L'IMMAGINE DELLE FORZE ARMATE NELLA SCUOLA ITALIANA

Page 1


...•'

.



PROPRIETÀ LETTERARIA Tutti i diritti riservati Vietata la riproduzione anche parziale senza autorizzazione © Ufficio Storico SME - Roma 1986.

Marchesi G rafiche Editoriali - Roma - Via Fabbriche di Vall ico 21 -23


A cura di Aldo Alessandro Mola, a memoria di Lando Conti, Sindaco di Firenze.



CONVEGNO DI STUDI Forze armate e guerra di liberazione esp.erienze eprospettive di didattica della storia nella scuola Coordinatore: Aldo A. Mola

PROGRAMMA

Sabato 8 dicembre ore 10

Saluti al convegno:

Lando Conti, Sindaco di Firenze Luigi Lotti, Preside della Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" della Università di Firenze ore 10,30 Aldo Mola L'insegnamento della storia nell'ordinamento scolastico italiano

(1859 - 1984) Romain H. Rainero Forze Armate e Guerra di Liberazione nella manualistica scolastica: saggio di ricerca sui testi di storia Mino Milani Forze Armate e Guerra di Liberazione nella manualistica scolastica: le antologie letterarie Franco Cardini L'uomo di guerra e l'uomo in guerra: note storico-antropologiche


ore 15,30 Presiede: Giuseppe Passino Andrea Fava L'età contemporanea tra storiografia, divulgazione e memoria familiare e collettiva Gianni Oliva Il problema militare nella didattica della scuola: il modello dell'Italia prefascista Marziano Brignoli

La memorialistica e la diaristica di guerra: due testimonianze a confronto

ore 17,30 Discussione

Domenica 9 dicembre ore 10,30 TAVOLA ROTONDA (in collaborazione con l'Associazione Italiana Editori) L'editoria scolastica sulla storia contemporanea esperienze eprospettive Presiede: Paolo Ungari Partecipano

Pier Luigi Ballini Sergio Piccioni Salvatore Candido Conclusioni: Pierluigi Bertinaria


PRE MESSA



PREMESSA DI

ALDO ALESSANDRO MOLA

Molti giovani - fu rilevato con motivato allarme - approdano al servizio militare ancora imbevuti di grossolani pregiudizi nei riguardi delle Forze Armate e, in generale, di quanto sappia di servizio organicamente disciplinato. La pur diffusa e apprezzabile disponibilità al volontariato è spesso mortificata da un'ingenua concezione della macchina sociale e dei modi nei quali le energie individuali meglio possano essere spese nell'interesse dei cittadini e si contiene, sovente, nei termini di un'esperienza occasionale, emotiva. Per individuare le radici di siffatte predisposizioni - che impoveriscono a un sol tempo i singoli e l'intera società - s'è ritenuto di verificare i moduli della formazione culturale giovanile e quindi, anzitutto, i programmi scolastici di studio della storia, gli ordinamenti, gli strumenti e i metodi del loro apprendimento. In particolare ci si è domandati quale posto vi occupi l'età contemporanea e, nel suo àmbito, quale rilievo ordinariamente assuma la problematica istituzionalmente affidata alle cure del Comitato storico «Forze Armate e guerra di Liberazione» (*). D'intesa col Ministero della Pubblica Istruzione e in collaborazione con la Facoltà di Scienze Politiche «Cesare Alfieri» dell'Università di Firenze, presso la Scuola Sottufficiali Carabinieri di S. Maria Novella, venne quindi realizzato il Convegno di studi su Esperienze e prospettive di didattica della storia, con una folta presenza di personale scolastico qualificato (un preside o docente di storia di scuola secondaria per ciascun Provveditorato), che - lo ricordiamo quale segno dei tempi - sacrificò all'incontro fiorentino due giorni festivi (8-9 dioembre 1984).

(*) Presiedu to dal pcof. UMBERTO GIOVINE, all'epoca d el Convegno il Comitato era composto da ELENA AGA ROSSI, gen. PI ERLUIGI BERTINARJA, Capo Ufficio Storico SME, col. LUIGI CASOLINI, Capo U.S.Aeronautica, amm. GINO GALUPPINI per l'Ufficio Storico Marina, proff. GIUSEPPE MAMMARELLA, ALDO A. MOLA, ALBERTO MONTJCONE, ROMA!N H. RAINERO, PAOLO UNGARI, vicepresidente , e cap. MARIO IANNACCI, segretario.


10

A L DO A . MOLA

I lavori - i cui Atti sono compresi nel presente volume - risultarono di rilevante interesse anche per il vivace dibattito suscitato dalle relazioni e nel cui corso si registrarono una ventina d'interventi. Senza voler sovrapporre conclusioni posticce su una riflessione che merita d'essere ulteriormente sviluppata mentre è sempre aperto il confronto parlamentare sulla riforma della scuola secondaria, anche con riferimento a un «voto» sottoscritto da decine di partecipanti al convegno è possibile fissare alcuni punti fermi: va anzitutto constatato che gli ordinamenti in vigore riconoscono ampio spazio allo studio della storia contemporanea (benché perduri e debba essere saldata, anche ne!J'enunciato formale; una cesura cronologica per gli anni 1922-43) e che l'editoria scolastica è venuta offrendo a insegnanti e studenti manuali e sussidi didattici decisamente migliori rispetto a quelli disponibili e prevalentemente adottati venti-trent'anni addietro (aggiornati, nondimeno, con dinamica di gran lunga più lenta rispetto a quella sperimentata dalla comunicazione extrascolastica). Proprio l'attualizzazione del termine ad quem dei programmi e la collocazione delle vicende italiane in un quadro ormai planetario, mentre rispondono a una giusta premessa di metodo per l'intendimento dell'età presente, comportano però scelte che ancora attendono d'essere compiute nelle sedi appropriate per quanto attiene la ripartizione cronologica dei programmi di storia. Risulta infatti sempre meno credibile l'obbligo di contenere negli stessi àmbiti d'orario del passato lo studio - più approfondito e sorretto da ricerche metodologicamente inappuntabili - di un arco cronologico ormai pressoché doppio (1815-1980) - e quanto più vasto! - rispetto a quello stabilito sino a vent'anni orsono, quando ci s'arrestava al 1918. È perciò convinzione diffusa - e lo si è sentito più volte ripetere nel Convegno di Firenze - che per restituire respiro adeguato allo studio dell'età contemporanea occorra riservare all'ultimo anno di corso il solo Novecento: blocco unitario di complessi problemi che, senza pregiudizio per i secoli passati, già costituisce un'ardua sfida per almeno un anno d'intenso e rigoroso lavoro. Del resto, è solo recuperando un più ampio margine nel calendario scolastico che la cenerentola delle discipline, l'educazione civica, potrà ritrovare nei fatti la dignità che il legislatore intese conferirle (1 ). E nel suo ambito potrà e dovrà infine prender corpo l'approfondimento di temi quali la lotta di liberazione (e le sue implicazioni politico-militari) e la funzione svolta dalle Forze Armate in Italia


PREMESSA

11

non solo nella ricostruzione nazionale ma lungo il quarantennio di Repubblica: realtà, questa, totalmente ignorata dalla generalità dei manuali, come è stato incontrovertibilmente documentato in sede di convegno. È proprio in questa assoluta mancanza di cognizioni di base e, quindi, di percezione della realtà effettuale, nella sua variegata poliedricità - e in carenza d'una sia pur sommaria analisi delle sue componenti positive e costruttive che trovan posto in molti strati sociali e in ampie fasce generazionali, senza distinzioni di sesso, gli stanchi atteggiamenti d'inerzia e di pregiudiziale rifiuto di qualsiasi forma di vita associata razionalmente regolamentata: frutto, dunque, di oggettiva ignoranza, le cui ragioni più vere non possono tuttavia essere addebitate ai giovani, ma vanno cercate (e agevolmente rinvenute) anche nel mancato assolvimento alla pienezza del proprio ruolo da parte di una manualistica e di una pratica didattica più corrive a cimentarsi col passato (talora per imbastire sterili retroattive requisitorie) che capaci di filtrare criticamente il presente. Valga a conferma l'originale ricerca svolta dal prof. Giuseppe Griseri sullo studio delle Forze Armate nella guerra di Liberazione in una provincia, quale il Cuneese, che pur si caratterizza, in un'immagine stereotipica, per una peculiare tradizione resistenziale, lungamente coltivata nella memoria locale e tenuta desta da una tradizione celebrativa la cui eco, con ogni evidenza, s'arresta sulla soglia di molti istituti scolastici e di tante aule (2). V'è dunque da colmare lo iato tra formazione culturale giovanile, istituzioni e società, donde traggono alcuni fra i mali che aduggiano il presente e alJungano preoccupanti ombre sulle età venture. Il presente volume venne concepito anche quale contributo alla loro cura. Va infine espresso il più vivo ringraziamento a quanti hanno collaborato per la riuscita del Convegno e per la realizzazione dei suoi Atti: la Scuola Sottufficiali Carabinieri di Firenze, il prof. Luigi Lotti, preside della Facoltà di Scienze Politiche 'Cesare Alfieri' di Firenze, il sindaco di Firenze, Lancio Conti (3), l'ispettore centrale del Ministero della Pubblica Istruzione, prof. Salvatore Candido, che prese parte alla Tavola Rotonda su L 'editoria scolastica sulla storia contemporanea: esperienze e prospettive, presieduta dal prof. Paolo Ungari, con interventi di Pier Luigi Ballini e Sergio Piccioni, e il personale dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, nella persona del gen. Pierluigi Bertinaria, che trasse le conclusioni del Convegno, raccolte altresì nel presente volume.


12

ALDO

A.

MOLA

NOTE (1) La necessità di dedicare spazio adeguato all'età presente venne ribadita anche nei più acuti e puntuali fra i molti commenti giornalistici seguiti al convegno. Segnaleremo almeno quelli di ANDREA SANI in «T11ttosmo/a», BRUNO D1 PORTO ne «La Voce rep11bblitana», SALVATORE Lo! in «Q11adrante» e MATTEO PIZZJGALLO nella «G~elta del Me:czogiornu». (2) Particolare gratitudine va espressa al Provveditore agli Studi d i Cuneo, dott. CLAUDIO MART!1'ELLI, che nelle debite forme assecondò la delicata ricerca condotta da l preside G1uSEPPE GRISERI, nella consapevolezza che solo attraverso un autentico accertamento è possibile passare da generiche induzioni a un'analisi scientifica delle condizioni reali nelle quali versa l'insegnamento. (3) Nei giorni del Convegno venne affisso sui muri di Firenze un manifesto cupamente minaccioso nei confronti del Sindaco della città, Lando Conti: il quale apri i lavori incitando al rigore storiografico e alla divulgazione, anche attraverso la scuola, della meritoria opera svolta dalle Forze Armate nella vita italiana, dalla lotta di liberazione alla ricostruzione e lungo il quarantennio di Repubblica. Codeste parole desideriamo qui richiamare, a memoria de!J'Uomo il cui proditodo assassinio fu rivendicato dalle Brigate Rosse.


P A RT E PRI MA



ALDO ALESSANDRO MOLA

L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMENTO SCOLASTICO ITALIANO (1859-1984) L'art. 8 della Legge Gentile (1 -X-1923 n. 2185) di riforma della scuola elementare ribadl la centralità dell'insegnamento della storia per il conseguimento dei fini demandati dallo Stato all'istruzione obbligatoria: <<Nei luoghi in cui siano istituite classi ( elementart) del grado superiore, sarà insegnata altresì la storia del Risorgimento nazionale fino ai nostri giorni». Non è il caso di soffermarsi, in questa sede, sulla ribadita continuità fra il Risorgimento e l'approdo al governo di restaurazione nazionale di cui quella legge era espressione. Molto più importa notare che il termine ad quem fissato dal legislatore eran quei «nostri giorni»: termine ad quem che l'insegnante avrebbe dovuto riattualizzare di tempo in tempo, allineandolo all'urgenza dell'età sua. Il «particolare riguardo a/l'Italia» era dettato per l'insegnamento della storia e della geografia anche nelle classi superiori: ma, appunto, si trattava di riguardo «particolare» non esclusivo. A quel modo la riforma Gentile ricalcava la tradizione invalsa dalla Legge Casati (ma se ne possono t rovare robuste anticipazioni più addietro ancora) ai «programmi Credaro», da taluno recentemente tacciati di «impronta nazionalistica». Di fatto, il comma 3° dell'art. 315 della legge Casati (Titolo V, i compiti dell'istruzione elementare) riservava alle due ultime delle quattro classi in cui era ripartita la scuola elementare <J'esposizione dei fatti più notevoli della storia nazionale». A loro volta, gli artt. 190-191 allineavano la storia tra le discipline curricolari di entrambi i gradi dell'istruzione superiore classica. L'insegnamento della storia era dunque funzionale, anche se non ancora centrale, nell'ambito del disegno educativo dal legislatore attribuito all'istruzione secondaria, che aveva per fine di «ammaestrare i giovani in quegli studi mediante i quali si acquista una cultura letteraria e filosofica che apre l'adito agli studi speciali che menano at conseguimento dei gradi accademici nelle Università dello Stato».


16

ALOO A. MOLA

Fu dalla Sinistra - segnatamente da quella d'ispirazione garibaldina - che la foscoliana esortazione alle storie, e precisamente a queJla del Risorgimento nazionale, venne rivendicata con più argomentata coerenza. Proprio la Sinistra, del resto, si ergeva a depositaria della tradizione delle cospirazioni, della «rivoluzione», e dichiarava di volerne proseguire il corso, dilatando nelJa società civile la «partecipazione» attestata col volontariato nelle patrie battaglie rese illustri dal rimarchevole tributo di sangue (1). Proprio da quell'area politica provennero infatti i legislatori che via via condussero in porto le fondamentali riforme «di struttura e di contenuto» (diremo con termini correnti) del sistema scolastico italiano, nella convinzione, espressa per tutti da Michele Coppino, che <<avere in mano l'educazione e l'istruzione della gioventù fu sempre una questione di primissima importanZIJ» (1888) (2). Dopo il varo dei programmi dei ginnasi e licei - dovuti allo stesso Coppino, che vi recava l'esperienza della scuola subalpina, da lui stesso percorsa in ogni suo grado sino al rango di Rettore dell'Università di Torino - il dibattito intorno alla collocazione dell'insegnamento della storia divenne parte integrante del confronto politico tra il giovane regno unitario e gli altri maggiori Stati d'Europa. Ne furono segno l'aggiornamento dei programmi coppiniani del 1867 operato dal ministro Francesco De Sanctis nel 1880. Portando al 1878 il termine ad quem della storia inclusa nei programmi scolastici, l'antico autore del Rapporto sul progetto di legge per il riordinamento dell'istruzione primaria nel regno di Napoli (1848) indicava implicitamente nel regno di Vittorio Emanuele II il compimento del patto tra istituzioni e popolo: un patto di prospettiva, se non ancora delibato in ogni suo aspetto, e confermato, appunto, dalla permanenza delJa Sinistra al potere, espressione della più ampia partecipazione alla responsabilità pubblica di quanti, senza rinunziarvi in assoluto, rinviavano a tempo non determinato la questione istituzionale, giudicata secondaria rispetto a quella, premìnente, della difesa dell'unità nazionale. Tale prospettiva è stata talora giudicata miope, inquinata d a germi di nazionalismo, causa dei guai successivamente riversatisi sul Paese (3). Non ci proponiamo, in questa sede, di ribaltare quel giudizio. Riteniamo tuttavia che tutt'altra fosse l'ottica nella quale si poneva il legislatore. Tra la sterminata massa di documenti disponibili, lo confermano tre diverse voci, che ci limitiamo a registrare sommariamente.


L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMÈNTO SCOLASTICO ITALIANO

17

Nella Relazione finale al Ministro de/J'Istruz,ione sugli esami di licenza liceale del 1885 Giosuè Carducci (per l'italiano), Giambattista Gandino (per il latino) e Pasquale Villari (per la storia) (4) concordarono nel denunziare l'assuefazione dei giovani a un metodo d'apprendimento meramente ripetitivo, privo di respiro critico, di creatività personale. Non era quello - di sapore catechistico e d'angustia borbonica - l'ufficio cui era chiamato l'insegnamento della storia che per la generazione protagonista del riscatto nazionale era stato, invece, spinta all'azione, incitamento alla lotta, sfida all'ordinamento esistente, che sembrava follia voler modificare e che nondimeno era stato travolto per opera di chi aveva saputo intuire il corso della storia e collocarsi nel suo flusso. L'Esame comparativo dei programmi ne/Je scuole secondarie classiche - propedeutico alla riforma da tempo alJo studio - (B.U.MPI, XIII, ottobre 1887, pp. 641 e ss.), condotto dal matematico Valentino Cerruti con la collaborazione di menti di prima qualità, quale Giuseppe Chiarini, a sua volta concludeva con la constatazione della preminenza accordata io tutti gli ordinamenti scolastici europei all'insegnamento della «storia patria» quale culmine del corso generale della vicenda umana. Al particolare - lo Stato nazionale - si arrivava, paradossalmente, dall'universale: sia nella storia, sia nella geografia, ché, per es. in Francia, la «geogrefia fisica, politica, amministrativa de/Jo Stato e dei possedimenti coloniali» era studiata nell'ultimo anno di corso, accanto alla storia «da/Ja Rivoluzione al 187 5». Né diversamente andavan le cose io Germania. Quanto all'Italia, essa deteneva il primato dell'orario riconosciuto all'insegnamento della storia: un insieme di 35 ore in otto classi successive, contro le 28 in nove anni della Prussia, le 20 in sette anni della Francia, le 27 in otto anni dell'Austria. Ma spazio maggiore significava anche cultura migliore? Certo la classe politica italiana non ignorava quant'avveniva nel resto d'Europa. Occorreva però uno sforzo particolare per recuperare lo svantaggio determinato dal più recente approdo all'unità nazionale: divario netto anche nei confronti della Germania, la cui unificazione era avvenuta sul piano della cultura, prima che nell'ordinamento politico, sin dall'età napoleonica, mentre, malgrado l'accorpamento statuale, la penisola rimaneva lacerata per l'indistricato nodo della «questione romana», divenuta «questione cattolica» dopo Porta Pia. Di tale distacco e dell'eccezionalità dei compiti cui la classe politica doveva attendere si dichiararono consci i ministri succedutisi nel governo dell'istruzione pubblica: da Bonghi a De Sanctis, da Baccelli a Martini. Fra


18

ALDO A. MOLA

gli altri, ancora Coppino dichiarò: <Jo Stato [. .. ] riguardando questa grande funzione, questo suo grande dovere (impartire l'istruzione e assicurarne i mezzi, a cominciare dagli edifici) si propone di venire in aiuto della nazione. Si mette quindi le mani sulla coscienza e si dice [. .. ] ma io che ho la responsabilità generale [. .. ] non posso lavarmi le mani di tutti quegli altri edifici che raccolgono tutta questa generazione sulla quale si fonda l'onore e l'avvenire della nazione». Si trattava di far compiere il suo corso al «terzo stato» senza chiudere gli occhi dinanzi al «progresso civile», all'avanzata di una realtà nuova. «Credo che sentiamo tutti che il movimento che esso ha sollevato non si è arrestato - osservò ancora Coppino - e se uno strato di questa grande montagna umana si è mosso, un altro strato inferiore ha cominciato il suo movimento, ed io credo che sia sapienza del terzo stato assecondarlo per dirigerlo e non contrastargli la via». Lo studio della storia patria stagliato su quello globale dell'umanità (cioè dell'umanità secondo le gerarchie fissate dalla cultura del tempo) - doveva infondere la coscienza del dovere da compiere nella consapevolezza della storicità (e quindi del superamento) di ciascuno stadio. Che allo scopo nessuna occasione fosse rinunziata risultava chiaro persino dai programmi d'insegnamento dell'educazione fisica, nei quali, accanto agli inni marziali, alle nozioni d'igiene, alle cognizioni elementari di tattica e st rategia bellica, troviamo gli exempla offerti dall'epopea nazionale, nella forma dell'aneddotica e delJa prosopografia eroica (5). Anzi, era proprio il dilagare della storia nelle altre dìscipline a suggerire a Ferdinando Martini e a Pasquale Villari, di espungere l'insegnamento della storia patria dal ginnasio inferiore, ov'essa entrava infatti per molte altre vie: a sviluppo delle nozioni di morale civica introdotte dalla legge Coppino (contestualmente aU'abolizione della religione dal novero deUe materie obbligatorie), nell'ambito deUo studio della geografia (arricchita dalle memorie dei luoghi) e dell'italiano, realizzato in larga misura su pagine dell'epica risorgimentale, di cui, com'è noto, Cuore sarà il frutto più riuscito. L'insistenza suU'età contemporanea, energicamente additata a epilogo obbligato della formazione intellettuale dei giovani, si traduceva dunque nella legittimazione etica del presente - anche nei suoi aspetti conflittuali - con tale preminenza rispetto allo studio dei secoli precedenti da condurre il ministro Paolo Boselli a capovolgere senz'altro l'iter cronologico, muovendo dall'attualità al passato, essendo infine meno increscioso rinunziare a qualche capitolo di storia remota anziché - come spesso veniva lamentato - alla


L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMENTO SCOLASTICO ITALIANO

19

conoscenza dell'età !Presente, nella quale i giovani dovevan riconoscersi quali cittadini. Allo scopo - con dichiarato intento pedagogico-politico - lo studio scolastico era integrato con un cospicuo ventaglio di evocazioni patriottiche, cui concorrevano amministrazioni locali e sodalizi paramilitari e politici. In quell'ambito aveva parte eminente l'insegnamento del ruolo svolto dalle forze armate nel processo di unificazione nazionale. Di più, era la vita militare - meglio: la virtù guerriera - a essere collocata al centro della storia, insieme con quella (sempre proposta sotto la specie dell'eroismo) delle conquiste intellettuali (lettere, arti, scienze), dell'impresa es::onomica, delle esplorazioni geografiche, delle invenzioni: aspetti tutti del «progresso umano» che bene si prestavano a un insegnamento imperniato sul biografismo perché inteso, foscolianamente, a incitare alle «egregie cose». Dal repertorio di «protagonisti», («pionieri» e «vite esemplari» raccolte dai Carpi, Lessona, Roux ... ) scaturiva insomma il ritmo dell'Italia in cammino, che - in tutt'altro clima politico, ma all'insegna di una continuità ideale che va finalmente riconosciuta - Gioacchino Volpe delineò nel 1927. Poiché i tratti fondamentali di quel disegno - politico, prima che storico - rimasero immutati, (e anzi trassero forza anche dalle vibranti polemiche di un Oriani) (6), i ministri succedutisi alla Minerva si limitarono a introdurre ritocchi e aggiornamenti agli ordinamenti e ai regolamenti applicativi del sistema scolastico anche negli anni 1920-1943, lungo i quali - a parte forzature posticce, introdotte sulla spinta di emergenze politiche (razzismo, esaltazione imperialistica) - continuarono a essere coltivati caratteri e premesse fissati dall'età liberale. Negli ultimi anni del regime esplose tuttavia l'intento di ridurre la scuola da specchio della nazione a strumento di un partito che invano aspirava a identificarsi con l'intera società nazionale o almeno con la sua parte più significativa. La battaglia per il dominio sulla storiografia divenne perciò tutt'uno con quella per il dominio sullo Stato; sicché lo slogan «tutto nello Stato, nulla contro lo Stato», si tradusse in operazione di espunzione storiografica, di censura e di mortificazione di una disciplina che, proprio e soprattutto per l'età contemporanea, venne adattata a strumento per la lotta politica, ovvero per la storia in fieri. L'organicità del sistema cresciuto nel tempo venne francamente riconosciuta da quanti, dopo il 1943, si accinsero a gettar le basi di nuovi ordinamenti scolastici, finalizzati all'ordine politico sorgente. Perciò nelle Proposte della Commissione didattica consultiva approvate


20

ALDO A. MOLA

dalla Giunta Provvisoria di governo della Repubblica dell'Ossola, Carlo Calcaterra raccomandò che la «defascistizzazione» non si limitasse a meri ritocchi, ma affrontasse la revisione generale dei fini e dei programmi. I «ritocchi» furono invece, come noto, il rimedio applicato nel «regno del Sud» nella fase in cui sarebbe pur stato possibile battere vie ben altrimenti audaci (7). Mentre i manuali in uso furono appena scrostati dalle scritte inneggianti al duce e ai fasti del regime (l'Impero e simili) - i programmi di storia vennero drasticamente decapitati dell'ultimo ventennio col ritorno al 1918 quale termine ad quem. Peggio che di una piccola vendetta storiografica, si trattò di una rozza mutilazione, culturalmente indifendibile, con la quale - assecondando i diktat di «alleati» che s'atteggiavano a conquistadores - si pretendeva di cancellare 20 anni di storia eliminandoli dalla memoria individuale e collettiva con la loro esclusione dai programmi di studio: quasi fosse impossibile - anziché doveroso - affrontarne un bilancio critico. La ricostruzione della scuola rimaneva comunque tra gli impegni considerati prioritari (almeno a parole) dai governi susseguitisi dal luglio 1943 alla fine del 1945. Al personale appassionamento dei ministri succedutisi all'Educazione N azionale - Pubblica Istruzione dal 29-V-1944 - (bastino i nomi di Omodeo, De Ruggiero, Arangio - Ruiz, Molè) e di sparute pattuglie di funzionari di straordinaria dedizione non corrisposero frutti proporzionati. Disorientamento e conflitti investivano i fini stessi della scuola. Ne è esempio il contrasto netto all'interno del Partito d'Azione, particolarmente sensibile alla problematica scolastica per il suo richiamo alle diverse tradizioni di Croce, Salvemini, Calogero e (meno dichiarato) dello stesso Giovanni Gentile. Se per un verso «Federico» (cioè Leo Valiani) predicava l'ideale dell'«ozio creatore», lungi dal «barbarico tecnicismo», e svolgeva l'elogio della educazione umanistica il cui apparente conformismo educava a pensare borghesemente almeno «en demi - dieu», Vittorio Foa ribatteva che era invece ora «.di togliere allo Stato quelformidabile strumento di propaganda di parte che è la scuola educativa e formativa», era ora, cioè, di «snebbiare l'atmosfera dai vapori gentiliani». «La scuola deve istruire e basiti» era la conclusione di chi sino al febbraio 1946 avrebbe tenuto il centro del partito centrale della «rivoluzione democratica»: segno, insomma, del disagio che molti provavano dinanzi alla proposta di restituire alla scuola un ruolo anche educativo dopo anni di strumentalizzazione di tanti settori dello Stato e della sua riduzione a veicolo di propaganda. Ma non era parados-


L'lNSEGNAMENTO D ELLA STORI A NELL'ORDINAMENTO SCOLASTICO ITALIANO

21

sale che la carica etica della lotta di liberazione svaporasse ne!J'invocazione d'un'istruzione meramente tecnica e nozionistica? L'appello all'assoluta asetticità ideologica (ma anche ideale?) della scuola in realtà non era sempre ispirato da principi illibati se lo stesso Foa argomentaya: «La scuola formativa può essere comoda finché nel governo ci siamo noi o dei nostri amict~ ma la faccenda diventa fastidiosa quando vi si insedino degli avversari decisi e senza scrupoli». Di tale disagio rimangono documento, a tacer d'altro, i programmi della scuola elementare del 9 Febbraio 1945 (poi D.L.L. 24-V-1945) nei quali si ribadiva che «nella scuola elementare italiana dovranno dominare un vivo sentimento difraternità umana che superi l'angusto limite del na:?}onalismo e una serena volontà di lavorare e di servire il paese con onestà di propositi». A tale scopo miravano «i nuovi programmi con una chiara visione dei problemi etici, che trova sviluppo in ciascuna delle materie di studio, ma specialmente nella religione, nell'educazione morale (materia nuova? interpretazione laica della 'religione'? versione antifascista di certo precettume del ventennio?), civile efisica, nel lavoro, nella storia e geografia». Altro urgeva, d'altronde: la pacificazione degli animi dopo una sanguinosa guerra civile, la ricomposizione dell'unità nazionale dopo una spaccatura non solo politica ma statuale, che fece riemergere i fantasmi del separatismo e, oltre ancora, profilò lo spettro della secessione, della consegna d'antiche province e regioni italiane a Stati limitrofi (o remotissimi) nell'illusione di trarne alcinesche autonomie e libertà. E, per quanto attiene la scuola, urgevano locali, arredi, strumenti di lavoro, personale - d'ogni ramo e funzione - mentre il timore della contaminatio con recenti e pur valide esperienze, non potendo procedere oltre alla stasi imposta dagli astratti equilibri dell'esarchia ciellenistica, spinse a rifugiarsi nelJ'assetto precedente la riforma Bottai e più addietro ancora, dove possibile. Il ripristino del 1918 quale termine ad quem del programma di storia (il 4 Novembre, per l'esattezza, celebrato quale festa nazionale) non mancava certo di valida portata evocativa. Quella data non rimandava solo alla vittoria militare, ma soprattutto al conseguimento dell'unità nazionale mentre - perdute le colonie: un'esperienza storica che ancora attende di essere studiata, a scuola, con pacata visione critica, lungi dalla sovrapposizione retrospettiva di ideologismi e petizioni di principio storiograficamente inconcludenti - erano in parte compromessi e in parte messi in forse i confini stessi del 1918. Sennonché l'anno scolastico non era solo l'adunata con bandiere attorno ai monumenti ai caduti, sulle cui lapidi si aggiungevano in lunghi elenchi i nomi delle vittime - militari e civili


22

ALDO A. MOLA

- della IP guerra mondiale, (ma con esclusioni che il forzato silenzio non rendeva certo meno laceranti né giovava a sciogliere in un vero afflato unitario volto a un futuro di piena solidarietà nazionale). L'insegnamento della storia trovò lì la sua mortificazione, mentre gli enunziati intorno ai fini del sistema scolastico - istruzione? educazione? - affastellavano motivazioni largamente estrinseche alla formazione della maggior parte dei docenti impegnati nella difesa di una funzione che, dati i tempi, passava anche attraverso battaglie economiche. Proprio quand'ormai volgeva al tramonto, col ministro Antonio Segni il centrismo tentò di colmare il vuoto dei programmi di storia accogliendo la proposta d'introdurre l'educazione civica dalla scuola elementare alle superiori. Quanto l'operazione fosse ardua emerse, in verità, dalle proposte di abbinamento di tale insegnamento con le discipline più disparate, a conferma della sua natura più retorica che scientifica, complementare anziché essenziale. Talché negli istituti tecnici si propose che )'<<educazione civile» comprendesse «.elementi di morale professionale». D el resto - recitava il progetto della Consulta Didattica istituita il r-XII-19 50 - <Ja vita morale e sociale si promuove con la viva presentazione dell'ideale morale e con l'esercizio della virtù»: mete educative cui i virgulti accolti nella scuola primaria sarebbero stati condotti «per m~o dell'interpretazione di racconti, di canti, di scenette in cui siano attori i bimbi...» (8). Si trattava di proposte la cui apparente novità didattica e la cui vibrazione ideale cozzava con l'enunciato dei contenuti disegnati per lo studio della storia: «il risorgimento nazionale», indicato quale approdo di un tracciato storico esclusivamente italocentrico. Nei licei l'ultimo anno prevedeva quale «età contemporanea» il periodo 1789-1920, culminante con <<Prima guerra mondiale, trattati di pace e conseguenti problemi»: formula, quest'ultima, quanto meno oscura e polivalente, giacché da tempo la storiografia aveva posto l'ascesa delle dittature e la seconda guerra mondiale fra i «problemi conseguiti» alla prima conflagazione europea. Analogo era il programma dei diversi indirizzi degl'lstituti tecnici, con una sola variante: lì le ore settimanali d'insegnamento della storia erano 2, contro le 3 dei licei, e una sola nell'ultimo anno di studio: proprio quello nel quale si sarebbero dovuti inoculare gli elementi di «morale professionale» accanto alla scienza della storia dalla rivoluzione francese alle conseguenze della grande guerra. Nelle proposte della Consulta didattica in un solo ordine di studi il programma di storia dell'anno terminale giungeva dall'unificazione nazionale ai nostri giorni compren-


L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMENTO SCOLASTICO ITALIANO

23

dendo <Je guerre mondiali e i problemi politici, economici e sociali del mondo contemporaneo». Ma non era forse la scuola più frequentata dai futuri professionisti, dirigenti, insegnanti, quadri intermedi della società italiana negli anni del «miracolo» e della «seconda industrializzazione>>. Si trattava, invero, del magistero per l'infanzia, che del resto destinava due ore la settimana allo studio dì storia e geografia, conglobate in un unico plesso. Va peraltro rilevato che in assenza d'una precisazione cronologica anche la dizione «mondo contemporaneo» lasciava libero campo a quanti avessero voluto arrestare lo studio alle colonne d'Ercole del 1918. Soffermarsi - come abbìam fatto - su un documento che non fece poi molta storia risulta utile, giacché intorno a quello - e ad altrettali spesso defatiganti esercitazioni - si consumarono decenni di sforzi, si bruciarono grandi energie e si accumularono, nel tempo, delusioni e frustrazioni, che pur meriteranno di essere riscattate con un esame dettagliato di quel capitolo non secondario della storia culturale italiana. Sotto la cenere del ribrezzo ufficiale per l'età presente covavano gli umori e le attese più diversi. Nello stesso anno della pubblicazione dei Programmi stilati dalla Consulta didattica l'Adsn forte dell'adesione di storici e docenti quali Salvatorelli, Valeri, Saitta, Spini - indicò la Resistenza quale «conclusione della storia nazionale»: proposta che invero incappò nel non possumus della democrazia cristiana, al cui interno, in sintonia col «partito romano», prevaleva la constatazione che la vulgata prevalente faceva della guerra di liberazione la promessa della conquista del potere da parte di una sinistra sedicente marxista che ancora si riconosceva nel <<maresciallo» Stalin, capo dell'Armata Rossa. Pochi anni dopo - anni di polemiche sempre più roventi e quindi poco rassicuranti - l'insegnamento dell'educazione civica, dettato dal D.P.R. 13 giugno 1958, n. 585 sembrò la soluzione destinata a creare minori disagi e a sopperire, coi minori tributi ideologici, al mancato avanzamento del termine ad quem dei programmi di storia. Del resto, a dieci anni dalla Costituzione non poteva più avere effetti dirompenti . osservare che <J'opinione pubblica avverte imperiosamente, se pur confusamente, l'esigenza che la vita venga a fecondare la cultura scolastica e che la scuola acquisti nuova virtù espansiva, aprendosi verso le forme e le strutture della vita associata». Con due ore di lezione men~ìli, la nuova disciplina doveva ricoprire un campo che «a differenza di quello delle altre materie di studio non è definibile per dimensioni, non potendo es-


24

A LDO A. MOLA

sere delimitato dalle nqzjoni, e spingendosi invece su quel piano spirituale dove quel che non è scritto è più ampio di quel che è scritto»: insomma con l'educazione civica, anziché idee chiare sulla nascente democrazia, nella scuola irrompeva il mistero. Nel dettato normativo, lungi dall'integrarsi coi programmi di storia, il nuovo insegnamento rimase una sospensione colloidale di nozioni ideali che - suggerivano i programmi - poteva essere catalizzata con educazione stradale, l'educazione igienico-sanitaria, servizi pubblici, istituzioni e organi della vita sociale nella secondaria inferiore e con l'universo della Costituzione repubblicana nelle superiori. L'esplicito riferimento all'esperienza storica e alla storia contemporanea in specie non vi compariva o compariva in tono minore. Tre anni dopo - mentre negli studi superiori la storia contemporanea era solennemente laureata col conferimento delle prime tre cattedre universitarie di quella disciplina - vennero riformati i programmi di storia della scuola secondaria. Fu vera svolta? nel clima rovente dell'insorgenza contro il governo Tambroni (luglio 1960), mentre prendeva a diffondersi il movimento giovanile detto di «nuova resistenza», con un balzo apparentemente desanctisiano i programmi valicavano di slancio lo steccato del 1918 e indicavano per meta: «Le guerre mondiali. La resistenza, la lotta di liberazione, la Costituzione della Repubblica Italiana; ideali e realizzazioni della democrazia. Tramonto del colonialismo e nuovi Stati nel mondo. Istituti e organizzazioni per la cooperazione fra i popoli. Comunità europea»: termini che, rischiando in proprio, taluni insegnanti avevano autonomamente attinto, talora recando agli allievi frammenti di esperienze personali, quanto meno in occasione di particolari ricorrenze, la cui «celebrazione» cominciava a essere raccomandata anche dalle autorità scolastiche, ma talora si ridusse a sermone più atto a dividere e ad allontanare che a far comprendere e apprezzare. Cosl, a soli tre anni dal Trattato di Roma la scuola italiana era chiamata ad affisare lo sguardo sull'orizzonte europeistico, quale approdo ultimo della storia nazionale. Ma il «ritocco» - mentre incombeva la riforma della media inferiore, ed era annunziato che sarebbe stata messa allo studio quella delle superiori - andava oltre. Sui «problemi, contrasti e sviluppi» dello Stato unitario facevan aggio, infatti, i «grandi problemi mondiali alla fine del secolo XIX; trasformazioni e sviluppi nel campo dell'economia e della tecnica, il travaglio economico-sociale e le lotte di classe; imperialismi e colonizzazioni; i rapporti internazionali e l'equilibrio europeo». Irrompevano insomma tematiche di ampiezza


L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDlNAMENTO SCOLASTICO ITALIANO

25

tale da non poter più essere contenute negli spazi, immodificati, dell'orario assegnato, malgrado il programma dell'ultim<? anno prendesse ora avvio dalla Restaurazione anziché dalle Rivoluzioni americana e francese. Come nella botte di Pascal, la «colonna» del corso generale della storia veniva a premere sull'ultimo periodo proposto allo studio gravandolo sino a provocarvi effetti dirompenti. Perciò il decennio seguente vide accumularsi una congerie di esperimenti (non sempre assurti alla dignità di esperienze) e di proposte, sino alla remissione dei programmi alle forbici dei consigli classe, nel trionfo delle «ricerche» (individuali e di gruppo) - spesso col disegno dì farne il perno dell'esame dì maturità frettolosamente riformato nel corso dell'a.s. 1968/ 1969 nel rassegnato clima della liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie (1969) e dei piani di studio. Negli stessi anni, mentre prendeva corpo un processo di destrutturazione del sistema scolastico italiano che ancora attende di essere debitamente studiato e storicamente collocato in ogni suo movente e nelle conseguenze di lungo periodo, la maggior parte degli studenti italiani aggiunse l'immagine delle divise irrompenti negli edifici scolastici (talora a salvare il salvabile delle suppellettili e a spegnere più o meno ruvidamente i bivacchi delle «occupazioni») a quelle addensate nei manuali: nei quali le forze armate venivano associate alla lugubre litania delle sconfitte militari (Cusroza, Lissa, Adua... ), ai deprecati assalti frontali della grande guerra e alla catastrofe dell'8 settembre. Aleggiava una strana voglia di Caporetto, mentre in un libro che s'ergeva a interprete del «mondo dei vinti» si asseriva che in ogni ufficio pubblico si sarebbe dovuto collocare la scritta «Otto settembre», a perpetua infamia della dirigenza pubblica (e militare in specie). Con simili ingredienti, episodici motivi di disagio vennero fatti lievitare a protesta, a rifiuto generale del sistema. Mai la capacità di comprensione storica fu tanto lontana dalle aule come negli anni immediatamente seguenti all'introduzione dell'età contemporanea nei programmi di studio: operazione che avrebbe invece dovuto condurre alla più matura consapevolezza della complessità dei problemi dinanzi ai quali si veniva a trovare l'intera società nazionale, al di là delle specifiche inflessioni dottrinali e ideologiche delle forze aspiranti a trovarne e a governarne credibili soluzioni. A quel modo si scontavano le reticenze e i ritardi dei tre lustri precedenti; e si accumulavano altri motivi di dissipazione e di sperperi ulteriori.


26

ALDO A. MOL A

Le ripercussioni, all'interno della scuola, di moduli retor1c1 giovanilistici (ancorché praticati da esponenti delle generazioni più diverse, prossimi talora all'estremo tramonto), imbevuti di ossessione interventistica sul presente (altra cosa dalla consapevolezza della contemporaneità), non fu certo tra i fattori che più incoraggiarono a riflettere sui molti problemi aperti dai programmi del 1960. Rimaneva, anzitutto, la recisione dei vent'anni tra le due guerre. Tale cesura (o piuttosto censura: operazione comunque destituita di dignità scientifica e tuttora non risolta tanto da far apparire come audacissimi scossoni le recenti riuscite mostre di Milano sugli Anni Trenta e di Roma sulla economia italiana tra le due guerre) (8 bis) rendeva impossibile un serio studio della Resistenza stessa, a meno di farne qualcosa di radicalmente nuovo e diverso dall'antifascismo e, quindi, di isolarla dallo studio e del fascismo e dell'Italia (ma non solo dell'Italia) dal 1922 al 1943: facendo non poco torto alla realtà storica, giacché solo e proprio a quel modo, con quella sventata rimozione, si veniva ad attribuire al «ventennio» un'unitarietà intrinseca ch'esso fu sempre lungi dal raggiungere. L'implicata contrapposizione tra l'apparente unanimismo nell'età degli <<ideali e realizzazioni della democrazia» - contrapposta a quella deì «contrasti» risorgimentali e delle successive «lotte di classe» - trovava infine la sua sconfessione nella prassi, che vedeva larga parte del mondo giovanile (su spinte, ripetiamo, ancora da apprezzare in sede storiografica) schierata sul fronte della negazione dei princlpi e dei metodi della democrazia parlamentare e dei suoi derivati (a cominciare dall'elezione degli organi collegiali di governo della scuola: introdotti con il D.P.R. 31 -5-1974 n. 416). I motivi e gl'inviti provenienti da sedi qualificate (valgano i casi del Convegno di Frascati e della Comrojssione Biasini) caddero in un marasma che accoglieva a insulti anche quanti (era il caso di Giuseppe Ricuperati) dall'interno della Babele trionfante, al culmine della sofferta partecipazione al lungo travaglio della sperimentazione didattica, rìcordavano che spettava comunque all'autorità razionale dell'insegnante il compito di guidare gli allievi sugl'impervi sentieri della ricerca storica, lungi dall'abbandonarli a un autodidattismo cieco e scombussolato, speculare agli esotici inviti a «descolarizzare la società», freneticamente accolti da quanti, del resto, da tempo utilizzavano i locali scolastici per le pratiche più varie, meno che per lo studio. Il rifiuto del manuale, dei curricoli disciplinari, (ma anche degli orari, di qualsiasi metodo e quindi della scuola stessa) corroborava un presentismo tanto acceso quanto fatuo, privo di


L'INSEGNAMEN1'0 DELLA STORIA NELL'ORDI NAMENTO SCOLASTICO ITALIANO

27

radici, destrutturato: al cui termine si dovette registrare, come è stato ripetuto recentemente da Paolo Alatri, la totale ignoranza delle più elementari cognizioni di geografia e di storia presente (a tacere, s'intende, di quella antica, medievale, moderna, contemporanea) persino negl'iscritti alle facoltà di scienze politiche.

* * * Pendente il dibattito parlamentare sulla riforma delle superiori - trascinatosi per la Vll e Vlll Legislatura e ora dinanzi alla IX, ma già in forse pel fuoco di sbarramento non delle sole opposizioni: e non solo con argomentazioni d'accatto e pretestuose - e mentre viene ripetuto che in quella sede dovrebbero essere sciolti gl'indistricati nodi sugli obiettivi, sui contenuti e sui metodi dell'insegnamento della storia nelle superiori, l'iniziativa passò alle organizzazioni (culturali e sindacali) degl'insegnanti, a fervori individuali, al1'editoria, che - ora per impulso autonomo, ora precorrendo o mirando a condizionare tempi e modi della sempre annunziata riforma della scuola secondaria e dei suoi programmi (ma la perenne ricaduta dalle promesse nel nulla di fatto finì poi per ingenerare prudenza e persino inerzia in tante Editrici, semmai tentate dalle mele d'oro degli audiovisivi) - assecondò la peraltro passeggera propensione a integrare (spesso a sostituire) il manuale con antologie di critica storica, monografie, saggi di ricerca, ricerche preconfezionate (con tanto d'apparato documentario: anche riprodotto in diapositive) e, ultimo trovato, con i moduli curricolari: sorta di «piatti combinati» nei quali l'illusione della libertà della ricerca è mistificata sotto le spoglie della caoticità dei percorsi proposti a docenti (sempre più demotivati) e discenti (indotti a concepire lo studio storico quale gaudioso Wargame). Fu quella l'età - anche se non pertanto--della «sperimentazione selvaggia», durante la quale (ha scritto la Relazione del Corpo ispettivo sull'andamento generale dell'attività scolastica e dei relativi servizi) <Jo spostamento di accento dal passato al presente caratterizzò le ingenue preferenze giovanili e la spocchia parapedagogica di certi docenti tendenti alla banalizzazione del sapere storico, con la conseguenza di un nefasto depauperamento delle componentiformative» (9). Tra i segni di ,quella stagione rimangono alcune inchieste sui manuali in uso (talora condotte con neppur troppo coperto scopo intimidatorio nei confronti di quanti ancora s'attardassero nell'adozione di strumenti scolastici ideologicamente non abbastanza schierati) e l'irruzione - di poco successiva - di proposte didattiche


28

ALDO A. MOL A

«alternative» (valga d'esempio la riduzione della storia a indagine su situazioni locali, con l'abuso di categorie, quali «territorio», disinvoltamente manipolate senz'alcuno degli accorgimenti necessari al loro impiego scientifico), infine integrate con «altre storie» che (ha scritto con sofferta esperienza Sergio Anselmi nel recente commiato dalla redazione di «Studi Storici») altro poi non si rivelarono che casual histories: ripiegamento dalla storia universale (cancellata con orrore) alla lussureggiante vegetazione spontanea di temi episodici e curiosità (la vita quotidiana, le donne, la sessualità, le epidemie e ogni altra variante della «salute», i bambini, gli anziani... ) germinante su un orizzonte atemporale in cui tutto erompe, s'allinea, si perde. L'abisso tra enunciazione di buoni propositi e realtà della loro traduzione nei fatti frustrò anche la dignitosa esperienza dei corsi d'aggiornamento promossi da quell'Ufficio AIM (10), che molti giustamente ricordano con gratitudine, ma i cui frutti meno durevoli risultarono, sulla distanza, proprio le mozioni finali, gli ordini del giorno, gli auspici, appelli, moniti che ne andarono sempre più caratterizzando i lavori a detrimento dell'impegno sui contenuti: in una stagione, peraltro, che pur lasciava intravvedere la possibilità d'incidere, in tempi brevi e con risultati appaganti, suJJa riforma della secondaria, di mese in mese dichiarata imminente, e sulla riqualificazione, in quell'ambito, dell'insegnamento della storia. Che tali speranze non fossero campate in aria parve essere confermato dal varo dei nuovi programmi della scuola media (D .M. 9-II-1979, in «G. Uff.» 20-ll-1979), nei quali si riconosceva che <Ja storia è una disciplina complessa» e si fissava il programma del terzo anno con formula inequivoca: «dal 1815 ai giorni nostri con riferimenti essenziali all'Europa, al mondo, alla decoloni~zione. Si avrà particolare riguardo all'Italia nell'ultimo cinquantennio, nel quadro della storia mondiale». Di più: se il D.P.R. 13-VI-1958 n. 585 - come già detto-, tracciando i programmi per l'insegnamento dell'educazione civica, registrava <d'opinione pubblica avverte imperiosamente, se pur confusamente, l'esigenza che la vita venga a fecondare fa cultura scolastica, e che la scuola acquisti nuova virtù espansiva, aprendosi verso le forme e le strutture della vita associata», ma solo con motivazione ellittica giungeva ad attribuirne lo specifico insegnamento al docente di scoria, l'enunciato dei nuovi programmi eliminava i residui dubbi sull'abbinamento dell'educazione civica con l'insegnamento della storia, anche se, «intesa come finalità essenziale dell'azjone formativa della scuola, essa esige il responsabile impegno di tutti i docenti e la convergenza educativa di tutte le discipline e di ogni aspetto della vita scolastica».


L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMENTO SCOLASTICO ITALit\NO

29

A quel modo - non il più efficace, forse; certo non il meglio riuscito - s'intendeva rispondere all'avvento dell'«implosione», al dilagare dell'informazione, alla prevaricazione dell'attualità rispetto alla coscienza della durata storica, proposta per i canali più disparati con impatti tanto più rilevanti sulla scuola anche per le discipline ancorate a tecniche tradizionali di comunicazione docente-discenti. Il disagio - enfatizzato a incurabile malessere anziché accolto quale sfida - non era tuttavia di maniera: affondava radici nel mutamento introdotto nel modello culturale, politico, sociale dell'Italia; e non di questa sola, ma di tutti i Paesi nei quali non fosse arbitrariamente oscurata la circolazione delle informazioni, né imbavagliato il dibattito culturale e politico. Di tale disagio si fecero eco le dispute intorno alla natura e all'uso dei manuali (Grendi, Guarracino e altri), cresciute, in breve, a investire i modi dello scrivere storia (Antonio Desideri) e, più oltre, la natura stessa della storia: terreno sul quale, accanto alla riflessio,ne degli storici professionali sul loro «mestiere» e dei teorizzatori di una «dottrina della storia», s'incrociavano gli apporti (tanto più dirompenti quanto più tardivi) di presunte «scuole» storiche d'Oltralpe e l'incalzante proposta di far luogo ( sino a sostituirle alla storia nell'accezione classica) alle «scienze sociali». Paiono oggi remotissimi i tempi - e pur si tratta del 1976 nei quali in Metodologia e insegnamento della storia Franco Catalano (cui la scuola era debitrice della più imponente antologia di critica storica) asseriva «oggi la st1Jria ha più possibilità di essere scientifìca se è proletaria» ed esortava lo storico a «schierarsi con chi è oppresso, con chi sente una frattura tra la sua esistenza e le sue aspirazioni sociali ed umane, nella certe~ che questa esperienza sarà per lui sempre, e in ogni modo, esaltante e lo aiuterà a chiarire il senso più riposto della vita, della società e degli avvenimenti del passato e contemporanei». Quei turgori van richiamati, nondimeno, quando si constati come pur occorre fare - la retrocessione della storia in seconda e terza fila nei paesaggi della «Scuola italiana verso il 2000» (11) recentemente disegnati da autorevoli convegni di studio: nei quali è stato anzi confessato lo sconforto dinanzi alla mancata comprensione del corso politico attuale e, pertanto, alla possibilità di dedurne il significato complessivo della storia contemporanea, sino a quel momento ritenuto plasmabile con gli ordini del giorno. Subentrate alle precedenti certezze, l'episodicità e la (spesso) genericità di convegni, seminari, tavole rotonde e simili su fini e mezzi della didattica della storia (solitamente paghi di suscitare sti-


30

ALDO A. MOL A

moli, porre interrogativi, tener desti interessi, anziché ambiziosi di conclusioni operative) sono infine incalzate anche dalle sortite estemporanee delle istituzioni, sempre più corrive a irrompere nel lavoro curricolare scolastico con inviti (e talora incalzanti incitamenti) a divertire dai programmi su temi non sempre congruenti, in omaggio ad anniversari e a eroi eponimi o persino sulla scia di programmi televisivi, di celebrazioni «locali» o di altre iniziative dei «media», cui pare sia quindi delegata una sempre più diffusa supplenza nei confronti del ruolo degl'insegnanti, con definitivo sacrificio di quanto (ed è poco) ancor rimane dell'autonomia della scuola. Essa è infine quotidianamente compromessa dalle reiterate incursioni di raccomandazioni ministeriali, di enti locali (regioni, province, comuni), istituzioni e sodalizi vari - a diverso livello di ufficialità e rappresentatività - che fanno piovere sulla scuola, arrogandosene spazi d'effettivo impegno didattico, i temi più peregrini o destinati comunque a rimaner tali per la natura extracurricolare delle proposte di ricerca, approfondimento, sperimentazione: vuoi su personaggi o fatti riecheggiati dalle cadenze celebrative (si spazia dal bimillenario di Virgilio ai cinquecento anni dell'impresa di Colombo, da Caterina da Siena alla nascita di Manzoni), vuoi le doglianze per la temuta estinzione del lupus italicus (perciò francescanamente riproposto alla meditazione di scolari e studenti), vuoi, infine, i temi, ormai consuetamente rimbombanti, dell'ecologia, dell'alfabetizzazione, dei diritti umani, della prevenzione contro le tossicodipendenze e gli spettri suscitati da robotica e informatica, in una ridda fantastica che annullerebbe affatto la specificità del lavoro scolastico se i consigli di classe accedessero anche solo in parte a siffatta multicolore sollecitazione.

*

**

Anche questo è un convegno, ci potrebbe essere giustamente obiettato. Ma da questa sede - accanto alla registrazione di motivate preoccupazioni - si vogliono avanzare precise proposte. Estranea l'ambizione di ridefinire il ruolo della scuola secondaria compito eminentemente politico, cui attende il legislatore - e, in quell'ambito, dello studio della storia, una raccomandazione tuttavia urge, tanto più quando si legge, nel D.D.L. n. 52, Nuovo ordinamento della scuola secondaria superiore, che <Je materie dell'area comune articolate nel corso del quinquennio hanno l'obiettivo di approfondire criticamente conoscenze, linguaggi e strumenti di analisi relativi allo sviluppo


L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA f\ ELL'ORO INAMEl\'TO SCOLASTICO ITALIANO

31

della storia umana nelle sue più rilevanti espressioni: artistica, economicosociale e politica, filosofica, giuridica, linguistico-letteraria, logico-matematica, religiosa, scientifica»: ove riecheggia uno storicismo di maniera, troppo esteso per non risultare infine diluito e comunque privo di specifica determinazione disciplinare, proprio perché dilatato a coprire l'umano scibile (tranne, a ben vedere, i fatti diplomatico-militari, espunti a beneficio cli quelli economico-sociali) in una visione della storia che ridusse la realtà militare a mere battaglie e ne forzò i tratti con intento caricaturale, per più agevolmente sbarazzarsene cancellandola dagli studi. Se non si voglia rinunziare a fare dell'età presente l'appropriato terreno di formazione intellettuale (come già indicarono in tempi severi Pasquale Villa.ci, Ferdinando Martini, Pao lo Boselli, sulla scia di De Sanctis e Coppino), se davvero la s'intenda proporre nella sua complessità, senza callido sacrificio di aspetti fondamentali della realtà nella quale il giovane è chiamato a operare e comunque vive, l'ultimo sessantennio sembra costituire un blocco cronologico e tematico così impegnativo da esaurire affatto il lavoro dell'anno conclusivo del corso di studio, per quanto attiene la storia. Bisogna diversamente rassegnarsi a lasciare che il giovane conosca l'esecutivo sotto la specie dell'autoritarismo di Crispi, continui a identificare le Forze Armate con l'assalto di Bava Beccaris ai conventi mil anesi, a credere che le relazioni internazionali ancora passino tra le crinoline della Contessa di Castiglione. E certo biografismo nuovamente dilagante - e privilegiato nelle raccomandazioni anche ministeriali di celebrare questa o quelJa figura, l'uno o l'altro evento - fa temere che proprio questo stia accadendo e sempre più avverrà in futuro. Se è vero che occorre conoscere il passato per non ripeterne gli errori, non meno vero è che sacrificargli il presente conduce ad altri e più grossolani errori: d i valutazione e, quindi, nell'azione. Perciò c'interroghiamo sulla congruenza, nel nostro lavoro, tra immagine e realtà, verificandola - dati i compiti del Comitato storico, promotore del con vegno odierno - in relazione a Forze Armate e guerra di liberazione: tema che il Comitato stesso ha affrontato, nei termini della ricerca scientifica, con i convegni di Milano sull'Otto settembre e sulJa cobelligeranza italiana nella lotta per la liberazione dell'Europa, anche colà registrando la divaricazione tra acquisizioni recenti e divulgazione manualistica. La compatta presenza al convegno odierno, mentre dice che la nostra non fu ipotesi peregrina, conferma che, pur nello scenario di preoccupazioni sopra delineato (e sul cui epilogo non avanziamo al-


32

A LDO A. MOLA

cuna ipotesi, paghi di constatare che l'attuale, non «nazionale» né «europea», ci sembra una scuola che si cerca dopo lunga e non ancora superata malattia) - gli operatori scolastici (vorremmo dire: i protagonisti, presidi e docenti, e non per captatio benevolentiae, bensì per oggettivo riconoscimento di ruoli a loro volta in fase di riscoperta) non intendono stare a guardare, resi avvertiti dalle esperienze trascorse. Ci auguriamo che lo si intenda anche nelle sedi ove si discute e si discuterà di riforma della scuola secondaria, Il restituendo alla storia la posizione assegnatale nell'ordinamento scolastico italiano sin dalla legge Casati e che sarebbe curioso veder svanire ora, dopo tanti anni di battaglie tese a conferire dignità scientifica alla storia contemporanea, anche nell'insegnamento scolastico.


