 5000 uomini col generale De Sauget. Il bombar damento operato anche dalle navi produce un momento di esitazione nella cittadinanza: le famiglie benestanti cercano scampo n elle campagne; i più tiepidi o meno intraprendenti chiedono ospitalità nelle navi straniere, ch'erano ancorate nel porto ; il. grosso Comitato si riduce a 9 membri: Ruggiero Settimo, il prìncipe di Pantelleria, Casimiro Pisani, Vincenzo Errante, il marchese Pilo-Scaletta, Francesco Crispi, Ignazio Calona (che più particolarmente faceva i piani di attacco delle squadre), Pasquale Calvi, Mariano Stabile. Ma la gran massa della popolazione, per nulla impressionata, resiste egualmente; perfino donne, ragazzi e vecchi lavorano con lena inesauribile a levar barricate, mentre le e< squadre )) attaccano in vari punti impetuosamente i reparti regi. A causa dei bombardamenti fra il 16 e il 17 vanno in fiamme il Monte di Pietà e il convento dei Benedettini Bianchi; un branco di soldati cerca allora di metterli a sacco; sorpresi però dai cittadini, una buona parte viene uccisa o catturata. Fra il 18 e il 20 sono attaccati il Noviziato, il palazzo dell e Finanze, il palazzo Reale, l'Ucciardone ; la sera del 2 0 giungono rinforzi da Trapani. Il 21 vengono comunicate al marchese Spedalotto le concessioni fatte dal Re (il con te d'Aquila luogotenente in Sicilia, una Consulta di Stato, ecc.), ma il Comitato le


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respinge fra gli applausi del pubblico, al quale appariscono « grette e spregevoli >> . Fra il 22 e il 24 si combatte al monastero di S. Elisabetta, al Noviziato e all'ospedale dei Cappuccini, che vengono occupati dagl'insorti. I tenenti di artiglieria Gìacomo Longo e Vincenzo Orsini lasciano le file della divisione De Sauget e si presentano al Comitato generale. L'opera loro riesce tanto più preziosa, ìn quanto che parecchi bravi patrioti, come Castiglia, Kirchner, Pierallini, erano riu sciti ad asportare alcuni pezzi di piccolo calibro da talune navi mercan6li ch'erano in porto. Il 25 si pronunzia l'attacco alla Reggia (Porta Nuova) anche con l'artiglieria. Le squadre occupano il Papireto, il palazzo del1'Arcivescovado, gli edifici contermini, e vanno serrando in uno spazio sempre più ristretto i 5000 uomini che si erano raccoiti in quel settore. Ammonticchiati, avviliti, affamati, stanchi da quattordici giorni di continui combattimenti, sfiduciati per il cattivo esempio dato ripetutamente dai comanàantì di alto grado, sgombrano essi nella notte verso la base dei Quattro Veri.ti per unirsi alla divisione De Sauget, che nulla aveva fatto fin allora per appoggiarli. Il 26 la popolazione penetra nel palazzo Reale, dove fa man bassa, mentre le squadre occupano il palazzo delle Finanze, ch'era stato strenuamente difeso dal maggiore Milon. Essendo i generali De Maio e Vial riusciti a imbarcarsi per Napoli, rimaneva comandante delle truppe il De Sauget, il quale ripete l'offerta fatta dai suoi predecessori di venire ad accordi, ma pure a lui viene risposto negativamente. La sera del 27, in seguito a ordini venuti da Napoli, dopo aver fatto aprire le porte delle prigionì, abbandona la città. La colonna in ritirata viene attaccata a Boccadifalco e Misilmeri; passando fra So]anto e Casteldaccia, sbocca al lido, e riesce il 3 febbraio ad imbarcarsi per Napoli. Da 13 mila uomini le truppe sono ridotte a 6 mila, ìl resto o è caduto o è· prigioniero. Pure il 3, bombardato ~ sua volta, sì arrende il presidio del forte di Castellammare, ch'era comandato dal colonnello svizzero Gross. Ventitrè giorni era durata la lotta, e si clùudeva con la fuga di truppe, che se ben comandate, con l'armamento che avevano e le posizioni rafforzate di cui disponevano, avrebbero potuto con grande facilità soffocar la rivolta, che fu veramente improvvisata. Avevano ragione perciò di scrivere ì fratelli Carini nel volume « Ristampa

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delle proteste ecc. » : Sembra un miracolo come in 24 giorni di combattimento sia stata così poca gente fer ita e forse molto meno la morta J1 . Le cifre date infatti erano : 100 i feriti in battaglia, di cui solo 2r, a .fine marzo, erano i morti. Negli ultimi g iorni di gennaio Ruggiero Settimo dei prìncipi di Fitalia, presidente del Comitato generale, diramò un proclama, col quale animava i vari Comuni a seguire l'esempio di Palermo, perchè questa « senza le rappresentanze delle altre città non poteva esprimere il voto del papolo siciliano per ottenere a qualunque costo il trionfo della causa comune >> . Assicurava che il nuovo ordinamento avrebbe lasciate intatte le circoscrizioni territoriali esistenti, rendendo le amministrazioni provinciali e municipali libere e indipendenti il più che possibile, e salutava la « famiglia italiana», della quale la Sicilia intendeva far parte, « conservando quella dignità con la quale i pQpoli si uniscono in federazione fra loro, serbando libere le proprie esse nze, ~e proprie istituzioni ». In data 26 gennaio fu costituita la guardia nazionale sulle se· guenti basi: servizio gratuito, obbligatorio dai 18 ai 50 anni per tutte le classi sociali, meno che pei proletari; scopo: la conservazione dell'ordine pubblico, la sicurezza delle persone e delle proprietà, la guardia ai forti. L'elezione a sottufficiali e uffici ali inferiori era fatta per votazione dalle truppe; gli ufficiali superiori erano eletti dai capitani. La liberazione dei carcerati, fatta dal De Sauget, diede - com'era da prevedersi - tristissimi risultati ; la guardia nazionale non fu in grado di evitare le rapine, le vendette contro gli « sbirri ll, ed altri mali, che imperversarono per parecchi giorni.

L'esempio luminoso di Palermo era stato tosto seguìto da quasi tutte le città dell'isola. Comincia T ermini il 19 gennaio, che si iibera prontamente del presidio, costringendolo a rifugiarsi nel castello, il guale si arrende il 31. Messina, c he fin dal 6 gennaio aveva fatto una calorosa dimostrazione, il 29 inizia la rivolta al grido di « Viva la Costituzione! >> . Per quanto sia presidiata da 4000 soldati con 300 cannoni, e sia per quei tempi - una fortezza di prim 'ordine, i generali Nunziante e Busacca dopo scarsa difesa finiscono col rintanarsi con le truppe dietro gli spalti del campo di Terranova, tenendo la cittadella e guai-


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che fortino avanzato. Restò famoso nella storia l'episodio dell'unico cannone, del quale disponevano quel giorno i Messinesi, caricato su un carretto e manovrato da un Lanzetta e da una donna, Rosa Donato, che ebbero la pretesa di fronteggiare le artiglierie della piazza, rispondendo al loro fuoco. Anche la fregata « Carlo III )) bombardava la città, ma con tutto ciò, sotto la guida del prode colonnello Ribotti, gl'insorti al grido di « Viva Messina! Viva Pio IX! )) cacciarono i Regi dai forti Gonzaga e S. Salvatore (31 gennaio e 22 febbraio) e da altre posizioni. In tutti questi combattimenti le « squadre )) dimostrarono grande intrepidezza; fra tanti prodi particolarmente si segnalarono il colonnello Longo e Giovanni Corrao ottimi artiglieri; Santoro, Munafò, Caminiti, Alessi, Rombes, Bensaia; capi audacissimi si dimostrarono l'abate Krimi, Crisafulli, Pancaldo, Facciolà, agli ordini del vec-chio generale Romeo e dei colonnelli Porcelli e Fardella. La giornata del 22 febbraio fu veramente tremenda: per dare una idea dell'entusiasmo della popolazione e del suo spirito di sacrificio, riferiamo due episodi: il giovane Giuseppe Bensaia, nello strappare dai merli la bandiera di un forte, ha la testa fracassata da un tiro di mitraglia. Il padre, nel riceverlo morente fra le braccia, grida: <e Ho dato un figlio alla Patria JJ, ed esorta gli altri figli a continuare l'azione. Il giovanetto Guargena, nel prendere una bomba appena caduta, riporta per l'esplosione la perdita di ambo le braccia. All'ospedale, nel tormento della grave operazione che deve subire, dice ai presenti commossi: <e Non fa nulla, se mancano le braccia, mi sono rimasti i denti per mordere i Borbonici)). Il 24 è vivacissimo il bombardamento da ambo le parti; seguono aspri combattimenti il 25 e 26 : i Regi riprendono il forte Don Blasco e lo spianato di Terranova. Il 7 marzo da ambo le parti vengono scagliati 5.000 proietti: una vera meraviglia per ,quei tempi; anche la cittadella riporta gravi danni. Dal IO in poi le operazioni languiscono per difetto di munizioni; seguono trattative, e si conclude un armistizio il 2 maggio. Tuttavia il 6, 14 e 15 giugno i Regi sferrano degli attacchi, che però falliscono. Girgenti insorge il 22 gennaio; il presidio si arrende il 1° febbraio. Caltanissetta si leva pure al grido di e< Viva Palermo, Viva la Costituzione )); i pochi gendarmi che vi risiedono non osano opporre la minima resistenza.


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Marsala si fa libera il 25, T rapani il 30, dopo una breve resistenza del colonnello A lmeida. Catania il giorno II fa una dimostrazione armata, il 24 insorge. Giungono subito bande armate da Mascalucia, Gravina, Acireale, Paternò, Caltagiron e, Adernò, cosicchè la truppa finisce con essere assediata e poi catturata nelle sue caserme. Il brigadiere Rossi fa una discreta difesa al castello. Un comitato, costituitosi con gli avvocati Merletta e Carnazza, i cavalieri Gravina e Cruillas, segretario Belfiore, comincia il 31 a emanare le prime disposizioni. A seguito della mediazione del viceconsole britannico, il 14 febbraio il presidio abbassa le arm i, e s'imbarca per N apoli. Anche altre città scacciano i presid1, o questi vengono internati, cosicchè ai primi di febbraio, fatta eccezione della cittadella di Messina, la Sicilia rimane sgombra di truppe regie. Questo risultato, ottenuto con tanta facilità, parve a quei tempi miracoloso. N e scrisse il Mazzini il 20 febbraio : « Siciliani, Voi siete grandi! Voi .in pochi giorni avete realizzato ciò che noi in tre anni di agitazioni non abbiamo saputo ancora fare i> . E Garibaldi nelle sue « Memorie ii soggiunse : « Anche una volta, Sicilia, ti toccava di svegliare i sonnolenti, di strappare dal letargo gli addormentati dalla diplomazia e dalla dottrina>> . Il Comitato centrale di Palermo assunse il 2 febbraio il nome e l'autorità di « Governo provvisorio », ripartito in 4 comi tati: prìncipe di Pantelleria, marchese di T orrearsa, Pasq uale Calvi, prìncipe di Scordia, e iniziò la pubblicazione ufficiale degli atti di governo. Scrisse il presidente Ruggiero Settimo nel suo proclama : « La Patria è libera, e noi siamo degni della Patria », e il 4 annunciò : « I m ali della guerra sono cessati, e da quest'istante si schiude un'era di felicità per la Sicilia ». Il 24 vennero eletti i rappresentanti al Parlamento. Ferdinando vide a un certo punto la necessità di scendere a patti, anche perchè i moti siciliani avevano avuto qualche ripercussione nella Basilicata, a Potenza e specie nel Cilento, dove Constabile Carducci aveva raccolto nelle montagne numerosi partigiani, che si mantenevano inafferrabili, non ostante gli sforzi della polizia e delle truppe. Accettando perciò i consigli e suggerimenti del Governo britannico e del suo ambasciatore lord Napier, congedò e bandì l'odiatissimo ministro Del Carretto che venne imbarcato a forza e andò a finire in Francia, e monsignor Code, ch'era pure assai inviso, e chiamò al potere un ministero liberale. A Napoli il IO febbraio concesse la Costituzione : per la Sicilia ritenne provvedere inviando un suo luo-


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gotcncnte, dando la medesima Costituzione, e facendo entrare qualche siciliano nel ministero ; però il Parlamento sarebbe rimasto unico a Napoli. Queste concessioni non apparvero sufficienti ai Siciliani, i quali ormai intendevano far parte integrante della Feder azione italiana come eguali, e non come provincia del Regno di Napoli; del resto non le ritenevano sincere, essendo state strappate con la forza . La questione si trascinò a lungo, anche perchè aveva gravi riflessi internazionali. Lord Palmerston, presidente dei ministri britannico, riteneva giusto che fosse data alla Sicilia una Costituzione separata; invece la Santa Alleanza voleva il rispetto più assoluto del trattato di Vienna, e perciò non ammetteva concessioni. Ma quando il 22-24 febbraio scoppiò a Parigi contro Luigi Filippo la rivoluzione, che portò alla repubblica, Ferdinando, sospettando che alla causa siciliana potesse derivare un nuovo apporto, si persuase a riconoscere il diritto dell'isola alla sua vecchia Costituzione del 1812, e vi nominò suo luogotenente generale, lo stesso Ruggiero Settimo, elevando a ministri taluni membri dei comitati. Anche allora però l'accordo non fu rag· giunto, perchè il Governo siciliano rich iese ancora che la regione potesse coniare moneta propria e avesse un esercito proprio, che le truppe regie sgombrassero le ultime località, e Napoli cedesse un quarto della flotta, delle armi e dei materiali var i o l'equivalente in denaro. In sostanza si veniva a domandare il distacco completo da N1poli, che il Re non poteva certo accettare. Infatti il 24 marzo egli inviò un atto di protesta, nel quale dichiarava « irriti e nulli tutti gli atti del Governo della Sicilia, le cui pretensioni rompono violentemente e per sempre l'unità della Monarchia, turbano positivamente il risorgimento d'Italia, compromettono l'indipendenza e il glorioso avvenire della Patria comune, specialmente in questo momento supremo, in cui tutti gli Italiani sentono potentemente il bisogno di affratellarsi, di congiungersi in un solo volere» . Il 25 s'inaugurò a Palermo il Parlamento siciliano; Ruggiero Settimo concluse il discorso di apertura augurando alla Sicilia « di poter essere congiunta ai grandi destini dell a Nazione italiana, libera, indi pendente, unita >J . Anche a Napoli la popolazione, seguendo sempre più decisamente la corrente liberale, la sera del 24 improvvisò un'ardente manifestazione al grido di: « Guerra all'Austria ! Pace con la Sicilia! Viva l'Italia! » e arrivò perfino a staccare lo stemma imperiale dalla Legazione. Successivamente sì diffusero ancora altre voci strabilianti:

