LA GRANDE STORIA DELLA RESISTENZA 1943-48

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Published by arrangement with The Italian Literary Agency In copertina: Formazione partigiana in marcia in Val d'Ossola, 1945. © De Agostini Picture Library Progetto grafico: XxY studio © 2018, DeA Planeta Libri S.r.L. Prima edizione: aprile 2018 Prima edizione ebook: aprile 2018 L’editore, esperite le pratiche per acquisire i diritti relativi alla presente opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito.


Gianni Oliva

LA GRANDE STORIA DELLA RESISTENZA 1943-1948


Indice Introduzione PARTE PRIMA IL CROLLO DELL’ITALIA FASCISTA

1. L’ultima settimana del luglio 1943 2. La caduta del regime 3. Il governo dei quarantacinque giorni: la politica interna 4. Il governo dei quarantacinque giorni: la politica estera 5. L’annuncio dell’armistizio 6. La dissoluzione del Regio esercito 7. I Balcani e la Grecia 8. L’8 settembre della Regia marina PARTE SECONDA LA SCELTA

1. Le forze in campo 2. Il fronte resistenziale 3. La Repubblica sociale 4. Il Regno del Sud 5. Il Comitato di liberazione nazionale di Roma 6. La liberazione di Roma PARTE TERZA LA STAGIONE DELLA RESISTENZA

1. Sulla linea Gotica 2. L’espansione della guerriglia 3. La dimensione militare della Resistenza 4. La quotidianità partigiana 5. La dimensione politica della Resistenza PARTE QUARTA LA LIBERAZIONE


1. Il dibattito politico 2. Il proclama Alexander 3. L’aprile 1945 PARTE QUINTA LA RESA DEI CONTI

1. Il furore popolare 2. Violenza e guerra civile Conclusione Resistenza e costituzione Indice dei nomi Referenze fotografiche dell’inserto Inserto fotografico


Introduzione

Nonostante l’importanza cruciale, per il nostro paese, del biennio 19431945, non sono molte le storie della Resistenza che raccontano per intero il periodo nella complessità delle sue dinamiche e delle sue contraddizioni. Se si considera che tra monografie, testimonianze, storie locali, articoli su riviste specializzate, atti di convegni, autobiografie si contano decine di migliaia di lavori, stupisce che le sintesi si riducano a pochissimi titoli: il classico Storia della Resistenza di Roberto Battaglia, uscito nel 1953, che propone la visione comunista della lotta di liberazione come guerra di popolo; la Storia dell’Italia partigiana di Giorgio Bocca, edita nel 1966, che racconta i fatti storici con la vivacità dello stile giornalistico; e il più recente Storia della Resistenza in Italia di Santo Peli (2006), che riduce all’essenziale la ricostruzione degli avvenimenti, cogliendo con efficacia il costante intreccio tra scelte etiche, progetti politici e condizionamenti esterni.1* Questo volume prende il via dalle ricerche fatte per due pubblicazioni ormai fuori catalogo, I vinti e i liberati. 8 settembre 1943-25 aprile 1945, storia di due anni (Mondadori, 1994) e La resa dei conti. Aprile-maggio 1945 (Mondadori, 1999), rielaborate e aggiornate a fronte delle numerose ricerche storiografiche nel frattempo intervenute, e delle polemiche roventi che nell’ultimo quarto di secolo hanno attraversato la rappresentazione di quegli anni (basti pensare alle discussioni suscitate dal Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa). Il libro ha l’ambizione di ripercorrere quanto avvenuto nel biennio


fondante della nostra storia repubblicana in una forma approfondita e accessibile, organizzando in un “racconto storico” gli spunti disseminati in una bibliografia ricchissima. Histoire événementielle, dunque, rivolta a un pubblico composto non soltanto da specialisti, e perciò attenta a non dare per scontati i riferimenti necessari a una vera comprensione dei fatti. La raccolta in un unico saggio di due ricerche differenti nasce da una scelta precisa: la “grande storia della Resistenza” non finisce con la luce dell’insurrezione, ma si prolunga nelle ombre della resa dei conti di fine aprile-inizio maggio. Per sottrarre l’indagine storica alla polemica strumentale è fondamentale che non ci siano zone vietate o tabù: piazzale Loreto e la giustizia sommaria della primavera 1945 sono parte della storia di quegli anni, e proprio nell’ambito di quella storia trovano la loro spiegazione. Di qui l’idea di proporre questa sintesi, inedita nell’ampiezza dell’arco temporale preso in considerazione. Un rapido capitolo finale, infine, è dedicato al raccordo tra Resistenza e costituzione, con alcuni suggerimenti per comprendere il percorso di lungo periodo 1943-1948. La costituzione repubblicana è figlia, intellettualmente e moralmente, di una generazione transitata dalla dittatura alla democrazia attraverso il trauma della guerra e attraverso la rielaborazione dell’esperienza vissuta. Torino, 10 marzo 2018


1*

Oltre a questi titoli vanno ricordati: Renato Carli Ballola, Storia della Resistenza, Edizioni Avanti!, Milano-Roma 1957 e Id., La resistenza armata (1943-1945), Edizioni del Gallo, Milano 1965; Pietro Secchia, Filippo Frassati, Storia della Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1965; Charles F. Delzell, I nemici di Mussolini. Storia della Resistenza armata al regime fascista, Einaudi, Torino 1966 (n. ed. Castelvecchi, Roma 2013); Max Salvadori, Breve storia della Resistenza italiana, Vallecchi, Firenze 1974 (n. ed. Neri Pozza, Vicenza 2016).


PARTE PRIMA Il crollo dell’Italia fascista


1 L’ultima settimana del luglio 1943

L’Italia in piazza L’immagine che più comunemente si collega al 25 luglio è filtrata dalla rappresentazione letteraria: l’annuncio della caduta del regime assume i tratti di una festa liberatoria, un’emozione incredula che si trasforma via via in esplosione di entusiasmo e di fermento coinvolgendo tutta la popolazione della Penisola. Nella rielaborazione di Cesare Pavese, la notizia dell’esautoramento di Mussolini e della nomina di Badoglio a capo del governo scuote all’improvviso la grande città industriale stremata dai bombardamenti e dalla fame, e si diffonde in un rincorrersi fremente di voci, di richiami, di balli per le strade, di falò sulle colline: «Vennero le notizie. Fin dall’alba strepitarono le radio delle ville vicine: l’Egle ci chiamò in cortile; la gente scendeva in città parlando forte. L’Elvira bussò alla mia camera, e mi gridò attraverso la porta che la guerra era finita […]. Capivo adesso i clamori notturni. Tutti correvano a Torino. Dalle ville sbucavano facce e discorsi e gli occhi di tutti erano accesi, anche quelli preoccupati. Cominciò quella ridda di incontri, di parole, di gesti, d’incredibili speranze, che non doveva più cessare se non nel terrore e nel sangue. D’ora innanzi anche la solitudine, anche i boschi, avrebbero avuto un diverso sapore».1 In modo analogo Corrado Alvaro coglie l’emozione popolare per le vie di


Roma: «C’erano donne del popolo, quelle che soffrono tutta la vita, che erano vive e veramente felici per un giorno. Una, a Campo di Fiori, con un bandierone tricolore urlava, ed era veramente la libertà, qualcosa di luminoso, che saliva dalla sua sofferenza di povera donna. Una madre portava sulla strada un bambino in fasce, dicendo: “Voglio che respiri quest’aria!”».2 Nelle loro semplificazioni, le immagini letterarie colgono con efficacia un tratto caratterizzante del 25 luglio: la spontaneità delle prime reazioni popolari, che si sviluppano senza alcuna mediazione organizzativa. La gente scende in piazza naturalmente, tra la sorpresa e il giubilo, spinta dall’urgenza psicologica di confronto e di conferme. La notizia, affidata a due scarni comunicati redatti in linguaggio burocratico e trasmessi dalla radio alle 22.45, ha una forza dirompente e scuote la coscienza collettiva per inaugurare una forma di partecipazione assai diversa da quelle delle adunate di regime: le strade si riempiono di rumore, i crocchi si moltiplicano e diventano assembramenti,

gli

assembramenti

cortei.

All’ordine

geometrico

dell’inquadramento paramilitare subentra una confusione liberatoria nella quale si esprimono le energie soffocate dall’atmosfera di guerra e in cui la comunità riscopre una identità di gruppo solidale: «Il 25 luglio ci siamo ritrovati», come ha scritto Piero Calamandrei.3 Se sul piano letterario l’atmosfera di emozione è elemento in sé esplicativo, la ricostruzione storica deve invece individuare la pluralità di atteggiamenti che si possono cogliere all’interno della reazione popolare: ne risulta un quadro ben altrimenti articolato, lo “spaccato” di un’Italia da ricostruire, sospesa tra vecchie certezze e nuove sfide, dove il carattere di fondo della spontaneità diventa chiave di lettura per comprendere i sottintesi di un fenomeno storicamente straordinario proprio in quanto non mediato. Il primo tratto rilevante è la cornice di lealismo monarchico entro il quale


si sviluppano le manifestazioni. I rapporti delle autorità sottolineano dovunque l’adesione convinta alla scelta del re, il ricorrere di parole d’ordine a favore di Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dell’esercito, la comparsa di scritte patriottiche sui muri. Il questore di Torino segnala «un’ondata di entusiasmo seguita da manifestazioni inneggianti alla maestà del re e a casa Savoia»; quello di Napoli, «il giubilo della maggioranza dei cittadini» perché «a capo della vita politica nazionale è stato chiamato il maresciallo Badoglio»; il prefetto di Savona telegrafa che «la folla ha percorso le principali vie cittadine con in testa bandiera tricolore»; a Milano un membro di casa Savoia viene coinvolto da una manifestazione svoltasi sotto Palazzo Reale, dove «S.a.r. il conte di Torino, affacciatosi al balcone, ha rivolto alla folla brevi parole»; a Reggio Emilia, un corteo di operai esce dalle officine Reggiane con «bandiere tricolori e con cartelli riproducenti le effigi di sua maestà il re e del maresciallo Badoglio».4 Nell’immaginario collettivo, la caduta di Mussolini non rappresenta solo un fatto di politica interna, per quanto clamoroso e decisivo, ma la fine della guerra e di tutto quanto per tre anni essa ha rappresentato. «Sul mezzogiorno», ha scritto Paolo Monelli, «escono i primi reparti di forza pubblica e manifesti che invitano il popolo alla calma. Ma per dodici ore il popolo abbandonato a se stesso ha dimostrato un grande, un enorme, pacifico sollievo.»5 Di questo “pacifico sollievo” il re costituisce il garante: piuttosto che un atto rivoluzionario, la destituzione di Mussolini si presenta come un mutamento radicale di indirizzo interno e internazionale che si sviluppa entro una salda cornice di continuità dello Stato. La monarchia, che ha congedato chi ha voluto l’alleanza con la Germania nazista e la guerra, è elemento rassicurante di garanzia e di stabilità e permette il recupero di una dimensione di “patria” nel quale ritrovare l’identità nazionale, accomunando nord e sud, città e campagna in una stessa


emozione. Accanto alle manifestazioni di lealismo patriottico si registrano esplosioni di insofferenza popolare verso il passato regime, che spaziano dagli slogan contro il Duce, alla devastazione delle sedi del Fascio: lungi dall’elidersi, queste reazioni risultano complementari e ribadiscono il carattere di spontaneità delle manifestazioni di piazza del 25 luglio. La tipologia delle azioni descritte dalle autorità è ricorrente: all’interno dei cortei e degli assembramenti, gli «elementi più facinorosi e sovversivi» (il lessico è quello di funzionari che hanno costruito la loro carriera durate il Ventennio) indicano obiettivi concreti su cui indirizzarsi e ne derivano invasioni di sedi, distruzioni di simboli, roghi di materiale propagandistico, rimozioni di busti, di ritratti, di bandiere. A Roma, nella notte tra il 25 e il 26 luglio, tredici sedi del partito nazionalfascista vengono devastate e saccheggiate; a Torino gli obiettivi sono la Casa Littoria e la sede della “Gazzetta del Popolo”; a Milano il “covo” del Fascio primigenio del 1919. In altri casi (e sono i più numerosi) l’azione si limita alla distruzione delle effigi e a slogan di denuncia dei profitti illeciti (a Cosenza, per esempio, i manifestanti gridano «viva il re, abbasso Mussolini, abbasso i consumatori di prosciutto»). In alcuni piccoli centri del sud, all’invasione della Casa del Fascio si accompagnano la devastazione delle sedi comunali e la distruzione dei ruolini delle imposte e delle carte degli ammassi, a documento della stretta intollerabile esercitata dal regime economico di guerra sulle masse contadine del Mezzogiorno. Non è difficile scorgere in questo secondo aspetto delle manifestazioni una volontà prepolitica di rimuovere il passato e di sanzionare materialmente la fine del regime, che nella distruzione dei simboli trova una forma elementare di espressione. Nel loro porsi sul terreno dell’iniziativa e dell’azione violenta, queste reazioni presuppongono tuttavia un livello di


tensione che non è uniforme su tutto il territorio nazionale: alla determinazione dei grandi centri urbani del Centronord e di alcuni piccoli borghi agricoli del Mezzogiorno, corrisponde la relativa calma di altre aree. «Compostezza della popolazione» a Bari, «nessuna manifestazione lesiva dell’ordine pubblico» a Pavia, «operai regolarmente al lavoro» a Varese, «nessun incidente contro sedi del fascio» a L’Aquila. Il risultato è una mappa disomogenea, che rinvia ai contorni di un’Italia frastagliata, dove la realtà locale risulta determinante nel produrre attitudini e reazioni e nel trasferire l’emozione dal terreno dell’esultanza per la pace a quello dell’iniziativa contro il regime appena caduto. Questi tratti di irregolare distribuzione geografica emergono anche nelle iniziative che si pongono l’obiettivo mirato di liberare dal carcere i detenuti antifascisti e sottintendono una più meditata consapevolezza politica. In questo caso, il quadro si restringe ad alcuni centri urbani: a Roma «una folla di dimostranti raggiunge l’ingresso principale delle carceri di Regina Coeli per ottenere la liberazione dell’avvocato Comandini e di altri intellettuali arrestati per motivi politici»; l’opposizione del servizio d’ordine, il progressivo aumento dei manifestanti e le successive trattative con le autorità carcerarie creano una situazione di confusione sia a Regina Coeli sia al vicino reclusorio femminile delle Mantellate, di cui approfittano millequattrocento detenuti comuni per evadere (vale la pena ricordare che i politici, ritenendo imminente la loro liberazione, non partecipano alla fuga); analoga manifestazione si svolge a Torino davanti alle carceri Nuove, dove si registrano gravi incidenti con le forze dell’ordine e da dove evadono «oltre cinquecento detenuti per la maggior parte comuni». Cortei diretti alle carceri vengono organizzati anche a Milano, Reggio Emilia, Firenze, Ancona, pur senza esiti significativi.


Un ulteriore elemento di analisi riguarda la partecipazione alle manifestazioni di elementi politicizzati, capaci di dare spessore ideologico alla mobilitazione di piazza. A Venezia, in piazza San Marco, improvvisa un comizio dai tavoli del caffè Florian Armando Gavagnin, del Partito d’azione; a Milano parla in piazza Duomo il sindacalista comunista Giovanni Roveda; a Cuneo interviene Duccio Galimberti con un discorso vibrante in cui afferma che il nuovo nemico sono i tedeschi e che contro di loro va continuata la guerra. In altre realtà (Parma, Torino, Napoli) vengono distribuiti volantini in cui si chiede l’armistizio immediato e la costituzione di un governo con tutti i partiti. Queste presenze, se da un lato sottolineano l’immediato impegno di mobilitazione dei nuclei e delle personalità antifasciste, dall’altro non modificano i tratti di sostanziale spontaneità: benché significative, si tratta di scelte individuali e abbastanza casuali, come dimostra il fatto che una delle voci più propositive, quella ricordata di Duccio Galimberti, risuona a Cuneo, una «città prealpina socialmente tra le meno sovversive».6

La reazione dei fascisti Vittorio Emanuele III e la ristretta cerchia di collaboratori che hanno organizzato il colpo di stato (la definizione è ormai entrata nell’uso corrente perché l’operazione, pur formalmente costituzionale, implica dopotutto il rovesciamento di una dittatura ventennale) temono che la destituzione di Mussolini provochi la mobilitazione delle forze fasciste e per questo predispongono un piano dettagliato messo a punto da Carmine Senise, il capo della polizia esonerato dal Duce in aprile e reintegrato nelle sue funzioni dopo il 25 luglio: «1) fermo di Mussolini nello stesso palazzo Reale; 2) blocco immediato delle centrali telefoniche della presidenza del consiglio e


del ministero dell’Interno; 3) scioglimento del Partito nazionale fascista; 4) incorporazione della milizia nel Regio esercito; 5) militarizzazione, se necessario, delle guardie di pubblica sicurezza; 6) eventuale militarizzazione del personale ferroviario e postelegrafonico».7 Apparentemente, i timori non sono infondati. Tra fasci di combattimento, gruppi fascisti universitari, fasci femminili, Opera nazionale dopolavoro, Gioventù italiana del littorio e associazioni dipendenti, nell’estate 1943 ventiquattro milioni di italiani (oltre metà della popolazione totale) hanno una tessera ricollegabile al partito fascista. Al di là del numero dei tesserati, il regime dispone di una struttura armata, la milizia, che di fatto funziona come forza autonoma agli ordini del generale Enzo Emilio Galbiati; nelle vicinanze della capitale, inoltre, è stanziata la divisione M, un reparto scelto di grande affidabilità politica, costituito in primavera sul modello delle SS tedesche e fornito di trentasei carri da combattimento Tiger, pezzi di artiglieria di tipo più recente e armi automatiche. All’annuncio della destituzione di Mussolini, la reazione del PNF si rivela tuttavia di segno opposto a quello ipotizzabile. «Verso le cinque Scorza (segretario del PNF) convocò i vicesegretari nella sede centrale del partito a palazzo Wedekind in attesa dei risultati dell’udienza reale. Il tempo passava e non giungevano notizie. Scorza tentò di parlare al telefono con palazzo Venezia senza riuscirci e questo fu per lui il primo indizio che si era verificato qualcosa di anormale. Il panico si diffuse velocemente nel piccolo gruppo riunito.»8 Scorza si reca al comando dei carabinieri per avere notizie del Duce e qui riceve la comunicazione dal comandante generale Cerica che è stato emesso un ordine di cattura nei suoi confronti: lasciato libero sulla parola perché impartisca gli ordini necessari «affinché gli italiani non si scannino tra loro», egli abbandona il posto di responsabilità e va a cercare un


rifugio sicuro. Nel giro di poche ore, gli uffici di palazzo Wedekind e quelli di palazzo Braschi (sede della federazione romana) si svuotano e l’esercito può procedere a occuparli senza incontrare alcuna opposizione. La paralisi e l’incapacità di reagire si diffondono dalla capitale a tutto il paese: i dirigenti nazionali cercano rifugio nell’ambasciata germanica; i gerarchi piccoli e grandi della provincia vengono sopraffatti dallo smarrimento e dall’ansia di garantirsi la sicurezza personale; nessun ordine di mobilitazione viene diramato dalle federazioni provinciali. Come scrive l’ambasciatore tedesco a Roma, Hans Victor von Mackensen, «il partito fascista si reggeva su Mussolini e, come i fatti hanno dimostrato, è caduto con lui».9 L’incapacità di reazione del partito trova riscontro nell’immobilismo della milizia: «Galbiati rimase nella sede del comando generale in attesa di ricevere chiarimenti da Mussolini. Col passare del tempo, cresceva la tensione: da palazzo Venezia non rispondevano alle telefonate, i motociclisti inviati a villa Savoia riferivano di non aver scorto traccia della macchina del Duce ma di aver notato in città movimenti di truppa». Verso le 19.30, quando dal comandante della polizia Chierici giunge notizia delle dimissioni di Mussolini e del suo supposto confino alla Rocca delle Caminate, Galbiati impartisce a tutti i comandi della milizia l’ordine di evitare le provocazioni ma di reagire se assaliti: «Nelle due ore successive nell’ufficio di Galbiati si svolse un dialogo caotico cui parteciparono tutti, ufficiali del comando, militi, autisti e civili. Nell’eccitazione si parlò di una seconda marcia su Roma, ma nessuno prese decisioni. D’altro lato, si andavano attuando con ritmo crescente le contromisure dell’esercito e la piazza davanti al comando stesso era già occupata da carri armati».10 Poco dopo le 22.00, nell’incapacità di iniziativa autonoma, Galbiati decide di farsi da parte e messosi in contatto con il comandante supremo generale Vittorio Ambrosio rassegna le proprie


dimissioni dal comando della milizia. Se la crisi del regime è evidente da tempo, il repentino collasso della struttura denuncia un processo di decomposizione che sorprende i responsabili del colpo di stato e con loro gli stessi tedeschi. Come annota con disprezzo il colonnello Dollmann, rappresentante di Himmler a Roma, «fino alle nove di sera Mackensen e io aspettammo invano che fascisti entusiasti convenissero all’ambasciata per consigliarsi e procedere alla conquista di Roma alla testa della divisione ‘M’. Non spuntò un solo moschettiere, o commissario o agente, non spuntarono né Scorza, né Muti, né Vidussoni. Solo a tarda sera arrivò Farinacci, pallido in volto e tremante dalla paura: egli non desiderava altro che prendere il primo aeroplano in partenza per la Germania».11 Il caso più esemplare è la liquidazione della divisione M, oggetto di un piano di neutralizzazione predisposto dal comando supremo. Nella mattinata del 26 luglio, il temuto scontro si risolve in un accerchiamento senza spargimento di sangue e la divisione, dopo aver lasciato scorrere passivamente le ore successive all’arresto di Mussolini, si arrende alle forze dell’esercito regolare senza opporre resistenza. Il generale disorientamento dimostrato dai vertici del partito e dalla sua struttura militare si trasmette dal centro alla periferia: a Napoli il questore annota che «non si notano fra i fascisti che vivevano più vicini ai gerarchi segno alcuno di riscossa»; a Genova il comandante dei carabinieri scrive che «nessuno ormai porta più il distintivo fascista»; a Firenze il capo della pubblica sicurezza osserva che «gli squadristi, sorpresi dalla fulmineità degli avvenimenti, si sono sbandati e nessun cenno fa presumere propositi di rappresaglia e tanto meno di azioni violente». Sbandamento e smobilitazione non escludono, tuttavia, isolati episodi di resistenza, marginali sotto il profilo quantitativo ma che in sede storica vanno


comunque segnalati. Gli episodi di maggior gravità sono tre. Due si verificano a Roma: il primo in via Depretis, dove alcuni militi fascisti, asserragliati in una sede di partito, aprono il fuoco sulla folla e provocano due morti e quattro feriti prima di essere disarmati dalla truppa; il secondo alle pendici di Monte Mario, dove alcuni giovani fascisti militarizzati dei battaglioni di complemento dell’81° reggimento fanteria aprono il fuoco in direzione di reparti dell’esercito stanziati al Foro Mussolini, senza tuttavia fare vittime. L’incidente più grave si registra a Massalombarda, in provincia di Ravenna, dove un gruppo di squadristi si rifugia in una casa disabitata e apre il fuoco sui dimostranti, provocando cinque feriti; all’arrivo dei soldati, i fascisti continuano a sparare uccidendo un civile, sino a che i militari entrano in azione con un obice spianando l’edificio. In questi casi gli episodi assumono un rilievo maggiore perché implicano l’uso deliberato della forza in funzione eversiva, ma non sembrano tali da correggere il giudizio di fondo accreditato sin qui dalla storiografia: la destituzione e l’arresto di Mussolini determinano il collasso automatico del regime. Come dirà Hitler incontrando Mussolini dopo la liberazione dal Gran Sasso, ma che cos’era questo fascismo, che si è squagliato come neve al sole?

Le rappresaglie contro esponenti del regime Contrapposti a questi episodi di reazione armata, ci sono inseguimenti, pestaggi e tentativi di linciaggio di esponenti fascisti locali, figure prive di rilievo politico, che nella microdimensione del paese o del quartiere rappresentano il “potere” nell’immediatezza della sua arroganza. Mentre i gerarchi e gli uomini più in vista del regime cercano rifugi sicuri e non vengono coinvolti, singoli podestà invisi alla popolazione, militi usi a esibire


orbace e camicia nera, squadristi della prima ora con fez e distintivi sono raggiunti dalla rabbia di singoli gruppi di manifestanti: frutto della tensione del momento e di rancori accumulati nel tempo, questi episodi sono segnalati dalle autorità di polizia. A Torino un milite universitario è ucciso presso la Casa Littoria, a Forlì è gravemente ferito il direttore amministrativo dell’ospedale, aggressioni a fascisti avvengono a Milano, Roma, Firenze, Pistoia, Bari, Catanzaro. Nell’insieme, si tratta di reazioni contenute, la cui mappa non coincide con la temperatura delle tensioni sociali nel Paese. Il questore di una città a forte presenza operaia come Torino può, così, parlare di «casi sporadici» di violenza contro i rappresentanti del PNF e quello di Firenze di «incidenti non gravi» che «si riducono a una cinquantina di feriti lievi in seguito a percosse». Le stesse fonti della destra sociale, che sin dall’immediato dopoguerra denunciano la resa dei conti della primavera 1945, fanno solo sporadici cenni alle violenze dell’estate 1943, rinviandole a dinamiche locali e quantificandole in una decina di vittime.12 Entro il duplice quadro generale della mobilitazione di piazza a sostegno della scelta del re e dello sgretolamento istantaneo del PNF, il colpo di stato del 25 luglio presenta, così, un tratto rimarchevole: il carattere controllato delle rappresaglie, i confini di “educato furore” entro cui si sviluppano le manifestazioni popolari. Come scrive Paolo Monelli a proposito delle reazioni a Roma, «si dà l’assalto alla casa di Volpi in via del Quirinale, si dà la caccia a qualche noto agitatore fascista; ma si saprà poi che mai ribaltamento politico è avvenuto con maggiore calma, nessuno è stato ucciso, pochi sono stati i gesti di violenza, molti sono stati soltanto raccontati e questo è bastato all’educato furore della folla».13 Le spiegazioni del fenomeno possono essere diverse: il carattere improvviso e liberatorio con cui il colpo di stato viene percepito dalla


popolazione, tale da creare una condizione psicologica dove l’entusiasmo per il presente e l’ottimismo per il futuro prevalgono sulla volontà di rivalsa sul passato; la cornice di continuità dello stato garantita dalla decisione del re e la contemporanea assenza di un tessuto organizzativo capace di imprimere un carattere rivoluzionario al trapasso di poteri; lo sgretolamento completo del PNF e delle sue strutture e la conseguente mancanza di una controparte contro

cui scaricare le tensioni; il sottofondo di stanchezza e di passività rassegnata prodotto da tre anni di guerra, che non inibisce l’euforia del momento ma impedisce confronti altrimenti impegnativi. Certo è che all’annuncio della caduta di Mussolini l’Italia non viene attraversata dai lampi della guerra civile e nello spontaneo manifestare della popolazione in piazza l’ottimismo liberatorio risulta prevalente sugli aspetti conflittuali: «Così inebriante fu il dono improvviso della libertà che si visse nelle prime ore succedute al 25 luglio come in un sogno, come se un colpo di vento impetuoso avesse spazzato via tutti i ricordi del passato».

La mobilitazione operaia La sera del 25 luglio Carmine Senise, reinsediato dal re e da Badoglio al comando della polizia, manda un fonogramma perentorio ai questori in cui raccomanda che l’ordine pubblico non sia turbato e che «ove occorra si provveda fermo quegli elementi fascisti e squadristi capaci anche fine patriottico turbare ordine pubblico». Due giorni dopo, quando il timore di una reazione fascista è ormai superato, segue un nuovo telegramma, indirizzato questa volta ai prefetti: «Attuali agitazioni assumono qua e là tendenza comunista. Masse operaie intenderebbero secondo notizie fiduciarie prossima notte oppure notti successive occupare mano armata edifici pubblici. Pregasi


prendere opportuni accordi con autorità militare per stroncare con qualsiasi mezzo eventuali tentativi del genere».14 A loro volta i militari ricevono una circolare in undici punti del generale Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito, che impartisce disposizioni di estrema rigidità: «1) nella situazione attuale […] qualunque perturbamento dell’ordine pubblico costituisce tradimento […] e può condurre a conseguenze gravissime: qualunque pietà e qualunque riguardo nella repressione sarebbe pertanto delitto; 2) poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito […]; 6) non è ammesso il tiro in aria, si tira sempre a colpire come in combattimento […]; 10) il militare che, impiegato in servizio di ordine pubblico, compia il minimo gesto di solidarietà con i perturbatori dell’ordine, aut si ribelli, aut non obbedisca agli ordini, venga immediatamente passato per le armi». Che cosa è accaduto in quarantott’ore per giustificare il passaggio dalla dittatura politica alla dittatura militare e per sostituire il timore di un’eversione fascista con una paura di segno opposto? La spiegazione sta nel fatto che gli entusiasmi di piazza del 25 luglio si basano su un equivoco: se per la popolazione la caduta di Mussolini significa la fine della guerra, per Vittorio Emanuele III e il gruppo dirigente raccolto attorno a lui significa lo sganciamento della corona dalle responsabilità del regime in funzione di una restaurazione monarchica. Il famoso comunicato radio delle 22.45 è infatti seguito da due proclami, preparati dall’anziano esponente liberale Vittorio Emanuele Orlando: il primo, firmato dal re, è generico e si limita ad annunciare che il sovrano assume il comando di tutte le forze armate, avvertendo che non sono tollerabili né “deviazioni”, né “recriminazioni”; il secondo, firmato da Badoglio, traccia invece il programma per l’immediato futuro, dicendo «la guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue


province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le fila intorno a S.M. il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio a tutti». Nell’atmosfera liberatoria seguita al comunicato radio, l’annunciata continuità della situazione militare passa pressoché inavvertita e negli slogan di piazza la legittimazione di Vittorio Emanuele e di Badoglio trova la sua ragion d’essere proprio nella prospettiva della pace. Dovunque, nelle parole d’ordine, nelle scritte sui muri, nelle esclamazioni, l’esultanza patriottica procede dall’identificazione tra il regime e la guerra e si ispira all’idea della cessazione del conflitto come conseguenza naturale della scelta operata dal sovrano. Tra l’indicazione del proclama Badoglio “la guerra continua” e gli spontanei assembramenti di piazza del 25-26 luglio c’è, dunque, tutta intera la distanza che separa i voti popolari dalle scelte di vertice, e la distanza non tarda a trasformarsi in scontro aperto. A partire dal pomeriggio del 26, le manifestazioni assumono tratti diversi da quelli iniziali e propongono una geografia più corrispondente alle caratterizzazioni sociali del paese. Nelle regioni meridionali, in Veneto e in genere nei centri di provincia, esse tendono ad attenuarsi sino a scomparire quasi del tutto nella giornata del 27: con la sola eccezione di Bari, alla mobilitazione segue la progressiva normalizzazione della vita pubblica senza interventi repressivi da parte delle forze dell’ordine. Nei centri industriali del nord e nell’area tosco-emiliana si verifica invece una prosecuzione delle agitazioni, dove i protagonisti sono i lavoratori delle fabbriche. A Milano l’astensione dal lavoro è pressoché generale già il 26 e continua compatta sino al 28, accompagnata da quella dei trasporti pubblici; in Liguria, il fenomeno coinvolge il 27 l’area genovese, da Sampierdarena a Bolzaneto, per proseguire il giorno successivo con forme di agitazione all’interno degli


stabilimenti; in Emilia si mobilitano le maestranze di Reggio Emilia, Forlì, Modena, Bologna; in Toscana, quelle di Firenze, Piombino, Rosignano Solvay, Pisa, Arezzo, Pistoia. La pressione più incisiva si registra a Torino, dove l’astensione dal lavoro prosegue sino al 29 luglio, sostenuta dalla mobilitazione delle “barriere” operaie. In questi movimenti confluiscono motivazioni diverse. La richiesta della pace immediata, che funge da denominatore comune, si mescola a rivendicazioni di carattere salariale (aumento delle razioni viveri e delle retribuzioni) e a richieste apertamente politiche: la cacciata dei reparti tedeschi, la liberazione dei detenuti politici (in particolare degli operai arrestati durante gli scioperi del marzo precedente), l’allontanamento delle truppe poste a presidio degli edifici industriali. Anche in queste manifestazioni il carattere della spontaneità prevale su quello dell’organizzazione: la disponibilità alla mobilitazione nasce all’interno delle fabbriche, prodotto della pressione che l’economia di guerra esercita sui lavoratori e, nel contempo, della liberazione di energie determinata dalla caduta del regime. Su questa base si inserisce l’azione dei gruppi organizzati (per la maggior parte cellule comuniste) che hanno il merito di innescare la protesta, di assicurare al movimento un primo embrione di collegamento e di far circolare le informazioni, ma ai quali manca la forza necessaria per garantire una strategia di lotta di più largo respiro. Di questi fenomeni le autorità centrali non sanno dare una lettura adeguata: incapaci di coglierne la matrice materiale e sociale, esse tendono a ricondurlo all’azione cospirativa delle forze di sinistra e a identificarlo con un progetto eversivo di ispirazione comunista. Sopravvalutando il ruolo dell’antifascismo organizzato, il governo Badoglio risponde con la repressione militare. Le undici divisioni già dislocate nel Centronord a difesa


dell’ordine pubblico vengono concentrate attorno ai grandi centri urbani. L’ordine di cessare le manifestazioni e di riprendere il lavoro è perentorio e le disposizioni draconiane della circolare Roatta tracciano le linee per l’intervento dell’esercito; i cortei vengono fronteggiati da reparti pronti a sparare; le fabbriche vengono sottoposte al controllo delle forze armate e presidiate anche con mezzi corazzati; gli arresti di presunti agitatori si moltiplicano. In breve, all’atmosfera liberatoria del 25 luglio si sostituisce un clima di tensione sociale destinato a sfociare in scontri drammatici: i morti sono già sedici la sera del 26, altri undici il 27, quarantatré il 28, dieci il 29, sei il 30. In totale, in una settimana di repressione, i manifestanti lamentano 81 morti, 320 feriti, oltre 150 arrestati. Il prezzo più alto lo pagano la provincia di Milano (26 morti) e quella di Reggio Emilia (9 morti), mentre a Torino la paura di uno scontro frontale con una massa operaia fortemente concentrata induce le autorità militari a un intervento meno rigido (solo il 29 viene aperto il fuoco alla Fiat Lingotto e alle Officine Westinghouse, con un bilancio di tre feriti). Uno degli episodi più drammatici, indicativo dell’orientamento del governo e dell’atmosfera determinatasi in quei giorni, si verifica a Bari. Dopo due giorni sostanzialmente tranquilli, il 28 si forma un corteo di poche centinaia di persone, che manifestano a favore della destituzione di Mussolini e che hanno i loro riferimenti nell’azionista Fabrizio Canfora e nel liberale Luigi De Secly. Mentre il corteo sfila davanti alla sede della federazione fascista, la pattuglia di guardia apre il fuco pur senza essere stata oggetto di aggressioni o di minacce: «Nel conflitto», scrive il questore, «furono uccisi dodici dimostranti e feriti altri trentanove, perlopiù tutti giovani o giovanissimi». L’eccidio è rivelatore delle collusioni tra autorità periferiche ed esponenti del passato regime (il questore non ha dubbi sulla legittimità


degli spari), ma rientra altresì nella logica del clima di intimidazione introdotto dalla repressione militare. L’equazione “fine del fascismo = fine della guerra = fine dei sistemi autoritari sul posto di lavoro” corrisponde a una interpretazione della caduta di Mussolini molto più estensiva di quella intesa dagli autori del colpo di stato: la politica dell’ordine pubblico attuata nell’ultima settimana di luglio diventa, così, risposta all’emergenza e indicazione di percorso. Essa riesce a imporre la normalizzazione attraverso il ricorso alla forza, ma finisce anche con l’ipotecare i quarantacinque giorni del governo Badoglio.


1

Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, 1948, in Opere di Cesare Pavese, vol. 7, Einaudi, Torino 1968, p. 130. 2 Corrado Alvaro, Quaderno. Alcune pagine di un diario fra il luglio 1943 e il giugno 1944, in “Mercurio”, anno I, numero speciale, ottobre 1944, p. 82. 3

Piero Calamandrei, Lettere 1915-1956, a cura di Alessandro Galante Garrone, vol. 1, Le Monnier, Firenze 1968, p. 151 4 I rapporti delle autorità di polizia locale (citati in queste righe e in quelle successive) sono tratti da Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione (a cura di), L’Italia dei quarantacinque giorni, ed. Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, Milano 1969, Appendice, pp. 214 e sgg. 5 Paolo Monelli, Roma 1943, Migliorini, Roma 1945, p. 167. 6 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. 4, Einaudi, Torino 1975, p. 281. 7 Carmine Senise, Quando ero capo della Polizia 1940-1943, Ruffolo, Roma 1946, pp. 197-98. 8 Frederick W. Deakin, Storia della repubblica di Salò (London 1962), Einaudi, Torino 1963, p. 463. 9 Telegramma dell’ambasciatore von Mackensen al governo di Berlino, datato 27 luglio 1943, citato in ibid., p. 489. 10 Frederick W. Deakin, op. cit., pp. 466-67. Il generale Chierici, fascista ferrarese, aveva assunto il comando della polizia il 14 aprile 1943, sostituendo Carmine Senise. 11 Friedrich Dollmann, Roma nazista, Longanesi, Milano 1951, p. 169. 12 Il dato, tratto dalle carte di Giorgio Pisanò, è riportato in Giorgio Bocca, La Repubblica di Mussolini, Laterza, Bari 1977, p. 5. 13 Paolo Monelli, op. cit., p. 89. Giuseppe Volpi di Misurata, imprenditore e fascista della prima ora, era stato sino all’aprile 1943 presidente della Confindustria.


14

Le due circolari di Carmine Senise e quella successiva del generale Roatta sono riportate in Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, op. cit., pp. 255-76.


2 La caduta del regime

La crisi delle alleanze sociali Se la cronaca di quanto accade nelle piazze italiane tra il 26 e il 31 luglio è sufficiente a rivelare i limiti del governo Badoglio e il prevalere degli elementi di continuità con il passato rispetto a quelli di rottura, la spiegazione del fenomeno va ricercata nel quadro più generale della crisi del 1943 e nell’articolato processo di disgregazione delle alleanze sociali su cui si è basato il fascismo. Allo scoppio del conflitto, l’Italia si presenta con il modello economico impostato negli anni del regime ed esasperato, a partire dal 1935, dalla politica autarchica che ha accelerato la trasformazione dell’economia italiana in senso monopolistico e favorito una ancor più stretta comunione tra politica finanziaria e scelte produttive. Tale modello prevede in primo luogo la spinta all’industrializzazione nei settori legati alla produzione bellica, caratterizzata dalla creazione di grandi monopoli e dalla concentrazione settoriale e geografica delle imprese e sostenuta dalla politica finanziaria dello Stato; in secondo luogo, l’autosufficienza alimentare, perseguita non attraverso l’ammodernamento del lavoro agricolo (per realizzare il quale sarebbe stato necessario distrarre investimenti dal settore industriale), ma attraverso il mantenimento del maggior numero possibile di lavoratori nelle campagne e il


consolidamento di forme arretrate di organizzazione del lavoro, capaci, comunque, di legare il contadino alla terra (mezzadria, colonie nei nuovi comprensori di bonifica, proprietà particellate ai margini del latifondo). Su questo terreno si realizza il blocco sociale della classe dirigente, con l’incontro tra gli interessi dei proprietari agrari e quello degli industriali: «Il progresso capitalistico nelle campagne era contrastato tanto dai proprietari, timorosi di una ripresa delle lotte sociali, quanto dai gruppi finanziari e industriali, preoccupati di non distogliere capitali dall’industria bellica e di evitare con ogni mezzo l’espulsione dalle campagne di ingenti masse di lavoratori non riassorbibili da quel tipo di sviluppo industriale e di distribuzione del reddito».1 Su questo meccanismo di fondo si inseriscono, poi, le scelte più mirate: dalla regolamentazione dei salari e dei prezzi, iniziata nel 1936 e trasformata in blocco nel 1940, alla divisione tra lavoratori dipendenti attraverso la frammentazione del “salario corporativo”, sul quale incidono sensibilmente straordinari, premi di produttività, cottimo e incentivi aziendali. Nei primi due anni di guerra il modello dell’autarchia, che si propone il duplice obiettivo di incrementare la produzione e di mantenere la stabilità sociale, regge abbastanza bene alle prove. Il raggiungimento dei risultati nell’emergenza bellica è tuttavia legato a una crescente compressione dei consumi e all’intensificazione dei ritmi di lavoro, fattori destinati a radicalizzarsi proporzionalmente al perdurare del conflitto: da questo squilibrio nascono le contraddizioni destinate a mandare in crisi il modello e a disgregare il blocco sociale che sino ad allora esso aveva garantito. Lo specchio più fedele di questo processo è costituito dalla crescente insufficienza del mercato alimentare e dal fallimento del sistema distributivo: la concentrazione delle risorse finanziarie nella produzione bellica, la


necessità di esportare prodotti alimentari per procurare le materie prime necessarie alle industrie (in primo luogo il carbone dalla Germania), la riduzione della manodopera nelle campagne per i richiami alle armi di un esercito in gran parte costituito da contadini e la conseguente esasperazione dello sfruttamento dei lavoratori agricoli, la progressiva dissoluzione della rete dei trasporti per effetto dei bombardamenti, la speculazione dei detentori di capitali in grado di pagare sovrapprezzi per procurarsi le merci e poi accantonarle in attesa di nuovi aumenti, le disfunzioni organizzative di un apparato nel quale dilagano corruzione e inettitudine, sono altrettanti elementi che determinano un progressivo peggioramento delle condizioni di vita e una congiuntura in cui la rarefazione delle merci è direttamente proporzionale alla crescita dell’inflazione: «Solo una parte dei fabbisogni alimentari può essere coperto con i generi tesserati. In queste condizioni, il ricorso al mercato libero e alla borsa nera è una conseguenza obbligata, una valvola di sicurezza per produttori e consumatori. L’organizzazione dell’economia di guerra fallisce pertanto in primo luogo in uno dei settori ai quali più direttamente è legata la solidità del fronte interno».2 Da questa contraddizione deriva una delle defezioni più clamorose: quella dei ceti della piccola e media borghesia a reddito fisso. Considerando il 1914 uguale a 100, l’indice degli stipendi reali scende a 93 nel 1922, a 96 nel 1936 fino ad arrivare a 10 nel 1943;3 per il mondo impiegatizio, tradizionale area di consenso alla dittatura aggregata attorno al modello dell’ordine e alle suggestioni imperiali, la caduta del potere di acquisto significa risentire sino alle estreme conseguenze della penuria alimentare e confondersi con la condizione operaia, in un declassamento che toglie dignità e funzione sociale. Il malcontento non è minore all’interno del mondo agricolo, dove la politica degli ammassi grava soprattutto sui piccoli produttori: l’esigenza di


alimentare le grandi città induce il regime a sottrarre alle campagne la maggior quantità possibile di prodotti, imponendo prezzi di conferimento che non trovano riscontro in quelli del mercato e lasciando agli agricoltori un’aliquota di prodotto insufficiente al loro fabbisogno. Gli abusi degli addetti agli enti ammassatori e la campagna propagandistica che addossa ai contadini accaparratori la responsabilità delle razioni da fame aggiungono motivi di contrasto e determinano un progressivo scollamento tra mondo della campagna e regime, che trova la sua espressione pratica nel rifiuto del conferimento e nelle percentuali di raccolto che vanno ad alimentare il mercato clandestino. Motivi di contrasto e di contrapposizioni si determinano anche nel mondo imprenditoriale. I processi di concentrazione monopolistica dettati dalla scelta del modello economico autarchico vengono, infatti, accelerati dalla razionalizzazione bellica e dall’urgenza di concentrare le risorse dello Stato a sostegno dello sforzo militare: oltre alla crisi delle industrie legate alle costruzioni edilizie, alle opere di trasformazione agraria o ai lavori pubblici e, in genere, dei settori estranei alla produzione bellica, la disciplina di guerra comporta una selezione sempre più rigida nella distribuzione delle materie prime, che favorisce le maggiori imprese e pone in difficoltà le minori. Nel settore agricolo, le esigenze razionalizzatrici agevolano in modo analogo il processo di organizzazione capitalistica, privilegiando le strutture di grandi dimensioni a discapito di quelle medie e piccole: la piccola azienda risente in modo più pesante dei tributi, del razionamento, del costo della vita, degli stessi richiami alle armi, in quanto è priva di mezzi tecnici e della possibilità di assumere salariati. Sintomatico del malessere che cresce negli stessi ambienti imprenditoriali e di una nascente contrapposizione tra industria leggera (a iniziativa privata) e industria pesante (sostenuta dall’intervento


statale) è il dibattito tra economisti sviluppatosi nel 1942: il dilemma “economia di mercato” o “economia pianificata”, sul quale intervengono tra gli altri Luigi Einaudi, Guido Carli e Giovanni De Maria, è risolto in senso liberista. Le tesi sono espresse in forma dottrinaria, ma riflettono situazioni reali all’interno del mondo economico italiano, dai timori diffusi di una futura subordinazione al predominio economico del ben più potente alleato tedesco, alle proteste e ai rancori dei settori industriali destinati ai consumi di pace che si vedono da anni sacrificati al potenziamento delle strutture produttive di interesse bellico.