L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMENTO SCOLASTICO ITALIANO

33

NOTE

(1) GIANO ACCAME, Sr,cialisn,o tricolore, Milano, Editoriale Nuova, 1983. (2) ALDO A. MOLA, Michele Coppino. Sçritti e discorsi ( 1822- 1901 ) , Alba, Famija Albeisa, 1978. (3) Va insistito sull'alto senso di responsabilità nazionale di cui dettero prova i repubblicani del l'Ottocento (sui quali G. SPADOLINI, J repubblicani dopo l'Unità, Firenze, Le Monnier, 1980 4). In nome dell'unità nazionale e della compattezza dello Stato, essi rinunziarono a fare della questione istituzionale un punto di rottura incomponibile tra governo e opposizione e si mostrarono ripetutamente disponibili a collaborare anche ton il re (senza che ciò comportasse una resa senza condizioni alla monarchia) nelle fasi cruciali della storia nazionale. Doc umento eloquente di tale disposizione è una lettera di Giuseppe Garibaldi, che merita d'essere riletta, all'antico massone e cospiratore per l'unità, Giorgio Palla vicino, datata da Caprera, 13 agosto 1872: <<Mio çarissimo, benché ringiovanita çome dicono la nostra bella Italia mi fa l'effetto d'1m vecchio bastimento tol tim1me marcio. I carpentieri potranno rattopparlo cotesto putrido timone o Cl)llVerrà cambiarlo? Io sono per il se.ondo spediente, in un tempo sicuro, ma indeterminato. E per oggi come nel 60 sono ancora un compagno t110 nell'aspiratQone del meglio, senza desistere di auetlare il bene da q11a/11nq11e parte esso avvenga. ( ... )>> in A.A. MOLA, Gariba/.di vivo, antologia degli scritti con documenti inediti, pref. di Lelio Lagorio, Milano, Mazzotta, 1982, p. 108. (4) Se ne vedano le Relazioni in «Bollettino Ufficiale» del Ministero della Pubblica Istruzione, 1884 e ss., d'ora innanzi B.U.M.P.l. (5) Rinviamo al nostro Giuseppe Garibaldi e la formazione dei giovani per la 'nazione armata', in Garibaldi, generale della libertà, Roma, Ministero della Difesa, 1984; vedansi altresì ENzo CATARSI, L'educazione del popolo, Bergamo, Juvenilia, 1985, e GIORGIO CHIOSSO, L'educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1983. (6) V. ENNIO DIRANI (a cura di), Alfredo Oriani e la mltura del suo tempo, Ravenna, Longo, 1985 (con scritti di G . Spadolini, F. Traniello, N . Perrone, G. Landucci e altri. (7) TlNA TOMASI, Scul)la e pedagogia in Italia, 1948- 1960, Roma, Editori Riuniti, 1977. Anche Vittorio Emanuele Orlando convenne che, sprecati nell'inerzia i giorni immediatamente seguenti il 25 luglio 1943 (nei quali qualsiasi riforma sarebbe stata possibile), la via delle riforme divenne subito più ardua. (8) Ministero della Pubblica Istrnzione, Programmi per i vari gradi e tipi di scuola proposti dalla Consulta didalfica in relazione al progetto di legge 2100, Firenze, Vallecchi, 1952, p. 51 e ss. (8 bis) Se ne vedano i Cataloghi per i tipi degli Editori Mazzotta (1983) e IPSOA (1984). (9) Relazione del Corpo Ispettivo sull'andamento generale dell'attività scolastica. Anno scolastico 1981-82, in «Ministero della P. Istruzione, Bollettino Ufficiale», 1-8 settembre 1983. (10) L'Ufficio Aggiorn amento Insegnanti Medi cessò di fatto di funzionare con la costituzione degl'IRRSAE (Istituti regionali per la ricerca e la sperimentazione educativa), il cui decollo si rivelò tuttavia molto stentato. Va altresì ricordata l'opera svolta dai Centri nazionali didattici negli anni precedenti la delega dell'aggiornamento agli organi collegiali per il governo della scuola, rivelatasi anche in questo settore più controproducente che efficace. (11) La scuola italiana verso il 2000, a cura di Benedetto Vertecchi, Firenze, La Nuova Italia, 1984 (Atti del Convegno, Roma, 1-4 dicembre 1983).


34

ALDO A. MOLA BIBLIOGRAFIA SOM~A

(*) Sull'insegnamento della storia contemporanea nella scuola rinviamo altresì alle seguenti opere: GIANO ACCAME, Il quadro politico t l'evoluvone della srxieJà italiana, in Annali dtll'&onomia italiana - Milano, Roma, JPSOA, voli. XI-Xlll, 1982-84. ARTIERO ARCOMA1'0, Istruvone e ministri, scuole e maestri nel 1• de,mnio unitario, 1apoli, Conte, 1983. GIROLAMO ARNALOI, La stuola Ira abbinammti vt((hi e nuovi, in Quale ,ultura per la nuova scuola stfondaria a cura di C. PO~ECORVO, Firenze, La uova Italia, 1980, pp. 14 7-65. MARJO BENDISCIOLI-ROBERTO BERARDI, L'insegnamento della storia, Firenze, Le Monnier, 1963. ALDO BtRSELLI, I tesri di storia, «11 Mulino», 1961, nn. 104-105, pp. 445-50. DINA BERTONl JOVINE, Storia della stuola popolart in Italia, Torino, Einaudi, 1954. Io. La stuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Roma, Ed. Riuniti, 1958. ANTONIO BRUSA, G11ida al manuale di storia, Roma, Ed. Riuniti, 1985. GUIDO CALOGERO, Smola solfo in,hiuta, Torino, Einaudi, 1956. FRANCO CATALANO, Metodologia e insegnamento della storia, Milano, Feltrinelli, 1976. E.V. CERRUTI, Esame comparativo dei programmi nelle smol, stfondari, dassi,IN, in Ministero della Pubblica Istruzione, «Bollettino Ufficiale», 1887, ottobre. ROGER COUSINET, L'insegnamtnto della storia e l'educazione nuova, Firenze, La Nuova Italia, 1966. A1'"f01''10 DESIDERI, Snivtre storia. Problemi di metodo, Firenze-Messina, D'Anna, 1980. G. DI PIE'lllO, Poltrt politico e instgnamento della storia in Italia dalla jint dell'Ottocmto alla caduta dtl fasciJmo, «Quaderni dell'lst. per la storia della Resistenza in prov. di Alessandria» n. 2, pp. 19-43. GIOVANNI ELKA , Storia e preudostoria nei man11ali scolastid, in Jn;egnamento della storia nelle scuole, Roma, Libcrtas, 1953, pp. 53-67. EDOARDOGRENDI, Del senso com11ne storiografico, «Quaderni storici», 1979, n. 41. SclPI01'1'E GUARRACIJ\O, Guilia alla storiografia e didatlica della storia, Roma, Ed. Riuniti, 1983. ID., Smso della storia e immagini della storia contemporanea,in La scuola italiana verso il 2000, a cura di B. Vertecchi, Firenze, La uova Italia, 1984, pp. 189-92. GIUSEPPE I 'IZERJLLO, Storia della poliJica mJ/aslica in Italia, Roma, Ed. Riun. 1974. RAFFAELLA LAMBERTI, Per 11n laboratorio di storia, «Italia contemporanea», 1978, n. 132, pp. 75-88. VERA LO\IBARDl, IVO MATIOZZI, SCIPIOJ\'E GUARRACI O cd altri, Materiali preparatori ptr il Seminario nazionale s11/la didattka dtlla storia (1983), « otizie e documenti dell'lst. Naz. per la storia del Mov. di Libcraz. io Italia» nn. 15- 16, Milano, 1983. GIUSEPPE MA.\fMARELLA, L'Italia dopo ilfascismo, I 943-73, Bologna, li Mulino, 1974. GIACO.\tO MARTINA S.J., St11dio e insegnamento della storia in La conoscen~ storica, Roma, A VE-Uciim, 1963, pp. 9-142. Tvo MATIOZZJ, Contro il Man11ale, per la storia ,ome ri&er,a, «Italia contemporanea», cit., n. 131, pp. 63-79. ALDO D. MOLA, Michele Coppino: scritti e discorsi, Alba, Famija Albeisa, 1978. La storia contemporanea e la ricerca locale nella sC11ola, Mantova, Istituto per la storia del Mov. di Liberazione del Mantovano, 1982. Mn-.lSTERO P. l STRUZIOl\'E, Programmi per vari gradi e tipi di scuola proposti dalla Consulta Didaltica, Firenze, Vallecch.i, 1952.


L'INS EGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMENTO SCOLASTlCO ITALIANO

35

NATALE-COLUCCI-NATOLI, La scuola in Italia dal 1859 ai decreti delegati, Milano, Mazzotta, 1975. FRANCESCO PITOCCO, Come si diventa insegnanti di storia, «Riforma della scuola» 1982, nn. 9-10, pp. 53-54. GIUSEPPE RICUPERATI, L'insegnamento della storia dall'età della Sinistra a oggi, in «Società e storia», n. 1979, n. 6, pp. 673-792. ID., Insegnamento della storia e riforma della scuola in Alti del Convegno di Messina della Società degli storici italiani, 5-7/9/ 1978, a cura di G. BurrA e L. D E ROSA, Messina, 1980 (ove anche GAETANO CINGARI, Manuali di ieri e di oggr). ID., La scuola italiana e i/fascismo, Bologna, Consorzio provinciale pubblica lettura, 1977. G. RICUPERATI-C. CANESTIRI, La scuola in Italia dal/~ legge Casali a oggi, Torino, Loescher, 1976. Senato della Repubblica, VB Commissione, D.D.L. 52, Nuovo ordinamento della scuola secondaria superiore, in «Scuola e insegnanti>>, 1984, pp. 1316-24. Senato della Repubblica, Resoconto, sommario, Venerdi 16/ 11/ 1984. Interventi di Mezzapesa, Chiarante, Biglia e Ulianich su Nuovo ordinamento della scuola secondaria superiore (bozze non corrette). T ABARRJNI e altri, Relazione a SE il Min. dell'Istr. sugli esami di licenza liceale del 1866 e ss., M.P.I. «B.U .», 1887, aprile; 1888, ecc. G IUSEPPE TA LAMO, La scuola dalla legge Casati all'inchiesta del 1864, Milano, Giuffrè 1960. M.P. TANCREDI-T ORELLI, La scuola a tempo pieno, Firenze, Guaraldi, 1976. Relazione del corpo ispettivo su/l'andamento generale dell'allività scolastica e relativi servizi per l'a.s. 1981-82, Min. P.l. «B.U.» 1-8 sett. 1983, nn. 35-36. TINA T OMASI, L'idea laica nell'Italia contemporanea (1870-1970), Firenze, La Nuova Italia,

1971. PASQUALE VI LLARI, L'insegnamento della storia, Milano, Treves, 1869.


36

ALDO A. MOLA

APPENDICE -1D.P.R. 13 giugno 1958, n . 585. - Programmi p er l'insegnamento dell'educazione civica negH istituti e scuole di istruzione secondaria e artistica. PREMESSA L'educazione civica si propone di soddisfare /'esige11Z,11 che tra scuola e vita si creino rapporti di mu/t1a collaborazione. L'opinione pubblica avverte imperiosamente, se pur confusamente, /'esige11Z,11 che la vita venga a fecondare la cultura scolastica, e che la scuola acquisti nuova virtù espansiva, aprendosi verso le farme e le strutture della vita associata. La scuola a buon diritto si pone come coscienza dei valori spirituali da trasmettere e da promuovere, tra i quali acquistano rilievo quelli sociali, che essa deve accogliere nel suo dominio cultura/e e critico. Le singole materie di studio non bastano a soddisfare tale esige11Z,11, specie alla stregua di tradizioni che le configurano in modo particolaristico e strumentale. Può accadere infatti che l'allievo concluda il proprio ciclo scolastico se11Z,/1 che abbia piegato la mente a riflettere, con organica meditazione, sui problemi della persona umana, della libertà, della famiglia, della comunità, della dinamica internazionale, ecc. Nozioni sui problemi accennati sono accolti in modo limitato e frammentario sì che i princìpi che con la loro azione, spesso invisibile, sollecitano gli individui e le società, restano velati anche nelle discipline, come le lingue, la storia, la filosofia, il diritto, nelle quali pur sono impliciti. La scuola giustamente rivendica il diritto di preparare alla vita, ma è da chiedersi se, astenendosi dal promuovere la consapevolezza critica della strutturazione civica, non prepari piuttosto solo a una carriera. D'altra parte il fare entrare nella scuola allo stato grezzo i moduli in cui la vita si articola non può essere che sterile efinanche deviante. La soluzione del problema va cercata dove essa è iscritta, e cioè nel concetto di educazione civica. Se ben si osservi /'espressione «educazione civica» con il primo termine «educazione» si immedesima con i/ fine della scuola e col secondo <(civica» si proietta verso la vita sociale, giuridica, politica, verso cioè i princìpi che reggono la collettività e le forme nelle quali essa si concreta. Una educazione civica non può non rapportarsi a un determinalo livello mentale ed effettivo. Il livello dello sviluppo psichico si è soliti segnalar/o a tre diverse altezze: il primo nel periodo 6- 11 anni,· il secondo nel periodo 11- 14 anm~· il terzo nel periodo 14-18 anni.


L'INSEGNAMENTO DELLA STORL'\ NELL'ORO!NAMENTO SCOLASTICO ITALIANO

37

È evidente che per l'educazione civica si deve tener conto soltanto di questi livelli che, sia pure con approssimazione empirica, sono indicati dall'età. Un alunno dell'avviamento, ad esempio, e un alunno di scuola media seguono ancora programmi scolastici differenti, ma unico sarà il contesto dell'educazione civica. Ed è proprio questo svolgimento per linee oriZ<,ontali che alla educazione civica dà virtù formativa in quanto ignora differenze di classi, di censi, di carriere, di studi. Se pure è vero che ogni insegnante, prima di essere docente della sua materia, ha da essere eccitatore di moti di coscienza morale e sociale; se pure è vero, quindi, che l'educazione civica ha da essere presente in ogni insegnamento, l'opportunità evidente di una sintesi organica consiglia di dare ad essa quadro didattico e perciò di indicare orario e programmi, ed induce a designare per questo specifico compito il docente di storia. È la storia infatti che ha dialogo più naturale e perciò più diretto, con l'educazione civica, essendo a questa concentrica. Oggi i problemi economici, sociali, giuridici non sono più considerati materie di specialisti, in margine quindi a quella finora ritenuta la grande storia. L'aspetto più umano della storia, quello del travaglio di tante genti per conquistare condizioni di vita e statuti degni della persona umana, effre, quindi, lo spunto più diretto ed efficace per la trattazione dei temi di educazione civica. L'azione educativa dovrà, dunque, svilupparsi in relazione agli accennati tre diversi livelli dello sviluppo psichico. Nulla è da dire per quanto riguarda il ciclo della scuola primaria, per la quale si è provveduto col D.P.R. 14 giu. 195 5, n. 5 O3. In rapporto al primo ciclo ( 11 - 14 anni) della scuola secondaria è da tener presente che l'influenza deifattori sociali è in questo periodo dominante. Mentre, però, la scoperta dei valori estetici, morali, religiosi, è immediata, quella dei valori civici è più lenta ed incerta per cui, se a questi ultimi manca un ausilio chiarificatore, non è improbabile che essi restino allo stato embrionale. L'educatore non può ignorare che in questo delicato periodo si pongono premesse di catastrofi o di salveZ<,a, le quali, se pur lontane, hanno segni premonitori, che occorre sapere interpretare. Ma l'impegno educativo non può essere assolto con retorica moralistica, che si diffonda in ammonizione, divieti, censure: la lucidità dell'educatore rischiari le eclissi del giudizio morale dell'alunno e si adoperi a mutare segno a impulsi asociali, nei quali è pur sempre un potenziale di energia. Conviene al fine dell'educazione civica mostrare all'allievo il libero confluire di volontà individuali nell'operare collettivo. Se non tutte le manifestazioni della vita sociale hanno presa su di lui ce n'è di quelle che però ne stimolano vivamente l'interesse. Il lavoro di squadra, per esempio, ha forte attrattiva in questa età, onde l'organiZ<.azione di «gruppi di lavoro)> per inchieste e ricerche d'ambiente, soddisfa il desiderio di vedere in atto il moltiplicarsi della propria azione nel convergere di intenzioni e di sforzi comuni, e svela aspetti reali della vita umana.


38

ALDO A. MOLA

Attraverso l'uliliz:,,,azione, poi, della stessa organiZZPzione della vita scolastica, come viva esperienZtJ di rapporti sociali e pratico esercizio di diritti e di doveri, si chiarirà progressivamente che la vita sociale non è attività lontana e indifferente, cui solo gli adulti abbiano interesse e che lo spirito civico, lungi da ogni convenzionalismo riflette la vita nella sua forma più consapevole e più degna. All'aprirsi del secondo ciclo, verso il quattordicesimo anno, la scoperta di se stesso è ricerca e avventura, che ha per schermo preferito la società. La lente interiore di proiezione è però deformante. L'azione educativa in questa fase di sviluppo psichico sarà indiriZZPla a costituire un solido e armonico equilibrio spirituale, vincendo incertezze e vacillamenti, purificando impulsi, uliliZZPndo e incanalando il vigore, la generosità e l'intransigenZtl della personalità giovanile. Alcune materie di studio, come la filosofia, il diritto, l'economia hanno /ematica civica ricchissima e, per così dire, diretta. La storia della libertà traluce dalle pagine di queste discipline. Sarà utile accostarsi anche a qualche testo non compreso nel programma scolastico. Platone nel libro VIII della «Repubblica» potrà per esempio farci comprendere l'evoluzione di certe democrazie attuali, Seneca sa farci vedere come la società riduce in dirillo il privilegio e l'ingiuria. Nel suo pensiero l'aspirazione sacrosanta al costituirsi di un diritto di umanità ha accenti di vera commozione. E i cinque secoli che debbono passare prima che questo diritto diventi definizione di dottrina giuridica, daranno, agli alunni il senso del lungo travaglio della verità prima che possa far sentire la sua voce. Il processo di conquista della dignità umana nella solidarietà sociale è, nei suoi momenti fondamentali, presente nella cultura scolastica ma occorre renderlo chiaro e vivo nei giudizi e negli affetti degli alunni onde ogni con,unità, da quella familiare a quella nazionale, non sia considerata gratuita ed immutabile. La /endeflZtl a vedere nel gruppo una struttura naturalistica è costante negli alunni, che credono di vivere nella propria comunità come nel paesaggio, del quale non è possibile mutare natura. Trarre appunto l'alunno dal chiuso di questo cerchio, dove non è visibile raggio di libertà né moto di ascesa, è obbiettivo primario. Si potrà cominciare col muovere la fantasia degli alunni mediante immagini rovesciale, la/i cioè da mostrare la loro vita e quella dei loro cari scardinata dalla Iute/a invisibile della legge, o proietta/a in un passalo schiavista, o mortificala dall'arbitrio e dall'insolenZP di caste privilegiale, o alla mercè dell'avidità, della violenZtJ e della frode. Il riferimento storico potrà man mano rendersi più diretto e puntuale. Sia pure in forma piana l'insegnante dovrà proporsi di tracciare una storia comparativa del potere, nelle sue forme istituzionali e nel suo esercizio, con lo scopo di radicare il convincimento che morale e politica non possono legittimamente essere separate, e che pertanto mela della politica è la piena esplicazione del valore dell'uomo.


L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMENTO SCOLASTICO ITALlAKO

39

La consapevolez;za dunque che la dignità, la libertà, la sicurez;za non sono beni gratuiti come l'aria, ma conquistati, èfondamento dell'educazione civica. Dal fatto al valore è l'itinerario metodologico da percorrere. Per gli allievi idee come libertà, giustizia, legge, dovere, diritto, e simili solo allora saranno chiare e precise, quando le animi un contenuto effettivo, attinto alla riflessione suifatti umani, sì che l'io profondo di ciascuno possa comprenderle e sia sollecitato a difenderle con un consenso interiore, intransigente e definitivo. Il campo dell'educazione civica, a differenza di quello delle materie di studio, non è definibile per dimensioni, non potendo essere delimitato dalle nozioni, e spingendosi invece su quel piano spirituale dove quel che non è scritto è più ampio di quello che è scritto. Se l'educazione civica mira, dunque, a suscitare nel giovane un impulso morale a secondare e promuovere la libera e solidale ascesa delle persone nella società, essa si giova, tuttavia, di un costante riferimento alla Costituzione della Repubblica, che rappresenta il culmine della nostra attuale esperienza storica e nei cui principi fondamentali si esprimono i valori morali che integrano la trama spirituale della nostra civile convivenza. Le garanzie della libertà, la disciplina dei rapporti politici, economici, sociali e gli stessi istituti nei quali si concreta la organizzazione statale, svelano l'alto valore morale della legge fondamentale, che vive e sempre più si sviluppa nella nostra coscienza. Non è da temere che gli alunni considerino lontano dai loro interessi un insegnamento che non è giustificato da esigenze scolastiche. Essi potranno rifiutare consenso interiore a detto insegnamento solo quando vi sentano, vera o immaginaria, cadenza di politica. Ma il desiderio di <<essere un cittadino» più o meno consapevole, è radicato nei giovani, connatura/e alla loro personalità, ed è un dato fondamentale positivo per la loro completa formazione umana.

PROGRAMMA PRIMO CICLO

( scuola secondaria inferiore) Nella I e II classe della scuola secondaria l'educazione civica tende soprattutto a enucleare dai vari insegnamenti tutti quegli elementi che concorrono alla formazione della personalità civile e sociale dell'allievo. Tuttavia possono essere trattati in modo elementare, i seguenti temi: la famiglia, le persone, i diritti e i doveri fondamentali nella vita sociale, l'ambiente e le sue risorse economiche ( con particolare riguardo alle attività di lavoro), le tradizioni, il


40

ALDO A. i\'10LJ\

comportamento, l'educazione stradale, l'educazione igenico-sanitaria, i servizi pubblici, le istituzioni egli organi della vita sociale. Classe III. - Princìpi ispiratori e lineamenti essenziali della Costituzione della Repubblica Italiana. Diritti e doveri del cittadino. Lavoro, sua organi:a,azione e tutela. Le organi:a,azioni sociali di fronte allo Stato. Nozioni generali sull'ordinamento dello Stato. Princìpi della cooperazione internazionale. Nell'ambito dell'orario fisso per l'insegnamento della storia il docente dovrà destinare due ore mensili alla trattazione degli argomenti suindicati. SECONDO CICLO

(scuola secondaria superiore) Nelle classi del primo biennio gli argomenti da trattare sono i seguenti: Diritti e doveri nella vita sociale. li senso della responsabilità morale come fondamento dell'adempimento dei doveri del cittadino. Interessi individuali ed interesse generale. I bisogni collettivi. I pubblici servizi. La solidarietà sociale nelle sue varie forme. Il lavoro, sua organi:a,azione e tutela. Lineamenti dell'ordinamento dello Stato italiano. Rappresentanza politica ed elezioni. Lo Stato e il cittadino. Nelle classi del triennio successivo gli argomenti da trattarsi sono i seguenti: Inquadramento storico e principi ispiratori della Costituzione della Repubblica Italiana. Doveri e diritti dell'uomo e del cittadino. La libertà, sue garanzie e suoi limiti. La solidarietà sociale nello Stato moderno, in particolare i problemi sociali anche con riferimento alla lqro evoluzione storica. Le formazioni sociali nei quali si esplica la personalità umana. La famiglia. Gli enti autarchici. L 'ordinamento dello Stato italiano. Gli organi costituzionali, in particolare formazione e attuazione delle leggi. Gli organismi internazionali e supernazionali per la cooperazione tra i popoli. Nell'ambito dell'orario fissato per l'insegnamento della storia il docente dovrà destinare due ore mensili alla trattazione degli argomenti suindicati.

APPENDICE -Il-

DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA -

6

novembre 1960, n.1457. Nuovi programmi per l'insegnamento della storia nei Licei classici, nei Licei scientifici e negli Istituti magistrali.


L'INSEGNAMENTO DELLA STORlA NELL'ORDTNAMEKTO SCOLASTICO l'f ALIANO

41

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Veduto il regio decreto-legge 1O aprile 19 3 6, n. 6 34, convertito nella legge 28 maggio 1936,n. 1170; Veduta la legge 2 agosto 195 7, n. 6 9 9; Ritenuta l'opportunità di adottare nuovi programmi di insegnamento della storia negli Istituti d'istruzione classica, scientifica e magistrale; Udito il parere del Consiglio superiore della pubblica istruzione; Sulla proposta del Ministro per la pubblica istruzione; Decreta: I programmi di insegnamento della storia, in vigore negli Istituti di istruzione classica, scientifica e magistrale, sono sostituiti, con effetto dall'anno scolastico 1960- 1961, dai programmi allegati al presente decreto vistati dal Ministro proponente. Le istruzioni per la prima attuazione dei nuovi programmi sono impartite dal Ministro per la pubblica istruzione. Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserto nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica Italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. Dato a Roma, addì 6 novembre 19 6 O

Bosco

GRONCHI

[omissis]

LICEO CLASSICO* Classe III

L'età contemporanea La Restaurazione. Contrasti e lotte per la libertà e l'indipendenZ12 dei popoH I problemi del Risorgimento. Il 1848 in Europa e in Italia: guerre e lotte per /'indipendenZ12 italiana. Lo Stato unitario italiano: problemi, contrasti e sviluppi. I grandi problemi mondiali alla fine del secolo XIX: trasformazione e sviluppi nel campo dell'economia e della tecnica; il travaglio economico-sociale e le lotte di classi: imperialismi e colonizzazioni; i rapporti internazionali e l'equilibrio europeo. (*) I programmi per i licei scientifici e gl'istituti magistrali sono identici a quello del liceo classico e, pertanto, si omettono. ·


42

ALDO A. MOLA

Le guerre mondiali. La resistenz.a, la lolla di liberazione, la Costituzione della Repubblica italiana; ideali e realizz,,azioni della democrazia. Tramonto del colonialismo e nuovi Stati nel mondo. Istituti e organk:zazioni per la cooperazione fra i popoli. Comunità europea. Visto, d'ordine del Presidente della Repubblica

Il Ministro per la pubblica istru.zione

Bosco

APPENDICE -IIINuovi programmi per la scuola media (9 febbraio 1979) STORIA

I. -

Finalità e obiettivi

L'insegnamento della storia deve anzitutto proporsi difar comprendere che l'esperienZP del ricordare è un momento essenziale non solo dell'agire quotidiano del singolo individuo, ma anche della vita della comunità umana (locale, regionale, nazionale, europea, mondiale) cui l'individuo stesso appartiene. Solo diventando in qualche modo partecipe di questa memoria co/lelliva, si diventa uomini e dltadini, a pieno titolo. L'acquisita consapevolezz,,a delfatto che l'anno della propria nascita non è anche l'anno di nascita della comunità di cui si viene a far parte, arricchisce l'individuo di una dimensione nuova; radicandolo nel passato, lo mette in condizione di valutare con maggiore penetrazione il presente e di assumere elementi per progettare ilfuturo. Dal momento che risulta essere il prodotto di una lenta stratificazione, il mondo circostante cessa di apparire come un dato esterno ostile ed immutabile, per proporsi come un campo aperto a nuove esperienze che contribuiranno a farlo evolvere ulteriormente. Ciò corrisponde alla particolare e.sigenz.a del preadolescente di conoscere la vicenda umana non solo al fine di comprendere il passato, ma anche, e soprattutto, di dare un orientamento alla propria esistenZP con riferimento alla realtà che lo circonda. Su questo bisogno sifonda la possibilità di costruire e coltivare il «senso della storia)) come naturale premessa al formarsi di una vera e propria <<coscienZP storica)) che maturerà nell'adolescenZIJ.


L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMENrO SCOLASTICO lTALIANO

43

In concreto, l'obiettivo che l'insegnante di scuola media deve proporsi è queJ/o di condurre gli alunni sia a percepire la dimensione temporale delfenomeno storico, sia a rendersi conto di come il lavoro storiografico obbedisca a regole che garantiscono la genuinità dell'operazione e il controJ/o dei risultati, sia a considerare, come avvio di giudizio critico, le soluzioni che gli uomini e le società hanno dato nel tempo ai loro problemi. Ne deriva pertanto l'opportunità difar acquisire strumenti di verifica adeguati alla effettiva capacità degli alunni ai vari livelli di età e alle oggettive possibilità offerte dalia situazione locale.

II. -

Contenuti

Per quanto concerne la scelta dei contenuti meglio adatti a realizzare l'obiettivo educativo su esposto, considerato il carattere peculiare de/Ja scuola dell'obbligo, che deve fornire a tutti gli strumenti indispensabili alla comprensione deJ/a realtà, si suggerisce di privilegiare, nei/a progettazione deJl'azione didattica, gli aspetti connessi con la formazione e lo sviluppo (in particolare, ma non esclusivamente, nel mondo classico, e nell'Europa medievale, moderna e contemporanea) de/Je forme di organi~;<flzione della vita associata, nei loro risvolti politici ed economico-produttivi, nonché delle istituzioni giuridico amministrative e religiose, con continui riferimenti al variare dei modi di vita, al succedersi deJ/e espressioni linguistiche ed artistico-letterarie e alle tappe del progresso tecnico e scientifico in modo da <datare» concretamente i diversi momenti e le diverse età che scandiscono l'evoluzione deJ/e forme di vita associata. Per conseguire tale risultato, che è essenziale ai fini dell'acquisizione del senso della <<dimensione temporaleJJ, debbono essere utilizzati i riferimenti cronologici collegati a fatti o prodotti che connotano le diverse epoche storiche. Invenzioni e scoperte, arti e scienze, progresso tecnologico e grandi movimenti di pensiero, coerentemente inseriti nella successione dei momenti di sviluppo della civiltà, costituiscono un tessuto di elementi capaci di far cogliere all'alunno il fluire del tempo nell'arco del divenire della storia. Si rileva, tra l'altro, la necessità difornire l'informazione basilare sull'origine e sulla storia delle singole minoranze linguistiche presenti in Italia e ciò in particolare modo neJ/e zone abitate da dette minoranze. AJl'interno di questa rete di riferimenti cronologici e rivolgendo sempre una preminente attenzione alla contemporanea evoluzione delle diverse forme di vita associata, si co/Jocheranno la ricostruzione e lo studio deifatti storici propriamente detti e l'analisi degli elementi che su di essi variamente incidono, tenendo sempre presente la necessità di impegnare l'alunno in attività che stimolino le sue capacità e il suo spirito di iniziativa. Ciò risulta tanto più importante se ci si pone neJJa prospettiva dell'educazione permanente e se si tiene conto del carattere orientante di ogni disciplina nella scuola


44

ALDO A. MOLA

obbligatoria non solo ai fini deiia prosecuzione degli studi, qualora ciò awenga, ma anche per un resp(Jnsabiie inserimento in ogni tipo di attività lavorativa; è essenziale perciò che ii preadolescente acquisisca sufficiente consapevoi~a dei metodi, deiie operazioni e dei linguaggio che sono propri del lavoro storiografico.

III. -

Suggerimenti metodologici

T aie lavoro consiste in tutta una serie di operazioni ( quali ii reperimento e la consultazione di fonti, la formulazione di ipotesi, la selezione di dati, l'analisi di documenti anche non scritti, l'individuazione di raccordi con altri fatti contemporanei o successivi) che poss(JnO essere riprodotte a fini didattici a un liveiio di sperimentazione molto elementare. Tutto ciò, lungi daii'escludere l'intervento assiduo deii'insegnanle, io qualifica ne/Ja funzione deii'insegnare ad apprendere, e gli consente svariale forme di insegnamento individualizzato. Alfine però di evitare che le singole esercitazioni assumano carattere frammentario ed episodico, costituendosi ciascuna come esperien~ a se stanle, sarà cura del docente inserire in una linea organica di svolgimento, sen~ <rsaith> contrari, raccordandoli con ampie sintesi, gli argomenti che vengono dati oggetto di un più specifico approfondimento. Tali approfondimeflti offriranno altresì la migliore occasiofle per stabilire collegamenti organici con tutte le altre discipline, di volta ìn volta chiamate, da sole o per gruppi, ad integrarsi con la ricerca storica, a seconda del tipo di problema affrofltato. A titolo di esempio, si ricordano le connessioni con la storia de/Ja lingua, cofl le letture antologiche, con la geografia, con l'educazione artistica, n1usicale, scientifica e tecnica. La storia è infatti una disciplina complessa, peculiare fra le scienze dell'uomo, in quanto dà eviden~ al tpico potere umano dì produrre cultura, nella più articolata accezione del termifle. Conviene pertanto che, escludendo ogniforma di enciclopedisn10, l'insegnante punti a dare il gusto della ricerca, che potrà proseguire aflche fuori deiia scuola, parallelamente alla esperien~ dì vita, purché si sia acquisito, anche attraverso la consuetudine con la lettura libera, l'interesse per tale tipo di indagine e purché il preadolescente abbia maturato in sé la consapevolezza che tutti gli uomini, lutti i popoli, l'umanità intera sono prolag(Jnisti de/Ja storia. Per quanto attiene poi alle verifiche periodiche efinali del processo di apprendimento, esse dovranno sempre essere costruite suiia base del lavoro e.ffettivamente svolto, nella lrplìce prospettiva di: accertare l'acquisizione e l'organi'-<:<.azione dei concetti e delle conoscenze; - accertare ìl possesso dei metodi dì ricerca; - accertare il livello di sviluppo di capacità e abilità generali e specifiche. Sembrano pertanto da valorizzare anche le verifiche pratiche e scrille, ( utilìz~ndo a tale scopo le visite a musei e monumenti, il reperimento di fonti, la scelta e


L'INSEGNA MENTO DELLA STORIA NELL'ORDINAMENTO SCOLASTICO ITALIANO

45

l'elaborazione di dati da documenti, l'uso di bibliografie ecc.) che consentono omogeneità, oggettività efrequenza di controlli e un loro pratico impiego didattico. Lo sviluppo delle capacità di esposizione orale sarà curato nel corso delle discussioni e nei momenti di dialogo che il piano di lavoro dovrà comunque prevedere.

IV. -

Suddivisione per anno

L'indicazione della suddivisione annuale della materia si limita volutamente alla individuazione dei termini cronologici in modo da lasciare al consiglio di classe la programmazione curriculare, possibile solo in quella sede, in rapporto all'effettivo e verificato livello di partenza degli alunni. In altri termini l'indicazione dei contenuti non significa necessariamente trattazione dettagliatamente svolta per argomenti, ma, nel caso lo esiga la funzionalità del processo di insegnamento, e per particolari periodi storici~ lo svolgimento potrà avvenire su linee di sviluppo fondamentali, caratterizzanti l'epoca,fra loro raccordate da opportune sintesi: Si raccomanda, in particolare, che anche in connessione con il programma di educazione civica l'insegnante si preoccupi di svolgere il programma del III anno in n1odo che esso dia ampio spazio alla trattazione dei problemi della vita contemporanea. Classe I: daJJa preistoria al IX secolo; Classe II: dal X secolo al 1815; Classe IIl: daJ 1815 ai giorni nostri con riferimenti essenziali all'Europa, al mondo, alla decolonizzazione. Si avrà particolare riguardo all'Italia nell'ultimo cinquantennio, nel quadro della storia mondiale.

EDUCAZIONE CIVICA

I. -

Finalità generali e obiettivi

L'educazione civica, intesa come finalità essenziale dell'azione formativa della scuola, esige il responsabile impegno di tutti i docenti e la convergenza educativa di tutte le discipline e di ogni aspetto della vita scolastica. Essa è, pertanto, un grande campo di raccordo culturale, interdisciplinare, che ba anche suoi contenuti specifici rappresentati dalle inform.azioni sulle forme e sulle caratteristiche principali della vita sociale e politica del Paese e che richiede interventi coordinati del consiglio di classe intesi afar maturare la coscienza delle responsabilità morali, civiche, politiche, socialz~ personali e comunitarie difronte ai problemi dell'umanità, nel contesto sociale italiano, europeo, mondiale e, quindi, a far acquisire comportamenti civilmente e sociabnente responsabili.


46

ALDO A. MOLA

In tale prospettiva la scuola attua il suo impegno di educazione civica attraverso il contatto col mondo civile e la presa di cosciem:,p dei valori sui quali si fonda la Costituzione, l'offerta di conoscenza di problemi e di metodologie per la valutazione critica deifatti, nonché attraverso un concreto esercizio di vita democratica nella SCIIOla, di ricerca e di dialogo nel rispetto più attento della libertà di cosciem:,p morale e civile degli alunni. Obiettivi che l'educazione civica, come impegno costante del consiglio di classe, deve perseguire cogliendo tutte le occasioni educative e didattiche più opportune, sono: a) la maturazione, da parie dell'alunno, degli orientamenti che sostanziano la responsabilità personale all'interno della società, l'iniziativa civica e la solidarietà umana; b) la conquista di una capacità critica che permetta alla persona di darsi dei criteri di condotta, di comprendere la funzione delle norme che consentono un correi/o SIIO/gersi della vita sodale, di definire il rapporto intercorrente tra libertà individuale ed esigenze della comunità: ciò nell'intento di porre l'alunno nella condizione di analizzare i vari aspelli dei problemi e di tendere all'obiettività del giudizio; c) la crescita della volontà di partecipazione come cosciem:,p del contributo che ciasC11no deve portare alla risoluzione dei problemi dell'uomo, della società nazionale ed internazionale. A talfine il consiglio di classe utilizzerà nella sua programmazione i contributi che possono essere offerti dallo studio dei principi costituzionali e delle istituzioni che sono alla base della organizzazione democratica dello Stato: identificherà i problemi che possono essere oggetto di analisi interdisciplinari,farà riferimento anche a significativi aspetti del rapporto con la dimensione europea e mondiale dei problemi, con particolare riguardo a quello del sottosviluppo dell'uomo e dei popoli, sentito come positiva sfida del nostro tempo. Il. -

Contenuti specifici della disciplina

L'educazione civica, quale specifica materia d'insegnamento, esplicitamente prevista dal piano di studi, ba come oggetto di apprendimento le regole fondamentali della convivenza civile, come risultati di un processo storico pervenuto a formulazioni giuridiche positive e come presupposto per ulteriori S11iluppi. Il relativo insegnamento è a.ffìdato al docente di materie letterarie per la riconosciuta opportunità di sviluppare la trattazione dei suoi contenuti specifici in costante correlazione con l'insegnamento della storia. Il nucleo fondamentale di tali contenuti è dato dal testo della Costituzione italiana, leg,g,e fondamentale dello Staio e sintetica espressione della nostra civile convivenza che abbisogna del concorso di tutte le forze per la sua completa attuazione. La co11,prensione della Costituzione - che giwerà anche a dare sistemazione, quasi secondo un indice ragionato, agli altri temi di educazione civica - avrà un


L'INSEGNAMENTO DELLA STORJA NELL'ORDINAMENTO SCOLASTICO ITALIANO

47

momento più organico nella classe terza, in quanto lo consentono l'età e l'esperienza ragg,iunta dagli allievi. Nelle classi prima e seconda lo studio, pur avviando, appena possibile, alla conoscenza del testo costituzionale, assumerà la forma di una considerazione sui valori umani e sociali insiti nell'esperienza di vita comunitaria dell'alunno ( la famiglia, il gruppo, la comunità scolastica ... ). La stessa esperienza della classe scolastica, anche nei momenti della sua eventuale articolaz,ione in gruppi dovrà essere utilizzata, anche in sede di riflessione specifica, per giungere alla scoperta, al suo interno, dei ruoli e delle strutture di questo microcosmo che deve essere organizzato secondo le esigenze del metodo democratico e della partecipazione responsabile; così pure dovranno essere presentati gli organi collegiali della scuola previsti dai decreti delegati del 19 74 e, per quanto possibile, sperimentate le forme di partecipazione alla vita della scuola anche in vista di più ampio impegno nella scuola secondaria superiore. Accanto al nucleo delle norme costituzionali, e raccordate con esse, saranno rese comprensibili, in forma semplice ed adatta all'età degli allievi, le funzioni di taluni istituti fondamentali del/'()rdinamento pubblico e privato, la cui conoscenza aiuti a comprendere i meccanismi sempre più complessi della società contemporanea. In tale quadro, potranno essere trattati, ad esempio, temi attinenti alla persona, alla famiglia, alle comunità territoriali, all'ordinamento della giustizia, al sistema tributario, al lavoro, alla sua organizzazione, alla sua tutela e alle sue condizioni di sicurezza, all'educazione stradale, all'educazione sanitaria, alla cooperazione internazionale. Gli scambi sempre più frequenti, le interdipendenze delle economie, le necessità della cooperazione internazionale rendono, inoltre, necessaria la conoscenza delle funzioni e delle attività dei principali organismi di cooperazione ed integraz,ione europea nonché degli altri organismi internazionali. Nel quadro delle finalità dell'educazione civica trova una sua collocazione l'attenzione per i problemi delle minoranze linguistiche - da approfondire in modo particolare nelle zone in cui esse sono presenti - per quanto riguarda il loro significato sul piano sociale e gli ordinamenti ad esse riferiti.

III. -

Suddivisione della materia per anno

Classi I e Il Partendo dall'esperienza diretta della classe scolastica si valorizzi la progrediente capacità del preadolescente di inserirsi nel lavoro comune di gruppo, della classe, della scuola, sicché egli possa via via realizzare una riflessione consapevole sui valori umani e sociali insiti nelle sue esperienze di vita comunitaria ( la famiglia, il gruppo, la comunità scolastica) e sui diritti e sui doveri relativi alle varie forme di vita sociale.


48

ALDO A. MOLA

I temi da affrontare saranno graduati, con opportuni riferimenti al testo della Costituzione, passando dalla famiglia e dalla comunità scolastica alle più complesse forme di aggregazione comunitaria (gruppi associativi, partiti, sindacati, comune, provincia, regione, Stato, organismi della cooperazione internazionale, con particolare riguardo alla Comunità europea). Si evidenzi comunque, appena lo si riterrà possibile, il principio della partecipazione responsabile alla vita politica, caratteri~nte tutte le forme associative sopra indicale e ben presente nel testo della Costituzione. Classe ID. Studio della Costituzione, con riferimenti alla sua genesi, ai suoi principi ispiratori e alla sua attuazione; opportuni raffronti con testi costituzionali di altri Stati, sopra/lutto europei. Trattazione elementare di taluni temi attinenti ad istitutifondamentali dell'ordinamento pubblico e privato. Principi e organismi della cooperazione europea ed internazionale.

APPENDICE -IVDisegno di legge n. 52- «Nuovo ordinamento della scuola secondaria superiore» (Testo approvato dalla r Commissione del Senato) (marzo 1985) TITOLO I 0RDI1 AMENTO

[omissis]

Art. 3 Articolazione degli studi ( 1) I piani di studio della Scuola secondaria superiore comprendono: - discipline dell'area comune; - discipline di indirizzo; - pratica di laboratorio e di lavoro anche con carattere di tirocinio; - eventuali disciplù,e ed attività elettive. (2) L'insegnamento della religione è assicurato nel quadro delle finalità della Scuola secondaria superiore.


L'INSEGNAMENTO D ELLA STORIA NELL'OROU-IAMENTO SCO LASTICO ITA LIANO

49

( 3) Detto insegnamento si svolge in conformità al Concordato tra lo Stato e la Santa Sede ed alle intese stabilite con le rappresentanze delle altre confessioni religiose ai sensi degli arti. 7 e 8 della Costituzione. Sarebbe troppo lungo e, per questa sede, fuorviante ricordare e commentare i mutamenti a tal riguardo introdotti dopo la revisione del Concordato. Ci limitiamo a segnalare che l'insegnamento di una disciplina scolastica - la religione - dall'a.s. 1986-87 è surrogabile con un'ora suppletiva di altre discipline ordinarie (storia, educazione civicaJìlosofia) o con <(Spazi individuali di studioJX gli uni e gli altri attuati dal corpo docente. su indicazione degli utenti, così dilatando il principio, peraltro larvatamente operante da quasi un ventennio, secondo il quale sono allievi e genitori a delineare fini e metodi dell'insegnamento. ( 4) La pratica di lavoro, di cui al 1• comma del presente articolo, è definita dal consiglio di classe, con riferimento allo sviluppo del programma didattico. Essa è realiz:?JJta, di norma, in collaborazione con le strutture produttive di servizi e di formazione professionale, attraverso forme opportunamente clisciplinate da.I consiglio d'istituto, nel quadro previsto dall'art. 31.

Art.4 Area comune ( 1) L'area comune costituisce ilfondamento unitario della formazione secondaria superiore. ( 2) Le materie dell'area comune articolate nel corso del quinquennio, banno l'obiettivo di approfondire criticamente conoscenze, linguaggi e strumenti di analisi relativi allo sviluppo deHa storia umana nelle sue più rilevanti espressioni: artistica, economica-sociale e politica, filosefica, giuridica, linguistico-letterario, logicomatematica, religiosa, scientifica. ( 3) La indicazione degli ambiti culturali di cui al comma precedente non implica che ad ognuno di essi corrisponda una distinta materia. ( 4) Nell'ambito degli insegnamenti sia dell'area comune sia di indirizzo, vengono opportunamente assicurati i fondamenti della informatica e la dimensione tecnologico-operativa, con riferimento alle specifiche esigenze dei vari indirizzi. ( 5) A partire dal terzo anno decresce l'orario complessivo delle materie dell'area comune. ( 6) Dette materie hanno programmi comuni e stesso numero complessivo di ore in tutti gli indirizzi; quando siano specificamente funzionali ad un indirizzo, si articolano e si sviluppano in modo da corrispondere alle finalità proprie dell'indirizzo stesso. ( 7) Per tutta la durata del quinquennio nell'area comune è obbligatorio l'insegnamento di almeno una lingua straniera. T aie insegnamento non ha carattere obbligatorio nelle scuole delle minoranze linguistiche riconosciute dalla legge ad eccezione di quelle slovene. ( 8) La definizione delle discipline e la loro articolazione nel ciclo quinquennale sono determinate ai sensi dell'articolo 24.



ROMAIN H. RAINERO

LA GUERRA DI LIBERAZIONE NELLA MANUALISTICA SCOLASTICA: I TESTI DI STORIA Nell'affrontare un tema cosl importante quale l'inserimento nei manuali scolastici della storia della Resistenza e de!Ja Guerra di Liberazione conviene enunciare subito alcuni problemi che a questo inserimento sono direttamente collegati sul piano didattico, su quello cronologico e su quello culturale. Diciamo innanzitutto che l'esigenza di non fermare la narrazione e quindi la presa di coscienza dei giovani all'inizio della seconda guerra mondiale è da tempo sentita ed in molti casi da decenni già risolta sul piano del manuale. Questo spostamento cronologico dell'interesse dei programmi di studio da quasi vent'anni è iscritto nelle circolari ministeriali a proposito dei vari programmi d'insegnamento ma la realtà delJ'insegnamento richiede alcune cautele circa questo aspetto. Si tratta di sapere come il periodo contemporaneo e quello che lo precede immediatamente cioè la Resistenza e la Guerra di Liberazione è trattato dal manuale e quindi di sapere se nella realtà dell'insegnamento esiste oggi uno spazio critico didattico riservato a questo specifico periodo. La più evidente riprova che il problema esiste è contenuta nell'esperienza di ogni insegnante sensibile a questa problematica ed anche, per la sua forma clamorosa, nelle dichiarazioni di un Pertini che nel novembre 1978 nel suo discorso a Boves poteva esclamare: «Io mi sono sempre chiesto: come mai nelle scuole italiane non viene introdotta la storia dell'antifascismo e della Resistenza? Se avessimo introdotto questa storia nelle scuole già dopo la Liberazione, se avessimo fatto sapere ai nostri giovani che cosa è costata la libertà al popolo italiano, molti giovani che oggi sono su una strada di dannazione, sarebbero invece al nostro fianco a difendere la democrazia e la Repubblica». La fondatezza dell'osservazione di Pertini riguarda soprattutto la realtà della scuola italiana, realtà che prescinde dalle indicazioni vere e proprie relative a tale insegnamento contenute nei programmi ministeriali ed anche in taluni manuali per colpire nel segno della realtà scolastica vissuta. E questa vede per lo più sacrificata que-


52

ROMAIN l l. RAlNERO

sta ultima parte del programma o quanto meno banalizzata quando non è ritenuta parentesi difficile alla quale si preferisce il «seguito della storia» che è la nascita della nostra Repubblica che spesso appare agli occhi degli studenti più un accadimento temporale che una realtà vissuta e sofferta com'è stata in realtà. Il discorso si incentra quindi sull'insieme del problema che è quello dell'insegnamento della storia, del suo spazio nella didattica generale, della preparazione e sensibilità dell'operatore-docente ed infine del tipo di manuale che viene adottato dalla scuola e dal docente. I problemi si moltiplicano se il discorso viene collegato alle condizioni generali dell'insegnamento e della stessa evoluzione della scuola dell'obbligo che appare incompleta ancora oggi e che con questi ripetuti colpi di timone delle direttive ministeriali quanto alle strutture non ha ancora finito di offrire novità di contesto che certamente hanno a che fare con l'insieme dei problemi didattici della scuola ed anche quindi con l'insieme dei problemi dell'insegnamento della storia contemporanea. Non si tratta certamente di fare il processo a chicchessia bensì di tentare di ricostruire il tessuto di difficoltà che va ricordato allorquando si vuole fare un discorso omogeneo volto a vedere i problemi e non certo a stabilire responsabilità specifiche e colpe. Naturalmente in questo quadro il problema più evidente appare quello dei manuali, cioè di quegli strumenti che, collegati con più o meno ritardo all'evoluzione generale della società e delle direttive ministeriali dei programmi, sono il punto di riferimento più eloquente anche se ovviamente non esauriscono il panorama critico da evocare. li manuale appare così un punto qualificante di un'evoluzione che da alcuni decenni indubbiamente avviene nella scuola anche se ad essa va collegata un'attività creativa singola che costituisce come dice il Cousinet il «lavoro storico» dove l'insegnante e l'alunno partecipano insieme ad una ricerca di quei fatti e di quegli elementi che porteranno ad ulteriori approfondimenti e rinnovate discussioni (1 ). La filosofia di un tale momento didattico è chiaramente indicato dal Giardiello che ribadisce: «...Rifiutiamo l'idea che la scuola debba trasmellere n()Zioni o modelli interpretativi della dinamica sociale, ma (sono) i ragazzi stessi a scoprirli a/traverso una continua ricerca» (2). Non si tratta di uno stratagemma bensì di una metodologia che valga ad inserire nel vivo degli interessi dei giovani anche la storia che il Betta indica come elemento irrinunciabile di un sapere globale: «... Il problema riguarda... il metodo da seguire perché il ragaz:?,o si senta stimolato ad interessarsi della storia, a conoscerla, perché il suo studio non sia un'inutile fatica e la sua 'conoscenza' non finisca in un triste aborto di intellettualistico nme-


LA GUERRA DI LIBERAZIONE NELLA MANUALISTICA: I TESTI Dl STORIA

53

monismo, senza significato e valore>> (3). A questo riguardo nell'insieme della storia o meglio delle storie possibili, la storia dell'età presente o quella più drammatica che all'età presente ci ha portato assume un'importanza capitale. Nella tripartizione dei problemi storici che uno psicologo, Guido Petter, ha tracciato per l'insegnamento scolastico, il terzo livello appare introdotto utilmente dai primi due: «Anzitutto ci sono i problemi che riguardano la tecnica)>, cioè come gli uomini hanno affrontato e risolti i problemi che ci assillano e che costituiscono un quadro generale della situazione economica, sociale e storica dell'umanità. Quindi vi sono «alcuni fondamentali problemi umani» tra i quali «la schiavitù... la libertà politica... la libertà religiosa... la democrazia, ecc.». Ed infine un terzo gruppo che costituisce un po' la saldatura del discorso e cioè <<t1lcuni fondamentali problemi politici odierni... quei grandifatti che hanno avuto un valore cruciale nel senso che hanno determinato il passaggio da un certo tipo di civiltà ad un altro tipo» poiché «molti aspetti della nostra vita quotidiana risultano infatti comprensibili soltanto se si ha conoscenza di questifatti politici... » ( 4 ). Se queste sono le esigenze di fondo di un discorso sulla storia e la scuola italiana, bisogna pure dire che ad esse vanno collegati due elementi irrinunciabili per comprendere la situazione e la sua evoluzione: il primo è l'elemento base del messaggio storico nella scuola e cioè il manuale; il secondo l'evoluzione che il problema su impulso di alcuni e specie dopo la svolta del '68 ha subìto, e co~tinua a subire per effetto di riforme auspicate e di riforme avviate. E ovvio che un posto di primordiale importanza va riconosciuto al manuale ed alla sua evoluzione: dopo aver esaminato un numero discretamente elevato, quindi senz'altro rappresentativo, di manuali storici della scuola italiana di questi ultimi trent'anni posso solo convenire con soddisfazione evidente che una «certa» evoluzione si è verificata e ciò quasi a dispetto degli autori e delle st~sse case editrici spesso legati entrambi a schemi generazionali diversi per non dire contrari ad una evoluzione di fondo. Ma prima di tutto valgano alcune considerazioni preliminari. La prima si deve riferire all'ormai annosa questione sull'utilità o meno dei libri di testo con tutte le implicazioni che un tale discorso comporta. Sembrò in un certo momento del rinnovamento della didattica della storia nelle varie classi che il libro di testo tradizionale non potesse più avere posto per il fatto stesso che nella auspicata «ricerca storica» da realizzarsi in classe la presenza di un «testo» che di tutte le varianti e di tutte le interpretazioni ne privilegiasse una sola potesse essere di ostacolo alla creatività e quindi alla stessa ricerca. Anche qui la data che ha segnato


54

ROMAlN H. RAINERO

una svolta è il 1968, che ha posto in crisi i testi manualistici tradizionali con una serrata critica di ciò che essi rappresentavano nel mondo delle idee non digerite né discusse ed in quello di una scuola senza anima e senza ripensamenti. SuJl'onda di questa novità non sono mancate clamorose prese di posizione contro i manualj che non erano né utili, né completi, né produttivi. Molte indagini chiarirono queste idee di mutamento ma è stato soprattutto il tempo passato a meglio fare capire che in realtà la battaglia sul piano pratico poteva solo risolversi non tanto contro i manuali quanto contro i manuali tradizionali che impoverivano il mondo della storia banalizzandolo o rendendolo solo una foresta irta di dati e di monumenti agiografici. I testi di storia sono stati tutti coinvolti nella polemica e la parte costruttiva di questa polemica può ben dirsi di essere stata edificata allorquando nel breve volgere di alcuni anni il fondo della questione è cambiato non perché la ricerca sperimentale «senza manuali» fosse diventata una realtà, difficile com'è per motivi molteplici, quanto piuttosto per il fatto che molti testi sono stati completamente innovati o abbandonati del tutto a favore di manuali «nuovi» che tenessero conto di un insieme di elementi ignoti ai primi. La strada è apparsa più lunga del previsto sia per le stesse carenze degli autori, sia per i limjti dell'impegno in chiave di rinnovamento didattico degli stessi docenti troppo spesso assenti o impegnati solo in attività verbali di rinnovamento sia per la tirannide obiettiva di una scuola difficile specie per l'ultima parte di un programma che troppo spesso subisce il ricatto del tempo scolastico che non lascia molto a disposizione dello studio dell'ultima parte cronologica del programma spesso lento a osservare nelle sue scadenze pratiche. Un altro elemento che ci appare di un certo interesse è l'elemento finanziario globale che l'intera operazione «manuali scolastici» rappresenta per gli editori specializzati. Non si vuole certo ignorare, con questo appunto, che di fatto il giro d'affari di questo mercato rappresenta ormai molte centinaia di mjliardi di lire ogni anno e possa dare luogo a fenomeru di corruzione o di clientelismo. La presenza di una miriade di case editrici (quasi trecento tra grandi e piccole) ha fenomeni indotti di concorrenza che possono anche stravolgere il criterio di partenza secondo il quale il libro più diffuso deve essere il migliore; spesso anche libri non del tutto soddisfacenti hanno fortune presso molte scuole per tutt'una serie di fatti che con la storia hanno poco a che fare ma che riguardano l'impatto pubblicitario di quello che da una parte dovrebbe essere il risultato di un' operazione culturale e che invece dall'altra viene trattato come un


LA GUERR A 01 LIBERAZIO NE N ELLA MA NU ALISTICA: I TESTI DI STORIA

55

«prodotto» da commercializzare e basta. E ciò valga sinteticamente a chiarire certe anomalie che vedono alcuni buoni testi godere di udienza minore di altri meno buoni, che invece occupano nel mercato un posto rilevante. Due elementi esterni vanno ricordati a questo proposito e non sono elementi connessi alla storia: da una parte la presentazione grafica e dall'altra lo stesso titolo. In linea generale si può notare che nello spazio considerato, un trentennio circa, la presentazione grafica si è andata arricchendo di elementi di richiamo che sono le tavole a colore, le illustrazioni in bianco e nero, le cartine geopolitiche, i repertori sinottici finali, le cronologie e gli apparati di appendici documentarie e di critica collegati ad ogni capitolo o paragrafo. A questa generosità grafica non risponde per lo più un più acuto senso della storia da parte dei curatori che sembrano più travolti dalle esigenze estetiche o banalmente riempitive che trascinati a migliorare il tipo di presentazione per meglio illustrare la narrazione. Specie le soluzioni tecniche più ricche coprono una sostanza piuttosto dimessa se non addirittura scadente. Gli stessi titoli dei vari manuali ci appaiono spesso altosonanti: «Civiltà e Progresso» (SEI), «Il tempo e le opere» (Le Monnier), «Popoli, uomini, idee» (Paravia), «Il fiume della storia» (Mondatori), «Le nostre radici» (Petrini) ecc. tutti titoli che hanno sostituito il poco commerciabile «corso di storia ad uso della scuola ...» che si ripete invariabilmente fino all'avvento dell'attuale fase di «industria del libro di testo per la scuola>). Spesso un libro non è che il prodotto di una serie di copiaturaimitazione di un altro ritenuto più fortunato; cambia il formato, l'impaginazione, il numero delle illustrazioni, la struttura delle appendici. Nelle varie presentazionj il nuovo manuale si vuole innovatore e frutto di vasti ripensamenti; vuole rappresentare una svolta nell'insegnamento della storia per questo o quell'ordine di scuola, «deve>> essere iJ libro rivoluzionario sul piano della didattica come su quello dell'interesse, insomma il libro dell'anno. Troppo spesso però questa «rivoluzione» non c'è proprio: il manuale è nuovo solo in alcune parti accessorie che sono privilegiate, nella maggior parte del suo testo esso è troppo spesso la ripetizione di notizie, di nomi, di accadimenti con relativi giochi tipografici di corpi, di caratteri e di colori che nascondono sotto una veste attraente una merce che sovente è avariata, divisa com'è in capitoli che non comunicano tra loro e che aprono e chiudono problemi senza troppo preoccuparsi del discorso spazio-t,emporale, di logica concatenazione della «storia». Il ritmo è serrato, non vi è molto tempo per conciliare la soro-