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dappertutto andavano scoppiando rivoluzioni: nel Lombardo-Veneto anzitutto, e poi a Vienna e nella Polonia austriaca, a Berlino, a \Veimar, Gotha, Amburgo, Cracovia, Baden, Monaco. In tali condizioni Ferdinando non poteva certo sperare in un intervento straniero a suo favore. E allora, composto un ttrzo ministero (che affidò a Carlo Troia, esule dal '21), il 7 aprile accettò di mettersi in lega con gli altri Stati italiani, mettendo a disposizione un grosso contingente di truppe « per assicurare l'indipen denza, la libertà, la gloria d'Italia ». Ai primi di maggio infatti furono inviati verso il teatro di operazioni 14.000 fanti, I reparto di cavalleria e 2 batterie da campagna, al comando del generale Guglielmo Pepe (reduce anch'esso da ventisette anni di esilio), che aveva l'ordine di schierarsi sulla destra del Po « e di attendere ivi le istruzioni del Governo intorno alla parte attiva che doveva prendere nella guerra )) . Altri 24.000 uomini sarebbero giunti più tardi. L'ammiraglio de Cosa con una flottiglia entrò ncll' Adriatico per unirsi al naviglio sardo e veneto. Ma già il 14 Ferdinando faceva un altro cambiamento, e stavolta in senso retrogrado : tornava a cambiare il ministero, scioglieva a Napoli il Parlamento e la guardia nazionale, e richiamava le forze che aveva inviato nell'Italia settentrionale. Il generale Pepe disobbedendo ordinò invece di passare il Po, ma solo pochissime truppe lo seguirono; tutto il resto insieme col naviglio rientrò a Napoli. In questa città già il 15 erano scoppiati gravi disordini, per contrasti sulla formula del giuramento che i deputati avrebbero dov1:1to prestare. L'esagerata reazione di polizia e truppe fu defi nita « un grande assassinio)) . Non ostante le cannonate e l'assedio fatto dalle truppe al palazzo di Monte Oliveto, l'Assemblea, con l'ottantenne arciprete Cagnozzi alla testa, si sciolse solo dopo avere inviato una protesta << in faccia all'Italia e all'Europa)) . Pure torbidi si ebbero ad Ariano, negli Abruzzi, a Salerno, in Basilicata, presto repressi; durarono più a lungo in Calabria, per opera di Ricciardi, Mauro, Musolino, Plutino, Mileti, Romeo. Fin dal giorno 13 aprile il Parlamento siciliano, visto che Ferdinando, pur facendo concessioni, manteneva in tatti i principt delunità del suo regno e della integrità delle regie prerogative in ambo le parti di esso, aveva dichiarato lui e la sua dinastia « per sempre decaduti dal trono di Sicilia J> ; si sarebbe chiamato al trono un prìncipe italiano, appena riformato lo Statuto. Candidati erano : l'arciduca Carlo di Toscana, novenne figlio di quel Granduca, il duca


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Ferdinando di Genova, secondogenito cli Carlo Alberto, e il prìncipe Luigi Napoleone Bonaparte. L'rr luglio fu finalmente proclamato il secondo col titolo di Re dei Siciliani, dandogli i suoi nomi di Alberto Amedeo ma non quello di Ferdinando, ch'era tanto aborrito. Diciamo subito, benchè in anticipo, che il Duca e il padre indugiarono moltissimo a far conoscere la loro accettazione, non ostante si fosse recata subito in Piemonte a presentare l'offerta una deputazione di Siciliani; in seguito ai posteriori avvenimenti non potè essere più data. Il Borbone protestò invece fin dal 15 luglio contro l'atto « illegale, irrito, nullo e di niun valore>>. Appena seppe che anche nel Napoletano erano scoppiati moti rivoluzionari, il Governo siciliano decise di inviare colà un corpo di spedizione a favore degl'insorti, facendolo sbarcare nelle Calabrie. A gran stento però, e dopo un mese, riuscì a radunare a Milazzo un migliaio di volontad con sette cannoni; ma poichè all'ultimo momento una buona parte di essi non volle lasciare l'isola, il colonnello Ribotti, al quale era stato affidato il comando, non potè sbarcare a Paola che solo un 600 uomini, mentre il colonnello Longo con pochi altri si portava nella provincia cli Catanzaro. Il 22 giugno il Ribotti sostenne con successo un combattimento contro un'avanguardia napoletana comandata dal generale Busacca) e un altro scontro ebbe qualche giorno dopo il colonnello Longo nel settore di Catanzaro. Si ebbe subito però la sensazione che una vera e propria insurrezione generale non esisteva; Catanzaro il 27 si arrese; da un momento all'altro il piccolo corpo siciliano si sarebbe trovato a fronte il grosso delle truppe napoletane, al comando dei generali N unziante e Busacca. Per sfuggire a una sicura disfatta, Ribotti imbarcò i suoi volontari su due velieri a Soverate (marina di Catanzaro) per tornare in Sicilia. Senonchè la nave da guerra napoletana lo «Stromboli )), che portava abusivamente la bandiera inglese, li aveva avvistati, e li catturò, traducendoli a Napoli, dove languirono per anni in quelle prigioni. Il colonnello Longo, ch'era stato condannato a morte, fu graziato, ma rjmase in prigione ben dodici anni fino al luglio r86o. In alta Italia intanto erano avvenute le rivoluzioni cli Milano e cli Venezia contro gli Austriaci, e Carlo Alberto era sceso in guerra. Il nome infiammato d'Italia correva ormai di bocca in bocca clal1'Alpi al Lilibeo. E la Sicilia, come volle mandare un corpo dì spedizione in Calabria, così, accogliendo la proposta del La Masa, ne inviò un altro di cento Crociati nel Veneto. « La causa dell'Italia è


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causa nostra, - aveva egli detto - vincendo in Lombardia, avremo vinto in Sicilia ». Quella piccola legione non poteva dare naturalmente un notevole apporto, tuttavia combattè con grande animo il 3 giugno al Sile, e il 13 a Treviso contro le truppe del generale Welden. Si segnalarono più particolarmente Fuxa, Pietraganzili, Bentivegna, Gravina, Luigi Pilo, Volpes e Lo Verde De Angelis. Appena le truppe austriache ebbero il sopravvento su Carlo Alberto, il Borbone apparecchiò la riscossa. In Sicilia il 13 agosto al ministero Stabile, dimessosi, succedette un ministero Torrearsa. Questi ebbe subito a riconoscere che nulla era stato fatto per preparare una seria difesa: « Noi mancavamo dì armi e di soldati, e facevamo assegnamento sopra forze immaginarie, che la vanità aveva fatto credere irresistibili; mancavamo di denaro e diminuivamo le fonti degl'introiti, pur largheggiando nelle spese; avevamo i nemici alle porte, li avevamo in casa, e chiudevamo gli occhi per non vederli, sciupando il tempo in pettegolezzi e in chiacchiere ». All'interno poi si erano già delineati da tempo gravi contrasti di ideologie politiche, e non mancavano i partigiani del Borbone (antichi ufficiali o alti funzionari). La notizia dell'imminente attacco venne comunicata alla popolazione con reboanti manifesti dal Governo e dalle più alte autorità : « Ogni casa sia una fortezza, ogni uomo un milite, ogni ferro un'arma. Vengano, vengano i codardi: il turbine dell'ira nostra li spazzerà in un istante» . « Due milioni dì uomini, concordi e decisi a seppe!)irsi sotto le ruine delle proprie città, anzichè transigere col detronizzato tiranno, non potranno temere le codarde schiere dì Ferdinando Borbone ». Il 21 e 22 agosto i forti della cittadella di Messina ancora in potere dei Regi, come preludio alla prossima lotta, ripresero un vigoroso bombardamento, al quale fu assai mediocremente risposto. A Reggio si andava intanto concentrando il corpo di spedizione. Era questo forte di 24.000 uomini, di cui 3 .000 svizzeri, con 300 cannoni, al comando del generale Filangeri, principe di Satriano e dei due divisionari Pronio e Nunziante; era appoggiato da una potente flotta, oltre che dalla ben munita cittadella. Nell'isola invece gli armati regolari, poco addestrati e pochissimo disciplinati, erano in tutto u-12.000 (17 battaglioni, 2 squadroni, 4 batterie di artiglieria) con poco più di roo pezzi, in massima di piccolo calibro; non avevano un capo, ma parecchi nume~osi sedicenti capi, tutti rivali fra loro, tutti pretensiosi ma poco capaci.


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Filangeri muove da Reggio Calabria nella notte sul 3 settembre e punta su Messina. Egli intende circondare la città, in modo da prendere anche alle spalle le posizioni occupate dagl'insorti, mentre la guarnigione del forte Don Blasco opererà una sortita concomitante. Messina era presidiata da r.600 regolari in città e 5.000 5Ulla costa e nei forti già conquistati. Sulle colline, che dominano l'abitato e la cittadella, erano state costruite parecchie batterie; per garentirsi contro le sortite del presidio di quella ed opporsi subito agli sbarchi, era stata scavata una lunga trincea guarnita di una batteria, detta Sicilia. L'artiglieria non difettava: circa 140 pezzi. La difesa era diretta teoricamente dal commissario Piraino; comandante generale delle milizie era il generale Pracanica, direttore della difesa il colonnello Orsini. Il 4 e 5 i Regi effettuano un violento bombardamento dalia cittadella, dalle posizioni soprastanti al forte S. Salvatore e al piano di S. Rainieri e dalle navi; la batteria Sicilia viene inutilizzata e poi presa. Tuttavia la resistenza si dimostra molto tenace: nell'avanzata verso la Zaera, sobborgo meridionale, una parte del 3°. reggimento svizzeri viene fermata, e poi inseguita fìno alla cittadella da giovani reclute del X e XI battaglione siculo, mentre s'intensifica la costruzione delle barricate. Prodigi di valore fanno il caposquadra Pagnocco, Pellegrino, Campanella, Verdura. Giunge da Palermo un meschino rinforzo: appena 300 armati col colonnello La Masa, capo di stato maggiore generale. Il 6 muove da Reggio l'intera flotta: r3 vapori, 6 fregate, 22 lance cannoniere; una batteria sicula riesce ad affondare due di queste. Ne sbarca, in maggior parte sulla spiaggia di Contessa, la divisione Nunziante : il II battaglione del 3° fa nteria svizzero, 3° battaglione cacciatori, il 3°, 5° e 6° fa nteria. I Regi entrano nel villaggio di Gazzi, proponendosi di fare una conversione a destra e avanzare quindi verso la città, mentre dalla cittadella s'intensifìca il bombarda-mento, e ne esce una colonna per congiungersi a quella esterna. La lotta riarde asperrima; i popolani .asserragliati nelle case si battono intrepidamente, ma le artiglierie delle navi infliggono loro gravi perdite, oltre all'opera di distruzione. Cade in quel giorno Pagnocco, il prode dei prodi, sono feriti il colonnello Antonini e il maggiore Sant'Antonio. Alla fine i Regi, sempre rafforzati da nuovi sbarchi, snidano i Siciliani dalle loro posizioni, e riprendono l'avanzata. Il maggiore Micali, con pochi soldati del r3°, il maggiore Saccà con una mano di guardie municipali, il maggiore Santoro, e altrove l'abate Krimi e il Lanzetta con


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la Donato con una piccola _squadra, fanno tutto il possibile per fermarli. Armate di carabina combattono pure le signorine Giuseppina e Paolina Vadalà insieme coi loro fratelli; cade sulla barricata del Ponte, sotto una scarica di fucilate, il giovane Giovanni Piericci, che avendo visto fra gli assalitori lo zio, tenente colonnello dei napoletani, gli aveva dato del << traditore». Mentre così si combatte nella parte meridionale della città, una nuova grossa sortita si effettua dalla cittadella. L'animoso Lanzetta dà fin d'allora un esempio d'impiego di nebbiogeni: dà fuoco ad una certa quantità di polvere, e protetto coi suoi dal fumo, sotto il porto franco giunge ad alcuni pezzi ch'erano stati abbandonati, e li mette in azione. Un proietto scoppia nel mezzo del 6° borbonico e fa strage. Porto franco viene riconquistato, e i Regi, inseguiti attraverso il piano di Terranova, debbono rientrare nella cittadella. La stessa sorte tocca ai reparti, che erano usciti dal forte Don Blasco. Undici ore era durato il combattimento! Ai Siculi però cominciano già a difettare le munizioni, e i servizi non funzionano più; ciascuno per sostentarsi deve provvedere per conto proprio; i feriti giacciono abbandonati piagati e digiuni. Il corpo La Masa inoltre ha abbandonato le posizioni che occupava sulle colline, e ciò facilita l'azione dei Regi. All'alba del 7 altri 5 battaglioni di cui una parte svizzeri, col generale Pronio muovono all'attacco, e occupano la periferia della città. Trovano ancora però all'interno tenacissima resistenza. Il maggiore Saccà col suo reparto respinge un battaglione cacciatori napoletano, ma il 4° elvetico riesce a sua volta a scacciare le squadre dall'ospedale degli Storpii. A porta Zaera, Zicchitella, Savoia, Barone, Alessi, Greco clànno esempi d'indomito valore; la batteria di S. Clemente; battuta da tre parti, resiste sino all'ultimo artigliere; ai monasteri della Maddalena e dei Benedettini si combatte nell'interno delle celle e delle chiese; in una di queste è l'abate Krimi con una mano di audacissimi e due cannoni. La batteria dei Pellizzari è presa alle spalle; Rosa Donato per disperazione gitta allora la miccia accesa sulle casse munizioni, ma viene buttata giù dalle mura a colpi di baionetta. Porta Nuova e porta Zaera cadono insieme coi forti Gonzaga e del Noviziato. Diffusasi la voce che i maggiori capi si erano allontanati, forse per conferire coi comandanti dei legni stranieri ch'erano in porto, la difesa sfiduciata rallenta; il giorno 8, mentre da Reggio muovono ancora altri piroscafi con truppe fresche, la resistenza cessa nel suo 15


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complesso. Molti riparano sulle navi straniere che sono in porto; moltissimi (anche donne e bambini) prendono la via dei monti. La città in undici punti è già in fiamme, perchè i Regi, muniti di boccette con liquidi infiammabili, dànno fuoco alle case; essa ha perduto un migliaio di morti, di cui 200 bruciati. Ai Regi fu attribuita una perdita, a seconda delle varie fonti, di 856 o 1067 o 1500 uomini, di cui 168 morti. Il gener;i,le Filangeri telegrafò tranquillamente a Napoli che Messina era già conquistata, e « rientrata nell'ubbidienza del suo legittimo sovrano ... gl'incendi sono cessati ». La difesa della città da parte della popolazione fu veramente eroica; mancò però una mente direttrice, parecchi alti comandanti non fecero il loro dovere, i rinforzi furono dal Governo di Paiermo avviati tardi e in quantità minima, cosicchè in massima parte non giunsero nemmeno in tempo per combattere. Le efferatezze commesse dalle truppe furono tali che i consoli stranieri e i comandanti di due legni inglese e francese protestarono « in nome del Dio della misericordia »; e lord Lansdown disse alla Camera dei Pari che gli ufficiali inglesi a Messina « avevano visto soldati uccisi, fortezze distrutte, case demolite, ma videro ancora lo zoppo e l'ammalato, il paralitico, strappati dagli ospedali e scannati, donne che avevano cercato rifugio nelle chiese furono nelle chiese stesse violate ed uccise; gente presa nelle capanne sulle guali sventolava il vessillo bianco fu massacrata sulla pubblica strada, presso il lido del mare mentre cercava di procurarsi uno scampo )). Il Governo siciliano, per bocca del ministro La Farina, notificando la caduta dell'eroica città, dichiarò: « Prima della rovina di Messina, venire a patti coi Borboni sarebbe stato errore e vergogna; dopo il sacrificio di Messina sarebbe tradimento ed infamia ! )) . Ma con tutto ciò la città di Milazzo, nella quale erano stati raccolti 5.000 uomini si arrese senza cornbattere: « fu il solo atto che disonorò la rivoluzione>), giudicò Mariano Stabile. Ma un altro atto disonorante pur troppo vi fu : l'assass.inio da parte della plebaglia dell'esperto e valoroso colonnello L anzirotti, comandante della piazza di Siracusa, ingiustamente calunniato da colleghi invidiosi e detrattori. A seguito dei rapporti degli ammiragli Baudin e Parker, ai quali si associò anche il ministro russo Chreptowitche, che portarono al1'intervento dei Governi francese e britannico, il generale Filangeri il 13 settembre dovette sospendere le operazioni; ne seguì un armistizio; però, non ostante che fossero stati già concordati i preliminari di esso, il 24 i Regi occuparono Barcellona .