La condizione operaia Nella primavera 1943, la fisionomia della crisi va così precisandosi: sotto il peso economico e militare di una guerra sempre più palesemente persa, maturano la disaffezione dei ceti medi urbani, il malcontento delle campagne, il progressivo distacco di alcuni settori imprenditoriali. Va tuttavia osservato che nessuno di questi fattori è tale da porsi sul terreno dell’iniziativa: oscillando tra il malumore sordo ma passivo delle masse contadine e la frustrazione impotente dei ceti impiegatizi, la crisi sviluppa un’atmosfera di rassegnazione sofferta e di stanchezza che mina le basi di consenso del regime pur senza sfociare in momenti di aperta ribellione. Il punto di rottura viene invece dalle condizioni del mercato del lavoro e dalle contraddizioni determinate dalla sua rigidità: di qui parte l’offensiva dei lavoratori dell’area industriale del nord e la mobilitazione che si sviluppa nel mese di marzo, evidenziando in modo clamoroso la crisi del regime. Nel corso del Ventennio, la stabilità sociale nelle fabbriche è stata mantenuta ricorrendo a due strumenti principali: da un lato, la divisione dei


lavoratori attraverso i meccanismi di definizione del salario “corporativo”, con le retribuzioni di base diverse a seconda delle categorie di appartenenza e corrette da sistemi di incentivazione individuale o di squadra; dall’altro, il controllo autoritario fondato sulla selezione politica del personale, sull’uso repressivo della struttura gerarchica e sul rigore della disciplina del lavoro. Il risultato è stato la frammentazione categoriale della massa operaia, divisa da frizioni e rivalità interne e contemporaneamente portata ad accrescere la produttività attraverso il meccanismo del cottimo. Lo sforzo a cui il sistema è sottoposto dalle necessità derivanti dalla guerra e il contemporaneo diffondersi dei processi di inflazione monetaria e di rarefazione dei generi alimentari hanno, però, modificato queste condizioni. L’intensificazione produttiva si è tradotta nell’estensione dell’orario lavorativo e nell’aumento dei turni e dei ritmi, con una conseguente tendenza all’omogeneizzazione dei salari, il cui potere d’acquisto va, d’altra parte, livellandosi verso il basso di fronte alle speculazioni del mercato nero: le maestranze impiegate nell’industria siderurgica, metalmeccanica e chimica (direttamente collegate alla produzione bellica) sono così coinvolte in un processo di ricomposizione interna indotto dalle stesse modificazioni dell’organizzazione del lavoro. A questo si aggiunge l’oggettiva riconquista di forza contrattuale da parte della classe operaia, dovuta alla sproporzione tra l’esiguo numero di manodopera qualificata disponibile e la forte richiesta di personale specializzato da inserire nella produzione bellica. Questa situazione si manifesta in modo evidente proprio nella concentrazione operaia moderna costituita dal complesso Fiat: «Anche se nella grande azienda metalmeccanica si era cercato di rispondere con una riorganizzazione del lavoro, che sfruttasse le possibilità di una produzione di guerra fortemente standardizzata e che consentiva una più elevata percentuale di manodopera non qualificata, il


livello tecnologico disponibile e il salto di qualità sul piano organizzativo non avevano tuttavia consentito di ridurre in modo sostanziale le necessità di espandere

anche

l’occupazione

di

personale

più

qualificato».

La

contraddizione del sistema si traduce non solo in una riconquista da parte degli operai di forza contrattuale, ma anche in un indebolimento del controllo esercitato dall’azienda: «Proprio alla Fiat, malgrado il rigido controllo politico esistente, si giunge ad assumere alcuni operai di alta qualificazione ma con un passato di antifascismo militante, quando non di attività nelle file del partito comunista, cosa impensabile sino a qualche mese prima. Il sistema di controllo politico viene tranquillamente scavalcato quando sono in gioco gli interessi della produzione».4 Accanto a questi settori operai ridefiniti nella loro dimensione di classe dalle modificazioni dell’organizzazione del lavoro, ce ne sono altri che scontano l’economia di guerra in termini diversi: gli addetti alle industrie non coinvolte nella produzione bellica sono sottoposti a una pressione lavorativa minore (48 ore settimanali stabilite per legge nelle industrie siderurgiche e metalmeccaniche, solo 36 nell’industria tessile laniera), ma sono fortemente penalizzati da un salario più basso e dalla precarietà del posto di lavoro. A questi elementi legati all’organizzazione del lavoro industriale, si assommano le pressioni delle condizioni di vita nelle città, cui si è fatto cenno a proposito dei ceti medi: l’insufficienza delle razioni alimentari, le disfunzioni del sistema distributivo, la scomparsa dal libero mercato di alimenti di prima necessità, il generale peggioramento qualitativo dei prodotti. Nei grandi centri, inoltre, c’è la minaccia continua dei bombardamenti, cui possono sottrarsi solo coloro che hanno sufficienti risorse per permettersi lo sfollamento nei paesi della provincia: «Anche se non è possibile determinare il numero degli operai sfollati, si può ritenere che


la loro percentuale non fosse elevata per due ragioni: i costi economici che lo sfollamento comporta e i costi in termini di tempo. C’è dunque una discriminazione sociale anche nello sfollamento, che costringe la maggior parte della massa operaia a convivere, oltre che con la fame, il freddo, i disagi, con il pericolo quotidiano della morte che può arrivare dal cielo».5 Il progressivo crollo del fronte interno è registrato dalle relazioni della polizia e delle commissioni di censura sulla corrispondenza: «È innegabile un crescente senso di malessere che si riflette in modo deleterio sugli spiriti, determinando atti di insofferenza di cui sono espressione i frequenti turbamenti dell’ordine pubblico, che senza peraltro assumere carattere di speciale gravità, hanno mostrato una pericolosa facilità a propagarsi». Il fenomeno è omogeneo su tutto il territorio nazionale: nel dicembre 1942 la questura di Ferrara scrive che «tutte le classi sociali hanno dato segni di un sensibile raffreddamento nella fede politica e di fiducia nelle sorti della guerra»; alla stessa data, la questura di Enna denuncia che «lo spirito pubblico è dominato da profondo scoramento»; un mese dopo, a Como si constata che «la tranquillità è assai scossa, i frequentissimi appelli alla pace, il voto sempre più ripetuto che questo sia almeno l’ultimo anno di guerra, il crescere del disagio tra i soldati e lo stesso silenzio che nella posta civile si fa intorno alle operazioni militari evidentemente non soddisfacenti […], sono motivi che stanno a dar ragione dell’inquietudine diffusa e profonda».6 Le cifre sono ancora più esplicite dei funzionari di polizia nel documentare le difficoltà del Paese: sin dal gennaio 1942 nei ristoranti, il sabato sera e la domenica, è stato introdotto il rancio unico a base di minestra, verdura e frutta; in marzo, la razione giornaliera di pane è scesa a 150 grammi; dall’estate i giornali sono stati ridotti a quattro pagine; la disponibilità di calorie, che all’inizio degli anni Trenta è in media di 2905, nel 1941 scende a


2577 e nel 1942 a 2238.

Gli scioperi del marzo 1943 Da queste condizioni generali prende avvio la mobilitazione operaia della primavera 1943, che trova spunto nella corresponsione di un’indennità di sfollamento pari a 192 ore ai soli lavoratori che, per motivi di sicurezza, hanno abbandonato i centri urbani. La versione a lungo accreditata dalla storiografia indica in venerdì 5 marzo e nelle officine di Mirafiori la data e il luogo di inizio delle manifestazioni: l’iniziativa delle cellule comuniste avrebbe dato l’avvio a un moto di protesta compatto in tutta Mirafiori, presto esteso alle altre fabbriche di Torino e, di lì, agli altri centri industriali. Si tratta di una versione nata nei giorni stessi degli avvenimenti, quando l’obiettivo politico prevale su ogni altra considerazione. Mirafiori, inaugurata dal regime nel 1939 con una grandissima campagna pubblicitaria, è penetrata nell’immaginario collettivo come simbolo stesso della modernità: associare l’inizio dello sciopero alla più grande e moderna fabbrica italiana, corrisponde a «un motivo tattico essenziale della propaganda attraverso la quale il PCI si forza di diffondere e rafforzare lo sciopero nel corso stesso del suo svolgimento»,7 veicolandone con efficacia il senso di rottura e offrendo al movimento una bandiera. Il 5 marzo, in realtà, ci sono tre scioperi (nelle officine ausiliarie di Mirafiori e in due diverse filiali della Rasetti: conseguenza, dieci arresti) e il giorno successivo uno solo alla Microtecnica (cinque arresti). Nessun colpo di maglio di masse operaie che si riappropriano all’improvviso della propria coscienza di classe, dunque, ma più realisticamente un processo costruito tra incertezze e slanci improvvisi, di cui sono protagonisti uomini, donne e giovani che per la prima volta si


schierano e che devono riconquistare giorno per giorno la nozione stessa di sciopero. Nell’innesco delle agitazioni è determinante il ruolo degli operai specializzati delle fabbriche metalmeccaniche, tra i quali sono anche i militanti comunisti, che danno vita alle prime manifestazioni sotto forma di sciopero bianco. Una volta innescato, il processo si incontra con la spontanea rabbia collettiva e si trasforma in movimento. La voce di quanto accaduto alla Rasetti, alla Microtecnica, alle Ausiliarie di Mirafiori si diffonde rapidamente per l’eccezionalità dell’evento e nei borghi operai della periferia torinese trova un formidabile terreno di circolazione: il lunedì successivo gli stabilimenti a fermarsi sono otto e se la sospensione del lavoro è breve, la repressione è dura, con trenta operai fermati e dodici deferiti al Tribunale speciale. Il meccanismo dello sciopero comincia ormai a funzionare da solo e nei giorni successivi le interruzioni del lavoro si estendono sulla base di rivendicazioni che spaziano dal pagamento a tutti delle 192 ore inizialmente previste per gli sfollati, alla corresponsione di un’indennità di carovita, all’aumento delle razioni di viveri: l’agitazione coinvolge buona parte delle aziende torinesi, con fermate prolungate in ogni turno e in alcuni casi con l’arresto totale delle attività, e tocca il suo punto più alto verso la metà del mese raggiungendo la provincia (in particolare il Pinerolese, con le Officine Riv di Villar Perosa, paese natale della famiglia Agnelli, dove risulta determinante la partecipazione delle maestranze femminili) e altre realtà industriali della regione (le Officine Savigliano, gli stabilimenti di Asti, di Alessandria, di Cuneo). Il 17 marzo lo sciopero torinese diminuisce di intensità e progressivamente si spegne, ma nell’ultima decade del mese l’iniziativa si estende alle fabbriche dell’area milanese (la Falck di Sesto San Giovanni, la Pirelli) e si diffonde in altre province, in Emilia, nel Veneto, a


Porto Marghera: a fine marzo ha raggiunto il Vercellese e le industrie tessili del Biellese, dove le agitazioni durano sino all’8 aprile e vedono (come già alla Riv) le donne tra i soggetti trainanti. In totale, la protesta coinvolge circa duecentomila lavoratori e oltre duecento aziende, in un’articolazione di iniziative che spaziano dagli scioperi bianchi e dalle interruzioni di pochi minuti, all’astensione dal lavoro per un intero turno. Al di là del dato numerico, gli scioperi presentano alcune caratteristiche che li qualificano insieme nella loro importanza e nei loro limiti. Il tratto più evidente è la diversificazione da fabbrica a fabbrica e da una realtà regionale all’altra: accanto a fabbriche che scendono in sciopero compattamente, ci sono fabbriche in cui solo alcuni reparti si muovono, mentre restano zone d’ombra e di passività: un centro industriale importante come Genova, ad esempio, è quasi del tutto assente dal movimento. Due elementi vanno sottolineati a questo proposito: da un lato, il carattere embrionale del tessuto organizzativo, retto dalle poche forze clandestine del partito comunista; dall’altro, la difficoltà per la classe operaia di riappropriarsi di uno strumento di lotta come lo sciopero che per tutto il Ventennio è stato bandito. «È significativa, nelle numerose testimonianze operaie, la sorpresa della riscoperta di uno strumento di iniziativa collettiva, le ingenuità che ne accompagnano la sperimentazione per tentativi, nella coscienza che lo scontro non è tanto con l’avversario di classe, ma con il regime che ha trovato nella negazione dello sciopero e della lotta di classe il perno della sua legittimazione politica. Si spiegano così insieme gli slanci e gli entusiasmi, la circolarità di un’iniziativa basata sul principio imitativo (“se l’hanno fatto quelli della Fiat, perché non noi?”), e le incertezze, i cedimenti e anche le grandi assenze».8 In questa chiave di lettura, che vede negli scioperi del marzo 1943 lo


sbocco di una pressione dovuta alle condizioni di vita nella fabbrica e nelle città e, contemporaneamente, la sperimentazione di forme di lotta sconosciute alle generazione cresciuta nel Ventennio, si inquadra il rapporto tra spontaneità e organizzazione. Il ruolo giocato dai militanti comunisti è importante nello sviluppo delle agitazioni, ma si pone in termini di integrazione e non di primato rispetto alla dinamica naturale del movimento: dalla spontaneità discendono, infatti, il manifestarsi della lotta anche là dove organizzazione non c’è e, nel bene e nel male, lo stesso andamento discontinuo e misterioso degli scioperi; all’organizzazione delle strutture di cellula va invece riconosciuto il merito di avere colto le esigenze operaie, di aver

innescato

la

protesta

e

di

aver

garantito

la

circolazione

dell’informazione. Di fronte al diffondersi dell’agitazione operaia, la reazione repressiva del regime risulta energica: le manifestazioni di piazza vengono impedite attraverso un massiccio spiegamento delle forze dell’ordine, mentre le incarcerazioni (oltre duemila arresti) mettono a dura prova le strutture clandestine comuniste e creano un clima diffuso di intimidazione. Tuttavia il movimento dimostra una combattività che i metodi tradizionali del fascismo non riescono a controllare e rappresenta un momento di aperta rottura, traducendo in iniziativa il malumore che da mesi serpeggia in larghi strati dell’opinione pubblica e che le altre classi sociali non hanno saputo portare sul terreno dell’azione: per la prima volta, il fascismo si scontra con un’opposizione aperta, il cui significato politico va ben oltre le piattaforme rivendicative attorno a cui la protesta si è aggregata. La soluzione del conflitto segna un’ulteriore sconfitta per Mussolini: la richiesta delle 192 ore per tutti viene respinta, ma si assicura ai lavoratori dell’industria, del commercio e delle assicurazioni un’indennità a partire dal 21 aprile (giorno


della ricorrenza fascista del Natale di Roma): l’intento è negare il rapporto tra scioperi e concessioni, ma non può sfuggire a nessuno che il regime, per la prima volta, ha dovuto rispondere positivamente a un’iniziativa partita dal basso. La valenza politica degli scioperi e del loro esito è chiara a Mussolini: parlando al direttorio del PNF, egli attribuisce la responsabilità del movimento alle

trame

eversive

dell’antifascismo

organizzato,

denunciando

la

strumentalizzazione politica del disagio economico, ma riconosce anche la gravità dell’accaduto: «Le agitazioni di Torino e di Milano e di altre città minori sono un episodio sommamente antipatico, straordinariamente deplorevole, che ci hanno fatto ripiombare di colpo venti anni addietro: quantunque il “volume” del fenomeno non sia stato imponente, sarebbe grave errore sottovalutarne il significato».9 La precarietà della situazione si riflette nella confusione interna al PNF, dove i gerarchi vivono in un’atmosfera di presagio della fine, ben sintetizzata in una lettera di Farinacci al Duce del 1° aprile: «Il partito è assente e impotente. Ora avviene l’inverosimile. Dovunque, nei tram, nei caffè, nei teatri, nei cinematografi, nei rifugi, nei treni, si critica, si inveisce contro il regime. E la cosa gravissima è che nessuno insorge. Andiamo incontro a giorni che gli avvenimenti militari potrebbero far diventare più angosciosi».10 I provvedimenti adottati da Mussolini (la sostituzione di Aldo Vidussoni con Carlo Scorza alla segreteria del PNF e quella di Carmine Senise con Renzo Chierici al comando della polizia) rivelano, d’altra parte, la debolezza del regime preoccupato di trovare capri espiatori nel momento in cui sente la situazione sfuggirgli di mano, ma incapace di andare oltre la rimozione di qualche dirigente o alto funzionario.

L’atteggiamento del mondo imprenditoriale


Sul piano della normalizzazione interna, la combinazione di concessioni e repressione permette al fascismo di riportare l’ordine nelle fabbriche, tanto che dalla metà di aprile e sino al 25 luglio non ci saranno più scioperi né altre forme significative di agitazione. Dietro l’apparenza della pace sociale ristabilita, le manifestazioni del marzo lasciano un segno profondo negli equilibri della classe dirigente e determinano la svolta decisiva nei rapporti tra mondo imprenditoriale e regime, sui quali già pesano le distanze maturate nei mesi precedenti. Il grande capitale industriale, nella primavera 1942 ancora convinto sostenitore di Mussolini, ha iniziato a prendere le distanze nell’autunno, dopo che i massicci bombardamenti di ottobre su Genova e Milano e quelli di fine novembre-inizio dicembre su Torino hanno evidenziato la fragilità militare difensiva dell’Italia, creando disorientamento psicologico e politico in buona parte degli ambienti economici. Quando alcuni ministri fascisti sono andati a Torino per verificare i danni provocati dalle incursioni anglo-americane e hanno contestato all’amministratore delegato della Fiat, Vittorio Valletta, l’eccessiva concentrazione degli stabilimenti e la mancata adozione di misure d’emergenza, l’azienda ha replicato accusando il regime di non aver garantito la necessaria copertura antiaerea. «Ministri e gerarchi non avevano proprio tutti i torti perché il complesso Fiat, con la sua gigantesca estensione, era estremamente vulnerabile. Per contro, agli occhi dei dirigenti Fiat il governo voleva vincere la guerra con poco sforzo e molte parole. I ministri fascisti rimproverano alla Fiat di essere quello che era, un fragile gigante. La Fiat, da parte sua, rimproverava i ministri fascisti di essere ciò che non avrebbero mai riconosciuto di essere: comandanti ormai incapaci di porre rimedio alla disfatta incombente.»11 Perplessità e reciproche diffidenze diventano elemento caratterizzante


delle relazioni tra industriali e regime, ben espresse in un rapporto inviato da Giovanni Agnelli a Roma il 31 dicembre 1942: dopo aver elencato oltre cinquanta aziende torinesi totalmente o parzialmente sinistrate e profilato il rischio di un arresto pressoché totale del flusso di provviste indispensabili per la produzione, il senatore sottolinea la situazione di generale sbandamento e ammonisce che «il tempo potrebbe fornire altre dolorose sorprese» e pertanto «solo l’esempio e il sacrificio da parte dei capi, unitamente alla più gagliarda forma di disciplina nel rapporto di lavoro, possono evitare i più amari disinganni».12 Su questo retroterra di reciproca sfiducia si inseriscono gli scioperi del marzo, espressione clamorosa di una crisi che dal fronte militare si trasferisce a quello interno e che denuncia l’incapacità del fascismo di continuare ad assolvere il compito storico affidatogli dalla classe padronale, vale a dire il mantenimento della stabilità sociale. Il carattere politico delle agitazioni è chiaro e Agnelli sa che ci si trova di fronte a veri e propri fenomeni di “disobbedienza” a carattere collettivo: «Come si sarebbe potuto definire altrimenti le assenze sempre più frequenti di molti operai sfollati, la riluttanza da parte dell’operaio o dell’impiegato a effettuare ore straordinarie, un rendimento generale sul lavoro inferiore al normale, e il tutto senza che i capi reagissero con energia a questa forma di rilassamento?».13 La dissoluzione del sistema si sta insomma, delineando sotto ogni profilo e il grande capitale comprende che lo sganciamento dall’alleanza con Mussolini e il fascismo è ormai indispensabile: sia la situazione interna, sia i nuovi rapporti di forza che vanno delineandosi a livello internazionale, spingono nella direzione della rottura.

Il “complotto reale”


La ricerca di una via di uscita alla crisi e di un’alternativa alla guida del Paese inizia nell’estate-autunno 1942 da parte di forze politiche conservatrici, preoccupate di salvaguardare gli equilibri sociali costituiti e di garantire la continuità delle istituzioni: antifascisti moderati, fascisti “revisionisti” e militari intrecciano, così, sondaggi e trattative, condotti all’insegna della prudenza, che mirano a liquidare Mussolini e la sua guerra attraverso una soluzione politica. Al centro di questi tentativi sono il re e il ministro della Real casa, conte Pietro Acquarone. Gli antifascisti moderati (per lo più liberali e cattolici che si riaffacciano al protagonismo politico dopo vent’anni di emarginazione e che stringono i primi contatti attraverso la principessa di Piemonte Maria José) hanno il loro riferimento in Ivanoe Bonomi, il cui piano è relativamente semplice: «Il re doveva dimettere dal governo Mussolini, arrestarlo e tenerlo in luogo sicuro per prevenire eventuali riscosse fasciste; mettere, per un breve periodo, un generale a capo del nuovo ministero; nominare, infine, un gabinetto di civili scelti tra i vecchi statisti per negoziare con gli Alleati il ritiro dell’Italia dalla guerra».14 Questa soluzione non è però gradita a Vittorio Emanuele III, sia per i legami del gruppo di Bonomi con la principessa di Piemonte (della cui attività il re diffida), sia perché si tratta di “revenants” (come li definisce il sovrano), figure non rilevanti che nel 1922 non hanno saputo opporsi al fascismo e che hanno vissuto il Ventennio nell’anonimato, senza collegamenti di alcun genere. I fascisti revisionisti, guidati da Grandi, Federzoni e Bottai, non costituiscono a loro volta un gruppo organizzato, ma un insieme di personalità che, ognuna per proprio conto, hanno esercitato un’azione moderatrice nel corso del Ventennio. Il loro progetto prevede la riassunzione delle prerogative statutarie da parte della monarchia e la creazione di un fronte nazionale che escluda le forze di sinistra ma comprenda gli uomini del


regime meno compromessi con le scelte belliciste. Rispetto al gruppo di Bonomi, essi hanno il vantaggio di disporre individualmente di una serie di leve di potere e di complicità all’interno dell’apparato statale; tuttavia, su di loro pesa l’impossibilità di distanziarsi da una politica ventennale, alla quale hanno partecipato occupando posti di alta responsabilità, e la mancanza di un’organizzazione di massa su cui contare per trasformare le loro posizioni in forza politica. Il gruppo più credibile tra i potenziali successori al Duce è rappresentato dai militari: pur non avendo elaborato un piano autonomo per la liquidazione del regime, «essi dispongono delle unità dell’esercito e della sua capillare organizzazione e sono gli unici ad avere la forza per superare eventuali resistenze fasciste e per mantenere il controllo dell’ordine pubblico anche nella crisi politica che la fine del regime può aprire». Di fatto le forze armate, che mantengono un legame di fedeltà diretto con il re, sono «lo strumento essenziale di un colpo di stato conservatore, che vuole una crisi il più possibile indolore, risolta con un’azione di vertice tale da prevenire la lotta politica vera e propria».15 Tra i militari spiccano due figure: il generale Vittorio Ambrosio e il maresciallo Pietro Badoglio. Il primo, capo di stato maggiore generale dal febbraio 1943, è consapevole dell’impossibilità di proseguire lo sforzo bellico accanto alla Germania; il secondo, esonerato dall’incarico nel 1940, ha conservato sufficiente credibilità all’interno dell’esercito e, nel contempo, può rivendicare la sua dissociazione dal fascismo, che prima dell’esonero lo ha fatto oggetto di una campagna di stampa denigratoria. Tra queste diverse forze, Vittorio Emanuele III e il conte Acquarone si muovono per preparare il colpo di stato. L’operazione procede in un susseguirsi di indecisioni operative e di rinvii, sui quali pesano


alternativamente i timori delle reazioni tedesche e le diffidenze reciproche tra i protagonisti. Gli obiettivi politici, però, sono ben chiari: in primo luogo, garantire la continuità della monarchia e delle istituzioni; in secondo luogo, liquidare il fascismo senza lasciare spazio ad agitazioni popolari che possano trasformare un’azione di vertice in un’azione di massa; in terzo luogo, assicurarsi una parvenza di costituzionalità per legittimare l’estromissione di Mussolini. In questa prospettiva, il re si muove utilizzando le forze disponibili: scartato il ricorso agli antifascisti moderati (ai quali si può fare ricorso in una fase successiva), il re si avvale dei fascisti revisionisti per la copertura costituzionale (da qui la mozione Grandi al Gran Consiglio del 24 luglio e il voto di sfiducia al Duce), dei militari per la realizzazione materiale del colpo di stato, e di Badoglio per la direzione di un governo tecnico composto da generali delle tre forze armate e da alti burocrati.16 Il progetto di restaurazione monarchica in nome della continuità dello Stato e della difesa dell’assetto sociale costituito è, così, completo: di fronte a un Paese che vive in un’atmosfera di apatia e di stanchezza per la guerra, dove la crisi delle alleanze sociali ha creato un sordo malcontento senza per questo tradursi in iniziativa politica generale, e dove le agitazioni operaie della primavera sono state sufficientemente imponenti da destare preoccupazione e tuttavia non abbastanza forti da trasformarsi in insurrezione, la classe dirigente si sgancia da Mussolini e dal fascismo per dissociarsi dalle loro colpe e per autoconservarsi nel proprio ruolo egemone. Sull’operazione, scattata nel pomeriggio del 25 luglio, condotta dall’esercito con determinazione e riuscita al di là delle aspettative,17 grava, tuttavia, un fondamentale limite strategico: il rovesciamento del regime è una conseguenza della guerra, ma nella preparazione del colpo di stato non è contemplata l’uscita dal conflitto. Nei quasi dodici mesi intercorsi tra i primi


colloqui mediati dalla principessa di Piemonte e la caduta di Mussolini, i passi compiuti per stabilire un contatto con gli angloamericani e giungere a una pace separata sono deboli e discontinui (l’incontro del ministro italiano a Lisbona, Francesco Fransoni, con l’ambasciatore inglese in Portogallo, Ronald Campbell; i sondaggi compiuti attraverso il Vaticano; quelli condotti da Alberto Pirelli attraverso le sue relazioni in Inghilterra e negli Stati Uniti), tali da insospettire i tedeschi senza approdare a nulla di concreto. Su questa indecisione incide certamente l’illusione che Mussolini possa ottenere da Hitler uno sganciamento dell’Italia dall’alleanza (in questo senso Ambrosio fa pressioni sul Duce ancora il 19 luglio, durante l’incontro avvenuto tra i due dittatori a Feltre), ma soprattutto pesano le priorità attribuite all’operazione: il colpo di stato è prima di tutto uno strumento di restaurazione interna, nel quale predominano le urgenze di riaffermare l’autorità regia e di garantire la stabilità sociale, e per il quale la testa di Mussolini rappresenta il prezzo da pagare per riacquistare credibilità. La collocazione internazionale dell’Italia, pressata tra la minaccia tedesca da una parte e la richiesta di resa incondizionata degli alleati dall’altra, viene di fatto rinviata a un tempo successivo, in attesa di un’improbabile congiuntura militare favorevole.

Le reazioni tedesche I tedeschi vengono colti solo parzialmente impreparati dagli avvenimenti del luglio 1943. Il punto di partenza per la ricostruzione è l’autunno 1942, dopo la battaglia di El Alamein (23 ottobre-4 novembre) e l’inizio della controffensiva in nord Africa condotta dall’8ª armata britannica del generale Montgomery, seguita a distanza di pochi giorni dallo sbarco alleato in Marocco e Algeria (8-12 novembre). Nell’impostazione hitleriana della


guerra, il Mediterraneo non rappresenta uno scacchiere decisivo: la strategia del 1941-42, infatti, ha previsto la concentrazione delle forze militari germaniche a est contro l’Unione Sovietica, sino a una vittoria totale sempre più lontana, e un atteggiamento sostanzialmente difensivo nel Mediterraneo. «Le operazioni tedesche nei Balcani nella primavera 1941, l’invio di forze aree nel Mediterraneo nell’inverno 1941-42, le campagne delle truppe corazzate di Rommel in Africa settentrionale hanno l’unico scopo di coprire il fianco meridionale della Wehrmacht e di guadagnare tempo vincolando la maggior quantità di forze nemiche»:18 in questo quadro, il compito delle forze armate italiane risulta secondario e limitato a una funzione difensiva. Bruciata nelle prime settimane della campagna di Grecia (autunno 1940) l’iniziale prospettiva della “guerra parallela”, l’Italia fascista si è adeguata a un ruolo subalterno alle scelte tedesche, disperdendo le proprie forze in una resistenza onerosa e logorante: nei Balcani, nel Mediterraneo centrale, in Africa settentrionale, in Russia, le divisioni italiane operano in assoluta subordinazione all’alleato, troppo frammentate e insufficientemente armate per un’azione risolutiva autonoma. Sino a quando la strategia della Wehrmacht assicura all’Asse l’iniziativa e i successi, le divergenze di interessi non si traducono in contraddizioni palesi; nel momento in cui la controffensiva alleata preannuncia l’imminente ribaltamento della situazione e minaccia direttamente l’Italia, ciò che per oltre due anni è rimasto sottinteso diventa però evidente e l’alleanza italo-tedesca entra in crisi. La battaglia di Stalingrado e l’offensiva dell’Armata rossa nell’inverno 1942-43, la caduta della Libia nel gennaio 1943, la resa delle truppe dell’Asse in Tunisia il 13 maggio, l’attacco aeronavale e la facile conquista dell’isola di Pantelleria a metà giugno, lo sbarco alleato in Sicilia il 10 luglio e i successivi bombardamenti su Roma segnano le tappe di un declino militare inarrestabile


che si riflette sui rapporti interni tra le potenze del patto d’Acciaio. Per l’Italia, è prioritario il fronte mediterraneo e per questo chiede all’alleato l’invio massiccio di uomini e mezzi in Africa settentrionale; per raggiungere questo risultato è però necessario giungere a una pace separata con Stalin e liberare le truppe dal fronte orientale, rinunciando alla crociata antibolscevica. In una lettera personale indirizzata a Mussolini in febbraio, Hitler espone invece una strategia opposta: priorità assoluta alla guerra in Oriente e preparazione di una nuova offensiva per la primavera; rafforzamento delle operazioni di controguerriglia nella penisola balcanica, dove un eventuale sbarco angloamericano potrebbe essere sostenuto dalle formazioni resistenziali. Né pace di compromesso con Stalin, dunque, né aumento dell’impegno nel Mediterraneo: l’ipotesi di un attacco contro l’Italia è contemplato («non considero affatto impossibile, Duce, che sia tentata un’invasione della Sardegna, della Corsica, o addirittura della Sicilia»),19 ma ritenuta palesemente secondaria rispetto ai teatri di operazioni in Russia e nei Balcani. I colloqui italo-tedeschi dal febbraio 1943 sino alla vigilia del 25 luglio si sviluppano sulla stessa falsariga. I due dittatori si incontrano a Klessheim, presso Salisburgo, dal 7 al 10 aprile. Mussolini (sul quale i generali fanno pressione perché ottenga una revisione del piano strategico generale) ribadisce l’urgenza di difendere la Tunisia e chiede aiuti aerei, armi contraeree e controcarro, carri armati, rifornimenti di combustibile; Hitler replica sostenendo la priorità del fronte orientale, sottolinea che i mezzi militari sono disponibili solo per i settori di immediato impiego, spiega le sconfitte dell’Asse in nord Africa con le incertezze dei rifornimenti a cui dovrebbe provvedere l’Italia. La conferenza al castello di Klessheim si conclude così con un nulla di fatto, a conferma della riluttanza di Berlino a


prendere in considerazione una strategia comune con l’alleato italiano. Un mese più tardi, dopo la caduta di Tunisi e Biserta e nell’imminenza di un attacco diretto contro le coste europee, le posizioni si radicalizzano: Mussolini, sentendo ormai la guerra in casa, sollecita aiuti in armi e mezzi tramite il feldmaresciallo Kesselring (comandante delle truppe tedesche nel Mediterraneo); Hitler rifiuta gli aiuti in armamenti diffidando della capacità italiana di usarli, ma offre l’invio di cinque divisioni, sollevando il problema di un comando militare unificato in Italia e ventilando la prospettiva di un trasferimento della responsabilità direttiva ai generali tedeschi (delle cinque divisioni offerte, Mussolini ne accetta solo tre, incapace sia di un rifiuto, sia di prendere atto fino in fondo dei rapporti di forza). Infine, nell’incontro di Feltre (19 luglio), quando ormai gli angloamericani sono sbarcati in Sicilia, Hitler lascia apertamente intendere che il territorio metropolitano dell’Italia è da considerarsi un campo di battaglia, nel quale schierarsi lungo la linea più favorevole alla resistenza per ritardare l’avvicinamento nemico alla Germania: e Mussolini, pur sollecitato da Ambrosio a chiedere lo sganciamento italiano dalla guerra, non contrappone che il silenzio rassegnato di chi vede profilarsi la sconfitta finale. Il logoramento militare dell’Asse trova riscontro nella progressiva sfiducia dei tedeschi verso l’alleato. Dopo la sostituzione di Cavallero con Ambrosio al vertice delle forze armate (febbraio 1943), il disprezzo verso le capacità italiane si associa alla diffidenza sulla lealtà all’Asse della monarchia e del comando supremo. L’ambasciatore a Roma von Mackensen riceve informazioni sui colloqui di Vittorio Emanuele III con Badoglio e con esponenti del vecchio mondo politico liberale; nei suoi frequenti incontri con i generali, Kesselring verifica l’atmosfera di sfiducia che si diffonde tra loro. Dopo gli scioperi del marzo, vengono mandati nella penisola agenti del


servizio di sicurezza di Schellenberg, i quali penetrano nel tessuto nel PNF e negli ambienti militari e riferiscono sull’evolversi della situazione. Nella conferenza di Klessheim, il problema della stabilità del regime è posto in forma esplicita da Himmler, che sollecita la creazione di una guardia pretoriana sul modello delle SS: su questa falsariga, nel mese di maggio si forma la divisione M, un reparto speciale a difesa del Duce e del fascismo formato da militi addestrati da istruttori tedeschi e dotati delle armi più moderne. I timori per un possibile tradimento del re e dei militari, uniti alla crescente debolezza del Duce e all’evidenza di un conflitto che sta per investire direttamente la penisola, determinano i comandi tedeschi alla predisposizione di contromisure. In particolare, con i nomi convenzionali di “Costantino” e “Alarico”, vengono preparati due piani, rispettivamente per sostituire gli italiani nelle posizioni dei Balcani e per procedere all’occupazione dell’Italia. A fine maggio, il gruppo tedesco di armate ovest offre per l’“operazione Alarico” due divisioni corazzate e sei di fanteria, che all’occorrenza possono integrarsi con le forze già presenti in Italia; poco dopo Rommel, al quale viene assegnato il compito di assicurare il fronte tedesco nella penisola in caso di crisi, stabilisce il suo quartier generale a Monaco. Entro questa cornice generale è possibile scorgere elementi di contraddittorietà e di debolezza nella politica germanica verso l’Italia, in parte dovuti alla sottovalutazione del pericolo, in parte all’ambiguità su cui si fonda l’Asse, in parte ancora alla sproporzione tra i mezzi disponibili e la pluralità degli impegni. La difesa del regime e la conservazione di un alleato comunque importante per le sue risorse e per la sua posizione geografica, si scontra con una politica militare che a occidente cerca essenzialmente di prendere tempo. Su questo limite di fondo, si innestano le contraddizioni


interne all’alleanza: per sopravvivere, il fascismo ha bisogno che la Wehrmacht invii un numero consistente di divisioni, ma il regime per la sua stessa natura non può accettare questa ipotesi perché comporterebbe l’accentramento nelle mani tedesche della direzione militare nella penisola e toglierebbe credibilità al fascismo. Per evitare il rischio di una defezione, la Germania dovrebbe procedere all’occupazione preventiva dell’Italia e alla denuncia di un’alleanza di cui sino ad allora sono state conservate le forme: l’operazione Alarico è solo una contromisura, che lascia l’iniziativa all’avversario. Probabilmente la Germania non ha ben valutato il grado di decomposizione a cui è giunto il regime, né ha colto il collasso del partito fascista e la sua totale incapacità di reazione: certo è che, se il 25 luglio non giunge inatteso a Berlino, l’apparato militare della Wehrmacht risulta tuttavia impreparato a procedere a una risposta immediata. Le prime reazioni tedesche alla notizia del colpo di stato documentano un’atmosfera di confusione, nella quale si mescolano le velleità di punire i “traditori” e la preoccupazione per i possibili sviluppi militari. Tra il 25 e il 28 luglio, mentre le notizie dall’Italia giungono frammentarie, a Berlino si riuniscono i vertici politici e militari del Reich per ridefinire il piano Alarico e per predisporre le forze necessarie a «una tempestiva riassunzione di tutti i compiti affidati sino a quel momento all’Italia».20 Le operazioni possibili sono fissate in quattro fasi: la prima, denominata “Student”, per l’occupazione di Roma, l’arresto della famiglia reale e di Badoglio e la restaurazione del governo fascista; la seconda, “Eiche”, per la liberazione di Mussolini (sul quale, comunque, l’ambasciatore Mackensen non ha notizie certe); la terza, “Schwarz”, per il controllo delle posizioni chiave dell’Italia e lo schieramento del fronte tedesco su una linea difendibile; la quarta, “Achse”, per la cattura della flotta italiana. Hitler, Goebbels, Ribbentrop e


Göring, diffidando della reale volontà di continuare la guerra pur proclamata nel comunicato di Badoglio, sono orientati per un intervento immediato. L’ansia di intervento dei capi del nazismo (che vogliono assicurare il fronte meridionale e, ancor più, annullare gli effetti psicologici negativi della caduta di Mussolini), si scontra con il realismo dei generali, consapevoli dei rapporti di forza e dei rischi di un’azione affrettata: Keitel, comandante supremo della Wehrmacht, sottolinea i pericoli connessi al mancato controllo dei valichi alpini e francesi mentre Kesselring teme che le truppe in Sicilia e nel sud possano essere isolate dalle linee di collegamento con la Germania; Rommel preme a sua volta perché si faccia affluire in Italia il maggior numero possibile di unità, sfruttando la collaborazione ancora offerta dall’alleato. Gli equilibri delle forze militari presenti in Italia alla data del 25 luglio 1943 pongono in effetti i tedeschi in una posizione difficile. I reparti della Wehrmacht dislocati nella penisola e inquadrati nella Decima armata del feldmaresciallo Kesselring sono stanziati in aree diverse: in Sicilia, ma in corso di trasferimento sul continente, vi sono le divisioni 15ª e 29ª Panzergrenadier, la divisione corazzata Göring e aliquote della 1ª divisione paracadutisti; in Sardegna la 90ª divisione Panzergrenadier; nell’Italia meridionale, le divisioni corazzate 16ª e 26ª e le restanti aliquote di paracadutisti; nell’Italia centrale, la 3ª divisone Panzergrenadier, con il comando stabilito sul lago di Bolsena. Le forze italiane, inquadrate nella Quinta armata (Italia nordoccidentale e centrale), Sesta (in ripiegamento dalla Sicilia), Settima (Italia meridionale) e Ottava (Italia nordorientale) comprendono dieci divisioni di fanteria, quattro alpine, due corazzate, una motorizzata, una celere, una di occupazione, undici costiere. Sotto il profilo numerico, la superiorità italiana è evidente; sotto quello qualitativo, il rapporto è invece diverso, perché le truppe italiane sono penalizzate


dall’insufficienza di armamento e di supporti logistici, che ha caratterizzato tutta la guerra fascista. Al di là delle cifre e delle capacità operative, i timori dei vertici militari tedeschi riguardano la dislocazione delle truppe: all’attivazione del piano Alarico, il governo Badoglio può rispondere con il blocco delle frontiere, costringendo i rinforzi a perdere tempo prezioso, mentre la nuova situazione politica può favorire sbarchi angloamericani a sud di Roma o addirittura a Genova-Livorno. Nelle riunioni di Berlino le preoccupazioni di ordine militare prevalgono sulle valutazioni politiche. La dissoluzione del PNF, l’inerzia della milizia, la mancanza di una personalità fascista attorno cui organizzare un contro movimento, tolgono la possibilità di contare su forze interne e di coniugare soluzione politica e soluzione militare. D’altra parte, l’atteggiamento del governo italiano consente una penetrazione graduale nella penisola, che garantisca il rafforzamento delle posizioni tattiche senza arrivare a uno scontro aperto. I reparti tedeschi scendono così progressivamente in Italia dalla Francia e dal Brennero, assicurandosi il controllo delle vie di comunicazione e delle posizioni chiave, mentre quelli già presenti in Italia si concentrano nel Lazio e due unità di paracadutisti vengono aviosbarcati all’aeroporto di Viterbo. Al generale Ambrosio, che lamenta il carattere occupazionale della presenza tedesca, Kesselring può replicare con considerazioni di strategia generale, osservando che la penisola non è più scacchiere italiano ma scacchiere dell’Asse e che per fermare gli angloamericani è necessario far affluire forze numerose e ben armate. Alla fine della prima settimana di agosto, sette divisioni tedesche sono così penetrate in Italia senza che le autorità abbiano preso reali contromisure militari. Alla luce di queste considerazioni resta da chiedersi se il 25 luglio


sarebbe stato possibile lo sganciamento dalla guerra fascista simultaneamente alla caduta di Mussolini. La scelta avrebbe sicuramente comportato prezzi molto alti, a cominciare dal sacrificio delle truppe dislocate in Francia, nei Balcani e nell’Egeo, che sarebbero state esposte alla ritorsione tedesca; la difesa dell’Italia, a sua volta, non avrebbe potuto essere garantita interamente, perché la concentrazione in Alto Adige e nella pianura Padana richiedeva tempi lunghi di cui i reparti della Wehrmacht si sarebbero potuti giovare per iniziare la penetrazione. Va, tuttavia, osservato che se l’apparato militare italiano risultava sbilanciato e impreparato, quello germanico non era allertato per un’azione immediata, come dimostra la confusione con cui Berlino reagisce alle notizie provenienti da Roma. Anche se l’ideazione del piano Alarico risale alla metà di maggio, la sottovalutazione della situazione interna italiana e le contraddizioni della strategia di Hitler creano le condizioni per una diversa scelta da parte del governo italiano. Per quanto oneroso in termini di vite umane e, presumibilmente, di perdite territoriali, il 25 luglio lo sganciamento dall’Asse ha qualche margine di realizzabilità, pur senza ipotizzare il contributo della resistenza popolare che il re e Badoglio rifiutano a priori, o l’improbabile invio di aiuti angloamericani, per i quali mancano gli accordi preventivi. Posto che la rottura dell’alleanza passa in ogni modo attraverso un confronto armato con l’esercito tedesco, al momento del colpo di stato i rapporti di forza risultano meno sfavorevoli di quanto sono destinati a diventare in futuro. I quarantacinque giorni di temporeggiamento del governo Badoglio diventano un provvidenziale aiuto per i tedeschi, che Rommel e Kesselring impiegano al meglio per attrezzarsi al momento in cui l’Italia firmerà l’armistizio con gli angloamericani e uscirà unilateralmente dall’alleanza.


1

Nicola Gallerano, Crisi di regime e crisi sociale, in Aa. Vv., Operai e contadini nella crisi italiana 1943-44, Feltrinelli, Milano 1974, p. 30. 2 Ibid., p. 52. 3 Le elaborazioni sono di Giorgio Fuà, pubblicate in Paolo Sylos Labini, Sviluppo economico e classi sociali in Italia, in “Quaderni di sociologia”, dicembre 1972. 4 Claudio Dellavalle, La classe operaia piemontese nella guerra di liberazione, in Aldo Agosti, Gian Mario Bravo (a cura di), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, vol. 3, De Donato, Bari 1980, pp. 321-22. 5 Ibid., p. 326. 6 Loris Rizzi, Lo sguardo del potere. La censura militare in Italia nella seconda guerra mondiale 1940-45, Rizzoli, Milano 1984, p. 67. 7 Tin Mason, Gli scioperi di Torino del marzo 1943, in Aa.Vv., L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella resistenza, Angeli, Milano 1988, p. 409. La nascita del mito del 5 marzo nasce dall’articolo che Umberto Massola e Celeste Negarville pubblicano su “l’Unità” clandestina del 15 marzo 1943. 8 Claudio Dellavalle, op. cit., p. 329. 9 L’intervento di Mussolini alla riunione del direttorio del PNF, svoltasi a Palazzo Venezia il 17 aprile 1943 e in cui viene annunciata la sostituzione alla guida del partito di Vidussoni con Scorza, è riprodotto in Renzo De Felice, Mussolini l’alleato, Einaudi, Torino 1990, vol. II, p. 951. 10

La lettera di Farinacci al Duce è riportata in Loris Rizzi, Lo sguardo del potere, cit., p. 76 11 Piero Bairati, Valletta, Utet, Torino 1983, p. 94. 12 Valerio Castronovo, Giovanni Agnelli. La Fiat dal 1899 al 1945, Einaudi, Torino 1971, p. 464. 13 Ibid., p. 46


14

Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, cit., p. 470. 15 Piero Pieri, Giorgio Rochat, Badoglio, Utet, Torino 1974, p. 776. 16 Un altro militare di prestigio era il maresciallo Enrico Caviglia, di fatto però pensionato da oltre quindici anni e ormai isolato dall’ambiente militare. 17 Per la dinamica del colpo di stato del 25 luglio si rinvia all’abbondante bibliografia esistente. 18 Giorgio Rochat, Giulio Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Einaudi, Torino 1978, p. 275. 19 La lettera di Hitler, datata 16 febbraio ma consegnata a Mussolini a Palazzo Venezia il 25 febbraio dal ministro degli Esteri germanico Joachim von Ribbentrop, è pubblicata in Frederick W. Deakin, op. cit., pp. 185-87. 20 Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1992, p. 31.