56

RO;IIAIN Il RAL,'ERO

ma degli eventi-date che si vogliono evocare e il necessario contesto evolutivo che andrebbe evocato. In genere il modo prescelto è quello della cavalcata o meglio della galoppata sfrenata tra uomini, secoli e idee. Jeffreys lo ha ben detto allorché ha scritto al riguardo: «Appena ha cominciato a parlare di qualche cosa, il libro parla subito di qualche cosa d'altro» (5). Malgrado il tempo trascorso da quando questa osservazione fu fatta (quasi vent'anni or sono!) si può dire che molti manuali conservano questo elemento negativo cosl come troppo spesso appare tuttora ambiguo il tono con il quale gli autori si rivolgono agli alunni con una serie notevole di luoghi comuni, di frasi fatte e ripetute, con banalizzazioni e genericismi, tentando per lo più di racchiudere in una visione sintetica una realtà poliedrica non riuscendo spesso a dare spessore e contrasto ad una storia che appare monca, monocorde e angusta. Le osservazioni del Tranfaglia al riguardo mi sembrano pienamente attuali allorquando deprecando quel tono paternalistico e moralistico che troppe narrazioni continuano ad avere egli osservava: <<L'elemento di gran lunga più importante... riguarda un carattere comune alla grande maggioranza dei manuali: l'assoluta mancanza di problematicità nell'esaminare ed anali'a,are gli avvenimenti, che ha sui ragazzi una ripercussione nelfavorire ed accentuare la passività di questi ultimi di fronte al passato» (6). Ed aggiungeva che una simile posizione pareva rivelare un diffuso timore da parte di chi detiene il potere (specie dopo il '68) «...per scongiurare qualunque pericolo di presa di coscieflZ/1 della propria condizjone... premessa... per un'azjone politica». Ed è proprio in questa prospettiva che si collocava Umberto Eco nella sua analisi sulla scuola allorquando, parlando delle pubblicazioni per la scuola elementare, le vedeva quali «strumento di una società repressiva e autoritaria, tesa a formare sudditi, falla di colletti bianchi... nell'ovvietà, nel qualunquismo, nell'idiqzja e nella acriticità... » (7). Come ci sembra lontana la lezione di un Le Goffe di un Nora che precisando vieppiù le regole del «fare storia» ne ricordavano l'impegno costruttivo ed omogeneo che si articola su tre piani: «nuovi problemi» rimettono in discussione la stqria stessa, nuovi approcci ad essi modifìcano ed arricchiscono, rovesciano settori tradizjonali della storia, nuovi oggetti compaiono nel campo epistemologico della storia... » (8). Ma quanta parte di questa «lezione» può dirsi valida e distribuita tra i vari attori dell'insegnamento della storia cioè tra i vari docenti appare difficile dire. A questo punto il discorso sui manuali investe quello sui docenti, che va fatto non tanto o non solo in riferimento ai manuali stessi quanto a quello della loro preparazione, del loro


LA GUERRA DI LIBERAZIONE NELLA MANUALISTICA: 1 TESTI DI STORIA

57

aggiornamento culturale e della loro qualificazione storica. È un discorso complesso e complicato perché l'entità generale «docente» non esiste nella realtà poiché il suo insieme è fatto da elementi disparati come origine, interesse e partecipazione. Il discorso sull'insegnante va fatto anche in riferimento alla materia o meglio alle materie che è chiamato ad insegnare, alla sua origine universitaria ed alla sua stessa dimensione culturale singola. Raffaella Lamberti osservava di recente che la situazione al riguardo e senza indebite generalizzazioni poteva ritenersi grave. Dopo un iniziale acceso dibattito per la riforma e per i nuovi metodi (forse frutto lontano di un attivismo erede del '68) ha fatto seguito «il radicalizzarsi di un dualismo tra un'élite culturale ( non professionale) di insegnanti che lavorano alla traduzione didattica dei programmi ( nuovi) e una palude maggioritaria che prosegue nella sua routine... » (9). L'analisi si può agevolmente spostare ai tempi stessi della formazione universitaria di questi stessi docenti: l'insegnante si trova investito dell'incarico di educatore dopo anni di approssimazioni, di scarsa specializzazione professionale sia all'universfrà sia dopo: «Nella loro preparazione - scrisse nel 1972 il Ricuperati, ma l'osservazione è tuttora pienamente valida - , sono stati evitati accuratamente tutti gli strumenti di indagine sulla realtà: niente statistica, niente economia politica, quasi niente sociologia... e soprattutto niente ricerca. Solo massicce dosi di contenuti culturali quasi sempre vecchi... Lezioni monografiche, relazioni acritiche a livello di seminari, tesi di laurea che non hanno alcun collegamento né con gli interessi reali, né con il futuro lavoro... Per l'abilitazione ancora manuali: si pretende che l'insegnante sappia per esempio tutta la storia, tutta la geografia e tutta la letteratura... » (10). Lo stesso senso del problema e quindi l'entusiasmo per un aggiornamento da parte dei docenti si va spegnendo da dieci anni a questa parte per delusione o per convinzione di aver acquisito sufficiente bagaglio con rapide escursioni nel mondo del sapere o per adattamento a vivere con la propria crisi in una edizione dell'arte del compromesso e del tirare avanti. Gli stessi programmi con la loro liturgica evocazione degli obiettivi della storia insegnata possono portare ad una certa stanchezza: tra <Jo studio della storia si appoggerà su una traccia narrativa... » del 1963 e <Jo studio della storia si appoggerà su di una serie di operazioni... » del 1979 la differenza non sta solo nella scelta di uno strumento o di un altro ma dovrebbe presupporre una strategia assai diversa la quale, ahimé, risulta attribuita agli stessi intermediari: i docenti che, anche se non sono gli stessi fisicamente, hanno ben poco di diverso quanto all'orizzonte culturale che possiedono. Antonio


58

ROMAIN I I. RAINERO

Brusa ha esemplificato i propositi innovatori di questo secondo e attuale modo di proporre lo studio della storia attraverso una sequenza che dovrebbe comportare per il docente ben sei operazioni nuove: - imparare ad esplicitare i modelli storiografici propri e di ciò che si intende spiegare; - imparare a valutarne le difficoltà rispetto agli allievi; - imparare a scindere i ragionamenti complessi in singole operaz1oru; imparare a «inventare» e a «dosare» le relative esercitazioni· ' imparare a metterle in sequenza; imparare a verificare e a valutare iJ risultato. Se si è d'accordo con l'importanza di queste domande si dovranno mutare molti riti scolastici per avviare lo studio della storia verso «abitudini» interamente nuove (11 ). Con simili osservazioni non si vuole certo tracciare un quadro negativo della situazione culturale dei docenti e non si vuole certo dare ragione a certe analisi che sembrano catastrofiche del tipo: «La massa degli insegnanti sa a malapena che esiste una battaglia storiografica. Il livello medio degli insegnanti non è molto elevato e così pure quello dei manuali. Purtroppo il manuale oggi è ancora importante; moltissimi insegnanti quando devono far lezione sul "fascismo" si attengono al manuale e non vanno oltre, o non vogliono andare oltre» (Quazza) oppure quella analisi che parla del rapporto tra insegnante e manuale che afferma: «... il libro di testo è esclusivamente strumento dell'insegnante che con esso evita la paura e l'eventualità di non sapere» (Del Cornò). Con tali osservazioni si vuole solamente sottolineare che il problema delle conoscenze e dell'aggiornamento dei docenti non solo esiste ma è anche di un certo spessore. E ciò emerge chiaramente quando si voglia ritenere mutato il quadro della scuola o mutando i manuali o rinnovando i programmi con relative circolari ministeriali. Il problema ha ben altre dimensioni! Vi è solo da rimpiangere un certo tipo di impegno che dopo il '68 parve animare la massa dei docenti e che, passata la moda, si riscontra ormai solo in una minoranza di docenti. Pochi anni dopo il '68 un osservatore attento poteva ancora cogliere questa esigenza in molti docenti; era l'insegnante che per primo voleva sapere fare ricerca allo scopo di proporre alternative, insegnanti che, se accettavano iJ manuale non ne erano prigionieri. Il Giardiello scriveva nel '72:


LA GUERRA DI LIBERAZIONE NELLA MANUALISTICA: I TESTI DI STORlA

59

«Cogliamo la dimensione problematica del presente solo se nei confronti di questa realtà noi agiamo. Il controllo, la gestione del nostro presente ( del nostro ruolo di insegnanti per esempio) porta con sé necessariamente una serie di temi... che altrimenti ci sfuggirebbero. Questo è il senso della nostra qualificazione ideologica... Rinunciamo al nostro ruolo di trasmettitori e filtri di una conoscenza che, in quanto trasmessa, è già mistificata... ». Oggi quest'insieme di posizioni appare lievemente superato da un certo appiattimento non solo politico ma anche didattico. E da questa situazione nascono considerazioni abbastanza amare. Per qualcuno è una vera débacle: di recente un'attenta osservatrice della realtà scolastica poteva arrivare a scrivere: <cl.a mia impressione è che le diverse tendenze in atto oggi tra gli insegnanti ( non necessariamente inconsapevoli) convergono in un punto: la presa d'atto che la scuola è un luogo in cui non accade più nulla, né irruzione del mondo esterno, né proiezione dall'interno verso il rinnovamento. Sia che gli insegnanti fuggano (pensionamento anticipato, ricorso ai comandi, passaggi ad altri ruoli), sia che intraprendano un secondo mestiere (... attività remunerativa, gratificante contrapposta a quella scolastica), sia che recuperino una routine della spiegazione-interrogazionevoto e i suoi esiti selettivi, gli insegnanti in ogni caso sì adattano allo svuotamento di iniziative, alla perdita di senso che sembrano caratterizzare l'attività educativa e che fanno della scuola una cattedrale burocratica separata dalla drammaticità del vivere...)) (12). Forse questa diagnosi ci appare lievemente drammatica, forse è il riflusso di una speranza-illusione che gli anni successivi al '68 hanno contribuito a demolire. Senz'altro la situazione insegnanti-didattica-storia è complessa e grave ma non tale, ci sembra, da giustificare appieno queste considerazioni: se la dequalificazione affligge un certo numero di insegnamenti e di insegnanti ad essa corrisponde una volontà di ricomposizione che non può essere vista solo come fenomeno di ritorno ad una routine bensl esigenza di non esasperare con posizioni oltranzistiche, ed insomma aprioristiche, quali la scuola senza manuale, la scuola come didattica di ricerca, o infine la scuola come interdisciplina. Tutti questi fermenti sono da ritenersi elementi portanti di una scuola innovativa che certamente ha difficoltà a decollare ma che sembra peraltro molto meno lontana di due decenni or sono. Questo discorso potrebbe apparire monco se non si facessero specifici riferimenti all'altro aspetto del problema che è quello dell'evoluzione cronologica dei contenuti dei manuali di storia in uso nelle scuole italiane dalle medie inferiori alle scuole superiori. Ed in questo esame va doverosamente riconosciuto che le motivazioni scientifiche che oggi ci trovano qui riuniti sono state anticipate, ol-


60

ROMAII\ H. RAil\'ERO

tre vent'anni or sono, da un gruppo di studiosi che alla storia almeno di uno degli aspetti che ci trova impegnati (la Resistenza) ha dedicato un'attenzione particolare proprio a partire dai libri di testo della scuola. Voglio alludere a!Jo sforzo anticipatore ed illuminato di alcuni storici, che voglio qui ricordare: Luigi Ganapini, Rachele Gruppi Farina, Massimo Legnami, Giorgio Rochat e Angela Sala, che, senz'aspettare i furori del '68, hanno fatto avanzare con decisione il processo di critica e di formazione che ai libri di testo di storia si collega in maniera stretta. Partendo dall'allora recente disposizione ministeriale che spostava il termine finale dell'ambito dello studio dal 1919 «ai giorni nostri» la loro attenzione, collegata all'ambiente dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, scorgeva i limiti di quell'aggiornamento dei manuali di storia che allora presentavano ancora in pieno l'impostazione precedente: <<11on basta - scrivevano nel loro resoconto - aggiungere appendici o capitoli, senza modificare la parte precedente nello spirito e nell'equilibrio della narrazione per creare un testo moderno, aggiornato eformativo... » (13). Dall'esame di trenta manuali di storia dei vari ordini di scuola, i più diffusi nella scuola italiana di quegli anni venivano chiariti alcuni degli obiettivi comuni alla loro maggioranza, che risentivano, indubbiamente del fatto che molti autori si erano formati ed erano stati coinvolti nel fenomeno culturale fascista quali Pietro Silva, Raffaele Morghen, Giovanni Soranzo, A. Manaresi. Pertanto «l'aggiornamento» appariva nei loro testi come qualcosa di posticcio, di improvviso in palese contrasto con altre parti 'vecchie' che ancora esprimevano un clima che certamente non era più quello della Repubblica. D a una parte quindi la celebrazione della Resistenza con una buona dose di retorica che non risparmiava gli studenti senza dare loro basi sicure sul suo svolgersi e sul suo significato e dall'altra parte una presentazione del periodo fascista prevalentemente basata su una sua evocazione chiaramente orientata verso la sua esaltazione. Così compaiono le opere pubbliche del fascismo, le bonifiche, le violenze socialiste di 'prima', il disordine generale della nazione al momento dell'avvento del nuovo regime, e quindi il restaurato prestigio, la pacificazione religiosa, le conquiste tecniche e aeronautiche salvo a deplorare l'errore di aver concluso il patto con Hitler... Un generico moralismo condito con un preteso 'neutralismo scientifico' che non vuole (o non sa?) affrontare i problemi di fondo del periodo e che sembra assolvere tutti eliminando i cont.rasti nell'ingenuo desiderio di presentare un semplicistico quadro unanimistico e conciliante. Il tono generale prevalente è quello del


LA GUERRA DI LIBERAZIONE NELLA MA NUALISTICA: I TESTI DI STORlA

61

dotto paternalismo reciso e sentenzioso che non ammette certo né dubbi né incertezze: la verità è quella che viene presentata e basta con tono definitivo che non lascia certo spazio a ricerche o ad iniziative. Pietro Silva per esempio neIJ'aggiornare il suo testo non trova neppure il desiderio di inserire almeno una volta il termine di 'Resistenza'; il Morghen vi dedica otto righe; il Manaresi solo tre; S. Martinelli non cita neppure il nome della Resistenza e la guerra di liberazione viene vista come lotta «tra i seguaci della Repubblica di Salò... e i partigiani del governo legale residente a Salerno» (p. 224). In R. Belvederi non si parla. della Resistenza se non in un quadro europeo definendolo «uno degli aspetti più tipici del secondo co,iflitto mondiale» segnalando a questo riguardo che essa era in atto in Italia fin dal 1942 (sic!). Non si può peraltro dire che errori ed omissioni siano tutte dovute a chiare volontà politiche: spesso sono solo il frutto di disinformazioni e di ignoranza vera e propria come dimostrano molti altri errori ed incoerenze di cui si può citare proprio perché molteplice quella del testo di G. Soranzo e G. Tarantello che nell'edizione per i licei «riveduta, corretta ed aumentata>> del 1963 presenta il Patto Atlantico come una branca dell'O'NU (p. 550), poi come una emanazione della NATO (p. 591) ed infine lo identifica con la NATO (p. 602). Peggior confusione non si poteva trovare in uno stesso testo dove è evidente che gli autori, dopo ben quattordici anni di esistenza della struttura atlantica, ancora ne ignoravano la natura, pur volendo scrivere un libro di testo di storia contemporanea per la scuola! In questa situazione gli anni della contestazione hanno portato, con i verbalismi e gli eccessi inevitabili, un vento di reale presa di coscienza collettiva dei guasti che una simile non-validità dei manuali generava inevitabilmente. Innanzitutto l'esigenza di un rapporto nuovo tra docente e discente che costituiva il fulcro generale dell'auspicato rinnovamento della scuola si andò imponendo anche per quanto riguardava la storia ed il suo insegnamento. Ma non solo in questo senso il rinnovamento venne sentito: si trattava di riscrivere dal profondo la storia, tutta la storia, che doveva cessare daIJ'essere lo strumento mnemonico di modelli culturali rigidi, che favoriva una narrazione stereotipata di Jezione-manuale-ripetizionevoto con una struttura narrativa basata su eventi selezionati, frasi fatte, banalità antiche e nuove, e non impegno nel campo della storia contemporanea. E proprio in questo quadro i fermenti rinnovatori portarono al fiorire di nuove iniziative editoriali nel campo dei manuaH i quali pur non presentando omogenei progressi liberarono


62

ROMAIN H. RAlNERO

rapidamente la scuola dei manuali «vecchi» anche se ripresentati con l'etichetta di manuali «riveduti, corretti ed aumentati». L'indagine del gruppo di lavoro della rivista «Il movimento di liberazione in Italia» del 1969-1970 ha segnalato con inchieste-campione le adozioni in talune città (Milano, Torino e Napoli) che danno indicazioni circa l'affermarsi nel Nord di testi «nuovi», adozione che cresce rapidamente e la resistenza dell'ambiente napoletano a questo cambiamento. A Napoli si fecero testi nuovi (Giannantonio della Loffredo, Fortunato della Conte ed altri) ma «questi testi praticamente ignorati al Nord ... sono opere superate e conservatrici» e nella graduatoria dell'anno esaminato ('69-70) uno solo dei manuali nuovi che primeggiano a Milano e a Torino figura presente a Napoli con diffusione bassissima, ali'ottavo posto (circa il 4%). Per quanto attiene al nostro assunto (la presenza della fase della resistenza e della guerra di Liberazione) si può dire che questo secondo periodo che dal '68 andrà fino al 1972 registra un rovesciamento di posizioni. Giorgio Rochat ne ha sintetizzato la situazione affermando che «J'insegnammto della storia contemporanea è stato investito dal nuovo interessamento di studmti e professori tanto che talora ha cessato di essere la cenerentola degli studi per diventare uno dei settori più seguiti» (14). Ed in questo quadro ci sembra di estremo interesse rileggere le conclusioni di un congresso tenutosi nel novembre 1970 a Ferrara che hanno delineato in modo efficace le dimensioni del problema, le tappe logiche della sua soluzione e gli orientamenti futuri da dare all'intero problema (15). Nello specifico momento nel quale è stato discusso ed elaborato, quel documento appare già decantato dagli errori della prima ora e dominato da elementi costruttivi che hanno indubbiamente influito sia sull'insegnamento sia sulla produzione dei manuali. Essi in genere ci appaiono molto più equilibrati ed interessati a definire e a trattare il periodo che ci riunisce qui, con più adeguati mezzi espressivi e con più pagine e letture. Alcuni testi sono già proiettati verso un insegnamento più aggiornato e moderno; qualcuno stenta a trovare il giusto ritmo. Per esempio Cattanei e Fabbroncini dedicano pochissimo spazio alla resistenza ed alla guerra di liberazione; il Melzi d'Eril ed altri danno solo un quadro apparentemente ricco, in realtà confuso e tale da non consentire agli studenti di procedere ad un vero studio di orientamento del periodo. Infatti dedicare una sola pagina all'intero periodo (la p. 515) è chiaramente decisione inadatta a trasmettere ai giovani un qualsiasi interesse per questa ricerca sulla guerra di liberazione che è vista come «.un movimento derivante dai reparti dell'esercito che non si erano di-


LA GUERRA DI LIBER AZIONE NE LLA MANUALISTICA: I TESTI DI STO RIA

63

sciolti e conservavano un ordinamento disciplinare... » e un altro movimento <politicamente caratteri~to, quelli dei comunisti e del partito d'azione... ». Evidentemente parlare di un «testo nuovo» in questo caso è assur-

do; si può solo parlare di un manuale che ignora un insieme di dati e di fatti dai quali è nata la realtà odierna. Ma questo non è l'unico caso né va dimenticato che nello stesso periodo si nota più che una vera revisione un progressivo appesantimento di taluni manuali con apparati che spesso non sfiorano neppure lo studente o il corso insegnato che sono gli inserti documentali, i prospetti e tabelle che sono tutti elementi che appaiono alla lunga distorcenti o invitanti alla disattenzione che in taluni casi è ulteriormente divaricata dalla realtà scolastica con pubblicazioni collaterali (antologie storiche, atlanti geopolitici, collane di veri e propri testi ripubblicati). Con una scuola la quale spesso non riesce a oltrepassare le soglie dei trequarti del volume e che quindi si «deve» fermare alla seconda guerra mondiale questo ulteriore poncio di pagine di storia appare di utopica utilizzazione. Ed è proprio verso un certo ritorno al manuale «pulito» senza fronzoli e letture sempre non all'altezza del tema evocato dal capitolo, che si nota nel più recente periodo del manuale di storia per le scuole. Il testo degli anni Ottanta appare frutto di questo lungo travaglio ma non più vittima di mode più o meno collegata alla situazione reale della scuola: i testi sono nuovamente dei manuali ma a differenza di quegli antichi appaiono aperti e proiettati verso una disanima collettiva ed una discussione anche alternativa. Si tratta insomma di un volume che non ha la pretesa vana di dire tutta la storia, né tanto meno l'unica storia ma discorre e presenta i vari periodi e fatti della storia quale la più recente critica li hanno definiti con provocazioni all'ulteriore approfondimento e dibattito. Al termine della nostra ricerca che è andata alla rkerca non di soluzioni certo ma di motivi di interesse, rimane intera la questione di partenza: quale scuola? e quali insegnanti? L'evoluzione dei libri di testo è indubbia come è innegabile l'importanza della fase degli anni'68-70; oggi i testi sono molto migliori e parlano in modo adeguato anche del periodo guerra di Liberazione e Resistenza. Sono rari i volumi che sono del tutto inadeguati ad un mondo culturale, quello italiano che è cambiato e che va cambiando continuamente. Quanto all'altro elemento che potremo situare nel binomio docente-discente le situazioni appaiono anche qui rinnovate ma spesso non per il meglio. Un certo allontanamento dai problemi politici e quindi dalla storia contemporanea si nota negli studenti che rara-


64

RO \IAIN Il. RAL"lERO

mente appaiono i motori di ricerche o di interessi specifici legati alJa storia specie di quella recente. Quanto agli insegnanti il problema di una certa loro diffusa apatia non è certo da sottovalutare: esigenze varie sono alla base della loro differenziazione tra una minoranza impegnata ed una maggioranza che potrei definire «amministrativa» o «ministerializzata», senza quindi quei fermenti che sono alla base del dinamismo della minoranza. Comunque, in un panorama certo difficile, reso ancora più difficile da una serie di «riforme» che impiegano decenni ad esprimere l'intero arco delle «nuove» scelte un certo distacco può trovare una spiegazione. Ed inquadrato così il problema appare ben difficile che tutto possa risiedere nel manuale o nel miglioramento del manuale essendo forse fuori da questi ambiti l'aspetto fondamentale di un ritorno ad una scuola sensibile ed attiva anche per ciò che attiene alla storia della Resistenza e della Guerra di Liberazione.


LA GUERRA DI LIBERAZIONE NELLA MANUALISTICA: I TESTI DI STORIA

65

NOTE (1) R. COUSù'-JET, L'insegnamento della storia e feducazione nuova, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 45. (2) G. G!ARDIELLO, Precisazioni dal punto di vista pedagogico, in AA.VV. La ricerca e la storia, Conegliano, Ed. Cooperative, 1972, p. 25. (3) B. BETTA, E,ducazione civica e storia nella scuola media, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. VI. (4) G. PETIER, La didattica della storia, in «Cooperazione educativa, n.3/4, 1967, p. 21-24.

(5) M.V.C. JEFFREYS, L'insegnamento della storia secondo il metodo delle linee di sviluppo, Firenze, La Nuova Italia, 1964, p. 74. (6) N. TRANFAGLIA, Introduzione a G. SANSONE-M. MARELLI VACCARO, La storia dannosa, Milano, Emme, 1972, p. TI. (7) BONAZZI-U. Eco, I bambini bugiardi, Guaraldi, 1972, p. 8 . (8) J. LE GOFF-P. NORA, Fare storia? T emi e metodi della nuova storiografia, Torino, Einaudi, 1981, p. VIII, (non seguo l'errata trad. ital. che confonde «approcci>, con «approssimazioni» e «oggetti» con «tematiche», ma mi sono rifatto al testo francese confortato anche da G. PADOVANI, Le scien,:,,e sociali e la storia contemporanea, in La storia contemporanea e la ricerca locale nella scuola, .Mantova, Istituto P. S. M. L., 1982, p. 182). (9) R. LAMBERTI, Problemi di didattica della .rloria, in La storia.fonti orali nella scuola, Padova, Marsilio, 1982, p. 54. (10) G. R ICUPERATI, Didattica e antididattica come ricerca nell'in.regna1!lenlo della storia, in La ricerca, citp. 15. (11) A. BRUSA, Appunti sulla formazione degli insegnanti di storia, in «Notizie e documenti>>, n. 15/ 16, 1983, p. 70. (12) R. LAMBERTI, op. cit., p. 54. (13) AA. VV., La storia contemporanea nella scuola. Nule sui libri di te.rio, in «Il movimento di liberazione in Italia» aprile-giugno 1964, p. 68. ( 14) Inchiesta sui lesti per l'imegnamento della sturia contemporanea nella scuola italiana, a c ura di Giorgio Rochat, io «Il movimento di liberazione in Ita.tia», ott. dic. 1970, p. 3. ( 15) Lo riteniamo talme.nte importante che ne riportiamo nell'Allegato I il testo integrale delle Conclusioni.


66

ROMAIN H. RAINERO

APPENDICE -1-

LE CONCLUSIONI DEL CONVEGNO DI FERRARA (15 NOV. 1970) (*) Il Convegno nazionale su «La Resistenza e i libri di testo nella scuola italianaJ>, tenuto a Ferrara nei giorni 14 e 15 novembre 19 70 per iniziativa dell'amministrazione provinciale, dell'amministrazione comunale, dell'ANPI provinciale e dal comitato manifestazioni culturali di Ferrara, ha svolto un ampio dibattito seguito alle relazioni presentale dai professori Lamberto Borghi, Guido QuoZ:<'fl, Antonio Santoni Rugiu e Claudio De/lava/le sulla p roblematica pedagogica della Resistenza. Nella discussione sono sfati traffafi i problemi emersi dall'attegg,iamento assunto dai vari Governi nei confronti dell'insegnamento della storia e della sua periodiz:,.,azione nei programmi scolastici: quelli inerenti alla qualità e alla quantità della trattazione della storia nei libri di lesto nella scuola d'obbligo. È stata sottolineata la prevalenza degli aspetti mitico-fantastici su quelli critici e razionali nella considerazione non solo degli avvenimenti storici ma anche della scienza e della religione.

IL CONVEGNO considerando che le risultanze emerse da tale esame denunciano una situazione di grave carenza educativa evidenziata dal fatto che persiste nella nostra scuola il solco profondo tra lo studio e la vita, la scuola e la società; considerando che i libri di testo nella loro magg,ioranza non abituano i ragazzi alla considerazione critica degli eventi nei modi della ricerca collaborativa e dello studio indipendente; non offrono all'apprendimento un sufficiente stimolo motivazionale, tratto dalle esperienze della vita contemporanea, colta nei suoi più vari aspetti positivi e negativi in Italia e nel mondo; considerando che la presenza della Resistenza nell'educazione si misura essenzialmente con lo sforzo diretto a sviluppare negli alunni una intelligenza aderente alla realtà e una capacità di collaborazione sorretta da una partecipazione decisionale alla vita della scuola e della comunità; considerando inoltre che tale presenza non va limitata alla introduzione nei libri di testo di narrazioni storiche e letterarie relative ai f atti della Resistenza, ma che essa emerge soprattutto dalla ricostruzione del quadro storico, che dal Risorgi-

(*) Fonte: «JI movimento di Liberazione in Italia», n. 10 1, ottobre-dicembre 1970, p. 218.


LA GUERRA DI LIBERAZIONE NELLA MANUALISTICA: I T ESTI DI STORIA

67

mento in poi portò alla formazione di governi espressioni di condizioni sociali escludenti dalla partecipazione attiva le grandi masse popolari, e, infine, a forme di oppressione violenta e alla cancellazione dei diritti politici e civili all'interno del paese e ad avventure coloniali e a guerre di aggressione contro altripopoli e, infine, all'antisemitismo e al genocidio; considerando che la Resistenza mediante un generoso slancio di spontanea associazione nelle formazioni partigiane e nei gruppi degli intellettuali ad esse collegate, rappresentò la lotta popolare contro tale aspetto antidemocratico della vita sociale e contro il tentativo della dittatura nazifascista di assoggettare le masse a forme di estremo sfruttamento e di totale alienazione; considerando la necessità di una più ampia e meditata trattazione della Resistenza italiana nei testi di storia contemporanea, tenendo presente il movimento mondiale di Resistenza contro l'urto brutale della civiltà industriale e capitalistica e di una trattazione, proporzionata alla ampiezza e gravità, dei movimenti di lotta antimperialista nel terzo mondo, cominciando dai movimenti indiani e cinesi della fine del XIX secolo; considerando iefzne che la Resistenza è aspetto pervasivo della stessa lotta odierna combattuta in Italia e in molti Paesi europei ed extra europei contro istituti illiberali; forme di vita penetrate di autoritarismo; tentativi di assoggettamento e di conquista armata e attuali forme di oppressione e perfino di genocidio, specialmente nel terzo mondo e particolarmente neipaesi nei quali è in corso la lotta di Liberazione nazionale. Auspica che l'insegnamento della Resistenza trovi un posto adeguato nella scuola e nei libri di testo nella sua verace fisionomia di centro ideale di riferimento per la trattazione problematica più viva e urgente nella società di oggi in Italia e nel mondo e in tutte le sue implicazioni, riferentesi ai rapporti di p roduzione, alle strutture dello Stato e della società, all'amministrazione della giustizia, alla polizia, all'esercito, alla chiesa, agli enti locali. Auspica che l'educazione ispirata alla Resistenza si esprima nei modi più adatti per operare il recupero della massa degli alunni che attualmente vengono esclusi dalla scuola dell'obbligo e, che alla fine della terza media raggiungono ol 4 0%del totale, nonché di quelli che, presenti nella scuola, vengono privati della possibilità di unaformazione completa della loro personalità. Tale recupero deve essere effettuato mercè una educazione ed una didattica che sviluppino in tutti le capacità creative, le attitudini alla ricerca, alla collaborazione democratica in forme responsabili, razionalmente motivate, con vita della scuola, dei gruppi amicali e informali e della comunità. Nella carenza di un adeguato impegno governativo afavore di una politica culturale nella quale trovi posto un nuovo orientamento nella educazione e nella didattica ispirata a questi criteri, il Convegno considera del massimo interesse l'iniziativa dell'ente locale in materia di educazione e di cultura ed auspica che l'iniziativa promossa dal comune e dall'amministrazione provinciale di Fe,:rara serva di stimolo e di punto di riferimento ad altre amministrazioni locali.


68

ROM.AL'< H. RAl1'FRO

Ai.fini della creazione di una Icuola democratica nella quale una nuova didattica Iia Itrumento della initaurazione di un nuovo rapporto tra Icuo/a e IOCÌetà, il Convegno propone che: 1. Ogni classe venga dotata di una biblioteca di libri e di Iussidi audiovùivi che comentano agli alunni di indirizzare lo studio verio ricerche di prima mano sulla scorta di una molteplicità di opere atte a sostenerli nel loro impegno di identificazione e di soluzione di problemi. Tale traiformazione di criteri in vigore in materia di libri di Ileito aiuterebbe a/tresì gli iniegnanti a IO/trarsi all'attuale mortificante sudditanza, ad una Iuperata didattica, ancorala al Iolo libro di testo che è di Oitacolo ad una educazione fondala Iulla ricerca; 2. Che in questa prospettiva l'amminiitrazio11e provinciale conferùca premi annuali ad opere ICOlaitiche dedicate agli alunni della scuola dell'obbligo le quali realiz:,:}110 le indicazioni del Convegno; J. Che l'ente locale promuova corsi per i11segnanti della scuola de/l'obbligo diretti ad approfondire la nuova problematica educativa emersa dal Convegno.

APPENDICE - II I principali manuali di storia Nella presente appendice Ii vuole riportare un elenco dei principali manuali di Itoria in uso nella Icuola italiana ( medie e mperiori) in questo trentennio. Non si ha la pretesa di essere esauitivo data la struttura dispersiva della editoria scolastica benIÌ largamente rappresentativi specialmente per l'Italia emiro-nord. Anche i criteri cronologici Iono da ritenersi di larga massima euendo ogni testo Iogg,etlo ad edizioni, rùtampe e revisionifreq11enti, talvolta importanti aifini del testo, talvolta auo!t,tamente insignificanti. La natura non esaustiva dell'elenco propoito deriva da una serie di motivi: dapprima non esùtono né repertori, né depoiiti prmo biblioteche o editori che poIIano dirsi completi sia per il generale dùinterme delle biblioteche per la conservazione dei manuali, Iia per il mancato intereue degli stuii editori ad avere un archivio delle proprie edizioni Icolastiche. Inoltre molto Ipmo se al Nord la ricerca è sfata fatta con alcuni buoni risultati, nel Centro e nel Sud dell'Italia tma presenta carenze evidenti a proposito di editori che sono da comiderarsi minori e di ambito locale. Dopo il 19 70 Ii può dire però che l'organizzazione di vendita e di diffusione dell'editoria scolaitica dei grandi editori del centro-nord Iono elementi che consentono con la dijfuiione dei loro manuali all'Italia intera di poter seguire con buona percmtuale di validità di rappreuntazione le loro edizioni Icolastiche nei due settori delle scuole inferiori e superiori.


LA GUERRA DI LIBERAZIONE NELLA MANUALISTICA: I TESTI DI STORIA

69

BIBLIOGRAFIA ORIENTATIVA

La bibliografia sul problema dell'insegnamento della Storia della Resistenza e della !orta di Liberazione è piuttosto nutrita poiché il problema è stato al centro di molti dibattiti sulla nuova didattica della scuola che, specie dopo il 1968, ha accompagnato l'intero movimento di ammod ernamento didattico in generale con speciale riguardo alla scuola dell'obbligo. Pertanto una bibliografia orientativa dovrebbe per essere pienamente valida sviluppare il proprio discorso su un elevato numero di testi e di saggi che hanno segnato nel tempo lo sviluppo della questione; il nostro intento è invece selettivo ed ha lo scopo precipuo di elencare alcuni e solo alcuni tra i titoli più significativi del dibattito didattico e storiografico. A.P., Il convegno di Firenze su la ((Resistenza e la scuola)), in «TJ Movimento di liberazione in Italia», aprile-giugno 1959, n. 55, pp. 82 . 87. AA. VV., La storia contemporanea nella scuola sui libri di testo, in «Il Movimento di liberazione in Italia», aprile-giugno 1964, n. 75, pp. 68 · 98. P. PIER!, L'insegnamento della storia della Resistenza, in «Scuola e città», aprile 1965, n. 4, pp. 253 · 256. E. RAGIONIERI, Resistenza e storia europea: problemi e metodologia dell'insegnamento, in «Il Movimento di liberazione in Italia», aprile-giugno 1965, n. 79, pp. 22 . 50. R. BERARDI, Didattica della storia. Le,:i()fli e documenti, Torino, Giappichelli, 1966 (collana dell'Istituto di storia della facoltà di magistero dell'università di Torino, II). P. 0STELLINO, L'insegnamento della storia e della jìlosefìa nei licei, Torino, Centro di ricerca e documentazione, «L. E inaudi», 1966. Gruppo piemontese del MCE, Metodologia dell'insegnamento della st(lria, in «Cooperazione educativa», luglio-agosto 1966, n. 7 - 8, pp. 5 • 8. Il C()flvegno naz_i()flale di studio su «Scuoia e Resistenza,>, Firenze 19 - 21 marzo 1965, in «La resistenza in Toscana», gennaio 1966, n . 6, pp. 21 - 42. «li nostro impegno: illuminare la gioventù: il nostro C()flvegno "La Resistenza e la scuola", il corso di aggiornamento per insegnanti. La "Conferenza internazionale" indetta dalla FIR. Gli uomini e gli Istituti della Resistenza di fr()fl/e al problema dei giovanÌJ>, ibid, aprile 1966, n. 2, pp. 31 - 44. A. ALBERTI, L'insegnamento della storia, in (<Riforma della scuola», febbraio 1967, n. 2, pp. 11 - 12. B. FERRARI, Problemi di storia contemp(lf'anea nella scuola, in <<Scuola e didattica», 25 dicembre 1967, n. 7, pp. 567 - 571. G. PENATI, L'insegnamento della sf(lf'ia, Brescia, La Scuola, 1967. La didattica della storia. Atti del convegno MCE di T(lf'ino 1967. Interventi di G. QUAZZA, G . PETIER, L. TORNATORE, M. CoROA COSTA, S. PAOLUCCI, B. CIAR1, G. CANTONI DE SABBATA, R. LAPORTA, in «Quaderni di Cooperazione educativa», n. 3 - 4, Firenze, La Nuova Italia, 1967. PETTINI-C!ARI-LODI e ALTRI: Ii libro di testo nella didattica modema, Firenze, La Nuova Italia, 1969. L. TORNATORE, La storia e i su(li problemi, in «La Ricerca», 1 dicembre 1969. G. ROCHAT (a cura), In,biesta sui testi dei/a storia contemporanea nella scuola italiana, in <di Movimento di liberazione in Italia», ottobre-dicembre 1970, n. 101, pp. 3 . 67. B. VERTECCHI, lntroduZ,i()fle di metodi di analisi quantitativa nell'insegnamento della storia, m «La Ricerca», 1 marzo 1970.


70

ROMAI

~L RAl1'lERO

Il lavoro storico nella scuola mtdia, Quaderno di «Cooperazione educativa», o. 4, Firenze, La Nuova Italia, 1970. D. AN'TISERI, Epistemologia contemporanea e didattica della storia, Roma, Armando, 1971. La Resiste1ey1 e la scuola. Alfi del convegno, Brescia, 10 - 11 aprile 1970. Relazioni di G. LoMBAROI, l. VILLANI, E. PETRINI, G. B IANCHI, P. BREZZI, R. T!SATO, l. BERTONI, E. GoRRJERI, G. MAZZON, A. PRANOI, P. PlASENTl, M. P EDINI, R. CRIPPA, Brescia, La Scuola editrice, 1971. AA. VV., Ubri di testo e Resiste1ey1. Atti del convegno nazionale tenuto a Ferrara il 14-15 novembre 1970, Roma, Editori Riuniti, 1971. G . RICUPERA'n, Tra didallica e politka: appunti su/l'insegnamento della storia, in «Rivista di storia contemporanea», ottobre 1972, n. 4, pp. 496 - 516. SANSONE- VACCARO: La storia danl1QSa: indagini sui libri di lesto di storia nelle se. medie inf Emme Edizioni 1972. AA. VV., li libro di lesto nella scuola elementare, Roma, Ed. Riuniti 1972. CoLLETTIVO IN EGNANTI E STUDENTI., Ubri di Jeslo: proposta, Torino Coop. Educ. n. 4 - 5, 1973. Gruppo MCE di Savona, Ubri di lesto: La storia ptr la scuola mtdia, io «Cooperazione educativa.», novembre-dicembre 1973, n. 11 - 12, pp. 9 - 19. AA. VV., I superstiti della cultura media: indagine sui libri al di sopra di ogni sospello. Guaraldi 1973. AA. VV., Proposte didallidx. Insegnamenti lingNislici, storico-geografui, filosofici, Torino, Loescher , 1974. L. MONCHIERI, Trent'anni di libertà, in «Scuola e didacrica», 15 aprile 1975, n . 14 - 15, pp. 14 - 17. O. T OMATIS BIASI, 5'uola e ReistenZ/,1: da dove cominciare, in «Quale storia», marzo 1975, n. 1 - 2, pp. 59 - 60. A. GALLIA, Sapere tlorico e insegnamento della storia, Roma, Studium, 1976. M. VALENTE, La storia nella secondaria, in «Riforma della scu ola», marzo 1976, n. 3, pp. 54 - 55. "Il popolo italiano tra diJtatJ1ra e libertà negli Nllimi tinqNant'anni». Corso rcsidem:iale per insegnanti di scuola media. Trivero (Caulera), 25 - 30 settembre 1976. Ani, Borgosesia, 1977, 1O fase. ciel .. Insegnare storia: una proposta metodologica, in «Riforma della scuola», maggio 1976, n. 5, pp. 35 - 40. D. CARPE!sETO-G. RICUPERATI, &litoria e insegnamento della storia, in «Italia contemporanea», luglio-settembre 1977, n. 128, pp. 57 - 90. K. FrNA, Cosdetr:(,11 !lorica e insegnamento della storia, Brescia, La Scuola, 1977. C. COSTAN'TIN I-A. GIBELLI, Ma la colpa ì Ju/Ja del ManNale?, in «Jtat ia contemporanea», luglio-settembre, I 978, n. 132, pp. 88 - 92. T. DETI1-M. MlTRI-P. VILLAl\1, L'insegnamento della storia, in «Quaderni storici», settembre-dicembre 1978, n. 39, pp. 1147 - 1179. G . QUAZZA, RtsisJe1ey1 e !loria d'Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Vellicelli, 1978. I. MATTOZZI, Contro il manNale, per la storia come ricerca. L'insegnamenlo della sloria nella scuola Jet(J/ldaria, in «Italia contemporanea», aprile-giugno, 1978, n. 131. N. RAPONI (a cura), ScNola e Resistetr:(,11. Alli del convegno promosso dalla regione Emilia-Romagna (Parma 19 - 21 mag,gio 1977), Parma, La Pilota, 1978. G. RICUPERATI, L'insegna111enlo della s/oria nella scJ1ola suondaria sNptriore, in «Quaderno», 1978, n. 2, pp. 7 - 18.


LA GUERRA DI LIBERAZIONE NELLA MANUALISTICA: I TESTI DI STORIA

71

P. VLLLANJ, L'insegnamentq della stqria e la riforma della scuqla media s11periqre e del/'11niversità. Crqnache di 11n inc//lltrq, in «Quaderni storici», settembre-dicembre 1978, n. 39, pp.

1173-1179. AA. VV., L'insegnamento della s/qria. Q11esli//lli epistemologiche e didattiche. Atti del C//llvegnq prqmqssq dalla Fqndazi//lle C. CalZ1Jri Trebeschi, Brescia Fondazione C. Calzari T rebeschi,

1978. G. BINI, Disc11ssioni s11/l'insegnamento della storia, in «Studi storici», luglio-agosto 1979, n. 3, pp. 687 - 694. G . BUTTA (a cura), Insegnamento della storia e riforma della sc11ola, in Atti del c//llvegno di Messina, 5 - 7 ottobre 1978, Messina, Società degli storici, 1979. F. CATALANO, MetodqJqgia e insegnamento della storia, Milano, Feltrinelli, 1979. M. CORDA COSTA, A proposito di insegnamento della storia nella sc11ola media sec//lldaria s11periqre, in (<La Ricerca», 15 ottobre 1979, pp. 2 - 10. P. FILTPPINI, Storia e ed11cazione civica nei licei, parte I e Il, in <<Scuola e città», luglio 1979, n. 6 - 7, pp. 283 - 292; agosto 1979, n . 8, pp. 343 - 352. R. L AMBERTI, Esperienze didattiche sulla storia della Resistenza, in «Storie e storia», aprile 1979, n. 1, pp. 33 - 43. T. M. MAZZATOSTA, Introd11Z,Ì//lle alla pedagogia della storia, Roma, La Goliardica, 1979. S. GUARRACINO-D. RAGAZZINI, Storia e insegnamento della storia. Problemi e metodi, Milano, Feltrinelli, 1980. AA. VV., Una via alla stqria. RinnQVamento didattico e raccolta delle fanti orali, Venezia, Arsenale cooperativa, 1980. R. ANNA, ResistenZfJ e libri di testo. Analisi dei man11ali di storia in adozj//lle nelle scuole medie superiori di Brescia e provincia nell'anno scolastico 1980 - 1981, in BS, aprile 1981, n. 12, pp. 129 - 152. L. LoRENZINI, A proposito del rappqrto tra f//llti, orali e storiografia dell'anttfascismq e della Resistenza, in «Quaderno di scuola», maggio 1981, pp. 8 - 11. F. P ITOCCO, Didattica della storia e storiografia, in «Quaderni storici», aprile 1981, n . 46, pp. 313 - 337. AA. VV., La Stqria: fanti qrali nella scuola, Padova, Marsilio, 1982. AA. VV., La storia contemporanea e la ricerca locale nella scuola, Mantova, 1982.


ROMAIN H. RAINERO

72

APPENDICE -

III -

Manua li esamina ti A) MANUALI PE R LA SCUOLA MEDIA

2 3 4 5 6 7 8 9 1O 11 12 13 14 15

-

-

16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 -

F. D. OLMO, La ltsi di storia, Torino S.E.l., Per la licenza della scuola media (finisce con la 1• guerra mondiale), 1948. F. MELZJ, li mondo di ieri, 3• voi., A. Vallardi, Milano, 1957. D. T ANZIA"-1, Secoli e dvi/là, v. IIl. Milano, Mondadori, 1961. B. BARBADORO-U. J\101'.TANA RI, Cesta maior11m, v. li, Firenze, Le Monnier, 1962. A. Bos!SI0-1. DOMENICONI, L11ci di dviltà, V. lll, Torino, Paravia, 1962. A. LIZIER-G. BIANCH I, Storia nostra, v. IIl, Milano, Signorelli, 1962. F. MELZI D'ERn., Il mMdo di ieri, v. ID, Milano, Vallardi, 1962. R. MoRGII EN-G. CALISTI, Civiltà, v. fil, Palermo, Palumbo, 1962. P. SILVA, Genti in cammino, v. Ill, Milano-Messina, Principato, 1962. G. SPINI-U. 0LOBAR01, Fatti I jìg11re della storia, v. III, Roma, Cremonese, 1962. C. 1EGRO, L'11mana ,onq11ista, v. lll, Torino, Paravia, 1963. S. M ARTI1'ELLI, Il cammino delf11omo, v. ID, Milano, Fabbri, 1964. CoRNACClllA-PAOL072l, La storia nei secoli, 3• voi., Ponce nuovo, Bologna, 1966. F. BoNACINA-E. NATIA, Storia dtll'11omo, 3• voi., A. Vallardi, Milano, 1966. G. ZELASC0-1. :\>lici IALO, li cammi110 deJla storia, 3° voi., Milano, Principato, 1968 (ed. francese 1966). R. CAFFO, Popoli, 11omini, idee. Corso attivo di storia della civiltà per la scuola media, v. Ili, Torino, Paravia, 1969. V. C11T1-A. CossARIJ\1, Vùmda 11mana, 3• voi., Roma, A. Signorelli, 1969. O . 0RTOLA1'1-M. PAGELLA, Il tempo e le opere, 3" voi., Firenze, Le Monnier, 1969. G. SPAOOJ. INI-R. ZAMPlLLONI, J secoli, 3' voi.: Dal Congresso di Vienna ad oggi, Firenze, Le Moonier, 1960 (1' cd. 196 7). A. VALERI-G. ROSSI, Storia della civiltà, 3• voi., Milano, Mursia, 1969. AA. VV., Corso di storia, 3° voi., Firenze, Giunti, 1969. BRAKCATI, L'11omo e il tempo, 3' voi, Firenze, La Nuova Italia, 1970 ( t• ed., tomo primo: Materiale di lavoro; tomo secondo: Profilo). J. D E"ITORE-F. Ct;RATO-G. SALTl1''1, Dalla ,averna alfastronave, 3" voi., ovara, Istituto Geografico De Agostini, 1970. D. TONDO-G. G UADAGNI, La storia e i suoi problemi. Corso di storia e di educazione civica per la scuola media, 3• voi., Torino, Loescher, 1970. C. A. GIA NELU, Teslimonim,zt. Corso di storia e di educazione civica per la scuola media, 3° voi., Firenze, Bulgarini, 1970. M. MENCA RELLI, Uomini e civiltà, 3° voi., Brescia, La scuola, 1970. U. 11COLl'fl-D . CoNSONN'I, L '11omt> e la sua storia, per la scuola media, 3• voi., Torino, S.E.I., 1970. O. 0RTOLANI-M. PAGELLA, Il tempo e le opere, 3° voi.: Evo contemporaneo (dal 1815 ai nostri giorni), Firenze, Le Monnicr, 1970. S. PAOLUCCI, Storia per la sa1ola media, 3" voi.: Ottocento e ovcccnto, Bologna, Zanichelli, 1970 (1" ed. 1964). Note per l'insegnante del 3• volume. G. A. G 1ANNELLI, Aspetti di civiltà, 3• voi., Firenze, Bulgarini, 1971.


LA GUERRA DI LLBaRAZlONE NELLA MANUALISTICA: I TESTI DI STORIA 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57

73

S. PAOLUCCJ, Storia: Ottocento e Novecento, 3• voi., Bologna, Zanichelli, 1971. S. PAOLUCCI, Storia: Ottocento e Novecento, 3• voi., Bologna, Zanichelli, 1974. G. ANGELO, Perché la storia, 3" voi., Firenze, D'Anna-Messina, 1975. L. E. R. ViLLARl, La società nella storia, 3• voi., Firenze, Sansoni, 1978. S. ZAVOLI, A passo d'uomo, 3• voi., Novara, Istituto Geografico D e Agostini, 1978. A. CAMERA-R. FABIETTI, Elen1enti di storia, 3• vol., Bologna, Zanichelli, 1980. R. FAB!ETTI, La storia insien1e, 3• voi., Milano, Ghisetti e Corvi Editori, 1980. G. GOZZER, Storia: Gli ultimi due secoli, Firenze, Giunti-Marzocco, 1980. L. M,\GNI-G. ScANZl, Classi e Società, 3" voi., Mi lano, Signorelli, 1980. C. MAGNI-G. PAGANINI-G. SQUIZZATO, li cantiere della storia, 3• vol., Milano, Fabbri, 1980. L. M,\ZZOLENl-ROCCHETTI, Storia, 3• voi., Torino, Lattes, 1980. L. MONTANARI, Storia e civiltà dell'uomo, 3• voi., Bologna, Calderini, 1980. PRANDI, L'Eurqpa centro del mondo, 1· e 2• voi., Milano, S.E.I., 1980. SoLFAROLI-CAMlLLOCCI, Storia: 13 unità didattiche, Torino, S.E.l., 1968. AA. VV., li libro Garzanti della storia, 3• voi., Milano, Garzanti, 1980. F. DI TONDO-G. GUADAG1'1I, La storia e i suoi problemi, 3• voi., Torino, Loescher, 1981. G. GAZZARRI-D. GRECO-M. VANNINI, 3" voi., Milano, Fabbri, 1981. M. MENCARELLI, Dimensione Storia, 3• voi., Brescia, La Scuola, 1981. G. RIGHINI RICCI, L'umano divenire, 3• voi., Milano, Signorelli, 198 1. M. VEGETTI-M. COCCINO, Senso st(lrico, 3• voi., Bologna, Zanichelli, 1981 . M. V ALGRANDE-F. POLLO-R. GIULIANO, Le nostre radici, 3• voi., Torino, Perrini, 1982. A. BRANCATI, Fare storia, 3• voi., Fi renze, La Nuova Italia, 1983. CAFFO, Popoli, uomini, idee, 3' voi., Torino, Paravia, 1983. M. SENSALES-M. GIUPPONI-J. BIANCH I, Attualità del passato, 3• voi., Torino, Paravia, 1983. TAROZZI, Società ieri e oggi, 3" voi., Torino, Paravia, 1983. G. DE ROSA-A. CESTARO, Mito, storia, civiltà, 3• vol., Bergamo, Minerva Italica, 1984. ALDO A. MOLA-RUGGIERO ROMANO, Come siamo?, Torino, Paravia, 1984, voi. 3•.

A) MANUALI PER LE SCUOLE SUPERIORI 1 2 3 4 5 6 7 8

V. FrUPPONE, Civiltà madre. Corso di storia per gli ist. tecnici, 2• voi., (finisce con il 4 settembre 1939), 1946, G . B. Paravia, Torino. B. BARBJ\DORO, La storia nei licei e ist. magistr. (finisce con la 1• guerra mondiale), firenze, Le Monnier, 1949. B. BONFIGLI, Storia contemporanea per gli ist. tecnici, Milano, Ediz. C.E.T.l.M., 1949. FIMIANI-MONTI, Storia della civiltà europea, Scuole medie sup., 3• voi., 1951, La Prora, Milano. A. BoSISIO, La formazione dell'Europa attuale, 3• voi., Milano, Paravia, 1959. E . BRUNI, Testo di storia per gli ist. temici, 2· voi., Storia contemporanea, 19 58, Signorelli, Milano. G. SPINI, Disegno storico della civiltà italiana, 3• voi., L'età contemporanea, 7' ed., Roma, ed. Cremonese, 1958. R. MORGHEN, Civiltà mropea-Età contemporanea (medie superiori), 1960, Palumbo, Palermo.


74 9

10 11 12 13 14 15 16 17 18 19

ROMAIN H. RAINERO L. RA ULICH, Corso di storia moderna e contemporanea dal 1914 ai nostri giorni. Ad uso degli ist. tecnki, 1960, G. B. Paravia, Torino, Roma, Milano. E. BRUl\1, Testo di storia ptr gli ist. temici, 2· voi., civiltà contemporanea. uova trattazione dei periodi storici più recenti, 1961, Signorelli, Milano. R. LoRETO-M. MARIANO GALLO, Storia-Geografia, 3• voi., corso telescuola (Corso televisivo di avviamento professionale), 1961, E RI ed. Rai, Torino. G. B. PlCOTIJ-G. ROSSI SABATl:sll, N11ovi lintammti di storia. Età contemporanea, Brescia, ed. La Scuola, 1961. A. ROSSI, Corso di storia civile ed economica, 2° voi., Milano, ed. Principato, 1961 . A. SAJTTA, Il cammino 11mano, (licei), 3° voi., 1961, La nuova Italia, Firenze. G. SPINI, Dalla preistoria ad oggi, (1st. tecnici) S- voi., 1961, Cremonese, Roma. E. O UPRt, Italia td ENropa, Y voi., Firenze, D 'Anna, 1962. E. D UPRÉ, Da 11n secolo alfaltro, 3• vol., Firenze, od. D'Anna, 1962. R. MORGHEN, Civiltà europea. Età contemporanea, Palermo, Palumbo, 1963. R. MORGHE~-1. IMBERCLADOR I, Corso di storia, 3° voi., Palermo, Palumbo,

1962. 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31

32 33

34 35 36 37 38

F. MOROKI, Corso di storia ptr i licei e gli istituti magistrali, Y voi., Torino, S.E.l.. G. B. PJCOTIJ-C. VIOLANTE, Civiltà e Società, 5• voi., Brescia, od. La Scuola, 1962. A. SAITTA, Prod11zjone e traffici nella storia della civiltà, 3• voi., Firenze, Sansoni, 1962. P . SU.. VA, Lr.doni di storia dvi/e ed economica, 3• voi., Milano, Principato, 1962 ( uova edizione rifatta dalla dott. V. Silva Pugliese). B. BARBADORO-G. FERRARA, Storia economica e civiltà, 3• voi., Firenze, cd. Le Monnier, 1963. R. BELVEDERJ, Storia, 5• vol., ed. Marietti, 1963, Torino. A. LIZIER, Corso di storia, 3° voi., Età contemporanea (1815-1948), Milano, ed. C. Signorelli, 1963. A. MANARESI, Storia contemporanea. Dal Congresso di Vienna alla proclamazione della Repubblica Italia11a, Milano, s.d. ( ma 1963), ed. Trevisini. A. SAITTA, Il cammino della civiltà. Corso di storia per i licei e gli ist. magistr., 3° voi., 1963, La I uova Italia, Firenze. A. SAITTA, Il cammino 11mano. Corso di storia per gli isc. tecnici, Y vol., La Nuova Italia, Firenze, 1963/65. P. StLV A, Corso di st1>ria per i lieti tlassici, i licei scientifìci e gli istit11ti magistrali, 14• ed., 3• voi., L'Età contemporanea, Milano, Principato, 1963. G. S0RA1''20-G. TARA:S.'l"ELLO, Storia ptr i lieti e ptr gli i.stilllli magistrali, 3° voi., Età contemporanea, 4' ed. riveduta, corretta, aumentata, Bergamo, ed. Minerva Italiana, 1963. G. SORANZO-G. TARANTELLO, Civiltà nostra, Bergamo, Ed. Minerva Italica, 1963. G. Pll\1, Disegno storico della civiltà ( Licei classici, scientifici e 1st. Magistrali), 3• voi., Cremonese, Roma, 1963. R. CArFO-F. MA ZOTII, Ieri e oggi e temi di storia del risorgin1enlo e delfetà co11te111pora11ea, 1965, Le Monnier, Firenze. CAMERA-FABIETTI, Storia (1st. tecnici), 3° voi., 1965, Zanichelli. CoR ACCHIA-PAOLOZZI, Secoli di civiltà (1st. professionali), 3• voi., 1968, Palumbo, Palermo. O. ORTOLANI, Colloqui di storia per gli esami di mat11rità e di abilitazione, 1968, Le Monnier, Firenze. A. SAITIA, li cammino umanfJ. Corso di storia ad uso dei licei, Y voi., flrenze, La 'uova Italia, 1968, (1• cd. 1954).