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A fine ottobre il La Farina sostituì nel ministero della guerra siciliano il generale Paternò. Egli così descrisse la situazione che aveva trovato : 600 congedati, 4.300 regolari, mancanti i più di vestiario ed equipaggiamento e in buona parte anche di armamento; 400 marinai cannonieri, scarse artiglierie, scarsissime munizioni; 16 barche cannoniere, I . vapore armato. Cercò di migliorare la situazione, tentando anche arruolamenti di ufficiali e soldati all'estero e acquisti di armi e navi, in Francia e Gran Bretagna. Ma le difficoltà finanziarie non sempre consentirono l'attuazione degli accordi avviati. Vennero a prestare servizio il generale Antonini, che aveva perduto un braccio a · Vicenza combattendo contro gli Austriaci, il generale polacco Mieroslawsky e il generale francese Trobriand. A un certo punto si dovette interrompere l'arruolamento di mercenari per la mancanza di denaro. Dopo l'armistizio di Salasco una ondata di turbamento pessimista era corsa in Italia; a Napoli avevano ripreso piede i «Borbonici))' e la plebe, spinta da preti, come il parroco di S. Lucia, percorreva spesso le vie gridando: << Viva il Re! Abbasso la Costituzione! >>. In conseguenza il Parlamento il 5 settembre venne prorogato per il 30 novembre, e poi per il 1° febbraio '49, finchè fu sciolto il 13 marzo. La seconda insurrezione di Vienna, avvenuta a fine ottobre '48 e che costrinse l'imperatore Ferdinando ad abdicare, fece per poco cambiare il vento ancora una volta. Allora in Sicilia a fine novembre il Parlamento votò il decreto: « Riunendosi in Italia un'Assemblea costituente, rappresentante i vari Stati italiani, la Sicilia, quale uno degli Stati liberi e indipendènti d'Italia, intende aderire ed esservi rappresentata>>. Essa fidava sempre sull'opera delle diplomazie a suo favore, ma queste, pur èontinuando a intrattenere le trattative col Governo di Napoli e col F ilangeri, andavano cambiando orientamento. Ai primi di gennaio '49 infatti lord Palmerston inclinava a lasciar libero Ferdinando di riprendere l'offensiva nell'isola, e più tardi Luigi N apoleone, diventato in Francia presidente della repubblica, dichiarava apertamente che quella doveva rimanere unita al Regno di Napoli. Quali fossero le sue condizioni nel momento in cui stava per essere sferrata la nuova offensiva, veniva riferito alle sue autorità 1'8 marzo dal delegato toscano venuto in Palermo per trattare sulla Costituente italiana : « Questa infelice isola è stata governata con parole alte e sonore e con promesse stupende, ma i fatti non hanno mai corrisposto. Ciò è sì vero che all'ora in cui siamo, dopo tanti


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milioni spesi e tanto tempo sprecato con sì poco frutto, la Sicilia non ha nè armi nè denaro nè m unizioni nè cavalli nè artiglierie nè fortificazioni sufficienti a respingere efficacemente e con possibilità di successo gli assalti dei suoi numerosi e potenti nemici, e sostenere in tal guisa, con mezzi veramente grandi ed energici, la grandezza del suo principio e del suo diritto ». (Nicome9e Bianchi, « Storia documentata della diplomazia di Europa », VI, 445-449). E il deputato Castiglia scriveva al commissario Amari : « Oramai sono tre mesi che l'armistizio dura, e, pare incredibile, ci troviamo nella stessa posizione di allora, senza soldati, senz'alcun bravo generaie, senza ufficiali, senz'armi, colle piazze forti interamente sfornite. Se io non conoscessi di quali onesti cittadini è composto il nostro Governo, sospetterei un tradimento. Che tempo prezioso è scorso, e scorre tuttavia per noi, senza far nulla! ». Queste disastrose condizioni non potevano cer to esser modificate dal nuovo ministero principe di Scordia, che il 14 febbraio '49 aveva sostituito quello di Torrearsa, come non era da attendersi che il nuovo ministro della guerra Poulet potesse riuscire a fare quello che non aveva potuto fare il La Farina. Pigliavano inoltre sempre più piede coloro i quali mantenevano segreti rapporti con Napoli, fornendo utili informazioni, come facevano anche taluni vescovi; le storie del tempo ricordano un Pericontati, un Cassola, un Fortezza, un Patronaggio, che furo no arrestati per tale motivo ; vere e proprie cospirazioni si avevano poi a Siracusa, Augusta, Modica, A vola, Palizzolo, Ferla, Melilli, e non mancavano nemmeno a Palermo. La situazione politica internazionale era inoltre tanto peggiorata che gli ammiragli comandanti delle squadre straniere dislocate nello scacchiere tirrenico insistevano ormai sulla necessità dell'intima unione fra i due paesi, e rilevavano che « S. M. il re Ferdinando non aveva mai cessato di essere agli occhi dei loro Governi rispettivi il sovrano legittimo della nazione siciliana ». Con atto solenne del 26 febbraio '49 questi notificò alle varie Potenze le ultime concessioni che aveva fatto alla Sicilia, e che erano invero molto larghe: un vicerè, un parlamento proprio, amministrazione separata, amnistia piena meno qualche eccezione, però niente esercito proprio, bensì occupazione militare da parte dei Regi; a Palermo momentaneamente si sarebbe mantenuta la guardia nazionale, salvo a scioglierla qualora si rivelasse necessario. La popolazione siciliana accolse ostilmente la notificazione che fu detta l' « ultimatum di Gaeta », e il Parlamento il 10 marzo votò una legge, che chiamava


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alle armi tutti i cittadini dai 18 ai 30 anni; si fece poi appello ai non militari di lavorare alle fortificaz.ioni. Il ministero fu ancora modificato il 14, e alla « guerra e marina >) fu chiamato Mariano Stabile, che prese rapidamente qualche utile provvedimento. La voce « Guerra i) risonò nuovamente nelle Camere e fra le masse popolari. La Sicilia fu divisa in due grandi scacchieri, affidati quello occidentale (Palermo, Trapani, Girgenti, Caltanissetta) al generale Trobriand, e quello orientale (Messina, Catania, Siracusa) al generale Mieroslawsky. Gravissimo errore, perchè mancava il comando unico. Il generale Antonini invero lo aveva domandato, e certo non difettava nè di competenza nè di energia, ma non l'ottenne per la consueta diffidenza che i governi civili, specie quando sono improvvisati, hanno verso il potere militare. Le forze :regolari esistenti erano in tutto 7.878 uomini, e cioè Palermo 3.190, Trapani 600, Catania 2.898, Augusta 240, Siracusa 950, 1.100 fra Giardini e Taormina, 700 in presid1 vari. Totale generale circa 9.700 uomini, dei quali pochi cavalieri e artiglìeri (6 pezzi da campagna e 4 da montagna). Più 7-8.000 irregolari con qualche centinaio di stranieri raccogliticci, tra i quali un battaglione francese, e un nucleo di ex congedati, notissimi per l'indisciplina e le cattive abitudini, perchè provenienti in massima da ergastolani. Fu annunziato al popolo con manifesti del Governo che it 29 marzo sarebbero state riprese le ostilità; si veniva però intanto a conoscere la definitiva sconfitta di Carlo Alberto a Novara: danno gravissimo materiale e morale. Il generale Filangieri durante il periodo di armistizio aveva fatto un'ottima preparazione sia nell'organiz,zazione delle forze e nel loro addestramento, sia nei servizi d'infonnazioni, collegamenti e propaganda, sia nella « guerra insidiosa)>, avendo organizzato un attivo spionaggio, ed essendo riuscito a corrompere molti mercenari stranieri,. ch'erano stati assoldati dai Siciliani. Il 28 aveva pubblicato due pro. clami molto avveduti: uno diretto ai Siciliani, dove diceva che le truppe regie « non venivano a combattere i pacifici cittadini, ma gli anarchisti, che volevano la guerra civile »; l'altro ai soldati e marinai, dove diceva: << I Siciliani sono nostri fratelli. Noi di qua moviamo per liberarli dal g.iogo orrendo, che copre di sangue e dì lutto da quindici mesi questa bella parte dei Reali Dominii >). Movendo dalla base cli Messina, e minacci'ando Palermo con semplice azione dimostrativa di sbarco intendeva egli attaccare in primo tempo Catania. Disponeva di 13.000 uomini (18.000 secondo


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altre fonti), compresi più di 2.000 svizzeri, 18 battaglioni, 6 squadroni, (600 cavalli), 40 pezzi, 35 navi (18 da guerra, 3 fregate a vela, il resto scialuppe cannoniere). Il generale Mieroslawsky, pur disponendo di truppe limitatissime, inviò da Catania in varie direzioni (Giardini, Taormina, Scaletta, Patti) piccole colonne, comandate dai colonnelli Pracanica, Interdonato e Sant'Antonio, sia per combattere i distaccamenti nemici che andavano sbarcando, sia per eccitare dappertutto l'insurrezione delle popolazioni. In quella fase rimasero a Catania so.li 800 uomini! Palermo mandò a sua volta verso Catania una colonna di 1 .800 uomini al comando del colonnello Ascenso di Santa Rosalia, la quale dopo dieci giorni di marcia giunse ad Adernò, e anch'essa ebbe la sorte delle altre di dover fare marce e contromarce mirando a obiettivi sempre diversi, secondo i continui ordini e contrordini che si ricevevano. Mentre il Mieroslawsky si dibatteva nelle incertezze, e disseminava senza costrutto qua e là le sue forze, la mattina del 2 aprile il Filangeri, simulando uno sbarco verso Riposto, per attrarre da quella parte l'attenzione dell'avversario, sbarca nei pressi di Scaletta, e scacciate poche bande irregolari, attacca decisamente Taormina con un buon nerbo di truppe. Il maggiore Gentile difende assai debolmente la piccola piazza; solo poche squadre al comando del capitano Mondino si battono da prodi. La città è saccheggiata e data alle fiamme; buona parte delle forze dislocate nella zona di Riposto, si sbanda, così come i « congedati » riassunti. Il generale polacco richiama allora le truppe, che dopo tanti andirivieni si erano raccolte a Randazzo e zone adiacenti, perchè lo raggiungano a Catania, dove intènde finalmente opporre resistenza. Il 4 aprile il Filangeri occupa Giarre, il 5 viene accolto amichevolmente ad Acireale, il 6 - dopo aver intimato inutilmente la resa a Catania - riprende l'avanzata per la strada litoranea (Acicastello) e per quella montana (Aci S. Antonio). Le sue navi dà guerra bombardano le 4 batterie, che si erano dislocate allo scoperto sulla costa. I 3.000 uomini della difesa, non potendo occupare che una ristretta linea, hanno dovuto rinunziare a presidiare i villaggi più vicini, che vengono perciò facilmente presi dai Regi, i quali - sostenuti dal fuoco delle proprie artiglierie e di quello delle navi - erano. mossi all'attacco, al comando del generale N unziante. Nella città, dove è commissario del governo Francesco Crispi, di suonano a stormo le campane delle chiese, e intimano al oooolo 1 correre alle armi. La battaglia si delinea subito aspra e ostinata. Gli A


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animi sono ben saldi, mercè l'opera del commissario e dei colonnelli Paternò, Castello, Lucchesi-Palli e D'Antoni. Lo scaglione avanzato dei Regi, che aveva occupato il villaggio di Ravanusa, ne è scacciato una prima e una seconda volta. Ma quando Nunziante fa concorrere all'attacco diretto quello concomitante di una colonna, mirante a sboccare da Gravina sul fianco sinistro dei difensori, questi cominciano a ondeggiare. Quando poi una loro batteria per errore spara alle loro spalle, si leva un grido: «Tradimento! >> e cominciano gli sbandamenti e le fughe; il reparto cavalieri, seguendo il suo capo, corre in direzione opposta, fermandosi a Regalbuto. Nel pomeriggio inoltrato i Regi riescono a penetrare in città, ma questa è tutta irta di barricate, e si spara da tutte le direzioni. Sopravviene inatteso da S. Giovanni Licuti il 5° leggiero siciliano al comando dell'animoso maggiore D'Antoni, e sbocca in piazza Stesicorea, dove . un Luigi Tamaijo bersaglia gli avversari con qualche pezzo che era stato abbandonato. Vengono allora nuovamente fermati i progressi degli attaccanti: il 7° linea napoletano viene quasi completamente distrutto, 3 pezzi e uno stendardo cadono in mano dei ribelli. I colonnelli D' Antoni, Lanza e Pucci continuano a difendersi strenuamente; molte donne combattono pure armate di picche e pugnali, gridando: « Viva S. Agata, morte ai Borboni >> . « Un reggimento svizzero al passo di carica, con la batteria del capitano Pelizzi, ma presto! », deve ordinare il generale borbonico, visto che gli altri reggimenti tentennano. Terranova e Sorrentivo sparano l'ultimo colpo di cannone, caricandolo con una manciata di monete di rame, ·che avevano raccolto. Gli Svizzeri arrivano, ed è la fine. Ancora una volta qualche inetto capo tsita, e dà il triste esempio della fuga. L'eroico colonnello Campofranco, che aveva lasciato il comando della piazza per andare a combattere in campo aperto, cerca cli arrestare quel movimento, affronta i fuggiaschi e i sediziosi che gridano « al tradimento», li incalza e sospinge col cavallo, è mena sciabolate ai più riottosi, finchè viene assassinato da un ex congedato, detto poi N ino Giuda, con una fucilata alle spalle. Anche lo stesso Mieroslawsky si slancia in mezzo alle truppe come un semplice soldato, per incerarle; ferito alla gola, deve lasciare il campo. Verso mezzanotte D' Antoni ordina la ritirata, ma il combattimento non cessa ancora. Profittando delle tenebre, una cinquantina di militi del 5'' leggiero su ricordato, non avendo più munizioni gitta i moschetti, indossa divise di Regi caduti, e coi coltelli alla mano


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comincia a colpire a destra e a manca, facendo strage e producendo gran confusione. Percossi dall'artiglieria, dopo che furono scoperti, 37 ne cadono. Appena i Regi furono padroni della città, si abbandonarono, come di consueto, ai maggiori eccessi, che durarono il 7, 1'8 e il 9. Gl'incendi distrussero più di un terzo dell'abitato; parecchie donne furono violate fin sugli altari; i prigionieri siciliani vennero quasi tutti fucilati: 40 nel solo orto dei Cappuccini; il colonnello svizzero De Muralt riuscì a salvarne qualche decina. Quelle giornate di battaglia costarono ai Regi una perdita di 910 morti e feriti; agl'insorti un migliaio di morti. Dei difensori meritano di essere ricordati per il loro valore: i colonnelli Orsini, Longo, Lucchesi - Palli, Campofranco, Paternò Castello, i fratelli D' Antoni, Poulet, Ciaccio, Carini, Sant'Antonio, Lanza, Pucci. Come risultò indubbio il valore della popolazione nei resistere all'attacco, come si dimostrò ottimo soldato ma mediocre generale il i:,olacco Mieroslawsky, così fu troppo evidente lo scarso interessamento che mise il Governo di Palermo nell'inviare soccorsi, e meritò aspra censura il contegno di parecchi alti ufficiali, che fra marce e contromarce trovarono modo di non esser presenti con le loro truppe sui luoghi di combattimento. La piazza di Augusta si arrese senza combattere. In Siracusa comandava un \1/ erciniski, ritenuto polacco, che appena entrarono in porto alcune navi borboniche, imbarcò su un vapore inglese. Numerosi vi erano i Borbonici, al punto che i « nazionali )> temevano di essere attaccati alle spalle dai cospiratori in caso di operazioni. Infatti il colonnello Lanza abbandonò il comando del castello, i baroni Bosco e Bonanno, il fratello del vescovo Amorelli, Salvatore Martines e Giacomo Adorno si recarono in Catania a pre/' sentare al principe di Satriano l'atto di sottomissione. Viceversa la piccola Bronte respinse in primo tempo un corpo di Regi che intendeva occuparla. I cospiratori borbonici erano ormai a Palermo così numerosi che se ne trovavano in Parlamento, al Governo, nella guardia nazionale, e moltissimi nell'aristocrazia; anche il Pélissier, console cli Francia, era fra i più acces.i, Cosicchè, quando l'ammiraglio francese Baudin inviò al Governo siciliano un'offerta di buoni uffici per trattare una pacificazione con quello borbonico, alla Camera dei Comuni la proposta fu accettata con 55 voti contro 33, e alla Camera dei Pari votarono contro solo 2: il duca Verdura e il marchese Roccaforte.