3 Il governo dei quarantacinque giorni: la politica interna

La politica del “doppio binario” Alla fine di luglio, la situazione è normalizzata. Scongiurata la minaccia di una reazione fascista e di un immediato intervento tedesco, soffocata la mobilitazione di piazza attraverso la militarizzazione del territorio, il gruppo dirigente badogliano si trova di fronte alle due scelte di fondo da operare: quale strada percorrere per far uscire la nazione dalla guerra e quale politica interna perseguire. Sul primo punto, la tendenza unanime è guadagnare tempo: «Dal re ai militari, tutti esitavano di fronte a una scelta che avrebbe comunque comportato grossi rischi e grossi sacrifici: perciò, dopo le prime proteste, i comandi italiani diedero via libera alle unità tedesche che penetravano in Italia».1 Sul secondo punto, l’azione del re e di Badoglio trova invece modo di esplicarsi in un quadro complesso, dove la prospettiva condivisa di continuità dell’apparato statale e di blocco delle forze dell’ordine attorno alle istituzioni monarchiche non esclude contraddizioni all’interno del gruppo dirigente. All’iniziativa regia risalgono sia la composizione moderata del gabinetto ministeriale (su sedici ministri, si annoverano cinque generali, tre consiglieri di Stato, tre direttori generali dei rispettivi dicasteri, un ambasciatore, un


prefetto, oltre al direttore della Banca d’Italia e al direttore generale della stampa estera), sia i primi provvedimenti adottati negli ultimi giorni di luglio: il 27 la soppressione del PNF, del Gran Consiglio del fascismo, del Tribunale speciale e la liberazione dei detenuti politici; il 30 lo scioglimento della camera dei fasci e delle corporazioni e il movimento dei prefetti, con alcuni collocamenti a riposo e molte rotazioni; il 31 il richiamo alle armi di tutti gli ex segretari e vicesegretari federali, dei fiduciari di fabbrica, degli squadristi dipendenti del disciolto PNF. L’insieme di questi provvedimenti ha un evidente valore propagandistico e serve per dimostrare all’opinione pubblica la volontà di procedere allo smantellamento dell’apparato del regime e alla defascistizzazione dello Stato: nell’attuazione pratica di quanto proclamato è, tuttavia, intenzione del sovrano procedere con lentezza e prudenza, vanificando nella sostanza ciò che si annuncia nella forma e badando a non compromettere la stabilità sociale con iniziative che possano dare spazio alle opposizioni antifasciste. La duplicità di questo indirizzo si completa con i provvedimenti per il controllo della stampa: il 28 luglio viene istituito il servizio di censura preventiva e si avvia il riesame della situazione creata all’interno di ciascun quotidiano, chiedendo ai prefetti di imporre direttori di loro gradimento. Unite ai provvedimenti emanati in materia di ordine pubblico e all’impiego delle truppe in funzione antipopolare, queste disposizioni configurano un progetto di politica interna ben chiaro: la difesa a oltranza dell’assetto politico, sociale e istituzionale, attraverso un blocco omogeneo che ha il suo pilastro centrale nell’esercito, comprende l’intera classe dirigente del Ventennio epurata delle sue frange più compromesse e prevede la cooptazione in ruoli subalterni e a titolo individuale di alcuni vecchi esponenti liberali di sicura vocazione conservatrice. Questi obiettivi strategici sono condivisi da Badoglio, ma il maresciallo


opera con maggior duttilità politica e sostiene una linea di allargamento del consenso attorno al governo: «Si trattava di corresponsabilizzare, di “compromettere” sul piano della gestione del potere, i partiti antifascisti, anticipando così una sorta di società consolidata in cui ci fosse anche posto per forme di critiche e di dissenso, ma sempre in un ambito rigorosamente istituzionale e al di fuori dell’iniziativa diretta dal basso».2 Il presupposto perché questa condotta risulti efficace è la credibilità dello stesso Badoglio di fronte all’opinione pubblica e all’opposizione antifascista, e di qui nascono alcune iniziative di epurazione abilmente veicolate dalla campagna di stampa: l’annuncio di una revisione dei testi scolastici per defascistizzarne i contenuti, l’arresto di personalità compromesse con il regime come l’ex capo di stato maggiore Ugo Cavallero, e, soprattutto, l’istituzione di una commissione di inchiesta sugli illeciti arricchimenti dei gerarchi. Il profilo modesto che il re ha voluto imprimere al governo favorisce il lavoro di Badoglio, abituato a muoversi in una logica verticistica e accentratrice, e questi provvedimenti vengono assunti senza ricorrere alla collegialità del governo, dove il gruppo dei militari è ostile a una politica di apertura.3 Nella sostanza, le scelte del maresciallo non escono dalla prospettiva strategica maturata con il colpo di stato e i provvedimenti che appaiono più radicali hanno un’efficacia modesta (tipico il caso della liberazione dei detenuti politici, da cui restano esclusi comunisti, anarchici e slavi, ma anche coloro che sono stati condannati per attività militare o spionistica, cioè la maggior parte degli antifascisti, in genere accusati di attività di sabotaggio o di disfattismo). Anche se la politica di Badoglio risponde alle esigenze di difesa della continuità istituzionale, la scelta tattica del “doppio binario” rivela margini di autonomia che suscitano la diffidenza di Vittorio Emanuele III, in particolare quando i provvedimenti di epurazione allontanano dalla


monarchia i fascisti moderati (Ciano ripara in Germania, Grandi in Portogallo). Il generale Puntoni, fedele portavoce del sovrano, scrive nel suo diario in data 13 agosto: «Per via di certi provvedimenti eccessivi, non necessari e alcuni addirittura inopportuni, si sono allontanati dalla monarchia uomini che avrebbero invece potuto essere di valido aiuto. Anche stamattina, tramite Acquarone, il re ha fatto giungere a Badoglio il suo disappunto».4 Il risentimento di Vittorio Emanuele III e dei suoi consiglieri tradisce un limite di comprensione politica degli avvenimenti. L’obiettivo perseguito da Badoglio di prendere tempo e di allargare la base politica del suo esecutivo risponde a una visione degli interessi contingenti della monarchia sufficientemente lucida, che mira a cogliere la realtà emergente dall’antifascismo organizzato e ad avvalersene in funzione della stabilità sociale: in questo senso, il maresciallo opera con maggior lungimiranza del sovrano.

I partiti antifascisti I partiti che Badoglio individua come interlocutori non sono formazioni organizzate né costituiscono un fronte unitario: vent’anni di regime hanno significato smantellamento delle strutture preesistenti e dispersione dei militanti, ma anche polemiche e reciproche accuse, alimentate dal clima di isolamento dell’esilio e dal diffuso senso di impotenza politica. Per questi gruppi dispersi e spesso divisi, la crisi del 1942-43 ha rappresentato l’occasione per riaffacciarsi sulla scena e riannodare contatti nella prospettiva di creare un fronte unitario. Ai militanti maturati prima dell’avvento al potere di Mussolini, si è affiancata la generazione dei “giovani”, parecchi dei quali hanno militato nei Gruppi universitari fascisti, ma hanno successivamente


preso le distanze dal regime di fronte «all’esaurirsi dell’ideologia corporativistica, all’intervento nella guerra di Spagna, al razzismo e alla persecuzione antiebraica, all’alleanza con il nazismo».5 Sin dall’inizio del 1943 questo arcipelago composito si mette in movimento, con la partecipazione di uomini come Alessandro Casati e Leone Cattani per i liberali, Giovanni Gronchi e Piero Malvestiti per la Democrazia cristiana, Concetto Marchesi per i comunisti, Lelio Basso per il Movimento di unità proletaria, Roberto Veratti per i socialisti e Riccardo Lombardi per gli azionisti. I primi incontri registrano più divergenze che intese: in particolare, si sconta la contrapposizione tra le forze di sinistra, che premono per scendere sul terreno dell’iniziativa, e quelle moderate, che sostengono invece una linea attendistica temendo radicalizzazioni eversive. Con il colpo di stato del 25 luglio, le pregiudiziali ideologiche sembrano cadere: «A Roma la costituzione di un comitato delle opposizioni si realizza tra il 27 e il 28 luglio; a Torino e Milano le riserve avanzate da liberali e democristiani vengono meno e si giunge alla redazione di manifesti comuni». L’improvvisa convergenza non deve stupire: «Con l’abbattimento del dittatore per iniziativa regia, è eliminato il problema dell’appello al popolo per un rovesciamento politico. È il venir meno di questo elemento politico, su cui insistevano le sinistre, che permette un primo incontro su alcuni punti di fondo».6 Nella nuova situazione creatasi con l’abbattimento del fascismo, gli spazi di manovra per le organizzaziono politiche non sono, comunque, molti: se Badoglio cerca il coinvolgimento degli esponenti antifascisti, i partiti in quanto tali non vengono tuttavia riconosciuti come associazioni ammesse dalla legge e non possono né organizzare pubbliche manifestazioni, né aprire proprie sedi, né stampare o diffondere materiale di propaganda. La rinascita dell’attività politica antifascista si sviluppa così in un clima di


semiclandestinità, dove la repressione del Ventennio lascia il posto a un controllo più discreto, ma dove la ramificazione del tessuto organizzativo deve misurarsi con gli ostacoli frapposti dalla frammentarietà dei contatti, dal relativo isolamento delle singole realtà regionali, dal ritardo con cui i detenuti politici vengono liberati, dalle resistenze degli apparati di polizia. Fra tutti i gruppi, il più consistente sotto il profilo organizzativo è il partito comunista, la cui struttura fondata su cellule di quattro o cinque elementi ha maturato una significativa esperienza di lotta clandestina, resistendo alla repressione nonostante i militanti incarcerati o mandati al confino negli anni precedenti. Garantito da una forte coesione interna sotto il profilo delle direttive politiche, forte di circa cinque-seimila aderenti al momento del colpo di stato, il PCI ha come idea guida l’unità del movimento antifascista, obiettivo primario che trova le sue anticipazioni nelle teorie di Georgi Dimitrov sui fronti popolari7 e che ha come sbocco la legittimazione politica del partito stesso: di fronte a questa linea di percorso prioritaria, la questione programmatica assume un rilievo minore e il vero problema dei comunisti è piuttosto trovare il terreno su cui conciliare politica unitaria e azione di lotta dal basso. In questa direzione, il colpo di stato di Vittorio Emanuele III complica la strategia, perché la proposta di un fronte unitario antifascista ha una valenza rivoluzionaria intrinseca sino a quando Mussolini è al potere, ma dopo la sua caduta è necessaria una mediazione ben altrimenti complessa: tra l’opposizione al governo Badoglio condotta sul terreno della mobilitazione di piazza (che comporta il rischio di rottura con l’antifascismo moderato) e un atteggiamento di consenso e di corresponsabilizzazione, o anche solo di temporanea neutralità (che deve misurarsi con le spinte di diverso segno che vengono dalla base), il gruppo dirigente propende per la seconda ipotesi, acquisendo i meriti maggiori nella promozione dei comitati


unitari. Rispetto al PCI, i socialisti si presentano deboli e dispersi, sia sul piano politico, sia su quello organizzativo: «Il loro solo punto di forza sembra costituito dal fatto che possono contare su una tradizione radicata e su uomini di un certo prestigio, almeno a livello locale, i quali rappresentano un facile punto di riferimento». Su questa realtà di fondo, che riduce il movimento a un insieme di forze di prestigio prive del necessario tessuto organizzativo, si sovrappongono le contrapposizioni tra massimalismo e riformismo ereditate dall’età prefascista e il confronto fra il Psi e il Mup, formazione che si propone come creazione originale e che raccoglie molti giovani delusi per le divisioni e le carenze del vecchio partito. Dopo il 25 luglio, il problema centrale dei dirigenti diventa così quello di rifondarsi, aggregando in un’unica struttura le diverse anime e individuando un comune terreno programmatico. Il risultato è la creazione del Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), ufficializzata il 25 agosto con la pubblicazione su l’“Avanti!” della Dichiarazione politica costituiva del

PSIUP:

il testo sostiene che «la

rivoluzione di palazzo del 25 luglio non ha risolto nessuno dei problemi posti dal fallimento del fascismo» e rinvia a un’iniziativa insurrezionale affermando che «la nazione deve risolutamente marciare verso la rivoluzione popolare» e che dopo la caduta di Mussolini «i problemi della pace e della libertà si pongono come problemi di volontà, di iniziativa, di forza delle masse popolari». Nel programma, i postulati di libertà, democrazia e uguaglianza sociale si saldano in un’ipotesi di repubblica socialista dei lavoratori, imperniata sulla «socializzazione dei grandi mezzi di produzione e di scambio».8 In questa prospettiva, il PSIUP si presenta sulla scena politica con un ricco patrimonio politico e ideologico rielaborato in un progetto politico unitario, al quale fa però da riscontro la fragilità organizzativa e la


difficoltà a ramificarsi a livello di base. Nell’ambito delle forze antifasciste di sinistra, un ruolo determinante ha il Partito d’azione, sorto nel 1942 dall’unione del Movimento liberalsocialista, da una parte del movimento Giustizia e libertà e da un insieme di uomini di formazione democratica, repubblicana e liberale, unificati dall’esigenza dell’antifascismo attivo e da un’impostazione programmatica democraticorepubblicana. Il programma del PDA, fissato in sette punti approvati in una riunione tenuta a Milano nel maggio 1942 e pubblicato sul primo numero dell’organo clandestino del partito, “Italia Libera”, nel gennaio 1943, sollecita una rivoluzione morale di sapore mazziniano e gobettiano e si esplicita in tre indicazioni essenziali: nel campo politico, la pregiudiziale repubblicana; in quello economico, la nazionalizzazione dei monopoli e dei grandi complessi industriali e finanziari e la libertà per le piccole e medie imprese; in quello internazionale, la promozione di una coscienza unitaria europea grazie alla quale riorganizzare il continente dopo la fine della guerra in una grande federazione. Costante degli azionisti è il richiamo a una rigida intransigenza, al rifiuto di ogni compromesso, attitudini connaturate all’origine intellettuale della maggior parte dei militanti, origine che però costituisce il limite del movimento. Il programma di profondo rinnovamento morale richiede infatti l’appello all’azione delle masse lavoratrici, come sostiene “Italia Libera” citando Gobetti: «La classe operaia è la sola forza che potrà opporre alle vecchie cricche sempre pronte a patteggiare la sua inesorabile intransigenza»; il movimento operaio ha però bisogno di «una classe dirigente sicura e moderna, dotata di spirito di sacrificio e di maturità storica»,9 e gli azionisti si autocandidano per questo ruolo. Il rapporto che si stabilisce tra base e dirigenza risulta in questo modo meccanico e riduce la classe operaia a un oggetto subordinato al piano


generale della lotta politica, piuttosto che un punto di partenza: di fatto, il PDA «non ha radici, né possibilità di crearsele tra le masse lavoratrici»10 e il partito risulta tanto significativo e determinante sul piano dei rapporti politici, quanto fragile su quello del radicamento sociale. Se comunisti, socialisti e azionisti si pongono sul terreno dell’iniziativa, più prudente appare la posizione dei cattolici. Il movimento risulta composto da formazioni diverse: a Milano, il gruppo che fa capo a Piero Malvestiti; a Roma, gli ex dirigenti popolari e gli elementi formatisi nell’Azione cattolica attorno a Giuseppe Spataro; a Firenze, Giorgio La Pira e la rivista “San Marco”; ancora a Roma, a Genova, con ramificazioni in Emilia e Toscana, il Movimento cristiano sociale. Queste formazioni trovano un punto di riferimento unitario nell’azione mediatrice di Alcide De Gasperi, che fonda nell’inverno 1942-43 la Democrazia cristiana, punto di incontro tra le tendenze più conservatrici del gruppo milanese e quelle più avanzate dei cristiano-sociali. Il programma del nuovo raggruppamento è affidato al testo Idee ricostruttive della democrazia cristiana, pubblicato il 26 luglio 1943, dove si propone una democrazia rappresentativa basata sul suffragio universale, l’istituzione di un’assemblea fondata sulla rappresentanza degli interessi organizzati accanto a una nazionale eletta da tutti i cittadini, il principio della compartecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle imprese, l’eliminazione delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie. Al di là dello sforzo di mediazione di De Gasperi, va però osservato che la ricostruzione del movimento cattolico procede lentamente, imperniato sulla personalità dei notabili prefascisti piuttosto che sulla ramificazione tra la base popolare. Non si tratta solo di un limite organizzativo, ma dai freni posti da preoccupazioni variamente motivate. Per le gerarchie ecclesiastiche, nella situazione ancora fluida determinatasi dopo il colpo di stato, si tratta di


mantenere una posizione di neutralità rispetto alle iniziative politiche dei cattolici, sia per il timore di trovarsi di fronte a reazioni tedesche, sia per i dubbi vaticani sull’opportunità di favorire la creazione di un unico partito cattolico; per De Gasperi si tratta della scelta tattica di non impegnare la DC in un momento storico particolarmente difficile, dove l’operazione di sganciamento dall’Asse comporterà prezzi altissimi di cui è più opportuno far ricadere la responsabilità sul re e su Badoglio. Da queste premesse, il movimento cattolico deriva una posizione di prudenza destinata a frenare la volontà di iniziativa delle forze di sinistra. Su posizioni analoghe di attesa si trovano le forze liberali, ricostituitesi attorno alle maggiori personalità prefasciste (Benedetto Croce a Napoli, Marcello Soleri a Torino, Alessandro Casati a Milano): «Per i liberali, il più immediato richiamo è l’ordinamento costituzionale prefascista e l’equilibrio sociale su cui esso di regge». Essi riconoscono gli errori della monarchia e il carattere di “ravvedimento tardivo” del 25 luglio, ma ne traggono la conclusione di un invito all’accantonamento delle discussioni in vista di una disciplinata collaborazione con il governo Badoglio: pur con diversità di accenti (in particolare, i giovani raccolti attorno a Leone Cattani sembrano mordere il freno), i vari raggruppamenti di ispirazione liberale conservano «fiducia nella monarchia e nel prossimo ristabilimento delle istituzioni», accettando il governo Badoglio «come transitorio»11 e proponendosi nel panorama politico dell’estate 1943 con un orientamento prevalentemente conservatore. A questi gruppi (che costituiranno l’ossatura politica dei comitati di liberazione nazionale) va aggiunta la Democrazia del lavoro (DL), fondata da Ivanoe Bonomi nella prospettiva di svolgere un’azione politica personale di mediazione tra le sinistre e i moderati. Questo partito ha un certo seguito a


Roma e nell’Italia meridionale, dove raccoglie alcuni uomini politici che in passato hanno fatto parte del partito della Democrazia sociale guidato dallo stesso Bonomi, ma è pressoché ininfluente al nord.

I comitati unitari Nell’ultima settimana di luglio, i comitati antifascisti formatisi con la partecipazione dei cinque partiti mantengono una posizione di benevola attesa nei confronti del governo Badoglio e i manifesti redatti unitariamente nelle principali città risentono dell’azione moderatrice di liberali e democristiani: pubblicati nel momento di maggiore mobilitazione popolare, i testi sono generalmente ispirati dalla preoccupazione di evitare disordini e insistono sulle colpe del passato regime piuttosto che indicare prospettive future.12 Questa impostazione riflette l’atteggiamento proposto con lucidità da De Gasperi in una riunione romana del 25 luglio e così riportata da Bonomi: «Si tratta di liquidare due diverse partite: l’abbattimento di Mussolini e del fascismo e la conclusione di un accordo con gli angloamericani. La prima partita è attiva e farà acquisire un titolo di benemerenza nel Paese agli uomini chiamati a liquidarla; la seconda è passiva, perché la conclusione di un accordo con quelli che oggi sono i nostri nemici sarà opera difficile e creerà responsabilità penose per i suoi negoziatori. Dunque, poiché la partita attiva è ormai liquidata, non resta che la partita passiva e sarebbe un errore politico per i nostri uomini accettarla. Si decida pertanto di rimanere in attenta osservazione e di non assumere alcuna corresponsabilità».13 Questa tendenza a lasciar fare al governo Badoglio per raccoglierne la successione al momento opportuno si scontra con quella degli azionisti, intransigentemente schierati su posizioni di critica e di rifiuto di ogni compromesso, mentre i comunisti


appaiono più duttili, preoccupati anzitutto di rafforzare un fronte unitario; la linea De Gasperi-Bonomi risulta tuttavia vincente, sia perché i comitati non hanno deleghe precise, sia perché nella realtà concreta dell’estate 1943 il compito principale delle forze politiche è quello di radicarsi e legittimarsi come rappresentanti dell’opinione pubblica. Di questa situazione Badoglio sa approfittare «con una sicurezza e una duttilità insospettabili in un militare di carriera privo di esperienza specifica»:14 muovendosi con abilità tra mezzi ammiccamenti e mezze assicurazioni, egli riesce a «catturare come minimo l’attenzione degli antifascisti e con ciò a condizionarne largamente la condotta e, soprattutto, ad alimentare la convinzione che – in caso di armistizio – la lotta contro i tedeschi potrebbe essere condotta in stretta alleanza tra governo e opposizioni, esercito e popolo».15 Pur con l’eccezione di Torino e Milano, dove la tensione sociale e la spinta dei partiti progressisti porta a posizioni di critica verso il governo, la situazione dei comitati resta sostanzialmente assestata sulla linea moderata di attesa dettata da liberali e democristiani. Entro questo quadro generale, Badoglio, privilegiando il rapporto con il comitato delle opposizioni di Roma di cui è portavoce Bonomi, riesce a coinvolgere parzialmente il fronte antifascista, in particolare sul fronte sindacale: il 9 agosto il governo decide, infatti, la soppressione degli organi corporativi centrali e nomina i commissari straordinari delle confederazioni sindacali ex fasciste, scegliendoli in gran parte tra gli esponenti antifascisti. Bruno Buozzi, socialista, viene così posto a capo della confederazione dei lavoratori dell’industria, coadiuvato come vicecommissari dal comunista Giovanni Roveda e dal democristiano Gioacchino Quarello; il democristiano Achille Grandi viene invece nominato commissario della confederazione dei lavoratori dell’agricoltura, con vice il socialista Oreste Lizzadri (e in seguito


anche il comunista Giuseppe Di Vittorio per i braccianti e il democristiano Pietro Mentasti per i coloni e i mezzadri); Guido De Ruggiero, azionista, guida la confederazione degli artisti e dei professionisti, Ezio Vanoni, democristiano, quella dei lavoratori del commercio. Si tratta di provvedimenti che sul piano del rinnovamento hanno una rilevanza politica modesta, perché tutta l’organizzazione sindacale del Ventennio è ormai in piena crisi e non è in grado di inquadrare efficacemente le masse lavoratrici, ma che garantiscono a Badoglio un’occasione di dialogo con le opposizioni e, in caso di mobilitazione operaia, possono rappresentare uno strumento di controllo; d’altra parte, per il fronte antifascista si tratta di una legittimazione politica e il segno di un’apparente apertura, interpretata da molti come l’indizio che «Badoglio si avvii a dare maggior spazio all’antifascismo, garanzia del suo indirizzo antitedesco».16 Su questo sfondo politico interlocutorio, a metà agosto si inserisce un nuovo ciclo di scioperi. Il malcontento popolare trova esca nei bombardamenti alleati dei centri urbani del nord: dopo una breve tregua, gli angloamericani riprendono la guerra aerea contro le città industriali e a partire dal 7 agosto Milano, Genova e Torino vengono pesantemente colpite: solo a Milano si contano 193 vittime in dieci giorni. Il proseguimento della guerra ha effetti immediati: all’indomani del primo bombardamento massiccio, a Milano si fermano gli operai della Pirelli Bicocca, a Sesto San Giovanni quelli della Breda e della Falk, a Torino scendono in sciopero la Fiat Grandi Motori e la repressione militare (un morto e sette feriti gravi) sortisce l’effetto di allargare il movimento: il 18 agosto gli scioperanti nel capoluogo piemontese sono 7000, il 19 salgono a 35 000, il 20 la mobilitazione si estende alle fabbriche della provincia; negli stessi giorni nella provincia di Milano si arriva a 65 000 scioperanti. Nel frattempo, l’agitazione si estende ad altri centri industriali, da Reggio Emilia


a La Spezia, Piombino, Biella, Varese Foligno, Modena. Il carattere politico di queste manifestazioni è evidente: se a innescare il malcontento popolare sono i bombardamenti, esso ha radici più profonde, che spaziano dal deterioramento pesante delle condizioni di vita, alla rigidità del controllo militare, alle ambiguità con cui viene portata avanti la defascistizzazione del Paese. Le agitazioni rappresentano un banco di prova sia per il maresciallo Badoglio, sia per l’opposizione antifascista. Di fronte all’estendersi degli scioperi, all’interno dei comitati unitari si approfondisce il confronto e diventano più forti le voci di coloro che vogliono porsi sul terreno dell’opposizione aperta verso il governo. Il 13 agosto i dirigenti sindacali nominati nelle diverse confederazioni ricusano con una dichiarazione comune ogni corresponsabilità politica con il governo e sottolineano il carattere sindacale delle loro funzioni; il 23 il comitato milanese sollecita il comitato romano perché indirizzi un appello al Paese chiedendo l’armistizio e la sostituzione del governo Badoglio. Le spinte in direzione di una rottura trovano sostegno nelle agitazioni di piazza, ma, contemporaneamente, si scontrano con gli equilibri interni ai comitati, con i contrasti sul ruolo da assegnare all’iniziativa popolare, con la preoccupazione di non incrinare l’unità del fronte: in particolare all’interno del comitato romano, che attraverso Bonomi mantiene i rapporti con Badoglio e con la corte, le forze moderate fungono da elemento frenante e trattengono il fronte interpartitico da prese di posizione radicali. Di fatto, durante gli scioperi di agosto continua a essere evidente la sfasatura tra lotte sociali e antifascismo politico, la cui capacità di intervento appare sensibilmente condizionata dalle tendenze temporeggiatrici e il cui ruolo risulta marginale rispetto alle dinamiche dei quarantacinque giorni.


Di queste contraddizioni approfitta Badoglio per consolidare il proprio governo: sul piano della gestione dell’ordine pubblico, egli si oppone ai ministri militari favorevoli a una dimostrazione di forza e riesce a temperare la repressione di piazza; sul piano delle concessioni politiche, dispone la liberazione di molti detenuti di rilievo, in particolare comunisti; sul piano delle epurazioni, sfrutta le voci di un complotto fascista diffuse forse ad arte dal SIM (Servizio informazioni militari) e procede all’arresto di alcune personalità, tra cui Cavallero, Bottai e Muti (quest’ultimo ucciso dopo l’arresto in circostanze misteriose);17 sul piano della comunicazione, attraverso una campagna di stampa mirata si propone come garante del nuovo ordine. Come contropartita, il maresciallo ottiene l’intervento dei dirigenti antifascisti per il contenimento delle manifestazioni. Il 20 agosto giungono così a Torino i sindacalisti Buozzi e Roveda per un incontro con le rappresentanze operaie in sciopero. La mediazione, condotta in stile giolittiano, trova la sua motivazione nei rischi connessi a una frattura interna e vede il comunista Roveda e il socialista Buozzi operare per una ricomposizione, schierati sulle posizioni di “benevola attesa” del comitato romano. Sostenuto dalle rassicurazioni del governo sull’inizio imminente delle trattative di pace, l’intervento dei dirigenti antifascisti porta alla sospensione delle agitazioni torinesi; lo stesso viene deciso a Milano il 21; nei giorni successivi, il movimento di protesta rallenta e dopo il 23 agosto cessa quasi ovunque. Per Badoglio è il risultato più significativo di una politica interna che mira a guadagnare tempo evitando scontri frontali; per l’antifascismo, il segno evidente di un’incertezza che relega i comitati e i partiti a un ruolo subalterno, evidenziandone i ritardi rispetto ai percorsi della realtà sociale.


1

Piero Pieri, Giorgio Rochat, op. cit., p. 787. 2 Giovanni De Luna, Badoglio. Un militare al potere, Bompiani, Milano 1974, p. 240. 3 In particolare, il ministro della Produzione bellica, generale Carlo Favagrossa, critica i metodi dittatoriali di Badoglio e non condivide quelli che ritiene “cedimenti” ai partiti antifascisti. 4 Paolo Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, il Mulino, Bologna 1993, p. 158. 5 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. 10, Feltrinelli, Milano 1984, p. 134. 6 Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, op. cit., p. 51. 7 Georgi Dimitrov (1882-1949), comunista bulgaro, nell’estate 1935 durante il VII congresso del COMINTER (di cui fu presidente dal 1934 al 1943) lanciò la strategia dei fronti popolari, che avrebbe permesso ai partiti comunisti di combattere efficacemente il fascismo. 8 Il testo della Dichiarazione politica costitutiva del PSIUP, pubblicato il 25 agosto 1943 nell’edizione romana dell’“Avanti!”, è riportato in Simone Neri Serneri (a cura di), Il Partito socialista nella Resistenza. I documenti e la stampa clandestina (1943-1945), Nistri-Lischi, Pisa 1988, pp. 55-58. 9 “Italia Libera”, numero straordinario del 27 luglio 1943. 10 Giovanni De Luna, Storia del Partito d’azione. La rivoluzione democratica (1942-1947), Feltrinelli, Milano 1982, p. 223. 11 Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, op. cit., pp. 114-115. 12 Tipico il caso di Torino, dove il manifesto del comitato, pubblicato su “Stampa Sera” del 26 luglio, in apertura ricorda i torti della dittatura per «aver trascinato il Paese in una guerra non sentita e violentemente imposta», quindi passa all’appello alla «calma» e alla «fermezza» e conclude con


l’invito a dimostrarsi degni di «quella libertà che, a così duro prezzo smarrita, albeggia finalmente sul nostro suolo». Solo nelle righe finali si fa cenno a una linea programmatica, con la duplice parola d’ordine «libertà e pace». 13 L’intervento di De Gasperi alla riunione ristretta tenuta subito dopo l’annuncio della destituzione di Mussolini è riportato in Ivanoe Bonomi, Diario di un anno. 2 giugno 1943-10 giugno 1944, Garzanti, Milano 1947, p. 85. 14 Piero Pieri, Giorgio Rochat, op. cit., p. 793. 15 Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione (a cura di), op. cit., p. 121. 16 Ibid., p. 123. 17 Il capo della polizia, Carmine Senise, manifesta una forte perplessità sull’esistenza reale del complotto (Carmine Senise, Quando ero capo della Polizia, cit., pp. 234 e sgg.); il capo del SIM, generale Cesare Amè, riferisce di aver ricevuto a metà agosto una segnalazione “dall’alto” (Cesare Amè, Guerra segreta in Italia (1940-43), Casini, Roma 1954, p. 186). Altri autori (come Ruggero Zangrandi) sostengono più esplicitamente che l’intera operazione è stata “montata” da Badoglio per tamponare il proposito del re di sostituirlo e per liberarsi nel contempo di personaggi scomodi.


4 Il governo dei quarantacinque giorni: la politica estera

Le trattative con gli angloamericani La duttilità dimostrata da Badoglio nel rapporto con l’opposizione permette al governo di raggiungere risultati positivi in politica interna, ma nell’emergenza dell’estate 1943 i successi tattici non bastano a nascondere la debolezza complessiva della linea strategica: il problema fondamentale è infatti come uscire dalla guerra. L’azione del maresciallo mira invece a prendere tempo in attesa di circostanze più favorevoli e questo porta a rinviare una decisione che nessuno ha il coraggio di prendere. A metà agosto 1943, il rinnovarsi della pressione aerea alleata e la conseguente mobilitazione operaia costringono però il governo a scelte decisive, nelle quali il gruppo dirigente del 25 luglio mostra tutti i propri limiti. Le prime iniziative per stabilire un contatto con gli angloamericani sono affidate a emissari che si muovono senza accrediti ufficiali e senza coordinamento, talora sovrapponendosi l’uno all’altro: tale è la missione di Alberto Pirelli, inviato dal conte Acquarone a Berna per sollecitare la mediazione del governo elvetico e tornato senza risultati per il timore della Svizzera di scatenare rappresaglie tedesche; e tale è quella del diplomatico Blasco Lanza d’Ajeta, inviato a Lisbona per incontrare l’ambasciatore inglese


senza credenziali che lo autorizzino a negoziare. Contemporaneamente, per iniziativa di Badoglio e del ministro degli Esteri Raffaele Guariglia, viene mandato a Tangeri un altro diplomatico, Alberto Berio, per cercare di ottenere un abboccamento col generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo: anche in questo caso la missione si risolve in un insuccesso. Queste iniziative risultano più dannose che utili, insospettendo gli angloamericani per l’ambiguità dell’approccio: come afferma Churchill commentando il contatto con d’Ajeta, «la richiesta è che noi si salvi l’Italia dai tedeschi e da se stessa e al più presto possibile».1 Gli alleati, tuttavia, non si dimostrano indisponibili all’avvio di trattative. Nella conferenza di Casablanca del 27 gennaio 1943 Churchill e Roosevelt hanno affermato che intendono continuare la guerra contro le potenze nemiche sino alla «resa incondizionata» di ciascuna di esse, ma tra le due potenze esiste un contrasto sul piano strategico: «Gli inglesi desideravano infatti conquistare un saldo controllo del Mediterraneo, soprattutto in funzione del dopoguerra, e solo in un secondo tempo sferrare l’offensiva finale contro la Germania. Gli americani invece non intendevano che la difesa degli interessi imperialistici britannici sottraesse forze alla liquidazione del nemico principale. Lo sbarco in Sicilia, condotto con largo impiego di uomini e mezzi, e la successiva occupazione dell’isola non nascevano dalla volontà di privilegiare il fronte meridionale attaccando la Germania da sud né dall’intenzione di far cadere il fascismo, ma corrispondevano all’esigenza di garantirsi il controllo sul Mediterraneo riaprendolo al traffico mercantile e, in subordine di accentuare la pressione sull’Italia. Assicurato il controllo dell’isola, la maggior parte delle truppe avrebbe dovuto lasciare lo scacchiere meridionale e concentrarsi in Inghilterra in preparazione di un grande sbarco nella Francia settentrionale da effettuarsi nella primavera 1944. Il successo delle operazioni in Sicilia e la


contemporanea caduta di Mussolini aprivano, tuttavia, orizzonti strategici nuovi perché l’ipotesi di un rovesciamento delle alleanze italiane si faceva concreto e rendeva possibile prevedere uno sbarco nella Penisola per l’apertura di un fronte secondario che tenesse impegnate una parte delle forze germaniche».2 Il generale Eisenhower ritiene che, in questa prospettiva, sia importante raggiungere in tempi ravvicinati un accordo con il governo Badoglio e fa pressione sui vertici politici dell’alleanza perché la posizione verso l’Italia si ammorbidisca: a questo scopo egli propone un armistizio in dodici punti (noto come “armistizio corto”) concepito come strumento essenzialmente militare, che impone all’Italia la cessazione di ogni ostilità contro le forze angloamericane, la sospensione di ogni aiuto alla Germania, la consegna di tutti i prigionieri di guerra e degli internati presenti sul territorio nazionale, il trasferimento della flotta e degli aerei militari in luoghi designati dal comando alleato, la facoltà di quest’ultimo di utilizzare la marina mercantile italiana, il libero uso del territorio della Penisola per la guerra contro la Germania: ogni altra condizione di carattere politico, economico, finanziario è rinviata a successive decisioni del comando alleato. Churchill e Roosevelt, riuniti nella seconda metà di agosto a Quebec, aggiungono al testo di Eisenhower un testo armistiziale più severo e di difficile accettazione che pone lo stesso governo italiano sotto controllo alleato (composto di quarantaquattro articoli, il testo è diventato noto come “armistizio lungo”), ma contemporaneamente sottoscrivono una dichiarazione possibilista che lascia la porta aperta alle trattative: «La misura nella quale le modificazioni saranno modificate in favore dell’Italia, dipenderà dall’entità dell’apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni unite contro la Germania durante il resto della guerra».


In questa atmosfera si sviluppa una nuova missione italiana, quella del generale Giuseppe Castellano, uomo di fiducia del generale Ambrosio. L’ufficiale parte da Roma in treno il 12 agosto, accompagnato dal giovane diplomatico Franco Montanari, parente di Badoglio e buon conoscitore della lingua inglese: muniti di passaporti falsi, i due sono ufficialmente incaricati di accogliere in Portogallo i membri dell’ambasciata italiana a Santiago del Cile, rimpatriati dopo che la Repubblica cilena ha rotto le relazioni diplomatiche con Roma. Il viaggio, tra interruzioni ferroviarie ed emergenze bombardamenti, dura quattro giorni e Castellano giunge solo il 16 a Lisbona dove dopo altri tre giorni di attesa riesce a incontrarsi con il generale statunitense Walter Bedell Smith, capo di stato maggiore di Eisenhower, e con il generale inglese Kenneth Strong, presenti gli ambasciatori Ronald Campbell e George Kennan. Sopravvalutando le risorse a disposizione degli alleati e ignorando i piani per l’apertura di un fronte nella Francia settentrionale, i negoziatori italiani vogliono subordinare la firma dell’armistizio a uno sbarco angloamericano che garantisca dalle rappresaglie tedesche e assicuri la continuità dello Stato monarchico. A questa richiesta, Bedell Smith risponde ribadendo la priorità della resa ma tracciando, nel contempo, le linee di condotta che gli Alleati intendono adottare verso l’Italia: egli consegna a Castellano il testo della dichiarazione di Quebec e quello dell’“armistizio corto”, annuncia il prossimo sbarco nella Penisola (senza specificarne luoghi e tempi) e infine precisa che Eisenhower comunicherà la data e l’ora di entrata in vigore dell’armistizio sei ore prima dello sbarco; il governo italiano dovrà, nello stesso momento, annunciarne ufficialmente l’accettazione. Il risultato dell’incontro è notevole per le informazioni politiche che vengono date: sostanzialmente, gli Alleati riconoscono nel governo Badoglio


e nella monarchia sabauda una controparte di cui avvalersi non solo nel momento delle trattative, ma anche in proiezione futura. Si tratta di un riconoscimento non scontato: «Una insufficiente premura da parte angloamericana, che rispondesse con ripicche alle esitazioni del governo italiano nella richiesta di un armistizio, sarebbe bastata a rinviare ogni decisione di settimane o di mesi, proprio mentre le grandi agitazioni popolari rendevano insostenibile la posizione del governo Badoglio. E invece Castellano tornava con la notizia che gli angloamericani avevano fretta di concludere le trattative, che preparavano a breve scadenza l’invasione della Penisola e che erano interessati alla collaborazione che il governo Badoglio poteva offrire. Prima ancora di iniziare le trattative, in sostanza, il re e Badoglio avevano già raggiunto tutti i loro obiettivi fondamentali».3 Castellano e Montanari, attenendosi alle istruzioni ricevute, attendono l’arrivo della missione diplomatica dal Cile e rientrano a Roma solo il 27 agosto, accumulando un ritardo inconcepibile rispetto all’importanza delle informazioni da trasmettere. Quando si incontrano finalmente con Badoglio, Guariglia, Ambrosio e Acquarone, trovano un gruppo dirigente che, di fronte alle aperture di credito degli Alleati, reagiscono con incertezza e contraddizioni. Dopo tre giorni di discussione e ripensamenti, dominati dalla preoccupazione che la contemporaneità della resa e dello sbarco alleato lascino il governo esposto alla reazione tedesca, il 31 agosto Castellano viene mandato in Sicilia per portare avanti le trattative sulla base di un promemoria nel quale si dichiara di «accettare l’armistizio solo a sbarchi avvenuti di almeno quindici divisioni, la maggior parte di esse tra Civitavecchia e La Spezia».4 Dopo lunghe discussioni, Bedell Smith formula la proposta definitiva: l’Italia accetta la resa senza condizioni e l’ufficializzazione dell’armistizio sei ore prima dello sbarco; da parte loro, gli angloamericani si


impegnano a effettuare uno sbarco con forze ingenti e a suggellare il cambio di fronte con un’operazione di aviosbarco di reparti paracadutisti su Roma, a patto che i comandi italiani garantiscano il controllo degli aeroporti circostanti la capitale. Castellano rientra il giorno stesso a Roma e il 1° settembre l’accordo viene discusso in una riunione ristretta alla quale partecipano Badoglio, Guariglia, Acquarone, Ambrosio e Carboni e della quale gli altri membri del governo vengono tenuti all’oscuro:5 decisa l’accettazione delle condizioni alleate e ottenuto l’assenso del re, Castellano riparte il giorno successivo per la Sicilia. Dopo aver superato l’ultimo ostacolo dovuto alla mancanza di una delega formale,6 l’“armistizio corto” viene finalmente firmato da Castellano e Bedell Smith alle 17.45 del 3 settembre nell’accampamento alleato di Cassibile, presso Siracusa, alla presenza di Eisenhower e dei più alti responsabili militari anglo-americani.