LA GUERRA DI LIBERAZlONE NELLA MANUALISTICA: I TESTI DI STORIA

39 40 41 42 43 44 45 46 47 -

48 49 50 51 52 53

-

54 56 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 -

75

E. D UPRÉ, Italia ed europa, (licei e ist. magistrali), 1969/ 72, D'Anna, Messina, Firenze. F. MELZI D'ERIL-E. MANDELLI-M. L. COTTIERI, li fiume della storia (1st. tecnici), 5° voi., 1969, ed. Scolastiche Mondatori, Verona. R. MORGHEN, Civiltà europea. Corso di st0 ria per le scuole medie superiori, 3° voi., Palermo, Palumbo, 1969 (1' edizione 1951 ). G. QUARZA, Corso di storia per i licei e gli istituti magistrali, 3° voi., Torino, Pettini, 1969. A. CAMERA-R. F ABIETTI, Storia per gli istituti tecnici, 3° voi.: Dal 1848 ai giorni nostri, Bologna, Zanichelli, 1970 (1 • ed. 1968). L. CAITANEI-V. FABROCJNI, Tempi e testimonianze. Corso di storia per gli istituti magistrali e licei, 3° voi., Torino, SEI, 1970. A. SAIITA, Produzione e traffici nella storia della civiltà (ist. tecnici), 1970, Sansoni, Firenze. F. SALVO-F. Ro·roLO, La città dell'uomo. Manuale di storia ad uso dei licei e dell'istituto magistrale, 3° voi., (2 tomi), Firenze, Le Monnier, 1970. G. SPINI, Disegno storico della civiltà per licei classici, scientifici e istituti magistrali, 3° voi., Roma, Cremonese, 19 70 ( 11' ed.). R. VILLARl, Storia contemporanea. Per le scuole medie superiori, 3° voi., 1970, Bari, Laterza. R. BELVEDERl, Storia per gli ist. magistr., 1971, Torino, Marietti editore. C. CIRANNA, Tesi di storia contm,poranea dal 1814 ad oggi, 1971, Editrice Ciranna, Roma. M. GRLLLANDI, Ceni!> anni di storia (Media superiore), 1972, Gremese, Roma. G. Q UAZZA, Corso di storia (Licei e ist. magistrali), 1972, Petrini, Torino. F. APOLLONIO, Storia civile, politica ed economica in compendio (Med ia superiore), 1973, Ed. Scolastiche, Patron, Bologna. L. CA'ITANEI-V. FABROCJNJ, Tempi e testimonianze (licei e ist. magistrali) 3° vol., 1973, SEI, Torino. N. D E SIMONE, Corso di storia (1st. tecnici), 3° voi., 1974, A. SignoreJli, Roma. F. CAROINI-G. CHER.UBINl, Storia contemporanea (media superiore), 3° voi., 1977, Sansoni, Bologna. R. VILLARl, Storia contemporanea (medie superiori), 1977, Laterza, Bari. M. LEGNANI-R. PARENTI- A. V EGEZZI, Tempo storic1J, (licei) 3° vol., 1978, Zanichelli, Bologna. R. MANSELLI, L'Europa e il mondo (media superiore), 3° voi., 1978, Palumbo, Palermo. M. SALVADORI-R. COMBA-G. RICUPERATI, C1Jrso di storia, (licei e ist. magistrali), 3° voi., 1978, Loescher, Torino. F. TRANIELLO, L'Europa e il mondo contemporaneo (1st. professionali), 1980, SEI, Milano. F. CHlCCO-G. LIVIO, Il mondo contemporaneo dal 1914 ai giorni nostri, (1st. professional i), 1981, Paravia, Torino. G. SPINI, Disegno st1Jric1J deJJa civiltà. Licei classici, scientifici e ist. magistrali, 3° voi., 1981, Roma, Lat=a. G. D E. ROSA, St1Jria contemporanea (Licei e ist. magistrali), 3' voi., 1983, Minerva Italica, Bergamo. R. MARCHESE, Frontiere della stt>ria, (Media superiore), 1983, La Nuova Italia, Firenze. G. PROCACCI-FAROLFl, Passato e presente, (Media superiore), 3° voi., 1980, La Nuova Italia, Firenze.



MINOMILANI

L'IMMAGINE D ELLE FORZE ARMATE NELLA MANUALISTICA SCOLASTICA: LE ANTOLOGIE LETTERARIE Ho preso in esame alcune antologie per il Biennio e il Triennio delle superiori, alcuni testi tra i più diffusi nella scuola; devo quindi dire di aver compiuto una indagine parziale, ed anzi limitata; ed aggiungere, ancora, che mi auguro di essere corretto e smentito come chi, tra le molte, ha scelto le letture sbagliate; mi auguro che mi si dica, insomma, che l'argomento di cui djscutiamo, le Forze Armate e la guerra di liberazione, sia ben più a fondo trattato di quanto mi sta parso. Perché, primo dato che si registra (ma non imprevisto nemmeno da chi, come me, non è uomo di scuola), delle Forze Armate e della Guerra di liberazione non si forniscono in sostanza che poche immagini; ci si Umita a dare qualche notizia, o meglio ancora a indurre qualche impressior1e: e non direi che siano esaurienti le prime, e destinate a restare le seconde. Eppure, nella storia di un Paese giovane come il nostro, le Forze Armate hanno rappresentato e rappresentano, in pace e in guerra, un momento particolare, importante, e in un certo senso anzi decisivo. Malgrado i suoi metodi e i suoi errori, l'Esercito ha pur promosso un amalgama tra le varie componenti sociali e regionali della azione; nella storia della quale ha sempre mantenuto un posto rassicurante, ciò che non sempre è stato in altri paesi, anche di radicata democrazia: «Qui non siamo in Spagna - diceva Cavour a Fanti nel 1860 - qui l'Esercito ubbidisce», e sono parole che da allora abbiamo potuto serenamente ripetere. Eppure, ancora, è alla Guerra di liberazione che dobbiamo il volto nuovo dell'Italia; l'unità ritrovata, il risveglio, preconizzato da Mameli, del popolo al di là d'ogni lotta di classe; e non ci rammaricheremo mai abbastanza che gli eventi successi vi, la diaspora politica e la delusione successiva, tale unità e tale risveglio abbiano compromesso, e speriamo non irrimediabilmente. Grande istituzione, quindi, e grandi eventi, cui ho visto dedi-


78

MINO MlLANI

cate pagine complessivamente inadeguate; non per mancanza di buoni testi, ma perché poste al servizio di una tesi o di un pregiudizio politico, o perché scelte secondo quello che appare un criterio convenzionale. Mi è stato difficile sottrarmi all'impressione che gli Autori provassero una sorta di disagio ad affrontare questi argomenti, che per loro natura non si inseriscono nel dominante trend della pace, argomento che trionfa, e giustamente trionfa: ma che non deve cancellare altri. Potrà anche non piacerci rammentarlo, ma nel corso di questo secolo l'Italia ha combattuto due guerre mondiali; potremmo anche desiderare di dimenticarlo, ma milioni di italiani hanno vestito la divisa, sono stati inquadrati, addestrati ed avviati ai fronti di combattimento. Possiamo ancora, in nome d'una superiore concordia, cercare di dimenticare o di non parlarne: non per questo, però, scomparirà dalla storia ciò che è accaduto dal 1943 al 1945. Dalle antologie che ho esaminato, troppo poco risulta di quell'evento grandioso, tragico ma non totalmente negativo che fu la Grande guerra; nulla dello sforzo coralmente compiuto dagli Italiani, riluttanti o no. C'è, nell'antologia che chiamerò B, l'omaggio reso agli Alpini dell'Ortigara, attraverso le pagine di «Le scarpe al sole» di Monelli; non vi sono altri nomi, non l'Isonzo, per esempio; e c'è Gorizia, solo per rammentare che «fu maledetta». L'argomento principale è Caporetto; e nulla ci sarebbe di male, se non si pronunciasse chiara la tendenza a presentare l'episodio solo nei suoi momenti di crisi e di disfatta, concluso qui, senza altri sbocchi; non vedendo dunque Caporetto nel suo insieme, come in realtà fu: operazione militare lunga e complessa, che va dallo sfondamento della linea italiana sull'Isonzo fino al ristabilimento della stessa sul Piave. Giusto indagare le cause del crollo militare e morale delle nostre Forze Armate in quel settore; giusto rilevare la stanchezza dei soldati esposti da troppo tempo a un logoramento devastante; ingiusto però lasciare quei soldati e quell'Esercito immersi nel fango della sconfitta; e non dire che gli stessi protagonisti della ritirata o della rotta, furono in gran parte quelli della resistenza ed anzi del contrattacco vittorioso sul Grappa e sul Piave. Si parli pure di Siciliani disertori, ma si ricordi anche come furono i Siciliani della Brigata Aosta a fermare sul Grappa la famosa Divisione Edelweiss; e se qualcuno obietta che saremmo nella storia, qui, e non nella letteratura, posso rispondere che nemmeno le circolari di Cadorna, dalle ferree disposizioni repressive, sono letteratura. on sono affatto certo, del resto, che il freddo linguaggio burocratico di una circolare possa


LE FORZE ARMATE NELLA MANUA LISTICA: LE ANTOLOGIE LETTERARIE

79

impressionare un giovane: su questo particolare aspetto (o su questo particolare orrore) della guerra italiana non mancano pagine di vera letteratura, atte a restare nell'animo ben più profondamente che non le parole di un foglio di disposizioni; e penso alle pagine di Un anno sull'Altipiano di Lussu, o di Trincee <Ji Salsa, per limitarmi a due citazioni. Quanto all'informazione più propriamente storica che introduce a Caporetto, l'antologia A scrive: «è abbastanza noto che alle spalle dei reparti mandati all'assalto venivano piazzate mitragliatrici azionate dai carabinieri per scoraggiare eventuali sbandamenti e ripiegamenti»; e allora tutta la nostra guerra appare in realtà come opera di repressione, di violenza e di massacro, e noi sappiamo invece come non sia lecito trarre conclusioni generali da episodi particolari, per quanto ripetuti. Per dirla con Pascal, questi autori «sono come quelli che fanno false finestre. Loro scopo non èfare cose giuste, ma figure perfette». Del resto, a fornire notizie su Caporetto, la stessa antologìa ricorre a un articolo di giornale steso da un non-specialista, con limiti inevitabili e conclusioni frettolose: mentre sappiamo bene che non mancano in argomento studi recentissimi, condotti con metodo rigoroso e con la dovuta serenità. Sempre per Caporetto, che fa la parte del leone, c'è in due antologie, la B e la C, il ricorso all'inevitabile Hemingway di Un addio alle armi, scelta letterariamente valida e tesa evidentemente a far sentire, su questa tragedia italiana, una voce straniera; però è da dimostrare eh~ le pagine di Hemingway, proprio in quanto pagine di romanzo, siano storicamente attendibili e non abbiano invece quel tanto di letterario, di dedicato al lettore, di artificioso, che le rende meno probabili di altre. Né Hemingway sfuggiva alla suggestione dell'archetipo, ed ecco l'italus bellax nel ferito che grida «Mamma mia! Mamma mia!» (e su questo italiano che implora la mamma, lo scrittore americano torna in un lungo saggio del '36). Ora, in argomenti così severi, due cose dovrebbero trovare posto in una antologia destinata ai giovani: poesia e verità, per citare un grande titolo. Mi chiedo perché non ricorrere per Caporetto alle pagine di Fremura, di Comisso dei Giorni di guerra, del Soffici della Ritirata dal Friuli (c'è però nell'Antologia C un brano del suo Kobilek). Allo stesso modo, è largo il ricorso, in un discorso più genera.le sulla guerra, a Remarque, al suo All'ovest niente di nuovo; e so bene quale emozione destò quel libro, che lessi clandestino in Italia durante la guerra; ma ancora perché non ricorrere alle pagine di Salsa, di Lussu, di Bartolini, certamente non meno belle, e tanto più valide, per un lettore italiano?


80

MINO MlLJ\l\'J

A dare una certa serenità, però, a ricordare che un Esercito è pur sempre formato da uomini, i quali malgrado tutto sanno sorridere, sperare e insomma vivere da uomini, ecco nelle Antologie C, D ed E, due brani di Pietro Jahier, dal suo indimenticabile Con me e con gli Alpini. L'Aqtologia B propone, con giusto criterio, due lettere di combattenti, tratta la prima dalla raccolta curata da Adolfo Omodeo (Momenti della vita di guerra), la seconda da quella di Leo Longanesi (L'italiano in guerra). L'Antologia C pubblica qualche poesia di Ungaretti, brani di Serra e di Bacchelli; ma, più propriamente riferibili alle Forze Armate, sono le pagine di Berto da La vita militare e del Della Corte da Il grande balipedio; l'impegno però qui è, o risulta, grottesco, con una descrizione elegante ma di maniera del primo giorno d'una recluta in caserma; e quella di un colonnello che in trincea sceglie un gruppo di soldati destinati a un'azione senza ritorno. Tutto qui. Penso che quanto possa più facilmente restare nella mente o nella fantasia di un giovane, dopo queste letture, sia soltanto qualche immagine, o qualche nebbioso concetto, e l'impressione che le nostre Forze Armate fossero composte da generali fucilatori, da colonnelli idioti, da soldati ansiosi di rivolta, presi tra il fuoco austriaco o quelli dei Carabinieri, e pronti a gettare il fucile, a scappare e a piagnucolare «mamma mia>>. La difesa d'un altro aspetto della questione, di un'altra verità, di un'altra immagine dell'italiano in guerra, è affidata alle poche pagine di Monelli e di Jahier.

* *

* Egualmente trascurate, o poco meno, sono la Seconda guerra mondiale e la Guerra di liberazione. L'Antologia A pubblica la cupa testimonianza raccolta dal Revelli ne La strada dei Davai sullo sgomento di un anonimo soldato di Grecia e di Russia; e ad essa corrisponde la lettera di un ufficiale di evidente condizione sociale e politica elevata (tratta, questa, dalla Storia della Repubblica di Salò, del Deakin) che con linguaggio diverso esprime eguali sentimenti di fronte al dramma personale e collettivo della guerra. L'Antologia B, con ricorso a testimonianze parimenti valide ma letterariamente ineccepibili, mostra invece il soldato italiano non più lasciato a se stesso, in una sorta di folle e colpevole abbandono, ma in quello che fu, malgrado tutto, la condizione più comune. Sono le pagine di Tobino sulla guerra in Africa Occidentale (Il deserto della Libia) e quelle di Rigoni-Stern sulla campagna di Russia (Il sergente nella neve). Si legge, qui, di soldati che scaraventati nelJ'inferno della guerra, ad


LE FORZE ARMATE NELLA MANUALISTICA: LE ANTOLOGIE LETTERARIE

81

essa reagiscono facendo appello alle proprie risorse di coraggio, di tenacia, di dignità, al senso di solidarietà umana e del dovere. Non c'è in sostanza altro, nulla recando le altre antologie. Niente del resto sull'Aeronautica, e non mancherebbero testi adatti; e nemmeno sulla Marina, e pure testimoni e protagonisti hanno lasciato delle loro esperienze ricordi indimenticabili e testi di assoluta validità letteraria. L'impressione generale è che, della guerra come delle Forze Armate, si abbia la vecchia visione ottocentesca o di maniera, del fantaccino con lo zaino affardellato, le scarpe rotte e così via. Neppure per una riga o per un istante balena il problema di uomini messi di fronte a strumenti di morte e di distruzione impensati, micidiali, devastanti e prodotti da una nuova tecnologia. Ripeto, queste sono questioni di storia; ma di esse occorre parlare, perché, se non tutte, almeno qualcuna di queste antologie si propone esplicitamente di affrontare proprio il problema dell'uomo nella storia. Nemmeno la Guerra di Liberazione è considerata in modo esauriente, e certo non si può dire per difetto di testi. Manca innanzitutto quanto valga a spiegare e ad illuminare il dramma del popolo italiano, dall'una all'altra guerra; e le brevi note messe a introduzione dei brani proposti dicono poco o nulla. Nel complesso, il materiale sembra scelto senza metodo, raccolto quasi casualmente; gli autori sono pochi e ricorrenti: Fenoglio, Pavese, come se la Guerra di liberazione si fosse combattuta soltanto in Piemonte; vi sono brani che descrivono l'organizzazione delle bande, la loro struttura politica e militare; e vi si nota (sono pagine di Livio Bianco) una invincibile ritrosia a usare il termine militare, o militarizzazione, come se fosse possibile combattere senza di essa. Ma il problema è di scelta del compilatore, ed è naturale che nulla si dica del contributo del Corpo italiano di liberazione; le buone pagine di Fenoglio e di Pavese, donde balza con nitidezza il carattere popolare ed improyvisato, talvolta, della guerra partigiana, forniscono ancora una immagine frettolosa di essa; come troppo sommariamente è descritto il nemico, di cui ci si limita a sottolineare la brutalità e la ferocia, con testimonianze su Marzabotto ed altri eccidii, con qualche pagina in verità un po' stanca di Vittorini; abbondano testimonianze, lettere di condannati a morte, epigrafi; v'è qualche poesia. Nulla relativo alla tragedia dei nostri soldati sorpresi dall'armistizio lontano dalla patria. Così mancano molte tra le più struggenti pagine della nostra ultima letteratura. Mi sono riferito alle Antologie A, B e C. L'antologia E, che si


82

MINO MILAN!

segnala per il rigore nella scelta dei testi, propone insieme con Fenoglio e Pavese, il testamento spirituale di Giaime Pintor; vasto è l'appello alle letterature straniere, ad autori come Vercors, Wiechert, Steinbeck; c'è però da domandarsi se non si sia sacrificata la realtà a una visione ormai stereotipa della Guerra di liberazione; e se si sia veramente indagato nella buona letteratura che, a vari livelli, essa ha prodotto. Rimane la sensazione che l'argomento sia trattato frettolosamente. Ora, se le Antologie che, quale campione, mi è stato chiesto di esaminare, intendono essere (come del resto dichiarano i loro compilatori) non solo strumenti cli conoscenza letteraria e problematica, ma anche di educazione civica; e se intendiamo quest'ultima in un senso più vasto del convenzionale, devo confessare di non aver compreso quanto alcune cli esse si siano ripromesse: certo non l'obiettivo, sia pur parziale, di rendere non dico omaggio, ma giustizia all'italiano in armi; non mi riferisco a qualcosa di impreciso e di variabile come la cosidetta «virtù militare», ma solo alla dignità dell'uomo considerato in una determinata condizione, quella appunto militare. Non solo a questo: le Forze Armate, come la guerra, sono pur sempre state un momento unificante delle componenti cliverse e contraddittorie della nostra Nazione; altri mezzi sono e sono stati certamente più auspicabili e desiderati, la scuola, la fabbrica, lo sport; però la storia è quella che è, e storicamente parlando le istituzioni sono state quelle che sono state; e di fatto, giovani cli classi, di età, di cultura cliverse, di regioni, cli clialetto, cli educazione difformi, nelle Forze Armate si sono conosciuti, l'uno rivelandosi all'altro in una realtà inattesa, riconoscendosi neUa lingua, nell'ideale; affratellandosi nella fatica, nel rischio o soltanto nella sofferenza; è la strada, ben lontana dall'essere compiuta, che ha cominciato a condurre gli italiani alla loro unità. Non sono uomo di scuola; però so quanto sia importante ciò che si legge nelle scuole; e so che spesso è ancora l'unica lettura di una vita intera. Pur sapendo dove mettere le mani, immagino di non avere gli strumenti tecnici per compilare una antologia. Se però mi si chiedesse con quale spirito vorrei che i ragazzi italiani sapessero delle loro Forze Armate e della guerra, senza nulla tacere, senza nulla nascondere di miserie e di orrori, risponderei ~itando le parole che Gaetano Negri, impegnato nella repressione del brigantaggio, scrisse al padre il 14 aprile 1862, dopo che il suo reparto aveva sostenuto un duro scontro, perdendo otto soldati: «Quegli otto soldati che rimasero vittima dei colpi del nemico, li ho sempre davanti agli occhi. Erano giovinetti, pieni di avvenire e di speranza; io


LE FORZE ARMATE NELLA MANUALISTICA: LE ANTOLOGIE LETTERARIE

83

li vedevo sempre intorno a me, pronti a gettarsi a un mio cenno incontro a qualunque pericolo. E caddero così miseramente! Tre erano napoletani, uno toscano, uno romagnolo, due lombardi, uno piemontese».

BIBLIOGRAFIA CHICCO F.-LIVIO G., Il mondq contempqraneQ dal 1914 ai nqs/ri giqrni. Antologia di cultura generale e di educazione civica per gli Istituti professionali d 'ogni tipo (Paravia, 1981). LUSSIGNOLI M., Città dell'uomQ. A ntologia ad uso dei Ginnasi e del Biennio dei Licei Scientifici (Principato, 1980). TONUCCI MAZZA, A., Impegno umanQ. Antologia italiana per il Biennio (Petrini, 1978). GIUD ICE A.-BRUNl G., Problemi e scri//qri della lelleratura italiana. Med ie-superiori (Para via, 1973). PAZZAGLIA, T esti e lineamenti di letteratura italiana ed europea (Zanichelli, 1976).



PARTE SECONDA



FRANCO CARDINI

L'UOMO DI GUERRA E L'UOMO IN GUERRA: NOTE STORICO-AN TROPOLOGICHE Da un punto di vista strettamente socioantropologico, la guerra rientra fra le relazioni intersocietarie, interstatali e internazionali e tende come suo scopo a risolvere questioni e tensioni altrimenti irrisolvibili (o giudicate tali) mediante l'uso di strumenti giuridici, politici o diplomatici. Da qui la necessità di trattare il fenomenoguerra come altri fenomeni consueti nelle vicende del genere umano, e sottoporlo a una regolamentazione su basi convenzionali stipulate e accettate. La guerra diviene pertanto oggetto del diritto internazionale, che elabora dati già rilevati dal diritto romano e dalla giurisprudenza medievale (decreti pontifici e conciliari, consilia di giurisperiti e via discorrendo) e mira a far sl che gli elementi distruttivi insiti per loro natura nella guerra non superino determinate barriere. Le norme morali dettate in molte culture tradizionali per i guerrieri (è qui il caso di ricordare, per il nostro medioevo, l'etica cavalleresca dalla quale la stessa etica militare moderna dipende direttamente) servono appunto ad arginare il potenziale di violenza e di distruttività che l'uso delle armi pone in campo. D'altro canto, al giorno d'oggi la guerra è oggetto di studio da parte di varie discipline. La storia propriamente «militare» già si occupava tradizionalmente di eserciti, di battaglie, di questioni diplomatiche come di problemi tecnici, logistici, giuridici e via dicendo; il diritto internazionale aveva nella guerra uno dei suoi principali soggetti di studio; l'economia esaminava le ripercussioni del fenomeno-guerra sulla v.Ìita economica e le complesse reciproche relazioni fra storia delle guerre e sviluppo economico. La stessa filosofia aveva nella guerra uno dei suoi soggetti privilegiati: si pensi alla riflessione dei filosofi cristiani e specialmente di sant'Agostino sul bellum iustum; alle pagine di Erasmo da Rotterdam dedicate ai problemi della guerra e della pace; agli scritti sei-settecenteschi di arte militare, che in alcuni casi (Raimondo Montecuccoli, Federico II di Prussia) giungono a p resentarci dei veri «militari-filosofi»; al pensie-


88

FRANCO CARDINI

ro di Hegel, di Nietzsche e di altri pensatori contemporanei. Oggi, il discorso sulla guerra e sulla pace è stato ripreso, con rigore filosofico e giuridico e con grande passione morale, da Norberto Bobbio. Ci si è peraltro accorti da tempo che la storia propriamente «militare» e le varie discipline a carattere economico, giuridico o filosofico non possono in alcun modo esaurire l'argomento. La guerra ha un legame preciso con la storia della tecnica, del progresso tecnologico, della cultura materiale. Al di là delle polemiche sollevate da questo rapporto (che per taluni conduce alla necessità di considerare la guerra come un fattore obiettivo di progresso o comunque come inscindibile dal progresso stesso; mentre per altri le accelerazioni tecniche impresse a certi aspetti del progresso dalle necessità belliche sono vantaggi che l'umanità paga comunque a un prezzo troppo alto), resta il legame profondo tra guerra e tecnologia: un legame che in certe età - il Cinquecento, con l'invenzione delle armi da fuoco; l'ultimo Settecento, con il perfezionamento dei cannoni e l'impiego massiccio delle artiglierie; l'età contemporanea, con l'energia nucleare - sembra divenire strettissimo e condizionare l'intero tempo nel quale queste innovazioni si presentano. Ma la guerra ha anche un suo risvolto propriamente culturale e addirittura mentale, che a sua volta è necessario ben valutare. Essa ha una sua estetica, che parte dagli ornamenti e dai canti di guerra delJe società tradizionali extraeuropee o delle nostre età antica e medievale e si sviluppa in uno speciale contesto etico-estetico, quello che si è definito il «Bello-Terribile»: la Bibbia, l'Iliade, la Chanson de Roland ce ne danno esempi precisi. Esiste altresì un folklore di guerra, che vari popoli hanno elaborato e che riguarda sia i partecipanti attivi ai conflitti - i combattenti veri e propri - , sia le popolazioni che tali conflitti sono costrette piuttosto a subire (gli inermi o le stesse famiglie dei combattenti preoccupate per la loro sorte). Il folklore di guerra è oggetto di ricerche a livello antropologico-culturale, e studiosi come Mare Bloch o Agostino Gemelli si sono occupati a lungo di questo problema. Insomma, la guerra incide sui meccanismi della paura, sulla memoria, sulla psiche individuale e collettiva. Neppure questo è un argomento trascurabile. E difatti della guerra si occupa anche la psicanalisi: in area italiana, lo specialista più noto al riguardo è Franco Fornari. Se l'origine dei vari conflitti è da ricercarsi volta per volta nell'economia, nella politica, nelle differenze religiose, etniche o ideologiche, l'origine della guerra in sé e per sé costituisce a sua volta un


L 'UOMO D I GUERRA E L'UOMO IN GU ERRA: NOTE STOR!C<).ANTROPOLOGICHE

89

problema profondo e affascinante. La guerra è senza dubbio violenza: ma non è violenza totale (difatti esiste fra i combattenti una «disciplina» che è repressione di violenza; e il diritto internazionale regola l'uso della forza impedendo che esso degeneri in impulso di distruzione totale, in ciò fiancheggiato sia dalle etiche religiose, sia da quelle professionali di certi gruppi di combattenti), mentre d'altro canto sappiamo che esistono forme di violenza anche al di fuori della guerra. La violenza, d'altronde, è uso della forza (violentia da vis) in trasgressione a norme, e non si dà pertanto violenza senza che una norma sia precedentemente ad essa fondata. Antropologi, sociologi e psicanalisti sono quindi concordi nello studiare - con strumenti differenti - i meccanismi dell'aggressività, che d'altro canto è uno degli strumenti con i quali l'uomo comunica con i suoi simili. Da dove si origina l'aggressività? Da dove l'istinto di uccidere? Miti e «storie sacre» hanno dato a tale domanda, cruciale per il genere umano, varie risposte. Di recente, studi importanti sono stati quelli di René Girard sul tema del rapporto tra violenza e sacrificio e di Walter Burkert sull'antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica. Ma il rapporto fra sacrificio, diritto di amministrare la giustizia e di dichiarare le guerre come cellula-base delle società istituzionali e della loro sacralìzzazione (quella che è stata chiamata la «monopolizzazione della violenza») era già stato con accenti differenti rilevato da Hobbes, da Rousseau, da Sade, da De Maistre. Su questa via, un passo ulteriore in avanti è stato compiuto dagli studiosi di etologia, che con Konrad Lorenz si sono posti il problema del rapporto fra etica e aggressività nel mondo animale (sottolineando fra l'altro l'assenza di un fenomeno-guerra come fatto intraspecifico fra gli animali) e con lreneus Eibl-Eibesfeldt hanno potuto addirittura formulare una vera e propria etologia della guerra, rilevandone ad esempio quelle caratteristiche ludico-rituali che concorrono a limitarla e ad umanizzarla (senza con questo che sembri legittimo ridur~e la guerra a un fenomeno ludico, dal momento che il gioco è autoappagante mentre la guerra - che ha per scopo il ristabilimento di una pace a condizioni modificate rispetto allo stato che la guerra stessa ha spezzato - non è tale, né ha in sé le cause prime di sé. Lo scopo del gioco sta nel gioco; lo scopo della guerra sta nella vittoria, o comunque nella prova: da qui le teorie della guerra come «ordalia», giudizio di Dio). Il concetto di ordalia è importante anche per razionalizzare il rovesciamento del diritto che avviene in rapporto alla guerra. Difatti, mentre ordinariamente il diritto serve a stabilire chi in un certo contrasto ha ragione, la guer-


90

FRANCO CARDINI

ra introduce un elemento di giudizio diverso, quello basato sulla prova di forza. Parrebbe quindi che non già chi è nel giusto, ma chi è il più forte venisse privilegiato dallo strumento-guerra. Il «giudizio di Dio» viene chiamato in causa come elemento razionalizzante, a legittimare una prova di forza che, altrimenti, non potrebbe venir accettata se non inficiando le basi stesse del diritto secondo le quali è la legge, e non la forza, a stabilire da che parte sta la ragione. Con tutto ciò, la guerra resta nelle società civili - specie in quelle che si ispirano fondamentalmente a valori di pace, come la cristiana - uno «scandalo». E il disagio di giuristi e pensatori dinanzi a questo scandalo si traduce in una serie di distinzioni formali. Si parla ad esempio di un ius ad bellum, che mira a decidere sulla liceità o meno di un conflitto, e di un ius in bello, che bada invece a chiarire quali siano diritti e doveri dei combattenti e degli inermi. Negli ultimi due secoli però concetti come quello giacobino (di marca greco-romana) di «popolo-esercito» e pratiche come la coscrizione obbligatoria sono andati attenuando quella divisione dei coinvolti in una guerra tra guerrieri e inermi ch'era invece caratteristica del mondo preindustriale. Gli eserciti nazionali hanno teso a una convergenza obiettiva tra uomo di e uomo in guerra, giungendo agli estremi delle mobilitazioni totali, delle guerre «totali», e a tutti gli elementi caratteristici di totalizzante coinvolgimento di un intero corpo statale e nazionale o plurinazionale con tutte le sue energie materiali e spirituali nel conflitto. A ciò si aggiungano le guerre civili, che hanno cancellato quella distinzione tra hostes (nemici pubblici, stranieri) e inimici (nemici interni) sulla quale si reggeva l'equilibrio dei conflitti preindustriali, com'è stato rilevato da Carl Schmitt. La cancellazione del «limite» nelle guerre totali come nei conflitti civili (con la conseguente perdita anche di valori propriamente umani, come si è più volte dolorosamente sperimentato negli ultimi cinquant'anni) ha trovato il suo orizzonte ultimo nella prospettiva del conflitto termonucleare, con la sua possibilità di soluzione in una distruzione totale e reciproca delle due parti belligeranti. Paradossalmente, in questa prospettiva nella quale la guerra giunge al suo acme distruttivo, si cela un'altra contraddizione. Se la guerra nucleare sarà combattuta attraverso lo scambio di proiettili dotati di illimitato potere di distruggere, e se essa sarà necessariamente rapida (da qui, secondo alcuni teorici di essa, l'importanza del «primo colpo»), dove saranno le battaglie, le fasi di studio del nemico, i segnali politici e diplomatici che sono parte integrante di tutte le


L'UOMO DI GUERRA E L'UOMO IN GUERRA: NOTE STORICO-ANTROPOLOGICHE

91

guerre dell'umanità da che essa è tale, giacché la guerra non è soltanto violenza? Insomma, la guerra nucleare allo stato puro (prescindendo cioè dalla possibilità che essa venga in qualche modo «corretta» da misure e tecniche difensive, decontaminanti ecc.) è una non-guerra, un evento che somiglia molto di più a certe calamità naturali come un'epidemia, un terremoto, un'eruzione vulcanica. D'altro canto, il fatto che con la guerra nucleare si sia entrati, nella storia dei conflitti, in una fase nella quale essi sono diventati cosl pericolosi da non potersi in alcun modo paragonare con le guerre che conosciamo, è una verità che dev'essere però confrontata con la realtà del potere distruttivo e dell'estrema precisione delle stesse armi che ancora definiamo «convenzionali»: in questo senso, la previsione di alcuni storici e politologi (secondo la quale «l'equilibrio del terrore» impedirà - a parte però errori di tipo tecnico o valutativo - un conflitto nucleare, mentre s'intensificheranno in cambio quelli «tradizionali» e limitati) va corretta alla luce d'un apprezzamento più preciso del potenziale distruttivo degli stessi conflitti convenzionali e della difficoltà crescente a circoscriverli con gli strumenti politici, diplomatici e tecnici dei quali il mondo dispone. Da qui la richiesta d'un'attiva costruzione mondiale della pace: una pace che non si limiti all'assenza di guerre nucleari, ma che si fondi su una «cultura di pace» che ponga progressivamente al bando qualunque tipo di conflitto. In sede scientifica, tale è il fine ultimo d'una nuova scienza nata dalla sociologia e dalla politologia ma non senza rapporti con l'antropologia e la psicanalisi. Si tratta della polemologia, la scienza che ha il suo organizzatore in Gaston Bouthoul e che, parafrasando una nota massima marxiana, vuol studiare la guerra non già per contemplarla, bensì per trasformarla. D'altronde, appunto questo fine rende lecito lo studio della guerra, dal momento che per trasformare una qualunque realtà bisogna conoscerla. Da qui il moltiplicarsi degli interessi scientifici in questo dominio, che non vanno affatto intesi in senso apologetico. Resta comunque vero che anche nelle guerre l'uomo riesce sovente ad esprimere - magari nonostante le guerre stesse - gli aspetti positivi della sua indole. Gli atti d'eroismo, gli episodi di abnegazione, i momenti di alta umanità che la storia di qualunque conflitto può allineare vanno di pari passo con le conquiste tecnologiche delle quali le guerre hanno offerto occasione. Ricordare tutto ciò, non significa sciogliere alcun inno alla guerra: significa ancora una volta, semmai, lodare l'uomo. L'uomo in guerra; talora, anche l'uomo di guerra. L'uomo tout court, comunque.


92

FRANCO CA RDINI

D'altronde, distinguere «uomo di guerra» e «uomo in guerra» può parere un escamotage o - peggio - una concessione a certo panpacifismo abbastanza acritico oggi di moda, un panpacifismo tanto più pericoloso in quanto (cercando di «derubricare» a macellaio e ad assassino in potenza qualunque professionista della guerra, e quindi introducendo nelle nostre categorie mentali un pericoloso riduttivismo che tende a non distinguere più tra soldati d'onore e sgherri fanatici, tra guerre di offesa e guerre di difesa, tra conflitti regolati da norme e lotte nelle quali convenzioni e perfino elem entari dettami umanitari sembrano dimenticati) potrebbe preludere non già a un «no» alla guerra, bensì a un «no» alle sue norme, alle sue limitazioni, allo sforzo che da millenni l'uomo sta facendo affinché quel che almeno finora non ha potuto essere abolito venga, quanto meno, delimitato e dominato. L'antropologia storica ci ha invece insegnato a guardare alla guerra non già con cinismo e rassegnazione, bensl semmai con occhio di umana comprensione e di moderato ottimismo. Se i polemologi ci parlano il linguaggio della razionalizzazione della guerra come strumento critico-metodologico atto a trasformarla, col tempo, nel suo contrario, gli ant ropologi c'insegnano a vedere in essa una compagna antica, «endemica», dell'umanità. Una compagna che d'altro canto si è potuta spesso addomesticare e con la quale per lungo tempo - si può dire fino all'invenzione delle terribili armi nucleari - è stato possibile convivere. Una convivenza, d'altronde, non facile, che si potrebbe qualificare esaminando brevemente i due concetti polarizzanti (ma anche complementari) non tanto di pace e di guerra - che in fondo sono entrambi più relativi che non assoluti - bensl di violenza e di armoma. La tendenza all'accordo è insita nella storia delle civiltà, anche se non sapremmo dire fino a che punto sia «naturale». Allo stesso modo, è difficile (ed è forse anche uno pseudoproblema) discutere se e fino a che punto sia «naturale» la violenza. Certo è che, posto un «limite» riten uto invalicabile nei rapporti fra gli uomini e le società, si pone automaticamente la «tentazione» di superarlo, d'infrangerlo; e la necessità di difenderlo, di restaurarlo. E questo l'approccio corretto per una riflessione a proposito della guerra e della pace nella storia dell'umanità? Il tema della guerra a livello antropologico-storico (e non più, o non più semplicemente, «comparativistico») è stato r iproposto dopo i vetusti studi di Ch. Letourneau, M. R. Davie, H . Stegemann,


L'UOMO DI GUERRA E L'UOMO IN GUERRA: NOTE STORICO-ANTROPOLOGICHE

93

H. Wehberg (1) - in due abbastanza recenti volumi di J. Ferguson e di J. A. Aho (2), che ne hanno esaminato le varie forme e componenti in differenti esperienze mitico-religiose: ed è significativo che fra esse - a parte casi speciali quali la cultura azteca - figurino in primo piano e si confrontino i grandi sistemi monoteistici (ebraismo, cristianesimo, islam) da una parte, i grandi sistemi religiosi o filosofico-reLigiosi a carattere immanentistico (induismo, buddhismo, shintoismo) dall'altra. II dibattito sulla guerra, la sua liceità, i suoi limiti - un dibattito che nella cultura euromediterranea dura almeno dal IV secolo d_C., ma era in realtà cominciato molto da prima - suggerisce d'altro canto che guerra e violenza sono due dimensioni profondamente connesse, ma che non si può esaurire la complessa esperienza dell'uomo in guerra considerandola sotto l'aspetto dell'esercizio della violenza: al contrario, è proprio nella dialettica fra uso della forza e sue limitazioni che la dinamica della guerra emerge in tutta la sua potenza drammatica e in tutto il suo profondo significato eticoculturale. Questo, del resto, è va)jdo anche a livello propriamente etologico, come le ricerche di K. Lorenz e di I. Eibl-Eibesfeldt hanno dimostrato (3). Non tutto nella guerra è, in altri termini, violenza: anzi, l'ineliminabile presenza della violenza nella guerra (e nelle cause di essa) ha suggerito nel corso della storia umana continui progetti - rituali, giuridici, filosofici, religiosi e così via - atti se non a eliminarla quanto meno a contenerla e a chiuderla entro i limiti e àmbiti precisi. Per contro, è cosa evidente che la violenza non sta soltanto nella guerra, e che anzi questa assume spesso di fronte a quella un carattere antagonistico sul piano concettuale, presentandosi come «vendetta», quindi come «riparazione», rispetto a un atto di violenza. In ciò risiede il carattere etico-giuriruco della guerra intesa (con una valenza che la collega a realtà propriamente sacrali) come ordalla, giudizio di Dio. È pertanto al concetto di violenza e a quello - ad esso contiguo - di violazione, che ci si dovrà rivolgere per comprendere in che modo essi siano stati dialetticamente concepiti nel divenire della cultura occidentale, con particolare riguardo (dati i limiti delle nostre competenze) all'età detta preindustriale. L'idea di violenza-violazione non sembra essere connotata da alcun rapporto statutario con quella di forza; il rapporto è semmai fenomenologico, ed è espresso dalla radice dalla quale derivano, in latino, sia la parola vis sia il verbo vi-o/o. Nel tessuto giuridico del diritto romano, la violenza-violazione si connette strettamente - en-


94

FRANCO CARD INI

trando in contrapposizione rispetto ad essa - con l'idea del Sacro, espressa dal /imes (il limite, il termine, la soglia) oltre il quale non è dato spingersi, il segno che non si può né si deve varcare. Questo limite è esemplificato dal Pomerium, la cinta sacra che racchiude l'Urbe. D a ciò deriva un apparato sacrale - che diviene ovviamente anche giuridico - volto a instaurare, mantenere o ristabilire la giustizia: quindi a salvaguardare il limite e a reprimere la violenza. Violenza-armonia, ingiustizia-giustizia: a livello antropologico-storico questo rapporto si configura come tensione dialettica tra le rotture di quel «limite» sul rispetto del quale riposano l'ordine cosmico e quello civile e sociaJe, e l'esigenza d'una sua immediata (anche riparatoria ed espiatoria) restaurazione. Quando all'atto violatore non risponda un immediato atto restauratore, subentra un incombente rischio di disintegrazione, di crisi d'identità culturale. Detto questo sul piano dell'esigenza d'una risposta riparatrice a qualunque atto di violenza (il che, in ultima analisi, costituisce la piattaforma sulla quale riposa la stessa teologia cristiana del bellum iustum), va peraltro aggiunto che, a quanto pare, la cultura occidentale (ma forse qualunque cultura) sembra riposare su un archetipico atto di violenza: ne sarebbe prova lo statuto rituale del sacrificio, drammatizzazione d'un'antica rottura dell'ordine avvenuta in ilio tempore e il modello incarnato dal quale ha appunto la funzione di preservare da ulteriori violenze il cui effetto sarebbe disgregatore. È nota al riguardo la tesi di René Girarci (4) relativa al sacrificio come «violenza fondatrice», che instaurando un nuovo ordine «espropria», per dir così, gli uomini del diritto alla violenza - facendo di esso un atto rituaJe, una componente della sfera del Sacro - e impedisce in tal modo alla violenza stessa di dilagare nel quotidiano. Modello di sacrificio come violenza fondatrice, atto pubblico e sacrale, è il rito del sangue che presiede alla fondazione delle città, consacrate da un sacrificio umano. L'uccisione di Remo da parte di Romolo, ad esempio, viene di consueto presentata - fin dalla tradizione romana -· - come un ristabilimento della giustizia (quindi un atto di forza riparatore di una violenza) dopo la violazione dello spazio sacro urbano appena tracciato dall'aratro condotto da Romolo. In effetti, il mito sembra adombrare una più profonda realtà: l'Urbe ritagliata mediante il solco nel corpo vergine del circostante territorio è essa stessa violenza-violazione, e il sangue fraterno versato sulle zolle violate costituisce a un tempo il segno più evidente di tale violenza-violazione e la sua stessa riparazione. Si viola l'ordine cosmico (sia quello dell'intangibilità deUa terra madre, sia quello


L'UOMO DI GUERRA E L'UOMO lN GUERRA: NOTE STORICO-ANTROPOLOGICHE

95

dell'amore fraterno) una volta per sempre, affinché una tale violazione non si ripeta mai più nella storia (5). Nella cultura greca, che i Romani faranno gradualmente propria, è il rito tragico a proporre i grandi temi della hybris e della necessità dell'espiazione. La catarsi successiva al sacrificio è il momento in cui gli spettatori del ritospettacolo si riconoscono liberi da passioni e violenze. Rito sacrificale e rito giudiziario sono pertanto i due momenti normativi sui quali riposano concordia e coesione interna nel mondo romano: il ferro è ritualmente bandito daJl'Urbe (il ponte sul Tevere è costruito senza ausilio di chiodi, i fasci littori sono portari all'interno del Pomerium privi di scure) in quanto la pace interna della città è garantita appunto dal tabù del ferro e da quello del sangue. Ciò, in quanto l'uso stesso delle armi è basato su un criterio di pubblicità: lecito all'esterno rispetto ai confini dello stato, e anche in tal caso a patto che certe norme siano osservate, è ordinariamente vietato all'interno di essi salvi i casi specifici del rito sacrificale e dell'amministrazione della giustizia, caso quest'ultimo che - a questo punto - si propone come sacrificio riparatore rispetto alla violenza costituita dal crimine. La guerra, il bellum, è atto pubblico che si esercita contro gli hostes, nemici pubblici: i quali - come ben ha mostrato Carl Schmitt - non sono in alcun caso assimilabili agli inimici, ai riva/es, agli avversari privati regolare i rapporti con i quali spetta all'autorità della legge. In questo contesto il cristianesimo immette però un elemento nuovo, uno «scandalo>> nel significato etimologico del termine. La stessa mitologia giudaico-cristiana conosce la «violenza fondatrice>>: è violenza la trasgressione di Adamo ed Eva nell'Eden, e sono i discendenti dell'agricoltore fratricida Caino a fondare le città (mentre pastore è Abele; e pastore legato alle tradizioni della transumanza sembra essere Remo, che si rifiuta di rispettare i segni divisori tracciati sulla terra dallo strumento agricolo, l'aratro, manovrato dal fratello). Lo stesso sacrificio del Cristo, summum ius in quanto solo il sangue divino può porre riparo alla colpa primordiale, è poi summa iniuria come deicidio; e la Redenzione si fonda su questo sacrificio. Un paradosso profondo sembra pertanto proporsi alla base della nuova religione: da un lato, essa si fa talora - dagli Acta di certi martiri agli scritti di uomini come Tertulliano - portatrice di un irenismo integrale che nelle sue espressioni più rigorose parrebbe postulare l'illiceità di qualunque ricorso alla forza (e quindi l'identità tout court tra forza e violenza); dall'altro, essa consente un'allegorizzazione, una metafisicizzazione e una cosmicizzazione della


96

FRA.KCO CARD!Nl

guerra, facendone il simbolo dello scontro fra il Bene e il Male. Pensiamo al passo del Vangelo nel quale si dice che i violenti conquistano il Paradiso; pensiamo all'Apocalisse e anche a molti scritti degli apologisti; in area cristiano-giudaica, pensiamo alle cosiddette Regole della guerra di Qumran. Questa «interiorizzazione» della guerra, che si esprime nelle forme allegoriche della psycbomacbia o pugna spiritualis (le quali avranno una straordinaria importanza nella fondazione dell'epica e del romanzo cavallereschi, fra XI e XII secolo) non consente affatto, d'altra parte, alcuna legittimazione della guerra; e la stessa dottrina del bellum iustum - delineata da Aurelio Agostino - non può affatto venir semplicisticamente interpretata come l'«alibi» attraverso il quale un cristianesimo ormai almeno in parte dimentico de!Ja sua vocazione irenistica avrebbe indirettamente legittimato la guerra. Il bellum iustum infatti, lungi dal legittimare anche soltanto in parte la guerra, codifica e circoscrive rigorosamente i casi - pochi - nei quali essa può legittimamente venir condotta da parte del cristiano. Esso costituisce quindi in realtà una nuova proposta di limite, oltre a essere il necessario presupposto teologico-giuridico dell'«esportazione della violenza» fuori dal corpus cbristianorum. E fu proprio per esportare la violenza endemica e generalizzata che caratterizzava la cosiddetta «anarchia feudale» dei secoli IX-X, che si posero nei concili dai quali scaturì il movimento di Pax Dei e Tregua Dei i fondamenti etico-comportamentali di quello che sarà più tardi, nella sua fase matura, il ritterliches Tugendsystem. L'etica cavalleresca, quale la vediamo emergere dai concili della Pax Dei dell'XI secolo e poi dalla meditazione di Bernardo di Clairvaux relativa alla «nuova cavalleria», la nova militia religiosomilitare che fonde i due tipi del monaco e del cavaliere, presenta peraltro una sua profonda ambiguità. Essa è fondata sul principio pax ad intra, bellum ad extra, e difatti nel Liber de laude novae militiae Bernardo dichiara che i Templari debbono essere leoni contro gli infedeli e agnelli con i fratelli in Cristo; i rituali di addobbamento cavalleresco raccomandano al cavaliere, con esortazione agostiniana, Sis mi/es pacifìcus (cioè portatore di pace), e consegnandogli la spada consacrata gli ricordano che con essa egli è tenuto a pacem facere. Ciò non toglie tuttavia - e Bernardo ne è conscio, tanto da presentare la sua nova militia templare come contrapposta alla «vecchia cavalleria» laica, ch'era non militia, sed malitia - che l'etica cavalleresca erediti parecchi elementi della v.ecchia etica guerriera e nobiliare germanica, nella quale ad esempio quello della vendetta era un diritto-


L'UOMO DI GUERRA E L 'UOMO IN GUERRA: NOTE STORJCO.ANTROPOLOGJCHE

97

dovere dell'uomo d'arme in quanto uomo libero. E appunto nella dialettica non semplice tra vendetta e perdono quali risposte alla violazione dell'ordine, vale a dire alla violenza, si articola la dinamica violenza-armonia nella cultura espressa dalle aristocrazie militari europee dell'età preindustriale. Né la vendetta né il perdono s'iscrivono comunque nell'ambito del diritto pubblico. È invece propriamente la guerra a proporsi come «vendetta pubblica», in ciò sottolinenado una volta di più la sua profonda analogia con la giustizia: la guerra è difatti «vendetta pubblica» ad extra, la giustizia lo è ad intra. E l'una non meno dell'altra - proprio in quanto concepite entrambe quali riparazione all'ingiustizia e alla violenza-violazione - postulano per loro stessa natura una regolamentazione. Nasce difatti dal diritto romano e dall'elaborazione giuridica delle consuetudini cavalleresche il diritto di guerra, aspetto del diritto internazionale che formalizza gli obblighi del vincitore con ciò opponendo un argine al diritto del più forte ed ergendosi a garanzia dei diritti dei vinti e degli inermi. E siamo con ciò a una peraltro antichissima dicotomia fra due diversi modi di concepire l'uso delle armi: da una parte il bellum fra schiere contrapposte (polemos, duellum, bellum: termini tutti derivati da una radice indicante dualismo, alterità), condotto secondo regole ben precise e collegato strettamente sia all'ordalìa, al «giudizio di Dio», sia al gioco addestrativo (da qui il contenuto «ludico>> della guerra); dall'altra la werra, la mischia insofferente di norme nella quale vale anzitutto e soprattutto l'exploit individuale e dove il senso del limite rischia continuamente di venir travolto dall'hybris, dall'ira, dal furor (che nell'epica classica non meno che nelle saghe germaniche è a sua volta una forza divina), dal delirio di potenza. Dicotomia che, fenomenologicamente, si traduce peraltro in termini di sia pur difficile complementarità piuttosto che non di alternativa. Nell'Iliade, ad esempio, essa è incarnata dalla coppia di «fratelli d'arme» Aiace - l'eroe rispettoso della disciplina castrense, delle norme e delle cerimonie guerriere, della logica «diurna» dello scontro fra schiere ordinate - e Diomede, l'eroe-dàimon, il «leone» che combatte solitario, che rifiuta lezioni moderatrici e scontri ordinati, che sceglie la notte, il travestimento, la sorpresa, lo stratagemma. Se in Aiace e Diomede riscontriamo l'alterità di un regime «diurno» e uno «notturno» della vita guerriera, nelle chansons de geste cristiane noi troviamo analoga complementarità-opposizione tra sagesse e prouesse (incarnate da Oliviero e da Rolando nella Chanson de Roland), i due connotati di base sui quali si costituisce la sintassi


98

FRANCO CARDINI

etico-comportamentale del compagnonnage. Soltanto uniti, essi danno vita alla virtù di mesure, propria del perfetto cavaliere. Il che significa, poi, che la virtù cavalleresca è qualcosa di strettamente legato a una dimensione sociale, che non si consegue individualmente. La dialettica tra sagesse e prouesse è di straordinaria importanza: ma, per intenderla correttamente, bisogna rifuggire da qualunque troppo facile schema. E il più errato di tutti sarebbe quello d'intendere la sagesse (quindi il combattere ordinato, la disciplina militaris) quale prodotto di «cultura», e la prouesse (quindi il coraggio ferino e irriflesso) quale esito di «natura». In realtà, il secondo è tutt'altro che un atteggiamento «spontaneo», un puro fatto di aggressività (posto poi che anche quest'ultima sia spontanea). Le espressioni in apparenza libere e incontrollate di violenza, nel guerriero, sono frutto in realtà di un esercizio capace di provocarle e di gestirle: e ciò - almeno, lo ripetiamo, in Occidente - vale per il guerriero dell'antichità classica non meno che per quello celtico o germanico, per il cavaliere medievale e perfino (con tutta la «desacralizzazione» che si vuole) per il soldato dei corpi speciali dei giorni nostri. Cambiano, certo, i modi e gli strumenti che innescano il processo di «eccitazione guerriera». Turbamento psichico anche indotto (alcool, allucinogeni) oppure fanatismo ideologico possono essere le cause scatenanti nella guerra contemporanea. Nel mondo antico e medievale ci si serviva essenzialmente di mezzi e di strumenti a carattere iniziatico. Abbiamo detto che Diomede è «leone»; potremmo proseguire su questa strada, ricordando i «guerrieri-orso» e i «guerrieri-lupo» della saga germanica (i paralleli antropologici in altre culture guerriere - dalla pellerossa aJJa giapponese stessa alla polinesiana non sarebbero difficili a istituirsi) ( 6) e le frequenti crisi di furor ormai cristianizzato, pertanto demonizzato - nell'epica cavalleresca. In tutti i casi di questo genere, il potenziale di violenza a disposizione del guerriero si rivela connesso a uno speciale statuto iniziatico, che pone il guerriero stesso - per esempio - in privilegiato rapporto con una belva e lo dispone a «trasformarsi» ritualmente in essa, ad assumerne comportamento e in una certa misura anche aspetto. Nel mondo germanico pagano o ancora imperfettamente cristianizzato, c'imbattiamo in «guerrieri-belva» che restano per così dire ai margini della società di agricoltori nella quale si presentano, ma che al tempo stesso non ne sono fuori: al contrario, appaiono strettamente connessi ad essa, e investiti anzi di uno speciale ruolo in sua difesa. L'Historia Langobardorum di Paolo Diacono c'informa


L'UOMO DI GUERRA E L'UOMO IN GUERRA: NOTE STORICO-ANTROPOLOGICHE

99

dell'antico «mito» secondo il quale esistevano, presso i Longobardi, dei guerrieri «dalla testa di cane» (cynocephalr) i quali ordinariamente non partecipavano alla battaglia ma potevano essere «chiamati» a prendervi parte in situazioni di eccezionale pericolo. Si tratta soltanto di un mito, beninteso premettendo che è evidente che «mito» e «rito» non vanno mai confusi? Oppure si dovrà pensare che il «mito» sia la razionalizzazione d'un complesso «rituale», e che effettivamente ci si trovi qui dinanzi al ricordo dell'esistenza di un'antica confraternita di guerrieri votat i alla lotta senza quartiere, e caratterizzati da un travestimento canino? Ma in questo caso, il loro «divenire cani» va interpretato come mimica guerriera atta a intimidire l'avversario o come esito d'una pratica iniziatica che approda a una metamorfosi rituale? L'antichità germanica è ricca di esempi - taluni già riportati dallo stesso Tacito - di gruppi speciali di guerrieri, caratterizzati da insegne l'indossare le quali comporta l'assunzione di doveri speciali (potremmo definirli voti, oppure obblighi a carattere magico) quali quello di non dare né accettare mai quartiere in battaglia. Allo stesso modo, nella società sioux, il guerriero che indossa la «cintura d'orso» fa promessa solenne di non indietreggiare mai in battaglia; ma il «guerriero-orso» delle saghe norrene si chiama appunto berserkr, vale a dire «pelle d'orso»; i Templari conoscevano a loro volta l'obbligo di non dare né accettare quartiere in battaglia; i cavalieri medievali - e ce ne riporta vari esempi Johan Huizinga nel suo L'autunno del medioevo - formulavano sovente voti di analogo contenuto, e inalberavano insegne che ricordavano a se stessi e a tutti gli altri la promessa solennemente fatta; e i motti di molti reparti speciali negli eserciti del XX secolo si rifanno a un animale totemico e all'impegno rituale di non cedere in battaglie, di non ritirarsi e così via. Enthousiasmos,furor,ftrg, wut, gandharva, luperci, berserkir, e cosi via. I riscontri a livello comparativo sarebbero molti. Laddove il segno del rito guerriero non è la pelle della belva, la nudità rituale ha valore analogo: si pensi ai Cesati celti alleati di Annibale, che nella battaglia del Trasimeno combattono nudi; ai Malesi preda dell'amok; ai guerrieri lumumbisti nel Congo degli Anni Sessanta, convinti che ogni protezione sarebbe stata loro inutile in quanto un canto magico da essi intonato avrebbe trasformato in gocce d'acqua i proiettili nemici; nudità e invulnerabilità, connesse a speciali pratiche come il bagno di Achille nelle acque dello Stige e quello di Sigfrido nel sangue del drago Fafner - , sono legate strettamente.