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I patrioti sp eravano sempre nella ripresa della rivoluzione, e perciò intendevano concentrarsi a Castrogiovanni, centro dell'isola; colà infatti andavano affluendo volontari da Villafrati, Roccapalumba, Vallelunga, S. Caterina, S. Cataldo, Caltanissetta. Ma un nuovo governo, formatosi con Riso, Grasso, Canalotto e Vico il 15 aprile, fece conoscere al Re che era pronto a trattare, trovò modo di allontanare da Palermo i più intransigenti patrioti, e dispose il concentramento generale delle forze in questa città, cosicchè potè a mano a mano disarmare e disciogliere quei corpi che andavano affluendo da fuori. Il 27 una commissione di deputati presentò a Caltanissetta al Vicario un atto « di piena sommissione al Re, ritornando alla sua ubbidienza >>, aggiungendo che la città manifestava il suo dolore pei « traviamenti che aveva avuti» . F erdinando promise la sua indulgenza, riservandosi però piena libertà di azione. Appena queste notizie trapelarono in Palermo, non ostante che II navi fossero in porto, la popolazione si levò a tumulto; gridando: « O pace o guerra; abbasso i traditori! ». S paccaforno Pretore dovette lasciare il posto con altri capi borbonici, salvandosi in fretta su una nave francese; un nuovo municipio fu creato con T urrisi, Florio, Raffaele, Caminneci, De Caro, Bordonaro. N ella prima riunione fu decretato che il popolo non avrebbe deposto le armi se non fosse stata concessa piena e generale amnistia, si nominò una Commissione di difesa presieduta dal vecchio generale Bianchini, e si diè mano a qualche lavoro di fortificazione. I cannoni del castello cominciarono a tirare contro le navi, che perciò dovettero in fretta allontanarsi . In sostanza però anche le nuove autorità, pur dando a divedere che si accingevano a preparare una seria resistenza, non la ritenevano nemmeno esse ornai più possibile. Perciò, quando giunse in rada il vapore « Tancredi» col colonnello N unziante, una deputazione col barone Riso, Turrisi, Raffaele e il padre Cangemi si recò a bordo a conferire. La mattina del 7 maggio Palermo si trovò improvvisamente in istato di assedio: la guardia nazionale e la legione straniera, che da un pezzo vagheggiavano il ritorno del Re, avevano occupato le piazze Bologn i e Marina, e andavano disarmando i cittadini. Secondo il Calvi, era stato il console di Francia a consigliare il provved imento, ch'era stato m andato ad effetto eh. Riso, Bordonaro e il capitan0 Tucci della guardia nazionale. Gli altri senatori non concordavano, cosicchè ne nacquero aspre contese. Il Filangeri intanto aveva rioccupato senza trovar resistenza la parte interna dell'isola, e marciando speditamente era già giunto a


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Belmonte, comunello a sole tre miglia dalla città. Però, anzichè produrre sbigottimento, questo fatto destò nella popolazione una grandissima irritazione, e il grido « All'armi! All'armi ! » corse per tutti gli angoli, le campane cominciano a sonare a stormo, qua e là si levano le bandiere rosse di guerra. Il mattino del.1'8 Je squadre occupano i vecchi trinceramenti della Guadagna, Santo Ciro e Mondello; una mano di prodi attacca i Regi al Mezzagno, e per quanto la posizione nemica sia do minante e occupata anche da Svizzeri, ottiene iniziali vantaggi. I Regi si ritirano, e per vendetta saccheggiano e dànno alle fiamme Villabate. Senonchè i valorosi assalitori rimangono presto senza munizioni, essendo queste state disperse dagl'impiegati ai dazi civili, per ordine ricevuto dal senatore Bordonaro (Calvi, III, 326). E' necessario, perciò sgombrare talune posizioni, che vengono rioccupate dai Reg i. Il Filangeri, rendendosi conto che la lotta si presentava assai più aspra di quanto aveva creduto, a seguito della cospirazione nella quale aveva posto la massima fiducia, fa diffondere, per mezzo del console di Francia, una nota con la quale annunzia la più larga amnistia. Quest'atto produce gravi scis~ioni fra i combattenti; rnsì solo una minoranza persiste nel volere la continuazione delle ostilità. Mentre i principali capi (Crispi, Calvi, La Masa, Amari, Carini, Pilo) pren·dono la via dell'esilio, rifugiandosi a Malta, altri capi m inori, come Scordato, Giordano, Miceli, Romano, con una folta schiera d1 armati, si schierano a favore della sottomissione, e una deputazione si r eca dal prìncipe Satriano a trattare. L 'II è pubblicata una seconda nota, che riduce a 43 i non amnistiati; è autorizzato l'imbarco dei m ercenari stranieri e dei disertori napolitani che avevano combattuto in pro della Sicilia; le truppe regie non sarebbero entrate in città ma sarebbero rimaste alla periferia. Viene poi prescritto pel giorno 14 il disarmo e la consegna dei forti d i Castellammare, Molo e Garitta alle truppe napoletane. Il 15 i Regi marciano su Palermo, e - non ostante gli accordi - numerosi drappelli di Svizzeri entrano in città. L a bandiera borbonica vi è già inalberata. Il 17 vengono sciolti i corpi armati, e consegnate le armi dei forti, che si spediscono a Napoli; il 18 Satriano nomina il n uovo Senato e altre cariche. Le promesse erano state larghe, ma già il 19 cominciano le violenze e le persecuzioni; entrano in fu nzione il Governo militare e la polizia; si mette Messina in stato ·di assedio, colonne mobili girano nelle varie province per assicurare l'ordine. Il Governo britannico deve


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ancora una volta far pervenire a re Ferdinando i suoi ammonimenti, nei quali ricorda che « il malcontento dei Siciliani, profondamente radicato, era dovuto alla permanenza di moltissimi abusi ». Il 13 ottobre, con data però del 27 settembre, è stabilito il nuovo ordinamento per la Sicilia: amministrazione civjle, giudiziaria, finanziaria e affari ecclesiastici distinta e separata; contribuzione di I/ 4 delle spese per Casa Reale, affari esteri, guerra, marina; mandato a reggere l'isola un luogotenente generale prìncipe del sangue o distinto personaggio con un Consiglio speciale, più una Consulta, avente però solo voto consultivo.

La facile vittoria iniziale dei rivoluzionari siciliani nel '48 si dovette alla nullità assoluta dei comandanti borbonici, come la vittoria finale del Filangeri, ottimo capo, fu facilitata dalle divisioni interne della popolazione in varii partiti, dallo scarso rendimento dei suoi governi che variando continuamente e 'credendo troppo nelle mediazioni straniere e nel successo sicuro dell'intervento di Carlo Alberto, non avevano curato una seria preparazione militare, non ritenendola strettamente necessaria, e dalla mancanza di un buon comandante in capo, per quanto non mancassero gli arditi e intrepidi comandanti di squadre. Senza di ciò la Sicilia, così forte per la configurazione del suolo e per il temperamento del popolo, portato alla lotta e fieramente avverso ai Borboni, avrebbe potu to felicemente lottare contro i 26.000 napoletani e svizzeri del Filangeri . La Sicilia apparve vinta, e la massa restò di ciò irritata e addolorata. Si aprì per lei quel « decennio nero », che dal '49 fece capo al '60, periodo tragico, in cui l'ombra profonda dell'attesa angosciosa e dell'irrequietezza mal celata era continuamente traversata dai bagliori violenti dei tumulti e del1e sommosse, che scoppiavano qua e là in tutta l'isola. Il Governo napoletano tornò a imporre i suoi vec- . -chi sistemi e ordinamenti di dominatore; la polizia e le autorità politiche-amministrative-militari continuarono a com portarsi come prima, dimostrando di non aver nulla imparato dalla lezione del '48. Tuttavia, se l'acceso lirismo dei primi mesi di quell'anno (sorto spontaneamente nelle due regioni per le opere di poeti eletti e di veri eroi) era stato presto annegato dalla inconsistenza dei mediocri e dal « doppio giuoco » degl'intriganti e arrivisti, un sentimento era sorto chiaro e luminoso, che non poteva più spegnersi, non ostante tutte le reazioni, e che andava anzi sempre più ingigantendo! quello


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dell'unità nazionale. All'appello del Mazzini: « Al sud, al sud, mirando al centro e al nord », e a quello di Alberto Mario : « Soldati e cittadini delle Due Sicilie! Dio Vi ha serbato la missione sublime di salvare l'Italia! », la Sicilia rispondeva con le sue sommosse del '50, '54, '56, '57, e col sacrificio dei suoi figli migliori: dei Garzilli, dei Bentivegna, degli Spinuzza ; rispose infine con l'indirizzo di Messina a Garibaldi : « Il di lei affacciarsi in queste contrade non sarebbe meno della tromba del giudizio, che nella gran notte rischiara gli estinti: venga, o Signore, e questa contrada risonerà i suoi Vespri» . Si giunse così all'alba radiosa del '60, e come avevano profetizzato Mazzini e Alberto Mario, partì proprio dall'isola del Sole la scintilla che doveva far divampare l'incendio per l'Italia tutta portando al primo risorgimento di essa, all'unità nazionale.

AGITAZIONI E RIVOLUZIONI NELL' ITALIA CENTRALE E SETTENTRIONALE TOSCANA.

Il granduca Leopoldo II si era dimostrato mite, aveva concesso talune riforme, e aveva chiamato al governo uomini d'idee liberali, come Capponi, Ricasoli, Lambruschini, Montandli. Tuttavia il 7 e 8 gennaio '48 si ebbero a Livorno gravi manifestazioni, perchè aveva circolato .u n manifesto clandestino (attribuito al Guerrazzì), il quale diceva « i Ministri essere codardi, inetti, traditori, e la Toscana prossima ad essere invasa dai T edeschi », e che perciò si doveva armare la milizia cittadina. In tale occasione si ritenne utile adoperare la maniera « forte i>; il ministro Ridolfi fece catturare jJ Guerrazzi ed altri, e li inviò nell'isola d'Elba. Il 17 febbraio, giunta notizia della concessione della Costituzione in Napoli, venne elargito uno Statuto, che fu accolto con grande gioia. Anche la Toscana poi fu scossa dal grido di guerra, che si era levato nel Lombardo-Veneto contro gli Austriaci, cosicchè il 21 marzo il Granduca dovette pubblicare un proclama nel quale prometteva « l'istantanea organizzazione >i dei volontari per affiancarsi alla gran Lega italiana. Una divisione di 5-6.000 uomini con r squadrone e II pezzi, al comando del generale De Laugier, partì infatti per il settentrione, dislocandosi a Curtatone e Montanara; ad essa vennero incor-


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porati r ,500 Napoletani sbarcati a Livorno. Quelle truppe si coprirono di gloria nella battaglia del 29 maggio. Poichè il Duca di Modena, che aveva fatto omaggio di dipendenza all'Austria, era stato costretto in quel torno di tempo ad esulare, Leopoldo con motu proprio del 12 maggio unì alla Toscana, oltre alla Lunigiana e Garfagnana, gli Stati di Massa e Carrara. Tremila volontari modenesi e parmigiani che a questi si erano affiancati, si diressero al Po per prendere parte alla guerra contro l'Austria. La propaganda mazziniana, che faceva mirare alla repubblica, e le ripercussioni della guerra, che si svolgeva in alta Italia con alterne vicende, fecero scoppiare tumulti il 30 luglio a Firenze, che portarono a un nuovo ministero Capponi, e una sollevazione assai più grave a Livorno il 25 agosto, originata dal passaggio del frate barnabita Gavazzi, ch'era stato bandito da Firenze; allora il Granduca richiamò al potere - insieme col Guerrnzi - il Montanelli, che aveva combattuto a Curtatone. Aderendo poi alle loro proposte, il 7 novembre inviò un dispaccio a tutti i Governi italiani, caldeggiando l'idea che fosse convocata una Costituente, cioè un'Assemblea unica, composta di rappresentanti eletti per suffragio universale. Quando il 10 gennaio '49 fu aperto il nuovo Parlamento fu approvata la legge che la Toscana inviasse 37 deputati all'Assemblea nazionale, ch'era stata convocata in Roma. Senonchè, quando il Granduca venne a conoscere che il Papa era andato a Gaeta e aveva condannato la Costituente romana, non si sentì di continuare su quella via; il 30 gennaio 1849 abbandonò Firenze, e dopo una sosta a Siena si rifugiò anch'egli a Gaeta sotto la protezione del Re di Napoli (2 I febbraio). L'8 febbraio fu eletto un nuovo governo provvisorio Montanelli-Guerrazzi-Mazzini. I democratici più accesi chiesero la pro-· clamazione della repubblica e l'unione immediata con Roma, ma la nuova Assemblea rigettò la proposta. Giunte notizie della sconfitta di N ovara, il 2 aprile furono affi.. dati al Guerrazzi pieni poteri per la difesa del Paese. Senonchè il 12 bande cli contadini armati entrarono tumultuariamente in città; d'accordo coi partigiani del Granduca fu rovesciato il Governo e creato un altro ministero provvisorio, arrestato il Guerrazzi, e invitato Leopoldo a rientrare. La reazione presto si estese in quasi tutta la Toscana. Truppe austriache ed estensi rioccuparono Massa e Carrara per conto del


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Duca ài Modena, e Pontremoli per conto di quello di Parma; altri reparti austriaci entrarono in Lucca. Contro Livorno, che si manteneva ancora repubblicana, mosse un corpo di 24.000 Austriaci col generale D'Aspre. Esso cacciò i cittadini dalle posizioni esterne che avevano occupato, e tolse loro 2 pezzi ; più gagliarda resistenza trovò presso la porta Fiorentina. Oltre due giorni di aspra battaglia (rn-rr maggio), occorse un violentissimo bombardamento per ottenere la resa. Agli Austriaci furono attribuiti 65 morti e feriti, i Livornesi ne ebbero più centinaia. Ebbero subito in.izio gli eccessi delle soldatesche; la sera clell' II nelle sole piazze d'armi e del Voltone 44 combattenti erano stati già fucilati. Il 25 parte di quelle truppe entrò a Firenze; pochi giorni dopo sopravvenne il Granduca, che fu festosamente accolto . Si era fatto precedere daìla promessa di una larga amnistia, e invero non si dimostrò molto reazionario. STATO PONTIFICIO.