I rapporti con la Germania Le incertezze nella conduzione delle trattative con gli Alleati trovano riscontro nei rapporti che parallelamente vengono stabiliti con la Germania: in questo precario doppio gioco della diplomazia emerge tutta la fragilità della strategia badogliana ed è da qui che emerge la strumentalità dell’operazione che ha condotto al 25 luglio. Le relazioni ufficiali tra i due “alleati” trovano un momento di verifica il 6 agosto: Guariglia, Ambrosio, von Ribbentrop e Keitel si incontrano a Tarvisio, in un’atmosfera di reciproco sospetto. I tedeschi, che da fine luglio stanno facendo affluire truppe nella penisola ignorando le resistenze italiane, sostengono la probabilità di uno sbarco nemico nel golfo di Genova in coincidenza con un attacco nei Balcani: essi intendono pertanto dislocare due divisioni in Liguria


e Lombardia, una terza in Emilia, una quarta sul Brennero. Gli italiani ritengono invece improbabile lo sbarco in Liguria e chiedono l’autorizzazione a ritirare la Quarta armata dalla Francia meridionale e la Seconda dai Balcani per concentrarle nell’Italia meridionale. L’esito del colloquio è interlocutorio, perché la risposta alle richieste di Ambrosio viene rinviata alle valutazioni politiche di Hitler. Il vero significato dell’incontro di Tarvisio è quello di guadagnare tempo rinviando una resa dei conti che entrambi gli interlocutori ritengono inevitabile, con la differenza che le dilazioni servono alla Germania per rafforzare il suo dispositivo militare, mentre l’Italia vede il proprio indebolirsi ulteriormente e venire progressivamente incapsulato dalle forze della Wehrmacht. Ribbentrop, tornando dall’incontro di Tarvisio, osserva: «Tornai al quartier generale con la convinzione che l’Italia volesse piantare la Germania e fu in base a tale mio criterio che in Italia furono inviate tutte le divisioni disponibili».7 A sua volta Ambrosio, relazionando all’aiutante di campo del re, generale Puntoni, dichiara: «Ci resta soltanto la speranza che gli angloamericani per il rafforzamento del fronte italiano indirizzino il loro prossimo attacco nei Balcani o in Francia, così le truppe tedesche sarebbero ritirate dalla penisola e inviate sul nuovo fronte e noi potremmo riacquistare una certa libertà di azione».8 Una settimana dopo, quando i contatti con gli Alleati sono ormai avviati e Castellano è partito per la decisiva missione a Lisbona, si svolge un nuovo incontro a Casalecchio, nei pressi di Bologna, tra Roatta, Jodl e Rommel. In un clima pesante di insofferenza (Jodl, acconsentendo al parziale ritiro della Quarta armata dalla Francia, chiede provocatoriamente se si vuole impiegarla nel sud contro gli angloamericani o al Brennero contro i tedeschi), la delegazione tedesca illustra il piano difensivo tracciato alla conferenza del


Führer l’11 agosto: «Il piano si sarebbe basato su una linea di resistenza che da Pisa si snodava a est passando a sud di Firenze, si appoggiava all’Appennino tosco-emiliano e arrivava alla costa adriatica verso Rimini: le comunicazioni ferroviarie con il nord e i passi alpini sarebbero stati controllati esclusivamente dai tedeschi. Nei Balcani i tedeschi intendevano invece costituire un quartier generale congiunto sotto il loro controllo».9 Roatta, nel tentativo che il potere politico e militare cada interamente nelle mani tedesche, contropropone un piano difensivo più articolato, che prevede l’impiego di trentaquattro divisioni italiane e quattordici della Wehrmacht distribuite su tutta la penisola: in particolare, quattro divisioni germaniche dovrebbero essere dislocate in Puglia e Calabria sulla linea d’arresto dell’avanzata nemica e due in Campania a protezione dei golfi di Gaeta, Napoli e Salerno. I colloqui di Casalecchio, gli ultimi tra responsabili militari italiani e tedeschi prima dell’armistizio dell’8 settembre, non sono in realtà che un sondaggio delle rispettive intenzioni: «In pratica, entrambe le parti agivano indipendentemente una dall’altra, nella più completa e reciproca sfiducia. Lo stesso meccanismo politico e militare dei contatti si era arrestato: non c’era più un ambasciatore italiano a Berlino né uno tedesco a Roma. La fine del periodo della cooperazione fu segnata simbolicamente, il 30 agosto, dal richiamo in patria del generale Rintelen, dal 1936 addetto militare a Roma».10

I piani di occupazione tedeschi Scartato il progetto di Hitler di reagire al 25 luglio con un immediato colpo di stato fascista, i tedeschi predispongono nelle settimane successive un piano di intervento generale sia per il settore italiano, sia per quello


balcanico, denominato “Achse” (in cui sono riassunti quelli precedentemente elaborati per ogni singolo settore e denominati Alarico e Costantino). Rispetto allo scacchiere sudorientale, il piano prevede un riordino della struttura di comando con il progressivo assorbimento delle unità italiane da parte dei comandi tedeschi: «Il comandante superiore sud-est, con sede a Salonicco, assunse alle proprie dipendenze operative l’11ª armata italiana. Nello stesso tempo, il comandante dell’11ª armata, generale Carlo Vecchiarelli, assunse alle proprie dipendenze le truppe tedesche che si trovavano nel settore della sua grande unità. Il generale Hellmuth Felmy, comandante del LXVIII corpo d’armata, prendeva invece il comando di tutte le unità tedesche e italiane dislocate nel Peloponneso».11 Presso il comando dell’11ª armata, inoltre, viene costituito un comando operativo tedesco, una sorta di reparto avanzato in vista della prossima defezione dell’Italia dall’Asse. In questo modo le forze del Regio esercito si trovano prive di autonomia e di collegamenti, accerchiate da forze germaniche che ne conoscono perfettamente dislocazione, armamento e movimenti e che si preparano a un’azione di disarmo. Rispetto allo scacchiere italiano, la Germania opera invece attraverso la redistribuzione delle truppe già presenti nella Penisola e l’afflusso di nuovi reparti provenienti dalle frontiere nordorientale e occidentale realizzati sotto il controllo di Rommel, che dal 17 agosto stabilisce il suo quartier generale a Desenzano sul Garda. Un’aliquota di forze rimane al sud, per rallentare l’avanzata angloamericana, ma la maggior parte dei nuovi reparti che a mano a mano penetrano in Italia vengono dislocati al nord, secondo un dispositivo che assicura ai tedeschi il controllo delle vie di comunicazione e delle aree industrializzate e che, nel contempo, permette di interporsi tra le unità italiane: la 2ª divisione paracadutisti del generale Hermann-Bernard Ramcke,


inoltre, viene stanziata nella zona Nettuno-Frascati, a portata tattica di Roma, con un’azione deterrente che mira a impressionare il governo italiano.12 Negli ultimi giorni di agosto le forze della Wehrmacht presenti in Italia «ascendevano perciò a diciassette divisioni, due brigate e circa 150 000 uomini non indivisionati, oltre a quattro divisioni segnalate in arrivo dalla frontiera orientale: rispetto alla situazione di fine luglio, quando le divisioni tedesche in Italia erano otto, le forze germaniche sono così più che raddoppiate».13 A tutte queste truppe sin da metà agosto vengono impartiti ordini precisi per il disarmo dell’esercito italiano, firmati da Jodl, da Rommel e da Keitel, che specificano in dettaglio aree di pertinenza e modalità di intervento. Parallelamente alla ridistribuzione delle truppe in vista del controllo del territorio, i tedeschi procedono alla messa a punto del piano Eiche per la liberazione di Mussolini, operazione assegnata al generale Kurt Student che comanda i reparti paracadutisti della zona di Roma. Il compito di scoprire il luogo dove è custodito Mussolini viene affidato direttamente da Hitler al colonnello Otto Skorzeny, comandante di una unità speciale di SS. Sulla base di segnalazioni e intercettazioni di varia origine, i tedeschi ritengono dapprima che il luogo di confino sia lo stabilimento penale di Ventotene (in realtà è quello di Ponza), quindi l’isola della Maddalena, dove il Duce viene visto da un ufficiale di Skorzeny affacciato alla finestra della villa dove è custodito. Il progettato intervento con un’azione combinata navale e paracadutistica fallisce perché le autorità italiane trasferiscono Mussolini sul continente e, con lo stratagemma di circondare il porto di La Spezia con un cordone di truppa, lasciano intendere che sia quella la nuova destinazione. La segnalazione decisiva, secondo cui il prigioniero è stato visto alla base sperimentale per idrovolanti del lago di Bracciano, giunge a fine agosto:


partendo da questa traccia i tedeschi riescono successivamente a individuare il rifugio del Gran Sasso. All’inizio di settembre il generale Student può così mettere a punto il piano di liberazione, il cui esito è giudicato da Hitler determinante per la strategia di controllo della Penisola e di restaurazione fascista.

Le contromisure italiane I propositi tedeschi sono certamente noti ai responsabili politici e militari italiani. Al di là dei movimenti di truppe della Wehrmacht sul territorio nazionale, il 1° agosto c’è stato un episodio illuminante ad Atene dove alcuni reparti della Luftwaffe, fraintendendo un allarme di prova diramato dal comando supremo, hanno cominciato a disarmare i soldati italiani e nell’operazione ci sono stati scontri e perdite da entrambe le parti. Le contromisure italiane sono tuttavia incerte e approssimative e per comprenderle bisogna tenere conto di alcuni fattori: in primo luogo, la sopravvalutazione del potenziale bellico angloamericano, da cui discende la convinzione che uno sbarco a nord di Roma possa salvare una parte consistente della Penisola; in secondo luogo, la sopravvalutazione delle forze germaniche,

certamente

superiori

per

disponibilità

di

mezzi,

ma

numericamente assai inferiori; in terzo luogo, la sottovalutazione delle unità italiane, male armate e carenti di mobilità, ma sicuramente in grado di opporre resistenza e in alcuni casi di svincolarsi dall’incapsulamento nemico; infine, la preoccupazione di mantenere la segretezza sulle scelte e il timore di rappresaglie tedesche sullo stesso gruppo dirigente. Questi limiti di valutazione sono conseguenza del progetto politico del 25 luglio, che subordina le scelte internazionali alla continuità delle istituzioni e al


mantenimento degli equilibri sociali, indipendentemente dalle dimensioni territoriali sulla quale si esercita la sovranità nazionale: e da qui nascono le disposizioni in materia militare del governo Badoglio e dei comandi delle forze armate. Di fronte al dilagare delle forze tedesche, il 17 agosto viene istituita dal comando supremo un’apposita “sezione speciale” incaricata di seguire l’evolvere della situazione e di redigere un piano di reazione: il lavoro di quest’ufficio si traduce nelle istruzioni con le quali i comandi periferici affronteranno l’armistizio, la Memoria 44 OP e 45 OP (dove OP sta per “ordine pubblico”, nell’estremo tentativo di stornare i sospetti tedeschi), e il Promemoria n. 1 e n. 2, le prime diramate dallo stato maggiore dell’esercito, i secondi dal comando supremo per le rispettive unità di competenza. La Memoria 44 OP, inviata ai comandi dei corpi d’armata la notte del 2 settembre con una procedura lenta e complessa (il testo viene recapitato a mano da ufficiali superiori, i destinatari devono prenderne nota e bruciare il testo dopo aver restituito l’ultima pagina firmata per ricevuta), stabilisce i compiti delle diverse unità in previsione di un’imminente aggressione tedesca: «Compiti generici: evitare sorprese, vigilare, rinforzare la protezione dei comandi, delle vie di comunicazione, degli impianti, sorvegliare i movimenti delle forze tedesche, predisporre colpi di mano su loro depositi, basi, magazzini, presidiare i punti militarmente importanti. Compiti specifici: II armata, far fuori la 71ª divisione tedesca interrompere le comunicazioni ai

tedeschi da Tarvisio al mare; IV armata, raccogliere le forze residue nelle valli Roja e Vermenagna e, agendo sui fianchi delle grandi unità tedesche, interrompere le comunicazioni con la Cornice (Liguria), e con il 20° Raggruppamento sciatori sbarrare i passi del Moncenisio e del Monginevro e interrompere la ferrovia del Frejus; V armata, tenere saldamente La Spezia e puntare su forze e mezzi tedeschi dislocati tra il lago di Bolsena e il Senese;


VII armata, tenere saldamente Taranto e possibilmente anche Brindisi; VIII

armata, tagliare le comunicazioni con la Germania e l’Alto Adige, agire contro forze germaniche in movimento o in sosta nel Trentino e Alto Adige, interrompere, in sostegno alla II armata, le comunicazioni da Tarvisio al mare; forze armate Sardegna, far fuori la 90ª divisione tedesca; forze armate Corsica, far fuori la brigata corazzata SS tedesca».14 Indipendentemente dal giudizio sul piano strategico che ispira la memoria, due elementi risultano determinanti: in primo luogo, il testo non fa nessuna menzione dell’armistizio che Castellano sta per firmare a Cassibile e che, pur nella riservatezza delle trattative, non può essere taciuto ai comandanti delle grandi unità; in secondo luogo, la reazione delle truppe italiane è subordinata a una iniziativa armata tedesca di proporzioni tali da sottintendere un piano di aggressione generale e preordinato. In altre parole, si tratta di rispondere a un attacco anziché prevenirlo, operando all’oscuro della nuova collocazione internazionale decisa dal governo e solo dopo aver verificato l’ampiezza dell’iniziativa avversaria: «Ma come sarebbe stato possibile reagire alle previste aggressioni quando i tedeschi, come avvenne, avrebbero fatto ricorso a movimenti, a concentramenti, a nuove dislocazioni senza compiere atti di violenza? E come poteva essere stabilito il limite tra la violenza vera e propria e tanti altri che venivano compiuti per l’attuazione di un intendimento ormai chiaro fin dal 25 luglio? Poteva, infine, un determinato atto aggressivo giustificare la reazione o meglio l’azione di un’intera zona come misura preventiva di un’aggressione più vasta?».15 A questo si aggiunge ancora il fatto che la memoria diventa operativa solo in seguito a specifica comunicazione dello stato maggiore. La contraddittorietà della Memoria 44 OP non suscita, tuttavia, nessuna riserva da parte dei comandanti destinatari (unica eccezione il generale Mario


Vercellino, responsabile della IV armata, esitante sul merito perché il suo comando è integrato da elementi tedeschi): le disposizioni successive si presentano, così, come semplici integrazioni delle precedenti, senza porre la questione dell’armistizio e senza predisporre i reparti all’assunzione di iniziativa. Il Promemoria n. 1 del comando supremo, emanato il 6 settembre e diretto ai comandanti delle tre forze armate, contiene una serie di disposizioni per la protezione degli impianti nazionali e dei prigionieri di guerra angloamericani e per l’intervento nell’eventualità di una ritirata tedesca lungo la linea Napoli-Roma-Firenze-Bologna-Brennero, ma nella premessa ribadisce che la reazione italiana deve verificarsi solo nel caso in cui forze germaniche «intraprendano di iniziativa atti di ostilità armata in misura e con modalità tali da rendere manifesto che non si tratti di episodi locali, dovuti all’iniziativa di qualche irresponsabile, bensì di azione collettiva ordinata». La Memoria 45 OP, emanata il 6 settembre e arrivata ai comandi più lontani solo la sera del 7, riprende pressoché testualmente il Promemoria n. 1 e ordina ai comandanti dell’esercito di coordinarsi con quelli della marina e dell’aeronautica; ordini a parte, ma egualmente indeterminati, vengono predisposti per la difesa di Roma e per la costituzione di un raggruppamento alla frontiera orientale. Cenno all’armistizio viene fatto, finalmente, nel Promemoria n. 2, diramato dal comando supremo alle ore 21.00 del 6 settembre: nel testo, che rivela come i responsabili militari ben conoscano le intenzioni tedesche, si dice che «particolari condizioni di ordine generale possono imporre di deporre le armi indipendentemente dai tedeschi. L’esperienza recente insegna che questi reagiranno violentemente (il riferimento è ai fatti di Atene del 1° agosto, [n.d.r.]). Non è neppure escluso che possano commettere atti di violenza armata, indipendentemente dalla dichiarazione di armistizio, per rovesciare il governo o altro. Con il


presente promemoria si danno le norme generali da seguirsi dagli scacchieri operativi nell’eventualità di cui sopra». Alle premesse non seguono indicazioni operative precise, se non quella di «reagire immediatamente ed energicamente

a

ogni

violenza

armata

germanica»:

la

scelta

dell’atteggiamento da assumere è lasciata ai singoli comandanti in rapporto alle contingenze. L’avvertenza conclusiva ricorda, infine, che «azioni slegate e sporadiche sono di nessun rendimento» e che «occorre invece coordinamento e preparazione minuta».16 Quest’ultimo documento, al di là delle valutazioni sulla genericità del contenuto, risulta di scarsa efficacia per i ritardi nella trasmissione, fatta senza ricorrere all’impiego della radio e dei cifrari: il testo non giunge né a Tirana, dove ha sede il comando gruppo d’armate E, né al comando forze armate Egeo. Di fatto, al momento dell’armistizio le indicazioni di cui i comandi periferici possono giovarsi restano quelle della Memoria 44 OP.


1

Il commento di Churchill è riportato in Piero Pieri, Giorgio Rochat, op. cit., p. 782. 2 Ibid., p. 800. 3 Ibid., p. 806. 4 Giovanni Castellano, Come firmai l’armistizio di Cassibile, Mondadori, Milano 1945, p. 131. 5 Il generale Giacomo Carboni era il comandante del corpo motocorazzato che avrebbe dovuto garantire la difesa della capitale. 6 La mancanza di una delega formale, che suscitò l’indignazione del generale inglese Alexander, fu ovviata con uno scambio di radiomessaggi tra il comando alleato e Roma: Badoglio autorizzò Castellano a firmare facendo depositare come garanzia per gli Alleati l’autorizzazione stessa con la sua firma presso sir Francis d’Arcy Osborne, ambasciatore britannico alla Santa Sede. 7 Le osservazioni di von Ribbentrop sono riportate in Frederick W. Deakin, op. cit., p. 504. 8 Paolo Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, cit., p. 159. 9

Frederick W. Deakin, op. cit., p. 507. 10 Ibid., 518. 11 Gerhard Schreiber, I militari italiani, cit., p. 69. 12 Enno von Rintelen, Mussolini l’alleato, Corso, Roma 1952, p. 215. 13 Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembreottobre 1943, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1975, p. 32. 14 Giacomo Zanussi, Guerre e catastrofe d’Italia. Giugno 1943-Maggio 1945, Corso, Roma 1945, pp. 139-40. 15 Francesco Rossi, Come arrivammo all’armistizio, Garzanti, Milano 1946, p. 269. 16 I Promemoria n. 1 e n. 2 e la Memoria OP 45 sono riportati


integralmente in Mario Torsiello, Le operazioni delle unità, cit., pp. 63-72.


5 L’annuncio dell’armistizio

«Il governo ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower…» Alle 19.42 dell’8 settembre la radio interrompe i programmi e la voce del maresciallo Badoglio incisa su disco annuncia agli italiani la firma dell’armistizio. Come per il comunicato che un mese e mezzo prima ha annunciato la caduta di Mussolini, il testo è conciso, poche righe redatte nello stile dell’ufficialità di Stato, a mezza strada tra l’impersonalità e la retorica: «Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza». I quotidiani del giorno successivo, nello sforzo di temperare il dramma del Paese, parlano di «una voce maschia eppure attraversata d’angoscia», di «una voce energica e ferma che ci è parsa in qualche istante velarsi di tristezza». Più realisticamente, Cesare Pavese ricostruisce l’emozione di quella notte in un’altra pagina della Casa in collina: «Alla radio la voce monotona, rauca, incredibile, ripeteva macchinalmente ogni cinque minuti la notizia. Cessava e riprendeva, ogni


volta con uno schianto di minaccia. Non mutava, non cadeva, non aggiungeva mai nulla. C’era dentro l’ostinazione di un vecchio, di un bambino che sa la lezione».1 Se per la grande maggioranza degli italiani il 25 luglio è giunto improvviso, l’8 settembre non è da meno. Gli organi di informazione documentano una fine estate di guerra senza presagi nuovi, tra emergenza e continuità. Sui giornali, che la crisi ha ormai ridotto a uscire in un unico foglio, predominano le notizie sulle confische dei beni dei gerarchi («i pingui bauli del genero»; «gli sprechi in feste e festini»);2 le informazioni sulla guerra, filtrate dai bollettini ufficiali, sono ridotte all’essenziale e quando annunciano che gli angloamericani hanno ormai attraversato lo stretto di Messina parlano di «lento e ordinato ripiegamento dalle zone costiere della Calabria».3 Nessuno spunto lascia presagire l’imminenza della svolta: le notizie di cronaca delineano i contorni di una quotidianità più forte dei bombardamenti e della fame, ci sono ancora teatri e cinema aperti, a Roma Paola Borboni e Nuto Navarrini recitano a favore dei sinistrati È ancora possibile, c’è spazio per l’annuncio dei prossimi esami di riparazione fissati al 21 del mese, e persino per la pubblicità delle pellicole Agfa. In questo particolare clima di guerra, dove lo straordinario si intreccia con la norma nella stanchezza di un conflitto senza sbocchi, l’annuncio dell’armistizio suscita reazioni più controllate e pensose di quanto non sia accaduto il 25 luglio. Per gli elementi politicamente più consapevoli, esso significa l’inizio di un nuovo conflitto per cercare di cacciare dalla Penisola le truppe germaniche (Non più un tedesco in Italia, titola “l’Unità” clandestina del 10 settembre); in altri, che dopo la caduta di Mussolini hanno sentito «la confusione aumentare, perché era facile gridare adesso ed erano troppi i fascisti di ieri improvvisamente travestiti da antifascisti»,4 prevale lo


smarrimento e il timore che il peggio debba ancora cominciare; in generale, domina un senso di sollievo che si mescola ai dubbi, un umore rinnovato eppure intimorito che non favorisce le manifestazioni di entusiasmo. «Vi furono i semplici che proposero di suonare le campane come per una festa, vi fu chi pensoso obiettò che la sconfitta non si festeggia»,5 e vi fu chi rispose con disarmante saggezza contadina: «Ho sentito l’annuncio alla radio, sono andata a dirlo a quelli della borgata, che la guerra era finita, e uno mi ha detto: “Come, è finita un’altra volta?”».6 Le stesse cronache dei giornali del 9 settembre registrano uno stato d’animo sospeso: «(a Roma) pochi commenti abbiamo udito per le vie, quasi che nessuno sapesse tradurre in parole l’effetto profondo ma confuso che la notizia suscitava nel cuore. Le strade in silenzio si facevano sempre più diverse»;7 «poco dopo le 20.00 su corso Oporto (a Torino) passò ordinato come per una rivista un reparto di artiglieria campale a cavallo. Non un applauso. Non una parola».8 Le reazioni delle grandi città non sono forse paradigmatiche: in altri centri, dove gli apparecchi radio sono pochi e le notizie rimbalzano di voce in voce, ci sono i crocchi e le domande della folla in ansia. Nell’emozione del momento, non mancano neppure le leggende create dall’inconscio (“Gli alleati sono sbarcati a Livorno!”, “Gli alleati sono sbarcati in Liguria!”): certo è che il comunicato dell’8 settembre non ha il significato liberatorio del 25 luglio e non annuncia davvero la fine della guerra. Per i più è il presagio di un destino ancora tutto da scoprire, «una voce rauca, monotona […] che cessava e riprendeva, ogni volta con uno schianto di minaccia».

Il “palazzo” nella prima settimana di settembre Mentre nel Paese si diffonde un’atmosfera di ansia, il “palazzo” vive ore


drammatiche e convulse. Al momento della firma, gli Alleati non hanno anticipato né il luogo dello sbarco né il giorno dell’annuncio, limitandosi a dire che il tutto sarebbe accaduto “entro due settimane”. Il tempo è poco, ma il gruppo dirigente badogliano (che sulla base di quell’indicazione ha arguito che lo sbarco avverrà tra il 10 e il 15, presumibilmente il 12) non lo utilizza per predisporre un piano coerente. I rapporti di forza dicono che le truppe italiane nei Balcani, nella Francia meridionale e nella Pianura padana saranno travolte dalla reazione tedesca: resta da valutare se un’azione immediata ed energica, realizzata con il concorso degli angloamericani, possa preservare Roma e l’Italia centrale, e, soprattutto, resta da stabilire quale atteggiamento debbano tenere le truppe nelle altre aree, arrendendosi ai tedeschi per evitare spargimenti di sangue oppure resistendo a oltranza per cadere con l’onore delle armi. Le preoccupazioni del re e di Badoglio sono tuttavia di altro genere: se la firma dell’armistizio ha costituito il prezzo politico pagato per acquistare il riconoscimento degli Alleati come unico potere legale in Italia (la “polizza d’assicurazione”, secondo la definizione di Ruggero Zangrandi),9 il problema essenziale diventa ora quello di mantenere il ruolo conquistato, evitando la cattura da parte dei tedeschi e l’esautoramento dalle proprie funzioni. Il destino dei reparti distribuiti tra la Provenza e l’Egeo e quello dei milioni di cittadini concentrati nell’Italia centrosettentrionale non rientrano in questa prospettiva strategica e possono essere abbandonati al gioco delle contingenze, perché la salvaguardia dello Stato nelle figure del re e del governo è prioritaria rispetto a qualsiasi altra preoccupazione e perché un’ipotesi di resistenza antitedesca realizzata con il concorso popolare è in antitesi con la concezione del potere di Vittorio Emanuele III e di Badoglio. In questo senso, il dramma dell’8 settembre non rappresenta il tragico epilogo di un programma contraddittorio e incerto, ma, all’opposto, l’esito conseguente


di una scelta che risponde a una logica politica intrinsecamente coerente, preparata dalla monarchia nella primavera 1943, maturata con il colpo di stato di luglio e sviluppata con il governo dei quarantacinque giorni. Nei giorni convulsi della prima settimana di settembre, si intrecciano iniziative diverse. Una prima direttrice, sono i rapporti con i tedeschi: il 3, Badoglio riceve il nuovo ambasciatore a Roma, Rudolf Rahn, assicurandogli la sua fedeltà di soldato nelle stesse ore in cui si sta firmando l’armistizio di Cassibile («la diffidenza del governo del Reich nei confronti della mia persona mi riesce incomprensibile: ho dato la mia parola e la manterrò»).10 Da parte loro, Ambrosio e Roatta si preoccupano della segretezza dell’armistizio inviando ai reparti le disposizioni prudenti e attendiste della Memoria 44 OP e paralizzando l’iniziativa dei comandi periferici. Una seconda direttrice è la verifica delle intenzioni angloamericane e della praticabilità di una difesa di Roma. Le informazioni non sono confortanti, perché lo sbarco avverrà in un tratto di costa dove è possibile l’azione dell’aviazione da caccia, e dunque non oltre la zona Napoli-Salerno:11 questo implica che la difesa di Roma deve essere garantita dai reparti italiani, con il sostegno politicamente significativo ma militarmente secondario della divisione aviotrasportata concordato a Cassibile. L’ipotesi non convince Badoglio e il sovrano, che ritengono non rassicurante l’assunzione di iniziativa contro i reparti germanici con gli Alleati sbarcati duecento chilometri più a sud: di qui la rinuncia alla divisione aviosbarcata e, di fatto, alla difesa della capitale. Una terza direttrice è la preparazione di una piano di fuga. La sicurezza personale dei familiari e dei beni è già stata predisposta con misure di natura dinastica e privata:12 quella del re e del governo viene messa a punto ora, con un piano predisposto dal generale Francesco Rossi (vice di Ambrosio) che prevede il trasferimento da Civitavecchia a La


Maddalena, la ridistribuzione delle truppe sull’isola per garantirne la difesa, la concentrazione di un certo numero di aerei da caccia attorno alla capitale per assicurare la copertura, la disponibilità a Fiumicino di motoscafi veloci per un eventuale imbarco di fortuna. L’insieme di questi passi politici e di queste predisposizioni operative (sviluppate, tra l’altro, in un clima caotico, come dimostrano il tardivo incontro di Badoglio con il generale americano Taylor venuto nella capitale per concordare l’aviosbarco, o l’incomprensibile assenza da Roma per “motivi familiari” del generale Ambrosio il giorno 713 sono sufficienti a chiarire l’atteggiamento della corona e dei vertici dello Stato: assolti i compiti storici di liquidare Mussolini e di trattare con gli Alleati, bisogna ora uscire dalla guerra fascista mettendo in salvo la monarchia e il governo, indipendentemente dal prezzo che la nazione dovrà pagare. In questa prospettiva risultano fuorvianti le diatribe sorte nell’immediato dopoguerra sulle responsabilità individuali di questo o quel personaggio. Secondo la versione ufficiale, la responsabilità del tracollo italiano sarebbe da attribuire alla decisione di Eisenhower di anticipare la data dello sbarco dal 12 all’8 settembre: si tratta di una versione assolutoria costruita a posteriori, che non regge sia perché gli angloamericani non hanno mai comunicato una data limitandosi alla formula “entro quindici giorni”, sia perché nessuna predisposizione concreta è stata presa neppure in vista del 12 settembre. In realtà, «il gruppo dirigente italiano aveva esaurito le sue capacità di decisione e di iniziativa nella scelta di uscire dalla guerra passando dalla parte del più forte e non aveva più l’energia di promuovere una resistenza aspra, difficile e senza speranza di successo dopo che era svanita la possibilità di aiuto vincente angloamericano. Badoglio e gli alti comandi lasciarono l’iniziativa agli alleati e ai tedeschi, limitandosi per parte loro a salvaguardare


l’essenziale con la fuga».14 Le ore precedenti l’annuncio dell’armistizio sono emblematiche. Badoglio, sopraffatto dal peso della responsabilità, invia la mattina dell’8 un radiogramma

a

Eisenhower

chiedendo

un’impossibile

sospensione

dell’annuncio e dello sbarco perché «dati cambiamenti et precipitare situazione et esistenza forze tedesche nella zona di Roma non è più possibile accettare l’armistizio immediato» (dopo aver consultato Roosevelt e Churchill, Eisenhower risponde perentorio che «se mancherete di cooperare come concordato, io renderò noto in tutto il mondo i dettagli di questo affare»);15 lo stesso Badoglio convoca poco dopo il ministro degli Interni Umberto Ricci e gli chiede un piano per trasferire fuori Roma il governo, sovrapponendosi all’analoga iniziativa già presa dal generale Rossi; il consiglio della corona, riunito nel tardo pomeriggio dell’8 al Quirinale con la partecipazione dei ministri militari, di quello degli Esteri e dei capi di stato maggiore (alcuni dei quali vengono solo allora informati compiutamente degli accordi presi) sviluppa una discussione a mezza strada tra l’incoscienza e la provocazione, oscillando tra la tentazione di ricusare l’armistizio e quella di chiederne ancora il rinvio; l’annuncio radiofonico di Badoglio, infine, non viene diramato immediatamente dopo quello di Eisenhower, come concordato, ma con un ritardo di oltre un’ora. Infine, la famiglia reale e il capo del governo si recano nel superprotetto ministero della Guerra in attesa degli eventi: per evitare una scelta paradossale oltreché ingloriosa, prima di fuggire occorre infatti verificare le mosse tedesche, nell’eventualità che Kesselring ordini la ritirata delle sue truppe verso nord e lasci libera la capitale.

La fuga del re


Gli equilibri militari nella zona di Roma sono complessi. Le forze italiane, al comando diretto del capo di stato maggiore dell’esercito, comprendono sei divisioni (Ariete, Centauro, Piave, Piacenza, Granatieri di Sardegna, Sassari, le prime due corazzate e le più efficienti tra i reparti disponibili), oltre alle divisioni costiere: in totale, 63 000 uomini effettivamente impiegabili. Le forze tedesche, inquadrate nell’11° corpo paracadutisti comandato dal generale Student, ammontano a circa 35 000 uomini. L’impostazione della difesa da parte italiana è di carattere statico, volta a impedire la penetrazione nemica con una cintura esterna fissa, a giro d’orizzonte, in un raggio da dieci a venti chilometri dalla città: ne risultano un dispiegamento diluito lungo tutta l’ampiezza del settore e la conseguente esiguità di forze disponibili per azioni manovrate mobili. Consapevoli di questi limiti, i comandi italiani non hanno provveduto nei giorni precedenti sia per il timore di insospettire i tedeschi con spostamenti di truppe, sia perché la difesa della capitale non rientra tra le priorità del governo Badoglio. Le debolezze dello schieramento italiano sono note ai tedeschi, così come sanno che gli angloamericani preparano uno sbarco, ma nel momento in cui Radio Algeri annuncia l’armistizio, l’arco delle possibilità è ampio e i comandi della Wehrmacht hanno qualche esitazione. Il loro timore è duplice: da un lato, un’operazione congiunta tra italiani e angloamericani che isoli le divisioni dislocate nel sud della penisola; dall’altro, uno sbarco in prossimità della capitale, che pregiudichi le loro posizioni su tutto lo scacchiere centromeridionale.16 All’interno del quartier generale germanico la situazione determina un contrasto tra Rommel, che sostiene la necessità di un ritiro e di un successivo assestamento sull’Appennino tosco-emiliano, e Kesselring, che intende invece conservare le posizioni più a sud possibile. A risolvere le incertezze operative dei tedeschi è il comportamento delle


forze armate italiane: ai reparti non giunge nessun ordine e lo schieramento rimane immutato. In molte caserme i soldati non vengono neppure allertati e «scesa la notte, non fu dato nessun allarme, gli ufficiali si recarono alle mense, la truppa si ritirò per riposare. Della necessità di guardarsi dai tedeschi e del fatto nuovo, l’armistizio, nessuno si preoccupò, forse in attesa di uno specifico ordine superiore».17 L’inazione italiana induce Kesselring ad agire e verso le 20.00 le truppe della Wehrmacht effettuano le prime azioni sul litorale tra Civitavecchia e Formia: i tedeschi irrompono di sorpresa negli accampamenti della 220ª divisione costiera a Nettunia, Castel Fusano, Ostia, Fiumicino e Fregene e non incontrano resistenza, riuscendo a disarmare i soldati italiani senza subire perdite. Contemporaneamente, un gruppo della 2ª divisione paracadutisti si impadronisce dei depositi di carburante sulla via Ostiense. Il disorientamento e l’incapacità di reazione dimostrati dalle truppe italiane in queste azioni preliminari spingono Kesselring all’offensiva. Verso le 21.00 la 2ª divisione paracadutisti si muove da Ostia-Fiumicino verso nord e quattro ore più tardi giunge al ponte della Magliana dopo aver sorpreso e disarmato gran parte della divisione Piacenza. Nello stesso tempo, la 3ª divisione corazzata, dislocata a nord, si dirige sulle vie Flaminia, Cassia e Claudia, mentre un’unità speciale si muove verso Civitavecchia via Tuscolana-Tarquinia. La manovra di accerchiamento da nord e da sud viene completata dal gruppo tattico dislocato nei colli Albani, che occupa le vie Appia e Casilina. Mentre le truppe germaniche si affacciano alla periferia di Roma, i dirigenti italiani raccolti nel palazzo del ministero della Guerra di via XX Settembre trascorrono le ore decisive in un’atmosfera sempre più convulsa. Nonostante

le

versioni

contrastanti

fornite

dai

protagonisti

per

autogiustificarsi, due linee di condotta sono ricostruibili. In primo luogo, la


rinuncia a diramare disposizioni applicative della Memoria 44 OP: i vertici politici e militari vogliono impedire una resistenza armata da parte delle truppe italiane, nel timore di una reazione tedesca che pregiudichi la situazione a Roma. Nessun ordine chiaro viene diramato (solo un generico ordine di allerta inviato da Roatta alle 00.40) e i reparti sono lasciati nell’indeterminatezza operativa e nel disorientamento psicologico, esposti all’aggressione della Wehrmacht con le sole indicazioni fornite nell’annuncio radiofonico di Badoglio. In secondo luogo, l’attuazione del piano di fuga. A mezzanotte, i movimenti ordinati da Kesselring hanno già portato all’occupazione del litorale, pregiudicando l’ipotesi di un trasferimento in Sardegna. A partire dall’una, la pressione tedesca si è concentrata sul settore meridionale della città, fronteggiata al ponte della Magliana dalle difese della Granatieri di Sardegna; penetrazioni si sono verificate alla Cecchignola e la stazione radio di Roma San Paolo è minacciata da vicino; nel settore settentrionale, invece, le forze della Wehrmacht sono ancora a qualche distanza dalla periferia e devono superare l’opposizione dell’Ariete e della Piave, ma la manovra di accerchiamento ha ormai assicurato il controllo della maggior parte delle vie di comunicazione. Verso le 04.30 il generale Roatta aggiorna gli ospiti del ministero della Guerra con una descrizione preoccupata: tutte le vie consolari sono ormai in mano tedesca, tranne la Tiburtina-Valeria, la difesa della capitale è pregiudicata e i tempi di resistenza sono dubbi. Il re e Badoglio ne traggono conferma alla decisione ormai maturata di fuggire, individuando Pescara come unica meta possibile: il precipitare della situazione non lascia spazio a ulteriori indugi, e alle 05.10 Vittorio Emanuele III e il vecchio maresciallo lasciano il palazzo di via XX Settembre, accompagnati dalla regina Elena, dal principe Umberto e dal conte Acquarone. Contemporaneamente, i capi militari decidono la rinuncia alla


difesa e alle 05.00, quando le forze corazzate sono ancora intatte, ne ordinano il ripiegamento verso est in direzione di Tivoli, nel probabile intento di coprire la fuga. Due ore dopo, alle 07.00, mentre i ministri civili restano all’oscuro delle decisioni prese, anche Ambrosio abbandona la capitale e ordina ai tre capi di stato maggiore (Roatta, De Courten e Sandalli) di seguire il re, lasciando sul posto loro rappresentanti: la responsabilità delle truppe dislocate a Roma è affidata al generale Giacomo Carboni. I capi di stato maggiore partono subito, seguiti da alti ufficiali e dirigenti della burocrazia militare, in un’atmosfera di panico che aumenta di momento in momento e trasforma l’allontanamento in una rotta (la partenza è tanto precipitosa che Badoglio dimentica sulla propria scrivania vari documenti compromettenti, tra cui un memoriale nel quale il maresciallo Cavallero vanta i propri meriti di cospiratore antifascista: è ipotizzabile che il ritrovamento di questo documento abbia determinato la sorte di Cavallero, ucciso o costretto al suicidio dai tedeschi nei giorni seguenti). Durante la giornata del 9, i fuggiaschi percorrono le strade appenniniche sino a Pescara, in un intrecciarsi di soste, ricognizioni, incontri, deviazioni di percorso, conciliaboli, piani alternativi. Nei vari gruppi che si inseguono e si incrociano prevale uno stato d’animo gravido di ansia e di tensione: «Badoglio», annota Puntoni, «è pallido, preoccupato, ossessionato dal terrore, che del resto manifesta palesemente, di cadere nelle mani dei tedeschi. La frase che ripete sovente è “se ci prendono, ci tagliano la testa a tutti”».18 Al tramonto, dopo un trasferimento sofferto ma privo di inconvenienti sostanziali (lungo il percorso i fuggiaschi non si imbattono nelle truppe della Wehrmacht), la classe dirigente dei quarantacinque giorni si ritrova nella città abruzzese, dove nel frattempo la marina militare ha provveduto a far giungere la corvetta Baionetta. Con il re, il capo del governo, il comandante supremo e


il capo di stato maggiore dell’esercito, ci sono tutti i massimi responsabili delle forze armate: Utili, Zanussi, Rossi, De Courten, Sandalli, Mariotti, De Stefanis, ognuno seguito da ufficiali di grado più o meno elevato, collaboratori, segretari, accompagnatori a vario titolo: «Nel clima di un vergognoso “si salvi chi può”, una fiumana di generali si rovesciò sulla strada di Pescara e la sera del 9 settembre affollò le banchine del piccolo porto adriatico, tanto che l’imbarco del re sulla corvetta Baionetta dovette essere protetto da un cordone di carabinieri».19 La logica dei quarantacinque giorni giunge così al suo epilogo drammatico eppure conseguente: la monarchia, Badoglio, Ambrosio salvano se stessi e la continuità dello Stato che incarnano, realizzando l’obiettivo di fondo della politica iniziata il 25 luglio. Il severo giudizio di condanna morale non riguarda, beninteso, la fuga, perché è normale che i vertici di uno Stato cerchino di evitare la cattura da parte del nemico; esso riguarda invece le modalità con le quali il processo si sviluppa. La conservazione dello Stato come istituzione (che i protagonisti rivendicheranno come proprio merito) si trasforma in abbandono del paese reale, comportando un costo umano e materiale altissimo: nessuna indicazione chiara ai reparti militari esposti alla rappresaglia tedesca, nessuna indicazione ai civili, nessun appello, nessuna prospettiva. Il 10 settembre, nel momento in cui i fuggiaschi sbarcano in Puglia, il bilancio è politicamente in attivo, ma moralmente fallimentare: «Nel disastro generale dell’8 settembre Badoglio era riuscito a salvare quanto più gli stava a cuore, la continuità dello Stato e del suo governo. Le forze armate erano state annientate e due terzi dell’Italia occupati, ma la guerra fascista era stata liquidata e Badoglio sbarcava a Brindisi come capo del governo italiano schierato di fatto dalla parte dei vincitori. Il suo bilancio era positivo, anche se non si può dire altrettanto per il Paese».20


1

Cesare Pavese, op. cit., p. 63. 2 I titoli sono rispettivamente del “Corriere della Sera” del 4 settembre 1943 e della “Gazzetta del Popolo” del 7 settembre. 3 “La Stampa”, 6 settembre 1943. 4 Nuto Revelli, Introduzione a Dante Livio Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino 1973, p. XLIV. 5

Lucio Ceva, Ripensando all’8 settembre, in Claudio Dellavalle (a cura di), 8 settembre 1943. Storia e memoria, Angeli, Milano 1989, p. 16. 6 Testimonianza di Margherita Giai Piancera, classe 1920, insegnante, di Giaveno (Torino), riportata in Gianni Oliva, La resistenza alle porte di Torino, Angeli, Milano 1989, p. 49. 7 “Il Messaggero”, 9 settembre 1943. 8 “Gazzetta del Popolo”, 9 settembre 1943. 9 Ruggero Zangrandi, L’Italia tradita. 8 settembre 1943, Milano, Mursia, 1971, p. 93. 10 Rudolf Rahn, Ambasciatore di Hitler a Vichy e a Salò, Garzanti, Milano 1950, p. 265. 11 Gli aerei da caccia più potenti hanno all’epoca un’autonomia di volo di circa due ore: dal momento che le basi più avanzate degli Alleati si trovano in Sicilia, Napoli è la meta più distante raggiungibile per potersi assicurare il ritorno. 12 Alcuni beni di casa Savoia vengono inviati a Ginevra già il 3 agosto, con un treno di ventuno vagoni piombati cui ne seguì un secondo il 2 settembre; la nuora del re, Maria José, viene mandata con i quattro figli nel castello di Sarre in Valle d’Aosta, da dove il 19 agosto passa in Svizzera; il 4 settembre vanno a Lugano la figlia e la nuora di Badoglio e lo stesso giorno passano il confine elvetico la moglie e i quattro figli minori del conte Acquarone. 13 Il generale Ambrosio, massimo responsabile militare, si assenta da


Roma dalla sera del 6 al mattino dell’8 settembre e si reca in Piemonte per motivi rimasti in parte oscuri: scopo del viaggio, compiuto stranamente in treno anziché in aereo, sarebbe di carattere privato, visitare la moglie e il figlio e distruggere documenti compromettenti; secondo altre fonti, le questioni private sarebbero invece un pretesto per incontrare il maresciallo Caviglia e indurlo a recarsi immediatamente a Roma per condurre le trattative con i tedeschi dopo la fuga del re. 14 Mario Torsiello, op. cit., p. 35. 15 Ivan Palermo, Storia di un armistizio, Mondadori, Milano 1957, p. 116. 16 Che la preoccupazione maggiore dei tedeschi nella notte tra l’8 e il 9 settembre sia uno sbarco angloamericano nei pressi di Roma è confermata dalle memorie di Kesselring e del suo capo di stato maggiore, Siegfried Westphal. 17 Mario Torsiello, op. cit., p. 113. 18 Paolo Puntoni, op. cit., p. 196. 19 Piero Pieri, Giorgio Rochat, op. cit., p. 823. 20 Ibid., p. 842.


6 La dissoluzione del Regio esercito

La Wehrmacht si muove Prima ancora che Badoglio annunci l’armistizio, le truppe della Wehrmacht sono pronte a entrare in azione contro gli ex alleati. Il 6 settembre Hitler ha deciso di porre fine alla situazione equivoca creatasi dopo la destituzione di Mussolini, facendo preparare dal suo comando supremo una nota ultimativa in cui si accusa il governo di Roma di atteggiamento ostile all’alleanza e si impone l’adozione di provvedimenti di emergenza che di fatto porrebbero le truppe del Regio esercito sotto il completo controllo tedesco. La formula conclusiva è lapidaria: «Qualora l’Italia, contrariamente alle aspettative, non dovesse accogliere le presenti richieste, il comando supremo tedesco sarebbe purtroppo costretto a mettere in atto tutte quelle misure e a disporre i movimenti di truppe ritenuti necessari ai fini della sicurezza dei propri reparti e delle attività che questi svolgono contro il nemico sul territorio italiano».1 Gli avvenimenti dell’8 settembre rendono inutile la nota (che avrebbe dovuto essere consegnata il 9 o il 10), ma si inseriscono in una prospettiva da tempo prevista e non fanno che accelerare un processo ormai maturo: sul piano dei rapporti di forza, le condizioni per un intervento efficace da parte della Wehrmacht si sono infatti consolidate sia direttamente, con la


penetrazione di reparti nella Penisola, sia indirettamente, con le modifiche apportate alle attribuzioni di comando e alle dipendenze di impiego. Gli obiettivi sono chiari: disarmo delle truppe italiane, cattura e invio nei campi di lavoro in Germania del maggior numero possibile di soldati, acquisizione completa del materiale bellico. I primi ordini particolari vengono impartiti il 7 settembre: per l’Italia settentrionale, dove i tedeschi occupano i punti nevralgici del territorio e il disarmo si presenta più facile, vengono disposte misure di controllo: «Gli appartenenti alle forze armate italiane e alla milizia, che si dichiarano pronti a collaborare ancora con i tedeschi, devono essere riuniti e sottoposti a una sorveglianza molto discreta, finché non verrà deciso il loro futuro impiego. Gli altri militari italiani saranno internati, sino a quando non si deciderà il loro rilascio». Nell’Italia centromeridionale, dove le forze di Kesselring sono impiegate in attività operative e la situazione sembra imporre obiettivi più limitati, l’indicazione è di «distruggere quanto possibile il materiale bellico italiano oppure, qualora se ne presenti l’occasione, di catturarlo per poi impiegarlo a proprio favore». Per l’area balcanica si intende invece procedere come nell’Italia settentrionale, impiegando i reparti locali «nella sorveglianza dei prigionieri italiani e nella difesa costiera in Croazia e in Albania».2 Alle ore 20.00 dell’8 settembre, pochi minuti dopo l’annuncio radiofonico dell’armistizio, il capo di stato maggiore operativo del comando supremo della Wehrmacht dirama telefonicamente a tutti i comandi interessati la parola convenzionale “Achse” che rende esecutiva l’operazione di «disarmo a sorpresa, con ogni mezzo e senza il minimo scrupolo, dell’esercito italiano». Nelle ore successive altre direttive vengono impartite dai vari livelli di comando: Kesselring, sollecitando i suoi uomini a una reazione energica, invia un ordine in cui si dice che «il governo italiano, nel concludere alle


nostre spalle l’armistizio con il nemico, ha commesso il più infame dei tradimenti. Le truppe italiane dovranno essere invitate a continuare la lotta al nostro fianco appellandosi al loro onore, altrimenti dovranno essere disarmate senza alcun riguardo. Per il resto non vi è clemenza per i traditori!». Il comando supremo di Berlino, ritornando sull’impiego dei militari fatti prigionieri, stabilisce invece che «soldati italiani, che non siano disposti a continuare la lotta a fianco dei tedeschi, dovranno essere disarmati e considerati quali prigionieri di guerra: tra loro si dovrà reperire tutto il personale specializzato, da utilizzare ai fini dell’economia bellica».3 A mano a mano che le operazioni procedono, il disegno della Wehrmacht si precisa: all’azione immediata contro le concentrazioni di truppe italiane seguono azioni di rastrellamento in zone circoscritte e la progressiva assunzione di poteri militari in tutta l’area occupata dalle grandi unità. Quando il disarmo a sorpresa si scontra con la resistenza, i tedeschi hanno mano libera nell’uso della forza, con ampia discrezionalità dei comandanti nell’individuazione delle modalità di intervento e con la repressione sistematica di ogni focolaio. Dopo l’esperienza delle prime ore, le direttive sono fissate in una circolare del 10 settembre, in cui il feldmaresciallo Wilhelm Keitel ordina che «in quelle località dove truppe italiane o altri armati oppongano resistenza, si deve porre loro un ultimatum a breve scadenza, chiarendo che i comandanti italiani responsabili della resistenza stessa saranno fucilati come franchi tiratori se, entro il termine stabilito, non avranno ordinato alle proprie truppe di consegnare le armi alle unità tedesche». Un ordine successivo datato 12 settembre precisa il trattamento da riservare ai prigionieri catturati dopo gli scontri o responsabili di aver consegnato le armi a gruppi di rivoltosi: «Per ordine del Führer gli ufficiali dovranno essere fucilati secondo la legge marziale; i sottufficiali e i soldati di


truppa dovranno essere trasferiti immediatamente a est per essere impiegati come lavoratori a disposizione dello stato maggiore dell’esercito».4 Nei differenti scacchieri i rapporti di forza non sono omogenei. Come già abbiamo osservato, nell’Italia settentrionale la superiorità tedesca è netta, sia per l’efficienza dei reparti, sia per il controllo dei punti strategici e delle vie di comunicazione: nella regione balcanica il relativo equilibrio numerico è vanificato dalla frammentazione delle truppe del Regio esercito distribuite su aree troppo vaste, e ancor più dall’integrazione con le truppe germaniche che penalizza la difesa e facilita l’aggressione; a Roma e nell’Italia meridionale il rapporto è, invece, favorevole alle truppe italiane, più consistenti e meglio disposte sul terreno. Al di là delle cifre e della dislocazione tattica, ciò che incide sui comportamenti sono, tuttavia, le indicazioni operative e l’attitudine psicologica: di fronte a un esercito italiano materialmente e psicologicamente impreparato all’armistizio, ci sono reparti della Wehrmacht determinati e bene equipaggiati, che si muovono con obiettivi precisi e conoscono perfettamente le azioni da svolgere. L’esito è implicito nelle premesse: là dove il rapporto di forze renderebbe credibile una resistenza con possibilità di successo, le scelte dei responsabili politici votano a una sconfitta senza giustificazioni, che farà dire a Eisenhower: «Il contributo degli italiani è stato inferiore a qualsiasi attesa».