100

FRANCO CARDINI

Nel medioevo cristiano-cavalleresco, una rigorosa censura interverrà a modificare e mascherare (ma non sopprimere) quest'elemento magico-iniziatico nella pratica guerriera: il rapporto diretto con la belva (o con il demonio d'aspetto ferino) resterà sovente nei casi di chevalieres prédons, di Raubritter (si pensi al protagonista cli un fabliau duecentesco, Le Chevalier au barisel, feroce «come un cane rabbioso o un lupo mannaro»), ma andrà modificandosi e mimetizzandosi (si può forse dire adclirittura dissimulandosi) nel buon cavaliere. In un romanzo di Chrétien de Troyes, l'Yvain, il protagonista ha peraltro come compagno d'arme un leone; e il compagnonnage tra guerriero e belva sopravvive nella sintassi dei simboli araldici. Vero è che è altrettanto consueto che l'animale si accompagni sì al cavaliere, ma come simbolo del male da sconfiggere. Così il drago per san Giorgio; cosl i leoni per i Templari o gli orsi e i cinghiali per i Teutonici, in quanto solo tali belve quei monacicavalieri potevano cacciare. Le loro Regole risolvevano così la contraddizione costituita dal fatto che la caccia, attività severamente interdetta ai monaci, era al contrario irrinunziabile privilegio e status symbol dei cavalieri. Ma non possiamo limitarci a ricordare che la caccia all'animale feroce poteva essere anche un utile tirocinio - e lo era - alla guerra: il fatto è che il leone, l'orso, il cinghiale, avevano una loro valenza demoniaca a livello simbolico, il che riconduceva il monaco-cavaliere che li cacciava a quella pugna spiritualis che costituiva il nucleo più intimo della sua stessa vocazione. D'altronde, l'«anticavaliere» che può continuare a tessere un rapporto con la belva costeggia da molto vicino un'altra figura di marginale, il «cavaliere errante» (l'Yvain di Chrétien de Troyes è tale) il cui mondo è il «deserto», la foresta. In un modo o nell'altro, mimetizzato e rivisitato, esorcizzato o reintegrato che sia, il cavaliere del medioevo occidentale - erede della cultura eurasiatica delle steppe - resta un signore degli animali, ma anche un posseduto dalla ferinità. La violenza rugge ancora. Ma proprio per questo, la riflessione schmittiana sul «limite» si reimpone con un vigore che non ammette di essere eluso. Se è forse vero che finché vi saranno uomini di guerra vi saranno guerre, è senza dubbio vero che finché la guerra continuerà ad essere una compagna della storia umana vi sarà bisogno di «uomini di guerra», cioè non già di folli militaristi o di bellicisti sanguinari, bensì di professionisti dotati di un'etica ispirata alla misura e in grado di gestire tecnicamente i conffati con l'obiettivo d'infliggere all'umanità il minor danno possibile. In questa direzione la professione militare ha


L'UOMO DI GUERRA E L'UOMO IN GUERRA: NOTE STORICO-ANTROPOLOGICHE 101

un senso, un ruolo, una missione proprio e soprattutto nelle e a favore delle società sinceramente pacifiche. Attendersi poi dalla sparizione degli eserciti la magica apertura dell'Era della Pace sarebbe un non-senso. Le guerre non sono affatto determinate dall'esistenza degli eserciti (che sono semmai effetto, e non causa, di esse): sono invece determinate daJle violenze, dagli egoismi, dalle ingiustizie; e a farle scomparire non sarà la smilitarizzazione delle società, bensl la scomparsa appunto di quelle violenze, di quegli egoismi, di quelle ingiustizie. Giacché la pace non comincia affatto dalla sparizione delle armi e dei soldati: comincia dal cuore dell'uomo.

NOTE

(1) CH. LETOURNEAU, La guerre dans /es diverses ram humaines, Paris 1895; M. R. Dav ie, La gueMe dans /es sociétés primitives. Son role et son évolution, P aris 1931; H . STEG&\lANN, Der Krieg, .ein Wesen und seine Wandlung, s.l. 1940; H. W EHBERG, Krieg und E roberung im Wandel des VolkeMechts, s. I. 1953. (2) J. FERGUSON, War and peace in the world's religions, New York 1978; J. A. AHO, Religious mithology and the art ef war, Westport 1981. (3) I. EIBL-EIBFSFELDT, Etologia della guerra, tr. it., Torino 1983. ( 4) R. GIRARD, La vio/enzP e il sacro, tr. it., Milano 1980. (5) Per tutti questi ed altri problemi, cfr. G . DUMÉZJL, La religùme romana arcaica, tr. it., Milano 1977. (6) Per il Giappone, è obbligatorio il riferime nto a R. BENEDlCT, Il crisantemo e la spada, tr. it., Bari 1968; per i Polinesiani, basti il rinvio al tanto discusso ma anche stimolante vol ume di P. BuCK, I Vichinghi d'Oriente, tr. it., .Milano 1961.



GIANO ACCAME

SISTEMA INDUSTRIALE E FORZE ARMATE Non si può affrontare il tema dei rapporti tra sistema industriale e forze armate senza sgombrare prima il campo dal pregiudizio volgare secondo cui il mercante di cannoni provoca le guerre per incrementare i propri affari. Montagne di cadaveri per arricchire i Krupp o i «pescecani», come venivano definiti in Italia i profittatori della prima guerra mondiale. Ovviamente esiste anche questo risvolto ed ha particolare rilevanza suJ piano morale, per gli aspetti ributtanti che presenta lo squilibrio di prestazioni e ricavi tra chi specula sulla guerra e chi vi si sacrifica. Ma sarebbe estremamente riduttivo e opera di cattivi maestri, perché ignoranti della assai maggiore complessità del fenomeno, esaurire i problemi della difesa e della guerra, eterni come la storia delle società umane, in queste schematizzazioni. Si pensi, portando il confronto su un altro terreno, a cosa si capirebbe da una storia dell'arte esclusivamente basata sulle fatture che Raffaello, Leonardo o Michelangelo pur presentavano ai loro committenti. Va piuttosto osservato che la rivoluzione industriale nasce dall'arte della guerra e non viceversa. Lo sostiene J. F. C. Fuller nel suo noto studio su «L'influenza della guerra sulla storia» (1946), riprendendo tesi già accennate in «Tecniche e civiltà» (1934) da Lewis Mumford: «il cannone è stato il punto di partenza per la creazione di un nuovo tipo di macchina: è stato, meccanicamente parlando un motore a combustione interna a cilindro unico (. ..). La guerra ha creato un nuovo tipo di capo d'impresa, che non era né muratore, néfabbro, né maestro artigiano: l'ingegnere militare ( .. .). La Macchina deve tanto agli ingegneri militari italiani che si sono succeduti a partire dal XV secolo, quanto agli ingegneri inventori britannici dell'epoca di James Watt». La fabbrica in senso moderno, con le prime produzioni di serie, nasce dalla metallurgia militare per le armi da fuoco. Ed è militare anche il primo modello d'organizzazione della fabbrica, come tra gli altri acutamente osservano nel «Manifesto del partito comunista» Marx e Engels: «L'industria moderna ha trasformato la piccola efficina dell'artigianato patriarcale nella grande fabbri-


104

GIA1'0 ACCA .\1E

ca del capitalista industriale. Masse di operai addensate nellefabbriche vengono organkz/lte militarmente. Come soldati semplici de/l'industria essi vengono sottoposti alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e di ufficiali». Questa non è semplice metafora, ma esatta descrizione - appunto - di un modello organizzativo e della sua origine castrense. Come diceva Eraclito, la guerra è madre di tutte le cose ed anche - nel bene e nel male - della rivoluzione industriale, che è la più incisiva delle rivoluzioni vissute dal genere umano negli ultimi diecimila anni: quella che con il superamento dell'economia agricola gli ha consentito di aumentarne in poco più di due secoli da poche centinaia di milioni di uomini a quasi cinque miliardi e di raddoppiare la vita media dell'uomo moderno, mettendogli a disposizione più di 250.000 chilocalorie quotidiane contro le 24.000 di cui disponeva l'uomo della civiltà agricola. E con esse, purtroppo, anche i mezzi con cui può rischiare l'autodistruzione. Ci sono anche queste tremende incognite nelle equazioni del progresso e della potenza: certo, ci si fa più maJe cadendo da un grattacielo, che dal tetto di una capanna. Il rapporto tra eserciti e industria non è sostanzialmente mutato, se non per aumentata complessità, in due secoli e mezzo di rivoluzione industriale. Tanto che nella nuova era del genere umano in cui ci è stata data la sorte di vivere - l'era atomica e spaziale - siamo ancora una volta entrati «manu militari». I primi uomini e persino la prima donna, Valentina Tereskova, che affrontarono l'avventura spaziale portavano la divisa sovietica o americana e le applicazioni pacifiche dell'energia nucleare discendono da queUe per la difesa. Il giorno in cui saremo riusciti a imbrigliare per fini pacifici il potenziale energetico della bomba all'idrogeno, realizzando la fusione nucleare controllata, avremo risolto a costo minimo i nostri problemi energetici aprendo orizzonti incalcolabili di prosperità. Tra gli elementi di accresciuta complessità a cui si è accennato rientra lo strapotere che rischfa di assumere nelle società moderne il cosiddetto «complesso militare-industriale». L'espressione, di cui è frequente l'uso polemico, è stata coniata il 1 7 gennaio 1961 da un generale, Dwight D. Eisenhower, nel suo discorso televisivo di congedo di fronte al popolo americano dalla presidenza degli Stati Uniti. Si trattava di metterlo in guardia rispetto ad un problema che esiste e nessuno poteva farlo meglio, cioè in termini più credibili e non demonizzanti, che il vincitore della seconda guerra mondiale.


SISTEMA L" OUSTRJALE E f ORZE AR\I AT U

105

Disse Eisenhower: «L'unione di un personale militare considerevole e di una importante industria di armamenti costituisce un fatto nuovo nell'esperienza americana. La sua influenza economica, politica e persino spirituale si fa sentire in tutte le città, in tutte le assemblee degli Stati, in tutti gli uffici del governo federale. Noi riconosciamo la necessità imperiosa di questo sviluppo, ma non dobbiamo dimenticare di coglierne le gravi implicazjoni. Esse riguardano il nostro lavoro, le nostre risorse, la nostra esistenza; questa è la struttura stessa della nostra società. Dobbiamo impedire che il complesso militareindustriale acquisti una influenza abusiva, più o meno deliberata, negli organismi di governo. La possibilità che questa potenza ingiustificata si accresca in proporzioni disastrose esiste e persisterà. Non dovremo mai permettere a questa combinazione di mettere in pericolo le nostre libertà o il nostro metodo democratico. Niente, in realtà, è garantito per sempre. Solo dei cittadini vigilanti e bene informati possono rompere il vero ingranaggio della gigantesca macchina industriale e militare, a sostegno dei metodi e degli obiettivi pacifici, in modo che la sicurez:za e la libertà possano prosperare insieme». La rilevanza sociale delle connessionj tra apparato militare e industriale era stata del resto già segnalata dal sociologo C. Wright Mills nel celebre studio su «La élite del potere» (1956) e nuovamente descritta dall'economista John Kenneth Galbraith ne <JI nuovo Stato industriale» (196 7). Il problema esiste anche nell'Unione ovietica ove l'alleanza tra tecnostrutture miljtari, della polizia e dell'industria pesante costituface insieme al partito il baricentro del potere. Ma l'esperienza ci insegna che la più esplicita militarizzazione delle strutture politiche si verifica piuttosto in paesi da una parte come la Polonia, dall'altra il Cile, la Turchia, la Grecia, ove per mancanza di solide strutture industriali nel settore degli armamenti non si può dare il caso di un vero complesso militare-industriale. Sulla scia del dibattito apertosi negli Stati Uniti si è posto anche in Italia il quesito sulla esistenza di un nostro complesso militare-industriale e sui problemi che ne possono derivare. In Italia abbiamo una quantità di industrie per la difesa non cos} consistente da assicurarci autosufficienza, ma pur sempre esteso e qualificato. Sul mercato mondiale siamo in questo settore un paese importante. E tuttavia anche quei politologi che hanno affrontato l'argomento senza dmori reverenziali e semmai con propensioni polemiche non hanno in genere ritenuto che esistessero nel nostro paese basi sufficienti per far temere la debordante presenza di un complesso militare-industriale. Nel 1971 Enzo Forcella, stendendo la prefazione a una serie di saggi su «li potere militare in Italia», ha osservato molto pacatamente che da noi il problema si poneva in termini non solo


106

GIAKO ACCANE

assai più modesti ma anche molto diversi da quelli sollevati in America da Galbraith: «Una spesa per commesse militari equivalente, a/l'incirca, al fatturato della Olivetti e a un quinto di quello della Fiat adombra una realtà assai lontana da quella stretta integrazione tra industria, apparato militare, burocrazia civile e cultura universitaria così bene illustrata dal profassore americano)>. «Paradossalmente, aggiungeva Force!Ja, si potrebbe invece sostenere che qualcosa di simile alla tecnostruttura militare-industria/e è esistito nel nostro paese quando di essa non era ancora stato inventato il nome, né delineato il modello. La incidenza delle spese militari tra il 18 62 e il 194 3, e soprattutto la loro utzliZZtJzione, dimostrano largamente il reciproco condizionamento tra spese militari e apparato industriale, tra le esigenze delle forze armate e gli investimenti infrastruttura/i (ferrovie, porti, ecc.) che ha caratteriZZtJto la prima fase del nostro sviluppo economico. Con il dopoguerra e la proclamazione della Repubblica si verifica quella che si può definire una vera e propria inversione di tendenza: parziale, criticabile, carica di elementi contraddittori ma irreversibile; almeno sino a quando il nostro modello economico manterrà i caratteri e i limiti acquisiti nel corso del ventennio con la rinuncia alla gara atomica e un tipo di sviluppo industria/e fondato più sulla utiliZZtJzione del lavoro e del management che sulla ricerca tecnologica avanzata». Se bene si osserva qui si presenta come fattore rassicurante quello che è invece un elemento preoccupante di debolezza del nostro sistema industriale, nel quale sono carenti quei benefici di ricaduta tecnologica che altri paesi ricavano invece proprio dai settori di ricerca militare avanzata. Tra i quali, non dimentichiamolo, nella seconda guerra mondiale si ricavarono anche strepitosi successi in campo sanitario sia con lo sviluppo degli antibiotici, che hanno debellato le malattie infettive di cui prima si moriva con tanta facilità, sia con lo sviluppo degli insetticidi, che hanno portato alla scomparsa della zanzara malarica, delle cimici, alla drastica riduzione di mosche e pidocchi. Si tratta di conquiste per il genere umano, che l'industria chimico-farmaceutica ha realizzato su commissione delle forze armate statunitensi per la protezione dei propri soldati. Purtroppo mancano in Italia esempi di questa portata, anche se il rapporto tra politica militare e sviluppo industriale non è privo nemmeno da noi di una sua incidenza non trascurabile. Se ne trovano larghe tracce negli «Annali de/l'economia italiana» iniziati da Epicarmo Corbino per iJ periodo che va dall'unificazione italiana sino alla vigiJia della prima guerra mondiale e poi proseguiti per conto dell'Ipsoa da un gruppo di specialisti coordinati da Gaetano Rasi. Per il periodo fra le due guerre mondiali indicazioni puntuali sull'ar-


SISTEMA INDUSTRIALE E FORZE ARMATE

107

gomento si trovano soprattutto nei contributi di Gaetano Rasi sulle politiche economiche, di Fortunato Minniti sullo sviluppo industriale, di Enrico Petrazzi suJl'energia e la ricerca. PRJNCIP ALI PROD UZIONJ DELLE INDUSTRIE BELLICHE 1940-1 943

Cannoni terrestri (dal calibro 47 aJ 210 Mitragliere (ca!. 20) Mitragliatrici Mortai Carri pesanti Carri medi Cannoni semoventi Carri leggeri Autoblindo Automezzi Motomezzi Navi da battaglia Incrociatori leggeri Cacciatorpediniere Torpediniere Corvette Sommergibili Naviglio silurante e minore Aerei da caccia Bombardieri Ricognitori Aerei da trasporto, da addestramento e per altri impieghi Aerei di tipo non specificato

7.200(?) 9.800* 110.000* 16.800* 28 1.834 645 287 532 120.000(?) 35.000* 5

3 5 16 28 35 127 4.510 2.063 1.080 2.892 959

* Compreso il 1939

Fonti: F. Minniti, Il problema degli armamenti nella preparazione militare italiana dal 1935 al 194 3, in «Storia contemporanea», 1978, n . 1; C. Favagrossa, Per,hé perdemmo la guerra. Mussolini e la produzione bellica, Milano, 1946.

Di utile e sintetica consultazione è anche il saggio di Massimo Mazzetti sulla economia militare per il catalogo della grande mostra «Economia italiana tra le due guerre» da poco conclusasi al Colosseo. Specialista della materia Mazzetti è autore tra l'altro di due volumi su «La politica militare italiana tra le due guerre mondiali» ( 19 74) e <<L'industria italiana nella Grande Guerra» (1979). Nella prima guerra mondiale la nostra industria, sotto l'infaticabile guida del generale


108

G IANO ACCAME

Alfredo Dallolio, riuscì a produrre 2 milioni e mezzo di fucili, 37.000 mitragliatrici, 16.000 pezzi d'artiglieria, 40.000 autocarri, 12.000 aerei, 12.000 carri ferroviari, 160.000 tonnellate di naviglio. Per la seconda guerra mondiale una tavola preparata da Fortunato Minniti per gli «Annali dell'economia italiana» mostra cifre che non sono, tenuto conto dei progressi industriali nel frattempo intercorsi, molto superiori. La realtà è che il fascismo, nonostante una apparente militarizzazione del paese, non preparò una economia di guerra. Lo sforzo pubblico alla vigi!ja del secondo conflitto mondiale era semmai polarizzato verso l'Esposizione Universale Romana del '42, sognata come un grande incontro di pace fra i popoli in singolare contrasto con la retorica marziale del regime. Se funzionò una sorta di complesso militare-industriale, ciò avvenne in misura non indifferente per garantire lavoro nel corso degli anni Trenta, dominati dalla crisi mondiale innescata alla fine del 1929 con il crollo di Wall Street. Per tutti gli anni Venti le commesse per l'esercito, al di là della reintegrazione del vestiario e dell'aggiornamento del parco automobilistico, furono rese superflue dalle grandi quantità di materiale, anche di preda bellica, residuato dalla prima guerra mondiale. Anche successivamente, tranne una punta di forniture per la campagna d'Etiopia, le forniture per l'esercito furono modeste. La marina, che non si era sviluppata durante la prima guerra mondiale nella quale ebbe un ruolo secondario, ricevette invece forte impulso dopo la crisi del 1929 per motivi di presenza mediterranea che si combinarono con necessità di assistenza all'industria cantieristica. L'aviazione ottenne una serie esaltante di primati, ma ciononostante si trovò in condizioni di inferiorità allo scoppio della seconda guerra mondiale. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche affidato, dopo la scomparsa di Marconi, alla presidenza di Badoglio proprio nell'intento di accentuare la ricerca e sviluppo di tecnologie militari non ne ricevette invece alcun impulso. Mancò alla grande industria il gusto del rischio nell'innovazione e le autorità militari da cui dipendevano le commesse mancarono della cultura industriale necessaria ad imporre proprie direttive con una sufficiente competenza. Tuttavia gli 11.000 aerei costruiti fra il 1939 ed il 1943 sono il ricordo di una capacità produttiva che in questo settore oggi si è perduta. La spesa militare italiana si è attestata a partire dagli anni Settanta sui suoi minimi storici in percentuale al prodotto interno lor-


SISTEMA INDUSTRIALE E FORZE ARMATE

109

do e rispetto alle altre voci della spesa pubblica. Solo nel decennio 1871-80 era capitato che la spesa per la difesa scendesse come adesso al di sotto del 3 per cento del Pii (prodotto interno lordo), ma solo adesso è scesa al di sotto del 1O per cento nell'insieme della spesa pubblica, come rivela una tabella riportata da Fabrizio Battistelli in «Armi: nuov.o modello di sviluppo? - L'industria militare in Ita lia» (Einaudi, 1980). Per quanto dguarda alcuni confronti internazionali Piero Ostellino e Luigi Caligaris nel libro inchiesta su <J nuovi militari - Una radiografia delle forze armate italiane» (Mondatori, 1983), hanno rapidamente annotato: «Nel decennio 19 68- 19 78 (vedi Military Balance 1979-1980), l'Italia ha destinato alla Difesa 34 milioni di dollari contro gli 80 della Gran Bretagna, gli 85 della Francia, i 144 della Germania Federale. Oggi l'Italia spende circa 19 mila dollari per ogni militare, dal soldato al generale) contro i 200 mila degli Stati Uniti, i 75 mila della Gran Bretagna, i 6 O mila della Francia, della Germania, dell'Olanda, eccetera. Inoltre, mentre negli altri Paesi occidentali le spese per la Difesa sono pari al 40 per cento delle spese sociali e per l'istruzjone, in Italia esse non superano il 15 per cento». Sono dati indicativi da un lato di una relativa dequalificazione delle strutture militari, dall'altro di una loro insufficiente connessione con l'industria specie nei settori tecnologicamente più avanzati e costosi, che peraltro in parte bilanciarono una carenza di commesse nazionali con la dinamica delle esportazioni. L'Italia si affermò sin dal primo decennio del secolo come la settima potenza industriale del mondo e non va trascurato il ruolo traente che in ciò ebbe, come nei secoli del Rinascimento, l'ingegneria militare e la spesa destinata all'ammodernamento della difesa. A partire dal secondo dopoguerra questo ruolo traente si è rallentato e c'è da chiedersi se anche questa non sia tra le cause delle crescenti difficoltà che incontriamo nel mantenere le posizioni già acquisite all'epoca di Giolitti.


110

GIANO ACCAME

Medie dei valori assoluti e percentuali della spesa pubblica e della spesa per la Difesa in relazione al Prodotto interno lordo (Pii) nel periodo 1862-1975.

Milioni di lire.

Spesa pubblica a

Spesa Difesa b

Pii e

aie

b/a

b/c

1862-1870 1871 - 1880 1881-1890 1891 -1900 1901-1910 19 11- 1914 1915-1920 1921-1930 1931-1940 1941 -1944

1 064 l 395 1 888 1 793 2 173 3 723 21 636 26 945 45 255 188 402

261 231 380 379 446 1 465 12077 5 163 15 881 73 557

8 341 10 550 10 445 11 162 14 605 19 070 40 621 125 239 128 626 407 065

12,8 13,2 18,0 16,0 14,9 19,6 46,4 21,6 35,2 46,3

24,5 16,6 20, 1 21, 1 20,5 39,3 55,8 19,2 35,0 39,0

3,1 2,2 3,6 3,4 3,0 7,7 25,9 4,1 12,3 18,0

Miliardi di lire.

Spesa pubblica a

Spesa Difesa b

Pii

a/e

b/a

b/ c

1945-1950 1951-1960 1961-1965 1966-1975

1 280 3 177 5 713 16 317

210 502 769 1 496

5 358 14 107 27 234 60 847

23,9 22,5 21,0 31,2

16,4 15,8 13,5 9,2

3,9 3,6 2,8 2,5

e

Fonte: 1862-1965, Ministero del Tesoro, Ragioneria Generale dello Stato, Il bilando dello Staio italia11q dal 1862 al 1967 cit.; 1966-75, id., Nola inlrodulliua al bilandodi preuisiOl/t cit.


ANDREA FAVA

L'ETÀ CON T EMPORANEA TRA STORIOGRAFIA, DIVULGAZIONE E MEMORIA FAMILIARE E COLLETTIVA 1. Il tema di questo intervento era già bell'e pronto con il suo fascino, e con tutte le sue evidenti difficoltà, quando mi è stato chiesto di illustrarlo e di affrontare quindi, non solo queste difficoltà, ma anche il rischio aggiuntivo di una trattazione che potesse risultare dissonante, se non proprio stonata, rispetto alle intenzioni originarie e ad una armonica impostazione degli argomenti e dei fini del Convegno. Ringraziando ancora il Comitato organizzatore per l'invito rivoltomi, devo perciò preoccuparmi subito di ridimensionare la portata della mia relazione, il cui titolo può apparire poco meno - o poco più - che enciclopedico, dichiarando preliminarmente che è estranea a un simile titolo la benché minima presunzione di complet~zza sistematica: l'età contemporanea non vi compare nel senso di una periodizzazione accademica, come un insieme ponderoso di avvenimenti, problemi e processi storici compresi all'interno di limiti cronologici istituzionalmente predeterminati dal manuale scolastico o dalla partizione disciplinare dell'insegnamento universitario. Non si tratta, cioè, di considerare la storia generale dal 1915, o dal 1870, o dal 1815, ma piuttosto di offrire qualche elemento di riflessione e di dibattito e qualche spunto esemplificativo sulla consapevolezza che è utile avere, sul piano didattico oltre che su quello critico-scientifico, circa alcune peculiarità della categoria del contemporaneo che ne influenzano il nesso con l'evento storico. L'argomento, o l'interrogativo, centrale della relazione potrebbe grosso modo essere espresso così: l'insegnamento scolastico della storia contemporanea e, per molti aspetti, anche la produzione scientifica, cioè la storiografia dell'età contemporanea, non possono prescindere dal particolare tipo di rapporto che lega la materia d'insegnamento o l'oggetto della ricerca con il pubblico dei destinatari, studenti o lettori: un pubblico che, mentre viene sollecitato a studiare, imparare e considerare criticamente i fatti, è già titolare di conoscenze o di frammenti di valutazione sulla storia contemporanea,


112

A 1'0 REA FAVA

è influenzato da pregiudizi o da stereotipi interpretativi, ed è comunque, e soprattutto, portatore di un patrimonio vivo, privato e sociale, di memoria storica degli avvenimenti. Questo «pubblico», inconsciamente o razionalmente, non è tabula rasa, terreno vergine: prendere atto di questa realtà e, di fronte agli studenti, sapere bene che per essi il fascismo, le guerre mondiali, la Resistenza non sono la rivoluzione inglese del '600 o il dispotismo illuminato, è qualcosa di più di una banalità. E ciò non solo nel senso, più scontato e in fondo falso, di un presunto inquinamento politico di cui sarebbero carichi gli avvenimenti storici a noi troppo vicini. Non vi sono in realtà molti dubbi che tale potenziale di contaminazione tra «scienza» e «politica» possa essere tenuto facilmente sotto controllo attraverso un atteggiamento di sufficiente rigore didattico e metodologico e possa per questa via djventare addirittura nelle mani dell'insegnante, una risorsa conoscitiva e formativa invece che un intralcio. Ma prima di considerare questo aspetto occorre ricordare che il problema della storia contemporanea - della sua «scientificità» o almeno della sua capacità di essere strumento di conoscenza e di formazione culturale - non si presenta tuttavia di immediata soluzione solo che si sia sgomberato il campo dai fantasmi della politica e dell'ideologia, perché la sua complessità deriva da ragioni più profonde, che toccano alla radice il lavoro dello storico ed il suo metodo e coinvolgono la validità dei criteri da lui usati per la selezione dei fatti del passato meritevoli della qualifica difatti storici. Nella prima delle sue Sei lezioni sulla storia (Einaudi, 1966), Edward Carr critica a tale proposito l'immagine corrente che il senso comune ha della storia, immagine condizionata negativamente dalla grande tradizione della storiografia positivista e alimentata dall'illusione che <<la storia consista in un complesso di fatti accertati» e che lo storico «trovi i fatti nei documenti, nelle iscrizioni e cosl via, come i pesci sul banco del pescivendolo». In quelle sue lezioni Carr cercava invece di spiegare al pubblico dei suoi ascoltatori quanto la «scelta» di quei fatti fondamentali che possono essere considerati la «materia prima» della storia «dipende non già da una qualità intrinseca dei fatti stessi ma da una decisione a priori dello storico»: è lo storico «ad aver deciso che, dal suo punto di vista, il passaggio compiuto da Cesare di un fiumiciattolo come il Rubicone, è un fatto storico, mentre il passaggio del Rubicone compiuto prima o dopo di allora da milioni di altri individui non c'interessa minimamente. Il fatto che uno di voi sia giunto mezz'ora fa a piedi, in bici-


L'ETÀ CONTEMPORANEA: S'JORIOGRAFlA, DIVULGAZIONE, MEMORIA COLLb'TTIVA

113

eletta o in automobile in questo eclificio è un fatto del passato esattamente come il fatto che Cesare abbia passato il Rubicone: eppure molto probabilmente esso sarà ignorato dagli storici (... ). Credere che in un duro nocciolo di fatti storici esistenti oggettivamente e indipendentemente da chi li interpreta è un errore assurdo, che tuttavia è molto difficile da estirpare». Dopo aver messo insieme una grande quantità di fatti e dopo averli accertati con il massimo rigore e con le testimonianze più numerose possibili, lo storico, dice Carr, è comunque «costretto a scegliere», cioè a selezionare i fatti in base ad una interpretazione, cioè innestandoli in un processo eh.e dia senso ai singoli episodi. Le modalità dell'azione compiuta da un Cesare qualsiasi, cittadino romano che varca il Rubicone per recarsi a un incontro privato invece che per prendere il potere e avviare il trapasso dalla Repubblica all'Impero, potrebbero non interessarci minimamente anche se fossero ricostruibili con assoluta certezza. Al contrario, per restare scherzosamente nel paragone,. se tutti gli ascoltatori di Carr avessero quel giorno scelto di usare la bicicletta e se la loro fosse stata una decisione obbligata, effetto della crisi petrolifera e di una irreversibile carenza del carburante che ha alimentato la motorizzazione privata nelle società industriali, oppure la consapevole e pittoresca manifestazione di una presa di posizione simbolica, di tipo ecologico, o ancora un episodio localizzato assimilabile a tanti e contemporanei episodi analoghi verificatesi in altri luoghi, da inserire in una consistente serie statistica di comportamenti capaci di segnalare un processo di mutamento nelle abitudini di vita: ...quel fatto potrebbe essere storicamente rilevante. Ciò che conta è in definitiva la concatenazione, la prospettiva, l'esito: cioè la validità dei nessi, cli causaeffetto o di esemplarità simbolica o di valenza statistico-seriale, che tengano uniti i singoli fatti tra di loro. L'inderogabile fatica di selezionare i fatti in modo da tradurli in un discorso comprensibile e conoscerne iJ significato, o almeno rintracciare una possibile logica interna che determina i loro rapporti e ne guida la direzione di marcia, ciò che è la necessità storiografica di ricostruire la prospettiva e di individuare l'esito di un insieme coordinato di atti e di eventi del passato, rende particolarmente difficile la storia contemporanea, accentuando le incertezze dello storico di fronte al compito di connettere e valutare avvenimenti cosl vicini da non aver ancora esaurito tutta la loro capacità di incidere direttamente sulla realtà attuale, e di fronte ad una attualità che, col suo rapido mutamento, modifica sotto i nostri occhi gli esi-


114

ANDREA FAVA

ti cli quegli eventi le cui conseguenze sono ancora vive ed i cui effetti ancora operanti e cambia la prospettiva cli un recente passato che man mano si allontana e si avverte finito. Se è vero, insomma che ogni storia è contemporanea, almeno nel senso che l'interrogativo dal quale prende le mosse lo storico, nella sua indagine rivolta ad accertare, scegliere e «tradurre» i fatti del passato, è sempre un interrogativo che nasce dal presente; è altrettanto vero che nel campo della storia contemporanea questo rapporto clinamico tra passato e presente si rivela particolarmente intenso e instabile. Lo faceva notare, alcuni anni fa, un altro stuclioso inglese, Geoffrey Barraclough, che nella sua Guida alla storia contemporanea (Laterza, 1971) osservava: «Le nuove generazioni considerano certamente il XX secolo con criteri cliversi dai nostri. Nate in un mondo nel quale le questioni più importanti non saranno più quelle europee, ma quelle attinenti ai rapporti fra l'Europa, Russia inclusa, e l'America e i popoli dell'Asia e dell'Africa, esse troveranno poco importanti molti dei problemi che hanno esaurito l'attenzione della generazione precedente. Lo stuclio della storia contemporanea richiede una revisione sia delle prospettive sia della scala dei valori. Riuscirà molto più vantaggiosa e istruttiva, per esempio, la lettura dell'autobiografia di Nkrumah che non le memorie cli Eden, troveranno più punti di contatto con il mondo di Mao e cli Nehru che con quello di Coolidge e Baldwin; ed è importante ricordare che mentre Mussolini e Hitler posavano impettiti dinanzi alla platea europea, altri mutamenti nel mondo stavano incidendo ben più seriamente sull'assetto dell'avvenire». La citazione è forse un po' invecchiata, ma non per questo è meno significativa e rende anzi più convincente il tentativo cli definizione dell'età contemporanea compiuto da Barraclough. Se bene interpretiamo il suo discorso complessivo, infatti, ciò che caratterizza e rende cliversa l'età contemporanea è, in sintesi schematica, l'accelerazione dei processi storici e insieme la clilatazione spaziale delle loro conseguenze e connessioni: un cambiamento di ritmo nei tempi delle trasformazioni, che si succedono con una frequenza incomparabilmente più veloce che nel passato, e una progressiva espansione dei confini all'interno dei quali agisce e si misura l'interrelazione geografica dei fenomeni che riguardano le società e le culture dell'uomo, fino al coinvolgimento di ogni angolo della terra in un «unico sistema politico moncliale». Ognuno cli noi può avere la sensazione che nell'ultimo decennio questa accelerazione si sia fatta frenetica, tanto da rendere inservibili gli stessi strumenti di misurazione che dovrebbero consentire


L'ET A CONTEMPORANEA: ST0R10GRAF1A, DIVULGAZIONE, MEMORIA COLLETTIVA

115

la riorganizzazione di una qualche aggiornata «scala di valori», utile a ordinare gli avvenimenti lungo una oggettiva, o almeno riconoscibile e significativa, gerarchia di importanza. Quasi che si vada consumando, nei pressi di una sua soglia conclusiva, iJ complicato itinerario di crisi - mutazione dei parametri del progresso che ha percorso dall'interno le vicende della storia contemporanea: da quelli ottocenteschi della «rivoluzione industriale» (europeo-borghesi, economico-quantitativi, nazional-liberali... ) a quelli ancora indeterminati e «futuribili» dell'età della tecnologia elettronica e delle società post-industriali e post-ideologiche (con nuove valenze qualitative nei rapporti risorse-popolazione, demografia-urbanesimo, economia della produzione materiale-informatica, società di massa-miti). Quanto più il tempo presente appare dinamico e al tempo stesso poco chiaro nelle sue linee di direzione e di assestamento tanto più numerosi diventano gli interrogativi che premono sulla storia contemporanea e più complessi gli orizzonti dello studio e della ricerca: la consapevolezza di dover accantonare qualsiasi criterio di valutazione che sia esclusivamente eurocentrico non è sufficiente, rappresenta più una premessa minimale che una risposta illuminante. Non è proprio il caso di assecondare l'inquietudine del futuro o accentuare il senso di smarrimento nel presente che sembrano derivare dall'ulteriore svolta degli ultimi anni, ma ho l'impressione che l'intesa fase di passaggio che attraversiamo influisca non poco sull'atteggiamento delle «nuove generazioni» nei confronti della storia, orientandolo, per quanto riguarda in particolare la storia contemporanea, verso una considerazione molto meno positiva di qualla che è implicita nel brano di Barraclough appena citato. Esso è tratto, del resto, da un libro che era stato concepito e pubblicato, nell'edizione inglese, alla metà degli anni sessanta e forse il suo ottimismo su questo specifico punto risente delle aspettative allora diffuse nelle giovani generazioni circa le potenzialità del mondo contemporaneo: le speranze della coesistenza pacifica, la contestazione degli autoritarismi del «passato», la fiducia nell'ascesa di un Terzo Mondo affrancato dal dominio imperiale delle potenze, la prospettiva di sviluppi sociali e democratici delle società di massa e della politica di massa, costituivano iJ retroterra non solo di quella che sarà una tumultuosa stagione di mobilitazione politica giovanile ma anche di una insistente e quasi avida propensione verso la storia contemporanea, nei confronti della quale, invece, non si può escludere che oggi prevalga tra gli studenti una tendenza al rifiuto o almeno un'attitudine di disagio.


116

AJ\.OREA FAVA

Sarebbe giusto saperne di più, ma non credo che ci siano dati sociologici sufficienti a descrivere tale fenomeno e a sorreggerne una lettura sia pure iniziale ed approssimativa. Sulla base di una esperienza diretta, limitata agli studenti che hanno frequentato negli ultimi anni i corsi di storia moderna e di storia contemporanea della facoltà di Scienze Politiche di Roma, mi è solo possibile riferire alcune impressioni e tentare di trarne qualche osservazione. Più che un minore interesse per la storia contemporanea sembra emergere un atteggiamento di selezione istintiva al negativo, che penalizza soprattutto la storia politica, tenta di aggirare le vicende dei partiti e dei movimenti sindacali, rivela un maggiore imbarazzo a collegare nozioni ed elaborare giudizi sui fatti che rimandano in vario modo agli sviluppi della lotta politica. La diffidenza verso le categorie politiche può essere giustificata da una saturazione accumulatasi negli anni precedenti e può perfino arricchirsi con l'esigenza di approcci meno superficiali alla storia contemporanea considerata nei suoi processi di più lunga durata, ma è certo una diffidenza che allo stato attuale tende piuttosto a sottrarre credibilità «scientifica» ad alcuni campi d'indagine e a dilatarsi in un latente scetticismo nei confronti della disciplina nel suo complesso. È interessante notare, comparativamente, come nello studio della storia moderna trovi invece più libero sfogo una disponibilità psicologica abbastanza forte ad aggrapparsi alla nozione in senso tradizionale, quasi esprimendo la fiducia di trovarsi di fronte a un ambito disciplinare dotato di maggiore oggettività, nel quale avvenimenti e cronologie si presentano definiti vi e permettono acquisizioni sicure. Come se le insidie nascoste nell'esame di storia moderna derivassero solo dall'ansia di una insufficiente memorizzazione, mentre quelle dell'esame di storia contemporanea contenessero anche il rischio ineluttabile di affrontare argomenti che, per loro natura, potrebbero essere esposti solo prendendo posizione in prima persona, obbligando quasi a «schierarsi» politicamente. Estremizzando questi due atteggiamenti esemplificativi e complementari, che riguardano soprattutto gli studenti più impegnati e diligenti, si potrebbe dire che la storia moderna sembra rappresentare la certezza del dato e la storia contemporanea l'azzardo dell'interpretazione: la defenestrazione di Praga e le paci della Vestfalia avrebbero il prestigio di costituire indubbitabilmente l'inizio e la fine di una rassicurante e archiviabile guerra dei trent'anni nell'Europa del XVIl secolo, mentre l'attentato di Serajevo e la conferenza di Versailles potrebbero anche accontentarsi di occupare stabilmen-


L'ET A CONTEMPORA NEA: STORIOGRAFIA, DIVULGAZIONE, MEMORIA COLLETllVA

11 7

te iJ posto di inizio e fine della Grande Guerra, o perfino dell'ultima guerra del Risorgimento italiano, ma purtroppo è lecito sospettare che siano niente più che la prima fase di un'altra e meno archiviabile guerra dei trent'anni nel mondo del XX secolo. Se le cose stessero davvero così, il primo pregiudizio contro il quale occorrerebbe fare i conti riguarda l'idea stessa di storia contemporanea e il pericolo di regredire ad un rapporto con tutta la Storia simile a quello descritto in un'altra battuta di Carr: «ho il sospetto che ancora oggi uno dei motivi di fascino della storia dell'antichità del medioevo consista nel dare l'illusione che tutti i fatti storici siano a nostra disposizione e facilmente raggiungibili: l'irritante distinzione tra i fatti storici e gli altri fatti del passato scompare, in quanto i pochi fatti a noi noti sono tutti fatti storici». È un'arguta applicazione del principio dell'utilità marginale: la relativa povertà di fatti e di fonti disponibili per il passato più lontano trasforma ogni frammento di realtà in quella preziosa materia prima che sono i fatti storici. Quale abisso con la quasi soffocante sovrabbondanza di fatti e di fonti che affollano la storia dell'età contemporanea! Sovrabbondanza che rende improbo il compito di selezionare, di muoversi nell'invadenza inflazionistica dei dati alla ricerca di qualche significativo passaggio del Rubicone. Di fronte a un campo di indagine nel quale si sono accumulati in pochi decenni un grande numero di trasformazioni (nella scienza, nelle relazioni internazionali, nell'economja, nella vita sociale e politica) e una quantità ancora più grande di testimonianze e di documenti, siamo costretti a constatare che anche il punto di osservazione dal quale tentiamo di gettare uno sguardo ordinatore su questo recente passato è esso stesso sottoposto quotidianamente a un incessante bombardamento di fatti che ne mettono in dubbio la solidità. La cronaca di ogni giorno può recare il segnale dell'inizio o del compimento di una nuova svolta «storica», nascosta in avvenimenti che sembrano verificarsi al di fuori di una nostra possibilità di influenza e che da molteplici settori e regioni dell'agire umano continuano a marcare e modificare la realtà del mondo contemporaneo: l'annuncio, o l'allarme, può provenire dalle decisioni delle superpotenze o dall'ingegneria genetica, dalla fisica delle particelle o dal risveglio islamico, dall'esplosione delle comunicazioni di massa o dalle nuove modalità dell'acculturazione, dei processi educativi e della partecipazione politica, dalla computerizzazione o dalla conqwsta spaziale, dalla «decadenza» dell'Europa o dalla notizia che il motore del mondo si è ormai trasferito dall'Atlantico al Pacifico (un proces-


118

ANDR E A F AVA

so, quest'ultimo, segnalato già da alcuni decenni, ma che di recente uno storico come F. Braudel ha suggerito essersi compiutamente realizzato). Una percezione del «contemporaneo» come fonte di inquietudine e come campo di valutazioni condannate alla provvisorietà può essere, insomma, del tutto legittima e appare tanto più giustificabile nei giovani, soprattutto se aggrediti da una sensazione di insicurezza rispetto alle prospettive di una propria personale collocazione e se vittime di una radicale esclusione dalla progettazione della società futura. La loro perplessità di fronte alla storia contemporanea, più che frutto di svogliatezza e di disorientata indifferenza, può considerarsi l'espressione di una reaJe aporia metodologica e sollecita comunque una risposta, imponendoci innanzi tutto di contrastare, nell'imbarazzo del tempo presente, il riflusso verso una concezione del passato come immobile «zoo di vetro» e rifugio di immutabili certezze nozionistiche. Il senso della storia e il suo metodo non consistono in un'attività di catalogazione e archiviazione di reperti inanimati e perciò il dinamismo dei cambiamenti, con il quale il mondo contemporaneo ci impone di convivere, non dovrebbe travolgerne o inaridirne le risorse ma esaltarne piuttosto le potenzialità formative. Esse si misurano anche sul presente che ci circonda e che richiede una capacità di distacco «storico» dagli argomenti di moda e dalla frenesia delle notizie, una riserva di spirito critico nell'indagine sull'effettiva natura dei fatti e sul loro possibile spessore, una coscienza delle differenze qualitative tra processi profondi, dei quali vale la pena indagare le origini, e mutamenti di superficie; una selezione dell'essenziale, insomma, nella selva dei fenomeni passeggeri: un sentimento non cronachistico del tempo che scandisce le tappe del cammino umano e insieme una ricerca appassionata della prospettiva che ne orienta la progressione e la meta. L'obiettivo, com'è ovvio, non è di avere risposte sul futuro, ma di imparare a interrogarsi correttamente anche sull'oggi degli uomini, per condividerlo consapevolmente e magari sapere meglio contribuire a modificarlo. Oltre alle risorse del metodo, anche il prodotto complessivo della ricerca storiografica sull'età contemporanea fornisce, nonostante tutto quanto si è detto finora, alcune nozioni sufficientemente stabili, delle quali non è qui il caso di tentare un elenco ragionato ma che possono a buon diritto pretendere un ruolo nella formazione culturale e nella costruzione della coscienza civile degli uomini del nostro tempo. Presupposto per trasmettere efficacemente, nella


L'ETA CONrEMPORANEA: STORIOGRAFIA, DNULGAZIONE, MEMORJA COLLETTIVA

119

scuola come all'università, questo patrimonio essenziale di conoscenze sulla genesi della geografia umana del mondo attuale e sulla successione e interazione dei processi storici che hanno disegnato, negli ultimi cento anni, le caratteristiche strutturali delle società contemporanee, è l'impegno degli insegnanti nell'aggiornamento istituzionale e nel contatto con gli sviluppi specialistici e interdisciplinari della ricerca. 2. È dunque probabile che la didattica della storia contemporanea debba oggi assumersi l'incarico preliminare di superare una congiuntura sfavorevole nel rapporto tra questa dipsciplina e le giovani generazioni: ogni docente potrà giudicare se si tratti di una contingente difficoltà di integrazione nel «contemporaneo» o di un più profondo e conflittuale motivo di insoddisfazione che chiama in causa la validità dei metodi di ricerca e di insegnamento. Oppure, più semplicemente, di un radicale errore di valutazione da parte mia e quindi di una preoccupazione del tutto superflua. Certo anche per le altre discipline, siano le scienze naturali o la poesia e l'arte, si può registrare tra gli studenti una diversa predisposizione, una sensibilità allo studio differenziata in base al grado di «utilità sociale» percepibile in quel genere di nozioni, oppure un «bernoccolo» e una vocazione particolare, influenzati da fattori ambientali e culturali esterni alla scuola. Mi è sembrato in ogni caso utile, però, sottolineare la necessità di interrogarsi sulle modalità non solo soggettive di questo rapporto perché credo che, nel caso della storia contemporanea, esso sia più fortemente condizionato da un ulteriore atteggiamento pregiudiziale che investe gran parte delle singole nozioni, cioè letteralmente da una visione degli avvenimenti storici contemporanei che precede il momento del contatto didattico e che può essere più o meno parziale, più o meno consapevole e strutturata, ma che non è comunque priva di conseguenze agli effetti dell'apprendimento. Nei riguardi della storia contemporanea, infatti, ogni studente si trova al centro di quella che si potrebbe rappresentare come una tensione tripolare. Egli è bersaglio di un triplice ordine di sollecitazioni: quelle provenienti dai risultati e dalle nozioni della storiografia, che dovrebbero costituire il punto di partenza teorico e il contenuto materiale dell'insegnamento; quelle che derivano dalla assunzione extra-scolastica di immagini del passato storico più recente, talvolta suggestive e stimolanti anche se spesso semplificate e stereotipate (siano esse il frutto della div ulgazione di interpretazioni consolidate e vincenti o il residuo della acculturazione di massa); e quelle, infine, che


120

ANDREA FAVA

riemergono dalla memoria storica familiare e sociale, alimentata da quanti quel recente passato hanno vissuto direttamente o ne hanno comunque trapiantato nella propria vita quotidiana ricordi di esperienze personali e temi dominanti, incardinandoli in orizzonti diversi da quelli della riflessione storiografica e della divulgazione. Può giovare, a questo punto, il ricorso ad alcuni elementari esempi di divulgazione tratti dall'attualità. Le prime pagine di quasi tutti i giornali italiani di domenica 23 settembre 1984 riportavano la fotografia del presidente della repubblica francese Mitterand e del cancelliere della repubblica federale tedesca Kohl che si tenevano per mano sui campi di Verdun: «commemorano insieme il grande massacro della 1a guerra mondiale», spiegava nell'occasione il quotidiano «la Repubblica>>, che corredava in una pagina interna il suo commento di ulteriori foto, compresa quella particolarmente suggestiva dei due uomini di Stato circondati da una fitta schiera di croci tombali in un cimitero di guerra francese. Su tutta la stampa, commenti e articoli rievocativi illustravano il «messaggio di pace» che, levandosi dalle solenni dichiarazioni e dalle cerimonie commemorative dell'incontro di Verdun, «simbolo del dolore e del sangue nella storia dell'Europa», rafforzava l'immagine del «grande massacro». Il quotidiano citato concludeva il suo servizio riproponendo la «vecchia domanda: si può imparare qualcosa dalla storia, anche da quella di battaglie sanguinose e di guerre orribili?». L'episodio suggerisce due osservazioni: anzitutto la forte saldatura tra carica emotiva della celebrazione rituale e sintesi interpretativa del fatto storico rievocato; in secondo luogo, la natura squisitamente politica dell'avvenimento di cronaca che ha stimolato la produzione di rappresentazioni simboliche capaci di irradiare un messaggio molto intenso. Questo secondo aspetto, cioè l'origine politica dell'episodio, connessa al ruolo dell'intesa franco-tedesca nella politica europea, rimanda a un secondo esempio. L'incontro di Verdun, infatti, era nato dall'intenzione francese di attenuare la portata del mancato invito di rappresentanti politici della Germania Federale in occasione del 40° anniversario dello sbarco in Normandia. Per celebrare questa importante data delJa za guerra mondiale il governo francese aveva organizzato un ciclo di manifestazioni commemorative durate più giorni, nella prima settimana di giugno del 1984 e sugli stessi luoghi che erano stati teatro degli avvenimenti, con la visita di delegazioni ufficiali dei governi dell'Inghilterra, del Canada e degli Stati Uniti d'America. I vecchi nemici tedeschi non erano stati invitati.


L'ETA CONfEMPORANEA: STORIOGRAFIA, DIVULGAZIONE, MEMORIA COLLETI1VA

121

Anche di queste celebrazioni si trova un'ampia cronaca nella stampa italiana, che all'anniversario del «D Day» ha inoltre riservato ulteriore spazio con inserti speciali e pagine rievocative. La prima rete televisiva nazionale, oltre a una lunga trasmissione in diretta dalla Normandia, ha programmato per l'occasione, in due serate successive, il film americano Il giorno più lungo. La radio ha invece mandato in onda, sfruttando la corrispondenza cronologica tra lo sbarco in Normandia e l'ingresso delle truppe alleate nella capitale italiana, alcune ore di trasmissione mattutina dedicate al resoconto delle cerimonie francesi ma anche al ricordo della liberazione di Roma, affidando quest'ultimo, attraverso la formula del «dove eravamo quel giorno», alla testimonianza e alla memoria privata di alcuni uomini di cultura e personaggi dello spettacolo. Molti significati e messaggi sono stati condensati in questa ricorrenza, anche se il centro spettacolare si può dire sia stato occupato dall'epopea del soldato americano, cosl come il simbolo centrale che di lì a poco trionferà a Verdun sembra essere quello del massacro d'Europa e dell'inutile strage. Sarebbe fuor di luogo tentare, col metro del giudizio storico, una valutazione circa la fondatezza dell'interpretazione racchiusa in queste figure simboliche, inevitabilmente semplificatrici, o fare dell'ironia sulla dose di superficialità presente nell'opera dei mezzi di comunicazione di massa, costretti ad inseguire l'effimero della cronaca. Fuor di luogo, sia perché le due rievocazioni hanno dato vita a manifestazioni abbastanza complesse e sono state accompagnate, soprattutto quella dello sbarco in N ormandia, da un utile corredo di commenti e di interventi divulgativi a più alto livello, dei quali occorrerebbe tener conto; sia perché è forse più importante ai fini del nostro discorso poter constatare in questo preciso momento come il ricordo di quelle celebrazioni sia già, a distanza di pochi mesi, inesorabilmente sbiadito (in quanto episodi di cronaca quei fatti sono stati sicuramente dimenticati dalla stragrande maggioranza della gente), mentre non è altrettanto scontata l'inefficacia delle immagini e degli stereotipi prodotti o rievocati nell'occasione. Il peso della divulgazione non si può facilmente quantificare e il suo sedimento può essere limitato a un nome (Verdun ), a una data ( 1944), a una figura retorica o a un paesaggio-simbolo (i... «marines», il cimitero di guerra). Né sarebbe corretto considerare un singolo episodio, anche se in esso coesistono messaggi diffusi da strumenti di comunicazione dotati di una differente potenza e articolazione di linguaggio (il discorso ufficiale e la cerimonia di Stato, la pellicola cinematografica, l'articolo di giornale, la trasmissione radiotelevisiva).


122

ANDREA FAVA

In questo genere di divulgazione agisce un meccanismo di accumulo di immagini ripetitive, di ripresa e di variazioni di una stessa idea centraJe, di utilizzazione di molteplici linguaggi e canali di diffusione. C'è per fortuna una pluralità di centri di irradiazione e una pluralità di esiti. Così un richiamo polìtico a.i vaJori morali della guerra di liberazione può essere affidato col gusto della discrezione a una canzone di successo, come quella di Francesco De Gregori che si conclude con il verso «Viva l'Italia, l'Italia che resiste», mentre un concetto denso di significato storico e di valenze ideologiche come quello del «partigiano» può fare capolìno, senza troppi scrupoli, da.i versi di un'altra canzonetta, orecchiabile e cantatissima l'anno scorso, che per rivendicare il diritto di un presunto italiano medio a convivere senza rimorsi con le virtù e i difetti della propria identità nazionaJe utilizza con disinvoltura il volto familiare e la «figura paterna» del presidente della Repubblica («Buongiorno ItaJia gli spaghetti aJ dente / e un partigiano come Presidente, / l'autoradio sempre nella mano destra / e un canarino sopra la finestra. / Buongiorno Italia con i tuoi artisti / con troppa America sui manifesti / con le canzoni, con amore, con il cuore, / con più donne sempre meno suore / ... / Lasciatemi cantare / perché ne sono fiero / sono un italiano / un italiano vero»). Superficialità canzonettistica, ma induJgendo aJ paradosso e mettendo nel conto l'importanza della musica leggera per il mondo giovanile, non si può escludere che prima di affrontare a scuola la storia della Resistenza in qualcuno degli studenti l'immagine dei partigiani sia già filtrata anche attraverso la mediazione di un simile veicolo un po' irrilevante. I tre esempi, del resto, sono stati presi a caso, cercando un riferimento ad avvenimenti militari della storia contemporanea (le due guerre mondiali e la resistenza) pertinenti aJ tema del Convegno, ma con un criterio selettivo volutamente labile, capovolto a favore della volgarità di ciò che capita banaJmente sotto mano ogni giorno invece che attento alla raffinatezza e aJla densità cuJturaJe del messaggio. Ciò che interessava dire è che, in una società percorsa intensamente da.i numerosi veicoli della comunicazione di massa e bersagliata da.i muJtimedia, a nulla giova chiudere gli occhi sull'opera da essi svolta anche nel campo della informazione, volgarizzazione storica, con la sedimentazione di conoscenze diffuse che è difficile valutare nella loro cLimensione e frammentarietà, ma che è vano esorcizzare irridendo ai meccanismi di standardizzazione dei messaggi formali e di semplificazione dei contenuti che le hanno prodotte.