Pio IX aveva 1111ziato il suo governo col famoso « Editto del perdono», e si era mostrato veramente amico della libertà e sollecito della felicità dei suoi popoli. Ma egli non era solo un prìncipe; era anzitutto il pontefice, e non poteva quindi accettare il programma massimo dei patrioti con la proposta di mettersi a capo dell'impresa tendente all'unità e indipendenza dell'Italia, perchè essa avrebbe condotto sicuramente a una guerra. Fra le grida festose della moltitudine, che con Angelo Brunetti (detto Ciceruacchio) alla testa plaudiva a lui, si udivano spesso irose grida contro l'Austria ed anche contro i Gesuiti e i Ministri in carica, chiedendosi che fossero borghesi anzichè ecclesiastici. Il IO gennaio '48, affacciatosi al balcone del Quirinale, dopo aver esortato alla concordia, avvertì: « Non si levino più cèrte grida, che non sono ciel popolo ma di pochi, e non si facciano alcune domande contrarie alla santità della Chiesa, che non posso, non debbo e non voglio ammettere. A questa condizione e con tutta l'anima mia Vi benedico)). Però dopo quello che era avvenuto in varie regioni d'Italia e anche in Francia, il 14 marzo elargì uno Statuto, elaborato da Terenzio Mamiani; il 20 alla band.iera pontificia furono aggiunti i tre colori nazionali; dei nove ministri tre soli rimasero ecclesiastici_, tra i quali però il presidente e ministro degli esteri Antonelli; gli altri erano laici.


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Il 24 e 25 marzo partirono pei confini settentrionali truppe regolari al comando del generale Durando e volontari col generale Ferrari, circa 12-14.000 uomini. Li accompagnavano come cappellani alcuni preti e frati, che invocavano pei reparti dalla carità cittadina danaro e indumenti; il padre Gavazzi, ergendo un pulpito nelle varie piazze, si segnalava per focosa e commove-nte parola. Pio IX però non aveva mancato di far conoscere chiaramente il suo pensiero. Benedicendo le truppe partenti, invocò il favore di Dio sui « difensori dei romani confini, se assaliti fossero da nemici J>, e il 30 invocò la pace << sopra tutta questa terra d'Italia, che se nella nostra carità universale per tutto il mondo cattolico non possiamo chiamare la più diletta, Dio volle però che fosse a noi la più vicina >J. Gli scrupoli del Pontefice venivano attizzati da clericali e sanfedisti, i quali raccoglievano voci di un eventuale scisma, che correvano in Austria, mentre da parte opposta, sia i patrioti più accesi sia gli agitatori di professione, che pur non partendo per il campo intendevano mettersi in mostra il più che possibile per trarne vantaggio, rinfocolavano l'agitazione generale, pretendendo che Pio rinnovasse le gesta di Alessandro III e Giulio II. Il dissenso tra i (( rossi >J e i (< neri JJ, come allora si disse, si andava facendo sempre più evidente: il 15 aprile il generaie Durando aveva incoratQ le truppe a nome del Pontefice a combattere la guerra dell'indipendenza italiana, e ordinava che tutti si fregiassero della Crçice; il 18 ricevette la direttiva abbastanza sibillina, che era autorizzato <( a fare tutto ciò che giudicava necessario per la tranquillità e il bene dello Stato pontificio J>. Il 29 nella chiusa di un'allocuzione al Concistoro Pio ripetè: (< Ai nostri soldati, mandati ai confini del dominio pontificio non volemmo che s'imponesse altro senonchè difendessero l'in tegrità e la sicurezza dello Stato pontificio. Ma conciossiachè ora alcuni desiderino che noi altresì con gli altri popoli e prìncipi .d 'Italia prendiamo parte alla guerra contro gli Austriaci, giudicammo conveniente di palesar chiaro e apertamente, che ciò si dilunga del tutto dai nostri consigli >J. Ne seguirono gravi tumulti, ai quali si associava anche la guardia civica: fu necessario cambiare il ministero, chiamando al potere Terenzio Mamiani ex proscritto col cardinale Ciacchi, presidente del consiglio. Pio inclinava realmente a caldeggiare la causa della nazione italiana, però con mezzi pacifici; a tal fine era anche disposto a recarsi in Lombardia per trattare la pace, e scrisse all'Imperatore d'Austria, esortandolo a cessare la guerra contro gli Italiani, e invitando la


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nazione tedesca a convertire in utili relazioni di amichevole vicinato una dominazione, « che non sarebbe nobile nè felice quando sul ferro unicamente posasse ». All'interno continuò però il disordine e l'agitazione: il Papa non si fidava di Mamiani, e i Presidenti del Consiglio, cardinah Ciacchi, Frioli, Soglia, duravano solo poche settimane; l'apertura del Parlamento ai primi di giugno diede luogo ad altri dissensi fra ministri e il Pontefice circa il discorso che egli doveva far pronunciare al suo delegato; Mamiani dovette dimettersi. In quel periodo di tempo venne a Roma anche il Gioberti, che fu festeggiatissimo, ma i Gesuiti si adoperarono in ogni modo per mettergli contro il Papa. Il corpo austriaco W elden, dopo la prima sconfitta di Carlo Alberto, cominciò nei primi giorni di agosto a scorrazzare nel territorio pontificio; Pio elevò una fiera protesta. Il 4 fu attaccata Bologna, ma l'animosa popolazione corse alle armi, e dopo averli schiacciati alla Montagnola, pose in fuga gli odiati stranieri, che il 9 vi lasciarono 280 morti e numerosi feriti. ' Ne disse Pio soddisfatto : « Facciasi dunque tutto quanto si può per salvare la Patria e difenderne i suoi confini>>. La situazione generale era però così difficile, specie nei riguardi dell'ordine pubblico, che era continuamente qua e là compromesso, che il Pontefice vide la necessità di cambiare un'altra volta il ministero, chiamando a reggerlo l'insigne giurista Pellegrino Rossi, ch'era ritenuto molto energico. Salì egli al potere il 16 settembre, e cercò subito di riordinare lo Stato sulla base degli ordini costituzionali; la sua fermezza, però, gli mise contro i consueti agitatori di piazza; il r5 novembre, giorno di apertura del Parlamento, fu assassinato. Il giorno dopo una folla tumultuante invase la piazza del Quirinale, prese a fucilate gli Svizzeri della guardia papale, e aJ1piccò il fuoco a una porta; le palle giunsero nell'anticamera del Pontefice: monsignor Palma fu colpito a morte. Pio IX dapprima cedette, formando un nuovo ministero democratico Soglia-Galletti-Mamiani-Sterbini, poi su concorde suggerimento dei ministri di Francia, Spagna e Baviera decise di abbandonare Roma; la sera del 24 uscì travestito dal Quirinale, e montando sulla carrozza del duca d'Harcourt, ministro di Francia, prese la viél di Terracina, donde poi proseguì per Gaeta; re Ferdinando lo tenne ospite colà nel suo castello.


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Mentre a }(o"ma veniva dichiarato che il Pontefice aveva lasciato la città, perchè « trascinato da funesti consigli >>, e il Mamiani presentava uno sdiema di Assemblea Costituente, la quale avrebbe avuto il mandato di compilare un patto federale pei singoli Stati italiani, il 3 dicembre perveniva un Breve di Pio in data 27 novembre, che dando le ragioni della sua partenza nominava una Commissione presieduta dal cardinale Castracane, per governare lo Stato durantè la sua assenza. Roma non accettò, e inviò invece una deputazione con l'incarico di persuadere il Pontefice a rientrare nello Stato; a sua volta però questa non potè passare il confine per divieto del Re di Napoli. Pio IX intanto si era rivolto ai . vari governi in Europa lasciando intendere che si riprometteva da essi aiuti, consigli ed opere. Visto che il ministero Mamiani temporeggiava, i repubblicani romani, che avevano ormai acquistato il predominio, nominarono una « Suprema Giunta di Stato», e questa il 20 dicembre promise di convocare al più presto la desiderata Costituente, che sul modello di quella fra11cese del 1789 avrebbe dovuto decidere sulla Costituzione: repubblica o monarchia, federalismo o unità eia dare a tutta l'Italia. Chiuso infatti il Parlamento, il 5 febbraio '49 la nuova Costituente proclamò la « Repubblica Romana)), e dichiarò il Papato « decaduto dal governo temporale dello Stato Romano>) (1). L'Assemblea deliberò di governare per mezzo di un Comitato esecutivo, composto di tre membri: Armellini, Saliceti e Montecchi, i due ultimi furono poi sostituiti da Saffì e Mazzini; questi, poi, ch'era giunto in marzo, per il suo grande prestigio finì con l'assumere in sostanza il potere. « Romani! - egli disse nel suo primo discorso foste grandi! Io Vi consacro romanamente italiani; conquistaste il mondo con l'aquila, le anime col lavoro; ecco l'aquila e il labaro: Dio e Popolo! Roma centro e capo d'Italia, la città creata eterna, predestinata metropoli di unità mondiale, risorge, e l'Italia e l'Europa con essa)). (r) Decreto del l'Assemblea rappresentante del popolo romano (5 febbraio 1849). «

I . Il Papato è decaduto di fatto e di d iritto dal governo temporale dello Stato Romano. Il Pontefice romano avrà tutte t·e guarentigie necessarie per l'indipende1iza nel-

« I[ -

1'esercizio della sua potestà spirituale. « Ili - La forma del governo dello Stato Romano sa rà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana. « IV - La Repubbl'ica Romana avrà e.o! resto d 'Ital ia le relnioni che esige la na:.::ionalit~ comune.

Galletti, presidente ». ](,


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Il 18 febbraio il Papa lanciò la scomunica contr o il nuovo Governo e contro gli Stati italiani che avessero aderito alla Costituente; rivolse poi un appeilo a tutti gli Stati cattolici perchè restaurassero il potere temporale. Austria, Francia, Spagna e Napoli furono concordi sulla necessità di un intervento armato per ricondurre il Papa a Roma; la Repubblica Francese ne prese l'impegno, benchè nelle sue leggi fosse detto << di non adoperare mai le sue forze con tro la libertà di alcun popolo ». La Costituente rispose: << La Repubblica Romana, asilo e propugnacolo dell'italiana libertà, non cederà nè transigerà giammai»; i rappresentanti e i trium viri giurarono in nome di Dio e del popolo: << La Patria sarà salva». Naturalmente le condizioni interne erano assai difficili, sia perchè le finanze erano dissestate, sia pcrchè gli assassinii politici erano molto frequenti, dato che da Gaeta si cercava in ogni modo di eccitare sollevazioni popolari in varie parti dello Stato. Così per esempio a Ginestreto, presso Pesaro, una turba di contadini abbattè le insegne repubblicane, e da Teramo sconfinavano varie bande, chiamate cc legioni », della forza di circa 1500 uomini, al comando del prete Tallani, già colonnello dei centurioni gregoriani, che il 12 aprile dovettero essere attaccate e respinte. L'Assernbea francese intanto approvava l'invio a Roma di un corpo di spedizione, dichiarando per bocca del relatore Giulio Favre, che non era intenzione del Governo << di far concorrere la Francia al rovesciamento della repubblica sussistente in Roma » per imporre un altro Governo, ma si volevano mantener saldi in Italia i diritti · della libertà. Il 24 aprile l'aiutante di campo del generale Oudinot si presentò al preside di Civitavecchia Manucci, presentando una lettera, secondo la quale i Francesi erano venuti << per mettere termine alle miserie della città, mercè un assetto di governo, lontano così dagli antichi eccessi, come dall'anarchia presente» . Il corpo municipale e la camera di commercio, persuasi da questo dispaccio e da una dichiarazione scritta rilasciata dall'aiutante Espivent, decisero di non opporsi allo sbarco del corpo Oudinot, che si effettuò il 25. Esso era costituito da 10.000 uomini, ordinati in 3 brigate di fanteria a 2 reggimenti, I battaglione cacciatori, 2 squadroni, 3 batterie con II pezzi da campagna e 6 d'assedio, 2 compagnie genio. Il generale appena sbarcato precisò meglio il suo mandato, impose il disarmo, impedì lo sbarco di una legione lombarda guidata da


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Luciano Manara, trattenne in ostaggio il battaglione bolognese Pietramellara, e s'impadronì delle artiglierie, munizioni e navi esistenti nel porto, compresi 10.000 fucili, che erano stati acquistati in Francia, e che giungevano proprio in quel momento. L'Assemblea romana decise allora di « respingere la forza con la forza ». Chiamò alle armi i cittadini dai 18 ai 55 anni, assegnandoli fino ai 30 alle unità mobiìi; istituì una Commissione centrale delle barricate e una Commissione di guerra; dispose perchè venissero rafforzate le mura; nominò ministro della guerra il generale Avezzana, dandogli a collaboratori i ten. colonnelli Calandrclli e Luigi Mezzacapo. L'attuazione di tali disposizioni e l'arrivo di altre truppe volontarie portò alla raccolta di 30.000 uomini, di cui 25.000 erano romani, 4.600 italiani di altre regioni, 250 stranieri. Essi furono così ordinati : carabinieri, 2 battaglioni e I squadrone : 1. I 50 uomini; fanteria, 9 reggimenti (18 battaglioni): 8700 uomini; bersaglieri del Tevere, del Reno, Lombardi, 3 battaglioni : r.800 uomini; cavalleria, 2 reggimenti : 960 uomini; artiglieria I reggimento : 1.150 uomini con 74 pezzi; genio, I battaglione zappatori: 500 uomini; corpi franchi: Legione universitaria, guardia nazionaie, Legione italiana Garibaldi, Legione Medici, Polacchi, cavalleria franca, emigrati e varii : 6.500 uomini. Più truppe dislocate in altri presidi. In due gio rni, sotto la direzione del tenente colonnello Amadei l'intera linea del Trastevere e dei Borghi sino a Castel S. Angelo, Porta Angelica e i Giardini Vaticani, le porte Cavalleggeri, S. Pancrazio e Portese erano state ben rafforzate e munite : le mura erano guernite con 67 pezzi, il recinto Aureliano con 7. Omettiamo qui la descrizione particolareggiata delle operazioni, trattata nel presente volume da altro autore. Il generale Oudinot, procedendo per la via Aurelia, attaccò il 30 aprile; battuto, rientrò a Civitavecchia. La Costituente francese, avutane notizia, m andò a Roma per accordi Ferdinando di Lesseps, il futuro costruttore del Canale di Suez. A sua volta Ferdinando II inviò da Napoli un corpo di 12.000 uomin i a invadere lo Stato Pontificio. Era costituito da 6 battaglioni fanteria, I di marina, I di carabinieri, I di svizzeri, 12 squadroni, 52 pezzi, I compagnia pionieri; lo comandava il m aresciallo di campo Casella. Il 29 aprile quel corpo, passata la frontiera, occupò Terracina, Velletri, Albano, e si spinse fino avanti a Palestrina. Battuto però da Garibaldi il 9 maggio, e poi il 19 sotto Velletri, rientrò nel Regno,