La capitolazione di Roma Nell’arco di poche ore, il silenzio preoccupato con cui le truppe hanno accolto il radiomessaggio di Badoglio degenera nel panico e prepara la disfatta: dovunque si diffondono l’indecisione, la paura, il disorientamento, in un’atmosfera di stanchezza psicologica e morale che decompone le strutture


di comando e sfalda la compagine militare. Cresciuti a una scuola di regime che ha premiato le capacità esecutive e mortificato lo spirito di iniziativa, gli alti ufficiali dell’esercito sono inadeguati a fronteggiare la gravità del momento: la latitanza dei comandi centrali, l’assenza dell’annunciato ordine attuativo della Memoria 44 OP, la sensazione di sbandamento e di abbandono provocate dalla fuga del re si assommano l’una all’altra determinando la paralisi interna ed esponendo le truppe all’aggressione tedesca. La fragilità psicologica e strutturale si intreccia, a sua volta, con i limiti tattici e logistici: i reparti italiani, impiegati prevalentemente in compiti di copertura costiera, sono frammentati in tante unità minori, distribuiti su scacchieri troppo vasti e, per l’insufficienza dei mezzi di trasporto, privi della mobilità necessaria; in alcuni casi, come nel settore dell’Ottava armata (schierata nell’Italia nordorientale e in Slovenia), vi sono reparti in ristrutturazione, deficitari nell’organico e nell’armamento, la cui possibilità di resistenza è pregiudicata sin dall’inizio. Le vicende di Roma sono emblematiche di quanto accade l’8 settembre, sia perché propongono dinamiche analoghe a quelle di tutti gli altri scacchieri, sia perché gli interventi diretti e indiretti di Roatta e Ambrosio documentano il modello comportamentale proposto dai vertici. Nella giornata del 9 settembre, mentre il re e gli altri fuggiaschi attraversano la penisola verso Pescara, la situazione è grave ma non del tutto compromessa. Se è vero che i tedeschi hanno accerchiato la capitale e controllano le vie consolari di accesso, è anche vero che buona parte delle forze italiane sono ancora intatte, a cominciare dal corpo d’armata motocorazzato. Kesselring è preoccupato di una possibile controffensiva e per tutta la giornata le sue truppe restano in fase di stallo, alle porte della periferia, senza forzare. In alcuni punti vi sono anche forme di resistenza, là dove unità minori reagiscono all’aggressione.


Nel settore settentrionale combattimenti si verificano a Manziano e Bracciano, dove reparti della divisione Ariete contrastano l’avanguardia della 3ª divisone Panzergrenadier, e a Monterotondo, dove oltre cinquanta aerei tedeschi lanciano il 2° battaglione paracadutisti per un’azione diretta contro il castello, sede dello stato maggiore operativo italiano (che nella notte si è però trasferito a Roma); nel settore meridionale lo sforzo è sostenuto dalla divisione Granatieri di Sardegna, impegnata prima sulla Casilina, sulla Prenestina e sull’Ardeatina, quindi al ponte della Magliana, alla Garbatella e nei pressi della basilica di San Paolo. Non si tratta di scontri di ampie proporzioni, ma sono sufficienti a frenare l’avanzata tedesca e a indurre Kesselring a non impegnarsi in un attacco su tutto il fronte, nonostante abbia l’urgenza di “sganciare” le proprie forze per mandarle a sud a fronteggiare lo sbarco alleato di Salerno. Se infatti i comandi italiani (come sarebbe ovvio aspettarsi) mettono in movimento il corpo d’armata motocorazzato, possono schierare i propri reparti alle spalle e lungo i fianchi della Wehrmacht, costringendo le truppe germaniche al ripiegamento o comunque ad alleggerire la pressione. Entro questa cornice generale, il comando germanico sceglie la via della trattativa e il generale Westphal, capo di stato maggiore di Kesselring, si mette in contatto con il tenente colonnello Leandro Giaccone, capo di stato maggiore della divisione corazzata Centauro. L’ufficiale italiano non ha un grado elevato e nella confusione del momento non è possibile accertare chi gli abbia dato la delega per trattare, né se c’è stata un’autorizzazione formale: certo è che sono al corrente dell’iniziativa sia il generale Carboni (cui Roatta, prima di fuggire, ha affidato il comando delle truppe schierate attorno a Roma), sia il generale conte Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, genero di Vittorio Emanuele III,5 sia l’anziano maresciallo d’Italia Enrico Caviglia,6


chiamato dal re nella capitale alla vigilia dell’armistizio con ruolo di garante della monarchia. Nel tardo pomeriggio del 9, Giaccone si reca così presso il quartier generale germanico di Frascati ad ascoltare le condizioni di Kesselring, senza indicazioni su come comportarsi nella trattativa. La missione “al buio” del tenente colonnello Giaccone è la spia di una situazione su cui grava l’ipoteca degli ordini impartiti da Roatta all’alba del 9 settembre, poco prima di lasciare Roma: ripiegamento delle forze verso Tivoli e rinuncia alla difesa della città. Mentre le sporadiche azioni di contrasto nascono quasi spontaneamente, là dove i reparti riescono a reagire all’iniziale sorpresa, a livello di comandi si intrecciano ordini e contrordini, dubbi e richieste di specificazioni. Una prima comunicazione telefonica giunge alle 06.00 del mattino, ma non tutti i comandanti dispongono i movimenti conseguenti. Il generale Ugo Tabellini, a capo della divisione Piave, chiede conferma scritta perché ritiene l’ordine talmente assurdo da attribuirlo a un errore di trasmissione. La risposta giunge nella tarda mattinata, quando un fonogramma stabilisce la redistribuzione delle forze sul territorio: la divisione Granatieri di Sardegna e la brigata Sassari devono restare attestate nella capitale per proteggere il ripiegamento, le altre unità devono sganciarsi dalle forze tedesche e dirigersi a est verso Tivoli. Nel pomeriggio iniziano i movimenti previsti, effettuati con una certa lentezza sia perché privi di un piano coordinato, sia perché alcuni comandi inferiori chiedono a loro volta garanzie scritte. Che cosa determina una tale scelta rinunciataria in una situazione tattica non ancora compromessa, nella quale forse non è possibile conservare Roma, ma certamente si impegnerebbero in battaglia consistenti truppe tedesche «favorendo lo sbarco angloamericano a Salerno e rafforzando il prestigio italiano rispetto agli Alleati»?.7 Secondo Ruggero Zangrandi, dietro


l’apparente assurdità dei provvedimenti c’è un accordo segreto tra Ambrosio e Kesselring, in base al quale gli italiani cedono Roma ai tedeschi in cambio della libertà di fuga per il re e il governo. L’ipotesi, frutto delle diffidenze e dell’indignazione suscitate dalla fuga di Pescara, non è dimostrata e contrasta con l’atmosfera di panico che domina il palazzo di via XX Settembre nella notte tra l’8 e il 9. Più corretto è forse attribuire la decisione al timore di Vittorio Emanuele III e di Badoglio che una resistenza solleciti la reazione tedesca, compromettendo la possibilità di allontanarsi dalla capitale; oppure rinviare all’illusione che un atteggiamento passivo favorisca un’uscita meno traumatica dall’Asse. Certo è che l’orientamento liquidazionista paralizza qualsiasi possibilità di iniziativa e smentisce quelle forme limitate ma generose di resistenza, alle quali hanno partecipato come volontari anche alcuni cittadini, spinti dal «bisogno di bruciare nella lotta tutta la collera, l’amarezza, il disgusto provocato dalla fuga e dall’abbandono della città».8 Quando i comandi tedeschi, dapprima increduli, prendono atto dei movimenti italiani verso est e della loro rinuncia alla difesa, capiscono che la questione di Roma è liquidata e che possono imporre un’umiliante capitolazione. Le condizioni vengono comunicate a Frascati la sera del 9 al tenente colonnello Giaccone e riflettono non gli equilibri di forza nel settore, ma l’opposta volontà politico-militare delle parti in causa: le truppe italiane devono deporre le armi, consegnandole ai tedeschi insieme agli automezzi e ai materiali; in cambio, ottengono la garanzia di libertà per ufficiali e soldati. Roma viene dichiarata “città aperta”, con la nomina di un comandante di piazza italiano affiancato da un ufficiale tedesco e posto comunque alle dipendenze di Kesselring. Per il mantenimento dell’ordine pubblico devono essere messi a disposizione del comandante di piazza tre battaglioni di fanteria italiani, dotati di solo armamento leggero.


Il giorno 10, Carboni, Caviglia, Calvi di Bergolo e pochi alti ufficiali rimasti in città si consultano sul da farsi, senza possibilità di consultarsi con il re e il governo a Brindisi. Alle 15.30 Carboni firma la resa e a tutti i reparti viene impartito l’ordine di consegnare le armi. Una dopo l’altra, vengono disarmate le divisioni corazzate Centauro e Ariete, la divisione motorizzata Piave, la divisione di fanteria Granatieri di Sardegna, la brigata Sassari, le truppe di corpo d’armata. In meno di quarantott’ore Kesselring, col minimo sforzo, ha ottenuto l’occupazione della capitale, la neutralizzazione di sei divisioni e la possibilità di “sganciare” le proprie forze per trasferirle verso Salerno contro gli anglo-americani. Nei giorni successivi, applicando le clausole concordate, i tedeschi possono muoversi con la spregiudicatezza di chi non ha più controparte. Al generale Calvi di Bergolo, che l’11 assume l’incarico di comandante della “città aperta”, non viene lasciata nessuna libertà decisionale e tutto il potere effettivo è esercitato dal generale tedesco Rainer Stahel. Un episodio accaduto il 19 settembre, quando alcuni soldati italiani intenti al saccheggio uccidono sei soldati tedeschi, offre al comando germanico l’occasione per liquidare definitivamente la presenza militare italiana. Per ogni soldato ucciso, Kesselring chiede a Calvi di Bergolo mille soldati italiani da inviare nei campi di internamento. La questione resta indefinita per qualche giorno, tra le pressioni germaniche e le tergiversazioni italiane, sinché il 23 settembre, con un’azione di sorpresa, i tedeschi disarmano i tre battaglioni di fanteria rimasti nella capitale per il controllo dell’ordine pubblico. Mentre il generale Calvi di Bergolo è messo agli arresti,9 1604 fanti vengono deportati in Germania. Il giorno successivo, Kesselring può comunicare con orgoglio a Berlino che «il disarmo delle grandi unità italiane nella zona di Roma è adesso ultimato».10 Sulla capitale è ormai sceso il silenzio della sconfitta.


Lo sbandamento in Italia Ciò che si verifica a Roma si ripropone analogo nel resto della penisola, dove i tedeschi operano con una determinazione ancora maggiore perché non hanno di fronte truppe italiane concentrate come nella capitale. Le operazioni iniziano nella notte tra l’8 e il 9 settembre, con l’obiettivo primario di neutralizzare i comandi e interrompere i collegamenti, per procedere poi al disarmo e alla cattura dei distaccamenti isolati: abbinando la scientificità dei movimenti alla rapidità e alla sorpresa, e lasciando ampia autonomia ai singoli comandanti secondo le tradizioni militari germaniche, i reparti della Wehrmacht

procedono

all’occupazione

sistematica

del

Paese

e

all’eliminazione del Regio esercito, impossessandosi di aeroporti, centrali radiotelegrafiche, nodi stradali e ferroviari, caserme, depositi di armi e carburante, autoparchi, magazzini militari. Di fronte a tanta determinazione e a una manovra di incapsulamento preventivamente predisposta, la reazione dei comandanti italiani è convulsa. Qualcuno cerca di improvvisare un piano di ripiegamento, come il generale Mario Vercellino, comandante della Quarta armata, che si sforza (pur senza successo) di ridistribuire le sue truppe in trasferimento dalla Francia per evitarne il collasso; altri cercano di ottenere istruzioni dai superiori, come il generale Mario Caracciolo di Feroleto, comandante della Quinta armata, il quale, ignorando la fuga di Ambrosio e Roatta, si reca da Firenze a Roma per conferire con lo stato maggiore e trova la città già occupata; o come il comandante della divisione Cuneense, del generale Carlo Fassi, che davanti all’ordine di resa intimatogli dai tedeschi si reca a Bolzano per conferire con il comandante del XXXV corpo d’armata e al suo rientro a Bressanone non trova più il reparto; c’è anche chi, all’opposto, tratta segretamente consegnando ai tedeschi le truppe (come il generale Enrico Adami Rossi,


comandante della piazza di Torino, che dopo aver ordinato la consegna dei militari nelle caserme, va incontro alle truppe della Wehrmacht in arrivo da Milano). La maggior parte dei responsabili rimane, tuttavia, in uno stato di totale inazione lasciando i soldati in mezzo a un assordante silenzio: nessuna indicazione operativa, nessun ordine, nessun allerta di fronte alla minaccia, neppure un “sciogliete le righe” perché ognuno possa cercare una via di salvezza individuale. Lo scenario si ripropone uguale in ogni parte della Penisola. A Torino il futuro comandante partigiano, tenente Giulio Nicoletta, si reca il 10 agli alti comandi di via Oporto per prendere ordini e si sente rispondere che «in questa situazione non ci sono ordini né da dare né da ricevere: ci eravamo arresi ai tedeschi pochi minuti prima e io avevo assistito alla resa di Torino senza nemmeno accorgermene»;11 nell’entroterra di La Spezia, il maggiore Luigi Milano convoca il battaglione val Chisone e comunica lapidario: «Il comando di reggimento è stato catturato dai tedeschi, il comando di divisione anche, il comando di corpo d’armata non esiste più»;12 a Venezia «il comandante di piazza, il duca di Genova, scappa in aereo con la consorte, abbandonando migliaia di marinai al loro destino»;13 a Chieti gli ufficiali più giovani si consultano impotenti e increduli, «dopo aver visto il centro della città pullulare di generali e colonnelli in fuga»;14 a Bologna «si incontrano dappertutto soldati che non sanno che cosa fare, spauriti e inquieti»;15 alla periferia di Genova un reparto in assetto da guerra si sbanda all’arrivo dei tedeschi e un maggiore piangendo dice: «Che figura! Bastava un ordine e li avremmo annegati tutti».16 La capitolazione procede a ritmi serrati, con i tedeschi che catturano interi reparti, fucilano sommariamente chi tenta la resistenza, requisiscono materiale bellico, deportano in Germania i prigionieri. Grandi unità e reparti


minori si arrendono uno dopo l’altro. La Quarta armata, che nello sfacelo generale conserva una parvenza di struttura unitaria, viene ufficialmente sciolta per disposizione del comandante il 12 settembre. La Quinta armata perde quasi subito i reparti schierati a difesa di La Spezia e dopo un infruttuoso tentativo di ripiegamento si sbanda completamente, cessando di esistere già il pomeriggio del 10. La Settima armata, schierata nell’Italia meridionale, salva le unità dislocate a sud di Salerno che si aggregano alle truppe alleate, ma perde i reparti della Campania centrosettentrionale. L’Ottava armata crolla in due giorni e alle ore 18.00 del 10 settembre il generale Italo Gariboldi firma un accordo con i tedeschi che prevede la consegna dei soldati e degli ufficiali nei rispettivi alloggiamenti. In Sardegna, dove gli italiani hanno una manifesta superiorità numerica, il generale Lelio Basso procede con tale prudenza da permettere alla 90ª divisione Panzergrenadier

di

trasferirsi

in

Corsica

con

la

maggior

parte

dell’armamento. Le operazioni si sviluppano secondo una sequenza che neppure i più ottimisti tra i comandanti della Wehrmacht hanno supposto. Rommel comunica a Berlino che il giorno 9 nell’Italia settentrionale sono stati catturati circa 100 000 militari italiani; il 14 la cifra sale a 350 000; il 21 settembre, quando il disarmo è completato, il totale raggiunge la cifra totale di 415 682 uomini, di cui 82 generali e circa 13 000 ufficiali. Nella relazione finale del feldmaresciallo si dice che «le truppe hanno ottenuto il successo decisivo già nelle prime ventiquattr’ore» e che «il Regio esercito si è completamente dissolto in pochissimo tempo»; rammaricandosi perché la molteplicità degli impegni ha impedito di disarmare tutti i soldati italiani, Rommel assicura però che «la maggior parte degli uomini ha semplicemente gettato via le armi e solo una piccola minoranza, nel settore del confine italo-


croato, si è ritirata in armi nella montagna ove operano le bande».17 I dati forniti da Kesselring per l’Italia centromeridionale sono analoghi: a operazioni ultimate, il 17 settembre, risultano disarmati 102 340 italiani: l’azione sistematica di sabotaggio ha inoltre portato alla distruzione di 12 210 metri di ponti, 668 700 metri di tronchi ferroviari, 77 locomotive e 2043 vagoni.18 Nella Francia meridionale, dove la Quarta armata è stata sorpresa dall’armistizio in fase di ripiegamento, il disarmo è stato ancora più rapido: il 10 settembre i soldati prigionieri assommano già a 40 000, di cui 23 000 catturati nel settore costiero e gli altri nell’interno; a fine mese il totale sale a 58 722 unità, di cui 2733 ufficiali.19 La capitolazione coinvolge con la stessa rapidità le difese territoriali, che assolvono compiti di carattere presidiario e locale e garantiscono i grandi centri cittadini. Milano viene occupata a partire dalla mattina dell’11, mente i soldati sono consegnati in caserma per ordine del comandante di piazza generale Vittorio Ruggero; a Torino sono sufficienti poche autoblindo per procedere all’occupazione di tutto il centro storico; Bologna viene occupata già il 9, come Parma, Reggio Emilia, Piacenza, Trieste, Bolzano, Viterbo; il 10 è la volta di Padova, Treviso, Verona; l’11 di Napoli e Firenze; il 12 Udine. Uno dopo l’altro, tutti i centri urbani a nord della linea BrindisiSalerno cadono in mano tedesca quasi senza combattere. Per aggiungere beffa al dramma, l’11 settembre, quando le armate sono ormai sfaldate, il capo di stato maggiore Roatta suggella il crollo istituzionale inviando a comandi che non esistono più l’ordine di attuazione della Memoria 44 OP: «I germanici devono essere considerati nemici e come tali attaccati e distrutti senza la minima esitazione».20 La maggior parte dei soldati italiani è già sulle tradotte dirette in Germania o rinchiusa nei campi di raccolta in attesa dei successivi convogli.


Tra fuga e solidarietà Come reagiscono i soldati italiani in questo panorama inquietante di sbandamento e di minaccia? Rimasti soli di fronte all’aggressione, si muovono ciascuno secondo la propria indole e secondo quanto la situazione contingente permette. Coloro che sono sorpresi dagli avvenimenti nel sud, vivono lo sfascio con il disorientamento di chi ha perso ogni riferimento, ma non hanno la pressione delle truppe tedesche: «Ero con un gruppo di dodici veterani e alcuni civili, avevamo attraversato lo stretto di Messina su un’imbarcazione di fortuna, volevamo raggiungere le linee italiane. Invece è arrivato l’8 settembre. Mi ricordo che percorrevamo a piedi le strade della Calabria e ci avvicinavano dei contadini che chiedevano le coperte, gli zaini, gli scarponi. Io vengo da una famiglia in cui è forte la tradizione del Risorgimento, una famiglia che ha avuto molti carabinieri tra i suoi membri: per me era inconcepibile, abnorme che quegli uomini pensassero di prendere per loro cose che appartenevano allo Stato. Crollava tutto un mondo per me, quella richiesta di coperte era il simbolo che non c’era più il sistema di valori in cui ero vissuto».21 Per quanti si trovano a nord della linea Brindisi-Salerno, il disorientamento si coniuga con il timore di essere catturati e l’armistizio si carica di valenze ancora più drammatiche. Ci sono gruppi che conservano la propria compattezza e cercano di opporre resistenza con le armi in pugno, generalmente guidati da ufficiali inferiori destinati a entrare poi nelle file della guerriglia partigiana. È il caso del battaglione sciatori alpini Moncenisio, che sino all’11 settembre contende ai tedeschi il passaggio del tunnel ferroviario del Frejus; o del battaglione val Fassa, che a Carrara resiste sino al 14 impedendo l’agibilità della via Aurelia; o, ancora, dei reparti


dell’82° reggimento fanteria che sino al 13 mantengono il controllo di Gorizia. Si tratta di episodi isolati e sporadici, che sul piano storico valgono comunque a documentare la possibilità di un 8 settembre diverso, qualora i vertici dello Stato non avessero fatto scelte liquidazioniste. Altri gruppi, intuendo che in futuro si possa aprire una nuova prospettiva di lotta, accantonano invece armi e munizioni e cercano di stabilire contatti in vista di una scelta resistenziale. Non mancano esempi di piccoli reparti che si trasferiscono in formazione verso la montagna, come gli uomini del tenente di cavalleria Pompeo Colajanni nell’alta valle del Po, del tenente alpino Ignazio Vian nel cuneese, dei capitani Armando Ammazzalorso e Gelasio Adamoli in Abruzzo. C’è anche chi compie la stessa scelta senza troppo pensare alle prospettive, come i tenenti carristi Umberto Cantelli e Oliviero Bertolani che, tra l’ingenuità e la presunzione, si rifugiano in una vallata piemontese con due carri armati in piena efficienza. La scelta più frequente è però quella individuale di abbandonare i reparti, le armi e la divisa cercando di raggiungere le proprie residenze, oppure di rifugiarsi in zone collinose o montane dove risulta più facile sfuggire ai rastrellamenti della Wehrmacht. Sono questi gli “sbandati” penetrati nell’immaginario collettivo come simbolo dell’8 settembre, fotografia di una realtà di sfascio, di fuga e di silenzio. Migliaia di soldati lasciano le caserme e fuggono dalle città sui treni, sui camion, sulle auto, sulle biciclette, sui trattori, a piedi, per raggiungere le campagne. I più intraprendenti si riforniscono nei magazzini militari per avere qualcosa da scambiare: c’è chi porta con sé una radio, chi gli scarponi, chi razioni di zucchero e di caffè; i più fragili, nel panico della fuga, abbandonano tutto e scappano affidandosi alla generosità dei civili. È un quadro articolato di frenesia psicologica e disgregazione istituzionale, dove le attitudini nascono da un intreccio di


paura, di rabbia e di umiliazione. C’è spazio per episodi torbidi, come quelli raccontati nel diario dell’alpino piemontese Mario Davide: un ufficiale, che pistola in pugno impedisce ai soldati di abbandonare la compagnia, viene eliminato dalla reazione della truppa. «Alcuni dicono: “Bisogna liquidarlo”. Poco dopo giunge la notizia: “Poca Pulpa (così chiamavamo il tenente) è nel rifugio”. “Cosa fa?” chiedo. “Riposa in pace, l’hanno toccato col fucile dietro le orecchie” mi rispondono. E nessuno vuole sapere qualcosa di più.»22 C’è lo spazio per saccheggi a danno di depositi civili e militari, un’occasione di far bottino giustificata con la volontà di sottrarre beni ai tedeschi o con le elementari necessità di sopravvivenza, ma in realtà «un modo collettivo di vivere e sanzionare l’eccezionalità di eventi che davano spazio a comportamenti tra i più proibiti».23 Ma c’è spazio anche per una dimensione di solidarietà semplice e spontanea, una «fraternizzazione tra civili e militari che matura sotto il segno della comune disgrazia».24 Dovunque è un intrecciarsi di drammi e di destini: persone che non si sono mai conosciute e che mai si rivedranno si uniscono per superare un punto già presidiato; altre si assistono nell’emergenza per seguire subito dopo strade diverse; altre ancora si scambiano informazioni e sguardi carichi di gravità. Chi è troppo lontano da casa per avere riferimenti famigliari o amicali, cerca complicità negli sconosciuti. È il gesto del popolano anonimo disposto a regalare un abito civile per favorire la fuga; delle donne che, aiutando lo sbandato di fronte a casa, pensano al marito o al figlio disperso in quello stesso momento su qualche fronte lontano; del macchinista che rallenta la corsa del treno ed effettua fermate impreviste perché qualcuno salti in tempo dai vagoni e si metta in salvo. È l’Italia smarrita della disperazione e della solidarietà, che nel collasso delle


istituzioni si contrappone alla paralisi e alla viltà del potere. Come ha scritto Giaime Pintor, poco prima di cadere in una delle prime azioni resistenziali, «i soldati che nel settembre traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto, portavano in sé il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti, i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere una responsabilità, non erano solo dei vinti, erano un popolo di morti».25 Se l’immaginario collettivo ha collegato l’8 settembre al panorama delle campagne attraversate dagli sbandati in fuga, non bisogna però dimenticare che il dato statisticamente più significativo di quelle giornate non sono i soldati che riescono a mettersi in salvo, ma le centinaia di migliaia che vengono imprigionati: uomini che non fanno in tempo a fuggire o che vengono catturati prima di raggiungere un luogo sicuro, oppure uomini disciplinatamente consegnati nelle caserme in attesa di ordini, oppure ancora uomini rimasti a metà strada tra l’istinto di scappare e la tentazione di attendere. Le ricerche storiografiche hanno prestato poca attenzione a questi aspetti, privilegiando i comportamenti nei quali si poteva leggere il segno di una “scelta” e le anticipazioni della resistenza partigiana. In realtà, l’Italia del silenzio è soprattutto l’Italia prigioniera dei tedeschi, catturata senza combattere, costretta a consegnare le armi, pigiata sulle tradotte e avviata nei campi di internamento. Al di là di singoli casi, in cui l’intuizione personale riesce ad anticipare i tempi della fuga, l’abbandono della caserma e della divisa sono possibili per quanti prestano servizio in luoghi defilati, dove le forze germaniche arrivano dopo qualche giorno: per coloro che sono dislocati nei grandi centri urbani, oppure in prossimità di postazioni germaniche, o


addirittura sono incorporati in reparti della Wehrmacht, non ci sono spazi di salvezza per la stessa tempistica degli avvenimenti. Giovanni Giovannini, futuro presidente de “La Stampa”, l’8 settembre è a Cannes, sottufficiale dell’Ufficio informazioni della Quarta armata. La sua testimonianza, rielaborata dopo molti anni sulla base di appunti coevi e scritta con un linguaggio asciutto ed essenziale, è emblematica di come si svolgono le vicende: «Saputo dell’armistizio, la sera dell’8 settembre, mi dirigo verso l’hotel Victoria, dove c’è il comando del mio reparto. Appena entrato, sento le urla dei telefonisti, un caos di nomi, di cifre, di maledizioni. Una frase domina sulle altre: “Mentone? Mentone? Pronto, Mentone?” Si cerca disperatamente il contatto con Mentone, sede del comando della Quarta armata. Per le scale si trasportano casse, negli uffici si imballa. In tutto l’hotel non ci si preoccupa che di fare le valigie, di smobilitare. Per andare dove, non si sa. […] Di ora in ora le notizie sono tali da inquietare anche i più ottimisti: una divisione tedesca – si dice − ha preso posizione lungo il Varo, rompendo così le nostre comunicazioni col comando. Ecco perché le linee con Mentone sono tagliate, siamo isolati. È tarda notte: soldati tedeschi prendono posizione davanti all’entrata con un pezzo di artiglieria, altri entrano – col consenso del nostro comandante – a prendere possesso dei centralini telefonici. Ci stiamo facendo intrappolare da soli. I minuti passano, lentissimi. Dove sono gli ufficiali? Sono spariti tutti, tranne qualche subalterno che si aggira smarrito. Finalmente, all’alba, una comunicazione ufficiale: “Il comando del I corpo d’armata ordina la consegna delle armi, perché è solo a questo prezzo che il comando stesso è riuscito a ottenere il rientro degli uomini in Italia”. Un tedesco avanza verso il bersagliere di guardia al cancello, lo invita a sgomberare. Il bersagliere rifiuta. L’altro insiste, conciliante: colle mani e coi gesti, gli fa capire che non c’è niente da fare. Di persona, interviene un


ufficiale italiano e dà l’ordine di lasciare il passo. L’onta si compie. Vedo ancora le armi che si ammucchiano, il rumore che fanno mi echeggia ancora nelle orecchie mescolato alla voce di quel vecchio colonnello del Genio che, in tono assolutamente fuori posto di forzata bonarietà, continua a dire e a ripetere che non si deve nutrire alcun timore. Un’ora dopo è già finita, i tedeschi ci ammassano a migliaia in una grande caserma francese, in mezzo a mucchi di utensili, di suppellettili di ogni genere, di cucine da campo che fumano. Qualcuno di noi prega, qualcuno bestemmia, qualcuno studia piani di evasione. Ma la massa è ormai abbattuta: la testa bassa, le mani incrociate dietro la schiena, lo sguardo cupo, migliaia di individui, arrestati senza neanche accorgersene, si aggirano senza meta».26 La cornice proposta dalle memorie di Giovannini è sin troppo chiara: non si reagisce perché non c’è il tempo per capire che cosa succede. Il rinvio a un ordine che non viene paralizza le forze, i contatti con i comandi superiori sono impossibili e quando si prende coscienza dell’emergenza si è già disarmati e imprigionati. La stessa dinamica viene proposta in altri contesti. Sergio Cotta Morandini, originario della valle valdese del Pellice, presso Torino, racconta come è stato catturato e chiuso in una tradotta diretta a Innsbruck: «La sera dell’8 settembre ero a Trento a fare servizio d’ordine con un plotone di alpini. Verso le 22.00 veniamo attaccati da una pattuglia di tedeschi. Qualche colpo di fucile, nessuno di noi colpito gravemente, poi se ne sono andati. Non sapevo che cosa pensare, non avevamo sentito la radio. Ritorniamo in caserma, chiamo il comando di Bolzano al telefono, dico che qui sparano e un maggiore mi risponde: “Tenente, vada a dormire tranquillo”. E così al mattino dopo ci hanno presi tutti nel sacco, portati all’aeroporto di Gardolo e poi di lì a Innsbruck, in una caserma di alpini austriaci: la notte dopo, dal 9 al 10, abbiamo dormito nel cortile, appoggiati a una pianta. Poi


un altro viaggio in treno che non finiva più e siamo finiti a Stablack, sul mar Baltico, e per quasi due anni io sono diventato il numero 6174».27 Alcuni non hanno nemmeno tempo di porsi domande, come l’emiliano Adelmo Franceschini: «Sono del 1924, ero una recluta da pochi giorni, il 23 agosto mi ero presentato al reparto, il 6° artiglieria, a Modena, mi avevano appena dato la divisa e gli scarponi, perché i magazzini erano mezzi vuoti. L’8 siamo andati a dormire in camerata, ignari di tutto, il mattino ci siamo svegliati e c’era già un carro armato tedesco davanti al cancello del cortile, ci hanno presi e portati in un campo di raccolta lì vicino, poi in treno in Germania orientale, verso la Polonia. Non mi sono neanche accorto di fare il soldato: praticamente, sono passato da casa mia al campo di concentramento».28 Aldo Sereni,

abruzzese,

si

trova

verso

il

confine

nordorientale:

«Ero

radiotelegrafista, il mio reparto era nei pressi di Gorizia. È stato un attimo: una giornata a domandarci che cosa fare e ad aspettare ordini, poi sono arrivati i tedeschi e gli ordini ce li hanno dati loro. Non ho capito niente, so solo che hanno sbraitato e ci hanno spinto su un camion malamente, con i fucili. E da soldato del Regio esercito sono diventato prigioniero deportato».29 Claudio Beltrame, veneto, è in servizio a Ivrea, non distante dagli impianti industriali della Olivetti: «Forse ai tedeschi interessava la fabbrica, non so, ma certo ci sono arrivati addosso presto. Noi parlavamo dell’armistizio, e quelli hanno disarmato la sentinella, poi ci hanno presi, messi in fila nel cortile, a spintoni perché non capivamo che cosa succedeva. Non hanno neanche dovuto disarmarci, perché le armi le avevamo nella camerata. È finita prima ancora di cominciare».30 A volte la stessa informazione dell’armistizio giunge tardiva, per vie indirette e imprevedibili: «Io abitavo a Introdacqua, a 5 km da Sulmona, in Abruzzo. Avevamo Mussolini a Campo Imperatore, e non ne sapevamo


niente. Il re è fuggito passando al bivio di Popoli, a 12 km dal mio paese, e non ce ne siamo accorti. La radio non ce l’avevamo e la sera dell’8 settembre non abbiamo saputo nulla. La nostra presa di coscienza è venuta con la fuga dei prigionieri dal campo di concentramento vicinissimo alla Badia di Sulmona, il campo numero 78. Insomma, abbiamo dovuto vedere degli inglesi malvestiti che scappavano e si nascondevano per capire che cosa era successo!».31 Altre volte si riceve la notizia, ma la lontananza dai punti strategici e dalle grandi città lascia per giorni senza cognizione di quanto sta realmente accadendo. Cesare Baudrino, ufficiale degli alpini, scopre dalle parole della moglie che lo Stato e l’esercito si sono sciolti: «Mi trovavo al forte di Exilles, nell’alta valle di Susa, sul confine con la Francia, per scontare una punizione in fortezza. Quando abbiamo sentito il comunicato, il colonnello ci ha mobilitati per la difesa, a me ha affidato il comando di due mitragliatrici sull’ultimo bastione del forte, però mi ha detto: “Se avvista una camionetta tedesca mi avvisi e le dirò io che cosa fare”. Siamo rimasti così tutto il 9 e tutto il 10. Non è arrivato nessuno, altrimenti io avvisavo il colonnello e nel frattempo le camionette erano andate dove volevano. La sera del 10 un alpino mi ha chiamato, mi ha detto: “c’è una signora che cerca di lei”. Era mia moglie, era venuta da Pinerolo con una valigia di abiti civili. Mi ha parlato della situazione a Pinerolo, di che cosa aveva visto a Torino, delle caserme ormai deserte. Io e gli altri soldati che erano lassù abbiamo saputo in questo modo che tutto era uno sfascio. E allora ce ne siamo andati, abbiamo lasciato le mitragliatrici nelle feritoie del forte e ognuno a cercar fortuna per tornare a casa propria».32


1

Gerhard Schreiber, I militari italiani, cit., p. 105. 2 Ivi, pp. 119-20. 3 Ivi, p. 125. 4 Ivi. p. 141. 5 Il generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo (1887-1977), ufficiale di cavalleria, nel 1923 aveva sposato Iolanda di Savoia (1901-1977), primogenita di Vittorio Emanuele III e della regina Elena di Montenegro. 6

Nato a Finale Ligure nel 1862, protagonista della battaglia di Vittorio Veneto, ministro della Guerra nel gabinetto Orlando (gennaio-giugno 1919) e comandante delle truppe regolari che costrinsero D’Annunzio a lasciare Fiume, Enrico Caviglia si ritirò a vita privata nel 1926, dopo avere avuto la nomina a maresciallo d’Italia. Il re, in previsione della possibile partenza dalla capitale, lo volle a Roma nei giorni dell’armistizio come uomo di fiducia cui riferirsi. Curiosamente, il maresciallo Caviglia giunse in città il mattino del 7 settembre, viaggiando sullo stesso treno con cui Ambrosio rientrava dalla visita lampo a Torino. Caviglia morì nella sua città natale nel 1945. 7 Nicola Gallerano, La mancata difesa di Roma, in Claudio Dellavalle (a cura di), 8 settembre 1943. Storia e memoria, Angeli, Milano, 1989, p. 23. 8 Giaime Pintor, Il sangue d’Europa (1939-1943), Einaudi, Torino, 1977, p. 163. Scontri spontanei con la partecipazione di cittadini accanto alle truppe ci sono stati il giorno 9 e nella mattina del 10, in particolare a Porta San Paolo e alla piramide di Caio Cestio. 9 Il generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo fu poi rimesso in libertà dagli angloamericani dopo la liberazione di Roma, il 6 giugno 1944. 10 Gerhard Schreiber, op. cit., p. 176. 11 Testimonianza di Giulio Nicoletta, cit. 12 Testimonianza di Giovanni “Nino” Criscuolo, cit. 13 Claudio Dellavalle (a cura di), op. cit., p. 314.


14

Ivi, p. 302. 15 Ivi, p. 319. 16 Ivi, p. 321. 17 La relazione del feldmaresciallo Erwin J. Rommel è riportata in Gerhard Schreiber, op. cit., pp. 147-48. 18 Ivi, p. 169. 19 Ivi, p. 174. 20 Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembreottobre 1943, cit., p. 145. 21 Testimonianza di Mario Bogliolo, classe 1916, di Tortona (Alessandria), partigiano, raccolta in Claudio Dellavalle (a cura di), 8 settembre 1943, cit., p. 166. 22 Gruppo di ricerca sulla storia e la cultura locale di Piossasco (a cura di), Diario di Mario Davide dopo l’8 settembre, edizioni Comune di Piossasco (TO), 1982, p. 28. 23

Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri 1990, p. 17. 24 Ivi, p. 19. 25 Giaime Pintor, op. cit., pp. 180-81. 26 Giovanni Giovannini, Il quaderno nero. Settembre 1943-aprile 1945, ed. Scheiwiller, Milano 2004, pp. 20-21. 27 La testimonianza di Sergio Cotta Ramondini è riportata in Claudio Dellavalle (a cura di), op. cit., p. 182. 28 Testimonianza di Adelmo Franceschini, classe 1924, di Modena, conservata presso l’archivio dell’Istituto Alcide Cervi di Gattatico (Reggio Emilia). 29 Testimonianza di Aldo Sereni, classe 1918, elettricista, di Pescara, raccolta dall’autore il 9 agosto 1987, depositata presso l’archivio dell’Istituto storico della Resistenza di Torino.


30

Testimonianza di Claudio Beltrame, classe 1920, artigiano, di Arzignano (Vicenza), raccolta dall’autore il 22 aprile 1984, depositata presso l’archivio dell’Istituto storico della Resistenza di Torino. 31 La testimonianza di Rino Panza è riportata in Claudio Dellavalle (a cura di), op. cit., pp. 254-55. 32 La testimonianza di Cesare Baudrino è riportata in Claudio Dellavalle (a cura di), op. cit., pp. 149-50.