L'ET À CONTEM PORANEA: STORJOGRAFIA, DNULGAZIONE, MEMORJA COLLETI1VA

123

Apparentemente nessuno più crede all'affermazione che la storia sia maestra di vita. Eppure è indubbio che proprio per la capacità di suggestione che si sprigiona dalla coscienza del passato esistono in ogni società forze e poteri impegnati a propagandare certe immagini o a promuovere determinate interpretazioni del passato. Ciò è tanto più vero per la storia contemporanea e per la realtà sociale di oggi: sia perché il sentimento medio degli avvenimenti storici più recenti può pesare con maggiore immediatezza nella determinazione degli orientamenti ideali e dei comportamenti pratici, può influenzare con più forza il senso di identità e le scelte; sia perché la maggiore complessità delle società contemporanee comporta anche una moltiplicazione delle istanze (politico-ideologiche, istituzionali, economiche) interessate a elaborare e diffondere una propria lettura o una propria forma di ignoranza del passato. Tale interesse, anche se risponde a motivazioni più o meno rispettabili ed anche se presenta modalità di esercizio sempre più «divulgative>>, è comunque legittimo: è necessario sapere, però, che esso non coincide con le motivazioni «scientifiche» proprie dell'indagine storiografica, in base alle quali lo storico seleziona dal presente gli interrogativi senza indulgere al suggerimento dei poteri e lanciando gli scandagli nel tempo di ieri non si propone il fine di costruirne una falsa coscienza. Non coincidono, ovviamen.te, neppure i prodotti finali delle due operazioni, né sul piano dei contenuti né su quello degli indici di ascolto. Divulgazione e storiografia, per altro, non esauriscono la coscienza del passato, perché nella realtà sociale convive con esse, sotterraneamente e spesso in chiave di latente conflitto, una memoria storica ancora più ricca e varia, che si riproduce e sopravvive sia attraverso le forme di custodia e comunicazione dei ricordi più intime e private (quelle della tradizione familiare e parentale, della trasmissione orale e interpersonale di conoscenze all'interno di gruppi e aree di appartenenza), sia attraverso processi sociali e collettivi di riconoscimento in simboli, abitudini, luoghi e nomi intrisi di un proprio profondo legame con i/atti storici. Di questo tessuto della memoria storica le giovani generazioni entrano a far parte, pur introducendo nello sviluppo della trama ulteriori scarti e specifiche coloriture. Questi tre distinti livelli di conoscenza non sono ovviamente compartimenti stagno e parlarne in termini così ~chematici è giustificabile solo con esigenze di brevità espositiva. E necessario alme-


124

ANDREA FAVA

no, a completamento di quanto si è detto, proclamarsi consapevoli della loro coesistenza: per rendersi conto delle complesse interrelazioni che ne governano i rapporti basta osservare, ad esempio, che anche la divulgazione più spicciola perderebbe qualsiasi credibilità se non avesse come presupposto, anche solo immaginario, l'esistenza della storiografia, cioè l'aggancio ad un procedimento conoscitivo orientato alla ricerca disinteressata della «verità»; gli effetti della clivulgazione, al tempo stesso, condizionano la memoria, essendo quest'ultima un processo mentale, privato o collettivo, che cataloga i fatti secondo una propria gerarchia, adattandone la percezione alle caratteristiche strutturali del soggetto, ma anche subendo l'influenza delle idee dominanti e dei comportamenti diffusi che producono conformismi, censure, moduli di riferimento ai quali anche la memoria è spinta ad adeguarsi. Nell'organizzare la proposta clidattica, non è solo conveniente, ma è forse inclispensabile, ormai, usare con consapevolezza questa pluralità di filoni della conoscenza storica, con la loro specifica ricchezza e sfruttando gli apporti del loro diverso spessore. Dare coraggiosamente più spazio nei programmi scolastici alla storia del Novecento non significa abbandonare il terreno sicuro delle nozioni garantite dal metodo storico per avventurarsi nel campo minato dell'attualità, delle interpretazioni «politicizzate», dei messaggi divulgativi. Non è però del tutto infondato il rischio che l'insegnamento scolastico della storia contemporanea venga percepito come la clifesa cli una cittadella assediata dall'invasione delle informazioni che affluiscono copiosamente nel mercato delle comunicazioni cli massa, nel quale circolano spesso, lo si può riconoscere francamente, conoscenze storiche più sofisticate e più aggiornate, rispetto ai risultati e aJle tendenze della ricerca, di quelle che è possibile trasmettere con le nozioni dei manuali nelle aule scolastiche. Se le risorse materiali e le possibilità di accedere all'aggiornamento cli cui dispone un insegnante sono del resto molto meno potenti di quelle dei mass-media, con le loro troupes di esperti e professionisti dell'informazione-spettacolo, tanto più è necessario reagire alla frustrazione dell'accerchiamento e rifiutare l'idea stessa dell'assedio, sconfiggerne la tentazione e la mentalità, accettando il confronto in campo aperto, se non altro perché è un campo sul quale si gioca una partita importante per la cultura e la formazione degli studenti. Acquisire lealmente il contributo che può venire dagli esempi di alta divulgazione presenti sul «mercato» non contrasta con il convincimento che la nuz}one storiografica non avrebbe motivo di temere


L'ETA CONTEMPORA1'.fEA: STORIOGRAFIA, DIV ULGAZIONE, MEMORIA COLLE111VA

125

il confronto: a patto di apparire davvero per quello che è, e cioè il dato emergente da un vasto serbatoio di conoscenze scientifiche, il punto d'arrivo di una somma di processi interpretativi e di atti di ricerca monografica non intestabili a un solo autore, fosse anche l'autore del miglior manuale di storia che sia mai stato scritto. Dal momento che questo punto d'approdo rappresentato dalle nozioni è per sua natura provvisorio, come tale deve essere correttamente presentato: ma occorre al tempo stesso far toccare con mano l'esistenza del complesso di ricerche dalle quali esso trae la propria validità e comunicare il significato del tutto particolare di quella sua provvisorietà. Per far ciò non basta affidarsi alle «antologie di critica storica». È anzi legittimo il sospetto che il ricorso a un tal genere di confronto fra interpretazioni cristaUizate di uno stesso fatto storico possa risolversi in una caotica sfilata di presunti autori-interpreti della storia, la cui originaria attività di ricerca viene alla fine schiacciata nell'orizzonte piatto e falsamente pluralistico di un rispetto formale delle loro individualistiche «opinioni». La percentuale di «rispetto» dovuto alla provvisorietà delle nozioni e all'opinabilità dei giudizi storici è in realtà molto maggiore di quanto così appaia, perché è misurabile solo con la quantità di lavoro intellettuale, cioè di ulteriore impegno di ricerca, necessario ad accertare altri fatti, a disegnare altri approdi, a elaborare e fondare altri giudizi. Non è detto che a trasmettere questo sentimento della storia come problema e come ricerca ancorati al metodo critico valga più che il confronto meccanico tra auctores di pari grado una artigianale comparazione con la diversa opinabilità di quei giudizi fondati sull'abitudine ad accontentarsi di ciò che «ha detto la televisione». Non si tratta di improvvisarsi sociologi o semiologi esperti nell'analisi dei mass-media, né di star dietro alla cronaca rincorrendo tutti i segnali irradiati da tutte le possibili emittenti, ma di prestare la dovuta attenzione al rapporto fra storia dell'età contemporanea e forme di divulgazione, da un lato, e dall'altro, cioè nella concreta attività didattica, a quella preziosa condizione degli studenti che li qualifica ai nostri occhi come fonte primaria e non passiva degli effetti della comunicazione di massa. Mi sembra che bisognerebbe soprattutto assumere fino al fondo di tutte le sue implicazioni il dato della quotidiana esposizione degli studenti ai messaggi della divulgazione, alta o bassa che sia, e quindi la necessità di consolidarne le capacità di ascolto critico, non limitandosi a favorire la discussione su qualcuno di questi messaggi quando ci siano le condizioni per organizzar-


126

AJ\'.DREA FAVA

ne adeguatamente la lettura e l'analisi: per fare un esempio, non è casuale che «il giornale in classe» sia stato un esperimento tutt'altro che riuscito. Non solo perché gli strumenti della comunicazione di massa sono già abbastanza forti da non avere bisogno che ne sia potenziato l'ascolto con la concessione di ulteriori spazi e tempi all'interno delle aule e degli orari della scuola, ma perché un confronto corretto e produttivo si può impostare solo abbandonando la pretesa di addomesticare o pilotare con mezzi rudimentali l'impatto dei mass-media. La scuola può suggerire e aiutare nella selezione. Iniziative quali la consultazione di un quotidiano, la visita a una mostra, la visione scolastica di un film «storico» ( ... da Ben Hur a Gandhi il colossal cinematografico ha sempre costituito una scelta prediletta!) o di un documentario televisivo, la gita turistico-culturale, rappresentano un'utile variazione della routine e un'opportunità di «letture» in comune e di dibattito. Ma questi momenti di vita studentesca sono inevitabilmente episodici, né risolvono comunque il problema di cui qui si parla, dal momento che esistono, per fortuna, tempi liberi e spazi extra-scolastici nei quali gli studenti rimangono autonomi e indifesi nel loro rapporto con l'universo delle comunicazioni sociali. In quanto porzione di un più vasto «pubblico» essi assorbono, riportandoseli anche all'interno della scuola, porzioni o residui dei messaggi culturali e delle nozioni divulgative dfffusi nei normali circuiti sociali dell'informazione. Voglio dire, insomma, che ha forse maggiore importanza, a scuola, affiancare alla presentazione delle conoscenze storiografiche una più sensibile capacità di ascolto dello studente come fonte di storia, piuttosto che improvvisare un'apertura delle aule all'accesso diretto dei mass-media e allo studio, pur auspicabile e urgente, dei loro specifici linguaggi e delle tecniche che li producono. Fonte di storia, il pubblico degli studenti, perché è in essi contenuto un potenziale repertorio dei luoghi comuni della divulgazione, delle curiosità che essa suscita e delle opinioni che promuove, o degli stereotipi che cristallizza. Ciò che della storia contemporanea le giovani generazioni così apprendono, spesso inconsapevolmente, al di fuori della scuola, non è male che sia fatto riaffiorare, con il dovuto rigore ma con grande rispetto, alla coscienza dei singoli, per diventare nella comunità di lavoro in classe terreno di approfondimento, sul quale cioè sia oggettivamente possibile piantare e far crescere domande circa la validità e la sufficienza di quell'apprendimento, le motivazioni e i


L'ETA CONTEMPORANEA: ST0RJOGRAf1A, DIVULGAZIONE, MEMORIA COLLETIIVA

127

modi di una più solida acquisizione di conoscenze critiche, la necessità sia di una assunzione meno selvaggia e ingenua dei segnali emanati dalle comunicazioni di massa sia di un ricorso alle risorse dello «studio». Dalla lettura critica di una fonte è possibile ricavare un gran numero di notizie, quando se ne imposta bene la consultazione; allo stesso modo è indispensabile condurre in modo corr etto questo particolare tipo di «interrogazione» dello studente, con la piena disponibilità ad un ascolto che non sia condizionato dalla sovrapposizione di giudizi precostituiti in merito alla maggiore o minore importanza e dignità di un genere di nozioni sulle altre. Fonte di storia perché, oltre ai molteplici sedimenti della divulgazione che sono rintracciabili nella varietà del mondo giovanile, gli studenti sono anche, per così dire, uno dei possibili rilevatori statistici dei fatti storici più significativi per la memoria privata, quasi uno strumento per catalogare minutamente le variazioni generazionali dei temi e dei toni dominanti della memoria storica familiare e collettiva. Anche quest'ul6ma caratteristica è da utilizzare con la massima delicatezza, in quanto coinvolge l'intimità deUe tradizioni familiari e delle loro diverse appartenenze politiche, socio-culturali, geografiche; ma soprattutto perché espone su un ulteriore fronte l'intelligenza critica dei giovani: sollecitati al censimento dei ricordi e all'ascolto dei testimoni della storia che fanno parte del loro concreto universo quotidiano, gli studenti diventano davvero il fragile punto di sintesi di una tensione interpretativa, nella quale si scontra una duplice divergenza, un doppio margine di scarto tra nozioni e valutazioni acquisite dalla storiografia e coscienza comune degli avvenimenti della storia, tra giudizi correnti della divulgazione e sentimenti prevalenti della memoria. Far convergere nella prassi didattica questi diversi fattori può sembrare un esercizio complicato, che per di più mette in gioco, fin quasi a svenderla, la Storia. Eppure nella realtà del mondo giovanile quella «tensione interpretativa» esiste comunque, magari camuffata dall'indifferenza o dal nozionismo formale, perché essa corrisponde al naturale scollamento che separa la vita scolastica e i contenuti dello studio dalJe altre esperienze sociali degli studenti e dalla loro personale provenienza da specifici ambiti familiari e culturali. La proposta di aggredire queste zone di autonomia e di occupare le distanze che le dividono potrebbe quindi costituire un atto inqualificabile di totalitarismo pedagogico. Ma, nel caso della storia contemporanea, portare all'evidenza di una esplicita osservazione critica da parte degli studenti gli spazi di non coincidenza tra storiografia, di-


128

ANDR EA FAVA

vulgazione e memoria, ha un altro significato: potrebbe addirittura racchiudere l'ambizione di trasformare quella «terra di nessuno» in una sorprendente riserva di problemi aperti, nella quale si rivelano gli interrogativi della storia, quasi un giardino delle meraviglie neJ quale fioriscono nuove e sorprendenti domande da rivolgere al passato. Più modestamente, è iJ tentativo di far scoccare, dall'attrito che si genera tra i diversi livelli della coscienza storica, la scintilla dell'interesse vivo alJo studio delle «questioni» della storia e di proporre l'ancoraggio al «metodo» che può meglio sorreggere questo impegno a cercare e scavare nel passato della società umana. E ovvio che la seconda guerra mondiale della storiografia non coincida con la seconda guerra mondiale dei mass-media, e che entrambe queste visioni divergano da quelle della memoria privata: eppure non sono del tutto banali le indicazioni che si possono ricavare sottoponendo queste divergenze a un minimo di osservazione. Quando frequentavo il liceo, i programmi di storia si arrestavano, di fatto, ben al di qua della seconda guerra mondiale e di essa mi raggiungevano, quindi, solo le immagini dei films americani proiettati sugli schemi cinematografici e quelle che sopravvivevano nel lessico familiare. Naturalmente le scene della guerra nel Pacifico non combaciavano con quelle evocate dai ricordi africani di mio padre, né i suoi «nemici» inglesi, che pure egli ammirava e dei quali aveva voluto studiare e imparar bene la lingua negli anni di prigionia, sembravano avere nulla in comune con quei giapponesi che svolgevano immancabilmente la parte dei «cattivi» nelle pellicole americane, né con quei «tedeschi» che emergevano come protagonisti sempre un po' inquietanti di altri racconti di casa, o che interpretavano altri ruoli di nemici in altri films. La mescolanza di personaggi internazionali cosl diversi attestava che si era trattato davvero di una guerra mondiale ed era evidente che quegli avvenimenti avevano segnato le storie personali di tutti e cambiato la faccia del mondo. Ma insieme a questa elementare deduzione, anche i dati più umili e scarni che si sarebbero potuti desumere dalla divulgazione e dalla memoria contenevano già gli elementi di una problematica storica e potevano rappresentare la premessa di molte domande significative. A titolo puramente dimostrativo, provo a riformularne alcune, nei termini semplici e piani che potrebbero venire in mente a uno sprovveduto liceale. Perché la guerra italiana era quasi del tutto assente da una divulgazione dominata dall'americanismo dei primi decenni post-bellici? A parte il contrasto tra il piacere di andare al cinema e il disagio di percepire qualche reticente imbarazzo nelle pa-


L'ETA CONI'EMPORANE.A: STO RJOGRAFIA, DIVULGAZIOKE, ME.~IORJA COLLETTIVI\

129

role e nei silenzi dei racconti familiari, in quale delle due narrazioni andava collocata la più veritiera rispondenza ai fatti? A quale evento assegnare un posto di maggiore importanza: tra gli episodi militari che avevano influito sulla storia della guerra e de!Je sue conseguenze sul sistema politico mondiale, contava di più la battaglia delle remote isole Midway, che veniva nominata dagli attori del cinema, o quella di Sidi El Barrani che ricordava mio padre? E ancora, anticamera di un più generale interrogativo su cultura e potere: il grado di partecipazione diretta e consapevole ad un «fatto storico», più o meno importante, in quale rapporto si lega con un livello più o meno alto di coscienza della storia? La scuola si disinteressava allora di tali questioni, anche se con questo non si vuol dire che dovesse assumersele per forza o che non avesse altre strade per mettere a disposizione gli strumenti critici più utili per affrontarle. Certo il peso della divulgazione è oggi enormemente aumentato, mentre la memoria percorre probabilmente altre piste e disegna sicuramente altre immagini: entrambe continuano ad essere una risorsa e una sfida che l'insegnamento della storia contemporanea potrebbe utilmente raccogliere per incrementare il proprio indice di ascolto tra le giovani generazioni. 3. Se dei principali fatti militari della storia italiana del Novecento volessimo immaginare una presentazione alla classe e uno studio a scuola coerenti con quanto si è appena detto, non sarebbe superfluo chiedersi innanzi tutto se verso il tema della guerra non ci sia oggi negli studenti un grado di disponibilità molto elevato. Tra i giovani, infatti, le varie forme di «rifiuto del politico» sembrano convivere con una reale attenzione ai problemi della pace e della guerra, ·in un intreccio di comprensibile perplessità e di generosa percezione dell'importanza capitale di un simile argomento. Esso è per altro massicciamente presente nella divulgazione, anche se le diverse modalità di approccio aJle tematiche della guerra, nel cinema come nell'informazione giornalistica, nell'intervento divulgativo suscitato da un anniversario come nel dibattito televisivo, appaiono spesso dominate, nel loro complesso, dall'ingovernabile contraddizione tra una condanna unanime della guerra ed una ineliminabile manipolazione quotidiana della violenza. Per quanto forte possa essere, inoltre, la volontà soggettiva di censurarlo o di riassorbirlo, il ricordo della guerra è una delle strutture portanti della memoria colJettiva. Guerra e popolo costituiscono i due poli di un rapporto profondo e antico, che ha specifiche radici in tutta la storia dell'Europa moderna e del suo differenziarsi in


130

A l\"DREA FAVA

Stati e identità nazionali; tanto più la coscienza dell'uomo contemporaneo avverte istintivamente e conflittualmente il legame che unisce le società del ventesimo secolo alle guerre mondiali e alle sofisticate tecnologie degli armamenti del ventesimo secolo: al di sopra delle distinzioni nazionali, la trincea e il lager, le armi-macchina e la morte atomica, hanno scavalcato i confini di un delimitato contesto bellico e non simboleggiano più solo le modalità atroci di un'esperienza conclusa, ma sono diventati parte costitutiva dell'inconscio collettivo, segnando l'orizzonte psicologico, le inquietudini spirituali, la cultura degli uomini del nostro tempo. Alcune sorprendenti e rivelatrici pagine al riguardo, incentrate sull'archetipo della prima guerra mondiale, sono contenute nel libro di Paul Fussel che è apparso da poche settimane in traduzione italiana (La grande guerra e la memoria moderna, il Mulino, 1984). Non saprei dire se l'intensa speranza pacifista dei movimenti giovanili implichi la contestazione di una storia contemporanea segnata cosl a fondo dalla guerra, come da una secolare corsa agli armamenti e dal dispiegarsi delle politiche di potenza. Di sicuro, però, la storia delle guerre del Novecento può essere ben altro che una successione di battaglie e di scoperte di nuovi ordigni distruttivi: più nettamente che per qualsiasi altra epoca, queste guerre dell'industria e delle masse sono davvero inseparabili da una storia della pace, delle idee e delle attese di pace che hanno attraversato le vicende interne dei conflitti, che hanno perfino imposto una giustificazione, ideale o propagandistica, delle loro origini come contrapposizione morale alle forze della guerra e ne hanno segnato la fine con il proponimento di un radicale «mai più». Seppure in dimensioni ancora minoritarie e in forme solo in parte nuove rispetto agli approcci tradizionali, la storiografia contemporanea ha per ahro riservato, nello studio delle guerre, uno spazio non trascurabile ad alcuni di questi fenomeni, quali le manifestazioni di opposizione politica e di insubordinazione sociale all'interno degli Stati in guerra, la crescita e le crisi di ideali pacifisti e di movimenti sovranazionali o internazionalisti, l'elaborazione e la nascita di strumenti politico-diplomatici di prevenzione della guerra e di promozione della pace (dalla Società delle azioni all'O.N.U.). Il compito degli storici, del resto, è particolarmente complesso, se si vuole attingere ad una visione unitaria e non limitarsi a una lettura «dal basso» o ad una illusoria rivincita storiografica delle opposizioni subalterne. Il problema non è tanto di ricostruire una storia dei combattenti per la pace che sia parallela a quella degli eserci-


L'ETÀ CONIEMPORANEA: STORIOGRAAA, DNULGAZJONE, MEMORJA COLLETilV A

l 31

ti, una storia dei «vinti» contrapposta a una storia delle vittorie, ma piuttosto di rispettare e riscoprire il solido legame con la pace che sopravvive, intima nostalgia o soffocata speranza di una personale identità quotidiana, negli uomini che il potere chiama in massa alla guerra. Un piccolo volume di Francesco Malgeri (La Chiesa italiana e la guerra, Studium, 1980) coglie bene l'impossibilità di procedere a separazioni troppo schematiche o a conclusioni unilaterali, nell'analisi delle risposte di adattamento o di ribellione degli uomini comuni posti di fronte alla necessità di difendere la propria dignità, il senso della propria esistenza e delle proprie capacità di intelligenza dei fatti, in quell'eccezionale momento di attrito tra la vita quotidiana e il potere rappresentato dalla violenza della guerra. Il lavoro di Malgeri sottolinea l'importanza dell'intervento italiano nella seconda guerra mondiale e dei mesi iniziali della guerra fascista come momento periodizzante per segnare l'avvio di un irreversibile distacco delle gerarchie, del clero e del mondo cattolico dal regime. Al di là di questo particolare angolo di osservazione, l'autore utilizza una documentazione ricca di testimonianze sulle reazioni del popolo e dei più umili, con le loro culture, le loro superstizioni e le loro fedi, di fronte alle esperienze degli anni di guerra, affiancandosi così ad altri studi e ad altre testimonianze che dimostrano il crollo a cui vanno incontro, nella vita degli italiani sotto le armi, i miti guerrieri della propaganda e delle aspirazioni espansionistiche del fascismo. Luogo la stessa linea di ricerca della misura di umanità che permane dentro la storia degli eserciti e delle popolazioni in guerra, si possono inoltre ricordare, come letture utilizzabili anche dal punto di vista didattico, la vecchia antologia di Bianca Ceva (5 anni di storia italiana, Edizioni di Comunità), apparsa nel 1964, e i volumi pubblicati nelle edizioni Einaudi che raccolgono, con una diversa tipologia dei protagonisti e delle fonti, le ricerche di Nuto Revelli. Non è questa la sede, però, per proporre un lungo bilancio bibliografico (l'indicazione di alcune rassegne di studi e di qualche libro sulle due guerre mondiali e la resistenza è già nell'elenco, di valore meramente introduttivo, che è stato allegato allo schema della relazione e che qui si riproduce in appendice al testo). Riterrei senz'altro più utile tornare invece a considerare alcuni aspetti della divulgazione, arrischiando una valutazione d'insieme su qualcuna delle sue tendenze più macroscopiche, senza la pretesa di esprimere giudizi conclusivi ma con il solo scopo pratico di sperimentare l'effettiva percorribilità di un itinerario, che gli insegnanti potrebbero


132

ANDREA FAVA

esplorare nel tentativo di mettere in piedi un'eventuale ricerca in classe impostata sul confronto tra storiografia, divulgazione e memoria. Lo spunto può essere tratto da quanto si è appena detto a proposito della seconda guerra mondiale. A dispetto del notevole interesse storiografico degli anni 1940-43 come punto di svolta della coscienza nazionale e dei suoi valori, e a confronto di un patrimonio già buono di conoscenze e di studi al riguardo, non è forse improprio parlare, per quanto si riferisce invece al livello divulgativo, di una sorta di «penalizzazione» deJJa guerra italiana. Ciò mi pare verificabile su due piani diversi, che corrispondono a due distinti periodi, con un uniziaJe accantonamento e un successivo recupero, in termini però riduttivi o retorici, di quegli anni. Ricorrendo a una sintetica metafora si potrebbe affermare che in un primo tempo, diciamo dal 1950 in poi, le immagini degli alpini e deifanti sono state sopraffatte da quelle dei marines, dei partigiani e delle 55: è una fase che coincide, come già affermato, con le vicende e con gli assetti politico-ideologici dei primi due decenni dell'Italia repubblicana, e può già far parte di una storia del costume oltre che di una storia della storiografia italiana. La prevalenza, nella divulgazione, di una guerra made in USA e il tentativo di costituire e difendere una identità resistenziale meritano di essere menzionati, sia pure con un fugace accenno retrospettivo e col beneficio di più pertinenti verifiche, proprio perché confermano il nesso non superficiale della «divulgazione» con le svolte della storia e con più complessi climi culturali: le Midway e le battaglie del Pacifico erano state davvero importanti nella guerra e nei suoi esiti (almeno quanto la presenza diretta delle armate alleate nella penisola), cosl come la diffusione di modelli americani, nel dopoguerra, non rappresentava una moda passeggera; la resistenza contro l'occupazione nazifascista e la guerra di liberazione, d'altra parte, erano state il banco di prova per la rinascita delle correnti culturali e politiche della storia italiana che avevano dato vita al patto costituzionale e alla ricostruzione, e di queste forze politiche la riflessione storiografica indagava e legittimava, in quegli stessi anni postbellici, le più antiche radici nella società italiana, attraverso numerose ricerche sulle origini, il ruolo e la storia interna dei partiti nell'Italia post-unitaria. C'era comunque una forzatura in quelle giustificabili prevalenze e contrapposizioni tematiche, una percentuale di propaganda e di mitologia, con una parziale sovrapposizione alla società civile che non appare annullata neppure nella seconda fase, quella a noi più


L'ETA CO;-m;J.lPORM'EA: STORIOGRAFlA. DIV ULGAZIOl\'E, ME MORIA COLLèTnvA

133

prossima e per il nostro discorso più clirettamente coinvolgente. In questo secondo periodo le informazioni e le immagini di storia italiana relative agli anni 1940-43 sono entrate con maggiore abbondanza nel circuito della divulgazione e si sono progressivamente saldate con quelle del biennio 1943-45 in una composizione più unitaria e in una più corretta rispondenza cronologica con l'intero ciclo di avvenimenti della seconda guerra moncliale. Mi sembra che sia però altrettanto deformante, o almeno non del tutto convincente, il tono complessivo che ha caratterizzato fino ad oggi questo pur signjficativo recupero cli una 9uantità di notizie e cli segni prima in qualche misura «censurati». E come se la progressi va riunificazione della «guerra italiana» alla Resistenza e alla «lotta di liberazione nazionale» abbia imposto il passaggio da un registro epico a un più patetico leitmotiv, dominato dal ricorso ai sentimenti del dolore e punteggiato da episodi che sono in prevalenza esempi di un eroismo catastrofico. La presenza di una forte componente retorica in questa rievocazione del passato si manifesta attraverso la tendenza a presentare i soldati e le popolazioni d'Italia travolti dalla guerra come vittime dolenti di colpe e decisioni altrui, soggetti passivi e ignari che riemergono alla storia, e ad una personale identità, solo nel momento in cui possono riscattare nel sacrificio cli sé l'umiliazione della sconfitta fascista: come se solo attraverso una trasposizione deglj avvenimenti militari all'interno del meccanismo rituale della morte e resurrezione dei valori nazionali possa celebrarsi il ricongiungimento tra la Resistenza e la partecipazione dell'Italia fascista alla seconda guerra mondiale. Sarebbe molto interessante verificare attraverso un'indagine condotta tra gli studenti dell'ultimo anno delle superiori, magari con l'ausilio cli un buon questionario immune da surrettizi suggerimenti, quali episodi e figure essi conoscono della storia militare italiana del 1940-54, prima che abbiano stucliato sui manuali la seconda guerra mondiale e affidandosi quindi alle esclusive risorse della clivulgazione (televisione, cinematografo, stampa, eclitoria). Il catalogo di luoghi e nomi che, senza pensarci sù, a me verrebbe d'improvviso alla mente - come in un flash e con l'immediatezza di una serie non coorclinata cli istantanee fotografiche - è pervaso cli immagini tanto più patetiche quanto più residuali, separate cioè da una trama e da una successione critico-narrativa: i paesaggi lontani e ostili cli una guerra che ha come primi nemici la natura e la geografia (le sabbie del deserto africano, i congelati nella neve della ritirata di Russia, ilfango nel quale affonda, in una fotografia-emblema delle


134

ANDREA FAVA

campagne di guerra nei Balcani, un mulo carico di salmerie); i nomi delle stragi (Marzabotto e le Fosse Ardeatine, ma con un marchio analogo di devastazione e di barbarie anche Monte Cassino); le parole chiave di un forzato coinvolgimento degli innocenti e di un Calvario delle popolazioni civili (i bombardamenti, innanzi tutto, e il coprifuoco, la tessera del pane e le code per i rifornimenti alimentari, il rastrellamento nelle città e nei villaggi di montagna); i tanti particolari che disegnano un quadro di sconsolante, patetica per l'appunto, inadeguateZZJ delle armi (i carri armati troppo fragili, gli aerei che non bastano, le bande partigiane che rimangono in montagna con i pantaloncini corti per organizzare la loro impari lotta contro i tedeschi, il nuovo, ma piccolo, esercito regolare italiano che risale la penisola appoggiandosi alle potenti truppe anglo-americane). I momenti dell'eroismo sono spesso una corsa alla catastrofe, la scoperta, e la negazione, di un'unica via d'uscita nella disponibilità al sacrificio supremo (dal coraggio degli «affondatori» della marina all'eccidio di Cefalonia, dal martirio volontario di Salvo D'Acquisto alla resistenza simbolica di Porta S. Paolo). Anche i momenti vittoriosi restano così irrisolti e interlocutori, densi di sentimento più che di una limpida efficacia storica: l'esplosione di gioia popolare del 25 luglio abbatte i simboli del fascismo ma non arriva a sciogliere il nodo della guerra; l'orgoglio di una riconquistata forza militare, nella Resistenza, si manifesta con la commovente sfilata dei partigiani nelle città liberate, ma lascia aperti molti interrogativi sugli esiti politici e sulla costruzione di uno Stato nuovo (se non altro perché il 25 aprile, nella divulgazione, pesa più del 2 giugno, e questa differenza lascia sempre il dubbio che manchi un vero finale e che la Repubblica e la Costituzione non riescano a tradurre compiutamente il valore morale della Liberazione). Un catalogo degli stereotipi compilato registrando le segnalazioni di tutta una classe di venti o trenta diciottenni conterrebbe probabilmente numerose altre indicazioni e sarebbe di sicuro ben più ricco e stimolante di questo sbrigativo elenco di luoghi tipici da me proposto, che ognuno di noi, adesso, sarebbe tentato a buon diritto di integrare e correggere, e perfino rigettare in blocco come irriverente, ma nel quale credo si rifletta senza eccessive alterazioni l'accentuazione retorico-emotiva che continua ad avere largo spazio nella div ulgazione. Ammettendo comunque, come semplice ipotesi operativa, che le parole segnate in corsivo, oppure i loro potenziali sinonimi, corrispondano ad alcuni dei più importanti concetti-chiave che oggi,


L'ETA CONTÉMPORANEA: STORlOCRAFIA, DIVULGAZIONE, Mfu\lORlA COLLETTIVA

135

attraverso la divulgazione, si sedimentano nel senso comune e costituiscono il retroterra o l'implicito filo interpretativo lungo il quale si dipana il giudizio corrente sugli avvenimenti della storia italiana del 1940-45: ci sarebbe già di che discutere, materia sufficiente per riempire un buon numero di lezioni in classe. Innanzi tutto la stessa retorica del dolore meriterebbe un po' di attenzione e qualche battuta di commento: essa esprime e rispetta, forse, un sentimento profondo della gente, che identifica istintivamente nella guerra il luogo delle atrocità e della sofferenza collettiva, ma essa riduce anche a una statica dimensione rituale la concreta esperienza storica del sacrificio e della sconfitta, del riscatto e della liberazione. La sacralità celebrativa che ne consegue rischia oggi di apparire del tutto inappagaote e stantìa, sovrapponendosi a una nuova convinzione, ormai radicata e diffusa, in base alla quale le immagini di violenza traboccanti dall'attualità (che ci parla ancora e sempre di aggressioni militari e di stragi, di scene di guerra di fronte alle quali ci si sente più vittime che responsabili) non hanno più molto da individuare a quelle del passato: una convinzione che non è forse arbitraria, ma che induce, per lo più, a un appiattimento della prospettiva cronologica e favorisce un'attenuazione dell'interesse critico, un riassorbimento del giudizio sul passato all'interno di una generica esecrazione della violenza e della guerra come fenomeni più naturali che storici, generando quasi una saturazione nei confronti di quei lontani anni traumatici della storia nazionale. Mettere in discussione i limiti di questa visione retoricocelebrativa, misurarne il significato e la credibilità consentendo agli studenti l'esplicita manifestazione dei loro dubbi e delle loro riserve in proposito, costituirebbe a mio avviso un buon punto di partenza per sollecitarne la curiosità e stimolarli a cercare le giuste risposte attraverso una motivata operazione critica, da sviluppare sui dati già messi in campo da loro stessi: e cioè procedendo, innanzitutto, alJ'indispensabile sistemazione delle nozioni disperse della divulgazione in una corretta successione cronologica e ricollocando in una trama unitaria quei frammenti impazziti di luoghi, date, nomi, fatti, che costituivano le tessere del nostro immaginario catalogo-puzzle. Dopo questa operazione preliminare, non meno proficuo potrebbe rivelarsi un esercizio di diversa organizzazione delle «tessere», che non si limiti a ricostruire, sotto -la guida dell'insegnante e con l'ausilio dei testi, l'ordine dei fatti e delle date, ma ne tenti una riaggregazione intorno ad alcuni temi, simboli e concetti più generali: il fronte, l'idea del confine e l'identità della Patria, i volti del nemico,


136

ANDREA FAVA

gli uomini e le forme della guerra, l'organizza~;'one militare e la mobilitazione civile, eccetera. I luoghi geografici, ad esempio, la cui stessa natura viene modificata dall'incontro con la storia degli avvenimenti militari, che li trasforma in fronti e teatri operativi, possono essere riclassificati a delineare una cronologia delle battaglie, un profùo geo-politico degli Stati e degli eserciti in guerra, una descrizione delle strategie militari o un breve sommario della politica internazionale: il deserto, la neve e il fango tornano ad essere la Libia e la Grecia, l'Africa orientale e la Russia, regioni storico-geografiche determinate, attraversate da fatti politico-mifaari concreti e descrivibili. Ma in quanto fronti di guerra quei luoghi segnano anche i miti della propaganda fascista (la quarta sponda, la difesa dell'Impero, le reni della Grecia, la crociata ami-bolscevica), qualificano le aspirazioni della politica estera del regime e illustrano la pretesa della «guerra parallela» e la dispersione delle forze nella condotta militare della guerra fascista. Dfronte, d'altra parte, è anche un orizzonte simbolico di divisione, una linea di identità contrapposte, uno dei termini del linguaggio e dell'esperienza militare che più ha segnato il lessico contemporaneo e la memoria storica collettiva: può essere una delle parolechiave da indicare agli studenti per indagarne il significato nella tradizione familiare e nella memoria privata della guerra. È il luogo dove si è mandati a combattere lontano dalla famiglia, dove si è chiamati a difendere o ingrandire la patria, dove è morta una persona cara, è un nuovo elenco di nomi geografici e di battaglie, il ricordo di paesaggi e di località lontane e minori, il riferimento a grandi episodi vissuti o mitizzati (El Alamein o l'Amba Alagi, il Don o la Vojussa), l'avvicinarsi degli alleati o la morsa dell'occupazione tedesca, la strada, la valle, il paese che sono stati teatro di un'azione partigiana. Il fronte, tra realtà e ricordo, tra memoria storica e divulgazione è davvero una miniera di spunti e di occasioni di approfondimento circa la misura di partecipazione, di fede o di paura, di critica della guerra e di percezione della sconfitta, nell'esperienza dei combattimenti e delle popolazioni civili, tanto più se lo si mette in relazione con l'idea del confine e il sentimento della Patria. Nell'archetipo della grande guerra il fronte italiano si identifica automaticamente col confine sacro e con l'idea stessa della nazione, mentre accumula al tempo stesso una inestinguibile carica di contrapposizione ideologica capovolgendosi nell'immagine del «fronte interno» e del «nemico interno», antinazionale, disfattista, antipa-


L'ETA COt\TfEMPORANEA: STORIOGRAFIA, DNULGAZJONE, MEMORIA COUETJlVA

137

triottico. Tutti gli studenti saprebbero indicare alcuni dei «nomi sacri>> del fronte 1915-18 (il Piave, il Grappa, il Carso, Caporetto, Gorizia, la Bainsizza, Vittorio Veneto, ...Trento e Trieste), precisando probabilmente un numero di località più alto, o un elenco dotato comunque di un senso del confine più nitido, che per gli anni di guerra 1940-43. Basta qui segnalare la ricchezza, la valenza euristica si potrebbe proprio dire, implicita in questo scarto, immediatamente verificabile, tra il fronte per antonomasia della prima guerra mondiale e ifronti dispersi della seconda, e tra questi ultimi, illusoria dilatazione dei confini della Patria e del regime, e il progressivo spostamento, definitivo tra il luglio e il settembre del 1943, delfronte all'interno del territorio nazionale. Dopo lo sbarco in Sicilia e la destituzione di Mussolini, il fronte di guerra italiano si muove fisicamente all'interno della penisola (è la «linea del bagnasciuga», l'avanzata delle truppe alleate, Cassino, Roma, la linea gotica, il raggio d'azione di una brigata partigiana), ma nello stesso tempo ridisegna idealmente all'interno delle coscienze l'identità della patria, la percezione dei confini della nazione e la percezione dei confini che delimitano le ragioni dell'agire umano (~omini no) e l'esperienza esistenziale dei singoli. Confine e patria sono porzioni diverse di territorio (il Regno del Sud e la Repubblica Sociale, le singole città, il paese accanto, una valle o il perimetro della repubblica di Montefiorino o di quella dell'Ossola) e frontiere ideali della coscienza (la divisa o la camicia nera, il partito e il comitato di liberazione nazionale, le idee di rinascita e le grandi speranze o le piccole previsioni sulla fine della guerra e sul futuro proprio e dell'Italia): fronte, confine, patria, si dilatano fino a comprendere le notizie delle operazioni su tutti fron ti della guerra mondiale e si restringono fino alle dimensioni interiori della lettura di un giornale clandestino o della lettera di un familiare dalla prigionia, della recita di una preghiera o dell'ascolto privato delle trasmissioni di Radio Londra. Coordinando l'impegno individuale e la disponibilità a un serio lavoro di gruppo, non credo che sia indispensabile un numero spropositato di testi e di letture integrative da parte degli studenti per guidarli a riclassificare intorno a categorie critiche meno stereotipate e più vieve i dati della divulgazione e quelli che si possono fare emergere da un censimento dei ricordi della memoria privata. Procedendo ancora per esempi e per suggestioni, accanto ai luoghi della guerra si possono prendere in considerazione gli uomini e le forme della gue"a. Le prime immagini che incontriamo lungo questa strada riguardano l'identità degli altri popoli, che assumono,


138

ANDREA FAVA

dal momento della mobiJitazione e nella realtà della guerra, la veste dei rispettivi eserciti e incarnano i volti del nemico e dell'alleato. La divulgazione ce li presenta con raffigurazioni concrete ma anche con connotati simbolici (privilegiando la sintesi finale degli alleati liberatori e dei nazisti), mentre la memoria dei testimoni e l'analisi storiografica possono segnalarci, dentro l'esperienza storica vissuta dagli italiani fra il 1939 e il 1945, la presenza di percorsi più vari e più tormentati, che nell'identificazione del «nemico» e nel confronto con lo «straniero» precedono quella sintesi risolutiva o ne restano ostinatamente al di fuori, consegnandoci altre tessere da decifrare e da mettere al loro posto: gli inglesi, le truppe di colore, i soldati russi, i partigiani iugoslavi, i tedeschi; fin dentro le scelte di campo degli anni della Resistenza. Possiamo poi chiederci quale sia l'organizzazione materiale che sorregge la guerra e quali le modificazioni che essa introduce negli apparati istituzionali degli Stati e nelle forme della convivenza. Si può insomma cominciare ad osservare come dentro un universo di guerra la vita degli uomini, militari e civili, assuma forme nuove, che proiettano la realtà quotidiana in una dimensione di eccezionalità e di sradicamento e rivelano, accanto agli irresistibili processi di massificazione innescati dalla mobilitazione bellica moderna e accanto alla generalizzazione di esperienze al tempo stesso comuni e straordinarie, una pluralità di condizioni e di risposte, cui viene sottratta gran parte deUa loro concreta caratterizzazione storica se ci si limita a incorporarle in uno schema interpretativo costruito intorno ai due poli delle «vittime» e degli «eroi-martiri». La storiografia è ben lungi dall'aver esaurito la propria indagine al riguardo, mentre la stessa memoria appare influenzata, su questo delicatissimo terreno del rapporto soggettivo con le forme della guerra, da meccanismi molto forti di rimozione e di razionalizzazione a posteriori, che rendono meno affidabile il ricorso alle testimonianze. Eppure le immagini degli uomini che agiscono sui campi di battaglia e nelle città bombardate corrispondono a una specifica modalità storica degli strumenti e dell'organizzazione della guerra. Non è quindi superfluo compiere un tentativo per condurre gli studenti a rendersi conto di ciò, segnalando, a solo fine orientativo e con l'eventuale supporto di qualche lettura, la necessità di conoscere tali forme organizzative, o almeno la possibilità di ricostruire una loro sommaria articolazione: la coscrizione e la mobilitazione civile, l'organizzazione dell'esercito e quella del fronte interno, le armi e la militarizzazione delle attività produttive, gli approvvigionamenti e la


L'ETÀ CONTEMPORANEA: STORlOGRAAA, DIVULGAZIONE, MEMORIA COLLETITVA

139

regolamentazione dei consumi, la propaganda, gli apparati informativi e di vigilanza-repressione. È sullo sfondo storico di queste strutture, e delle motivazioni politico-ideali che le animano e le giustificano, che si misurano le reazioni ai laceranti sviluppi degli avvenimenti bellici. Naturalmente le nuove condizioni di vita che gli apparati di guerra determinano rispetto alle forme di convivenza del tempo di pace assumono in Italia connotati particolari, dal momento che essi si innestano sulle istituzioni totalitarie dello Stato fascista e su una organizzazione del potere di tipo dittatoriale. Una cesura non solo cronologica si manifesta dunque con la crisi del sistema politico autoritario, delle sue alleanze sociali e della sua base di consenso, con la divisione del territorio nazionale, con la costituzione delle formazioni militari partigiane e di un nuovo esercito, con lo sviluppo della lotta armata di liberazione e delle strutture politiche della Resistenza: una realtà che, nel corso stesso del conflitto, fa cambiare volto alle forme della guerra. Una visione «vittimistica» della guerra fascista e una «mitizzazione» retorica della Resistenza rischiano di offuscare la profondità di tale cesura e di attenuare la complessità del giudizio storiografico sul ruolo non parentetico del fascismo nella storia della società italiana, da una parte, e sul significato della Resistenza e della Liberazione, dall'altra. È un rischio dal quale non sono immuni alcune recenti tendenze «revisionistiche», dominate dalla preoccupazione di approfondire l'analisi del ventennio e di valutare con maggiore realismo i limiti e l'effettiva estensione della vicenda resistenziale. A confronto della durata del fascismo, della sua capacità di radicarsi e incidere nella società italiana, la sconfitta storica e difinitiva alla quale il regime va incontro negli anni della guerra apparirebbe quasi un incidente, il risultato di una variabile indipendente, cioè di un fatale errore di calcolo che avrebbe messo a repentaglio, con la decisione dell'intervento a fianco di Hitler e con una irresponsabile condotta militare della guerra, la solidità del consenso conquistato in venti anni di governo totalitario. Per quanto riguarda poi il giudizio sulla portata e sugli esiti della guerra di liberazione, il mito della «R esistenza tradita» sembrerebbe estinguersi in una spietata rivisitazione critica dei programmi di ricostruzione e delle capacità di direzione politica dei partiti antifascisti, in un ridimensionamento, tutto sommato, della partecipazione popolare alla lotta e agli ideali della Resistenza o almeno della caratteristica di <<frattura storica» che quegli anni hanno rappresentato nella storia dell'Italia contemporanea.


140

ANDREA FAVA

In realtà, constatare come la caduta del fascismo giunga a maturazione solo attraverso la sconfitta militare, invece che per una eclatante «rivoluzione di popolo», non può automaticamente significare l'attestazione di un alto livello di «consenso» acquisito dal regime, né basta ad affermare che i fattori di crisi vadano individuati in un ciclo di eventi «esterni» alla logica del regime (l'ineluttabile superiorità delle armate nemiche e la china catastrofica degli avvenimenti bellici). Questo dato conferma piuttosto l'importanza di uno studio ben più approfondito del periodo 1939-43. Il peso decisivo avuto dalla guerra sia nel processo di disarticolazione delle forze che si aggrega vano nel blocco di potere fascista, sia nel determinare la misura e i modi del distacco dal regime dei ceti che erano stati con esso solidali e di quelli che lo avevano sublto o ne erano stati assorbiti, induce ad accentuare il rilievo storiografico degli anni di guerra, utili, forse più di quanto non si sia finora pensato, ad una migliore conoscenza della natura storica del fascismo, e indispensabili per una adeguata ricostruzione dei livelli a cui giunsero lo sgretolamento e la dispersione delle risorse, delle coscienze, degli ideali comuni a cui potesse fare riferimento lo «spirito pubblico»: per una più limpida e chiara percezione, cioè, del punto dal quale la gente dovette ripartire tra il 1943 e il 1954. Non si può dire che manchino a tale riguardo ricerche di buon livello e lavori di sintesi, cui ricorrere per comunicare agli studenti l'importanza storiografica, oltre che etico-politica, di questa svolta della storia nazionale. Ma credo che gioverebbe assai, per verificare la fondatezza dei recenti orientamenti interpretativi, un ripensamento della storia fondato sulla ricerca di materiali che possano metterci in sintonia con l'esperienza vissuta dalla gente comune, con la lunghezza d'onda dei valori e dei bisogni della vita quotidiana in tempo di guerra. La problematica a cui si è fatto appena riferimento (gli interrogativi sul «consenso» al fascismo, il ruolo della guerra nelle modalità della crisi del regime e della caduta di Mussolini, la speranza di nuovi ideali e la partecipazione popolare alla Resistenza, gli esiti politici della lotta di liberazione nazionale) può riflettersi in una serie di domande commisurate all'universo della memoria privata: la scissione del nucleo familiare e la separazione dagli affetti, l'esperienza della coscrizione e del combattimento, il cibo e la casa, la devozione o l'estraneità al Re e al Duce, i momenti della paura, la fede religiosa o il bisogno di un rifugio nelle credenze e nelle superstizioni, la prigionia, la sensazione dell'impotenza di fronte alle distruzioni e all'ingiustizia e la necessità di ritornare a gesti costruttivi e liberatori.


L'ETÀ CONTEMPORANEA ST0RJOGRAF1A, DNULGAZJONE, MEMORIA COLLETT1VA

141

Un'attenzione alla guerra degli umili può aiutare a valutarne l'estraneità all'ideologia fascista, la loro marginalità rispetto alle strutture politiche e agli apparati propagandistici del regime. Occorre certo misurare meglio l'adesione passiva o volontaria dei diversi ceti e classi ai doveri e agli obiettivi della guerra, ritrovare nelle risposte degli uomini a quegli specifici avvenimenti bellici il valore della ricerca di motivazioni etiche accanto alla costrizione dei comportamenti obbligati, restituire l'impronta di un quotidiano «eroismo», militare e civile, ai piccoli e grandi gesti compiuti con la volontà, o nell'illusione, di contribuire costruttivamente alle vicende della storia e non con la disperata intenzione di officiare un sacrificio catartico-catastrofico. I traumi della guerra hanno una loro intima coerenza con la politica, l'ideologia e la propaganda del regime fascista, ma resta da indagare in che modo e fino a che punto la percezione di tale coerenza rappresenti un dato uniforme e con quale linearità o tortuosità si traduca politicamente in comportamenti collettivi che approdano a scelte «resistenziali» e antifasciste. Accanto aila pluralità delle esperienze di guerra e delle risposte che esse determinano sul terreno del «fascismo-antifascismo», è necessario interrogarsi anche sulla varietà delle reazioni nei confronti della guerra di liberazione e della lotta partigiana. È tutt'altro che convincente, in merito a quest'ultimo punto, la simbologia prevalente nella divulgazione spicciola, che tende a far riemergere rassicuranti canoni interpretativi di tipo «risorgimentale»: la sollevazione contro l'occupazione nazista equivale troppo spesso a una riscoperta nei tedeschi del prototipo nazionale del «nemico» storico; la liberazione delle città attraverso gli ordini di insurrezione generale e l'intervento delle brigate partigiane appare quasi una riedizione delle «città liberate e redente» del novembre 1918, metafora della Vittoria attraverso il mito nazionale della Grande guerra; l'esaltazione di un esito politico.unitario nella Repubblica e nella Costituzione democratica presuppone un'immagine unidimensionale della Resistenza come secondo Risorgimento, guerra patriottica di popolo per la rinascita dell'indipendenza nazionale; viene il dubbio che perfino la contrapposta permanenza di un'ipotesi circa la Resistenza tradita o incompleta possa essere sopportata come inoffensiva variante capovolta della «vittoria mutilata». I dubbi e i miti della storiografia e le cristallizzazioni divulgative lasciano aperti ampi margini di verifica e ripropongono l'importanza degli scarti tra il «vissuto» della memoria e il «codificato» dell'ideologia. L'ottimismo di una visione nazional-unitaria si scontra


142

ANDREA FAVA

con le djverse esperienze che le «due Italie» devono affrontare tra jl 194 3 e il 194 5 e sollecita un ascolto dei ricordi e dei racconti de/ popolo del Sud; ma anche i ricordi che nelle popolazioni contadine dell'Italia centro-settentrionale sopravvivono sulla guerra partigiana in montagna e in pianura non collimano sempre col cliché di una nuova alleanza storica tra combattenti per la libertà e masse rurali, variante oleografica o ideologicamente radicalizzata della «guerra di popolo»; le «città liberate» del 25 aprile, infine, non esauriscono la molteplicità dei processi dj liberazione delle tante città e aree geogrefiche de/ paese, sottoposte al regime d'occupazione militare nazifascista, al moltiplicarsi delle rappresaglie e delle esecuzioni sommarie, alla minaccia e alla realtà della deportazione, alla snervante attesa degli alleati. La memoria degli innumerevoli fattj che in quegli anni imposero, nei moru più vari, alla coscienza di intere popolazioru l'obbligo elementare e quotidiano di prendere posizione, liberata dalle mitologie e dalle censure, travalicherebbe sia i canoni di una tradizione risorgimentale sia le semplificazioru di una Resistenza «rossa», arricchendo di problemi e di dati il patrimonio già acquisito di solidissime conoscenze sul regime d'occupazione nell'Alta Italia, sulle strutture militari partigiane e su quelle della resistenza urbana, sulla riorganizzazione della classe operaia, sull'azione politica e la storia dei CLN. 4. Alcune brevi osservazioni sugli strumenti e le forme della divulgazione possono concludere il nostro discorso. Anche i docenti sono termina/i di ascolto della comunicazione di massa, ma la loro ricezione dei messaggi ruvulgativi segue criteri dj selezione e di valutazione sicuramente ruversi, o perfino antitetici e polemici, rispetto a quelli degli studenti. Non è quindi facile essere disponibili a prendere per buona l'acculturazione extrascolastica dei giovani, non si accetta di mettere momentaneamente da parte le proprie preferenze e dj spostare su un terreno più generale l'esercizio dei propri compiti di formazione e di orientamento critico. Se la ruvulgazione è essa stessa un segno della società contemporanea e se è in buona parte caratterizzata da una complessa moltiplicazione dei segnali e dei canali di distruzione e insieme da procedimenti di riduzione dei contenuti a formule, immagini frammentarie, slogans e miti, il rapporto che l'insegnante può didatticamente instaurare con essa attraverso i propri allievi deve prendere le mosse, più che da una sofisticata analisi dei segru e da un'attrezzatura teorica capace di decodificarli, da un minimo indispensabile di consapevolezza critica circa i soggetti, gli strumenti e le forme che governano la produzjone e la


L'ETÀ CONI'E.'vlPOR/\NEA: STORIOGR.AFlA, DIVULGAZIONE, MEMORIA COLLETTIVA

143

diffusione di quei messaggi al tempo stesso culturali e propagandistici, di evasione e pubblicitari. Per quanto riguarda la coscienza della storia e la memoria storica collettiva, possiamo innanzi tutto individuare nello Stato e nelle sue istituzioni uno dei protagonisti di divulgazione più potenti e attivi sulla scena del mondo moderna e contemporaneo. Anche a voler tralasciare le numerose manifestazioni pubbliche di una nuova ritualità civile che, a partire almeno dalla rivoluzione francese, hanno utilizzato le date e gli eventi della storia ai fini di una iniziazione politica e di una nazionalizzazione delle masse nelle società europee del XIX e XX secolo, basti considerare in proposito il ruolo delle celebrazioni ufficiali e degli anniversari della storia nazionale nel calendario delle festività civili degli Stati. Anche il calendario scolastico è, da questo punto di vista, un esempio di divulgazione, un veicolo di selezione-interpretazione dei fatti storici: quanti studenti conoscono più la data, o addirittura l'esistenza, del concordato del 1929 tra la S. Sede e il fascismo, da quando 1'11 febbraio, anniversario della Conc1Jiazione, non è più giorno di vacanza ma un comunissimo giorno di scuola? Lungi da me l'intenzione di riproporre una simile festività, né quanto sopra detto sul valore periodizzante dell'intervento italiano nella seconda guerra mondiale potrebbe indurre nessuno a inserire in calendario una festa del 1O giugno. Eppure l'importanza della data d'inizio della guerra fascista sul piano strettamente storiografico non è detto che sia inferiore a quella del 4 novembre o del 25 aprile o del 2 giugno. Il calendario scolastico e le celebrazioni di Stato per la Vittoria, la Liberazione e ]a Repubblica, sono niente più che un esempio del genere di attenzione che occorre attivare per avvertire la presenza di tipologie e mediazioni diverse della divulgazione anche nelle forme più abituali e scontate della convivenza quotidiana: una storia delle celebrazioni del 2 5 aprile e una ricerca sulle diverse modalità della rievocazione del 1O giugno (o del 25 luglio o dell'8 settembre) sui giornali, alla radio e alla televisione o nei convegni di studio, in questi quaranta anni dell'Italia repubblicana, potrebbero dirci molte cose sulla coscienza comune e la mentalità collettiva nei confronti della storia della seconda guerra mondiale. Per non correre il rischio di essere fraintesi, si può accennare al non minore interesse storiografico che avr,ebbe, ad esempio, una ricostruzione dei riti del XX Settembre nella società e nell'opinione pubblica italiana dall'Unità al fascismo; oppure ricordare che durante il ventennio ebbe una certa fortuna la pubblicazione, ad uso degli insegnanti, di volumetti


144

ANDREA FAVA

di E.ffemeridi che servissero da guida-prontuario per le inflazionatissime celebrazioni in classe di ricorrenze e festività civili-religiosepatriottiche, introdotte nel calendario scolastico col fine dichiarato di esaltare come pietre miliari della Storia le realizzazioni e i trionfi del regime fascista: pubblicazioni che sono oggi una fonte di qualche utilità per una storia della scuola, o almeno dell'acculturazione patriottica, nell'Italia fra le due guerre. Non ci si può certo ingenuamente meravigliare per il fatto che le istituzioni pubbliche abbiano avuto ed abbiano con la storia contemporanea un rapporto non neutrale, né sul piano culturalepedagogico né su quello etico-politico: il tipo di lettura dei fatti storici che esse hanno in un recente passato favorito, o che ancora oggi, pur con contenuti e in contesti radicalmente diversi, ci propongono, non può essere però sottovalutato, proprio perché contribuisce a costruire intorno alla vita quotidiana della gente, in maniera tanto diffusa da risultare quasi invisibile, un orizzonte di punti di riferimento storiografici che assumono invece le sembianze di un paesaggio naturale. Nel territorio e negli spazi urbani che ogni giorno percorriamo, la toponomastica, le lapidi, i monumenti «civili» stanno n a dimostrarci come questa memoria storica ufficiale tenda a incarnarsi, o pietrificarsi, in una vera e propria memoria materiale, in un universo fisico di segni e di figure tanto familiare da apparire inesistente a cui solo la nostra distrazione presume di sottrarre qualsiasi capacità di comunicare significati ed emozioni condizionanti. Una interessantissima indagine sui monumenti ai caduti della grande guerra in Francia, pubblicata a Parigi nel 1977 da Antoine Prost alJ'interno di un più ampio studio sul «combattentismo» (Les anciens combattanls et la société franraise 1914-19 3 9, voi. 3°), dimostra invece la densità di significati racchiusa in tal genere di messaggi, così come nei riti civili e nelle iconografie pubbliche. In Italia solo da poco tempo, dopo alcune suggestive proposte di Mario Isnenghi, sono state avviate ricerche analoghe sui monumenti di guerra, ma non pare, a una primissima ricognizione, di poter riscontrare una ricchezza tipologica paragonabile a quella descritta da Prost, che cataloga, illustra e riproduce una serie di materiali sui monumenti ai caduti nei vari Comuni francesi, caratterizzati da un ventaglio di posizioni ideologiche abbastanza diversificate, dal nazionalismo al patriottismo, alla pietà religiosa, al pacifismo e all'antimilitarismo. L'ultima fotografia della raccolta presentata da Prost raffigura una stele con l'elenco dei caduti del Comune di Gentioux, affiancata dalla statua di un orfanello di guerra che tenendo sollevato il pugno


L'ETÀ CO:-rrE,\fPOMNEA SfORl()GRAf'IA, DIVuLGAZJONE, MEMORIA COLLUTTIVA

145

della mano destra indica l'iscrizione, scolpita sulla stele, «Ma11dite soit la guerre»: un motto impensabile per l'iconografia dei monumenti ai caduti del 1915-18 eretti in Italia tra le due guerre, come pure, verosimilmente, per quelli dell'epoca successiva. Anche in questo caso è ovvio che non si intende proporre con la descrizione di simile monumento, peraltro non unico nella catalogazione contenuta nel volume citato, un modello alternativo, ma solo prendere lo spunto da questa utile comparazione per chiedersi quale sia la misura di pluralismo presente nella rievocazione dei fatti storici da parte della produzione monumentalistica italiana. La maggiore monotonia, confinante a volte col monolitismo, che rende più conformisti, salvo ulteriori verifiche, i monumenti italiani ai caduti e agli eroi nazionali, risente di sicuro della irreggimentazione interpretativa, d'impronta militar-nazionalistica, imposta dal fascismo nei riguardi della prima guerra mondiale, ma consente forse un'ulteriore considerazione e ci aiuta ad osservare un altro versante della divulgazione, quello più strettamente ideologico e partitico. Di fronte all'esempio francese costruito da Prost, che mostra una varietà di raffigurazioni pubbliche e di letture politiche contrapposte ma contestuali di uno stesso fatto storico (la grande guerra), viene spontaneo pensare che in Italia il pluralismo dei monumenti riesce invece a manifestarsi solo utilizzando fatti e momenti storici diversi. È la diversa «natura» dei personaggi e degli episodi di volta in volta rievocati che consente di inscrivere nel territorio, non contestualmente ma attraverso la successione cronologica di periodi l'uno dall'altro separati, le varie interpretazioni del rapporto Storia-Patria-Popolo sostenute dalle differenti e contrapposte parti po)jtiche. Ognuna di tali interpretazioni risponde formalmente a finalità unitarie ed esprime anzi un'intenzione propagandistica di accreditamento nazionale del ruolo storico svolto dalle singole forze politiche nei diversi cicli di avvenimenti. Se ci proponessimo cioè di classificare il nostro patrimonio monumentale d'ispirazione civico-patriottica, dalle grandi città ai più sperduti Comuni, dovremmo probabilmente ricorrere, per buona parte di esso, a un primordiale criterio selettivo dettato dalla sistematica ricorrenza di alcune date discriminanti, che fondano la vita e il significato dei monumenti riconducendoli essenzialmente a tre o quattro cicli simbolici: il XX Settembre, il 4 novembre (28 ottobre), il 25 aprile; sono queste le date scolpite nel marmo, oppure scelte per l'inaugurazione e poi per la celebrazione annuale dei riti civili intorno ai monumenti e nelle piazze che li ospitano. Ci sarebbe molto da discutere sulla non coincidenza di significati tra il