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essendo Ferdinando irritatissimo del fatto che Oudinot stava moperoso mentre egli attaccava. Anche la Spagna volle fare una invasione, e all'uopo inviò un corpo di 9 .000 uomini (5 battaglioni, I squadrone, 8 pezzi) al comando del generale Fernandez di Cordova, che sbarcò a Gaeta. I Triumviri dandone notizia al popolo romano ne dissero: « Così il coro è completo. Sian due o sian tre la differenza è poca, e Roma non si rimuove dal suo alto proposito» . 1 el fatto però gli Spagnoli, che ai primi di giugno erano arrivati a Terracina e Fiumicino, si spinsero alquanto nell'Umbria superiore, poi fra il novembre e il gennaio '50 tornarono· in patria, senz'avere sparato un colpo di fucile. Gli Austriaci intanto avevano occupato F errara, Modena, Bologna, Ancona, appartenenti allo Stato Pontifi cio. Dopo molte tergiversaz ioni il Lesseps a Roma era venuto il 29 maggio ad accordi col Triumvirato, ma Oudinot non li riconobbe, ed allora il Lesseps rientrò a Parigi. Il generale francese, che era stato rinforzato da altri 2 0 .000 uomini, e violando l'armistizio aveva avanzato fino a 3-4 km. dalla città, fece conoscere che avrebbe ripreso le operazioni, e al generale Roselli, che domandava il prolungamento della tregua per altri quindici giorni, rispose che avrebbe attaccato .il 4 giugno. Disponeva egli ornai di 30.000 uomini, 4.000 cavalli, 40 pezzi da campagna e 44 d'assedio, ordinati in 3 divisioni, 6 brigate, 14 reggimenti fanteria, 3 battaglioni cacciatori, 2 reggimenti cavalleria, 6 compagnie genio. L a Repubblica disponeva i n tutto di 19.000 combattenti, di cui 1.800 non romani e 350 polacchi, tedeschi, amencam. Con tristissimo esempio di slealtà, l'Oudinot attaccò la domenica 3 anzichè il 4. N ella giornata « memoranda e gloriosa» (così egli la chiamò, e gli attributi sarebbero esatti se riferiti ai difensori) il suo tentativo di entrare a Roma di viva forza andò fallito; dovette infatti rassegnarsi all'assedio, iniziando la costruzione di lavori di approccio. Roma cominciò ad esser soggetta a un continuo bombardamento. Gli assalti delle fanterie cominciarono la sera del 21 . La difesa fu epica, ma fu evidente il 29 che non poteva più prolungarsi : i Romani avevano già perduto 3.000 uomini, i Francesi appena un m igliaio. L 'Assemblea perciò, riunitasi il 30, approvò a maggioranza il decreto proposto dal Cernuschi: « In nome di D io e del Popolo, l'Assemblea Costituente romana cessa una difesa divenuta impossibile, e sta al suo


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posto>>, i Triumviri si dimisero, e furono sostituiti da Saliceti, Mariani e Calandrelli. Oudinot impose la resa a discrezione, e il 3 luglio i Francesi entrarono nella città, che sembrava deserta. Strapparono una bandiera tricolore, che sventolava sul caffè delle Belle Arti, invasero l'aula del Parlamento e ne cacciarono i Deputati, arrestandone qualcuno, come il Cernuschi, costrinsero i magistrati e il Consiglio mu_./ nicipale a rassegnare le cariche, ristabilirono tutti gl'Istituti del Governo pontificio. Il 31 luglio assunsero i poteri civiii tre Cardinali commissari del Papa (Della Genca, Vannicelli, Altieri), ai quali furono 'poi aggiunti tre ministri. Il 14 settembre Pio IX lasciò Gaeta, e da Portici emanò un motu proprio, nel quale esponeva il sistema col quale intendeva riordinare lo Stato. Però solo il 12 aprile '50 rientrò in Roma. In sostanza la reazione fu grave, e molti dovettero esulare; perfino Luigi Napoleone sentì la necessità di far pervenire al Pontefice raccomandazioni che non si mancasse di <<misura>>.

La difesa di Roma del 1849 è effettivamente una delle più belle pagine della storia d'Italia. Assalita da quattro Stati, la Città Eterna resistette più di cinque mesi. Il patriottismo in quel periodo apparve più che mai soffuso da una vivida luce di poesia. E se morirono poeti, come il Mameli, rivelandosi eroici combattenti, i. coni.battenti comuni si rivelarono tutti poeti nell'animo per le gesta compiute. Tali furono per esempio il colonnello Masina, quello che con 19 lancieri si lanciò al galoppo sulla gradi11ata del casino dei « Quattro Venti )), il giovane pittore . Girolamo Induno, già famoso, ferito da venti baionettater Luciano Manara, che si spense gridando: « Viva l'Italia >> a soli 24 anni, e il diciottenne tenente Emilio Morosini, che preso dai Francesi mentre veniva trasportato in barella gravemente ferito, sguainata la sciabola che aveva al fianco, tentò ancora di difendersi. Di Garibaldi è noto che ferito il 30 aprile al fianco destro continuò a combattere, e che il 19 agosto sotto Velletri, sciabolato e rovesciato da cavallo si salvò per miracolo. Feriti furono pure Nino Bixio e Calandrelli. Meritano pure ricordo .il Medici, difensore del « Vascello )> , il comandante il battaglione bolognese marchese Pietramellara, ferito mortalmente, i colonnelli Daverio e Pollini e il capitano Enrico Dandolo.


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In Italia, soìo il Lombardo-Veneto non aveva ottenuto alcuna riforma liberale. L'imperatore Francesco I intendeva che gli abitanti di quella regione si considerassero sudditi austriaci; nel cingere la corona ferrea a Milano infatti aveva detto: « I Lombardi dimentichino di essere italiani)>, e ai professori di università di Pavia aveva fatto conoscere: « N on voglio letterati, non voglio gente di studio, ma dei sudditi fedeli a me e alla mia Casa ». I processi del 1820-21 PellicoMaroncelli-Confalonieri, rimasti famosi, diedero la più ampia dimostrazione della precisa applicazione di quei princip1. L'Austria era perciò odiata, non solo per le prepotenze e violenze delle autorità locali, delìa polizia e delle soldatesche, ma anche perchè era una pessima dominatrice straniera. Le forze militari nella Lon1bardia e nel Veneto ascendevano a 75.000 uomini, 6.000 cavalli e 108 pezzi sotto il supremo comando del maresciallo Radetzky, vecchio ottantenne, ma ancora pieno di intelligenza e di vigore. , A Milano, fin dal capo d'anno '48, allo scopo di colpire il Governo nei suoi maggiori cespiti di entrata, attuando la proposta del professore Giovanni Cantoni, i cittadini cominciarono ad astenersi dal fumare e dal giocare al lotto; poi, a seguito delle rivoluzioni ii1 Sicilia e nell'Italia meridionale, cominciarono a portare cappelli « alla calabrese » e indossare abiti di fattura nazionale sia pure grossolana pur di rinunziare a quelli di fattura tedesca. A scopo di reazione, gendarmi e soldati furono sguinzagliati per provocare il popolo; . il giorno 3 gennaio commisero brutali eccessi. Gravi disordini per fat~i del genere seguirono a Brescia, Mantova, Cremona, Como, Pavia; il 2 2 febbraio fu messo a Milano lo stato d'assedio, e fu pubblicata una legge « stataria», che stringeva oltremisura i freni per prevenire le ribellioni. L'indignazione fu generale : a Roma, Firenze e Torino si fecero cerimonie funebri per gli assassinati, e perfino il presidente dei ministri inglese lord Palmerston scrisse al suo Ambasciatore a Vienna affinchè persuadesse l'Imperatore a revocare la legge su ricordata, e gli consigliasse una saggia moderazione; consigli ciel genere diede pure al famoso ministro Metternich. Il 13-15 marzo scoppiò la rivoluzione a Vienna, per ottenere la Costituzione e l'autonomia amministrativa dei singoli popoli della Monarchia. Fu seguita subito da analoghe rivoluzioni in Germania

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e in Ungheria : l'Imperatore dovette per ben due volte rifugiarsi nel Tirolo, il Metternich si salvò per miracolo, passando in paese straniero. Quando la sera del 17 giunsero a Milano le prime notizie circa i fatti di Vienna, destarono una impressione enorme ; se ia stessa capitale dello Stato reazionario riteneva di aver diritto a una Costituzione e a leggi liberali, come si potevano queste negare agli altri popoli, che le avevano già avuto in precedenza ? Il 18 marzo perciò una gran massa di popolo improvvisa una dimostraz ione. E poichè Lln m anifesto del vice governatore O ' Donnel (l'arciduca Raineri era assente) annunziava l'abolizione della censura della stam pa e la prossima convocazione delle Congregazioni lombardo-venete, w ntrappone ad esso rapidamente un altro manifesto a stampa, che viene affisso in vari punti della città, domandando l'abolizione della po · lizia, l'elezione di un'assemblea nazionale e la costituzione di una guardia civica (1). La folla ingrossa sempre più: un Pizzaroli da Como, e i giova111 milanesi Carlo Clerici ed E nrico Cernuschi l'arringano con parole infiammate, e le grida di « Viva l'Italia, fuori gli Austriaci », si levano minacciose dappertutto. Una grossa colonna col podestà Gabrio Casati. e il Cernuschi alla testa si dirige per via Monfortc al palazzo del Governo; giunta al ponte di San Damiano è presa a fucilate da un posto di guardia; r iuscita a fugarlo, penetra nel palazzo, e costringe O' Donnel a firmare i decreti di armare la guardia civica, e sciogliere la polizia, la quale dovrà consegnare le armi. Ciò fatto i dimostranti si r itirano soddisfatti, e si dirigono alla sede del Municipio; giunti però nei pressi della via Monte Napoleone ricevono un'altra scarica di fucil ate. (1) Manifesto milanese del 18 marzo 1848. « Domande degli I1alia11i della Lombardia « Proclamiamo unanimi e pacifici ma co n irresistibili voleri, che il nostro paese intende

d i essere italiano t: si sente m.itu ro a libere istituzioni. « Chiediamo, offrendo nacc e fratellanza, ma non temendo la guerrn: 1 • • L'abolizione della vecchia polizia e la nomina di una nuova soggcua alla municipalità. 2 • • L'abolizione della legge di sangue, e la istantanea liberazione dei detenuti politici. 3. • Reggenza provvisoria del regno . 4. - Libertà della stampa . 5. - Riunione dei Consigli Com un ali e dei Convocati linchè eleggono i deputati dell 'As· scmhlca Nazionale da convocarsi in breve termine. 6. • Guardia civica sotto gli ordini della Municipalità. 7. • Neutralità e sussistcnz:i garantita alle truppe austriache. « Alle ore tre trovarsi :,Il a Corsia dei Servi. Ordine e fe1·111ezz-a ». Nel fatto le rn:issc popolari cominciarono ad addensarsi assai prima delle tre pomeridiane


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Così le scaramucce fra cittadini armati di sassi, bastoni e fucili da caccia, e gendarmi si vanno diffondendo dovunque: in via Mercanti, al Cordusio, in piazza Duomo, all'angolo della Croce Rossa. Le campane suonano allora a stormo, e in varie strade si levano barricate. Nd pomeriggio cominciano ad essere impiegate le truppe, che in maggior parte erano acquartierate nel Castello e comincia a tonare anche l'artiglieria. Il palazzo del Broletto, sede del Municipio, viene occupato da una grossa colonna di Boemi e Croati; i prigionieri civili ivi fatti vengono condotti al Castello. Viceversa nella giornata alcuni commissariati di polizia cadono in potere degl'insorti. Il 19 si combatte nei pressi dell'ospedale militare e delle caserme di S. Francesco, S. Simpliciano, delle Grazie e di S. Vittore al Corso. Un nucleo di Croati stava per penetrare in un ospizio femminile, e colà si sarebbe abbandonato ai soliti eccessi, se non ne fosse stato impedito da un drappello di .finanzieri accorso col loro capo Montanara, che lo costringe a rinchiudersi nel quartiere. Gli Austriaci perdono il commissariato di via Mercanti, e abbandonano il palazzo della Direzione di polizia. Quel giorno è messa in opera dai Milanesi una trovata ingegnosa : per comunicare coi sobborghi e i paesi vicini, lanciano in aria dei palloncini, contenenti proclami incitanti alla sollevazione. Il mattino del 20, per iniziativa di Carlo Cattaneo, si costituisce un consiglio di guerra cittadino. Gl 'insorti riprendono il Broletto, e issano il tricolore sulla maggiore guglia del Duomo. ·Il 21, a seguito dell'invio dei palloncini, cominciano già ad affluire, guidate da studenti e sacerdoti, altre masse dai sobborghi e dai paesi vicini. Viene respinta una proposta di armistizio inoltrata dal Radetzky. Pasquale Sottocorno dà fuoco al palazzo del Genio in via Monte di Pietà, e viene preso l'ultimo commissariato di polizia. A sera si costituisce un governo provvisorio, chiamando a farne parte Pompeo Litta. Carlo Alberto promette di accorrere in aiuto. Il 22 il Consiglio di guerra prende il nome di Comitato, e ne assume la presidenza il Litta. Gli Austriaci, già scacciati da tutte le caserme, e concentrati nel Castello, vengono pure ributtati da porta Tosa (poi Vittoria) da una colonna guidata da Luciano Manara e dai fratelli Enrico ed Emilio Dandolo. Radetzky vede omai la situaz,ione del presidio gravemente compromessa. La città è in piena insurrezione, e non è utile rimanervi, essendo io subbuglio pure le campagne, per il che può essere tagliata la ritirata da un momento all'altro; Carlo Alberto vittorioso sta per


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passare il Ticino per puntare su Milano. Radetzky ritiene preferibile perciò ritirarsi durante la notte verso il Mincio, per occupare poi la formidabile base di operazioni del quadrilatero Mantova-PeschieraVerona-Legnago. Per coprire la ritirata, fa effettuare un violento bombardamento, che appicca il fuoco in parecchi punti della periferia della città. Secondo fonti austriache gl'Imperiéili avevano perduto 181 morti, 230 feriti, 180 prigionieri; dovettero però abbandonare tutti gli effetti e kstippellettili. I Milanesi ebbero 424 morti e 600 feriti. Nell'interno del Castello, in vari punti dei bastioni e nei pressi di porta Ticinese e porta Comasina furono trovati - secondo il Cattaneo numerosi cadaveri bruciati, corpi mutilati e schiacciati, bambini impiccati agli alberi o alle porte di casa o infilzati alle baionette. Le Cinque Giornate passarono subito alla storia per il rapido, imprevedibile risultato. L'azione del presidio invero era stata tardiva nella prima giornata, inorganica dopo; il bombardamento avrebbe potuto essere assai più efficace, ma la relativa moderazione fu dovuta al proposito del Radetzky di non logorare la truppa in combattimenti non risolutivi fra le case, e alle proteste fatte dai consoli di Francia, Svizzera, Stati Uniti, Belgio, Gran Bretagna, oltre che dalla Sardegna e dal Papa. l,'abbandono sollecito di Milano però non fu dòvuto soltanto alla vittoria popolare, ma anche e principalmente, alle gravissime ragioni strategiche sopra indicate, che furono ben valutate dal sapiente comandante austriaco. « Fu una risoluzione terribile - egli ne disse - ma bisognava prenderla n. Però, proclamò alle truppe, « fidate in me come io fido in Voi, presto Vi condurrò novamente avanti>). Ed ebbe ragione. II nuovo Governo provvisorio, presieduto dal Casati, rivolse il 25 un manifesto alla èittadinanza ( 1), incitando alla lotta, nominando il generale Teodoro Lechi comandante in capo delle fo rze militari, (J) Proclama del Governo provvisorio di Milano del .25 marzo iS,18. « Abbiamo vinto, :1hbiamo costretto il nemico a fuggire, sgomentato dal nostro va lnre e dali'a sua vilr:t . Ma disperso per le nostre campagne, vagante come frolla d i belve, raccozzato in bande di saccomanni, ci tiene ancora in tutti gl i orrori della guerra , senza darcene le emozion i sublim i. Così ci fanno essi com prendere che le ar mi da noi bra ndite a difesa , non le possiamo depone se non qua ndo il nemico sarà cacciato oltre Alpi. L'abbi amo giuraco , In giurò con noi il generoso prìncipc che volle :dia impresa comune associati i suoi prodi, lo g iurò tutta l'Ital ia, e sarà! « OrsLt d unque, all'armi, all'armi; per assicurnri:i i frutti della nostra gloriosa rivoluz:onc, per combattere l"uhima battaglia della Ind ipendenza e della Unione Irn!iana. Un esercito mobile sarà promamcnte organizzato. ,, Teodoro Lcchi è nominato generale in capo di tutte le forze m ilitari del Governo J.,rovv isorio. Soldato di aho nome dell':mtico esercito italiano, c.ongiungerà l'e gioriosc tradì-


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e inviando un saluto agli « intrepidi montanari e valligiani di Svizzera}>, e a1 « generosi Polacchi, nostri fratelli nella sventura e nella speranza». VENEZIA.