7 I Balcani e la Grecia

La dislocazione delle unità italiane nel settore sudorientale Nell’area balcanica e nella Grecia la situazione è diversa da quella della Penisola, sia perché tra le unità tedesche e quelle italiane si è giunti a una notevole integrazione operativa che complica il quadro, sia per la pressione delle formazioni partigiane, sia, soprattutto, perché la lontananza dalla madrepatria rende meno probabile lo sbandamento nella forma che esso assume in Italia: in qualche modo, l’isolamento geografico favorisce la conservazione dell’unità dei reparti e rende l’armistizio più complesso e, insieme, più drammatico. In Slovenia, Croazia e Dalmazia è schierata la Seconda armata, agli ordini del generale Mario Robotti: si tratta di truppe di occupazione «dotate di scarsa mobilità e poco addestrate, con vitto, alloggiamenti, equipaggiamento insufficienti, non sempre ben comandate e senza una motivazione specifica»,1 che in due anni di lotta contro i partigiani titini hanno esaurito le proprie risorse materiali e psicologiche. A pregiudicarne ulteriormente la situazione interviene un intempestivo ordine di Roatta (datato 5 settembre, e concepito in funzione del rovesciamento di fronte, ma consegnato a mano solo il pomeriggio del 7) che affida al generale Gastone Gambara la disposizione di una nuova linea difensiva sulla direttrice Isonzo-Lubiana attingendo a reparti


dell’armata, con il risultato che al momento dell’armistizio il sistema di comando è in ridefinizione e le dipendenze gerarchiche si sovrappongono. Sulla Dalmazia meridionale, l’Albania, il Montenegro e l’Egeo ha giurisdizione il gruppo armate est, comandato dal generale Ezio Rosi e costituito da cinque grandi unità. Rispetto ai reparti della Seconda armata, il gruppo di armate est appare meno provato, ma la sua posizione è resa precaria dalla dispersione delle forze su territori troppo vasti e di difficile collegamento (in particolare nel Montenegro) e dagli inserimenti delle unità tedesche, che in Albania hanno assunto il controllo della rete stradale, dei principali campi di aviazione e del porto di Durazzo. Analoghi problemi di dispersione hanno le forze nell’Egeo: i 63 000 dell’ammiraglio Inigo Campioni (che assolve anche i compiti di governatore del Dodecaneso) sono infatti sparpagliati tra diciassette isole Cicladi, tre Sporadi settentrionali e nove Sporadi meridionali, con armamento insufficiente e una copertura aeronavale del tutto inadeguata. Inoltre il giorno 8 settembre, vista l’importanza strategica dello scacchiere per il controllo dei mari, questi reparti vengono sottratti alla dipendenza dal generale Rosi e assegnati direttamente al comando supremo germanico. In Grecia la situazione si presenta ancora più complessa. L’Undicesima armata del generale Carlo Vecchiarelli è composta da tre corpi d’armata italiani e uno tedesco, ma dipende operativamente dal generale Alexander Lohr, comandante del gruppo di armate E della Wehrmacht: nei quattro corpi d’armata, a loro volta, si trovano affiancate unità minori sia tedesche che italiane (il generale Hellmuth Felmy, comandante del LXVIII corpo d’armata germanico, ha alle sue dipendenze le divisioni di fanteria italiane Piemonte e Cagliari, oltre alla 117ª divisione cacciatori e alla II divisione corazzata tedesca; il generale Mario Marghinotti, comandante dell’VIII corpo d’armata


italiano, è a sua volta responsabile della 104ª divisione corazzata tedesca, oltre che delle divisioni di fanteria Casale e Acqui). Ne risultano un intreccio di dipendenze operative e una commistione di reparti che rendono ardui i movimenti autonomi: nello stesso comando d’armata, ad Atene, il generale Vecchiarelli è affiancato da uno stato maggiore operativo tedesco, di cui è responsabile il generale Heinz von Gyldenfeldt, e che svolge funzioni oscillanti tra il collegamento e il controllo. Entro questo quadro operativo e ambientale, che ha specificità diverse da quelle della penisola e che rende difficile procedere ad azioni dirette contro truppe tanto frammentate e intrecciate, i comandi tedeschi agiscono secondo direttive particolari e mirate. Inizialmente, essi cercano di raggiungere accordi con i comandi italiani per ottenere il parziale disarmo, alternando la minaccia di rappresaglie con la promessa di rimpatrio; in seguito, ottenuta la smobilitazione e la cessione delle armi pesanti, procedono con una durezza maggiore di quella adottata in Italia, nel timore che i movimenti partigiani ellenici o jugoslavi sostengano episodi di resistenza o si impadroniscano del materiale bellico del Regio esercito. Di fronte a questa strategia, i responsabili delle grandi unità italiane, stretti fra l’isolamento dalla madre patria e i rischi di un’opposizione armata, aderiscono alle richieste germaniche. Alcuni emanano ordini espliciti di consegna delle armi, come il comandante dell’Undicesima armata generale Vecchiarelli

(di

cui

i

tedeschi

sottolineano

significativamente

il

comportamento collaborativo): egli sottoscrive un accordo in base al quale «le truppe italiane il 9 settembre consegnano tutte le armi pesanti e automatiche. Pistole, fucili e baionette restano nelle mani dei soldati italiani. I tedeschi opereranno arresti solo se sarà necessario l’uso delle forza».2 Altri comandanti, come il generale Gambara (non a caso futuro capo di stato


maggiore del maresciallo Graziani nella Repubblica sociale), ordina ai suoi uomini in Slovenia e Croazia un atteggiamento passivo, raccomandando di «non ricorrere a mezzi estremi o a spargimento di sangue», per poi concedere il libero accesso alla Wehrmacht nei territori di propria competenza («comando habet concesso ingresso truppe germaniche per occupazione litorale fiumano»).3 Altri ancora, come il generale Rosi, avviano trattative che si protraggono senza esito per qualche giorno e che si concludono con atti di forza tedeschi, senza che alle truppe venga data alcuna disposizione. Grazie all’inganno della falsa promessa di rimpatrio, alla paralisi operativa di molti reparti e alla complicità o debolezza di alcuni responsabili degli alti comandi, i tedeschi disarmano così 164 986 militari italiani in Albania e Jugoslavia e oltre 265 000 nelle isole dell’Egeo e dello Jonio e nella Grecia continentale

La resistenza e la lotta partigiana all’estero Se nella penisola gli episodi di resistenza armata sono sporadici e si esauriscono nell’arco di poche ore, nell’area greco-balcanica ci sono invece unità minori e comandi periferici che reagiscono alle pressioni germaniche con energia. Le ragioni sono diverse. In primo luogo, la lontananza dall’Italia rende evidente che l’alternativa è tra l’arresto e la resistenza, perché i margini per la fuga, la mimetizzazione tra la popolazione civile o il ritorno alla propria abitazione sono pressoché nulli. In secondo luogo, la presenza sul territorio di formazioni partigiane organizzate e combattive (da quelle titoiste in Montenegro, a quelle di Enver Hoxha in Albania, a quelle greche dell’Elas e dell’Edes) rappresentano riferimenti di un possibile rovesciamento del fronte: anche se il Regio esercito ha combattuto la guerriglia sino al momento dell’armistizio ricorrendo spesso a rastrellamenti e rappresaglie, la


disponibilità italiana di armi e di mezzi costituisce una risorsa importante per una trattativa. Infine, l’azione tedesca è più lenta rispetto a quanto accade nella penisola, per ovvie ragioni logistiche legate all’ampiezza e all’orografia del territorio: questo significa che il destino dei primi reparti che hanno consegnato le armi e sono stati fatti prigionieri si diffonde con rapidità e allerta tutti gli altri, inducendo in alcune situazioni al combattimento. Gli episodi interessano unità sparpagliate su tutto il settore sudorientale. Nella zona di Spalato, sulla costa dalmata, la divisione Bergamo combatte sino al 27 e, prima di essere sopraffatta, riesce a imbarcare e rimpatriare alcuni reparti; in Albania, nella zona di Scutari, la divisione Perugia resiste sino ai primi giorni di ottobre (numerosi soldati e centoventi ufficiali verranno fucilati dopo la resa: tra loro il comandante, generale Ernesto Chiminello). Presso Ragusa (l’attuale Dubrovnik) si battono unità delle divisioni Marche e Messina; combattimenti vengono sostenuti dalla divisione Emilia alle Bocche di Cattaro, dagli alpini della Taurinense e dai fanti della Venezia nel Montenegro, dalla divisione Pinerolo in Macedonia, dal presidio dell’isola Eubea, dai fanti della divisione Siena e della brigata Lecce a Creta. Altri scontri si hanno nelle isole dell’Egeo, dove i reparti dell’esercito e della marina costringono i tedeschi a successivi sbarchi e a bombardamenti aerei per conquistare le posizioni. L’aspetto più significativo della reazione è tuttavia il raccordo con le formazioni partigiane e l’inserimento di un significativo numero di uomini del Regio esercito nelle file della guerriglia antitedesca. Come abbiamo detto, nel periodo 1941-43 la presenza occupazionale italiana ha determinato lo sviluppo di una politica repressiva contro la guerriglia e contro i civili, simile a quella che gli eserciti occupanti di ogni nazione (comprese quelle più democratiche) attuano in un paese nemico che si ribella all’occupazione: ci


sono state esecuzioni sommarie di partigiani catturati, misure restrittive verso le comunità che li sostenevano, internamenti di civili, devastazioni intimidatorie. Vero è che sul piano militare si registra una sostanziale differenza tra gli eccidi della Wehrmacht e quelli perpetrati dal Regio esercito. Per gli strateghi tedeschi, il terrore sistematico è strumento centrale della politica di occupazione: l’efferatezza nella repressione, la spettacolarizzazione delle esecuzioni, le devastazioni su vasta scala fanno parte di un progetto mirato a deprimere la popolazione nemica sotto il peso della paura e della fame per meglio sottometterla e spezzarne i legami con le resistenze armate: è il modello teorizzato prima del 1939 dai vertici militari del Reich, applicato nei Balcani, portato alle estreme conseguenze nell’Unione Sovietica, riproposto nell’Italia centrosettentrionale dopo il settembre 1943. La violenza del Regio esercito, all’opposto, appare una reazione difensiva di fronte agli attacchi delle formazioni partigiane e all’ostilità dei civili, dove la vendetta dei compagni caduti è una componente psicologica non indifferente: in quanto tale, essa non si presenta come un’affermazione di autorità e di potere, quanto piuttosto come una manifestazione scomposta di debolezza. Detto questo, lo stereotipo del “cattivo tedesco” e del “bravo italiano”,4 su cui è stata costruita tanta parte dell’autoassoluzione italiana del dopoguerra, non è nulla più che uno stereotipo, che nasce dalle censure e dalla rimozione delle colpe di una memoria rielaborata a uso del presente. Gli italiani hanno operato dal giugno 1940 al settembre 1943 accanto ai tedeschi, combattendo la stessa guerra nazifascista di aggressione all’Europa, e avvalendosi di indicazioni operative non certo prive di asprezze. Le operazioni di controguerriglia del Regio esercito sono state condotte secondo le prescrizioni della Circolare 3 C, emanata il 1° marzo 1942 dal generale


Mario Roatta, allora comandante della Seconda armata, un documento ufficiale vincolante per tutti i comandi inferiori. Raccomandando la massima determinazione ed energia nella repressione («il trattamento riservato ai ribelli non deve essere “dente per dente”, ma “testa per dente”»), la circolare definisce le diverse modalità di intervento, assolvendo a priori coloro che commettono brutalità: «Eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai puniti».5 Nella stessa primavera 1942 il generale Mario Robotti, comandante dell’XI corpo d’armata di stanza in Slovenia e Dalmazia, chiama a rapporto i suoi ufficiali lamentando la scarsa incisività della repressione, usa l’espressione «si ammazza troppo poco» e invita ad «accentuare il terrore sulla popolazione civile».6 Di concerto tra comandi militari e ministeri degli Interni vengono costruiti appositi campi di internamento per cittadini slavi, dentro i quali sono rinchiuse decine di migliaia di sloveni, croati, montenegrini, ammassati nell’isola di Arbe o a Gonars in condizioni di vita tali da determinare tassi di mortalità vicini al 20 per cento. In Grecia la repressione è meno radicale, perché il movimento di resistenza non ha la compattezza garantita in Jugoslavia dall’egemonia del comunismo di Tito, ma l’occupazione determina il tracollo di un’economia fondata sul commercio marittimo: senza industria, con un’agricoltura arretrata, la Grecia vive una situazione di precarietà nella quale la malnutrizione apre la strada all’esplosione della tubercolosi e della malaria, all’aumento esponenziale del tasso di mortalità: «Nel terribile inverno 194142, i marciapiedi di Atene erano pieni di agonizzanti: la produzione agricola, priva di fertilizzanti, di animali da traino e di nuovi capitali, era precipitata al 60 per cento della produzione del 1938. Da una pubblicazione governativa del 1946, risulta che sotto l’occupazione morirono per fame 360 000 greci su una popolazione di poco superiore ai sette milioni di abitanti».7


Nonostante quasi tre anni di contrapposizioni, risentimenti e reciproche violenze, l’armistizio apre scenari imprevedibili. In Albania, la divisione Firenze riesce a mantenersi compatta e a stabilire contatti con la resistenza albanese, trovando interlocutori interessati: il comandante, generale Arnaldo Azzi, costituisce così il “comando truppe italiane della montagna”, forte di diverse migliaia di uomini e punto di riferimento per i soldati italiani di altri reparti sfuggiti alla cattura e sbandati; a esso si aggrega il battaglione Antonio Gramsci, costituito dal sergente Giovanni Cardinali con i superstiti della divisione Arezzo. In Jugoslavia sono i superstiti della divisione Bergamo a costituire un reparto organizzato, il battaglione di patrioti Garibaldi, che Tito accetta di impegnare accanto ai partigiani montenegrini; a Creta si forma una banda guidata dal sottotenente Siro Riccioni. La spiegazione di queste aperture si trova negli equilibri del conflitto: per Tito e per Hoxha, sostenere lo sganciamento italiano dall’alleanza con la Germania significa indebolire la forza dell’occupante, in alcuni casi dimezzandone le potenzialità offensive. Gli italiani occupano punti strategici, controllano porti e vie di comunicazione, sono presenti nelle principali città: visto l’isolamento geografico dalla madrepatria, un atteggiamento di ostilità da parte delle formazioni guerrigliere potrebbe indurre i reparti a non riconoscere l’armistizio del re e continuare a combattere accanto all’esercito germanico. Inoltre, il Regio esercito dispone di risorse materiali e militari che appaiono modeste rispetto alle disponibilità tedesche, ma che sono assai superiori a quelle della guerriglia, del tutto priva di armi pesanti e di mezzi blindati o corazzati. I magazzini, le armerie e gli autoparchi italiani sono un obiettivo importante, che potrebbe trasformare le capacità combattive dei partigiani. La saldatura tra Regio esercito e guerriglia organizzata è esattamente ciò che temono i comandi della Wehrmacht, ai quali è noto che il


maresciallo Tito gode di ampio credito presso gli Alleati. Alcuni alti ufficiali, tra cui lo stesso generale Lohr, comandante del gruppo armate E, sono convinti che l’annuncio dell’armistizio coincida con un tentativo di sbarco angloamericano nei Balcani e temono che le proprie truppe vengano strette in una morsa fatale tra Alleati, italiani e partigiani locali. Da qui deriva il carattere prudente delle loro prime mosse, la richiesta di consegnare le armi pesanti come strumento per sondare il terreno, le trattative temporeggiatrici che si intavolano a diversi livelli. In realtà, nulla di quanto teme la Wehrmacht è stato programmato. Gli accordi armistiziali del 3 settembre hanno riguardato il territorio metropolitano, abbandonando al proprio destino le truppe operanti all’estero. In Jugoslavia e in Albania nessun responsabile militare è al corrente delle trattative con gli Alleati e nessuno ha abboccamenti preventivi con le organizzazioni guerrigliere. Gli accordi con Tito e con Hoxha sono frutto di iniziative locali e individuali, improvvisate sotto l’urgenza degli eventi. In alcuni casi le unità riescono a portare con sé parte dell’armamento e delle riserve alimentari, ma nella fretta dello sganciamento la maggior parte delle disponibilità belliche viene abbandonata e cade in mano tedesca. Come per la situazione della penisola, così per quella balcanica si deve parlare di un contributo italiano assai inferiore alle potenzialità. Gli accordi con i comandi partigiani permettono comunque a diverse migliaia di soldati italiani di evitare la cattura e la deportazione; da parte loro, la resistenza jugoslava e albanese acquistano nuovi combattenti armati e addestrati, che resteranno al loro fianco sino alla liberazione dei territori. Diversa e dagli esiti umilianti la situazione in Grecia, dove il ruolo iniziale di riferimento è assunto dalla divisione Pinerolo, il cui comandante, generale Adolfo Infante, trasferisce le forze verso le pendici del Pindo e


prende contatto sia con i comandi della resistenza greca, sia con la missione militare britannica che agisce in Tessaglia. L’11 settembre viene stipulato un “patto di cooperazione”, sottoscritto, oltreché da Infante e dal colonnello inglese Chris Woodhouse, dai delegati delle due organizzazioni partigiane elleniche (quelle filomonarchiche dell’esercito popolare di liberazione nazionale e quelle filocomuniste dell’esercito democratico popolare ellenico). In virtù di questo accordo, i reparti della Pinerolo diventano il “comando forze armate italiane in Grecia”, con l’assegnazione di un settore specifico e l’assistenza britannica. Le premesse per una fattiva collaborazione sono concrete: il 25 settembre il patto viene approvato dal comandante in capo delle forze alleate nel Medio Oriente, generale Henry Maitland Wilson, e all’inizio di ottobre la Pinerolo predispone un piano di attacco al campo di aviazione di Larissa, richiesto dallo stesso comando alleato. Ma il 14 ottobre, all’improvviso, l’atteggiamento muta: i dirigenti repubblicani e filocomunisti dell’Elas ordinano il disarmo degli italiani e la loro raccolta in tre distinti campi. Tra la sorpresa e i tentativi di resistenza, i circa dodicimila soldati sono rapidamente concentrati nei campi indicati e la cooperazione trasformata in detenzione. Il colpo di mano si ricollega ai contrasti interni alla resistenza greca: in un contesto che preannuncia una futura guerra civile, la massa organizzata della Pinerolo è considerata dall’Elas un elemento di squilibrio a favore dell’ala monarchica e moderata, un potenziale destabilizzante che a liberazione avvenuta potrebbe incidere sulle future vicende elleniche. Di qui la decisione di un disarmo, rispetto al quale né la missione britannica né l’Edes hanno l’energia e la forza per opporsi. Per gli uomini del generale Infante l’operazione segna la diaspora: in parte vengono catturati dai tedeschi durante i rastrellamenti della settimana successiva; in parte, sfuggiti alle truppe della


Wehrmacht, si aggregano alle formazioni partigiane come combattenti individuali; in parte ancora operano scelte personali, trovando rifugio e lavoro in alcune famiglie contadine della Tessaglia e della Macedonia; un certo numero, infine, rimane nei campi di raccolta sino all’anno successivo, quando i tedeschi si ritirano dalla Grecia. Il destino delle forze armate italiane all’estero si compie così, in un quadro articolato e contraddittorio, nel quale il silenzio coesiste con la reazione, i patteggiamenti degli alti comandi con la resistenza delle unità minori, i risultati ottenuti con le opportunità sprecate. È lo spaccato di un’Italia frastagliata e confusa, dove a determinare i comportamenti sono l’istinto della sopravvivenza e gli spazi delle contingenze, quasi mai la consapevolezza delle scelte.

Due storie a parte: Cefalonia e Kos Tra i diversi episodi maturati nell’area sudorientale dopo l’8 settembre, uno è assurto a simbolo della resistenza militare italiana all’estero e merita un cenno più diffuso, sia per le sue dimensioni, sia per le polemiche interpretative che ha alimentato (e che ancora alimenta): la lotta della divisione Acqui a Cefalonia e Corfù. Secondo Marcello Venturi (che nel 1963 con lo scritto Bandiera bianca a Cefalonia ha fatto conoscere un’esperienza di cui in Italia si avevano solo vaghe notizie e che in Germania si ignorava del tutto), nella vicenda della divisione Acqui convergono tanti elementi caratteristici del dramma della guerra, «la sua irrazionalità di fondo, la sua stupidità, la ferocia, il gusto della morte», ma anche la contrapposizione tra l’atteggiamento italiano e quello germanico verso il conflitto: «Qui, mentre da una parte veniva fuori la scarsa bellicosità del


soldato italiano – cioè la riprova della sua civiltà di origine contadina – dall’altra veniva fuori l’aspetto contraddittorio di una “Kultur” che dietro alla violenza e all’efficienza militare, al mito della forza e alla supremazia del sangue, lasciava intravedere tutti i complessi di inferiorità, e la solitudine, e la tristezza quasi animale della razza germanica».8 Per comprendere lo sviluppo degli eventi a Cefalonia e a Corfù, bisogna partire dalla premessa che tanto i comandi tedeschi quanto quelli italiani attribuiscono un elevato valore militare alle isole in questione: «Chi occupava Cefalonia deteneva il controllo del golfo di Patrasso e poteva bloccare a occidente lo stretto di Corinto. Corfù, che si trova più a nord, era particolarmente adatta a servire come punto di controllo orientale per l’accesso al mare Adriatico. Inoltre l’isola, che in linea d’aria è distante solo cento chilometri dall’Italia e che è immediatamente prospiciente alla terraferma greca, secondo i comandi tedeschi si prestava in quel settembre a diventare una testa di ponte rivolta contro le proprie postazioni difensive nel settore greco-albanese».9 Da parte italiana, a presidiare le due isole ci sono i circa 11 500 fanti della Acqui, comandati dal generale Antonio Gandin. La maggior parte della forza è a Cefalonia, con sede del comando ad Argostoli, una cittadina di origine veneziana affacciata sul golfo; all’altro capo del golfo, nella cittadina di Luxuri, ha sede il comando della guarnigione tedesca, giunta nell’isola da poche settimane e costituita dal 966° reggimento granatieri da fortezza e da un reparto del 201° gruppo semovente di artiglieria, circa 1800 uomini al comando del tenente colonnello Hansen Barge. L’aliquota minore della divisione Acqui è invece dislocata a Corfù, al comando del colonnello Luigi Lusignani, e opera accanto a un centinaio di soldati tedeschi, quasi tutti specialisti dell’aviazione per il servizio di


avvistamento aerei. Il rapporto di forza è dunque nettamente favorevole agli italiani, che occupano le posizioni chiave di entrambe le isole. Poche ore dopo l’annuncio dell’armistizio, il generale Gandin riceve un radiogramma dal comando dell’Undicesima armata del generale Vecchiarelli, nel quale si ordina di non prendere iniziative armate contro i tedeschi ma di reagire a eventuali aggressioni; il giorno successivo giunge un secondo radiogramma in cui, contraddicendo il precedente, si preannuncia per l’indomani la sostituzione dei reparti italiani con reparti tedeschi e si danno disposizioni per la consegna alle forze germaniche delle armi collettive e delle artiglierie con relativo munizionamento. La contraddittorietà delle disposizioni e la mancanza di riferimenti con cui consultarsi in tempo reale, inducono il generale Gandin a temporeggiare: nei due giorni successivi egli incontra il tenente colonnello Barge per ottenere esplicite garanzie circa l’integrità della compagine divisionale e chiarendo il proposito di lasciare le artiglierie solo al momento di lasciare l’isola; contemporaneamente, la Acqui abbandona alcune posizioni strategiche per rassicurare l’ex alleato sulle sue intenzioni di non belligeranza. La linea di condotta di Gandin prescinde dalla situazione in atto nelle due isole e parte da una valutazione dei rapporti di forza complessivi: «Gandin pensava che in Grecia l’Undicesima armata si trovava con ogni probabilità in seri guai per la sua composizione italo-tedesca, che un aiuto aereo o navale dall’Italia era assai poco sperabile, che uno sbarco alleato a Cefalonia si mostrava illusorio e uno nel Peloponneso improbabile. La divisione Acqui poteva contare solo sulle proprie forze. Essa non possedeva aviazione, l’efficienza della sua fanteria era relativa, la difesa costiera e contraerea limitata a pochi settori: quindi, sopraffatti senza molte difficoltà i tedeschi dell’isola, occorreva affrontare una lotta senza speranza contro la Luftwaffe e


contro sbarchi in forze. La posizione geografica di Cefalonia rivestiva un indubbio valore strategico e non era pensabile di rimanere “dimenticati” dai tedeschi».10 Il temporeggiare di Gandin suscita preoccupazione nei comandi tedeschi, anche perché l’11 settembre unità britanniche sono entrate a Brindisi e le due isole dello Jonio sono ormai a poche ore di navigazione. Il fatto che la consegna delle armi ritardi non solo a Cefalonia e Corfù, ma anche in alcune isole del Dodecaneso, mentre in Italia c’è stata una resa quasi immediata, porta il generale Lohr a ritenere che «la resistenza ostinata opposta dagli italiani nei settori più importanti del Mediterraneo orientale debba essere inquadrata in un piano strategico degli Alleati che punta al settore greco».11 Lo sbarco nel Peloponneso o nei Balcani meridionali, d’altra parte, è stata un’opzione discussa dagli angloamericani ben prima della caduta di Mussolini e sostenuta in particolare dal premier britannico Churchill: anche se è stata scartata per ragioni strategiche, il servizio informazioni tedesco sa che si tratta di un’ipotesi sul tavolo e ritiene che il rovesciamento di fronte dell’Italia possa offrire le condizioni giuste. Neutralizzare la divisione Acqui a Cefalonia e Corfù diventa dunque un’urgenza: il 13 settembre il tenente colonnello Barge impone al generale Gandin un ultimatum, concedendogli ventiquattr’ore di tempo per procedere alla consegna delle armi; contemporaneamente il generale Hubert Lanz, a capo del XXII corpo d’armata da montagna, prevede massicci attacchi aerei contro le postazioni di artiglieria italiane, il successivo sbarco di unità di rinforzo e l’invio del maggiore Harald von Hirschfeld come comandante di tutti i reparti tedeschi operanti sull’isola, in sostituzione del tenente colonnello Barge ritenuto troppo cauto. Tra il 13 e il 15 settembre la situazione degenera rapidamente verso lo


scontro, con ripetuti incidenti tra forze italiane e tedesche che suscitano un clima di effervescenza: «Alla base di tutto ci fu probabilmente la nascita spontanea nella truppa di un sentimento antitedesco che, dalla immediata antipatia del giorno 9 verso l’ormai unico ostacolo alla pace, si era mutato in chiara ostilità ai primi incidenti».12 Su questo retroterra psicologico si innesta l’azione di alcuni ufficiali del 33° artiglieria e del comando marina, spinti dalla determinazione a reagire e a contrastare i tedeschi nell’isola. Il mattino del 13, quando due grosse motozattere germaniche doppiano la punta di San Teodoro dirigendosi su Argostoli, i tenenti del 33° artiglieria Amos Pampaloni e Lorenzo Apollonio si consultano rapidamente per telefono con il comando marina, poi lo stesso Apollonio dà l’ordine di aprire il fuoco, seguito dalle batterie della marina. L’azione è sintomatica di una volontà di non

arrendersi

che

il

generale

Gandin

recepisce,

confortato

sia

dall’orientamento espresso dagli ufficiali convocati nella sede del comando, sia da un messaggio ricevuto nella notte tra il 13 e il 14 da Brindisi, nel quale il comando supremo del generale Ambrosio ordina ai reparti delle isole greche di resistere all’intimazione di consegnare le armi. Il 14 settembre, alle 11.00, Gandin comunica ai tedeschi il rifiuto dell’ultimatum. La battaglia di Cefalonia dura otto giorni, dal 15 al 22 settembre, ed è determinata in gran parte dall’azione degli Stuka: a ondate successive, i bombardieri tedeschi colpiscono le postazioni di artiglieria e scaricano ordigni sui reparti italiani, la cui contraerea non è in grado di reagire. Il dispositivo della fanteria e i collegamenti tra le unità vengono gravemente compromessi, la capacità di contrastare uno sbarco annullata. Tra il 17 e il 18 di settembre possono così raggiungere l’isola consistenti reparti della 104ª divisione cacciatori, che riequilibrano i rapporti di forze. Per i fanti della Acqui non ci sono più margini di resistenza: dopo altri tre giorni di


combattimenti, il 22 settembre il generale Gandin si arrende. Gli avvenimenti di Corfù seguono a grandi linee la stessa dinamica di quelli di Cefalonia, con la differenza che il comandante, colonnello Luigi Lusignani, sin dal giorno 11 ha ricevuto due messaggi dall’Italia che ordinano di resistere alle azioni tedesche: dopo alcuni tentativi di sbarco effettuati da reparti germanici tra il 13 e il 15 e respinti dagli italiani, la lotta riprende il 23, dopo la caduta di Cefalonia, e si esaurisce il giorno 25, quando Lusignani è costretto alla resa. Ciò che ha reso drammatico l’episodio di Cefalonia e Corfù è la volontà di sterminio secondo cui operano le truppe tedesche. L’ordine trasmesso il 18 settembre dal comando supremo della Wehrmacht (e pare voluto dallo stesso Hitler) è perentorio: «A causa dell’infame e proditorio comportamento, a Cefalonia non devono essere fatti prigionieri italiani».13 La volontà punitiva coniuga la rabbia per il “tradimento” con le preoccupazioni strategiche per il possibile sbarco anglo-americano: le due isole devono diventare un monito per i reparti ancora in armi nel Mediterraneo orientale. Ai morti in combattimento si aggiungo così i soldati e gli ufficiali fucilati dopo la cattura o dopo la resa. Il dramma più intenso si vive il mattino del 23 settembre, quando 265 ufficiali, tra cui lo stesso Gandin, vengono passati per le armi: «A Capo San Teodoro, davanti al mare, tra gli ulivi mediterranei, si fucila dalle 8.30 a mezzogiorno. A mezzogiorno il tenente che comanda il plotone appare stanco, persino lui, di tanto sangue e ordina il cessate il fuoco […]. E così a Capo San Teodoro si ricompone il silenzio antico del Mediterraneo e si ricompone, a poco a poco, il silenzio della morte a Cefalonia».14 Le stesse modalità repressive vengono adottate a Corfù, dove molti ufficiali sono fucilati dopo la resa, e tra loro il colonnello Lusignani. Sul carattere eccezionale delle esecuzioni di Cefalonia e Corfù c’è una


sostanziale concordanza tra gli studiosi, ma controversa è la quantificazione: quante sono effettivamente le vittime dell’eccidio? Quanti sono morti in combattimento e quanti sono stati fucilati dai plotoni di esecuzione tedeschi? Sin dall’inizio della ricostruzione storica, si è parlato di circa novemila vittime, una percentuale vicina all’80 per cento degli effettivi: il dato si trova in un comunicato della presidenza del consiglio del governo Parri, datato settembre 1945, ed è calcolato sottraendo agli 11 500 uomini dell’organico i 1286 rimpatriati nel novembre 1944, dopo la liberazione della Grecia, e approssimando il numero dei dispersi. In realtà, questo calcolo non tiene conto di tutti i soldati che, dopo la cattura, vengono inviati nei campi di internamento in Germania. Numeri precisi vengono proposti nel 1992 dallo studioso tedesco Gerhard Schreiber, il quale si basa tuttavia sul confronto tra fonti diverse, la cui attendibilità scientifica deve essere verificata: si arriva così a un totale di 7749 vittime, di cui 1315 caduti durante i combattimenti, 1264 periti nell’affondamento delle navi che li trasportano verso la prigionia, 5170 trucidati dopo la cattura.15 L’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito parla a sua volta di 4905 militari trattati secondo la direttiva del Führer.16 In tempi più recenti, il numero è stato nettamente ridimensionato sulla base dei dati della sezione di Albo d’Oro (resi disponibili da pochi anni): «La cifra di novemila morti è un dato totalmente fuori dalla realtà. È utile partire quindi dal numero che sembra più attendibile, pur se ancora modificabile. Secondo i dati della sezione di Albo d’Oro i caduti di Cefalonia furono 1914 così distribuiti: 324 ufficiali e qualche soldato fucilati dai tedeschi tra il 22 e il 24 settembre; 1141 dispersi in eventi bellici; 47 dispersi in prigionia; 228 morti in combattimento; 174 morti in prigionia. A questi bisogna aggiungere i circa 1300 morti nell’affondamento delle navi».17 Anche la dinamica degli avvenimenti e la valutazione del comportamento


dei protagonisti sono oggetto di discussione e di valutazioni contrastanti. Il tenente Apollonio è un patriota che agisce in nome del senso della dignità militare o un insubordinato che non rispetta le consegne? E il generale Gandin, decorato con medaglia d’oro, è un comandante che subisce le pressioni dei suoi subordinati o il capo consapevole di una resistenza armata? Nell’immediato dopoguerra «una parte dei superstiti e dei familiari dei caduti hanno accusato Apollonio, Pampaloni e altri ufficiali di aver indotto Gandin a non accettare la resa, causando quindi l’eccidio». La denuncia si è conclusa in sede istruttoria con una sentenza di proscioglimento da parte del Tribunale militare, ma, per contro, ad Apollonio è stata rifiutata una medaglia al valore sia al termine del conflitto, sia nel 1962, quando la proposta è stata reiterata. Si tratta di valutazioni e di conteggi destinati a contrapporsi senza raggiungere certezze definitive: per quanto riguarda i numeri, nei momenti d’emergenza nessuno tiene la contabilità dei morti e la ricerca postuma lascia inevitabilmente margini di errore: per quanto riguarda il comportamento dei protagonisti, «ci troviamo di fronte a un grande squilibro tra l’ampia documentazione presentata da Apollonio e l’insufficiente informazione sull’operato di Gandin e sulle sue motivazioni».18 Il significato di Cefalonia e Corfù va tuttavia al di là delle diverse ricostruzioni storiografiche. Pur nell’esito drammatico della lotta, le due isole rappresentano un’eccezione che si illumina nel confronto con il silenzio generale. Mentre in molte altre parti d’Italia e dei Balcani le truppe si sciolgono o vengono intrappolate dalla mancanza di ordini, a Cefalonia e Corfù un’intera divisione reagisce all’aggressione e resiste quasi sino alla fine del mese. Il salvataggio degli uomini, attraverso l’invio di qualche nave dall’Italia, non sarebbe stato impegnativo né rischioso. Che non lo abbiano fatto gli angloamericani è comprensibile: la priorità della loro guerra è il


contrasto dei tedeschi in Italia, non il salvataggio di reparti del Regio esercito che sino a qualche settimana prima sono stati nemici. Resta da chiedersi perché il re e Badoglio non abbiano fatto nulla per portare soccorso alla Acqui, premendo sul comando alleato per utilizzare alcune delle navi da guerra che in quegli stessi giorni si consegnano nel porto di Malta. Ma questo è appunto il silenzio che avvolge l’Italia del potere e che rende più nobile l’eccezione. Un cenno conclusivo fa fatto a proposito di Kos, un’isola delle Sporadi meridionali che fa parte dell’arcipelago del Dodecaneso (il territorio assegnato all’Italia nel 1912 con il trattato di Losanna, al termine della guerra libica). I comandi germanici sono interessati a garantirsi il controllo delle isole per proteggere il fianco meridionale del fronte orientale e per impedire che gli angloamericani possano sferrare da lì l’attacco ai Balcani. Per le ragioni opposte, lo stesso interesse è manifestato da Churchill, sostenitore di una strategia mediterranea che punti alla conquista sia dell’Italia sia della penisola balcanica. L’obiettivo britannico di impadronirsi con una mossa rapida del Dodecaneso viene vanificato dalla repentina caduta della piazzaforte di Rodi, che già l’11 settembre passa sotto controllo germanico. Il primo ministro inglese e i suoi collaboratori puntano però sul fatto che le vicine isole di Lero e Kos sono rimaste nelle mani degli italiani e che l’aeroporto di Kos può assicurare agli Alleati una piena copertura aerea: rafforzando i presidi italiani di Lero e di Kos è possibile contenere la presenza tedesca nell’arcipelago e, in prospettiva, prendere l’iniziativa per recuperare la stessa Rodi. Il 13 settembre cominciano così a sbarcare a Kos le truppe inglesi messe a disposizione dal comandante supremo per il Medio Oriente, generale Maitland Wilson, e in pochi giorni i 1473 militari dell’impero britannico


affiancano il presidio dei quattromila soldati italiani del colonnello Felice Leggio, appartenenti al 10° reggimento fanteria della divisione Regina. I reparti si attestano sull’isola e si concentrano nei lavori di potenziamento delle difese antiaeree dell’aeroporto, ma trascurano il dispositivo di vigilanza costiera, nella convinzione che la supremazia navale inglese sia tale da escludere qualsiasi tentativo germanico via mare. Il 3 ottobre, invece, i tedeschi attaccano proprio dal mare, con un’azione tanto improvvisa quanto audace: utilizzando zatteroni e mezzi da sbarco di fortuna, muovendosi senza alcun fuoco di copertura e senza alcuna protezione, essi sorprendono i difensori, che scontano le esitazioni dei comandanti di vario livello e il cattivo collegamento tra inglesi e italiani. Di fatto, le truppe germaniche riescono a superare le fasi critiche dell’avvicinamento e dello sbarco senza che nessuno apra il fuoco contro i natanti, e possono avanzare rapidamente verso l’interno, sostenuti dagli attacchi degli Stuka che seminano confusione e panico tra gli uomini di presidio. In due giorni, una forza di mille soldati del Reich riesce così ad avere ragione di unità cinque volte superiore di numero e a far prigionieri 3145 militari italiani e 1388 britannici. L’episodio, nel quale le inadeguatezze tattiche si intrecciano con fattori di carattere psicologico e morale (i reparti italiani di stanza a Kos vivono nell’illusoria sicurezza di presidiare un’isola ormai lontana dai pericoli della guerra e non hanno la percezione di che cosa sia avvenuto l’8 settembre), ha un’appendice drammatica come a Cefalonia: dopo la resa, novantasei ufficiali vengono passati per le armi. Mentre nel caso di Cefalonia le esecuzioni sono conseguenza degli ordini emanati direttamente da Berlino, a Kos il massacro discende piuttosto dalla volontà tedesca di vendicarsi dei “traditori” e avviene secondo criteri del tutto casuali. «Il criterio secondo il quale i tedeschi


sceglievano chi fucilare e chi risparmiare si basava sul fatto che l’ufficiale sottoposto a giudizio avesse combattuto o meno durante la battaglia del 3 e 4 ottobre. In realtà, questo criterio non era applicato rigorosamente: capitò così che venissero risparmiati ufficiali che avevano combattuto, e che altri, magari d’amministrazione o comunque non appartenenti a reparti operativi, venissero fucilati.»19


1

Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, p. 370. 2 Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., p. 196. 3 Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, p. 330. 4 Sul tema cfr. Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe nella seconda guerra mondiale, Laterza, Roma 2013. 5 La Circolare 3 C, emanata dal comando della Seconda armata il 1° marzo 1942, è riprodotta in appendice a Gianni Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-43, Mondadori, Milano 2006, pp. 173-201. 6 Ivi, p. 28. 7 Giorgio Vaccarino, La Grecia tra resistenza e guerra civile 1940-1949, Franco Angeli, Milano 1988, p. 48. 8 Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, (1963), prefazione alla riedizione del 1972, Mondadori, Milano 2001, p. 18. 9 Gerhard Schreiber, Cefalonia e Corfù, settembre 1943: la documentazione tedesca, in Giorgio Rochat, Marcello Venturi (a cura di), La divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, Mursia, Milano, 1993, p. 12. 10 Mario Montanari, Cefalonia, settembre 1943: la documentazione italiana, ivi, p. 101. 11 Gerhard Schreiber, Cefalonia e Corfù, settembre 1943: la documentazione tedesca, cit., p. 129. 12 Mario Montanari, Cefalonia, settembre 1943: la documentazione italiana, cit., p. 104. 13 Gerhard Schreiber, Cefalonia e Corfù, settembre 1943: la documentazione tedesca, cit., p. 134. 14 Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, cit., p. 244.


15

Gerhard Schreiber, Gli internati militari italiani, cit., p. 208. 16 Mario Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembreottobre 1943, cit., p. 587. 17 Elena Aga Rossi, Una storia a parte. I soldati italiani nei Balcani, il Mulino, Bologna 2011, p. 300. 18 Ivi, p. 303. 19 Isabella Insolvibile, Kos 1943-1948. La strage, la storia, ESI, Napoli 2010, p. 103.


8 L’8 settembre della Regia marina

Le clausole armistiziali e il Promemoria Dick Per quanto riguarda le forze navali, l’esito dell’armistizio è diverso da quello delle forze terrestri perché diverse sono le tradizioni e diverso è il contesto operativo. La Regia marina, in primo luogo, non ha combattuto una guerra

subalterna

alle

scelte

strategiche

della

Germania,

ma

ha

autonomamente svolto il proprio ruolo nell’area del Mediterraneo e, pur risultando perdente nei rari confronti diretti con il nemico, ha garantito margini di agibilità ai nostri traffici marini e assicurato «un flusso quasi ininterrotto di navi mercantili tra i porti metropolitani e quelli dell’Africa settentrionale, dell’Albania, della Grecia, delle isole Egee».1 Tale funzione di garanzia si è certamente ridimensionata a partire dall’estate 1942, dopo lo sbarco degli Alleati nel nord dell’Africa e l’irruzione massiccia delle forze aeronavali angloamericane nel Mediterraneo centroccidentale, ma una parte della flotta ha continuato a operare tra lo Ionio e l’Egeo, mentre l’altra parte, ritirata nei porti di La Spezia e Taranto, ha comunque costituito un deterrente per il nemico.2 In secondo luogo, lo spirito militare di un equipaggio della marina è tradizionalmente più forte e più saldo di quello di un reggimento dell’esercito, per ragioni che derivano dalla natura stessa dell’attività svolta.


La vita in mare aperto stabilisce infatti vincoli stretti tra gli uomini, sia perché la sopravvivenza di tutti dipende dall’impegno di ciascuno, sia perché l’ammiraglio di lungo corso e il semplice marinaio condividono la stessa esperienza, sia perché il sistema delle relazioni interpersonali è tutto interno al “gruppo equipaggio”: ne derivano un rafforzamento del senso identitario e un orgoglio di appartenenza che non ammettono dissensi né mortificazioni. In terzo luogo, le manovre preventive di incapsulamento messe in atto dai tedeschi nella penisola italiana e nei Balcani non sono possibili in mare, dove la Germania non dispone di un potenziale navale adeguato e dove le nostre unità potrebbero facilmente sganciarsi. Il “piano Schwarz”, predisposto subito dopo il 25 luglio, prevedeva la neutralizzazione della flotta italiana attraverso lo stazionamento di sommergibili al largo di La Spezia, pronti ad affondare le grandi unità che prendessero il largo senza autorizzazione tedesca: l’impiego dei sommergibili è risultata però impraticabile e il piano è rimasta lettera morta. Nel successivo “piano Achse” si è prevista invece un’azione offensiva dell’esercito germanico contro le due basi di La Spezia e Taranto, ma anche questo progetto non è stato realizzato per l’evidente superiorità difensiva delle forze italiane. L’insieme di queste considerazioni attribuiscono alla Regia marina una specificità e un’importanza che è ben chiara ai protagonisti nazionali e internazionali dell’estate 1943. Se l’uscita unilaterale dell’Italia dalla guerra non cambia in modo significativo gli equilibri militari terrestri, essa può risultare invece decisiva in campo marittimo, garantendo agli Alleati il controllo incontrastato del Mediterraneo e permettendo loro di utilizzare su altri scacchieri le proprie unità navali. Non a caso già all’indomani del 25 luglio, Churchill scrive a Roosevelt che «la resa della flotta italiana libererà notevoli forze navali britanniche che potranno essere impiegate nell’oceano


Indiano contro il Giappone»;3 lo stesso Churchill, parlando alla camera dei comuni il 21 settembre, sottolineerà che «la resa della flotta italiana ha modificato in modo decisivo l’equilibrio navale nel mondo»;4 e lo storico ufficiale del Foreign Office inglese, sir Llewellyn Woodward, osserverà che «la resa della flotta italiana fu di immediata e grande importanza dato che essa liberò per il loro impiego in Atlantico e in Estremo Oriente un considerevole numero di navi alleate».5 Non è perciò un caso se, avviate le trattative per giungere all’armistizio, i comandi angloamericani si orientano in modo opposto a quello dei vertici della Wehrmacht, preoccupandosi poco del Regio esercito e occupandosi invece del destino della Regia marina. Le linee guida vengono tracciate direttamente dall’ammiraglio Andrew Cunningham, comandante in capo delle forze navali del Mediterraneo: la priorità assoluta è che nessuna nave cada in mano tedesca, scegliendo piuttosto l’autoaffondamento; la seconda è che, al momento stabilito, l’intera flotta da guerra e quella mercantile si mettano in mare e raggiungano porti sicuri in Sicilia o nell’Africa settentrionale; la terza è che gli equipaggi consegnino il naviglio alle autorità alleate e accettino il disarmo. Il 3 settembre, quando il generale Castellano giunge in Sicilia per sottoscrivere l’armistizio, il percorso è definito e richiamato in tre dei tredici articoli che compongono il testo: l’art. 4 prevede «il trasferimento immediato della flotta italiana nelle località che potranno essere indicate dal Comandante in Capo alleato»; l’art. 5 stabilisce che «il naviglio mercantile potrà essere requisito dal Comandante in Capo alleato per provvedere alle necessità del suo programma militare-navale»; l’art. 7 impone la «garanzia immediata del libero uso da parte degli Alleati di tutti gli aeroporti e porti marittimi in territorio italiano».6 Sul testo armistiziale non ci sono margini di trattativa:


alla richiesta del generale Castellano di poter dirigere una parte almeno della flotta da guerra verso la Sardegna, dove si ipotizza il trasferimento della famiglia reale e del governo, il capo di stato maggiore della Mediterranean Fleet, commodoro Roger Dick, risponde che non è possibile perché l’ammiraglio Cunningham ha già disposto altre destinazioni. In effetti, i comandi alleati hanno pianificato con attenzione tutti i passaggi e le istruzioni particolareggiate vengono date a Castellano dopo la firma dell’armistizio attraverso un promemoria noto come Promemoria Dick. Il documento, scritto in lingua inglese senza traduzione, stabilisce rotte, porti di riunione, modalità di avvicinamento: «Tutte le navi da guerra dislocate sulle coste occidentali dell’Italia e a nord del 42° parallelo», si legge, «si dirigeranno a nord della Corsica, navigheranno lungo le coste occidentali della Corsica e della Sardegna e giungeranno al porto di Bona in Algeria; le navi da guerra a sud del 42° parallelo raggiungeranno il medesimo parallelo navigando lungo la costa della penisola italiana verso nord, poi dovranno fare rotta verso ponente e costeggiare le coste orientali di Corsica e Sardegna raggiungendo anch’esse il porto di Bona; le navi da guerra dislocate a Taranto o nell’Adriatico dovranno trasferirsi a Malta; le navi da guerra nell’Egeo dovranno dirigersi ad Haifa». Seguono indicazioni per le unità militari minori (destinate in Sicilia ad Augusta), per i sommergibili (stesse destinazioni delle navi da guerra e obbligo di navigare in emersione), per la flotta mercantile (porti di Alessandria d’Egitto e Gibilterra), nonché forme di riconoscimento, norme sulla distanza di sicurezza dai porti, limiti di velocità in vista dell’approdo. Infine, si impone l’accettazione da parte degli equipaggi delle «misure di disarmo che potranno essere ordinate dalle autorità navali alleate».7 In altre parole, si tratta di vera e propria “resa”, appena mitigata dal “memorandum di Quebec” concordato tra Churchill e


Roosevelt, dove si apre uno spiraglio su un possibile futuro alleggerimento delle condizioni armistiziali: «La misura nella quale tali condizioni saranno modificate in favore dell’Italia dipenderà dall’entità dell’aiuto che il governo e il popolo italiano daranno realmente alle Nazioni Unite contro la Germania durante la rimanente parte della guerra».8 Anche se la Regia marina non è citata in modo esplicito, le condizioni militari dell’Italia fanno apparire evidente che gli estensori del memorandum hanno pensato a essa come all’unico, concreto strumento di aiuto bellico italiano alla guerra delle Nazioni unite.