146

ANDREA FAVA

25 aprile e il 2 giugno e sulla eventuale interscambiabilità e diversa frequenza delle due date; né è superfluo segnalare l'importanza che, nell'animare e qualificare il messaggio, ha via via assunto nelle diverse epoche la sovrapposizione-compresenza di cerimonie e simboli religiosi accanto alla ritualità laica. Nonostante le intenzioni unitarie delle opere e delle liturgie, risulta difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a frammenti non ricomposti dei successivi processi di appropriazione ideologicopartitica dei singoli cicli storici: ancora oggi il funzionamento di questo meccanismo, per volontà o per inerzia, alimenta un'abitudine mentale un po' deformante, in forza della quale sembra giusto che la memoria del Risorgimento venga considerata appannaggio dei laici, la Grande Guerra debba offrire un rifugio a concezioni patriottiche di sapore nazionalistico altrimenti delegittimate, la rievocazione della Resistenza possa suscitare le diffidenze di chi presume in buona fede che essa fornisca una strumentale patente di patriottismo ai comunisti. Un residuo di settarismo o di riserva mentale percorre, come un indelebile riflesso condizionato, la memoria storica ufficiale, rivelando la permanenza di alcuni elementi di fragilità politico-culturale del nostro assetto unitario e democratico e un persistente margine di scollamento con gli interessi e i toni della memoria storica collettiva. Influiscono evidentemente su queste realtà tutta la storia de!Ja lotta politica nell'Italia post-unitaria e la natura del nostro sistema politico, insieme alla legittima esigenza dei partiti e delle correnti culturali che li ispirano di difendere e di illuminare, con gli strumenti di pedagogia popolare di cui dispongono, il retroterra storico della propria identità ideale e della propria presenza sociale: i grandi eventi storici che hanno segnato la coscienza nazionale e sono entrati a far parte della memoria storica popolare (tali sono indubbiamente le guerre mondiali, il fascismo, la resistenza) rientrano in via naturale tra i campi d'intervento ai quali rivolgono la propria attenzione le opzioni ideologiche e le propagande delle forze politiche. Un terzo agente di divulgazione di cui bisogna tener conto è rappresentato dal mercato culturale e dalle forze economiche che lo sostengono. Nell'editoria e nella stampa, in tante opere cinematografiche realizzate dal dopoguerra ad oggi, nella produzione televisiva dei documentari e dei dibattiti, si canalizzano in gran parte quelle forme di buona divulgazione storica a cui si è fatto cenno come a essenziale fattore di aggiornamento e di arricchimento culturale. Negli ultimi anni, però, le modalità deU'ascolto si sono fatte sempre


L'ETÀ CONTEMPORANEA: STORJOGRAFLA, DNULGAZIONE, MEMORIA COLLETTIVA

147

più frettolose e dispersive, mentre si sono enormemente consolidate in questo campo presenze commerciali, industriali e pubblicitarie, che in libreria, in edicola, sul piccolo schermo, rispondono con criteri esclusivamente mercantili alla dilatazione della domanda sociale di informazione, di aggiornamento, di intrattenimento colto. Ciò favorisce una più rapida diffusione di mode e curiosità culturali talvolta fittizie, spingendo a privilegiare contenuti e forme spettacolari della comunicazione, che possano ampliare il mercato, con la moltiplicazione di argomenti e pseudo-problemi di dubbio interesse «scientifico», e riescano così a soddisfare o richiamare sponsorizzazioni pubblicitarie, invece che promuovere più tradizionali e meno frenetici confronti di dati e di idee. Si può ricordare, in proposito, il successo riscosso per qualche tempo dall'argomento fascismo, che ha visto proliferare le occasioni di messa in scena dello spettacolo del ventennio e dell'Italia in camicia nera: una rivisitazione ispirata talvolta al desiderio di sdrammatizzare il rapporto con le vicende della storia nazionale, di rendedo meno rigido e professorale, sgombrando il campo da rimorsi, censure e pregiudizi; ma si è trattato troppo spesso di operazioni culturali disposte a prediligere ambientazioni melodrammatiche o toni umoristici, nostalgie di buone e strane cose di pessimo gusto, col risultato di premiare quanti erano propensi a digerire il passato, dopo aver fatto finta di rievocarlo, piuttosto che interessati all'acquisizione critica di informazioni corrette e nuovi elementi di giudizio. Mi pare che l'esistenza e il peso, in positivo e in negativo, di tutte queste realtà, sommariamente elencate, debbano essere presenti alla coscienza cli chi insegna storia contemporanea, per svolgere al meglio la funzione di mediazione formativa affidata alla scuola, conservando una misura di distacco, senza estraneità, dai richiami e dalle sollecitazioni della divulgazione nelle sue multiformi manifestazioni. Un corposo modello scolastico negativo di didattica della storia contemporanea e di utilizzazione propagandistico-divulgativa degli studenti e degli insegnanti è rintracciabile proprio durante il periodo fascista. Esso comincia in pratica a strutturarsi ed a fare le sue prime esperienze nel 1923, con la massiccia mobilitazione delle energie scolastiche nell'opera di commemorazione della grande guerra: gran parte della edificazione-inaugurazione dei monumenti ai caduti e dei cosiddetti «parchi della rimembranza», in migliaia di città e Comuni italiani, si realizzò tra il 1923 e il 1926-27 per iniziativa, guidata dall'alto, dei Provveditorati, dei Circoli didattici e di


148

Al'.DREA FAVA

Comitati scolastici appositamente costituiti, con un totalizzante coinvolgimento in massa delle scolaresche. Ne derivò un buon contributo al processo di definitivo accreditamento patriottico del regime, con l'usurpazione della Vittoria come parte della storia del fascismo e con l'attribuzione alla storia e alla vita del fascismo del diritto di stabile cittadinanza nell'attività e poi nei programmi della scuola. L'invadenza di quelJa che è stata definita la pratica dell'anniversario nel calendario e in una vera e propria scansione liturgica dell'anno scolastico, a cui si è fatto prima riferimento, venne a rafforzare questa tendenza, attraverso il rapido consolidamento, ad esempio di un unico e intenso ciclo celebrativo e festivo raccolto intorno alle date del 28 ottobre e del 4 novembre, che accomunava l'anniversario della marcia su Roma a quelli della commemorazione dei defunti e della battaglia di Vittorio Veneto; e attraverso la successiva sovrapposizione, nella giornata del 24 maggio, dell'anniversario dell'intervento in guerra alla mobilitazione giovanile e studentesca per i riti paramilitari della Leva Fascista. La ripetitività di queste e di infinite altre celebrazioni patriottiche si incentrava proprio sulla contaminazione tra le tappe dell'ascesa al potere del movimento «rivoluzionario» delle camicie nere e le ricorrenze legate alle date del Risorgimento e della prima guerra mondiale, rivelando un uso consapevole e distorto della storia e della scuola, cioè della più ramificata istituzione sociale dello Stato, al fine di saldare le vicende e l'immagine del regime con i più significativi eventi del passato nazionale. Pochi anni dopo, infatti, l'insegnamento della storia contemporanea entrava in maniera diretta e in misura consistente nelle scuole italiane. Nello studio e nella didattica della storia il richiamo agli avvenimenti e ai miti del presente fascista, al cosiddetto «panorama di realizzazioni del fascismo», veni va costantemente sollecitato fino a determinare, come è utato notato da AJberto Monticone, un proiezionismo storico alla rovescia: erano i protagonisti e le figure del presente, Mussolini e i suoi, a far premio sul passato, a fornire il metro vivente di giudizio con il quale selezionare drasticamente i fatti e i personaggi della storia, misurandoli in rapporto alla loro capacità di prefigurare l'éra nuova fascista, di essere o meno qualificabili come precursori del regime. Giulio Cesare poteva così avere l'onore di essere autorevolmente definito, in un volumetto di divulgazione su Roma e il fascismo, «la prima Camicia Nera della storia». Ai contenuti tradizionali dell'insegnamento si aggiunse un'assillante cornice di attivismo retorico e organizzativo, che richiedeva


L'ET À CONTEMPORANEA: STORIOGRAFIA, DIVULGAZIONE, MaMORIA COLLETTIVA

149

l'adesione agli apparati, ai riti, alle scadenze imposte dalla vita politica e dalle coreografie del regime. Si può sostenere, forse, che molta inoffensiva esteriorità caratterizzò questo riferimento obbligato, anche nella routine dell'attività scolastica, ai temi del patriottismo nazionalistico, ai miei de!Ja giovinezza eroica e dell'ardimento militare, della potenza della Nazione e della missione imperiale di Roma, del colonialismo italico civilizzatore; ma si deve almeno riconoscere che esso produsse, come concreto effetto negativo, una sorta di inaridimento sociale del ruolo intellettuale e pedagogico dell'insegnante, che aveva conosciuto tra fine secolo ed età giolittiana aperture umanitarie e impegni sindacali e di rinnovamento, e per il quale invece ogni approccio didattico alla realtà contemporanea, quando non poté essere evitato, finì nel fascismo col doversi adeguare, pigramente o con «entusiasmo, agli schemi interpretativi dettati dalle formule precostituite della propaganda. Tra il 1925 e il 1928, del resto, rispettivamente nel decennale dell'intervento e della vittoria, una analoga riduzione a strumenti del consenso era già stata realizzata nei confronti degli studenti, utilizzandoli, attraverso il supporto istituzionale de!Ja scuola, come raccoglitori di cimeli e ricordi degli ex combattenti della grande guerra, conservati nella cerchia dei parenti e dei familiari di caduti e decorati. L'intenzione ufficiale dell'iniziativa, di «onorare i combattenti», lanciata originariamente nelle scuole dal direttore del Museo del Risorgimento di Milano, si trasformò nell'orchestrazione di una vera e propria campagna propagandistica e ci fornisce un ottimo esempio di pessimo uso delle testimonianze e di fittizia consultazione delle fonti orali. Invece che protagonisti di una istruttiva esperienza di interrogazione, ascolto rispettoso e rielaborazione critica dei ricordi della memoria privata nelle loro diverse identità, dei documenti storici della quotidianità custoditi daJJa tradizione familiare, gli studenti furono in gran massa usati come veicoli di propaganda all'interno delle famiglie e della società civile, ridotti a innocenti divulgatori di formule retoriche preconfezionate, sprovveduti ricercatori di immagini e racconti standardizzati, conformisti portavoce di false «verità», ricalcate sull'interpretazione ufficiale di un improbabile eroismo militare generalizzato, di un oleografico dovere del sacrificio e della bellezza del morire per la Patria e per il Duce. La diffusione di una retorica dell'ardimento e delle idee di guerra è del resto una premessa conoscitiva indispensabile per valutare la portata del contrasto finale, nella seconda guerra mondiale,


150

A.'IDREA FA\ 'A

tra il mito fascista dell'ero.ico e la dimensione comune del quotidiano. Questa divagazione sul modello fascista, condotta senza la scorta di precisi riferimenti documentari e con una dose indubbiamente eccessiva di schematismo, può essere perdonata se si considera che essa vorrebbe servire a ribadire con forza il diritto-dovere, per chi è chiamato ad insegnare storia contemporanea a scuola, di acquisire e sottoporre a critica gli stereotipi della divulgazione, anche se essi non sono più i prodotti propagandistici di una emittente centraliz· zata e totalitaria. Il ricorso alla memoria familiare e collettiva, alle fonti e al metodo della storia orale, è una risorsa didattica che può contribuire a correggere le inevitabili deformazioni della divulgazione e della più legittima delle propagande. Così come una insospettata risorsa didattica è sicuramente rappresentata dal «territorio» e dalla memoria storica ufficiale e popolare in esso sedimentata: la storia e la presenza dei monumenti ai caduti.fin nei più piccoli Comuni di ogni Provincia italiana (la loro localizzazione urbanistica, l'iconografia, le vicende della costruzione e delle cerimonie cui hanno assistito, l'elenco dei morti sui fronti della seconda guerra mondiale aggiunto a quello dei caduti nella prima, le iscrizioni e le dediche ... ); la toponomastica (basti pensare a quella che segna la storia del quartiere delle Vittorie a Roma, oppure ai nomi delle strade e delle piazze, talvolta perfino degli alberi e delle panchine, che circondano nei centri minori i monumenti civili); le lapidi, i cippi, i più recenti monumenti che ricordano, con una diversa e significativa frammentazione geografica e cron ologica, i rastrellamenti, le fucilazioni, le morti individuali o le azioni di gruppo dei partigiani. Una realtà che può se non altro suggerire l'idea di affiancare qualche istruttiva passeggiata, oppure più sistematiche escursioni didattiche, allo studio degli avvenimenti militari nella storia dell'Italia contemporanea.


L'ETÀ COITTEMPORANEA: STORIOGRAFIA, DNULGAZIONE, MEMORI.A COLLETTIVA 151 RASSEGNE BIBLIOGRAFICHE E LETTURE INTRODUTTIVE ALATRI PAOLO, La prima g11erra mondiale nella storiografia italiana del/'11ltimo venticinq11e1111io, in «Belfagorn, settembre 1972, pp. 559 - 595 e gennaio 1973, pp. 53 - 96. MONTlCONE ALBERTO, La prima g11erra mondiale, in AA.VV., Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di Alberto M. Ghisa/berti, Firenze, Olschki, 1974, pp. 243 - 282. ROCHAT GIORGIO, L'Italia nella prima guerra 111ondiale. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976. L 'Italia dalla fine della prima g11erra mondiale alla Costituente rep11bblicana ( 1918-1948). Repertorio bibliografico, Quaderni di «Libri e Riviste d'Italia>>, n. 13, Roma, 1st. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1979. ScHROEDER JOSEPH, L'Italia nella seconda g11erra mondiale. Una bibliografia, pref. di R. De Felice, Munchen, Bernard und Graefe Verlag, 1978. BATTAGLIA ROBERTO, La seconda g11erra mondiale. Problemi e nodi cruciali, Roma, Editori Riuniti, 197 I. BOCCA GIORGIO, Storia d'Italia nella guerra fascista, Roma-Bari, Laterza, 1977. (EVA LUCIO, La condotta italiana della guerra. Cavallero e il Comando S11premo ( 1941-1942), Milano, Feltrìnelli, 1975. BIANCHI GIANFRANCO, Voci per 11n repertorio bibliografico sulla Resistenza e la R.S.l., il regno del Sud e la g11erra in Italia (1943-1945), Milano, Mursia, 1964. BOCCA GIORGIO, La storiografia, in IDEM, Storia popolare della Resistenza, Roma-Bari, Laterza, 1978, pp. 93 - 113. CATALANO FRANCO, Problemi e prospettive della storiografia della Resistenza, in AA. VV., li movimento operaio e socialista. Bilancio storiografico e problemi storici, Milano, Edizioni del Gallo, 1965, pp. 31 1 - 346. CONTI LAURA, La Resistenza in Italia: 25 luglio 1943 -25 aprile 1945. Sagg,io bibliografico, Milano, Feltrinelli, 1961. GASPARRI TAMARA, La Resistenza in Italia, Firenze, Guaraldi, 1977. PRETI ALBERTO, Sugg,erin1enii bibliografici, in Italia 194 3-4 5. La Resistenza, a cura dj A. Preti, Bologna, Zanichelli, 1978, pp. 24 7 - 267. BATTAGLIA ROBERTO, Storia della Resistenza italiana. 8 settembre 1943-25 aprile 1945, Torino, Einaudi, 1972. BENDISCIOLJ MARIO, Antifascismo e Resistenza, Roma, Studium, 1976. QUAZZA GUIDO, Resistenza e storia d'Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1978. V ALIANI LEO - BIANCHI GIANFRANCO • RAGIONIER1 ERNESTO, Azionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Milano, Angeli, 1971 .



GIANNI O LIVA

LA PROBLEMATICA MILITARE NELLA DIDATTICA DELLA SCUOLA: IL MODELLO DELL'ITALIA PREFASCISTA Non ci sembra azzardato affermare che la problematica militare assume un carattere di centralità nella didattica della scuola italiana nel periodo compreso tra l'Unità e la prima guerra mondiale: dovere patriottico, eroismo guerriero, sacrificio sul campo di battaglia ricorrono in tutte le letture per le prime classi elementari nell'intento di modellare un futuro cittadino orgoglioso della propria identità nazionale, st rettamente legato all'istituzione delle forze armate, pronto ad assolvere agli obblighi di leva. In questo senso il problema è di ampio respiro e rinvia, più in generale, al ruolo della scuola nell'Italia postunitaria, quando il primo bisogno della nazione è formare «Italiani dotati d'alti e forti caratteri», nella consapevolezza che «l'Italia non è una nazione già fatta come la Francia, la Spagna, l'Inghilterra, ma una nazione da fare, e bisogna farla moralmente e subito» (1 ). All'indomani del 1861 l'unica soluzione che sembrò offrirsi è quella proposta dalla pedagogia: sarà la scuola a formare i cittadini della nuova nazione. Dopo la rivoluzione armata del Risorgimento, gli Italiani «.sapranno compiere quest'altra vera e grande rivoluzione: e la compiranno non più sui campi lombardi, ma qui nel campo delle scuole, e soprattutto nelle scuole elementari» (2). In sintonia con le esigenze da cui la scuola «nazionale» trae origine, i programmi ministeriali sono espliciti nel definirie obiettivi e contenuti dell'insegnamento: <Ja scuola elementare debbe avere per fine l'educazione, e giovar col tempo alle varie bisogne della vita», dove per «educazione» si intende «l'amore del dovere e del bene», che faranno del «savio, credente, virtuoso giovinetto» di oggi, «il valoroso soldato di domani», il «buon cittadino», l'«onesto operaio», il «buon magistrato». Non si tratta di principi nuovi, se è vero che già nel 1835 la Società fiorent ina per l'istruzione elementare aveva pubblicato un bando di concorso per un libro di testo che «iniziasse tutti i giovinetti a quei doveri che l'uomo dabbene debbe poi adempiere nel progresso della vitaJ> (3): dopo l'unificazione il controllo statale sull'educazione diventa


154

GIANNI OLIVA

però più stretto, perché l'istruzione scolastica deve formare «gente tranquilla, solida e seria, senza fisime e sogni tormentatori, che pensi solo a lavorare onestamente, a risprmiare, ad accettare serenamente il proprio stato sociale: un ideale di vita piccolo-borghese proposto come modello a una società percorsa da una crescente conflittualità» (4 ). Strumento di questa scuola è il libro di testo, <<il solo mez:zo che permetta di veicolare tra le masse popolari la nuova cultura nazionale, in un' epoca in cui i mass-media sono ancora assenti o diffusi solo all'interno di ristrette élites» (5). L'eccezionale importanza attribuita a questo agente culturale dagli educatori del secolo scorso è ben testimoniata dalle attenzioni con cui il potere politico controlla i contenuti dei nuovi testi, sino ad istituire un'apposita commissione centrale per «il bisogno riconosciuto dall'autorità governativa di avere nelle proprie mani le sorti della Patria, le quali grandemente dipendono dall'istruzione della Nazione» (6). Ovvia la centralità che in questa prospettiva assumono i valori patriottici e militari, garanti insieme di unità nazionale e di ordine interno, realizzati attorno alle istituzioni della monarchia e d~lle forze armate: ed ovvie, quindi, le numerose letture che prendono spunto dalla storia passata per proporre esempi di eroismo e di virtù guerriere e ispirare ai fanciulli spirito di abnegazione e disciplina. In che modo patria-esercito-dovere si saldano in un unico modello pedagogico e attraverso quali stereotipi vengono proposti? All'argomento ha dedicato interessantissimi studi Marielle Colin, ricercatrice dell'università francese di Caen la cui «thèse», dedicata all'educazione delJa gioventù italiana nel sec. XIX, è in corso di pubblicazione; altri spunti si trovano in Dina Bertoni-Jovine, Storia dell'educazione popolare in Italia e in Ester De Fort, Storia della scuola scuola elementare in Italia. Sulla base delle indicazioni contenute in questi saggi e di una ricerca diretta su un gruppo di testi (campionati secondo l'orientamento ideologico degli autori e le date di pubblicazione) è possibile individuare alcuni aspetti caratterizzanti. La legittimazione dell'esercito passa attraverso l'accettazione dell'idea di patria: ìl primo obiettivo dei libri di testo per le scuole elementari è perciò l'educazione patriottica dei giovani, tanto più necessaria in un paese come l'Italia, unificata in virtù di fortunate congiunture internazionali e ancor priva di una coscienza civile nazionale. La nozione proposta non è però quella di una madre comprensiva e premurosa che accoglie nel suo seno tutti gli Italiani, bensì «un mot de guerre et d'état de siège, un mot qui mobilisce, qui appelle aux armes et exige le sacrifice supréme»; una nozione stret-


LA PROBLEMATICA 1'fiUTARE NELLA SCUOLA: IL MODELLO PREFASCISTA

155

tamente legata all'esaltazione delle virt ù guerriere e ad un eroismo mistico, caratteristici in tutta l'Europa del XIX sec. sove «les patries se libèrent et se maintiennent par le fer et par le sang)) (7). Discende di qui un denominatore comune ai vari testi che consiste nella presentazione della storia passata come storia del patrottismo. Emblematica, in questo senso, la lettura introduttiva di Felice Garelli, autore dì un fortunatissimo manuale ristampato oltre ottanta volte: «circa mille e quattrocento anni fa scesero in Italia dei popoli barbari, e vi comandarono da padroni. Cacciati quei là, ne vennero molti altri più tardi; ed alcuni, con nostra vergogna, chiamati dagli Italiani stessi, in guerra fra loro. Prima i Francesi, poi gli Spagnoli~ poi i Tedeschi, poi a volte gli uni, a volte gli altri, son venuti a piantarsi in casa nostra: e noi si fece da servi per un bel pez:?.o. Cacciati, bene o male, gli stranieri, sul principio di questo secolo, l'Italia restò divisa a brandelli, come la veste di Arlecchino, e l'Austria continuò a farla da padrona quasi dappertutto. Finalmente nel 184 8, nel 195 9, nel 19 6 O, nel 19 6 6 e nel 19 7Ogli Italiani scossero il giogo della servitù e sotto questa medesima bandiera si raccolsero in una sola famiglia, acclamando Vittorio Emanuele re d'Italia e Roma capitale del nuovo regno)) (8). La rielaborazione della storia come affermazione gloriosa dei sacri principi della libertà, dell'unità e dell'indipendenza contro i tiranni rappresentati dai barbari, dai Borboni o dagli Austriad comporta la valorizzazione dì alcuni momenti specifici del passato e di talune figure storiche. Costretti a scavare in un passato avaro dì eroismi nazionali, gli autori dei testi si soffermano (come ha osservato la Colin) sulla fotta dei comuni lombardi contro il Barbarossa, esaltando la battaglia di Legnano come «la più bella e prestigiosa battaglia della nostra storia)), sui Vespri siciliani, esempio di ciò che può fare «un amor patrio forte e sacro» (9), sugli episodi di Pier Capponi e di Francesco Ferrucci, le cui risposte diventano simboli di una fierezza che non conosce timore e non tace di fronte alle minacce, sul sacrificio di Pietro Micca, sull'ardore spontaneo e generoso di Balilla. Isolati dal loro contesto storico, questi episodi stabiliscono un legame di continuità fra secoli affatto diversi e rinviano ad una coscienza nazionale unitaria esistente sin dal Medio Evo: <<grace à un montage qui privilégie des personnages mineurs au point de vue historique età l'ambiguité du mot patrie, qui désigne tanto! une ville et tantot la péninsule tout entière, !es écoliers pourront croire que l'histoire italienne n'est qu'un chapelet de gestes héroiques et patriotiques et que !es Italiens ont toujours été un peuple de patriotes et de héros)) (1O). Di questo passato, il Risorgimento non è che il coronamento,


156

GIANNI OUVA

senza che alcuna rottura sia stata determinata dalla Rivoluzione francese: una continuità che esorcizza i fermenti sociali e gli antagonismi manifestatisi durante il processo di unificazione e che trova una garanzia di direzione e di stabilità nel ruolo svolto dalla Casa Savoia. Come ha osservato Dina Bertoni-Jovine, «nell'amore di Casa Savoia si potevano render popolari tanti aspetti della vita italiana e influire sulle convinzioni e sui sentimenti civici formando un costume nazionale omogeneo: (... ) a questo scopo si imponeva una rapida rielaborazione della storia d'Italia da cui dovevano risultare in primo piano la parte sostenuta dalla Casa Savoia e l'armonia di idealità patrie che essa avrebbe saputo vivificare coll'esempio dei suoi re» (11 ). Dalla glorificazione della patria, proposta attraverso la rielaborazione della storia nazionale, discendono i doveri civili e i principi morali che sostanziano l'educazione perseguita dalla scuola. Per essere cittadini degni occorrono «il lavoro», «l'obbedienza alle leggi», «l'impiego virtuoso dell'ingegno», «la pratica dell'onestà», ma, soprattutto, <<il sacrificio del militare servizio», «l'esercizio delle armi per vegliare le frontiere»: «la patria ba bisogno di uomini in arme che la difendono dagli stranieri e dai nemici delle sue libertà: sceglie quindi, senza distinzione di nascita, i giovani più robusti per farne soldati. Quando sia il tuo turno, corrivolenteroso alla chiamata, paga il tuo debito alla patria» ( 12). L'assimilazione dell'obbligo militare ai diversi doveri del cittadino verso la collettività permette agli autori dei testi un'impostazione moralistica del problema: legittimato da una storia nazionale intesa come storia di liberazione, il concetto di sacrificio (portato sino alle estreme conseguenze) si tinge di sacralità e diventa il naturale coronamento di un'attitudine civica coerente e rispettosa. Difendere la patria significa difendere le garanzie di sicurezza, di solidarietà e di benessere che essa offre alla «grande famiglia» che la abita: «se io posso vivere tranquillamente con la mia famiglia nella casa da noi occupata, senza che alcuno venga a molestarci; se posso godere dei vantaggi che presenta il luogo in cui la nostra casa si trova; se posso godere di tanti diritti che banno gli abitanti delle altre regioni, i quali considerano i miei concittadini, le persone della mia famiglia e me come fratelli e sorelle, a chi lo debbo? Alla mia cara Patria» (13). In questa prospettiva, ]'«obbligo» diventa «concorso volontario», partecipazione sostenuta dall'entusiasmo e dalla riconoscenza commossa:


LA PROBLEMATICA MlLITARE NELLA SCUOLA: IL MODELLO l'REFASCISTA

157

«che felicità per me se potessi un giorno in qualche modo rendermi utile al mio paese.I-» ( 14). P er il sincero patriota il sacrificio è gioioso perché, al di là del disagio immediato, sa comprenderne il significato e il valore: «i soldati stimeranno leggere le fatiche, gloriose le privazioni e dolci anche i patimenti sostenuti per la patria: e questa li reputerà il fiore deJ/a sua cittadinanza» ( 1S). Chi, all'opposto, si sottrae al dovere con l'inganno o la fuga, dimostra indegnità morale e deve essere bandito dalla comunità: «il disertore è un vigliacco, un infame: egli rinnega la patria, se rifiuta di servirla sotto le sue bandiere: è un traditore, e il disprezzo di tutti lo segue in capo al mondo» ( 16). Numerose letture accreditano questi ammaestramenti attraverso stereotipi proposti come modelli di comportamento: si tratta di figure anonime ed umili, ereditate dal mondo classico, senza spessore e di dubbia verità psicologica, che si sacrificano volontariamente e totalmente per la patria. La più comune è quella del soldatomartire che espone il suo corpo ai colpi del nemico e muore per salvare i propri compagni, o che, ferito, rifiuta i soccorsi per non essere di peso; frequente è anche la figura della madre del soldato che, emula di Adelaide Cairoli, educa il figlio all'amor patrio e, quando qu~sto cade sul campo di battaglia, si chiude in un dolore fiero ed orgoglioso che lo glorifica. L'immagine più patetica e didatticamente più efficace è però quella del fanciullo-eroe, di cui Balilla costituisce il prototipo e i giovinetti impegnati sulle barricate di Milano e di Brescia le conferme storiche. Nella trasfigurazione fiabesca dei testi scolastici il bambino che si immola per la patria ha la determinazione dell'adulto e assolve i compiti che gli vengono affidati (la vedetta, la sentinella, la staffetta, come nei più celebri racconti deamicisiani) con dedizione totale: <<gli Austriaci gli tiravano addosso daJ/a sommità deJ/'altura (. ..) ma il tamburino continuava a correre a rompicoJ/o: ad un tratto stramazzò. - Ucciso! - ruggì il capitano, addentandosi il pugno. Ma non aveva ancora detto la parola, che vide il tamburino ria/zarsi ( ... ). Il ragazzo correva rapido un tratto, poi raJ/entava il passo zoppicando, poi ripigliava la corsa ma sempre più affaticato, e ogni tanto incespicava, si sefftrmava» ( 1 7). Assai più delle figure eroiche tratte dalla storia, il cui carattere di eccezionalità ne fa dei personaggi fuori del comune che non potrebbero essere proposti come modelli esclusivi, queste figure sembrano adatte ad incidere sulla psicologia dei fanciulli e ad accredita-


158

C IAN/\1 OLJV A

re «l'idée d'une tradition militaire italienne et d'un fibre héroique au sein de la population» (18) (in perfetta simonia, tra l'altro, con le indicazioni ministeriali che prescrivono di educare all'amor patrio non attraverso i «precetti», ma attraverso gli «esempi», dove «la virtù non abbia il duro aspetto che le vogliono dare i pedagoghi, ma sia sorridente e bella e circondata di grazia e di tenerezza») (19). li servizio militare non è solo un debito del cittadino verso il proprio paese, ma anche occasione di nuove acquisizioni, scuola civica dalla quale il giovane torna trasformato ed arricchito: <<.al tuo ritorno non parrai più quello. La vita militare con le sue fatiche, la disciplina, la devozione al dovere, la comunanza di gente d'ogni paese, ti restituisce migliore di prima alla famiglia, più robusto, più istruito, più educato» (20). Tra il fanciullo dei banchi di scuola e l'uomo maturo di domani, c'è l'educazione dell'esercito, con le prove che fortificano il corpo e rendono saldo il carattere. La disciplina conosciuta e temuta per la sua severità senza appello, viene riscoperta ed esorcizzata come strumento di crescita morale: <Ja disciplina rende il soldato coragg,ioso, forte, amatissimo dell'onore e alieno dalle risse, da' vizi, dalla infingardia che genera debol~, corruzione, viltà» (21 ). Essa restituisce alla società civile giovani educati all'ubbidienza delle leggi, al rispetto dei concittadini, all'amore per il lavoro, all'onestà: <Ja milizia è valido strumento d'educazione, perché avv~ndoci a/Ja disciplina e alla difese de' patrii diritti, ci avvezziamo del pari apregiare questi diritti e a rispettarli» (22). A questi fondamentali benefici educativi, l'esperienza militare aggiunge l'occasione di conoscere l'Italia, di incontrare giovani provenienti da regioni e culture diverse. Il reclutamento nazionale, politicamente motivato dall'uso dell'esercito in servizio di ordine pubblico e dalla conseguente necessità di truppe prive di legami col territorio in cui operano, viene presentato come opportunità di conoscenze e di circolazione di costumi, in vista di un amalgama tra popolazioni prive di un comune retroterra storico e culturale: «(il soldato) si troverà in molte citfà d'Italia, conoscerà altri uomini, imparerà che i Piemontesi, i Lombardi, i Veneti, i Liguri, i Parmensi, i Modenesi, i Toscani~ i Romagnoli, i Napoletani, i Sardi e i Siciliani son circa trenta milioni di uomini che formano una sola e grande famiglia» (23).


LA PROBLEMATICA MILITARE NELLA SCUOLA: IL MODELLO PR EFASCISTA

159

Tornando dal servizio, riporterà nel proprio nucleo familiare e nel vilJaggio d'origine le esperienze fatte e sarà a sua volta veicolo di conoscenza della realtà nazionale. Ai compilatori dei testi non sfugge che l'obbligo dì leva è comunque impopolare e sgradito e che la partenza di un coscritto determina preoccupazione, rabbia o, nell'ipotesi migliore, rassegnazione, sofferta: alla valorizzazione degli aspetti positivi della vita militare, essi uniscono perciò la confutazione dei dubbi e delle proteste. La tecnica utilizzata è duplice: da un lato si attribuiscono i timori alle donne (madri o serelle), ridimensionandoli come «chiacchiere sciocche delle femminette», dall'altro si affida la difesa d'ufficio del servizio a chi rappresenta l'autorità, nell'ambito del villaggio o della famiglia (il parroco, i l maestro, il nonno). Emblematico il «Dialogo di una contadina col suo parroco» proposto in un libro dì letture del 1861. Alla vedova che si domanda «chi lavorerà la vigna se il mio Battista ha da maneggiare lo schioppio?», replica la logica stringente del prete: «e se tuo figlio si ammala, in quei giorni che egli sta a letto, avrai veduto e vedrai che le faccende della vita vanno avanti e vi suppliscono gli altri»; alle preoccupazioni per i disagi della vita dì caserma si contrappone la disponibilità di «pane migliore e più pesante» dì quello «scarno e nero» di tutti i giorni, e la possibilità di «fargli una visita in caso dì malattia» o di «ottenere un permesso per ritornare a casa»; alla diffidenza per una legge nuova, infine, si ribatte che essa costituisce «una concessione che grandemente ci onora perché il governo, dandoci in mano le armi, fa conoscere che di noi si fida, che conta sul nostro senno e che ama la nostra difesa>>. Con tono di rimprovero il parroco può cosl concludere che non può far nulla per cancellare il giovane dalle liste di leva, ma «se lo potessi non lo farei: anzi, lo farei iscrivere se non ci fosse, perché è un privilegio il potervi entrare» (24 ). Nelle letture in cui compare come protagonista la figura del nonno l'intonazione è più paternalistica e bonaria: <(Suvvia, egli non si allontana da noi perché abbia commesso qualche mancanza, né va a prestare un servizio che lo disonori. Ah, no certo! Egli va a servire la patria da buon soldato. Il servire la patria è un sacrosanto dovere e i soldati sono lo scudo e la difesa della nazione» (25).

Nella stessa logica si muovono i componimenti proposti come esercitazione al termine delle letture, con titoli che rinviano alla serena accettazione dell'obbligo di leva da parte dei più giovani e all'affetto con cui i parenti, pur nella diversità dei ruoli, si stringono


160

G IANNI OLI VA

attorno al partente: «1) Paolo, vostro fratello maggiore, avendo estratto un numero basso, è quasi certo di dover indossare la divisa militare; la madre ne è afflittissima. Scrivetele una lettera di conforto. 2) Prima lettera a un fratello di recente entrato nella milizia. 3) Consigli e addio d'una sorella ad un fratello soldato» (26). L'omogeneità dei messaggi pedagogici che emerge da questa rassegna conferma l'ipotesi ini2iale di un progetto educativo chiaro e lucidamente perseguito: legittimare la leva obbligatoria per mezzo di un percorso che ha come referente l'idea di patria e che si sviluppa attraverso la presentazione del servizio militare come dirittodovere, la valorizzazione dei suoi benefici morali, la giustificazione dei sacrifici che richiede. In questo modo, vengono pienamente rispettati i dettami dei programmi ministeriali del tempo, secondo i quali «intorno al libro di lettura per le scuole elementari si aggira tutta l'opera della scuola», e non stupiscono letture che, superando prudenze ed attenuazioni, rinviano ad una specifica attitudine militarista e attribuiscono ai fanciulli un gioioso entusiasmo guerriero: «il gioco che preferiamo è giocare ai soldati. Ho il mio fucile, la mia baionetta, la mia cartuccera. Nelle ore di ricreazione mi unisco agli altri bambini della scuola e, armati in tutto punto, ci mettiamo nei ranghi e facciamo gli esercizi militari,· dopo, baionetta o cannone, avanti! Savoia! noi corriamo tutti pieni d'ardore contro il nemico» (27).


LA PROBLEMATICA ~ULITARE NELLA SCUOLA: IL MODELLO l'REFASCISTA

161

NOTE (1) Camera dei Deputati, tornata del 18 giugno 1861, intervento dell'on. Linati. (2) P. SICILIANI, Sul rinnovamento dell'arte educatrice in Italia, Firenze 1880, o ra in Positivismo pedagogico italiano, a cura di D. Bertoni-Jovine e R. Tisato, Torino 1973, voi. I, p. 370. (3) Citato in L. PARRAVfCINl, Gianmtto, Genova 1839, p. 6. (4) E. D E FORT, Storia de.Ila scuola elementare in Italia, Milano 1979, p. 231. (5) M. COLl.N, comunicazione al seminario «Storia e storiografia del costume educativo», Fondazione Feltrinelli, Milano aprile 1982 (di pwssima pubbUcazione). (6) Sull'origine e sullo sviluppo dei libri di testo, relazione ministeriale del 1 giugno 1881. (7) M. COLIN, Mythes et fìgum de l'héroisme militaire dans l'iducation patriotique des jeunes italiens (1860- 1900), di prossìma pubblicazion e. (8) F. GARELLI, Il giovinetto campagnolo educato ed istruito, Torino 1892, p. 7. (9) C. BALBO, Sommario della storia d'Italia, Torino 1846, p. 230. (10) M. COLIN, Mythes etjìgures..., cit. (1 1) D. BERTONI-JOVINE, Storia dell'educa~ione popolare in Italia, Bari 1965, p. 298. (12) F. GARBLLl, Il giovinetto campagnolo..., cit., p. 104. ( 13) G. MENGHI , La campagnuola e /'artigiane/la, Torino 1878, p. 3. ( 14) B. RINALDI, Il buon iJaliano alla scuola rurale, Torino 1893, p. 122. (15) A. ALFANI, I Ire amori del cittadino, Firenze 1886, voi. 3•, p. 15. (16) F. GARELLI, Il giovinetto tampagnolo... , cit., p. 105. (17) E. D E AM ICIS, Cuore-, Torino 1974 ( 1886), p. 126. (18) M. COLlN, Mythesetjìgures..., cit. ( 19) Relazione della Commissione tentrale per i libri di lesto a S.E. il Ministro de/l'lttruzione Pubblica del 14 agosto 1896. (20) A. ALFANI, Il libro di lettura per la seconda classe elementare, Firenze 1882, p. 68. (21) A . ALFANI, I tre amori del ti/ladino, cit., p. 14, 3° voi. (22) Ibidem, p. 18. (23) G. MENGHI, La campagnola e /'artigiane/la, cit., p. 102. (24) G. BANFl, Libro di /e/ture per le alunne della terz,a e quarta classe delle scuole rurali, Milano 1861, p. 183. (25) G. MENGHl, La tampagnola e /'artigiane/la, cit., p. 104. (26) G. LOSlO, Scuola dell'esperien~, Brescia 1895, p. 36. (27) T. FONTANA, Letture educative ed istruttive, Torino 1897, p. 89.



MARZIANO BRIGNOLI

LA MEMORIALISTICA E LA DIARISTICA DI GUERRA: TESTIMONIANZE A CONFRONTO La memorialistica e la diaristica di guerra costituiscono, come noto, fonti primarie per lo studio della storia, non solo militare e che ha radici molto lontane. La prima guerra mondiale alimentò grandemente la diaristica e la memorialistica, dagli alti comandanti fino ai combattenti più umili e sconosciuti. La prima testimonianza che porto alla loro attenzione riguarda appunto uno dei tanti oscuri combattenti della prima guerra mondiale, un sergente del reggimento Lanceri Vittorio Emanuele II ed è un diario che interessa tutto il periodo del conflitto dal 24 maggio 1915 al 18 novembre 1918. È redatto in forma molto semplice, schematica e non molto critica. Non registra nessun stato d'animo, non espone alcuna riflessione o considerazione sugli avvenimenti e sui personaggi. Abbiamo soltanto la cronaca di piccole azioni di protezione e perlustrazione. Poche o nulle le occasioni di scontri col nemico (ma questo non era certamente colpa del diarista) ma gli uomini soccombevano ugualmente per le malattie. Sotto la data del 12 agosto 1915 si trova infatti questa notazione: «Lo Squadrone accantona a Tomba di Meretto dove giungono i complementi (. ..) per colmare le numerose deficienze causate dall'infierire dell'infèz,ione malarica contratta nel Basso Isonzo e nella Laguna di Grado». Poco dopo cominciava per i cavalieri appiedati l'istruzione di fanteria, come annota il nostro diarista con il lancio delle bombe a mano e la costruzione di fortificazioni campali, le marce e tutto il complesso di esercizi tendenti a trasformare non sempre riuscendovi, il soldato a cavallo in fante. Nell'agosto del 1917 quando la vittoriosa offensiva della Bainsizza parve per un momento lasciare intravedere la possibilità di dilagare alle spalle del nemico con reparti celeri. è


164

MARZIANO BRIGNOLI

Alla vigilia di quella che si credeva potesse essere una azione risolutiva i reparti appiedati furono rimessi in sella e mandati verso la linea e il 26, 27 e 28 agosto passa sulla sinistra Isonzo e comincia a riconoscere le vie di accesso all'Altipiano della Bainsizza, ma sotto le date del 29-31 agosto troviamo questa annotazione assai eloquente nella sua semplicità: «Lo Squadrone coadiuva i portaferiti della Brigata Livorno nel trasporto deiferiti dall'Altipiano della Bainsizz,a alla valle dell'Isonzo». In queste malinconiche righe sulle perdite della battaglia sembrano spengersi le aspirazioni e i desideri di azione. La mancata occasione di impiego fece riprendere ai cavalieri le esercitazioni di fanteria, tanto che troviamo annotato nel settembre ottobre 1917 come in quel periodo si costituisse presso il Reggimento Vittorio Emanuele non solo un plotone di lanciatori di bombe a mano ma addirittura un Reparto d'Assalto, cioè di Arditi. Tutta questa attività destinata ad apprestare nuovi reparti di combattenti a piedi venne bruscamente interrotta il 24 ottobre del 1917, il giorno della fortunata offensiva austro-tedesca, passata alla storia con il nome di Caporetto. Dalle note di questo «Diario» non emergono momenti di particolare drammaticità, anche perché il reparto del diarista era lontano dalla zona di operazioni. Subito inviatovi fu largamente impiegato in compiti di polizia militare e non, più che mai necessari in momenti nei quali molti reparti avevano sciolto i vincoli organici e disciplinari; diveniva pertanto indispensabile raccoglierli ed indirizzarli ai luoghi di radunata, provvedendoli di viveri e di foraggi. I giorni dal 24 ottobre a!J'11 novembre 1917 sono contraddistinti da annotazioni scarne, molto burocratiche relative al servizio prestato. A partire dal 26 dicembre 191 7 e fino al 1O gennaio 1918 lo stesso servizio fu prestato anche ne!J'interno del Paese e precisamente nell'appennino emiliano per il recupero di quei militari, non molti, per la verità e sparsi in piccoli gruppi, ancora lontani dai Corpi. Un servizio ostico, sgradevole, specialmente per un'arma che era stata addestrata per ben altri compiti. L'impiego di guerra venne nel giugno del 1918 al momento della grande offensiva austriaca e il Reggimento venne impiegato in linea e si illustrò nell'attacco alla Fornace e di Monastier. Questa azione riuscita vittoriosa è descritta nel «Diario» ma senza toni trionfalistici, quasi come avvenimento di ordinaria amministrazione ( 18-19 giugno 1918). Il grande momento venne alla fine dell'ottobre del 1918 quan-


MEMORIALISTICA E OlARISTICA DI GUERRA: TESTIMONIANZE A CONFRONTO

165

do la rottura del fronte consentl ai reparti celeri di procedere vigorosamente all'inseguimento del nemico sconfitto. Giorno per giorno, a partire dal 28 ottobre il diario riporta i vari momenti della fase finale della guerra; iJ passaggio del Piave il 29 ottobre, l'inseguimento dell'avversario verso il Tagliamento che venne passato a guado. A questo punto le annotazioni del «Diario» diventano più esaurienti e sottolineano le proporzioni del successo italiano. Il 3 novembre è registrata la cattura di una intera Divisione nemica forte di 15.000 uomini e Cento pezzi di artiglieria: iJ 4 novembre sono caduti 6000 prigionieri, batterie di grosso calibro, un treno carico di materiale bellico. Alle ore 1S dello stesso giorno finisce la prima guerra mondiale sul fronte italiano, ma come ho detto le annotazioni del diario continuano anche nei giorni successivi, quando la gioia per la fine vittoriosa del conflitto appare temperata ed offuscata, anche n elle note del diario, dallo imperversare della epidemia di «spagnola» che colpl tutti, soldati e civili. E su questa nota triste si chiude questo diario. In complesso questo diario costituisce un documento non molto eloquente, talvolta piuttosto scialbo ed acritico, piuttosto privo di una partecipazione personale dell'autore agli avvenimenti descritti. Noi sappiamo però che ogni documento scritto costituisce la proiezione della personalità dello scrivente e come tale ci è utile. Ma del pari utile è l'indagine comparata su questo tipo di documentazione, per confrontare fra loro le testimonianze e trarne le relative considerazioni È queJlo che mi propongo di fare sottoponendo alla loro attenzione un altro diario di guerra. Redattore è ancora un sottufficiale di cavalleria impegnato sul fronte russo con il reggimento «Savoia CavaJleria» durante la seconda guerra mondiale. È completamente diverso da quello che abbiamo esaminato prima. Si distingue per una maggiore partecipazione del diarista agli avvenimenti annotati, una carica passionale che lo porta alla critica verso uomini ed avvenimenti, insieme ad una disciplinata accettazione del dovere militare. La narrazione copre l'arco di tempo dal luglio del 1941 al marzo del 1942 e inizia con la sofferta descrizione della marcia nella steppa affocata: «Dopo lunghe marce sotto il sole, terribile per caloria, si arriva magari in un paese dove esiste solo un p<r.a.o, con acqua a 20 metri di profondità e senza corda. Marce dalle 8 alle 14 ore al giorno di continuo cavalcare».


166

MARZIANO BRIGNOLJ

Nell'agosto del 1941 il reggimento raggiunse la linea del Dnieper e l'evento è così ricordato dal diarista: «Viviamo in una terribile atmosfera, dappertutto esiste l'agguato. Le imboscate sono continue, le notti tutte e completamente in bianco... Rancio poco per escludere la parola niente, sentiamo le prime privazioni, cominciamo a vivere di razzia, per meglio dire di quel che rubiamo». In linea l'attività principale era quella di pattuglia, attività logorante e pericolosa. Citiamo: «Sono di pattuglia ( ....) devo riconoscere strade, fiumi, ponti, passaggi. Capito sopra una macchia di sabbie mobili. Attimo terribtie, impressionante. Per ti mio cavallo è la fine. Riesco con tre salti leggeri a saltare sul terreno duro dalla parte opposta... con lo sforzo della disperazione il cavallo con due strappi riesce a saltar fuori» . In seguito il Reggimento fu impegnato nella cosiddetta battaglia di Natale, accorrendo su allarme con una marcia di 35 km. A 28 gradi sotto zero; 30 congelati. In questi ricordi i grandi avvenimenti bellici si intrecciano con le vicende personali del combattente, le sue riflessioni le sue considerazioni: «l.,'uomo in guerra in certi casi diventa l'uomo più abbietto e più basso della società per il suo modo di agire. In tutte le cose e le cattive azioni se siamo portati a prendere parte è perché siamo costretti». Indicativi dello stato d'animo delle truppe sono questi versi riportati nel diario: «I giornalisti tanto aspettati, / stanno negli alberghi ben riscaldati; / e la Milizia chi l'ha mai vista / È rimasta sulla nostra pista; / e il cavallo da tutti dispreZ<,ato, / ogni motore indietro ha lasciato. / Persino i pacchi sono arrivati, / ma in compenso tutti svuotati. / E il nostro grido di grande gioia:/ Viva l'Italia e Casa Savoia». Non mancano episodi descritti con grande forza drammatica, come questo che riguarda la morte di un cavallo, colpito ad un garretto: «Rimane seduto sui posteriori, ma è diritto sulle gambe davanti, come un cane quando aspetta il pez;zo di pane. La bestia sa qual è e capisce il proprio destino. Per me è un dolore vederlo soffrire, mi guarda, sembra supplicarmi. Fa pena, si trascina vorrebbe seguire. Mi avvicino, una careZ<,a, un bacio, un ultimo addio, tiro la pistola, un colpo ed èfinito... >> Ecco altre considerazioni; queste riguardano gli alleati tedeschi e la dicono lunga su quali fossero i rapporti fra i nostri soldati e quelli germanici:


MEMORIALISTICA E DIARISTICA DI GUERRA: TESTl.\10NIANZE A CONI-R0 1'"TO

167

<<Se siamo privi di molta roba possiamo ringraziare i tedeschi che danno la precedenza ai loro convogli e lasciano marcire i nostri. Noi andiamo avanti combattiamo, subito dietro c'è la loro organizzazione che subito stabilisce le varie norme e regole. Se qualcuno torna indietro per procurare anche del pane, a noi 110n è più permesso. Loro comandano. E noi combattiamo, per chi?». Gli orrori della guerra non hanno abolito ogni senso di umanità in questo come in altri nostri soldati. Nel marzo del 1942 ha conosciuto un bimbo russo ed annota nel suo quaderno: <<Mi è entrato subito in simpatia perché mi sembra di vedere me stesso a quell'età. Lo tratto bene e gli do da mangiare sempre qualche cosa in più. Ha la mamma e la nonna; il padre èfuggito oltre il Vo<ga. Ho visto in famiglia quel che mangiano; un po' di pane fatto con biada e anche questa macinata male. È una continua pena veder questa gente. Lo vedo un giorno avvicinarmisi e sta per piangere. Non si mette a piangere e non proferisce parola. Me ne accorgo. Mi voleva chiedere un po' di pane perché era affamato». Con il marzo del 1942 finisce questo diario di guerra del Sergente Fantini. Il suo diario ci consegna l'immagine di un uomo sensibile, che si rende conto di cosa sia la guerra e delle rovine materiali e morali che essa provoca. Ciò non gli impedl di fare bravamente il suo dovere, pur su una trincea da lui non scelta. Ottimo elemento, molto considerato nel Reggimento, morì in combattimento il 24 agosto 1942 ed alla sua memoria venne decretata la medaglia d'argento al valor militare.

* * * Mi si consentano ora alcune considerazioni. Abbiamo messo a confronto due diari di guerra per considerare quali diversità possano esservi fra questi due esempi di fonti, che cosa ci possono dire, che cosa noi possiamo ricavarne. Dall'uno poco più che una cronaca, dall'altro, considerazioni, riflessioni e commenti. Perché un diario rispecchia, e già l'ho detto, la personalità del diarista, sottolinea la vicenda bellica con la notazione degli avvenimenti quotidiani che solo lettori superficiali possono credere di poca o nulla importanza, mentre per contro essi sono importanti perché contribuiscono a farci sempre meglio conoscere gli uomini che sono i protagonisti della storia. Ma proprio per essere l'espressione immediata ed in genere spontanea dì pensieri, sentimenti, giudizi, ma anche di risentimenti, di proteste, di dolori, di false infor-


168

MARZIANO BRJGNOLI

mazioni i diari sono fonti da controllare attentamente e da usare con grande cautela, tenendo soprattutto presente la insopprimibile parzialità di questi documenti che forzatamente vedono tutto da un solo punto di vista che è quello del diarista, fonti quindi non solo da controllare ma anche da integrare con altri apporti e la loro pubblicazione esige un considerevole apparato critico. Dobbiamo guardarci dal commettere l'errore di prendere un diario come unica fonte per la storia di un personaggio o di un avvenimento. Si rischia di avere e dare una rappresentazione incompleta della realtà cioè, in definitiva, di non servire la scienza.