La sera del 16 marzo erano già giunte a Venezia le prime notizie delia rivoluzione di Vienna; jl giorno dopo una grande dimostrazione cli popolo si reca al palazzo del Governo per ottenere la liberazione di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, i quali erano stati imprigionati per aver chiesto rif~rme e provvedime~1ti liberali. Inclugia~do il governatore Palffy ad annuire alla richiesta, la folla corre al carcere, rompe i canceìli, sfonda le porte, e libera i prigionieri, portandoli . in trionfo a piazza San Marco, dove già sventolava il tricolore. Il r8, a seguito di alcune colluttazioni, nella piazza anzidetta la truppa fa fuoco, uccidendo alcuni cittadini, però il podestà Carrer ottiene dal governatore l'istituzione di una guardia civica per provvedere all'ordine pubblico. Il 19 viene letto l'atto sovrano cli concessione della Costituzione; perciò il 20 è giorno di esultanza. zioni del l'epoca mi litare napoleonica ai nuovi fasti che si preparnno al l';1rmi italiane nella gran lotta dell a libertà. « Combattenti del.le barricate! Il primo posto è per voi . Voi l'avete meritato. La d isciplina, che porrà regola e non misu ra al vostro coraggio , vi farà fare in campo aperto miracoli non m inori di quelli per cui già siete d ivenuti maravigl ia e vanto a tutta la nazione. « Ufficiali e soldati, che avete militato negli eserciti del maggior guerriero del mondo, anch 'esso italiano, accorrete sotto le ba ndiere della libertà; mostrate di essere ri ngiovan iti nelb nuo\•a gioventù della patria vostra. « Ufficiah e soldati che avere stentato sotto l'angoscioso servizio , sotto le verghe del1'Austria, venite a dimenticare il passato, a cancellar lo sotto b bandiera tricolore che fra breve sventolerà dalle Alpi ai due mari. « Imrepid i montanari e vaHigiani d i Svizzera, che avete or ora deposte le armi impugnate a difesa dei vostri politici diritti, ripigliatele per rivendicare con noi i d iritti del! 'umanità. « Generosi Polacchi, nostri fratell i nella sven tura e nella speranza, accorrete, accorrete per riconsolar vi nel nostro amplesso, per farvi fra noi sicuri, che ta rda a ve ,*c, ma pur viene i l giorno in cui r isorgono i popoli oppressi o si rinnovelfano nel puro etere della libertà. Accorrete a combattere il comune nem ico, ogn i colpo di che lo percuotere te vi sarà promessa del vostro non lontano riscatto. "Itali:in i .. : oh Voi siete g ià accorsi, e, stretti nelle vostre braccia, noi ci siamo sentiti pit, sicur i d i vincere. « Prodi d i tutci i paesi, venite, la nostra è la causa di tutti i generosi, d i tu tti quelli che sentono b virtù dei san ti nomi di patria e di libert,ì. « Dio è con noi : già nc'I presagiva Pio IX in quella su:t benedizione a tu tta Ita lia; lo dice il popolo nella robusta semplicità del suo linguaggio; lo dicono i sapienti affascinati· dai miracoli di quesrn eroica setti mana. Dio è con noi! Atl'armi, all'armi I Vinciamo un'a ltra volta e per sempre. " Casati, presidente - Borromeo Vita liano - Giu lini Cesare - Guerrieri Anselmo - Strigelli Gaetano - Durini Giuseppe - Porro Alessa ndro - Greppi Marco - Berrcna Anto nio . Litta Pompeo - Correnti, segretario » .


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Senonchè il 21 gli arsenalotti si rivoltano contro il loro direttore Marinovic, ch'era molto malvisto, e il 22 l'uccidono. Accorso il Manin con un gruppo di guardie civiche si fa consegnare dal contrammiraglio Martin i le chiavi dei depositi di armi : 50 mila fucili con un buon .numero di cannoni e una enorme quantità di munizioni cadono così in potere del popolo. Le truppe cli marina, ch'erano composte di Italiani, si strappano dalle divise gli ornamenti gialli e neri, li sostituiscono con coccarde nazionali, e si uniscono agl'insorti. ~-ffy rimette la suprem~. autorità al co1:1andante militare. Zichy, e questi dopo qualche ora d incertezza capitola, ottenendo d1 poter andare a Trieste per via mare con 3.000 Austriaci e Croati, lasciando in Venezia 4.000 soldati italiani, le armi (36.000 fucili e 1.000 bocche da fuoco) e il materiale. La notizia viene accolta al grido frenetico di « Viva la Repubblica! Viva S. Marco! >l, l'entusiasmo commuove tutti. · · Il 2r viene eletto un governo provvisorio con Manin presidente, Tommaseo, Palcocapa, Solera (alla Guerra), Paolucci (alla Marina) ed altri . La rivoluzione a Venezia non fu così sanguinosa come a Milano, perchè i soldati erano in massima parte italiani, e si schierarono perciò facilmente dalla parte del popolo; inoltre le energiche iniziative di Manio e di altri patrioti ebbero il sopravvento suììa scarsa cap2.cità volitiva àel governatore e del comandante della piazza. _ . Della di.fesa di Venezia si parlerà in seguito, seguendo l'ordine cronologico degli avvenimenti. L'insurrezione da Milano e da Venezia, dilagò subito nelle province: a Como, Bergamo, Brescia, Cremona, Monza, Varese, Pizzighettone, Sondrio, Lecco in Lombardia; a Mestre, Padova, Palmanova, Vicenza, Belluno, Rovigo, Treviso, Udine, Osoppo e il Cado.re nel Veneto. Andò famoso per la difesa del Cadore P ier Fortunato Calvi, impiccato poi dagli Austriaci nel 1855. In tutte queste località il clero incoraggiava il popolo con la parola e con l'esempio; i reggimenti venivano facilmente disarmati dalle masse popolari o si arrendevano spontaneamente; solo fu fatta quaìche resistenza a Como, Bergamo e Brescia; a Palmanova la fortezza si arrese senza sparare un colpo, e il generale Zucchi, che vi stava prigioniero fin dal '31 quando era stato sconfitto a Rimini dal generale Frimont, e poi preso e condannato a vita, ne diventò comandante, Tutte le città libere costituivano governi provvisori : « ritalia era libera come per un incantesimo >1, ne scrisse il \.Villisen. Rimasero agli Austriaci solo le oiazze del Ouadrilatero. '

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MODENA E PARMA.

Il àuca Francesco V il 24 dicembre '47 aveva concluso un trattato con l'Austria, per il quale i due Stati si davano reciproci aiuti in caso di attacchi dall'esterno in Italia. A seguito della rivoluzione di Milano, anche la città di Modena si levò a tumulto il 20 marzo. Poichè in quelle condizioni il Radetzky non poteva sicuramente mandargli battaglioni in appoggio, Francesco il 21 abbandonò lo Stato, istituendo una Reggenza; i Modenesi però lo dichiararono decaduto, e provvedettero al loro governo. A Parma nel '47 Carlo Ludovico di Borbone concluse un trattato del genere di quello modenese, e quando vide che i cittadini festeggiavano la Costituzione napoletana, avvertì che non avrebbe fatto nessuna concessione, e fece venire anzi un reggimento austriaco. Scoppiata la rivoluzione anche a Parma, sancì i capitolati principali di uno Statuto, e pubblicò un chirografo, nel quale rimetteva i suoi destini ali' arbitrio di Pio IX, del re Carlo Alberto e del granduca Leopoldo II, « i qu?li decideranno le differenze e le sorti future di questi Stati, al maggiòr bene e alla maggior forza d'Italia, offrendomi sin d'ora ad accettare quei compensi che all'equità di quei Prìncipi sembreranno convenienti ». Il 9 aprile fu lasciato partire, · e dopo una breve sosta a Bologna, lasciò anche l'Italia.

LA GUERRA D'INDIPENDENZA CONTRO L'AUSTRIA E I SUOI RIFLESSI RIVOLUZIONARI L'insurrezione del Lombardo-Veneto portò immediatamente alla prima guerra d'indipendenza contro l'Austria del '48-49, a seguito degli accordi ch'erano stati presi con Carlo Alberto, il c.1uale scese in campo 11 27 marzo. Al suo esercito si vennero ad aggiungere i contingenti forniti dalla Lombardia e dal Veneto, dalla T oscana, dallo Stato Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie. Il Governo provvisorio di Milano, avendo accolto nel suo seno i deputati delle province, era diventato .,!< Governo centrale provvisorio della Lombardia>>. Il 29 maggio con un plebiscito proclamò l'annessione al Piemonte. Avuta notizia della sconfitta di Carlo Alberto a Custoza (23-25 luglio) il 28 creò un Comitato di pubblica difesa~ composto dal generale Fanti, l'avvocato Rastelli e il dottor Maestri, col mandato di aumentare le forze armate (fino allora erano stati


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raccolti solo 12.000 uomini) e fare nelìc varie città lavori di fo rtificazione. Però, dopo lo sfortunato esito del breve combattimento svoltosi il 4 agosto sui bastioni di Milano, appar ve impossibile ogni altra resistenza, cosicchè il 6 Radetzky potè rientrare in questa città. Il Governo austriaco in principio cercò di rendersi accetto alle popolazioni lombarde promettendo franchige costituzionali, ma presto tornò ai consueti sistemi. Si formarono allora da per tutto comitati rivoluzionari, orientati verso le dottrine e direttive mazziniane. Quaqdo Cado Alberto decise di riprendere la guerra, e disdisse l'armistizio per il 20 marzo '49, le città lombarde si erano già preparate a insorgere per attaccare gli Austriaci alle spalle. Ma il 23 a Novara quegli fu dcfinitiv;;.mente sconfitto; così la reazione infuriò novamente. BRESCIA .

N ell'inverno '48 il generale Haynau aveva imposto a Brescia una multa di 520 mila lire; la prima metà era stata pagata, l'altra doveva esser pagata in quei giorni. Proprio il 23 marzo il comandante della piazza si recò al Municipio per introitare il denaro, ma il popolo, levatosi a un tratto in armi al grido di « Viva l'Italia! Morte ai barbari! » lo J rrcstò, prese a catturare e attaccare i soldati del presidio ch'erano sparsi nell'abitato; costrinse il resto a rifugiarsi nel castello. Abbattuti gli stemmi imperiali e inalberato il tricolore, costi tuì un governo provvisorio coi cittadini Contratti e Cassala. Anzichè la notizia della vittoria dei Piemontesi giunse però il 26 una intimazione di resa da parte del generale Nugent, il quale puntava su Brescia con 2 .000 uomini e 2 pezzi. Il Comitato rispose che la città avrebbe resistito fìnch è fo sse ridotta in cenere; Nugent perciò attese che fosse rinforzato da altre truppe, e quando ebbe 3.500 uomini, cacciate dai poggi estern i le bande di partigiani, fece impeto da porta T orrelunga, mentre il castello bombardava la città. Anche questo attacco però fu respinto, ed anzi una compagnia, guidata dal giovane Speri, fece una improvvisa sortita; ottenne in principio ottimi risultati, ma finì sterminata. N ella notte del 3 0 giunse con altre truppe il generale Haynau, il quale fece un'altra intimazione di resa, pena l'assalto e il saccheggio; Brescia rispose sonando le campane a stormo. Form ate 5 colonne, l'Austriaco fece con esse un attacco dimostrativo a tutte le porte e uno sfondante contro la Torrelunga. Quando i Bresciani, sopraffatti in quest'ultima, si andavano ritirando, si videro presi in fianco da


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un battaglione, che faceva una sortita dal castello. Trascorse combattendo anche la notte, e si ripigliò il 1° aprile quasi senza .interruzione. Haynau aveva dato l'ordine di non far prigionieri: tutti coloro che erano presi con le arm i in mano venivano perciò uccisi, parecchi furono bruciati vivi. Agli Austriaci giunsero altri rinforzi, con um batteria da mortai, da Mantova e da Verona; prese alle spalle caddero successivamente porta Alessandro, porta San Nazzaro e ·porta San Giovanni. Metà de.Ile case era già in fiamme; soccorsi non ne arrivavano, le munizioni erano quasi esaurite. Fu necessario arrendersi. Dieci giorni (23 marzo-2 aprile) era durata la disperata difesa, ch'era diretta da Tito Speri, e meritò all'eroica città il nome di << leonessa d'Italia». Più di 2.000 cittadini perirono, dei quali 120 trucidati; gli Austriaci ebbero 2113 morti e feriti. Gli eccessi ai quali si abbandonarono dopo l'ingresso in città furono come sempre gravissimi. Andò famoso l'episodio di Carlo Zima: questi benchè storpio aveva combattuto facendo prodigi di valore; fatto prigioniero, due croati gli trovarono addosso una bottiglia di acqua ragia, ed ebbero la barbara idea di gettargliela addosso, e poi di dargli fuoco, intimandogli allora di ballare. Ma Zima furibondo, saltando addosso a uno di loro, lo tenne a sè così fortemente avvinghiato, che morì bruciato anche lui. ·

Con le stragi delle dieci giornate di Brescia fu. suggeilato il ristabilimento della dominazione austriaca in Lombardia. Rimanevano il Veneto, e talune province pontificie. Nel giugno '48 il principio della catastrofe era stato segnato dall'attacco che Radetzky aveva fatto col grosso dell'esercito su Vicenza, ch'era difesa dalle truppe pontificie del generale Durando. Dopo accanita lotta la costrinse l'u a capitolare . B OLOGNA E ANCONA.

Altre due città avevano difeso strenuamente la loro libertà ed ' italianità. Il maresciallo Wimpflen con 8.000 uomini e 17 pezzi si presentò 1'8 maggio '49 avanti a Bologna, che aveva aderito alla Repubblica Romana, e costituito un comitato di salute pubb.lica. La città disponeva in tutto di 2.000 uomini di presidio con 3 pezzi, dei quali aveva assunto il comando il colonnello Boldrini.