I colloqui tra Ambrosio e De Courten Se la marina è centrale nello sviluppo della trattativa armistiziale, i suoi vertici, a cominciare dall’ammiraglio Raffaele De Courten (dal 25 luglio ministro e contemporaneamente capo di stato maggiore della marina), ne sono invece tenuti all’oscuro: nessun ufficiale viene mandato a Lisbona in agosto per i colloqui preliminari, nessuno in Sicilia all’inizio di settembre, nessun contatto viene stabilito con l’ammiraglio Cunningham. Secondo la testimonianza dello stesso De Courten, la prima generica informazione su quanto sta accadendo viene data alla marina solo il pomeriggio del 3 settembre, quando i tre ministri militari vengono convocati dal Viminale dal maresciallo Badoglio: nel corso di «una riunione brevissima, svolta in forma tale da escludere osservazioni e commenti da parte dei presenti», il maresciallo descrive le «tragiche condizioni nelle quali va scivolando la vita economica e sociale della Nazione e l’efficienza delle forze armate» e informa che il re «ha deciso di avviare trattative per la conclusione di un armistizio». Senza far cenno al documento firmato in quelle stesse ore a


Cassibile, Badoglio parla di «conversazioni in atto a Palermo in cui si cerca di ottenere che gli angloamericani effettuino uno sbarco il più vicino possibile a Roma», quindi congeda tutti raccomandando la più totale riservatezza sulle comunicazioni.9 La giornata del 4 trascorre, paradossalmente, senza altre informazioni e De Courten, fedele alla consegna della riservatezza, non prende alcun provvedimento. Nel pomeriggio del 5 il generale Ambrosio chiede a De Courten di mettere a disposizione per il giorno successivo una motosilurante per portare un gruppo di ufficiali italiani in abito civile da Gaeta fino a Ustica: qui essi verranno presi in consegna da una motosilurante britannica che li porterà a Palermo, mentre sulla nostra unità saliranno due ufficiali alleati che dovranno essere sbarcati a Gaeta, quindi condotti via terra a Roma. Ambrosio chiede inoltre di aggregare al gruppo di ufficiali italiani un ufficiale superiore di vascello, che sia perfettamente al corrente della situazione operativa della nostra marina (verrà designato il capitano di vascello Ernesto Giurati). Le modalità della missione segreta rendono evidente che la trattativa è in fase avanzata: Ambrosio non esce tuttavia dalla sua tradizionale fredda laconicità, limitandosi a dire che «gli avvenimenti potrebbero maturare tra il 10 e il 15 settembre» e che alla flotta di La Spezia «potrebbe essere ordinato di spostarsi a La Maddalena in previsione di un trasferimento in Sardegna del re qualora la situazione a Roma dovesse apparire precaria».10 Il giorno 6, mentre vengono impartiti gli ordini alla corvetta Ibis per il trasporto degli ufficiali da Gaeta a Ustica (la partenza avverrà alle ore 20.00), De Courten viene di nuovo convocato da Ambrosio che conferma la possibilità di un trasferimento del sovrano in Sardegna: nell’incontro viene deciso di predisporre motoscafi e corvette pronte a salpare a Civitavecchia,


Fiumicino e Gaeta, in modo da avere più opzioni in caso di mobilitazione delle forze germaniche. Nessun’altra indicazione operativa viene fornita. L’ammiraglio ritorna quindi in ufficio a Supermarina e qui gli viene recapitato il Promemoria n. 1, di cui Ambrosio non gli ha fatto il minimo cenno in mattinata. Vista l’importanza del documento, lo stupore di De Courten per non esserne stato informato a voce è evidente: partendo dall’ipotesi di iniziative ostili delle forze germaniche, il Promemoria n. 1 assegna alla marina azioni importanti che spaziano dalla neutralizzazione del naviglio germanico presente nelle basi, al trasferimento della flotta nei porti della Sardegna e della Corsica, al sabotaggio degli arsenali e dei bacini di carenaggio della penisola, sino all’autoaffondamento delle navi in caso di pericolo di cattura. Indicazioni così radicali preludono a uno scenario militare completamente nuovo: com’è possibile che il capo di stato maggiore della Difesa non ne fatto cenno? Ma gli imbarazzi dell’ammiraglio non sono finiti. Nel primo pomeriggio, durante un nuovo incontro al comando supremo, «il generale Ambrosio trasse, quasi con riluttanza, dal tiretto della sua scrivania un documento che mi porse, senza proferire verbo. Si trattava della copia di un promemoria scritto in lingua inglese, a firma di un commodoro, Roger Dick». Il capo di stato maggiore della marina scopre così che è stata decisa la resa e il disarmo della flotta: «La rapida scorsa al documento mi lasciò impietrito. […] Problemi di tale importanza materiale e morale erano stati esaminati e decisi senza la partecipazione di alcun rappresentante della marina, senza tenere conto di quello che poteva essere l’atteggiamento degli ufficiali e degli equipaggi».11 Di fronte alle rimostranze di De Courten, Ambrosio cerca di smorzare la tensione affermando che probabilmente il documento è superato perché è stato proposto agli angloamericani che la flotta si concentri a La


Maddalena. La contraddizione tra la gravità degli impegni presi e il mancato coinvolgimento degli interessati è tuttavia evidente, a maggior ragione tenendo conto dello spirito di corpo della marina e della convinzione diffusa in quei giorni tra gli equipaggi di La Spezia e di Taranto: di fronte al dispiegarsi di movimenti navali angloamericani che sembrano preludere a un possibile sbarco nella penisola, i comandanti hanno infatti preparato il morale dei loro marinai in vista dello scontro finale e tutti si aspettano l’ordine di uscire in mare per combattere l’ultima battaglia nel Tirreno meridionale. Ambrosio, accigliato e nervoso, non aggiunge altro e chiude repentinamente il colloquio: a De Courten non resta che rientrare in sede e mettere a parte delle informazioni ricevute il suo vice capo di stato maggiore, l’ammiraglio Luigi Sansonetti, con il quale prepara due “promemoria” per il comando supremo. Nel primo si sottolinea la necessità di dislocare la flotta in modo tale da evitare un trattamento inconciliabile con la sua dignità e tale da consentire un suo eventuale reimpiego futuro; nel secondo si sottolineano i punti in cui il Promemoria Dick appare incompleto o insoddisfacente. Per il giorno successivo, intanto, vengono convocati con urgenza a Roma gli alti comandanti navali e territoriali.

L’ammiraglio De Courten ignora davvero le trattative? Basata

essenzialmente

sulle

testimonianze

autoassolutorie

dei

protagonisti, la ricostruzione storica dell’8 settembre procede anche per la marina tra dubbi e interrogativi senza risposta. Che l’ammiraglio De Courten riceva informazioni sul destino della nostra flotta solo il 6 settembre è credibile: la cautela con cui il re e Badoglio hanno condotto le trattative


armistiziali e la loro gestione intimorita dell’emergenza lasciano supporre che ne siano stati tenuti all’oscuro tutti coloro che non facevano parte dello strettissimo gruppo dirigente raccolto attorno alla corona. Meno credibile è invece che un ammiraglio di lunga esperienza come il De Courten, che nell’estate 1943, in quanto membro del governo, ha rapporti quotidiani con i vertici dello Stato, non abbia intuito la direzione verso cui muovevano gli avvenimenti e che sia stato assolutamente sorpreso dal precipitare degli eventi, così come egli sostiene nelle sue memorie. Al di là dell’ovvia considerazione che, dopo lo strappo istituzionale del 25 luglio, l’uscita unilaterale dalla guerra è l’unica prospettiva politica perseguibile, ci sono spunti che lasciano intravedere una diversa consapevolezza. Lo stesso De Courten scrive che all’inizio di agosto il generale Paolo Puntoni, primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, gli ha prospettato la possibilità di un prossimo trasferimento del sovrano in Sardegna: «Di fronte alle voci di un imminente colpo di mano tedesco, il generale Puntoni è venuto a comunicarmi che il sovrano non intende cadere nelle mani dei tedeschi e non vuole che ciò possa accadere alla regina e al principe ereditario».12 La notizia è confermata con ulteriori particolari dal generale Puntoni, che in data 2 agosto scrive nel suo diario: «Sua Maestà mi accenna di nuovo all’eventualità di un suo allontanamento da Roma, insieme con il governo. Mi dice di orientarmi verso La Maddalena e di predisporre che il viaggio sia compiuto in nave in quanto la regina non può viaggiare in aereo. Prendo subito contatto con l’ammiraglio De Courten il quale darà ordine che da stasera due cacciatorpediniere sostino a Civitavecchia a disposizione della famiglia reale e del governo».13 Ancora più esplicito un riferimento di Gaetano Catalano Gonzaga di Cirella, nell’estate 1943 nominato comandante della marina in Corsica: convocato a Roma il 15 agosto, si sarebbe sentito


dire da De Courten che «stiamo segretamente per concordare un armistizio con gli Alleati» e che per questo «la famiglia reale si trasferirà in Sardegna, da dove bisogna per contro spostare in Corsica truppe inaffidabili come la divisione Nembo».14 De Courten è dunque certamente al corrente dell’ipotesi di trasferimento di Vittorio Emanuele III e del governo in Sardegna: che significato può avere una tale mossa, se non quella di sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi e di avviare (o proseguire) le trattative con gli angloamericani nella pienezza dei poteri sovrani? Pur essendo all’oscuro dei contatti già stabiliti, l’ammiraglio non può certo ignorare l’orientamento di fondo del sovrano e di Badoglio, come dimostra il fatto che il 3 settembre non mostra particolare stupore quando il maresciallo parla per la prima volta ufficialmente di “trattative in corso”. Allo stesso modo, De Courten non può ignorare che la Regia marina sia parte significativa della trattativa: un paese in ginocchio come l’Italia del 1943 dispone di una sola forza armata ancora relativamente efficiente ed è naturale che questa “pesi” sul tavolo dell’accordo diplomatico-militare. Su questa tema, nelle settimane di agosto, c’è stato sicuramente qualche confronto fra De Courten e i vertici delle forze armate. La sorpresa e l’irritazione manifestate il 6 settembre dall’ammiraglio non derivano dunque dalla notizia dell’armistizio, ma dal fatto che «il contenuto e le modalità esecutive descritte nel Promemoria Dick sono profondamente diverse e penalizzanti per la marina rispetto alle previsioni».15 A ritroso, De Courten capisce perché nessun ufficiale di marina ha partecipato alla fase cruciale delle trattative e perché è stata richiesta la presenza di un capitano di vascello solo per la missione a Ustica/Palermo: stabiliti i termini “politici” dell’armistizio senza la presenza di chi avrebbe potuto avanzare riserve, serve ora un tecnico per le modalità operative. A questi motivi di rabbia si


aggiunge forse la preoccupazione per la reazione dei comandanti e degli equipaggi: si tratta infatti di costringere alla resa unità che non hanno subito sconfitte decisive sul campo, che sono nutrite da un forte spirito di corpo e che sono state psicologicamente preparate a un’imminente “battaglia finale”.

Tra mobilitazione generale e resa senza condizioni Ciò che accade a Supermarina il 7 settembre è paradigmatico della confusione in cui matura l’armistizio. Al mattino l’ammiraglio De Courten si reca al comando supremo, sia per confermare il buon esito dell’operazione della corvetta Ibis, sia per consegnare i due promemoria preparati nella notte, ma scopre che il generale Ambrosio ha lasciato Roma la sera precedente e il suo rientro è previsto per la tarda serata o la mattina seguente. Si tratta di una partenza misteriosa ma, indirettamente, di un’indicazione: se il comandante supremo si assenta dalla capitale significa che il corso degli avvenimenti non sta ancora precipitando e che ci sono margini di tempo per le decisioni finali. Con questa convinzione, De Courten riceve subito dopo l’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante della flotta concentrata a La Spezia, l’ufficiale in servizio con la più alta responsabilità di comando operativo e il primo a presentarsi a Roma per la riunione convocata la sera precedente. Bergamini parla dello stato d’animo della flotta e assicura che «comandanti e ufficiali sono pronti a uscire in mare per combattere nel Tirreno meridionale l’ultima battaglia e sono determinati a impegnarsi sino all’estremo delle loro possibilità». Pur senza nutrire illusioni sul risultato finale, Bergamini spiega che «intervenendo a operazione di sbarco iniziata, è possibile infliggere all’avversario gravi danni traendo profitto dall’inevitabile crisi di quella fase delicata».16 Bergamini, apparentemente, ignora gli approcci diplomatici e


ragiona da comandante che deve prepararsi a respingere le navi angloamericane dal Tirreno: De Courten non ritiene per il momento opportuno chiarire la situazione e si limita a confermare il pessimismo del suo interlocutore, sottolineando a sua volta che si può solo combattere con onore perché l’esito della battaglia è scontato. La drammatica scomparsa di Bergamini, affondato due giorni più tardi con la sua nave ammiraglia, non permette di avere nessun riscontro alle testimonianze di De Courten. È tuttavia difficile ritenere che ufficiali, arrivati ai massimi livelli di responsabilità militare, non intuiscano l’imminenza di un mutamento di scenario. Più verosimile è pensare che in loro l’intuizione si associ all’idea che i passi necessari non siano ancora completati e che un’azione energica nel Tirreno possa garantire condizioni armistiziali migliori. A conferma di questa ipotesi ci sono le reazioni alla riunione pomeridiana, quando De Courten comunica agli alti comandanti navali e territoriali (in tutto undici ammiragli presenti) il contenuto del Promemoria n. 1: nessuno dimostra stupore e a nessuno sfugge il significato implicito nelle disposizioni del comando supremo. I dubbi non riguardano “che cosa”, ma “quando” e, ovviamente, “come”. Ligio alla consegna della segretezza, De Courten rimane nel vago rispetto all’armistizio e congeda i suoi comandanti invitandoli a rientrare immediatamente alle proprie basi e a restare in attesa di ordini. Solo con Bergamini si abbandona a qualche confidenza maggiore: «Gli manifestai le mie preoccupazioni per l’evidente evoluzione della situazione nazionale verso una soluzione definitiva e misi in evidenza che l’esistenza della flotta, che era organismo compatto e di forte capacità offensiva, costituisse elemento preminente, in grado di esercitare un’influenza proporzionata al suo valore assoluto e relativo».17


Nella notte tra il 7 e l’8 settembre giungono a Roma le prime informazioni sull’operazione navale angloamericana nel Tirreno meridionale: un grosso convoglio scortato da incrociatori e siluranti è avvistato settantacinque miglia a sud di Capri, diretto presumibilmente verso il Golfo di Napoli. Alle 05.00 del mattino si parla di reparti di navi da battaglia e di navi portaerei in navigazione dalla Sicilia verso nord; poi di un’avanguardia composta da incrociatori e cacciatorpediniere. Alle 07.00 si precisa che la consistenza delle truppe imbarcate può oscillare tra le quattro e le cinque divisioni. È evidente che gli Alleati stanno preparando uno sbarco. Alle 08.00 De Courten prende le contromisure e trasmette alla flotta l’ordine di essere pronta a muovere verso il mare aperto per le ore 14.00: nessuna indicazione viene però data sulla destinazione e gli equipaggi restano convinti che stia per combattersi l’attesa “battaglia finale”. Per tutta la mattinata e il primo pomeriggio a Roma intercorrono scambi febbrili tra i responsabili militari: la flotta è in stato di approntamento, i motori delle navi sono accesi, ma l’ordine di partenza viene rinviato. A Bergamini, che da La Spezia chiede delucidazioni, l’ammiraglio Sansonetti spiega che l’azione prevista è contro gli angloamericani nel Tirreno meridionale, ma che «la situazione può evolvere rapidamente in direzione diversa».18 Alle 18.00 il re convoca il consiglio della corona e De Courten ha finalmente l’informazione complessiva, riassunta da Ambrosio, che in pochi minuti ripercorre la vicenda armistiziale dai primi contatti a Lisbona sino a Cassibile: le disposizioni per la Regia marina – aggiunge il Comandante supremo – prevedono la consegna nei porti stabiliti dai comandi alleati, così come indicato nel Promemoria Dick, perché l’ipotesi di concentrasi a La Maddalena non è stata accettata. Mentre la radio trasmette il messaggio di Badoglio, De Courten contatta


telefonicamente Bergamini e lo avverte della destinazioni prevista per la sua flotta: Bona in Algeria (porto non in grado di ospitare una flotta da guerra e da considerare quindi punto di passaggio per un successivo spostamento a Malta). Analoghi contatti telefonici avvengono con Alberto Da Zara, comandante della flotta di Taranto, la cui destinazione è direttamente il porto di La Valletta a Malta. Alla notizia che di fatto alla Regia marina si impone la resa, i due ammiragli hanno reazioni di irritazione contenuta e, dopo le rimostranze sulle modalità con cui tutto è avvenuto, si mettono al servizio delle decisioni prese. Secondo De Courten, si tratta di nobili esempi di lealismo militare e di fedeltà al sovrano: più probabilmente, invece, la notizia non è inattesa perché se ne è parlato nella riunione romana del 7 e l’idea della resa è stata metabolizzata in mancanza di alternative praticabili. La neutralità, in mezzo a mari percorsi da navi angloamericane e pattugliate da aerei sia alleati sia tedeschi, non è infatti neppure da prendere in considerazione; l’autoaffondamento è un gesto estremo di affermazione del proprio orgoglio identitario, ma anche una liquidazione definitiva della capacità navale italiana; la consegna della flotta è invece una mortificazione, ma non cancella le prospettive di una possibile futura rinascita (così come lascia intendere il memorandum di Quebec). Nelle ore successive, Supermarina predispone un piano dettagliato e invia numerosi telegrammi alle varie basi con le istruzioni per l’esecuzione delle clausole armistiziali: per le forze navali nell’Adriatico meridionale, partenza per Malta nella giornata del 9 settembre; per quelle del Tirreno centrosettentrionale, partenza per Bona; per quelle dell’Egeo, concentrazione nei porti del Dodecaneso; per le navi nei porti di Venezia, Trieste e Pola, partenza per Cattaro; per le motonavi Saturnia e Vulcania, imbarco di tutto il personale della Reale accademia navale del Lido di Venezia e di tutti gli


allievi dei corsi premilitari di Broni (Pola). Si tratta di indicazioni che vengono ribadite anche il giorno 9, dopo la partenza da Roma di De Courten con il re e i ministri, perché lo stato maggiore affidato al sottocapo di stato maggiore Sansonetti riesce a mantenere i contatti con le unità e a fare loro da riferimento: «A differenza dell’assordante silenzio dello stato maggiore dell’esercito, che lascia i reparti in Italia e all’estero senza istruzioni su come comportarsi con i tedeschi, Supermarina sino al 12 settembre, quando De Courten riprende le proprie funzioni da Brindisi, continua a funzionare e a fornire alle sue unità le istruzioni necessarie per gestire la fase armistiziale».19 Le disposizioni vengono accolte con stati d’animo diversi. Nella base di Taranto alcuni comandanti reagiscono con sdegno e si dichiarano intenzionati ad autoaffondare le navi piuttosto che consegnarsi: l’ammiraglio Da Zara deve riunirli tre volte e impiegare tutta la propria autorevolezza prima di ottenere l’obbedienza (il neo contrammiraglio Giovanni Galati, che non accetta comunque le disposizioni, viene sbarcato e messo agli arresti di fortezza). A La Spezia Bergamini scegli invece di non rivelare la destinazione finale: convocati i comandanti alle 22.00 sulla corazzata Vittorio Veneto, l’unica nave ancora in banchina (le altre hanno mollato gli ormeggi e si trovano in rada), l’ammiraglio spiega che l’annuncio dell’armistizio annulla i preparativi per la battaglia nel Tirreno meridionale, ma conferma le disposizioni di allerta per un’imminente partenza «verso la Sardegna o altra meta designata dallo stato maggiore». Il timore di contrasti o di posizioni radicali favorevoli all’autoaffondamento, «lo inducono a prendere tempo, mantenendo così la flotta da guerra di La Spezia compatta e pronta a prendere il largo».20

L’affondamento della corazzata Roma


Nel momento in cui le navi lasciano i porti, il rischio di cattura da parte delle forze germaniche viene meno. La flotta di Taranto (con le due corazzate Duilio e Doria) parte nella giornata del 9 e nel pomeriggio del giorno successivo giunge a Malta, dopo una navigazione priva di inconvenienti: Da Zara è così il primo ammiraglio italiano a prendere contatto con la marina alleata. La partenza da La Spezia avviene invece alle prime luci dell’alba del 9: al comando dell’ammiraglio Bergamini, che si trova sulla corazzata Roma, ci sono diciotto unità, tra cui le altre due corazzate Vittorio Veneto e Italia e sei incrociatori. Dopo due ore di navigazione, si aggiungono a queste le cinque unità dell’8ª divisione, provenienti da Genova e comandate dall’ammiraglio Luigi Biancheri. La formazione al completo, con i cacciatorpedinieri di scorta sui due lati e le torpediniere a proravia, punta verso Capo Corso, quindi costeggia le coste occidentali della Corsica verso sud sino a dirigersi verso le Bocche di Bonifacio. Quando le navi stanno per entrare nello stretto, l’ammiraglio Bergamini ordina però un’improvvisa inversione di rotta di 180°, puntando verso l’isola dell’Asinara. Secondo la testimonianza di Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, giovane ufficiale a bordo della nave ammiraglia Roma, non viene data nessuna spiegazione della manovra né indicazioni sulla nuova meta: «A poppa si andava discutendo animatamente e i pareri era molto discordi: c’era chi pensava a Gibilterra, chi a Tolone, chi a un porto della Spagna e chi ancora a una rotta diversiva per non allarmare i tedeschi e gli inglesi sulle nostre intenzioni».21 Bergamini, fedele agli impegni presi con De Courten, intende dirigersi a sud verso la costa algerina e le sue manovre diversive sono forse un modo per mettere i comandanti delle unità di fronte al fatto compiuto. Certo è che l’ammiraglio non ha il tempo per esplicitare il suo progetto. Poco dopo avere invertito la rotta, la formazione, che naviga completamente priva di copertura


aerea, viene sorvolata da un ricognitore della Luftwaffe, il quale ha il tempo per individuare quasi indisturbato le navi e la loro disposizione. Alle 15.50 giungono i bombardieri tedeschi d’alta quota che portano l’attacco direttamente contro la corazzata Roma e colpiscono senza che le artiglierie di bordo possano fare nulla: una prima bomba scoppia in acqua a un metro dalla murata di dritta e provoca gravi danni alla chiglia. Qualche minuto dopo, durante un secondo attacco, un’altra bomba penetra nel deposito munizioni prodiero in corrispondenza della torre n. 2, provocando un’esplosione che investe in pieno la torre di comando. Si alzano fiammate rosse altissime, avvolte in un’enorme nuvola di fumo nero, mentre corpi dilaniati vengono sbalzati in mare tra frammenti di lamiera, cordami, assi di legno: un’apocalisse, che getta l’intera flotta nello sconcerto. È ancora Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, tra i pochi superstiti del disastro, a raccontare l’epilogo: «Il fuoco della deflagrazione avvolgeva completamente il torrione e il fumaiolo di prora. Lo sbandamento della nave era tanto rapido che ormai mi era difficile mantenermi in equilibrio. Tanti marinai terrorizzati correvano da una parte all’altra, molti avevano i visi neri di fuliggine e camminavano a tentoni, benché vi fosse la luminosità del sole; altri perdevano sangue da ferite invisibili, altri ancora uscivano da non so dove con le vesti in fiamme. Alcuni tentavano di gettarsi in mare stringendo in un convulso abbraccio il salvagente. Tutti in realtà correvano come ciechi senza una meta».22 Non diversa la testimonianza di Italo Pizzo, altro superstite della Roma: «Il panico ci ha fatto perdere la ragione, tutti urliamo di terrore, non esistono più ordini né disciplina […]. Qualcuno sembra impazzito, vedo un tenente che cerca di riposizionare il binario della catapulta verso il centro nave per tentare di equilibrare lo sbandamento a dritta. Ma è un’impresa impossibile perché il complesso d’acciaio pesa alcune tonnellate. Vedo anche altri gesti


incomprensibili: ufficiali e marinai che prima di buttarsi in acqua ripiegano i pantaloni e ripongono con cura le scarpe a fianco delle entrate sottocastello. Il ponte di teak è cosparso di feriti e di morti. Vedo scene pietose: marinai che scuotono l’amico morto, altri che se lo caricano sulle spalle avvicinandosi al bordo che lentamente sta andando sotto».23 La tragedia è tanto intensa quanto rapida: alle 16.12, venti minuti dopo il primo attacco, la chiglia della corazzata Roma si spezza in due tronconi che si mettono verticali e affondano. L’ammiraglia della nostra flotta militare, in servizio dal giugno 1942, lunga 240 metri e con un dislocamento di 44 000 tonnellate, scompare così al largo dell’Asinara, portandosi dietro 1253 vittime tra marinai e ufficiali: tra loro vi è anche il comandante Bergamini.

La rotta verso Malta Quando le altre unità si rendono conto del dramma della corazzata Roma, il comando viene assunto dal più anziano tra gli ammiragli presenti, Romeo Oliva, comandante della 7ª divisione, imbarcato sull’incrociatore Eugenio di Savoia. I primi ordini riguardano il soccorso dei naufraghi, affidato a tre cacciatorpedinieri e a tre torpediniere (queste navi si dirigeranno il giorno successivo verso le Baleari, sbarcando a Porto Mahon dove rimarranno internate sino alla fine del conflitto). Ma l’impegno maggiore del nuovo comandante è la prosecuzione della navigazione, in un momento d’emergenza in cui la tragedia della Roma si mescola al disorientamento dell’armistizio. L’ammiraglio Oliva dimostra sufficiente freddezza per mantenere il controllo della situazione. Messosi in contatto con Supermarina, riceve l’ordine di dirigersi a Bona (destinazione di cui è forse già a conoscenza) e


dirige la flotta verso sud: vi è un tentativo di opposizione da parte del comandante Biancheri, ma Oliva è energico nel ricordare il dovere di lealismo verso l’armistizio voluto dal re. Il dramma della Roma, d’altra parte, ha creato un clima psicologico nel quale non trovano spazio iniziative individuali di insubordinazione. La navigazione può così proseguire, seppur minacciata da attacchi aerei (viene colpita non gravemente la corazzata Italia). All’alba del 10 settembre le navi italiane sono ormai in vista della costa algerina e vengono intercettate da una squadra della Royal Navy guidata dalle corazzate Warspite e Valiant. L’ammiraglio Oliva crede si tratti di una scorta verso il porto di Bona e invia un messaggio a tutte le sue navi per ribadire gli ordini ricevuti e il dovere di obbedienza. Il comando angloamericano comunica invece che la squadra alleata scorterà la flotta italiana non a Bona ma a Malta, dove le nostre navi getteranno l’ancora a Saint Paul Bay. La delusione si mescola alla rabbia, perché i porti di Malta sono il simbolo stesso del potere navale britannico nel Mediterraneo, ma non c’è spazio né per obiezioni, né per trattative. Alle 09.00 dell’11 settembre ciò che resta della flotta da guerra di La Spezia giunge così a Malta, dove già sono arrivate le navi dell’ammiraglio Da Zara. Nel pomeriggio i due comandanti incontrano l’ammiraglio Cunningham, che li riceve sulla banchina del porto di La Valletta con gli onori militari ed esprime il suo rincrescimento per l’affondamento della Roma. Seguono la lettura di un messaggio di Eisenhower e il dettaglio sulle modalità operative del disarmo (rimozione dei cannoni, dei siluri, delle bombe di profondità; sbarco di tutto il materiale bellico; inutilizzazione degli apparati di ricetrasmissione). La storia della Regia marina finisce così, tra malinconiche amarezze e picchetto d’onore britannico. Su un totale di 261 unità da guerra in servizio


l’8 settembre, 117 raggiungono Malta: tra queste, cinque corazzate e nove incrociatori. Il destino delle altre è diverso: alcune, come la corazzata Cavour, vengono catturate dai tedeschi in cantiere perché sono in fase di riparazione; altre, come gli incrociatori Taranto, Bolzano, Gorizia e Bari, vengono affondate in porto oppure sabotate e rese inutilizzabili perché indifendibili; altre ancora vengono affondate all’ancoraggio per operazioni aeree. Considerando le modalità con cui matura l’armistizio, va comunque sottolineato che la percentuale di navi che raggiungono i porti alleati è significativa. Come scrive Paolo Monelli, uno tra i più attenti cronisti di quegli avvenimenti, «all’ordine di salpare le ancore dopo l’armistizio e di trasferirsi nei porti alleati la marina ubbidì senza tergiversare, mentre coraggiosi ufficiali rimasti a terra, a La Spezia e in altri porti, misero subito mano a distruzioni e occultamenti per impedire ai tedeschi di servirsi del materiale abbandonato. La marina fu così subito una forza intatta e volenterosa al servizio degli Alleati».24

L’accordo Cunningham-De Courten Il significato militare e morale della scelta fatta dalla Regia marina è riconosciuto ufficialmente dagli Alleati attraverso la sottoscrizione di un documento che stabilisce le modalità della utilizzazione bellica delle navi italiane. Il 23 settembre, dopo uno scambio preparatorio di corrispondenza, l’ammiraglio Cunningham e il ministro De Courten appongono la firma a un protocollo che prevede «il mantenimento in armamento delle navi da guerra italiane e il loro impiego in operazioni belliche agli ordini del comandante in capo del Mediterraneo»;25 si stabilisce inoltre che gli Alleati metteranno a disposizione della Regia marina un proprio ufficiale di grado elevato come


elemento di raccordo con l’ammiraglio Cunningham. Il documento ha un valore più che altro simbolico, perché allude alla possibilità di una cooperazione con gli angloamericani ben prima della dichiarazione di guerra alla Germania (che avverrà solo il 13 ottobre successivo): come affermerà con orgoglio De Courten parlando dell’accordo a tutti gli ufficiali presenti nella grande sala del Circolo di marina di Taranto, «l’ammiraglio Cunningham mi ha espresso la sua ammirazione per la perfetta disciplina con cui le navi italiane sono entrate nei porti controllati dagli angloamericani e mi ha chiesto la collaborazione delle nostre unità».26 In realtà, parlare di “cooperazione” è improprio: «La storia delle marine militari moderne ci insegna che il riutilizzo reale del naviglio militare avversario è una pura utopia. Può avvenire per le navi più piccole fino al livello degli incrociatori. Poi diventa non economico per ignoranza delle parti meccaniche e idrauliche della nave. O si può contare sul personale dell’ex nemico, oppure non conviene pianificare il riutilizzo delle grandi navi da guerra».27 Cunningham chiede in effetti l’utilizzo immediato delle piccole unità (motoscafi antisommergibile, dragamine, navi ausiliarie), l’impiego di torpediniere e cacciatorpedinieri per compiti di scorta e il mantenimento in servizio di quattro incrociatori da impiegare nell’Atlantico per contrastare le navi pirata tedesche; per quanto riguarda la marina mercantile, essa viene impiegata soprattutto per i rifornimenti nelle regioni della penisola liberate. Le grandi navi da guerra e i sommergibili vengono invece messi in riserva, alcuni nella stessa Malta, altri dirottati nel porto di Alessandria d’Egitto (le corazzate Italia e Vittorio Veneto e gli incrociatori Eugenio di Savoia, Aosta, Montecuccoli e Cadorna). In termini quantitativi, tra il settembre 1943 e la primavera 1945 la marina italiana effettuerà agli ordini degli Alleati oltre 1100 azioni


antisommergibili nel Tirreno e nell’Adriatico (tra le quali si segnala quella del giugno 1944 nel porto di La Spezia). In termini qualitativi, i contributi più consistenti saranno però rappresentati dall’impiego delle navi ausiliarie per i trasporti e dall’attività di scorta ai numerosi convogli che partendo da Malta riforniscono di materiale bellico le armate operanti sul fronte italiano. In queste funzioni saranno impiegate complessivamente 529 unità tra navi da guerra e ausiliarie.

L’8 settembre dell’aeronautica Qualche cenno fa fatto anche a proposito dell’aeronautica, l’arma che la propaganda di regime ha esaltato oltre ogni limite retorico ma che ha lasciato poche tracce nelle cronache armistiziali per le condizioni di profonda crisi interna in cui si trova nel settembre 1943. Dopo tre anni di combattimenti, la Regia aeronautica ha infatti perso 6733 velivoli, mentre molti altri sono stati dimessi perché antiquati. Nell’estate 1943 risultano in carico 1498 velivoli, di cui solo 803 efficienti: di questi, poco più di quattrocento sono apparecchi da caccia e da bombardamento, mentre gli altri sono velivoli da trasporto, idrovolanti dell’aviazione ausiliaria per la marina oppure aerei dell’aviazione ausiliaria per l’esercito. Il drastico ridimensionamento del potenziale bellico, la molteplicità degli impegni operativi, l’inferiorità tecnologica rispetto ai velivoli inglesi e americani hanno determinato un vero e proprio stato di consumazione, che ha coinvolto i mezzi ma che ha anche minato lo stato psicologico degli uomini: 12 000 ufficiali e 167 000 tra sottufficiali e militari si trovano infatti a operare in funzione di pochi apparecchi in grado di alzarsi in volo. Secondo le disposizioni stabilite a Cassibile, al momento dell’armistizio


la Regia aeronautica deve concentrare i reparti da caccia nel Lazio e trasferire i reparti di tutte le altre specialità in Sardegna. Per quanto riguarda gli aeroporti, quelli di uso esclusivamente italiano devono essere difesi da eventuali tentativi offensivi tedeschi, quelli usati esclusivamente dalla Luftwaffe conquistati con azioni concertate con le forze terrestri, mentre in quelli di uso misto si devono distruggere gli apparecchi germanici cercando di risparmiare i depositi di carburante. Queste disposizioni vengono comunicate al generale Sandulli, ministro dell’Aeronautica, con le stesse esitazioni e gli stessi tempi con cui vengono comunicate a De Courten quelle relative alla marina. Il comportamento dello stato maggiore dell’aeronautica rivela però sottovalutazione dell’emergenza e una sostanziale assenza di iniziativa: prima dell’8 settembre, il solo ordine diramato è il trasferimento nel Lazio di alcuni gruppi di bombardieri, presentato come piano d’intervento contro un eventuale sbarco alleato a sud di Roma. Disposizioni precise relative alla difesa degli aeroporti e alla destinazione dei velivoli vengono impartite solo il giorno 9 dal sottocapo di stato maggiore generale Giuseppe Santoro, quando i tedeschi hanno ormai iniziato l’occupazione sistematica delle piste e la cattura dei materiali di volo. Il risultato è un generale disorientamento, aggravato dalle difficoltà di comunicazione: gli uomini e i mezzi sono infatti sparsi in Italia tra le basi di Milano, Padova, Roma e Bari, ma reparti sono presenti anche nell’Egeo, in Albania, in Grecia e in Dalmazia. Degli 803 aerei disponibili soltanto 203 raggiungono così gli aeroporti della Sardegna o dell’Italia meridionale e di questi «non più di 100 risultano bellicamente efficienti».28


1

Giorgio Giorgerini, Da Matapan al Golfo Persico. La marina militare italiana dal fascismo alla Repubblica, Mondadori, Milano 1989, p. 488. 2 Alcuni autori ritengono che la flotta si trovasse in realtà in un’inspiegabile situazione di immobilismo a «marcire nei porti»: cfr. Arrigo Petacco, Battaglie navali nel Mediterraneo nella seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1992, p. 136. 3 La nota di Churchill a Roosevelt del 26 luglio 1943 è citata in Raffaele De Courten, Le memorie dell’ammiraglio De Courten 1943-1946, Ufficio storico della marina militare, Roma 1993, p. 127. 4 Ivi, p. 369. 5 Ivi, p. 531. 6 Gli articoli dell’“armistizio corto” sono riportati in Giuseppe Fioravanzo, La marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, Ufficio storico della marina, Roma 1962, p. 4. 7 Il testo del Promemoria Dick è riportato in Raffaele De Courten, Le memorie dell’ammiraglio De Courten, cit., pp. 199-201. 8 Il memorandum di Quebec è riportato in Ufficio storico della marina, La marina dall’8 settembre alla fine del conflitto, cit., p. 5. 9 Raffaele De Courten, Le memorie dell’ammiraglio De Courten, cit., p. 177. 10 Ivi., p. 179. 11 Ivi., p. 189. 12 Ivi., p. 181. 13 Paolo Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, il Mulino, Bologna 1993, p. 151. 14 Il diario dell’ammiraglio Gaetano Catalano Gonzaga di Cirella e quello del figlio, comandante Arturo, sono pubblicati in Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, Per l’onore dei Savoia, 1943-1944: da un superstite della corazzata, Mursia, Milano 1996.


15

Riccardo Rossotto, Estate 1943. Il gioco degli inganni… continua!, ed. Fogola, Torino 2012, p. 62. 16 Raffaele De Courten, Le memorie dell’ammiraglio De Courten, cit., p. 195. 17 Ivi, p. 197. Sull’argomento vedi Francesco Mattesini, L’armistizio dell’8 settembre 1943. Da Cassibile al Consiglio della Corona, in “Bollettino d’archivio dell’Ufficio storico della marina militare”, n. 2, giugno 1993. 18 Raffaele De Courten, Le memorie dell’ammiraglio De Courten, cit., p. 204. 19 Riccardo Rossotto, Estate 1943. Il gioco degli inganni… continua!, cit., p. 99. 20 Giorgio Giorgerini, Da Capo Matapan al Golfo Persico, cit., p. 561. 21 Arturo Catalano Gonzaga di Cirella, Per l’onore dei Savoia, cit., p. 122. 22 Ivi, p. 149. 23 Andrea Amici, Una tragedia italiana. 1943, l’affondamento della corazzata Roma, Longanesi, Milano 2010, p. 165 e sgg. (il diario di Italo Pizzo, marinaio fuochista imbarcato sulla corazzata Roma, è stato pubblicato dal nipote Andrea Amici). 24 Paolo Monelli, Roma 1943, Mondadori, Milano 1948, p. 317. 25 Giorgio Giorgerini, Da Matapan al Golfo Persico, cit., p. 563. 26 Giuseppe Fioravanzo, La marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, cit., p. 287. 27 Riccardo Rossotto, Estate 1943. Il gioco degli inganni… continua!, cit., p. 69. 28 Raffaele Parisi, L’apporto dell’Aeronautica nella guerra di liberazione, in Aa.Vv., Le forze armate italiane nella guerra di liberazione, Ed. Regione Piemonte, Torino 1989, p. 23.


PARTE SECONDA La scelta


1 Le forze in campo

Dall’Italia del silenzio alla scelta resistenziale Il tratto distintivo che avvolge tutta l’Italia e la maggior parte dei reparti militari all’estero nei giorni dell’armistizio è il silenzio: silenzio della morale, della ragione, della volontà. Anche là dove brulica la confusione di soldati che si muovono senz’ordini o di cittadini che saccheggiano i depositi abbandonati dal Regio esercito, la scena è dominata dalla paralisi delle energie e dall’esaurimento psicologico. L’Italia sconfitta non reagisce e non pensa alla ribellione, ma si rifugia nell’attesa dei liberatori angloamericani. Lo documentano uomini politici insospettabili come Pietro Nenni, che parla di «capitolazione che ha tolto l’iniziativa alla nazione»;1 antifascisti militanti come Leo Valiani, per il quale «le avanguardie sono molto, ma molto sottili e non hanno collegamenti con la massa che pretendono di rappresentare»;2 scrittori come Corrado Alvaro, sferzante verso gli italiani abituati ad «avere un atteggiamento da spettatori, ad ammirare il più forte, il più ricco e, in mancanza, il più furbo»;3 giornalisti dalla penna corrosiva come Leo Longanesi, per il quale «gli italiani sono ora come le formiche quando si distrugge il loro nido, corrono da tutte le parti, a piedi, in treno, a cavallo, in barca».4 Lo stesso Piero Calamandrei, che nel momento di rielaborare la memoria si affiderà a tonici lirici per celebrare la scelta antifascista, nel 1943


usa toni opposti e dalla campagna umbra dove si è rifugiato registra con amarezza l’inazione degli italiani e quella sua personale: «Ce la prendiamo con gli inglesi e gli americani che vanno lenti, ma noi che facciamo? Eterna psicologia italiana che aspetta dagli stranieri la salvezza. Ah, siamo sempre gli stessi, e io che scrivo con loro: siamo quegli italiani che aspettano la libertà dagli altri, che applaudono al vincitore appena arriva e domani gli voltano le spalle appena l’astro tramonta».5 Il silenzio e l’attesa sono la reazione immediata alla tragedia, ma l’emergenza incalza in una totale mancanza di certezze e di riferimenti e non lascia margini all’astensione: gli angloamericani non sbarcano in Liguria e non arrivano nella Pianura padana, i tedeschi occupano in un giorno due terzi della penisola. All’improvviso, i cittadini sono costretti a scegliere: «Eventi grandi, eccezionali, catastrofici pongono i popoli e gli uomini davanti a drastiche opzioni e fanno quasi di colpo prendere coscienza di verità che operavano senza essere ben conosciute. Il vuoto istituzionale creato dall’8 settembre caratterizza in questo senso il contesto in cui gli italiani furono chiamati a scelte alle quali molti di loro mai pensavano che la vita potesse chiamarli».6 Nel corso del mese di settembre il quadro si articola, con la contrapposizione dei governi di Salò e di Brindisi e la formalizzazione della violenza occupazionale germanica, e nel momento in cui nuovi sistemi di autorità si propongono di riempire il vuoto politico, corre l’obbligo di schierarsi e rischiare, in un quadro di inquietudine e di tensione. Il “campo del possibile”, ordinariamente ristretto alle opzioni tradizionali tra consenso e dissenso, si dilata a giro d’orizzonte, intrecciando strategie di lotta e strategie di sopravvivenza: scelta di libertà, di opposizione, di militanza; oppure scelta di garanzia, di ordine, di continuità; oppure ancora scelta di evasione, scelta di necessità, scelta di rottura – il tutto entro un quadro di eccezionalità che


per paradosso uguaglia le condizioni dei singoli ed esalta le potenzialità morali e “culturali” di ognuno. Questo non significa che le risposte all’emergenza siano astrattamente libere e prive di condizionamenti: al contrario, sulle scelte pesano le condizioni oggettive, le occasioni di fuga, di organizzazione armata o di nascondiglio offerte dalla specifica situazione territoriale. Il rapido svilupparsi del fenomeno ribellistico in Piemonte e i suoi ritardi nella bassa Lombardia, per non fare che un esempio, sono certo legati alle possibilità di rifugio offerte dalle vallate alpine e dalle zone collinari prealpine rispetto alle aperture della Pianura padana. Ma entro i margini fisiologici di casualità e di condizionamenti ambientali, la scelta si sviluppa come risposta originale all’emergenza, nella quale l’individuo investe tutte le proprie risorse: per questo l’attitudine degli italiani di fronte all’8 settembre costituisce un osservatorio di studio privilegiato, lo spaccato di una società eterogenea nei comportamenti, contraddittoria, per certi aspetti conflittuale, ma sicuramente autentica, nel dispiegarsi di risposte che non si avvalgono di mediazioni istituzionali. La spontaneità delle reazioni al 25 luglio s ripropone ora in un contesto ben altrimenti complesso: «All’Italia del settembre 1943 sembrava potesse applicarsi una classica pagina di Hobbes: “L’obbligo dei sudditi verso il sovrano si intende che dura sino a che dura il potere per il quale esso è in grado di proteggerli e non più a lungo, perché il diritto che gli uomini hanno per natura di proteggere se stessi, quando nessun altro può proteggerli, non può essere abbandonato a nessun patto”».7 Se in presenza di un fenomeno così totalizzante è difficile quantificare le reazioni

e

stabilire

confronti

numerici

tra

le

diverse

attitudini

comportamentali, è tuttavia possibile cercare di indicare una tipologia prevalente. La prima risposta sembra essere quella dell’assistenza: una solidarietà istintiva verso il militare sbandato che cerca aiuto per non essere


catturato dai tedeschi. Dappertutto, lo sbandamento dell’esercito inaugura una dimensione nuova del conflitto: ai bombardamenti, alla mobilitazione bellica, alla penuria alimentare, allo sfollamento, alla tessera si aggiunge ora la presenza diffusa di soldati braccati da un esercito nemico, preludio della guerra guerreggiata. Il concetto di “fronte” perde i connotati tradizionali e ogni regione diventa prima linea. Nei confronti dei soldati sbandati scattano meccanismi di solidarietà che nei mesi precedenti sono andati appannandosi: nel militare impaurito che fugge molti vedono il congiunto mobilitato chissà dove e travolto in quei giorni dallo stesso destino di fuga e di persecuzione, e l’aiuto dato allo sconosciuto diventa la sublimazione del soccorso che non si può dare direttamente all’amico. Poiché i più esposti sono i giovani di origine meridionale, impossibilitati a raggiungere le proprie case, la solidarietà introduce spesso una nozione nuova di comunità, allargando i limiti tradizionali della cultura contadina. Descrivendo la realtà delle vallate cuneesi, Nuto Revelli scrive: «Tutti i contadini, ma soprattutto i contadini poveri, i proprietari di miseria, sono generosi nel dare. Cadono le barriere razziali, anche i “terroni” adesso sono italiani da aiutare. Saltano fuori giacche, pantaloni, camicie, gli indumenti borghesi dei figli lontani, dei figli “dispersi” o morti sui vari fronti».8 Analogo atteggiamento si ritrova nei confronti dei prigionieri di guerra evasi dai campi di concentramento, “nemici” sino al giorno prima e appartenenti (è il caso degli inglesi) alle stesse nazioni che bombardano le città italiane, ma verso i quali si manifesta una solidarietà umana indipendente da ogni altra considerazione. In molti casi sono gli esponenti della Chiesa cattolica a impegnarsi nell’opera assistenziale: le gerarchie non esprimono indicazioni ufficiali, ma molti preti di campagna si attivano direttamente, allineandosi e spesso indirizzando l’atteggiamento delle


rispettive

comunità.