GIUSEPPE GRISERI

RESISTENZA E GUERRA DI LIBERAZIONE NELL'INSEGNAMENTO SECONDARIO SUPERIORE: UN'INDAGINE CONOSCITIVA È noto che nel corso dell'ultimo ventennio l'interesse per l'insegnamento della storia contemporanea negli istituti di istruzione secondaria superiore si è cronologicamente esteso dal primo conflitto mondiale, alla cui epoca era rimasto fermo per molti anni, sino a comprendere la conclusione del secondo e gli avvenimenti immediatamente successivi a questo. Il punto nodale di tale tormentato itinerario didattico era costituito da remore ed incertezze ancora emergenti nella valutazione critica complessiva del fascismo, della Resistenza e della guerra di liberazione. E a rimuovere tale ostacolo una spinta decisiva era indubbiamente venuta dal movimento della contestazione degli anni 1968-70. La reazione contro l'immobilismo critico della scuola aveva poi coinvolto anche i manuali scolastici, che venivano rifiutati, in modo radicale, come punti di riferimento per il lavoro scolastico. Ma le difficoltà incontrate nella ricerca di una didattica senza manuali erano state tali da ricondurre ben tosto al recupero del testo scolastico, che nel frattempo si stava gradualmente rinnovando, sia nelle indicazioni metodologiche che nei contenuti critici, ovviamente in sintonia almeno parziale con il mutamento di orientamenti ed interessi avvenuto nell'attività storiografica di quegli anni (1). Si andavano appalesando, intanto, i primi risultati di uno studio sistematicamente approfondito sul fascismo e sulla Resistenza, mentre per altro verso si maturava la consapevolezza di alcuni limiti caratteristici della storia contemporanea, come la provvisorietà accentuata delle sue valutazioni e il ridotto margine di attendibilità delle sue predizioni (2). Ne è quindi derivata per la scuola secondaria superiore l'odierna situazione che, come ha fatto rilevare il Rainero, «segna una caduta reale di sensibilità presso docenti e discenti verso il periodo» suddetto (3). È appena il caso di osservare che tale stato di diffusa apatia non può essere accettato passivamente, anche per le conseguenze negative che potrebbero riversarsi sulle nuove generazioni, ma deve essere responsabilmente


170

G IUSEPPE GRISI-. RI

analizzato e discusso sulla scorta di tutti gli elementi direttamente desumibili dal lavoro scolastico. Criteri generali. - L'indagine è stata predisposta nell'ambito di cinque distretti scolastici della provincia di Cuneo e vi sono stati interessati undici istituti di istruzione secondaria superiore, cinque dei quali appartenenti aJl'ordine classico, tre all'ordine tecnico e tre all'ordine professionale. La scelta delle singole scuole è stata ovviamente connessa alla collaborazione dei presidi, che è consistita nel consentire la consultazione dei documenti conservati presso l'archivio degli istituti da loro diretti (4). I dati raccolti risalgono agli anni scolastici 1980-81, 1981-82, 1982-83, 1983-84 e sono stati rilevati direttamente dai documenti ufficiali compilati da 54 docenti, 6 dei quali titolari di cattedre per l'insegnamento di storia e filosofia nei licei, 24 titolari di cattedre di italiano e storia negli istituti magistrali e tecnici e 24 titolari di cattedre di cultura generale negli istituti professionali. Nell'arco del quadriennio sopra indicato essi hanno svolto distintamente la loro attività didattica in 36 classi terminali di licei ed istituti magistrali, a vantaggio di 709 alunni iscritti e frequentanti, in 52 classi terminali di istituti tecnici commerciali, industriali e per geometri, a vantaggio di 928 alunni iscritti e frequentanti, e in 41 sezioni di classe seconda dei corsi di qualifica degli istituti professionali, a vantaggio di 624 alunni iscritti e frequentanti. L'indagine ha coinvolto complessivamente l'attività scolastica di 2.271 alunni, distribuiti in 129 classi. Opportuni criteri di riservatezza concordati con l'autorità scolastica provinciale e con i presidi delle scuole impongono il più scrupoloso riserbo su quanto attiene ai nomi dei docenti e alle indicazioni degli istituti scolastici presso i quali sono state rilevate tutti le informazioni utili alla presente indagine. Istruzione classica, scientifica e magistrale. - In una recente relazione del corpo ispettivo del Ministero della P. I. si è cercato di mettere in evidenza il carattere della scuola liceale, facendolo consistere nell'acquisizione di una cultura generale di base, bilanciata fra il campo umanistico e quello scientifico e organicamente vissuta, come naturale premessa e condizione della cultura specializzata e specialistica (5). Tuttavia, l'insegnamento della storia nei licei, sia per la originaria formulazione del programma ministeriale, che risente delle ideologie che lo hanno ispirato, sia per le particolari difficoltà in cui si svolge l'attività dei docenti, sembra solo in parte riconducibile alla suddetta definizione. Esso in molti casi ancora oggi si riduce ad una esposizione narrativa dei fatti, con un'attenzione


RESISTENZA E GUERR A 01 LIB ERAZIOKE NELL'INSEGNAMENTO: UN1NDAC INE

171

inadeguata, non solo alla pluridimensionalità verso cui si orienta la più recente storiografia, ma anche all'approfondimento critico delle tematiche e dei problemi enunciati dalJo stesso programma ministeriale. In effetti, l'ampiezza eccessiva del periodo storico di cui si prescrive lo studio e il ridotto numero delle lezioni assegnate dall'orario ufficiale (3 ore settimanali comprensive dell'insegnamento di educazione civica) difficilmente consentono l'adozione di criteri didattici basati su una concreta interdisciplinarietà, guaii si richiederebbero per «fare storia scientifica» ( 6). In queste condizioni operativ~ le tematiche della Resistenza e della guerra di liberazione rischiano di essere sacrificate, come ha fatto rilevare il Rainero, sia per la complessa problematica che ad esse si sottende, sia per la preferenza che docenti e discenti manifestano per il «seguito della storia», cioè la nascita della Repubblica (7), evento più rassicurante per la sua naturale proiezione nel vissuto quotidiano. Venendo agli esiti dell'indagine eseguita, si deve ancora premettere che non è stato sempre agevole valutare con sicurezza lo spessore didattico riservato agli argomenti via via annotati. Ma, in pari tempo si è constatato che il particolare «taglio» dato agli argomenti stessi consentiva di individuare il tipo di impostazione che il problema assumeva nello svolgimento generale del programma. D'altronde la crescente richiesta di rigore e serietà di studi, che caratterizza la scuola liceale, la disponibilità e preparazione professionale e culturale dei docenti hanno avuto un puntuale riscontro anche nella compilazione degli atti ufficiali ad essa pertinenti. In due soli casi, su 20 esaminati, la Resistenza e la guerra di liberazione non hanno trovato spazio nella registrazione del programma svolto (una volta, invero, per mancata ultimazione del programma ministeriale da parte di un insegnante supplente). Si è, però, dovuto anche rilevare che l'attenzione dei docenti si è appuntata quasi esclusivamente sulla prima tematica, mentre la seconda, evidenziata in un solo caso, sembra essere stata intesa riduttivamente come fase conclusiva della prima e appartenente, quindi, al momento insurrezionale vero e proprio. In tal senso si spiega forse la mancanza assoluta di ogni accenno al contributo dato dalle forze armate italiane alla guerra di liberazione, sia sotto il profilo della cobelligeranza che sotto quello della partecipazione diretta alla Resistenza (8). Questa, poi, viene considerata quasi emblematicamente sotto l'aspetto della partecipazione popolare attiva alla lotta armata contro le truppe tedesche di occupazione ed i fascisti della repubblica di Salò, lascian-


172

GIUSEPPE GRISERI

do in ombra l'opposizione passiva dei seicentomila ex-soldati internati nef campi di concentramento. In un solo caso il docente ha dedicato una lezione scolastica all'argomento degli internati italiani in Germania, facendola correttamente seguire da una seconda sulla · guerra partigiana. Per altro, nel modo concreto di affrontare sul piano didattico il problema delJa Resistenza si possono intravvedere due tendenze fra i docenti della scuola liceale. La prima, che è seguita dalla maggioranza, è incline a proiettare la spiegazione del movimento resistenziale italiano nel più vasto orizzonte europeo, dove ovviamente vengono ad attenuarsi le connotazioni politiche e partitiche del movimento stesso e l'apporto dato da questo alla liberazione del paese risulta strategicamente meno rilevante e decisivo. La seconda tendenza, costituita da una minoranza esigua di docenti, propende a valutare gli avvenimenti che hanno preceduto e seguito il conflitto mondiale secondo una prospettiva· più accentuatamente nazionale ed è quindi indotta a definire quantitativamente l'apporto delle singole forze politiche antifasciste alla lotta resistenziale e a considerare determinante il contributo da esse dato dalla guerra partigiana alla liberazione del paese. Una parziale convergenza di intenti si riscontra, invece, allorché, sulla scorta delle indicazioni del program- · ma ministeriale, si cerca di spiegare il carattere unitario della Resistenza e il ruolo svolto da questa per la formazione dello Stato democratico e repubblicano. In molti casi viene posto in conveniente risalto il nesso storico esistente fra lo spirito animatore della Resistenza ed i principi informatori della Carta Costituzionale. Altre volte non si può escludere che il collegamento sia stato in qualche modo evidenziato, essendo state anteposte cronologicamente le lezioni sulla Resistenza a quelle di educazione civica attinenti alla Costituzione e alla sua genesi storica. Infine, non sarà del tutto fuor di luogo ricordare che un docente ha creduto opportuno evidenziare per due anni consecutivi, oltre al legame fra Costituzione e Resistenza, anche l'intesa che si è stabilita fra i partiti antifascisti durante il periodo della lotta armata e che si sarebbe protratta in tempi più recenti sino all'ipotesi del <<compromesso storico». Ma se la scuola liceale tende ad adempiere in misura abbastanza soddisfacente la funzione informativa sulla storia contemporanea, un diverso giudizio si deve dare per quanto attiene all'acquisizione di un metodo critico nello studio della stessa materia da parte degli alunni. In effetti, il docente si limita per lo più ad offrire, o anche solo a suggerire genericamente, ai giovani la lettura di pagine


RESISTENZA E GUERRA D I LIBERAZIONE NELL'INSEGNAMENTO: UN'INDAGINE

173

critiche, senza preoccuparsi di fornire preventivamente ad essi un' accettabile sistemazione metodologico-critica delle questioni e dei problemi via via affrontati. E per quanto riguarda le tematiche in discussione, ci si trova a constatare che, nonostante la stanchezza diffusa per le rituali celebrazioni commemorative, soltanto di recente (a. s. 1983-84) un insegnante di liceo si è accinto a presentare ai giovani l'argomento della Resistenza in termini di problema storiografico da affrontare e discutere. Negli istituti magistrali, com'è noto, l'insegnamento della storia contemporanea tende ad assumere contorni critici ancora più sfumati che nella scuola liceale. È pur vero che gli argomenti fissati dal programma ministeriale sono pressocchè identici a quelli previsti per i licei, ma nella premessa si prescrive che «la narrazione dei fatti essenziali, che costituiscono la trama esteriore delle vicende storiche, dovrà essere ridotta allo stretto necessario ...». Sicché anche sul piano meramente informativo l'insegnamento spesso si presenta carente. In effetti, i docenti si limitano ad annotare gli argomenti delle lezioni seguendo il criterio di una elencazione molto generica, che lascia facilmente trasparire un interesse non rilevante per la discussione o anche solo per la spiegazione ragionata dei «fatti» presi in esame. In particolare, poi, per quanto riguarda la Resistenza, questa viene ancora descritta come un movimento a carattere europeo, ma in una prospettiva storica di limitata attenzione per quegli avvenimenti che non hanno avuto una diretta ed immediata incidenza sulle vicende della comunità nazionale. Accade pure di incontrare una promettente annotazione, come «Valore e spirito della Resistenza», inserita in un contesto di lezioni esplicitamente rivolte a passare in rassegna i «principali fatti della seconda guerra mondiale»; sicché diventa difficile pensare ad uno svolgimento diverso da quello meramente rettorico-celebrativo. Ad un altro docente non sembra che sia sfuggita l'importanza del nesso storico ResistenzaCostituzione repubblicana, che è stato da lui richiamato esplicitamente anche nel settore dell'educazione civica. Si tratta, però, di un caso isolato. La maggiore attenzione rivolta alle vicende nazionali porta ad indicare tematiche particolari, come «La repubblica di Salò». «Dei partigiani», «Il vento del Nord», ma il loro affastellamento nell'ambito di una sola lezione con altri argomenti assai impegnativi («Il ricostituirsi dei partiti antifascisti in Italia e la Resistenza, testimonianze. La repubblica di Salò, la liberazione e la fine della guerra») non può che far pensare ad un fuggevole cenno.


174

GIUSEl>PE GRISRRI

Talvolta si giunge a delineare la Resistenza come vento verificatosi all'interno della seconda guerra mondiale, con un'annotazione altrettanto frettolosa: «La seconda guerra mondiale dopo il 1943. Le organizzazioni clandestine. La fine della guerra. La caduta del fascismo e il C.L.N.». Una novità, infine, sembra affiorare rispetto alle risultanze della scuola liceale: l'ipotesi di uno studio interdisciplinare, indicata nel programma ministeriale in correlazione all'insegnamento parallelo di geografia, ha suggerito ad un docente l'opportunità di stabilire un più stretto legame fra storia letteraria e storia politica. La scelta è caduta su un autore che ha avuto, fra l'altro, il merito indiscutibile di presentare forse per primo un'immagine smitizzata della Resistenza: Beppe Fenoglio. Istruzione temica. - È forse il settore della scuola secondaria superiore in cui l'insegnamento della storia in generale e di quella contemporanea in particolare risulta più carente anche sul piano dell'informazione. La sproporzione fra l'ampiezza del programma da svolgere e il numero delle ore di lezione assegnate a tal fine dall'orario ufficiale è più rilevante che in altre scuole (2 ore settimanali comprensive dell'insegnamento di educazione civica) e costituisce già di per sé un gravissimo ostacolo ad una corretta impostazione del lavoro didattico. A darne conferma sta il fatto che in 12 casi, su 52 esaminati per la presente indagine conoscitiva, l'insegnante non è riuscito ad ultimare il programma. Le falcidie sono assai gravi: in talune classi l'insegnamento della storia contemporanea si è arrestato all'età crispina, in altre alla prima guerra mondiale. 1n questa situazione didattica, la tematica della Resistenza viene considerata spesso marginale rispetto alla mole del programma da svolgere. In 21 casi su 52 non è stata effettuata in proposito, per quanto risulta dagli atti ufficiali della scuola, alcuna specifica trattazione da parte dell'insegnante. In soli 4 casi il tema della Resistenza è stato indicato come argomento esclusivo per una intera lezione. In altri 15 compare affiancato ad argomenti di notevole rilevanza (seconda guerra mondiale, caduta del fascismo, conclusione del conflitto mondiale, ricostruzione del paese). Una sola volta si fa cenno alla lotta di liberazione come fase conclusiva della Resistenza; più spesso il problema della Resistenza è proiettato in un orizzonte europeo. In un caso si fa coincidere la Resistenza con la guerra partigiana, in un altro è evidenziato il nesso fra Resistenza e Costituzione. Talvolta si vuole distinguere tra movimento partigiano e lotta di Resistenza, e ambedue i fatti sono presentati come eventi successivi


RESISTE.~ E GUERRA DI LIBERAZION E NELL'INSEGNA MENTO: UN'INDAGINE

175

alla formazione della Repubblica di Salò. Un simile criterio non può non stupire in una provincia dove il movimento partigiano, com'è noto, si è organizzato sin dai primi giorni dell'occupazione tedesca e con largo anticipo sulla data di proclamazione della repubblica di Salò. In due classi, infine, la tematica della Resistenza è stata studiata anche nell'ambito della storia letteraria, con un riferimento esplicito all'opera di Beppe Fenoglio. Da tanta varietà di comportamenti didattici appare difficile desumere alcune linee direttrici per definire l'orientamento critico dei docenti. Si può unicamente precisare che la metodologia prevalente è quella di un'esposizione dei fatti in forma narrativa, senza pervenire ad approfondimenti critici. Istruzione professionale. - I programmi ministeriali, ispiraci ad un modello didattico globale, prevedono lo studio della storia contemporanea nell'ambito deJJ'insegnamento di cultura generale. E nella indicazione dei contenuti le tematiche della Resistenza, della lotta di liberazione e della form azione della Repubblica appaiono collocate in una posizjone centrale, in guisa da costituire quasi il punto di riferimento obbligato di tutto il programma deJJ'insegnamento di cultura generale. La ripartizione degli argomenti è demandata all'insegnante, che ogni anno deve aJl'uopo compilare il suo piano didattico. Questa condizione di accentuata autonomia didattica induce naturalmente i docenti ad impostare in modo assai diversificato gli uni dagli altri il loro lavoro scolastico. Non è, tuttavia, difficile rilevare in proposito delle linee di tendenza abbastanza definite. Alcuni di essi, ancora legati alla tradizionale suddivisione delle materie, la riproducono fedelmente anche nella ripartizione del loro programma. In tal modo i «fatti» vengono presentati secondo la loro rigida successione cronologica e lo spazio didattico riservato alle tematiche della Resistenza e della guerra di liberazione sembra proporzionate alla reale importanza che esse rivestono nei ristretti confini della storia nazionale. E per rispettare coerentemente tali proporzioni, il docente non oltrepassa quasi mai l'orizzonte storico-politico nazionale. La Resistenza e la guerra di liberazione vengono quindi ad assumere urta rilevanza storico-politica quasi esclusivamente italiana. Un altro gruppo di docenti, incline a fruire di un più ampio spazio di libertà e di autonomia operativa nello svolgimento dell'attività didattica, si presenta orientate ad impegnare l'alunno in quel-


176

G IUSEPPE GRISERI

lo che, almeno apparentemente, potrebbe definirsi come «lavoro storico». La tematica della Resistenza diventa, quindi, argomento centrale dell'attività didattica. In parecchi casi viene addirittura anticipato nel programma didattico del primo anno, per poi trovare un notevole ampliamento nel secondo. Nello stesso tempo essa non è più considerato soltanto sotto il risvolto storico-politico-militare, ma tende a trasformarsi in elemento costitutivo ed essenziale della civiltà contemporanea. A tal fine l'insegnante cerca di porre l'alunno davanti ad una molteplicità di documenti, tra i quali, per ovvie ragioni di maggiore disponibilità, prevalgono i testi letterari. L'ambizione del docente è quella di costringere l'alunno a formarsi un proprio giudizio sugli avvenimenti storici studiati. E per sollecitare ulteriormente tale processo di maturazione scientifica nell'alunno, lo si invita a compilare questionari sui libri letti, sui documenti avuti in visione, sulle testimonianze raccolte e a svolgere vere e proprie esercitazioni scolastiche idonee a far comprendere il significato storico degli avvenimenti studiati. In tal modo la tematica in questione può essere esaminata in una molteplicità di aspetti, prima negletti o non sufficientemente conosciuti: campi di concentramento, persecuzioni politiche e razziali, resistenza passiva, non collaborazione con il nemico. Il rischio di un lavoro didattico di tal genere è dovuto al prevalente uso di testi letterari rispetto ad altri documenti storicamente significativi. L'immagine della Resistenza che viene presentata ai giovani è indubbiamente allettante. Essa, però, acquista i contorni di un lavoro di carattere artistico-letterario, esteticamente fruibile, ma lontano dalla complessità problematica della storiografia. Ed è come se si volesse studiare la storia del sec. XVIII attraverso la lettura de «I Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni. Didatticamente più equilibrata e più profittevole ai fini della formazione critica della personalità degli alunni ci pare, pertanto, la posizione di un terzo gruppo di docenti che, pur non tralasciando di presentare o suggerire ai giovani la lettura di opere letterarie ispirate al movimento resistenziale, fanno precedere tale intervento didattico da una lezione di carattere storico-critico sullo stesso periodo, utilizzando all'uopo alcune pagine di autorevoli studiosi della Resistenza stessa e verificandone l'attendibilità con il sussidio di documenti riguardanti yicende localmente vissute in quel periodo. Ma, pur con i limiti sopra esposti, appare fuor di dubbio che la scuola professionale resta quella che, stando ai vigenti programmi ministeriali, sembra poter offrire più ampi spazi didattici per lo stu-


RESISTENZA E GUERRA DI UOERAZIONE NELL'INSEGNAM ENTO: UN'lNOAGlNE

177

dio della Resistenza, della guerra di liberazione e della formazione dello Stato democratico e repubblicano. Ciò non toglie, tuttavia, che anche presso questa scuola si incontrino docenti che ancora rifiutano sistematicamente di affrontare con gli alunni lo studio di tali tematiche. La loro presenza numerica all'interno delle scuole di istruzione tecnica e professionale raggiunge ancora la percenttuale del 20%. È un dato su cui occorre riflettere più seriamente di quanto sino ad oggi non sia avvenuto. Conclusione. - Gli esiti dell'indagine, sebbene quantitativamente limitati, sembrano offrire lo spunto per alcune considerazioni. In primo luogo si può facilmente rilevare la debolezza complessiva dell'insegnamento storico, soprattutto in riferimento alle tematiche prese in esame. E ciò può valere sia per i contenuti dell'informazione che per l'impostazione metodologico-critica dell'insegnamento stesso. Tale situazione è determinata principalmente dal mancato adeguamento dei programmi alle esigenze, spesso avvertite, d i una conoscenza contenutisticamente più ricca e criticamente più approfondita della storia contemporanea. È ormai riconosciuto da moltissimi docenti che, nei limiti orari fissati dal Ministero, non risulta possibile affrontare seriamente lo studio della storia contemporanea per un arco di tempo così vasto e denso di avvenimenti e di problemi quale è quello che si estende dalla Restaurazione postnapoleonica al secondo dopoguerra. Sarebbe auspicabile che per l'anno terminale dei corsi di istruzione secondaria superiore lo studio della storia contemporanea cominciasse dalJa proclamazione dell'unità nazionale, o meglio ancora, come avviene nella vicina Francia, procedesse dal primo conflitto mondiale per giungere sino ai giorni nostri (9). In secondo luogo occorre ammettere che, almeno per quanto si può desumere dalle annotazioni degli atti ufficiali, la formazione che i docenti hanno avuto per lo studio della disciplina in discussione è assai inadeguata, per non dire scarsa. Tale carenza, se in parte considerevole va ricondotta al tipo di reclutamento massiccio dei docenti stessi (avvenuto per molti anni ope legis e solo di recente in fase di superamento attraverso il ripristino di regolari concorsi per esami), per altro verso chiama in causa anche la scarsa produttività culturale e formativa dei corsi di aggiornamento, almeno nella forma in cui vengono attualmente organizzati. Il problema della formazione degli insegnanti va posto alla base di ogni serio e realistico disegno riformatore della scuola secondaria superiore. Sugli obiettivi ed i modi di quest'insegnamento


178

GIUSEPPE GRISERI

sembra gravitare oggi m Italia, come fa rilevare Serafina Fanelli, «una serie di attese formative di carattere generale, specie sul piano dei comportamenti sociali e dei «valori» da trasmettere, spesso sovrapposte ed in certo modo confuse con le finalità formative intrinsecamente legate alla sua specificità disciplinare» (10). In effetti, il compito del docente, quando insegna la storia nella scuola, non consiste tanto nel descrivere una serie di fatti, quanto piuttosto nell'iniziare gli allievi a una particolare maniera di pensare ( 11 ).

NOTE (1) R. H. RAINERO, La g11erra di liberazione nella man11alistica scolastica: i testi di storia, nel presente volume, pp. 51 e 55. (2) Sulla provvisorietà delle valutazioni critiche attinenti alla storia contemporanea e sulla inevitabilità delle sue predizioni si veda W. H. BURSTON, La natura e l'insegnamento della storia contemporanea, in AA. VV., Str11tt11re e insegnamento della storia, Armando, Roma, 1973, p . 181 e ss. (3) R. H. RAINERO, La g11erra di liberazione ... , cit. (4) La mancanza di una normativa ufficiale in proposito ha costituito un grave ed inso rmontabile ostacolo per un'ulteriore prosecuzione dell'indagine, nonostante l'esplicito in vito alla collaborazione che, con tratto di squisita cortesia, il provveditore degli studi di Cuneo, dott. Claudio Martinelli, ha rivolto a tutti i presidi di sc uole secondarie superiore della provincia. Lo scrivente esprime il più vivo ringraziamento al provveditore Martinelli e ai presidi che hanno compreso il valore e l'utilità dell'indagine ed hanno collaborato, indirettamente, alla sua realizzazione. (5) Ministero della Pubblica Istruzione, Relazione del cwpo ispettivo mll'andamento dell'attività scolastica e dei relativi servizi. Anno scolastico 1982-83, in Supplemento al «Bollettino Ufficiale», parte Il, n. 27 - 28, 5 - I 2 luglio 1984, p. 245. (6) AA.VV., L'istruzione classica, scientifica e magistrale (a cura di R. Cammarata), Le Monnier, Firenze, 1985, p. 119. (7) R. H. RAINERO, La Resistenza e la g11erra di liberazione nei manuali, cit. (8) Si veda in proposito G. MASTROBUONO, Le Forze Ar111ate Italiane nella Resistenza e nella G11erra di Liberazione, Roma, Frosinone, Tip. Casamari, 1965. (9) S. FANELLI, Temi per 11n dibattito s11/l'insegnamento della storia: l'esperienza francese, ne «La ricerca», 15 gennaio 1985, p. 6. ( 1O) S. FANELLI, Temi per 11n dibattito s111/'insegnamento della storia, cit., p. 1. ( 11) W. H. BURSTON e D. THOM-PSON, Strutt11ra e insegnamento della storia, in AA.VV., op. cit., p. 7.


CONCLUSION I



PIE RLUIG I BERTINARIA

LA RIORGANIZZAZIONE DELLE FORZE ARMATE E LA LORO PARTECIPAZIONE ALLA CAMPAGNA D'ITALIA NELLA MANUALISTICA SCOLASTICA: UN DOVEROSO AGGIORNAMENTO CRITICO 1. Premessa Ho seguito con attenzione le relazioni svolte nel corso del convegno e il dibattito che ne è seguito. Quest'ultimo ha fatto affiorare ripetutamente concetti e valutazioni - ma meglio sarebbe dire: opinioni e pregiudizi - sul cui merito storiografico, sulla cui fondatezza, occorre soffermarsi a riflettere. Abbiamo dovuto constatare che una quota consist ente dell'informazione scolastica risponde a una visione retorica, irreale, degli eventi susseguitisi in Italia dal 1943 al 1945. In essa l'ideologia ha nettamente la meglio sull'analisi propriamente storiografica. Quando diciamo visione ideologica intendiamo l'impiego di criteri che antepongono e sovrappongono le opinioni dell'autore all'oggettività dei fatti e conducono a tacere gli uomini e gli eventi che non consentirebbero certe affermazioni e conclusio ni e, al tempo stesso, a enfatizzare, ingigantire, altri uomini ed eventi, creando nell'insieme un quadro distorto delle vicende di cui s'è parlato in questo convegno e che costituiscono l'oggetto stesso del Comitato storico "Forze Armate e guerra di liberazione". Dalle relazioni svolte in questi due giorni si ricava d'altra parte, senza possibilità di confutazione, l'assoluta insufficienza della manualistica scolastica per quanto concerne la riorganizzazione delle Forze Armate e il ruolo da esse svolto per la vittoria delle Nazioni Unite nell'ambito di una guerra europea e mondiale di cui la campagna d'Italia fu certo parte rilevante ma non determinante e, al tempo stesso, né isolata né prioritaria. In via preliminare auspichiamo pertanto che l'editoria scolastica compia un serio sforzo di revisione dei manuali in uso, introducendovi, ovunque manchi, un'informazione rispondente alla realtà storica. Tale adeguamento dovrebbe coinvolgere sia gli editori e gli


182

PIERLUIG I BERTINA RIA

autori dei testi e sia i singoli professori e i collegi docenti ai quali, sentiti i consigli di classe, anche con la partecipazione dei rappresentanti di allievi e genitori, è demandata l'adozione dei manuali. L'elevazione della manualistica a un livello accettabile di scientificità ci si presenta dunque quale processo assai complesso. Del resto è lecito attendersi che, perdurando il ritardo dell'editoria scolastica rispetto ai traguardi raggiunti dalla scienza storica più matura e accreditata, sorga una richiesta di cambiamento e di aggiornamento direttamente da parte dei destinatari dell'insegnamento, resi più avvertiti e critici dal volume d'informazioni offerto, al di fuori della scuola, da altre 'emittenti': la televisione e la stampa periodica, cui va riconosciuto il merito d'aver attuato un apprezzabile sforzo di documentazione e di dibattito sui diversi momenti (militari e politici) della campagna d'Italia in coincidenza col suo quarantennale. Alcune precisazioni ci paiono irrinunziabili e di esse contiamo si voglia tener conto nella manualistica scolastica futura. Vediamone i termini essenziali. Un aspetto della nostra partecipazione alla guerra è stato fino ad ora insufficientemente illuminato: quello delle attività degli organi centrali di Governo, del Comando Supremo e degli Stati Maggiori di Forza Armata, cioè del quadro politico e strategico della nostra partecipazione al conflitto, ivi compresa la cobelligeranza. Al riguardo dobbiamo premettere alcuni concetti da considerare assiomatici. A differenza di quanto avviene nel movimento resistenziale il quale è un fenomeno di partecipazione "dal basso" che trova motivazioni ed alimento diversi nei vari ambienti - l'Esercito, qualsiasi Esercito, pur avendo una larga distribuzione sul territorio e fra la popolazione, è una organizzazione fortemente "gerarchizzata" e complessa, che risponde solo ed essenzialmente ad impulsi del suo Centro. E cosl, se noi possiamo e dobbiamo attribuire al Centro le motivazioni prime di certe errate impostazioni dottrinali e strategiche della guerra 1940-43 o di certi avvenimenti dell'8 settembre, noi possiamo e dobbiamo attribuire anche al Centro successivo all'armistizio, ed agli uomini che vi operarono, buona parte del merito degli sforzi che vennero compiuti nel 1943-1945 per riorganizzare le Forze Armate ed assicurare una loro crescente e fruttuosa partecipazione alla campagna d'Italia. Si trattò, in verità, di un'attività che conseguì i risultati ormai noti, ma che dovette sopportare difficoltà immani e che merita di


LE FF.AA. NELLA MANUALISTICA: UN DOVE ROSO AGG IO RNA.M E'.\ITO CRITlCO

183

essere portata all'attenzione del Paese e della storia. Per troppo tempo, su questa attività e particolarmente attorno ad alcuni uomini, si è voluto fare della politica, ricorrendo a falsi silenzi e a disoneste retoriche. E ciò è avvenuto in modo particolare per t utti gli eventi del 1943-1 945 nei quali gli aspetti politici - o meglio le ripercussioni politiche degli eventi - sono andate spesso ben più al di là del loro effettivo peso miHtare. Cosl, per esempio, le storie della Resistenza hanno gonfiato oltre misura il numero dei partigiani e sottaciuto la partecipazione dei militari italiani tanto alla resistenza armata, dentro e fuori l'Italia, quanto, soprattutto, alla campagna che si concluse con la liberazione della penisola. D 'altra parte, si è spesso ecceduto anche nel sottolineare il peso della nostra partecipazione alla guerra - che ha avuto soprattutto significato morale - dimenticando di ricordare che la liberazione del Paese è stata operata dal XV Gruppo d'Armate Alleato.

2. La difficile ricostruzione de ll'Esercito Dopo l'armistizio, tutte le unità dell'Esercito Italiano - anche quelle stanziate nelle regioni evacuate dai Tedeschi e non ancora occupate dagli alleati - si vennero a trovare in condizioni disastrose. La loro efficienza operativa era scarsa; numerosi gli allontanamenti dei militari provenienti dalle regioni già liberate; negli altri, prevalenti i sentimenti di attesa demoralizzata e confusa, cui non corrispondeva alcuna pronta direttiva. Era venuta infaitti a mancare l'organizzazione di Comando, amministrativa, operativa e logistica centrale, ed anche quelle territoriali erano quasi del tutto assenti per le sopravvenute difficoltà nei collegamenti, nei movimenti, nei trasporti. Gli uomini dello Stato Maggiore, che in entità esigua vennero a trovarsi a Brindisi accanto al Governo Badoglio, sentirono immediatamente la necessità di riorganizzare l'Esercito e le Forze dell'ordine come una esigenza prioritaria per la sopravvivenza nazionale. Ma come fu scritto allora, "non bastava volere, il difficile era potere". Le difficoltà di ricostruzione sono imputabili a molteplici fattori: di ordine politico interno ed esterno; di carattere militare, strategico, tattico e logistico; di ordine morale.


184

PIE RL UIG I BE RTINARIA

Una breve sintesi: Fattori esterni di ordine politico e strategico-militare sono: - la mancanza di autonomia, poiché l'Italia era occupata dalle Armate alleate e tedesche; - la completa soggezione degli organi politici e militari alla Commissione Alleata di controllo per effetto della resa incondizionata e dell'accettazione delle clausole armistiziali, di estrema durezza nonostante le dichiarazioni di Quebec che ci invitavano alla guerra contro il Tedesco, ma non ci ponevano in condizioni pratiche di condurla. E questo soprattutto per la politica britannica, dettata dall'avversione di Eden verso l'Italia e dalla volontà di Londra di soddisfare le promesse fatte a Greci, Jugoslavi, Arabi ed Etiopici ed assicurarsi cosl un controllo assoluto del Mediterraneo e del Medio Oriente. In sostanza, quindi, quanto sarà compiuto nel 1943-45 dagli Italiani influirà ben poco sulle condizioni che ci saranno imposte nel Trattato di pace del 1O febbraio 194 7; - un ulteriore fattore determinante fu l'orientamento della strategia interalleata la quale - e qui essenzialmente per volontà statunitense - attribul sempre un carattere secondario alla campagna d'Italia. Carattere secondario che ancor più si accentuò dopo l'inizio di "Overlord" e di "Anvil", che determinarono il trasferimento nello scacchiere francese di cospicue forze alleate fin dalla presa di Roma provocando il fallimento dell'offensiva Alleata dell'autunno 1944 contro la linea Gotica. !fattori di ordine politico interno di ostacolo alla ricostruzione dell'Esercito sono soprattutto imputabili alla carente autorità governativa, posta in discussione sia dalle forze politiche ideologicamente orientate ad una palingenesi socialrivoluzionaria, sia da quegli uomini che ritenevano più conveniente una dissociazione della Monarchia dalle "colpe fasciste". E ciò finiva per demolire progressivamente il consenso al Governo e ne minava le possibilità di ricostruzione delle Forze Armate, specie nella gravissima situazione di vuoto giuridico-aministrativo e di carenza di uomini validi (epurazioni) e di risorse di ogni genere. Soltanto in questa prospettiva possono essere effettivamente valutati gli sforzi di riorganizzazione compiuti dall'Esercito, dalla Marina e dall'Aeronautica. I fattori di carattere militare che si ripercossero invece sulla possibilità di ricostruzione si riassumono essenzialmente neUa scarsa flessibilità dell'organizzazione militare alleata, che seguiva lineamenti operativi definiti con largo anticipo e agiva ancora secondo le


LE FF.AA. NELLA MANUALISTICA: UN DOVEROSO AGGIORNAMENTO CIUTJCO

185

esperienze belliche africane. Le condizioni invece poste dal territorio della penisola consentivano per contro a Comandi e Unità germaniche di far valere ancora la loro superiore capacità tattica. Per quanto concerne le unità italiane, va notato che una elevata percentuale di esse - le migliori - era dislocata in Corsica e in Sardegna e la sua disponibilità era subordinata alla possibilità di trasferirla nel continente; fatto a sua volta dipendente dalla volontà alleata e dall'assegnazione di naviglio. Le sole unità disponibili nel 1943 nell'Italia Meridionale erano le Divisioni binarie "Mantova", "Piceno" e "Legnano" (più le unità costiere sulle quali poco conto si poteva fare), le cui carenze erano ulteriormente accresciute sia dalle requisizioni alleate di automezzi, sia dall'impossibilità di disporre dei materiali catturatici dagli Alleati in Sicilia e in Africa Settentrionale. Se gravi e limitativi ai fini di ogni pronta ripresa erano i fattori politici e militari interni ed esterni, le condizioni morali delle Unità costituivano un ulteriore motivo di seria preoccupazione. Sebbene non si verificassero casi clamorosi di ammutinamento e rivolte, la diffusa demoralizzazione portava ad uno stato psicologico di scarsa disponibilità ed entusiasmo che poneva in difficoltà ogni iniziativa. Si manifestava la tendenza all'allontanamento arbitrario degli uomini residenti nei territori liberati o il mancato rientro da licenze e permessi. I problemi relativi al personale erano molteplici. Vale la pena di accennare a quello dei Quadri in servizio permanente effettivo sui quali doveva gravare lo sforzo riorganizzativo, legato non solo alla carenza quantitativa e qualitativa ma anche all'esigenza di epurazione del personale compromesso.

3. Le tappe della ricostruzione a) La situazione di partenza A fine settembre 1943 è così sintetizzata: - Organi Centrali: in riassetto uno Stato Maggiore ridotto. Inesistenti gli organi tecnico-amministrativi, che inizieranno a Lecce su basi scheletriche le loro attività soltanto a fine '43. - Comandi Territoriali e Operativi disponibili: - 7a Armata a Potenza con: IX Corpo d'Armata nelle Puglie D .f. "Piceno" e "Legnano" più 2 D. e 1 Battaglione costieri; XXXI C.A. in Calabria (D.f. "Mantova"+ 4 D. cost.);


186

PlERLUIGI BERTINARIA

- Comando FF.AA. Sardegna con XII e XXX C.A. (4 D.f. "Sabauda", "Calabria", "Bari" e "Nembo" - 3 D. e 2 B. cost.); - Comando FF.AA. Corsica con il VII C.A. (2 D.f. - "Cremona" e "Friuli" - e 2 D. cost.). I Cdi superiori a quelli cli D. furono presto disciolti e quelli cli C.A. trasformati in Cdi Militari Territoriali. Per la raccolta, l'assistenza e il reimpiego degli sbandati furono costituiti 4 campi cli riordinamento attraverso i quali passarono in 9 mesi oltre 40.000 uomini.

b) Il problema del personale L'E sercito - che nel maggio 1943 contava su 143.804 Ufficiali (dei quali circa il 10%in s.p.e.) e su quasi 2 milioni cli Sottufficiali e Truppa - alla fine del 1943 era ridotto a 420.000 uomini (22.385 U. e 396.630 SU. e soldati). Il numero degli U. in s.p.e. si riduceva a poco più cli 3.000. Soltanto 1. 565 U. e 151.S 75 SU. e soldati si trovavano nel continente e cli questi solo 50.000 inquadrati in unità prontamente impiegabili. 230.000 uomini erano in Sardegna e Sicilia e non potevano essere trasferiti se non con il beneplacito e con i mezzi degli Alleati. 31. 000 uomini erano rappresentati da Carabinieri e Guardia cli Finanza. La situazione del personale tenderà ancor più a deteriorarsi per il congedamento cli quello più anziano e per il grave fenomeno degli allontanamenti arbitrari. Modesto fu l'afflusso di volontari (750) o cli ex partigiani (2.000). La compagine delle unità - già erosa dal decadimento del morale e della disciplina - andò ancora più calando a causa del loro prevalente impiego quale manovalanza mal retribuita. Nella sostanza, comunque, le unità combattenti furono costituite con il personale migliore, quello che aderì volontariamente a essere impiegato. Ciò, in un certo senso, conferì a questi reparti una maggior solidità. È quindi da considerarsi un successo dei vertici militari di avere ottenuto dagli Alleati l'assenso alla costituzione di unità operative sempre più consistenti: dai 6.000 uomini del I Raggruppamento Motorizzato a fine '43, ai 25.000 del Corpo Italiano cli Liberazione a metà del '44, ai 57.000 dei Gruppi cli Combattimento nella primavera del '45. Altrettanto utile ed apprezzato fu l'apporto allo sforzo alleato delle nostre unità ausiliare, il numero dei cui militari passerà dai 15.000 a fine settembre 1943, ai 40.000 del mese dopo per arrivare ai 196.000 del 1945.


LE A-.AA. 'IELLA MM,LAUSTICA: 1.,;N DOVEROSO ACGIOR~AME1'TO C RITICO

187

Infine, circa 150.000 uomini furono impiegati per le esigenze nazionali di ricostruzione amministrativa e logistica, di sicurezza degli impianti e di ripristino dell'ordine pubblico. c) Gli organi dei Servizi e la situazione logistica Dice una testimonianza del tempo: "occorse ricostruire tutto daccapo o quasi" e, sempre citando un documento di allora: "l'alimentazione delle truppe fu resa molto difficile dalla mancanza di fonti di approvvigionamento, dalla scarsezza di risorse agricole, dal saccheggio dei magazzini, dalla deficienza dei trasporti e dalle interruzioni. Le razioni dovettero essere ridotte (specie il pane) e per la carne si dovette fare largo ricorso ai generi scatolati". E noi sappiamo come gli Alleati, in pratica, limitarono le possibilità di reimpiego consentendo un massimo di presenti alle armi corrispondente al numero delle razioni concesse (400.000). Parimenti disastrosa la situazione del vestiario e dell'equipaggiamento fino a che gli Alleati non consentirono - dapprima - il recupero di 200.000 serie di vestiario e 300.000 paia di scarpe dai magazzini già italiani della Sicilia e del Nord Africa e - successivamente - equipaggiarono con loro materiali le nostre unità cooperanti. d) La riorganizzazione dei Comandi e delle unità costituì sempre una in sistente contesa fra il Cdo italiano e quello alleato che tendeva a servirsi dei nostri uomini soltanto come lavoratori allo scopo di evitare che una partecipazione attiva alla guerra potesse indurre a maggior crediti politici futuri. Ricordiamo le tappe di questa riorganizzazione e della partecipazione alla campagna: - 14 e 15/ 9/ 43: direttive del C.S. per la "collaborazione con le truppe alleate" e per la "ricostruzione delle Grandi Unità"; - 28/ 9/ 43: nascita del I Raggruppamento Motorizzato; - 29/ 9/ 43: conferenza di Malta - concessione alleata a costituire Divisioni di élite; - 17/ 10/ 43: concessione della MMIA del solo I Rgpt. Mot. come unità combattente e di 10 Divisioni come truppe di retrovia. Richiesta invece di salmerie e "lavoratori"; novembre 43: cambio dei vertici alla gerarchia militare; - 8-16/ 12/43: azioni del I Rgpt. Mot. a Montelungo; - 6/ 2/44: consenso alleato a incrementare le nostre unità combattenti fino a 12.000 uomini;


188

PIERLUIGI BERT fNARIA

31/3-10/4/ 44: occupazione e difesa di Monte Marrone; 17/ 4/44: il I Rgpt. Mot. si trasforma in C.I.L.; 8/6-28/8/44: ciclo operativo del C.I.L. (30.000 uomini ottenuti con vari stratagemmi) dal fiume Pescara fino a Urbino-Peglio; - 15/8/44: autorizzazione, previo scioglimento del C.I.L., a costituire 6 Gruppi di Combattimento. (57.000 uomini armati ed equipaggiati dai britannici); - gennaio-aprile 45: entrata in linea dei Gr. Cbt. "Cremona", "Legnano", "Friuli" e "Folgore" e loro partecipazione all'offensiva finale. A ciò è da aggiungere, oltre al concorso delle Unità Ausiliarie, l'azione dello Stato Maggiore Generale per lo sviluppo del Movimento di Liberazione nei territori occupati. Una valutazione dell'apporto italiano alla Campagna d'Italia può identificarsi nel rapporto fra la proporzione delle nostre forze (400.000) rispetto a quelle Alleate del XV Gruppo di Armate (1,5 milioni). Si tratta di un quarto degli uomini impiegati e di un ottavo delle forze combattenti (57.000 contro 1/3 Alleato - rapporto linea/servizi). Questo dimostra che il contributo dell'Esercito Italiano è stato di una entità ben superiore a quello dei contingenti di tante altre nazionalità che hanno riscosso maggiori riconoscimenti. E non è poco. C'è però ancora da sottolineare un apporto indiretto; la sicurezza delle retrovie Alleate. Non un reparto né un uomo fu infatti impiegato dagli Alleati per garantire questa sicurezza. Se consideriamo le forze assorbite in altre situazioni e campagne dalle parti contendenti per tale esigenza se ne può trarre un ulteriore elemento altamente positivo.

4. Conclusioni

a) I fatti Alla luce delle valutazioni espresse appare incontrovertibile che la rinascita dell'Esercito, delle Forze Armate e - in ultima analisi - de!J'intera struttura di Governo e del Paese, è avvenuta attorno al nucleo di militari e di funzionari superstiti nel Sud con il superamento di infiniti ostacoli. La partecipazione alla campagna è segnata da tappe faticose che appaiono lente ed esigue - ma che trovano giustificazione nelle rpille difficoltà da superare, aggravate da una generale disaffezione del Paese e dei singoli verso i doveri militari.


LE FF.AA. 1''ELLA \ lA.'1UALISTICA; UN OOVl:.ROSO AGC IOR.'lru\!El,TO CRITICO

189

Questi uomini non trovarono nel Sud nemmeno queg]j stimoli costituiti nel Nord dalle prevaricazioni tedesche e dai richiamj alle armi della R.S.I., che alimentarono la reazione resistenziale. Il fenomeno degli allontanamenti arbitrari e delle diserzioni fu superato - anche se mai del tutto - soltanto attraverso l'entusiasmo e una pesante attività dei Comandi e dei Quadri. Ma soprattutto essenziale fu l'intenso addestramento che consentì l'amalgama di uomini di larga estrazjone e provenienza, nonché la coscienza della non più irrimediabile inferiorità dei mezzi e delle armi disponibili rispetto a quelli dell'avversario. È indubbio che l'adozione di nuove modalità addestrative costituisce forse il maggior apporto alleato che il nostro SM seppe accogliere ed adattare, così come la pronta diffusione di una nuova dottrina d'impiego, la ricostituzione di Scuole ed Enti addestrativi e la formazione di un grande numero di istruttori. Alla fine delle ostilità l'Esercito era una forza viva della nazione ed il suo contributo successivo - la ricostruzione di ponti stradali e ferroviari e le attività di sminamento che costarono ben 543 caduti - lo dimostrò. Né occorre ricordare l'impegno delle Forze dell'Ordine e dell'Esercito per la repressione del movimento separatista in Sicilia e per la lotta all'estendersi della criminalità di ogni tipo, specie nelle grandi aree metropoUtane. E questo in una situazione che non era ancora di autonomia decisionale e che vedeva la progressiva diminuzione della forza alle armi per la smobilitazione delle classi più anziane in assenza di quella coscrizione che inizierà soltanto a fine 1945.

* * * Nel quadro che abbiamo presentato - del tutto rispondente alla realtà degU eventi - va ribadito ancora una volta che ai fini della liberazione dell'Italia dall'occupazione nazista ebbe parte preminente il XV Gruppo di Armate Alleato (circa 1.500.000 uomini). Senza di esso l'esito della campagna d'Italia avrebbe avuto tutt'altro corso e l'occupazione nazista del Centro-Nord avrebbe sortito conseguenze tanto più luttuose per la popolazione. Le Forze Armate italiane e le formazion i partigiane operanti nel Centro-Nord (armate e fornite di danaro - va ricordato - soprattutto tramite aviolanci su indicazione delle 'missioni' anglo-americane e dei militari agli ordini del governo nazionale) svolsero certo un ruolo di 'comprimari' (soprattutto agli occhi della nostra storiografia) o di 'ottimi gregari' (nel giudizio


190

PI ERLUIGI BERTINA RIA

anglo-americano). Ed è altrettanto certo che attraverso il loro sacrificio le Nazioni Unite andarono gradatamente mutando opinione e atteggiamento nei confronti dell'Italia. Il grosso dello sforzo bellico contro i Tedeschi fu però sostenuto dagli Alleati, dai quali soli dipesero tempi e modi della campagna d'Italia e ai quali va quindi oggettivamente attribuito il merito precipuo della liberazione della penisola. Qualsiasi altra interpretazione può riuscire gratificante sotto il profilo celebrativo e nella rievocazione dell'encomiabile condotta tenuta dalla minoranza d'Italiani che operò nella lotta di liberazione, ma riuscirebbe gravemente distorta e lesiva della verità storica se giungesse ad attribuire ad altri la sconfitta dei nazisti. Va per contro riconosciuta e sottolineata - tanto per gli effetti bellici, quanto, e ancor più, nella prospettiva del dopoguerra - la centralità della 'cobelligeranza' deliberata dal governo nazionale e accolta dagli Alleati. Fu merito suo se, da nemico sconfitto, l'Italia poté figurare, sul piano dei fatti e in, minor misura, sotto il profilo giuridico, tra i Paesi concorrenti alla vittoria sul nazismo. Nella disamina dell'apporto italiano alJa vittoria deg]j Alleati la manualistica tende a privilegiare la 'resistenza' rispetto alla parte avuta dalle Forze Armate. Orbene, senza forzature polemiche, superflue e immotivate, va detto che tale opinione, per quanto diffusa e oggi pressoché scontata, oltreché storiograficamente inconsistente è del tutto inattendibile dal punto di vista degli eventi. La resistenza - va riconosciuto - sta nella lotta di liberazione come una parte nel tutto. Forze Armate e movimento partigiano, in altre parole, operarono certo in vista di un obiettivo comune: la sconfitta dei nazisti e dei loro alleati. Le une e l'altro agirono però secondo criteri la cui diversità va riconosciuta senza remore e reticenze. Anche dopo l'armistizio, con l'avvento della cobelligeranza e sino all'aprile 1945 le Forze Armate italiane ebbero i requisiti di un'organizzazione complessa, fortemente gerarchizzata e rispondente a impulsi "dall'alto", in funzione di un centro unitario di comando. Il loro sforzo bellico si realizzò quindi "alla luce del sole", secondo le regole proprie a tutti gli eserciti: con i vantaggi, ma anche con le inevitabili lentezze delle grandi macchine da guerra. Esse furono dunque altra cosa rispetto a un movimento partigiano prevalentemente alimentato "dal basso" (ma nel caso italiano non va dimenticato il decisivo apporto recato alla resistenza dai militari direttamente provenienti dalle Forze Armate regolari), libero non solo ma quasi tenuto a "colpire e sganciarsi", a seguire regole di "guerriglia" anziché di "guerra". Non si tratta, ben inteso, di una realtà inferiore; certo, ri-


LE FF.AA. NELLA MANUALISTICA: UN DOVEROSO AGGIORNAME!'.'TO CRITICO

191

spetto alle FF.AA., il movimento partigiano è - e doveva essere un'altra realtà. È dunque al 'centro unitario di comando' organizzatosi al Sud dopo l'armistizio e agli uomini alle sue dipendenze che va attribuito il merito degli sforzi compiuti per realizzare, malgrado le mille pastoie opposte dalla Missione Militare di Controllo Alleata, un complesso di forze armate capace di assicurare una crescente partecipa' zione italiana alla campagna di guerra. Va poi ricordato - sempre per correggere un pregiudizio largamente diffuso, pressoché dominante e tuttavia storicamente infondato - che alla radice della resistenza stessa si trovano innumerevoli uomini direttamente provenienti dalle file delle Forze Armate italiane: ufficiali in servizio permanente effettivo o giovani di fresco usciti dalle scuole militari e che certo anche di lì avevano tratto i valori trasfusi nella lotta di liberazione. Basterà, a conferma, scorrere la galleria delle più alte onorificenze al valor militare conferite ai caduti del Corpo Volontari della Libertà. Si tratta, in gran parte, di uomini che avevano alle spalle molti anni di onorevole servizio sotto le bandiere delle Forze Armate italiane e che, dopo 1'8 settembre, continuarono a distinguersi per abnegazione e patriottismo. Bastino, fra i molti, i nomi di Enrico Cordero di Montezemolo, Ignazio Vian e Giuseppe Perotti. b) Un auspicio Se al riguardo la manualistica scolastica è pressoché assente, va constatato ch'essa elude un altro aspetto fondamentale relativo alla nostra riorganizzazione militare: i gravi condizionamenti esercitati dalle autorità militari alleate sulla nostra volontà di riorganizzazione e di partecipazione armata allo sforzo per la liberazione della penisola. Troppe volte g!li "alleati" scordarono di averci accettati quaLi "cobelligeranti" e tornarono a mostrarsi essi stessi "occupanti": e non solo con la limitazione della sovranità effettiva del governo nazionale. Parimenti, si dimentica spesso il gravissimo disagio morale che, di conseguenza, vissero i militari italiani, determinati a battersi per la liberazione della Patria, anche sempre al di là del gradimento anglo-americano, ma ripetutamente e in vario modo ostacolati e impediti sì che gl'Italiani non potessero un giorno dire d'essersi liberati da sé. In un corretto panorama dell'apporto delle Forze Armate italiane alla vittoria delle Nazioni Unite e del prezzo pagato dai militari italiani per giungere alla sconfitta del nazismo va poi ricordata la


192

PlF.RI.U IG I BERTINARlA

sorte degli "internati" in Germania: altro capitolo solitamente taciuto dalla manualistica scolastica. Eppure, non dimentichiamolo, si trattò di circa 600.000 uomini, i quali, con scelta etica pressoché univoca e corale, rifiutarono di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, conseguendo due effetti di rilievo: da una parte depotenziarono il concorso 'repubblichino' alla difesa del Terzo Reich; dall'altra accentuarono la contrapposizione fra popolazione italiana (legata da vincoli familiari e d'affetto con gl'internati) e nazisti, in tal modo accelerandone il crollo e (ciò che anche conta) contribuendo in maniera determinante a eliminare qualsiasi forma di future reviviscenze nostalgiche, più di quanto potesse fare, invece, il ricordo della lunga prigionia dovuta sopportare dalle centinaia di migliaia degli altri militari i~ani trattenuti dalle Nazioni Unite sino al 1946 e oltre. I concetti precedentemente esposti - in forma inevitabilmente schematica - non intendono certo sminuire in alcun modo il merito inapprezzabile della resistenza armata, l'eroismo dei molti cittadini che coraggiosamente intrapresero la via della guerra partigiana, talora senz'alcuna preparazione bellica e senza mezzi, spesso incontrandovi aspri combattimenti, ferite, la morte stessa, senza poter contare sulle garanzie della divisa d'un esercito regolare. È però giusto celebrare la resistenza ricordando che la massima aspirazione dei suoi capi più lungimiranti fu di giungere a ottenere il riconoscimento del suo ruolo nell'ambito di una lotta di liberazione che vedeva le Forze Armate italiane schierate in armi accanto agli Alleati in veste di cobelligeranti: il che comportava anche una precisa configurazione del significato complessivo di quella lotta in vista della futura collocazione politica internazionale deU'ltalia. Si può condividere o meno l'esito infine conseguito dal corso della storia. Compito della scuola, però, non è certo di mutarlo, bensì di studiarlo secondo la reale sequenza degli eventi: senza remore, fraintendimenti, omissioni, reticenze, capovolgimenti di pesi e di ruoli, senza sostituire la storia con la retorica e la leggenda. Dobbiamo peraltro constatare - come appunto ci è occorso di fare nel convegno che qui si conclude - che a lungo la manualistica scolastica, se non proprio tradito, quanto meno ha velato l'oggettività della storia. el quarantennale della lotta di liberazione - che, ripetiamolo, vide in prima fila le Forze Armate italiane e comprese al suo interno il movimento partigiano - crediamo sia giusto attendersi uno sforzo di adeguamento alla storiografia scientifica, correttamente coincidente con la verità dei fatti.


I NTERVENTO



SALVATORE LOI

QUANTE LACUNE DA COLMARE! Mi occupo da tempo di testi scolastici di storia per una serie di circostanze. Anzitutto per essere stato insegnante di ruolo, ancorché di italiano e latino, nei licei, e quindi come padre di quattro figli che hanno seguito gli studi classici. E infine, ho dedicato una particolare attenzione a quei testi allorché ricevetti l'incarico di redigere per "Quadrante", rivista del Ministero Difesa, una serie di articoli rievocativi della partecipazione delle Forze Armate italiane alla guerra di ljberazione. Quegli articolj dovevano, negli intendimenti della Direzione della rivista essere diretti soprattutto ai giovani. P erché? Perché in essi si riscontra una conoscenza approssimativa e distorta, e sovente una totale ignoranza, degli eventi di guerra 1943-1945. Quale la ragione? ei testi scolastici, che sono per la gran massa dei cittadini il primo e spesso unico impatto conoscitivo con la nostra storia patria, gli avvenimenti di quel periodo sono descritti in maniera lacunosa e imprecisa. Ho consultato ottanta testi di storia adottati, nell'arco di dieci anni, nella sa elementare, nella 3a media e nella classe terminale degli istituti medi superiori. Ho rilevato che solo pochl riferiscono che nel 1943-1945 sul territorio italiano si fronteggiarono il formidabile XV Gruppo di Armate alleate e le forze germaniche occupanti. Raramente, e con sbrigativi accenni, si parla del concorso italiano allo sforzo alleato, con Unità combattenti (in numero minore di quelle che i nostri Comandi avevano offerto), con divisioni che svolsero compiti logistici imponenti e non scevri anch'essi di sacrifici di sangue, con operazioni dei nostri aviatori nei Balcani, con missioni di naviglio leggero della nostra Marina. Lo stesso emblematico sacrificio di Salvo D'Acquisto è taciuto in molti testi. In nessun testo poi si parla di un episodio che mi è grato ricordare in questa sede, la Scuola Sottufficiali dei Carabinieri, e in questa città, Firenze. Un episodio che nel 1944 ebbe a protagonisti, nella vicina Fiesole, militari dell'Arma - La Rocca, Marandola, Sbarretti - , che, degni emuli del D'Acquisto, fecero dono dei loro giovani anni per sottrarre alla rappresaglia numerosi innocenti.


196

SALVATORE 1..0 1

Insomma, questi Tucidide dei tempi moderni dimostrano di nutrire una scarsa simpatia per le nostre Forze Armate che, mai costituite da «soldati di ventura», sono sempre state espressione viva e genuina del nostro popolo. Concluderò con un corollario. Nei testi di storia si parla, ampiamente, delle persecuzioni razziali e dei genocidi avvenuti durante l'ultimo conflitto mondiale in diversi paesi occupati. Giustamente si pone in risalto la disumanità di quelle azioni, ma ingiustamente è taciuto il fatto che le truppe italiane occupanti, anche disattendendo le direttive del governo centrale, intervennero spesso «armata manu», contro gli alleati di allora, salvando un numero enorme di vite umane. È assurdo che non un solo storico abbia sentito il dovere, per esempio, di riportare nelle sue pagine, sovrabbondanti, pleonastiche e ripetitive, queste poche, significative righe che vi leggo, tratte dall'opera di Leon Poliakov e Jacques Sabille, come dire la più autorevole in tema rievocatorio di quelle tragiche vicende: <<Fu in Croazia che l'atteggiamento italiano di fronte alle persecuzioni razziali assunse per la prima volta il suo aspello. Quando Pavelié si stabilì a Zagabria, instaurò immediatamente un regime di terrore. Il terrore che la milizia e le bande us/asci diffondevano nel paese all'inizio dell'estate 1941 tra i serbi ortodossi e gli ebrei era interamente approvalo dalle autorità di occupazione naziste. Furono perpetrati terribili atti di sadica crudeltà. li capitolo ustasci scritto nell'estate del 1941 fu uno dei più raccapriccianti della seconda guerra mondiale, il che non è dir poco. L e truppe italiane reagirono immediatamente e spontaneamente a tanta bestialità. Quel periodo vive in un'aura leggendaria in cui il terribile incubo delle camere a gas e dei forni crematori è ripetutamente rischiaralo da una luce di eroismo e di umanità. L'opera di soccorso fu iniziata spontaneamente dai bassi ranghi, in seguito fu tollerata e spesso validamente approvala dalle maggiori autorità». Debbo soggiungere che al silenzio dei molti annalisti si oppone l'onesto riconoscimento che proviene da persone di alto prestigio. 11 prof. Elio Toaff, Rabbino capo della Comunità israelitica di Roma, mi ha scritto di recente: «Ho sempre ritenuto un dovere di coscienza ricordare quanto l'esercito italiano fece nel 1941 per aiutare gli ebrei perseguitati e per salvarli dai campi di sterminio. Purtroppo pochi vogliono ricordare quei tempi, quasi fosse inopportuno e poco conveniente mettere in risalto un episodio che viceversa si impose alla ammirazione di tuffi». Senza commenti.


INDICE


L'IMMAGINE DELLE FORZE ARMATE NELLA SCUOLA ITALIANA ERRATA - CORRIGE Pagina

Riga

22 .3.3 .34 49 60 63

3.3 27 4.3 23 6 17 24 10 23 15 30

64

65 67 70 75 104 107 115 116 135 137 143 148 154 155 156

25 7 11

5 23 38 18 27 36 6 31 28 40 2 5

5 6 + 12

158 159 163 165 170 174 178

19 7 10 17 27 29 10 28 1 20

Errata conflagazione altri ALDO D. MOLA letterario Legnami proprio verso un quegli scelte citp. 15. mperialista ol 40% Reistenza G. QUARZA aumentarne 210 l'intesa indubbitabilmente individuare tutti fronti vieve moderna utato scuola scuola mobilisce sove patrottismo Jovine carattere tondo amatissimo ne, sofferta serellc schioppio trasformare 1917 quando la Cento tutti vento superiore

Corrige conflagrazione altri) ALDO A. MOLA letteraria Legnani proprio un quelli scelte, cit. p. 15 imperialista il 40 % Resistenza G. QUAZZA aumentare 210) l'intensa indubitabilmente invidiare tutti i fronti vive moderno stato scuola mobile dove potriottismo Jovine: carattere corsivo e rientrare amantissimo ne sofferta sorelle schioppo trasformare, 1917 la cento tutte evento superiori


Programma del Convegno ALDO A. MOLA, Premessa

pag. »

5 7

»

15

»

51

»

77

»

87

PARTE PRIMA ALDO ALESSANDRO MOLA, L'Insegnamento della storia nell'ordinamento scolastico italiano (1859-1984) R OMAIN H. R AINERO, La guerra di liberazione nella manualistica scolastica: i testi di storia MINO MILANI, L'immagine delle Forze Armate nella manualistica scolastica: le antologie letterarie

PARTE SECONDA FRANCO CARDINI, L'uomo di guerra e l'uomo in guerra: note storico-antropologiche GIANO ACCAME, Sistema industriale e Forze Armate ANDREA F AVA, L'età contemporanea tra storiografia, divulgazione e memoria familiare e collettiva GIANNI OLIVA, La problematica militare nella didattica della scuola: il modello dell'Italia prefascista MARZIANO BRIGNOU, La memorialistica e la diaristica di guerra: testimonianze a confronto GIUSEPPE GRISERl, Resistenza e guerra di liberazione nell'insegnamento secondario superiore: un'indagine conoscitiva

» 103 »

111

» 153 » 163

» 169

CONCLUSIONI PTERLUIGI BERTINARIA, La riorganizzazione delle FF.AA. e la loro partecipazione alla campagna d'Italia nella manualistica scolastica: un doveroso aggiornamento critico

» 181

INTERVENTO SALv ATORE Lor, Quante lacune da colmare!

» 195


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.