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Gli Austriaci attaccarono le due porte · Galliera e Castiglione, ma non riuscirono. La sortita anzi condotta dal Boldrini contro le truppe di Thurn, che puntavano su porta Galliera, mise in loro tale disordine, che a stento poterono salvare ìe artiglierie. Il prode coìon· nello pagò con la vita la sua audacia. L'azione continuò ininterrotta. 11 12 gli Austriaci sorpresero e sbaragliarono un distaccamento, il quale era uscito dalla città per prendere alcuni cannoni, che venivano inviati dalle Romagne. Bologna capitolò il 16, dopo che con l'arrivo del gen. Gorzgowsky da Mantova con rinforzi ed artiglierie, gli assalitori avevano raggiunto la forza di 16.000 uomini con 36 pezzi, e l'avevano violentemente bombardata.

Lo stesso Wimpffen con un corpo d'armata di 12.0 0 0 uom1m (3 brigate, ro battaglioni, 4 squadroni, 3 batterie, 43 pezzi) si presentò il 25 maggio davanti ad Ancona; una flottiglia la bloccava da mare. Difendeva la città il colonnello Livio Zambeccari con 4-000 uomini. e un centinaio di pezzi; apprestamenti fortificatorii erano stati fatti con molta diligenza e competenza. I bombardamenti violentissimi degli assedianti appiccarono il fuoco in parecchi punti della città; furono anche tagliati gli acquedotti per privarla d'acqua potabile. Con tutto ciò gli attacchi delle fanterie furono più volte respinti. Gli Austriaci furono costretti a far venire dalla Toscana altri 5.000 uomini con un parco d'assedio (32 pezzi), mentre la squadra s'impadroniva di 6.000 fucili, che un legno mercantile aveva portato alla città. Il r6 giugno un bombardamento in grande stile fu ripreso con 22 pezzi da mo.nte Pulito, 15 da monte Marino, 12 da monte Scrima. Il fuoco durò senza interruzione sino alla sera del 18, cagionando grandi incendi ed enormi danni, e danneggiando gravemente le artiglierie dell'assediato. Oltre a parecchie migliaia di proietti furono lanciate 600 grosse bombe. La resistenza il 19 ebbe termine. Gli Austriaci rimasero ad Ancona fino al 12 giugno 1859. DIFESA DI VENEZIA.

Il 4 luglio a Venezia l'Assemblea dei rappresentanti del popolo con 127 voti contro 6 decretò la fusione del Veneto col Piemonte e con la Lombardia. Il 7 agosto il generale Colli , il cavaliere Cibrario e il veneziano Castelli presero possesso della città, dichiarandola parte


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del Regno d'Italia. Senonchè, appena quattro giorni dopo, il generale Welden annunziava da Padova l'armistizio Salasco, che prevedeva fra l'altro l'abbandono del Veneto. La reazione fu immediata e violenta al grido: « Abbasso il Governo regio! Abbasso i Commissari! Viva Manin ! ». L'Assemblea il 13 creò un governo dittatoriale col M anin, l'ammiraglio Graziani e il colonnello Cavedalis. Lo stato cli guerra continuava, e il 27 ottobre i Veneziani attaccarono gli Austriaci che si erano rafforzati a Mestre; ebbero 400 morti e feriti, 6oo gli avversari . Fra i feriti, Alessandro Poerio, l'esule patriota e poeta napoletano, che morì pochi giorni dopo. Una nuova Assemblea, riunitasi il 15 febbraio '49, elesse Man in presidente e capo del potere esecutivo, con ampi poteri per la di fesa dello Stato. Appena Carlo Alberto fece conoscere che avrebbe rotto l'armistizio, Manio consigliò la ripresa immediata delle ostilità; ma subito dopo Haynau notificò la vittoria di Novara, intimando la pronta sottomissione. La risposta fu: « Venezia resisterà ali' Austriaco ad ogni costo ». Intervenne Radetzky in forma più mite, consigliando la resa; fu risposto anche a lui « aver tutti giurato di morire abbracciati all'ultimo cannone, che avrebbe sparato contro gli Austriaci l'ultimo colpo ». Il fiore dei patrioti italiani era accorso da ogni parte a portare il suo aiuto all'eroica città nell'ora estrema: Gugliel mo Pepe, che ebbe il comando della piazza, Cesare Rossaroll, che ebbe il comando dell'artiglieria e meritò poi il nome di « Argante della difesa », Pier Fortunato Calvi, Sirtori, Cosenz, Ulloa e molti altri. A fine aprile mossero contro Venezia il corpo Haynau di 30.000 uomini e un grosso naviglio; così la città fu bloccata da terra e da mare. Il tentativo di prenderla solo per il blocco e il bombardamento da mare non riuscì, dovettero perciò gli Austriaci operare per via di terra, movendo da Mestre, ch'era già stata occupata. Il 4 maggio, 7 batterie cominciarono a bombardare il forte di Marghera, che sorgeva ad occidente della laguna a m età distanza da Mestre; 5.000 proietti furono sparati. Assistevano Radetzky e quattro arciduchi, sicuri com'erano che quèl bombardamento sarebbe stato sufficien te per ottenere la resa. Invece la difesa, condotta dal colonnello Ulloa, fu veramente gagliarda, e l'artiglieria veneziana riuscì a smontare una batteria avversaria. Gli Austriaci allora si rassegnarono a costruir parallele per fare un assedio regolare; i Veneziani ricorsero all'inondazione, e facevano frequenti sortite (5,


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20 e 22 maggio), le quali servivano anche a riprendere centinaia di bovi che quelli andavano predando nelle campagne circostanti. Il mattino del 24, 18 batterie con 151 pezzi tra cannoni, obici e mortai, iniziarono un bombarda1nento s.istematico; gli assediati rispondevano come potevano con 75 bocche a fuoco. Il forte di Marghera, omai quasi distrutto, dovette essere abbandonato; gli Austriaci allora costruirono la terza parallela, e il 13 giugno cominciarono a battere la periferia cli Venez,ia. In quel periodo anche l'Ungheria era in guerra con l'Impero austriaco, e il suo presidente Kossuth aveva mandato a Manin una lettera, con la quale proponeva l'alleanza tra i due popoli. Poichè l'esercito di Raàetzky era costituito in gran parte di Ungheresi, con quell'alleanza questi avrebbero disertato per pren der parte alla guerra italo-ungarica, e Venez.ia sarebbe stato sciolta dall'assedio. Manin mandò ad Ancona il vice-presidente Ludovico Pasini per trattare; fra le condizioni dell'alleanza c'era che Venezia dovesse difendersi ancora altri due mesi con le sue proprie risorse; dopo avrebbe ricevuto dal Governo di Kossuth il denaro necessario al mantenimento di una legione ungherese e due fregate a vapore. L'Assemblea veneziana nell'adunanza del r6 giugno accettò quelle condizion i, ma per quella data l'Ungheria cominciava già ad essere sopraffatta. La seconda metà di giugno e la prima metà di luglio trascorsero senza che gli assedianti ottenessero risultati decisivi; fallì anzi un attacco contro la fortezza di Brondolo, che copriva la parte meridionale della laguna: là dove sfociano il Brenta e il Bacchiglione. La resistenza era veramente ~roica, per quanto non si potesse sperare in una vittoria; senonchè alle perdite e alle rovine si aggiunse anche il .disastro di una fiera epidemia colerica, che in un mese spense oltre 4000 cittadini. Manin allora vide la necessità d'iniziar pratiche per una mediazione di Francia e Gran Bretagna, ed anche con Bruck, plenipotenziario austriaco nel Piemonte. Gii assedianti intanto, oltre ad aumentare continuamente il numero delle batterie, migliorarono la tecnica del tiro, dando ai pezzi una inclinazione di 45° e aumentandone la gittata; così nella notte del 28 luglio i proietti, passando sopra le linee di difesa, cominciarono a cadere sulla città. L'allarme fu grave, anche a causa della sorpresa; il colera poi, alimentato dai calori cocentissimi dell'estate, aumentava; la carestia cominciò presto a diventare insopportabile. Eppure quasi un altro mese passò, poi il Cardinale Patriarca fu il primo a sottoscrivere una petizione all'Assemblea a favore della capitolazione. Il po17


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polo si levò a. tumulto, e sfondò anche le porte del palazzo patriarcale, ma la situazione, veramente tragica, non ammetteva ornai altre soluzioni: in città le bare dei morti di colera s'incontravano e affiancavano --con quelle dei caduti sotto il fuoco nemico. Radetzky domandò la resa immediata della città, delle fortezze, navi ed armi, permettendo libero imbarco a chi volesse lasciare Venezia, e perdono a tutti i militari di truppa di terra e di mare. Il 22 agosto 1849 i delegati del Municipio firmarono le condizioni della capitolazione coi generali Gorzkowsky ed Hey; il 28 la bandiera austriaca tornò a sventolare sulla piazza di S. Marco. Pepe, Sirtori, Tommaseo e tanti altri capi della sollevazione presero la via dell'esilio, Man.in andò a morire in terra di Francia. La difesa di Venezia fu veramente epica così come quella di Roma. Agli Austriaci fu attribuita la perdita di 20.000 soldati, quanto non erano loro costate le due guerre del '48 e '49 sommate insieme.

CONCLUSIONE Gli anni '48 e '49 furono per l'Italia veramente tragici. La lotta per gl'ideali liberali e nazionali - che pienamente fallì - durò dal 12 gennaio '48 al 23 agosto '49, ossia più di un anno e mezzo; nessuna provincia - fatta eccezione della Sardegna - ne andò immune. Dal punto di vista m ilitare si dimostrò fin d'allora - ma non servì di ammaestramento - che la guerra impone seria preparazione, la quale non può essere sostituita dalle vuote - per quanto sonore declamazioni; che comandi e stati maggiori debbono essere ben organizzati e costituiti da veri competenti; che sul campo tattico il fuoco bene organizzato e disciplinato, specie se unito all'accurata utilizzazione e al rafforzamento del terreno, trionfa sempre del più acceso valore; che il funzionamento dei servizi non interessa solo il campo logistico ma interessa tutto l'andamento delle operazioni, e perciò anche il risultato della guerra. ~ Si riaffermarono ancora una volta le due tremende caratteristiche che accompagnano tutta la nostra storia : popoli di tutte le spede vengono a combattere sul nostro territorio (nel '48 e '49 avemmo infatti Tedeschi, Ungheresi, Croati, Boemi, Francesi e coloniali, Svizzeri, ecc.) che commisero gravissimi eccessi, e gì'Italiani, sempre discordi, combattono anche fra loro (Napoletani contro Siciliani, ecc.).


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1848-49

IN ITALIA

Affiorarono poi largamente presso gl'insorti i consueti difetti della scarsa preparazione, dell'impro,vvisazione, della superficialità, del1' « imboscamento », così ben rappresentato in quei tempi dalla formula « Armiamoci e partite)) : restò famosa fin d'allora la frase << eroi della sesta giornata», come dodici anni dopo i Mille di Marsala a poco a poco finirono col diventare quasi centomila. Al riguardo i giudizi del Pisacane e del Pinelli sono molto severi ma sono anche esatti. Affiorò pure, ed anche largamente, la caratteristica inversa, e cioè che quegli Italiani, che vanno effettivamente sui campi di battaglia .fino a vedere il nemico nel bianco degli occhi, per intelligenza, sobrietà, elevatezza di sentire, spirito di sacrificio, sono inarrivabili. Non pochi furono i pceti che andarono a combattere e caddero in questa guerra, ma anche tutti i combattenti furono a Joro volta poeti nell'animo per le sublimi virtù dimostrate e gli esempi dati. E' giusto perciò e sereno, e anche profetico, il giudizio del W eber: << Sebbene gli Italiani debbano ascrivere in parte a sè medesimi il cattivo esito della loro rivoluzione, una gloria non può essere loro negata: l'onore della Nazione fu salvo. Gli Italiani, per così lungo tempo vilipesi dagli altri popoli, provarono di saper tenere ancora le armi in pugno, e se questa volta soccombettero, non tanto . pei propri errori quanto per la prevalenza militare del nemico, spunterà anche per loro il giorno dell'unità nazionale e della legittima libertà)>. Il Weber ci conosceva bene: dovettero invero gl'ltaliani lottare altri settant'anni, ma raggiunsero al.fine (dopo 14 secoli e mezzo) l'unità nazionale; il lungo, penoso ma glorioso calvario del Risorgimento si chiuse nel 1918 con Vittorio Veneto.

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INDICI

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INDICE DEL TESTO Pagina

Presentazione ( Gen . di C. d'A. Efisio Marras, Capo di Stato Maggiore dell'Esercito) . Premessa ( Ufficio Storico)

7 9

Le operazioni militari del 1848 ( Gen. d'Armata Francesco Saverio Grazio/i)

13

Le operazioni militari del 1849 ( Gen . d'Armata Carlo Geloso)

53

Il contributo delle arti e delle lettere ( Prof. Alberto Maria Ghisa/berti)

103

Il contributo militare degli Stati italiani ( Gen. d'Armata Mario Caracciolo di Feroleto)

I volontari ( Gen. di Divisione Cesare Cesari) . Le rivoluzioni del 1848-49 in Italia ( Gen . di C. d'A. Rodolfo Corselli)

139 185 209

I NDICE DELLE ILLUSTRAZIO NI Pagine

Carta d'ItaJia 1848

12-13

L'Armata piemon tese guidata da Carlo Alberto passa il Ticino a Turbigo

16-17

Il reggimento Prohaska all'assalto della Rotonda di Vicenza il IO giugno I 848 . Carta del Lombardo-Veneto .

48-49 52-53


Pagine

Soldati dell'esercito sardo e volontari .

64-65

Carta dello Stato Maggiore sardo - ed. 1852 : Novara .

80-81

Battaglia di Novara: ufficiali della Brigata Savona, alla Bicocca, riuniti attorno alla Bandiera in un ultimo tentativo di resistenza

88-89

Trattative di armistizio dopo la battaglia di Novara fra S. E. il maresciallo conte Radetzki e Vittorio Emanuele a quell'epoca Re di Sardegna ro2-103 Costume italiano del 1848 .

II2-n3

Bombardamento di Venezia

144-145

Armata napoletana 1848-49 - Carta monetata in uso a Palmanova in stato d'assedio, 1848 . 160-161 Interno del quartiere dei Civici reggiani in Governolo (24 maggio r848) Barricate sotto il voltone degli archi di porta Ticinese

I Toscani a Curtatone: fatto eroico di Elbano Gasperi, l'artigliere nudo

192-193 208-209

Lotta per villa Pamphili

La rivoluzione di Palermo, avvenuta il dĂŹ 12 gennajo 1848 224-225 Prigionieri regi nelle vie di Palermo (12 gennaio 1848)

232-233

Il r5 maggio 1848 a N apoli

256-257

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LE ILLUSTRAZIONI CO~TENUTE NEL PRESENTE VOLUME SONO STATE GENTILMENTE FORNITE DA LL'ISTITUTO PER LA STORIA DEL RlSORGI:vlENTO ITALIANO - ROMA, DAL ì\lUSEO NAZIONALE DEL RISORGIMENTO ITALIANO - TORINO, DAL MUSEO DEL RlSORGIMENTO - M1LJ\NO, E DAL MUSEO CIVICO DJ REGGIO EM lì.lA




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