Nell’immaginario

collettivo

l’emergenza

dell’8

settembre si carica così di valenze diverse. La naturale avversione popolare per la guerra si mescola con i sentimenti antitedeschi sedimentati dalla Grande Guerra, con il rifiuto della coercizione militare, con la difesa del debole: i primi semi di quella “esistenza passiva” che farà da sfondo alla futura lotta partigiana. La riappropriazione di una dimensione collettiva, che non è riuscita durante il governo dei quarantacinque giorni, riesce ora sotto la pressione della comune disgrazia: «Non ci si stringeva attorno all’istituzione Regio esercito, ma si veniva in soccorso di italiani piombati nell’estremo pericolo».9 La seconda risposta è la scelta dei militari che sfuggono alla cattura. La maggior parte di coloro che abitano nelle regioni centrosettentrionali raggiungono le proprie abitazioni, in un’immediata ricerca di rifugio, attraverso odissee confuse, in un intrecciarsi di destini e di solidarietà tra sconosciuti che per un momento condividono i rischi supremi e poi si separano senza incontrasi più. Più drammatica la situazione dei giovani meridionali, separati dalle proprie terre d’origine dalla linea del fronte: impossibilitati a rientrare, alcuni trovano sistemazione in qualche famiglia offrendo il proprio lavoro nella conduzione dei campi; altri si nascondono; altri ancora, sospinti dalla necessità, scelgono la montagna, individualmente o sulla base di piccoli gruppi che nella coesione cercano la forza. La scelta della montagna non significa di per sé il passaggio da un atteggiamento difensivo all’assunzione di un’iniziativa antitedesca e antifascista; in molti casi, al contrario, essa ha i connotati della fuga. La lotta resistenziale nasce, tuttavia, da questi nuclei di militari sbandati che sin dalla prima ora scelgono quasi per caso la montagna, ai quali presto si aggregano alcuni giovani del luogo stabilendo un immediato rapporto tra ribellismo e territorio: la risposta


della fuga, in quanto tale, può durare qualche giorno, ma la clandestinità implica

l’impegno,

l’organizzazione

in

vista

della

sopravvivenza,

l’individuazione di una ragione morale e di un obiettivo per la scelta operata. Non mancano quelli che alla macchia rimangono poco tempo, per cercare subito dopo altre opzioni: coloro che restano, che decidono di “resistere”, non possono, però, prescindere da un contesto armato. In alcuni casi c’è un collegamento evidente tra la dissoluzione dell’esercito e la scelta resistenziale: è quanto accade, per esempio, a Boves, in Piemonte, o a Bosco Martese, in Abruzzo. In genere si tratta, però, di nuclei minori, che si riuniscono attorno a qualche giovane ufficiale intraprendente, portano con sé l’armamento leggero, talvolta nascondo munizioni e materiali prelevati dalle caserme: «Una nascita silenziosa, quasi segreta, costituita da episodi quasi impercettibili»,10 con protagonisti spinti più dalle intuizioni che dalle consapevolezze («senza la Russia, all’8 settembre mi sarei nascosto come un cane malato», scrive Nuto Revelli «se nella notte del 25 luglio mi fossi fatto picchiare, forse oggi sarei dall’altra parte. Mi spaventano quelli che dicono di aver sempre capito tutto: capire l’8 settembre non era facile!»).11 E tuttavia, tra incertezze e improvvisazioni, quei primi nuclei frammentati e sparuti costituiscono i punti di riferimento alternativi che solleciteranno le scelte successive. Una terza risposta è quella degli antifascisti, di quella minoranza (esigua ma significativa) che si schiera per la consapevolezza politica della lotta resistenziale da condurre: si tratta di intellettuali, studenti universitari, militanti operai formatisi nella clandestinità, alcuni passati attraverso le esperienze del confino o del carcere, talvolta legati da semplici rapporti amicali, talaltra collegati in embrioni di strutture organizzate. Le motivazioni spaziano in ragione delle premesse ideologiche dell’antifascismo di ognuno e


si intrecciano con le suggestioni del momento: per l’azionista Dante Livio Bianco si tratta di una risoluta volontà di azione per reagire «al quadro di delusione e di avvilimento offerto dall’inazione dei comandi militari»;12 per il comunista Cino Moscatelli, di ripetere in Italia «ciò che i nostri garibaldini avevano saputo fare in terra di Spagna»;13 per Giaime Pintor, di rigenerare la nazione nella persuasione che «un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato solo da una rivoluzione vera».14 Un’ultima risposta, infine, è quella dei militari che si schierano per fedeltà al giuramento prestato: «Il proclama Badoglio era ambiguo, ma chi voleva capirlo poteva. Io ero un ufficiale, avevo giurato fedeltà al re, quindi dovevo combattere contro i tedeschi che ci avevano occupato».15 Si tratta di una motivazione che coinvolge essenzialmente gli ufficiali ed emerge più evidente nella seconda metà di settembre, in contrapposizione ai bandi della Repubblica sociale: una scelta rispettabile e coraggiosa, «anche se un po’ offuscata rispetto a quella di chi sceglieva autonomamente e direttamente in base a giudizi di valore, senza avvertire l’esigenza di appoggiare l’atto di oggi ad altro atto compiuto ieri in condizioni tanto meno libere».16 In queste scelte della prima ora già emerge il tratto che caratterizza il percorso della Resistenza: l’incontro dell’antifascismo spontaneo e resistenziale con quello politico maturato nella clandestinità. Il primo nasce dalla «quotidiana esperienza del divario tra le promesse del regime fascista e la realtà delle sue sconfitte», il secondo si è temprato nel Ventennio ed è forte di una ricca esperienza politica, ma anche «carico del peso di tante sconfitte e di tanti contrasti».17 Il panorama della scelta non coinvolge ovviamente la popolazione nel suo insieme: se l’assistenza agli sbandati assume i caratteri di un fenomeno più largo,18 l’impegno diretto in vista della lotta di liberazione è limitato a nuclei ristretti di ribellismo. Per la maggior parte della gente


prevale l’attesa, talvolta giustificata come posizione al disopra delle parti («poiché in Italia vi sono due governi, quello del re e quello di Mussolini, io ho consigliato i giovani contadini a restare a casa»),19 più spesso frutto di stanchezza, di incapacità decisionale, di mancanza di riferimenti: in molti casi si tratta comunque di posizioni destinate a una durata relativa, perché i bandi di arruolamento della RSI e la logica occupazionale tedesca ridurranno presto i margini di elusione della scelta e circoscriveranno le zone d’ombra.

La scelta fascista Mentre l’antifascismo muove i suoi primi passi, il dramma dell’8 settembre vede contemporaneamente maturare scelte di segno opposto con pronunciamenti filotedeschi. Operate prima della liberazione di Mussolini e dello sforzo di normalizzazione della Repubblica di Salò, anche queste scelte assumono carattere di rottura e implicano una piena assunzione di responsabilità individuale. La differenza di fondo sta nella prospettiva: mentre la scelta antifascista si pone sul terreno della ricerca di nuovi valori e di nuovi percorsi, la scelta fascista nasce dalla fedeltà a una “cultura” che il regime ha insegnato e l’armistizio negato. «Avevo vent’anni e pensavo che una guerra si può anche perdere, ma si deve perderla con onore; che non si passa da una trincea all’altra dall’oggi al domani; che non si tradiscono i morti per ingraziarsi i vivi che vincono; che non si tradisce la parola data. Non era questione di fascismo o antifascismo, né di re o di Duce, era solo questione di Italia.»20 Il retroterra immediato della scelta è il disagio dei quarantacinque giorni, i dubbi e le diffidenze verso la figura ambigua di Badoglio, il dissenso sordo di fronte all’affievolirsi dello sforzo bellico: «La caduta del fascismo ci aveva


lasciati monchi, a partire dal saluto romano che era stato abolito. Pericoloso era diventato cantare canzoni militari, perché c’era sempre nel testo una frase fascista. Sul cuore non si può dare un colpo di spugna cancellando vent’anni in un giorno».21 Lo sbandamento dell’8 settembre è il colpo di grazia: come ha magistralmente sintetizzato Curzio Malaparte, allora ufficiale di collegamento con l’esercito angloamericano, «senza armi e senza bandiere, ci incolonnammo verso i nuovi campi di battaglia, per andare a vincere con gli Alleati quella stessa guerra che avevamo già perso con i tedeschi».22 L’iconoclastia dello scrittore registra lo scenario di uno stato d’animo avvilito, che per qualcuno diventa scatto di orgoglio e di rabbia: «Io piansi sentendo il comunicato di Badoglio», ha scritto il “principe nero” Junio Valerio Borghese. «Piansi e poi non ho più pianto. Perché quello che c’era da soffrire, lo soffrii allora. Poi c’era solo da fare.»23 Il retroterra remoto sono invece i valori nazionali e militari sedimentati dall’educazione fascista, i miti della guerra, della patria romana, dell’onore: il rifiuto dell’armistizio badogliano diventa disobbedienza a un’autorità delegittimata in nome della difesa di un’eredità culturale sopravvissuta al crollo del regime, la reazione a una scelta giudicata di opportunismo e di viltà perché tradisce i caduti e misconosce tre anni di combattimenti. Se il 25 luglio questo atteggiamento non si è tradotto in azione perché la continuazione della guerra ha in qualche modo conservato il quadro di riferimento, di fronte alla resa i meccanismi di conservazione della propria identità mobilitano gli elementi più radicali: «Il cardine formale del rifiuto della resa e della fedeltà ai patti suggellava, attraverso un astratto richiamo all’onore militare, la continuità ideale con la guerra sino ad allora combattuta e la reiterata affermazione del suo carattere nazionale. Un’asserzione che indicava nella prosecuzione a oltranza di quel conflitto l’imprescindibile


passaggio per garantire, attraverso il supremo e riassuntivo paradigma del valore militare, la sopravvivenza di una certa idea della patria-nazione e dei suoi valori cardine».24 Quanti scelgono di schierarsi dalla parte della Wehrmacht e di continuare la guerra a fianco delle truppe tedesche? Come per i resistenti, le quantificazioni non sono possibili. Tralasciando le scelte collettive di alcune unità dislocate all’estero, sulle quali pesano le circostanze eccezionali dell’isolamento, nel territorio nazionale si registrano le scelte individuali di chi abbandona il proprio reparto per unirsi alle truppe germaniche, quelle di chi va all’ambasciata tedesca a Roma per avere indicazioni, quelle di chi allaccia contatti in vista di un nuovo impegno. Vanno segnalati però due episodi, in cui la scelta assume carattere più allargato. Il primo riguarda i reparti paracadutisti della divisione Nembo, che nel corso dell’estate sono stati divisi in due tronconi, stanziati l’uno in Sardegna e l’altro nell’Italia meridionale. Al momento dell’armistizio, l’iniziativa di alcuni ufficiali inferiori porta alla secessione filotedesca: tra gli uomini del 185° reggimento, in ritirata lungo la dorsale calabra, l’iniziativa è del capitano Edoardo Sala, il cui reparto si riunisce alle truppe germaniche e, pur con numerose defezioni, conserva un nucleo di cento effettivi che entreranno nell’esercito di Salò; in Sardegna è invece il maggiore Mario Rizzatti a guidare un intero battaglione che la sera del 9 settembre si uniscono alle forze della Wehrmacht in ripiegamento verso la Corsica e, dopo aver ucciso il capo di stato maggiore colonnello Alberto Bechi (reduce di El Alamein) accorso per sedare la ribellione, partecipano agli scontri con le unità italiane che cercano di opporsi ai movimenti tedeschi. In entrambi i casi si tratta di scelte alimentate dalla forte aggregazione di gruppo dei reparti paracadutisti e dalla cultura da “corpo speciale”, educato alla sacralità della guerra e dei suoi miti. Come


spiegherà il Rizzatti in una relazione del dicembre successivo, «la scelta era fra il disonore e la comodità di rimanere o il sacrificio e il dovere di difendere l’onore militare».25 La scelta fascista dell’8 settembre si pone così in termini di rifiuto del “tradimento” e di difesa dell’identità nazionale, gesto estremo di “rottura” in nome di una “continuità” negata. Il secondo episodio riguarda la Decima MAS, la flottiglia della Regia marina che all’8 settembre si trova nel porto di La Spezia. Il comandante Junio Valerio Borghese, uomo popolare e carismatico per le imprese compiute con il sommergibile Scirè nei porti di Alessandria d’Egitto e di Gibilterra, ha stabilito sin dall’agosto contatti con il capitano di corvetta tedesco Rudolph von Martiny, che comanda un gruppo di ufficiali e di marinai germanici in addestramento presso la X. Quando viene annunciato l’armistizio, egli raduna i suoi uomini, prima gli ufficiali poi i sottufficiali e i marinai: «Borghese radunò i suoi uomini, spiegò che aveva deciso di continuare la guerra accanto ai tedeschi, disse che chi non condivideva la sua scelta era libero di chiedere il congedo».26 Nella confusione del momento, gli uomini della Decima MAS rivelano le incertezze comuni a tutti i reparti delle forze armate: una parte significativa della flottiglia decide di lasciare il reparto e cercare di tornare alle proprie abitazioni. Un centinaio di ufficiali e circa 350 marinai accettano invece di seguire il proprio comandante, che stabilisce un accordo con il capitano di vascello Max Berninghaus (dal 12 settembre al comando del settore ligure): alla X vengono riconosciute sia l’autonomia operativa, sia la qualifica di “alleato” delle forze tedesche.27 Accanto alle scelte filotedesche maturate in ambito militare, vanno segnalati i pronunciamenti di civili di radicata fede fascista: a Bologna nella mattinata del 9 viene riaperta la federazione del PNF ed esposto sul balcone il gagliardetto della 10° legio; l’11 si ritrovano i fascisti di Verona; a Trieste un


gruppo di squadristi guidati da Idreno Utimperghe occupa la sede del quotidiano “Il Piccolo” cacciandone il direttore; a Como un altro gruppo sfila per le vie della città con gagliardetto nero imponendo il saluto romano ai passanti. Sono episodi marginali, ma dai quali emerge una tipologia primigenia di militanza fascista: «È quasi assente il fascista “galantuomo”, detentore nel regime dei posti migliori, mediatore tra il partito e il capitale. Tra i fascisti repubblicani della prima ora si riconoscono invece altri tipi: lo squadrista riabilitato, il fascista imprevedibile, quello di carattere, il vanitoso, di buona volontà. Nelle ore confuse ma libere dell’armistizio tornano alla ribalta i vecchi squadristi picchiatori e violenti, messi in disparte negli anni del perbenismo».28 «Chi siamo?» scrive da Firenze Umberto Hodet. «I soliti, quelli picchiati, maltrattati, cacciati dagli impieghi, non solo dai comunisti, ma anche dai superiori camerati.»29

Episodi insurrezionali nel Mezzogiorno d’Italia Mentre nell’Italia centrosettentrionale si definiscono gli schieramenti tra scelte sofferte e lacerazioni, nell’Italia meridionale il contesto è segnato dalla guerra combattuta. A metà settembre gli angloamericani, vinta la battaglia sulla costa salernitana grazie al concorso dell’aviazione e della flotta, si ricongiungono alle divisioni sbarcate il 3 settembre in Calabria e lentamente risalite verso la Lucania. Negli stessi giorni, le forze sbarcate a Taranto procedono all’eliminazione degli avamposti tedeschi in Puglia, giungendo sino a Foggia. La progressiva avanzata del fronte sollecita alcuni episodi insurrezionali in cui la popolazione si mobilita autonomamente. Scontri tra civili e forze germaniche si hanno a Matera, in Irpinia, in Terra di Lavoro, in Molise: ad Acerra sono i contadini a cercare di sbarrare la strada ai nemici


con barricate di carri agricoli; a Rionero in Vulture si mobilitano gruppi di braccianti; a Capua l’insurrezione costa la vita a un quindicenne, Carlo Santagata, impiccato dai soldati tedeschi; a Santa Maria Capua Vetere l’iniziativa parte da due militari sovietici, prigionieri di guerra evasi dai campi dopo l’armistizio; a Lanciano si vivono tre giorni di scontri (4-6 ottobre) in un clima di partecipazione popolare collettiva, sino a che la Wehrmacht riprende il controllo della città ordinandone per rappresaglia lo sgombero dopo aver fucilato dodici ostaggi. L’esempio più significativo viene da Napoli. La città è stata occupata dalla Wehrmacht tra il 10 e il 13 settembre, nel timore che il porto possa offrire un facile punto di appoggio per un secondo sbarco angloamericano. La vicinanza del fronte ha determinato disposizioni draconiane con l’esplicita dichiarazione che «ogni intervento, per quanto duro, sarebbe stato sempre e comunque coperto dai superiori anche se tutta Napoli fosse andata in fiamme»: la città è stata, così, occupata senza risparmiare colpi di artiglieria e, secondo le stesse fonti tedesche, facendo «numerosi morti» tra i civili.30 Concluse le operazioni, il colonnello Walter Scholl ha imposto lo stato d’assedio.31 La rigidità del regime occupazionale ha alimentato la rabbia e un bando per il servizio obbligatorio del lavoro ha scatenato la rivolta: dapprima la popolazione ha reagito con la resistenza passiva (150 persone presentatesi su circa 30 000, secondo quanto dichiara lo stesso Scholl); in un secondo tempo, quando i tedeschi iniziano il ripiegamento, la resistenza si trasforma in insurrezione, con scontri armati in vari quartieri della città. Il quadro è drammatico: pressati dagli Alleati, i reparti della Wehrmacht si ritirano applicando le direttive del comando supremo che prevedono la distruzione degli impianti energetici, delle piste d’aviazione, delle attrezzature portuali, dei nodi ferroviari e stradali, delle industrie belliche e alimentari. «I danni da


infliggere al nemico dovranno essere al di sopra di qualsiasi rispetto umano»,32 recitano le disposizioni di Keitel: in poche ore, duecentomila napoletani restano così senza tetto, mentre vengono incendiati gli impianti dell’Ilva di Bagnoli, incendiati i magazzini alimentari, sabotati ponti e linee ferroviarie, distrutti i serbatoi d’acqua. All’alba del 28, la popolazione insorge: utilizzando armi occultate dopo l’8 settembre o asportate dalle caserme dove le truppe tedesche le hanno dimenticate nella confusione del ripiegamento, molti cittadini attaccano le truppe della Wehrmacht. Gli episodi si susseguono in zone diverse della città, spontanei nella genesi e senza coordinamento tra loro: dal Vomero, in piazza Dante, in piazza Nazionale, a Chiaia, a Capodimonte si accendono scontri, sorgono rudimentali barricate, si bloccano reparti in movimento. Per quattro giorni Napoli è un campo di battaglia, in cui cadono 152 combattenti, 140 civili, 19 ignoti.33 Parlare delle quattro giornate di Napoli come una vera e propria insurrezione significa dare una definizione troppo precisa: l’avversione per le truppe di occupazione, la rabbia atavica di un sottoproletariato costretto ai limiti della sopravvivenza, il ruolo e l’insegnamento di alcuni antifascisti attivi nel campo della scuola (tra loro, il rettore dell’università napoletana, Adolfo Omodeo), lo stesso effetto dirompente del clima insurrezionale dove un episodio di lotta scatena quello successivo, sono tutti elementi concomitanti in una mobilitazione tanto disordinata quanto generosa che ha i connotati di un urto elementare tra occupanti e civili. Se l’insurrezione conserva sino all’ultimo il carattere spontaneo e convulso senza che emergano né una guida unitaria né una chiara coscienza dell’accaduto, essa ha, tuttavia, un rilevante carattere simbolico: per i tedeschi significa misurarsi con la realtà di un’opposizione che può pregiudicare il controllo del territorio; per gli angloamericani è un’occasione importante di propaganda, come


dimostra l’ampio spazio che Radio Londra dà all’episodio; per il fronte resistenziale,

infine,

è

la

prova

della

realizzabilità

di

un’ipotesi

insurrezionale: «Dopo Napoli la parola d’ordine dell’insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu da allora la direttiva di marcia per la parte più audace della Resistenza italiana».34

La mappa del primo ribellismo A partire dalla seconda metà di settembre, il ribellismo diventa una realtà: una parte di coloro che sono fuggiti in montagna si sbandano dopo pochi giorni, scegliendo percorsi di sopravvivenza individuali, ma coloro che rimangono trasformano la fuga in militanza partigiana dando luogo alle prime azioni, in un clima insieme di incertezza e di effervescenza. Recupero di materiale nelle caserme rimaste incustodite, ricerca affannosa di armi e munizioni, qualche colpo di mano ai magazzini dell’ammasso o ai depositi meno sorvegliati, talvolta scontri con pattuglie tedesche isolate, piccoli atti di sabotaggio: in tutto circa 1500 uomini al 18 settembre, secondo i calcoli di Giorgio Bocca che si sforza di distinguere i ribelli armati dai ben più numerosi sbandati e rifugiati. Quantitativamente il fenomeno non è significativo e nel primo commento che giunge da Radio Mosca, Mario Correnti (pseudonimo di Palmiro Togliatti) sente il dovere di sollecitare all’impegno: «Oggi non è il momento né di piangere né di lamentarsi. Oggi è il momento di levarsi in piedi con decisione virile, di prendere le armi e di combattere».35 Nell’immaginario collettivo, la presenza dei primi nuclei partigiani ha, tuttavia, un impatto superiore alle reali dimensioni del fenomeno: la presenza sensibile di uomini armati, i loro spostamenti da una base all’altra, i contatti che si intrecciano tra civili e ribelli, la notizia delle


azioni, introducono un elemento di rottura che sollecita la fantasia popolare. Il territorio, tradizionale luogo di identificazione della comunità, diventa ora teatro di una duplice presenza esterna: da un lato l’esercito germanico, con la sua logica occupazionale e le sue rappresaglie; dall’altro i ribelli, sparuti eppure simboli della volontà di reagire al disfacimento nazionale. Se dopo l’8 settembre si favoleggia di reggimenti ancora a ranghi compatti e di imminenti sbarchi angloamericani, a fine mese già circolano i riferimenti a località dove il ribellismo ha le sue basi, si immaginano reparti in montagna che fanno l’alzabandiera e l’addestramento: «La parola “patriota” corre sulle bocche come un misterioso termine di confronto».36 È la reazione psicologia attraverso cui l’immaginazione popolare cerca rassicurazioni di fronte allo sbandamento: è una reazione suggerita innanzitutto dalla paura, che nella presenza di armati irregolari proietta il desiderio di forze in grado di assicurare protezione e che, nel contempo, sottintende l’intuizione di un nuovo periodo di lotta. Al di là delle rappresentazioni, quali sono la consistenza e la distribuzione del ribellismo della prima ora? Delineandone la mappa, si incontra una geografia frastagliata, dove le specificità locali e le contingenze incidono fortemente sulla nascita del movimento, caratterizzandolo come fenomeno eterogeneo. Il Piemonte è la regione dove la resistenza armata trova terreno più fertile: la presenza degli sbandati della Quarta armata, la configurazione territoriale con numerose vallate di facile raggiungimento, la presenza di quadri antifascisti formatisi nella clandestinità, le tradizioni di lotte operaie favoriscono il radicarsi del ribellismo. Nel cuneese si trovano rappresentate le matrici più diverse: gruppi consistenti di militari che conservano un’organizzazione modellata sull’esempio dell’esercito regio, come quello concentrato a Boves; gruppi di militari numericamente più ridotti da cui si


svilupperanno le formazioni autonome (come quelli di Garessio, della val Casotto, della val Pesio); gruppi politicamente caratterizzati, come quello azionista riunito da Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco a Madonna del Colletto, tra la val Gesso e la val Stura, da cui si costituirà la formazione Italia Libera, o quello ugualmente azionista di Frise, raccolto attorno a Detto Dalmastro, Gigi Ventre e Giorgio Bocca; gruppi di pianura con impostazione ispirata al maquis, come quello raccolto tra Savigliano e Cuneo attorno a Faustino Dalmazzo, Nuto Revelli e Piero Bellino; gruppi misti di militari e civili impegnati politicamente, come quello che si forma nella valle del Po, ai confini tra le province di Cuneo e di Torino, con un nucleo di ufficiali e soldati di cavalleria guidati da Pompeo Colajanni e un gruppo di militanti comunisti giunti dalla città (tra i quali Giancarlo Pajetta e Ludovico Geymonat). La pluralità di esperienze del cuneese si ritrova rappresentata nelle altre aree della regione: gruppi guidati da ufficiali inferiori in val Chisone, val Sangone e val di Susa, alle porte di Torino; un gruppo azionista in val Pellice; gruppi politicizzati in val di Lanzo, nel biellese, nell’ossolano, in val Sesia (dove il riferimento è il comunista Cino Moscatelli), piccoli nuclei che cercano di stabilire un rapporto con gli sbandati presenti sul territorio. In Lombardia il fenomeno è meno diffuso: un gruppo di avieri si stanzia nella fortezza di San Martino, sopra Varese; sulle montagne di Lecco si raccolgono gruppi eterogenei di militari, ex prigionieri operai e studenti; altri ancora si rifugiano sulle alture del bergamasco, ma le proporzioni restano più modeste. Più lenta anche la maturazione del ribellismo nell’Appennino ligure (dove, tuttavia, nell’entroterra di Chiavari si costituisce sin dai primi giorni il gruppo di Favale, destinato poi a entrare nella banda Cichero, matrice dei garibaldini del genovese); eterogenei sono i gruppi di Pian Castagna e di Lemme, tra Alessandria e Genova con ex prigionieri russi,


jugoslavi, inglesi fuggiti dai campi e qualche militare italiano a fare da guida e da riferimento; nuclei di civili con una diversa consapevolezza politica si raccolgono invece nell’entroterra di Imperia, attorno al medico Felice Cascione, e all’estremità opposta della regione, a Sarzana, attorno a Paolino Ranieri. Nel Triveneto la situazione è più complessa, perché la presenza massiccia di forze tedesche determina condizioni difficili e alza il livello dello scontro. Migliaia di soldati cercano scampo sulle Prealpi, tra Bassano del Grappa e Vittorio Veneto, e vengono organizzati da alcuni ufficiali effettivi: la pressione tedesca disorienta, tuttavia, questi uomini, inducendoli presto a sbandarsi. Diverse le condizioni in Friuli: qui lo sfaldamento dell’esercito sollecita l’iniziativa dei partigiani jugoslavi, determinando momenti di conflittualità: «Da una parte sloveni e croati si calano come vincitori del fascismo, come dominatori e giustizieri, dall’interno dell’Istria verso le cittadine costiere e sino a Trieste e Monfalcone. Dall’altra, gli italiani antifascisti sentono l’impulso di accorrere sui monti per inquadrarsi e opporre resistenza ai tedeschi».37 I due movimenti, entrambi partigiani, si intrecciano: nella zona di Udine si costituiscono gruppi comunisti ad Attimis e Faedis, un gruppo azionista al Sibit, uno cattolico a Tricesimo; sul Carso si raccoglie la brigata Proletaria; in Istria le formazioni Trieste e Istria. Le diffidenze radicate dalle contrapposizione etniche del Ventennio non permettono di giungere a un coordinamento e gli eccidi commessi dai partigiani slavi con la prima ondata delle “foibe” scavano ulteriori distanze. Nell’area tosco-emiliana l’origine delle prime formazioni risultano dall’incontro di cause diverse: soldati sbandati che fuggono, ma anche tradizioni di solidarietà e di organizzazione contadina e radici ideologiche socialcomuniste. In Emilia la tendenza è piuttosto all’organizzazione di gruppi di resistenza passiva in città e in


pianura (ne è esempio il ruolo della famiglia di Alcide Cervi nel reggiano), mentre in Toscana sorgono gruppi attorno al monte Amiata, sulle colline del Chianti, a Pratomagno, a Vallelucciole, a monte Morello. In Umbria e nelle Marche è, invece, la presenza attiva di numerosi prigionieri politici russi e slavi evasi dai campi di concentramento ad animare i primi nuclei di ribellismo; accanto a loro si radunano gli antifascisti locali e alcuni ufficiali effettivi, che in queste zone sono riusciti più facilmente a sottrarsi alla cattura: il gruppo più significativo è quello di Colle San Marco, presso Ascoli Piceno, formato da diverse decine di uomini, civili ascolani guidati da Spartaco Perini e militari che hanno conservato un embrione di inquadramento e dispongono di mitragliere da venti millimetri. Nel Lazio e in Abruzzo l’iniziativa è prevalentemente dei militari, organizzati da ufficiali inferiori e sostenuti, soprattutto nella zona dei Castelli Romani, da quadri politicizzati venuti dalla capitale; a essi si uniscono però alcuni civili, protagonisti (è il caso di Lanciano) di episodi di resistenza cittadina. Il concentramento maggiore è a Bosco Martese, nella zona di Teramo: qualche centinaia di uomini, il cui nucleo originario è costituito da civili raccolti attorno ad Armando Ammazzalorso, ai quali si sono uniti reparti di artiglieria alpina guidati dai capitani Lorenzini e Rinaldi. Scomponendo il dato numerico generale, Giorgio Bocca indica mille ribelli armati nell’Italia settentrionale, metà dei quali in Piemonte, e cinquecento nell’Italia centromeridionale, per lo più concentrati nella zona di confine tra le Marche e l’Abruzzo. A questi primi gruppi, animati dalla determinazione a combattere, vanno aggiunte varie migliaia di sbandati che vagano tra l’attesa e la ricerca di soluzioni personali, elementi di ulteriore confusione in un quadro di già forte instabilità. A metà settembre non si può certo parlare di un ribellismo radicato, ma i presupposti per lo sviluppo di


un’opposizione partigiana sono concreti e i comandi della Wehrmacht li colgono con tempestività.

La controguerriglia tedesca Poco dopo mezzogiorno del 19 settembre, le SS del maggiore Joachim Peiper raggiungono Boves (Cuneo) e incaricano il parroco, don Giuseppe Bernardi, e l’industriale Antonio Vassallo di trattare la liberazione di due militari tedeschi catturati poco prima dai “ribelli” nella piazza del paese. Ottenuto il rilascio, le SS iniziano l’azione di rappresaglia: mentre i carri armati aprono il fuoco verso la collina contro le presunte basi dei resistenti, il paese viene dato alle fiamme e raffiche di mitra sparate a caso colpiscono gli abitanti. In poche ore vengono massacrati ventitré civili, tra cui gli stessi mediatori, abbattuti da una raffica, cosparsi di benzina e bruciati; numerose case vengono incendiate, il bestiame soffocato nelle stalle, le coltivazioni distrutte. Gli uomini che dopo l’8 settembre si sono raccolti a Boves si disperdono e solo un piccolo gruppo, guidato da Ignazio Vian, rimane unito, spostandosi nella val Vermenagna. La rappresaglia di Boves non è l’unico episodio di terrore: a Bosco Martese, in Abruzzo, il nucleo ribellistico si disperde dopo aver resistito tre giorni agli attacchi tedeschi, in un panorama di combattenti caduti sul campo, di esecuzioni sommarie e di distruzione di abitati; quello di Colle San Martino, nel piceno, subisce la stessa sorte, colpito dal fuoco di artiglieria tedesco; eccidi di civili vengono compiuti nel Mezzogiorno dalle truppe tedesche in ritirata, in Basilicata, in Puglia, in Molise; nel goriziano, rastrellamenti sistematici mettono a dura prova le formazioni appena costituite. Di chiaro segno razziale, ma inquadrato nella medesima logica


occupazionale, il dramma che si consuma sul lago Maggiore: tra Arona, Meina, Stresa e Baveno, trentaquattro ebrei che stanno cercando di raggiungere la Svizzera vengono uccisi e buttati nelle acque del lago.38 Da un estremo all’altro dell’Italia, la rappresaglia è la stessa: fucilazioni ed esposizioni dei corpi, per accrescere l’effetto intimidatorio; distruzioni di case e di interi centri abitati; minacce ai civili per isolare i gruppi ribelli dal territorio; eliminazione diretta e immediata delle sacche di resistenza più consistenti. Dietro l’apparente casualità delle rappresaglie, affidate a comandi minori, c’è una logica occupazionale messa a punto dalla Wehrmacht nel corso della guerra, in particolare attraverso le esperienze in Unione Sovietica e nei Balcani. Nell’autunno 1943, l’elaborazione teorica ha ormai prodotto numerosi documenti sulla tattica della controguerriglia, che costituiscono parte fondamentale nella preparazione dei comandanti tedeschi. Il presupposto è il carattere totale della lotta antipartigiana: «La lotta contro i partigiani è spietata, questione di vita o di morte» recita una direttiva diffusa nei primi mesi del 1943. «A questo tipo di lotta sono addetti soltanto i soldati di prima qualità, che hanno un comando capace di abbracciare le situazioni mutevoli a colpo d’occhio, di soppesare le circostanze, di prendere velocemente la giusta direzione e realizzarla con salda volontà.»39 Da queste premesse discendono due principali direttive di azione: in primo luogo, una pressione militare costante contro le bande per costringerle a un continuo spostamento e impedire così il consolidarsi di rapporti con la popolazione; in secondo luogo, l’intimidazione contro i civili, attraverso azioni sia preventive, sia punitive. Su questo punto una circolare di Himmler del 29 giugno 1942 è chiarissima: «L’azione punitiva contro i villaggi resisi colpevoli di aver appoggiato i banditi deve mettere in grado di non nuocere


tutti gli elementi della popolazione che hanno messo a disposizione uomini, armi, viveri, rifugi».40 Un altro documento, datato 27 gennaio 1943, torna sull’argomenti precisando che «i villaggi conosciuti per essere nidi di banditi possono essere incendiati in via preventiva»; gli abitanti che oppongono resistenza «devono essere fucilati seduta stante»; la popolazione «catturata al completo e trasportata via».41 Per realizzare con maggior efficacia le azioni di controguerriglia, nell’estate 1942 Himmler ha disposto la creazione di Jagdkommando, nuclei speciali di dimensioni ridotte, ben equipaggiati e armati al meglio, costituiti da «uomini che devono essere esonerati da ogni servizio di guardia e di corvé e si devono occupare con l’ausilio di tutte le esperienze finora fatte solo della lotta antibande»:42 a uno di questi reparti appartengono le SS impiegate a Boves il 19 settembre. La politica militare applicata in Italia subito dopo l’armistizio si inquadra, così, in un progetto politico-militare collaudato, attraverso il quale gli occupanti nazisti si presentano all’ex alleato che ha “tradito”. La rappresaglia e l’intimidazione si sviluppano secondo direttive che trascendono le specificità locali: a Boves, l’uccisione del parroco significa «rinunciare, se non all’appoggio, alla neutralità di un clero che nella provincia contadina ha un grande potere», e quella dell’industriale Vassallo allontana a sua volta «una borghesia amante dell’ordine, che potrebbe fare da cuscinetto tra l’occupante e la ribellione».43 Tuttavia, nella concezione tedesca la lotta alle bande partigiane non prevede forme di mediazione e pone civili e ribelli sullo stesso piano, introducendo una dimensione di guerra totale sino ad allora sconosciuta per la popolazione italiana: al di là di possibili alleanze sociali o benevoli neutralità, alla Wehrmacht interessa la forza deterrente delle stragi.


1

Pietro Nenni, Il vento del nord, Einaudi, Torino 1978, p. 38. 2 Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Le Monnier, Firenze 1947, p. 357. 3 Corrado Alvaro, Quasi una vita, Mondadori, Milano 1986, p. 327. 4 Leo Longanesi, In piedi e seduti, Longanesi, Milano 1948, p. 216. 5 Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, (a cura di Giorgio Agosti), Le Monnier, Firenze 1982, vol. II, p. 270. 6

Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 23. 7 Ivi, p. 25. 8 Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, Einaudi, Torino 1977, vol. I, p. CXVII. 9

Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 19. 10 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953, p. 136. 11 Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 1962, p. 143. 12 Dante Livio Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino 1973, p. 7. 13 Pietro Secchia, Cino Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano, Einaudi, Torino 1958, p. 30. 14 Giaime Pintor, Il sangue d’Europa, Einaudi, Torino 1950, p. 181. 15 Testimonianza di Giulio Nicoletta, di Crotone, classe 1921, comandante partigiano poi dirigente industriale, riportata in Gianni Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 64. 16 Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 31. 17 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Feltrinelli, Milano 1976, p. 115. 18 Nel fenomeno di solidarietà agli sbandati non mancano, comunque, zone grigie. In Primavera di bellezza, Beppe Fenoglio descrive il protagonista disorientato nella campagna romana, costretto a procurarsi gli abiti civili a pagamento: «Il ragazzo si presentò verso le 9 con un’aria triste e sospettosa di contadino inurbato. “Posso darti 200 lire, è tutto quello che ho –


disse Johnny – E anche lo zaino, come hai chiesto”. Il ragazzo rilasciò sull’erba il vestito che si sciorinò in tutta la sua volgarità e usura e Johnny rimase con un groppo in gola di insolubile furore e di molle pietà per se stesso. Per salvarsi, gli era toccato mercanteggiare e minacciare» (Beppe Fenoglio, Primavera di bellezza, Garzanti, Milano 1959, pp. 170-71). 19 La citazione di Sandro Scotti, organizzatore durante la Resistenza del partito dei contadini d’Italia, è riportata in ivi, p. 33. 20 Marcello Zanfagna, L’ultima bandiera, Napoli, Morano, s.d., p. 9. 21 Carlo Vittorio Bianchi, Un’isola che si chiama Sardegna, Arnia, Roma 1951, pp. 28-29. 22 Curzio Malaparte, La pelle, Mondadori, Milano 1949, p. 43. Curzio non fa la scelta di continuità, bensì quella opposta di partecipazione alla campagna d’Italia, ma nel romanzo autobiografico propone la coscienza vergognosa, umiliata e disfatta di un popolo vinto, spesso costretto a vendersi al vincitore per poter sopravvivere. 23 Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, Garzanti, Milano 1950, p. 320. 24 Marco Di Giovanni, I paracadutisti italiani, Goriziana editore, Gorizia 1991, p. 221. 25 Ivi, p. 219. 26 Jack Greene, Alessandro Massignani, Il Principe Nero. Junio Valerio Borghese e la X MAS, Mondadori, Milano 2007, p. 161. 27 Va ricordato che gli uomini di punta della Decima MAS, gli incursori con i siluri a lenta corsa (o “maiali”) protagonisti degli spettacolari attacchi alle navi inglesi nelle rade di Alessandria d’Egitto, La Valletta e Gibilterra, fecero una scelta opposta: prigionieri nei campi inglesi in Medio Oriente, essi scelsero di combattere accanto all’VIII armata britannica impegnata nella campagna d’Italia. Uno di loro, Luigi Durand de la Penne, fu decorato con medaglia d’oro al valor militare nel porto di Taranto da un ammiraglio


inglese. L’immagine della Decima MAS compattamente schierata con la RSI è frutto di una distorsione storiografica: la maggior parte degli uomini tornò a casa dopo l’armistizio cercando una via individuale di salvezza; una parte si schierò con i tedeschi e aumentò in seguito i propri effettivi con reclutamenti volontari, diventando una delle più feroci unità antipartigiane; una parte infine combatté accanto agli Alleati. 28 Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1963, p. 47. 29 Il testo, conservato nell’archivio dell’Istituto storico della Resistenza di Firenze, è citato in ivi, p. 58. 30 Gerhard Schreiber, I soldati italiani, cit., p. 165. 31 Il proclama del colonnello Scholl è riportato in Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 119. 32 La direttiva di Keitel è riportata in Gerhard Schreiber, I soldati italiani, cit., p. 168. 33 Le cifre sui caduti sono tratte da Antonino Tarsia, La verità sulle quattro giornate di Napoli, Genovese, Napoli 1950, p. 123. 34 Luigi Longo, Un popolo alla macchia, Editori Riuniti, Roma 1947, p. 102. 35 La citazione del commento di Mario Correnti da Radio Mosca è citata in Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, Einaudi, Torino 1976, vol. 5, p. 37. 36 Mario Giovana, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, Feltrinelli, Milano 1962, p. 24. 37 Bruno Steffè, Partigiani italiani della Venezia Giulia, Trieste 1965, p. 29. 38 Cfr. Bruno Nozza, Hotel Meina. La prima strage di ebrei in Italia, Mondadori, Milano 1993. 39 Il documento Der kampf gegen die partisanien (“La lotta contro i partigiani”) è riprodotto in appendice ad Alessandro Politi, Le dottrine


tedesche di controguerriglia. 1936-1944, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1991, pp. 294-303. 40 La direttiva di Himmler del 19 giugno 1942, rivolta ai reparti impegnati nell’azione antipartigiana nella Carniola e nella Stiria, è riportata in ivi, pp. 289-91. 41 Ivi, pp. 305-08. 42 La direttiva di Himmler per la costituzione di Jagdkommando è riportata in ivi, pp. 283-87. 43 Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., p. 65.


2 Il fronte resistenziale

Tra attendismo e azione Per i gruppi che rimangono in montagna, si profila l’alternativa tra attendismo e impegno militante: da un lato, l’attesa della liberazione da parte dell’esercito angloamericano con formazioni che, contando sulla solidarietà della popolazione e sul coordinamento di comitati militari centralizzati, rimangono in clandestinità senza combattere, sottraendo uomini al collaborazionismo di Salò e preparandosi a intervenire nel momento conclusivo; dall’altro, la lotta armata per bande, totalmente da inventare sul piano organizzativo e tattico, senza esperienze di riferimento nella storia nazionale, in una prospettiva difficile di lungo periodo. La scelta si intreccia con il rapporto tra i gruppi della montagna e le forze politiche, raccolte nei comitati di liberazione nazionale e impegnate nello sforzo di elaborare la strategia

dell’antifascismo

nell’Italia

occupata:

si

tratta

di

forze

ideologicamente eterogenee, sorprese dall’armistizio in una fase iniziale di organizzazione, composte da quadri che provengono in buona parte da lunghi periodi di esilio oppure di carcere o di confino. Sulla necessità di opporsi ai tedeschi, le forze antifasciste sono concordi e in questo senso si è espresso sin dal 9 settembre il CLN di Roma; un mese dopo, di fronte agli appelli alla riconciliazione avanzati dalla propaganda


fascista di Salò, il CLN di Milano approva un ordine del giorno che chiama «tutto il popolo italiano alla lotta contro il tedesco invasore e contro i fascisti: tutti siano mobilitati per la causa comune, non lasciamo deportare nessuno in terra straniera, non lavoriamo per il nemico tedesco, non lasciamoci inquadrare nelle sue formazioni armate».1 Condiviso da tutti è anche il fatto che la funzione di guida avocata a sé dal CLN presuppone la capacità di stabilire rapporti con i gruppi ribellistici e di garantire alle bande le risorse di vita e di lotta: «Era illusorio pensare che il partigianato non degenerasse o non si sfasciasse entro breve tempo se non veniva conseguito un minimo di inquadramento unitario».2 Sull’impostazione da dare alla lotta non mancano però le divergenze. I comunisti mettono l’accento sul valore politico di una continua aggressività militare: «I distaccamenti partigiani devono agire continuamente; la passività è la loro decomposizione e la loro morte. Se la reazione tedesca e fascista è lasciata libera di dispiegarsi indisturbata, ci può recare dei duri e gravi colpi. Solo la nostra azione preventiva e audace può disorganizzarla e stroncarla».3 Su questa linea d’azione, il partito comunista si muove autonomamente secondo un programma di politicizzazione delle bande e di priorità organizzativa di partito che riflette gli schemi classici dell’ortodossia terzointernazionalista, come documenta Pietro Secchia in una lettera del 19 novembre: «I problemi che assorbono la nostra attività sono: la presa di contatti con le formazioni tra le montagne e la loro trasformazione in gruppi di partigiani combattenti, il lavoro per far aderire questi gruppi al CLN, l’invio presso queste unità di nostri compagni come commissari politici, l’attività di reclutamento per alimentare queste formazioni, la raccolta dei mezzi finanziari, viveri, materiali necessari».4 A fine novembre il PCI decide di formare i distaccamenti d’assalto Garibaldi (poi brigate e divisioni), intesi


come «unità agili, offensive, audaci» da schierare in prima linea nella guerra patriottica di indipendenza nazionale: la funzione di comandante generale di queste formazioni è affidata a Luigi Longo e quella di commissario a Pietro Secchia, mentre Giancarlo Pajetta assumerà in seguito quella di capo di stato maggiore.5 Il 25 novembre il primo ordine del giorno del comando garibaldino non lascia dubbi sul carattere aggressivo da imprimere alla lotta: «Attaccare in tutti i modi e annientare ufficiali, soldati, materiale e depositi delle forze armate hitleriane; attaccare le persone, le sedi, le proprietà dei traditori fascisti e di quanti collaborano con l’occupante tedesco; attaccare e distruggere la produzione di guerra destinata ai tedeschi, le vie e i mezzi di comunicazione e tutto quanto può servire ai piani di guerra e di rapina dell’occupante nazista».6 In contrasto con l’impostazione comunista, gli azionisti sostengono invece la necessità di dare alle bande partigiane una maggior consistenza ed efficienza prima di passare all’offensiva continua. «Studiare accuratamente l’azione», raccomanda una delle prime direttive del PDA, «assicurarsi di avere una schiacciante superiorità numerica sufficiente a garantire anche la sicurezza a chi spara, non fare inutili rumori adoperando le armi solo se necessario, eliminare tutte le tracce»; entro questo schema, «le possibilità di lotta armata contro i reparti tedeschi erano e sono per forza limitate». Ne risulta un lavoro iniziale concentrato essenzialmente sulla «ricognizione, osservazione e preparazione»,7 in vista di condizioni più favorevoli per il passaggio alla lotta armata: «C’è la preoccupazione di costituire delle riserve morali e di quadri», scrive Dante Livio Bianco, «per i giorni duri che verranno, per i più vasti compiti che si presenteranno. E c’è uno spirito di “serietà” che induce a procedere lento piede, a non fare il passo più lungo della gamba, ad affinare e completare la preparazione tecnica e morale».8


Questa impostazione prudente non esclude né l’effettuazione di interventi in circostanze favorevoli, né l’obiettivo di politicizzare in senso azionista le bande e di inquadrarle, come i comunisti, in un unico raggruppamento nazionale: la creazione di formazioni di partito denominate Giustizia e libertà, con un comando generale «capace di rappresentarle politicamente e militarmente» e «ideologicamente orientato verso la rivoluzione democratica e repubblicana» viene decisa in una riunione con Leo Valiani a Torre Pellice, nelle valli valdesi, già a fine ottobre,9 anche se diventerà operativa solo il 14 febbraio successivo, dopo la ratifica dell’esecutivo Alta Italia del PDA. Contrarie alla prospettiva di politicizzazione della resistenza armata e a quella dello scontro immediato, le forze moderate liberali e democristiane sottolineano l’importanza di una prima fase di censimento e di organizzazione dei gruppi sparsi e di una successiva di rafforzamento della capacità operati: in quest’accezione, la preparazione tende a prevalere sull’azione, rinviando il passaggio alla lotta attiva a una prospettiva di lungo periodo. I socialisti, a loro volta, si dividono tra le due posizioni, riflettendo nel dibattito sul carattere della resistenza militare le distinzioni tra le anime massimalista e riformiste riunite nel PSIUP. Gli organismi nei quali queste divergenze risultano più evidenti sono i comitati militari, organi esecutivi del CLN costituiti su base paritetica per organizzare e sostenere la lotta armata. A Milano il rappresentante più autorevole è l’azionista Ferruccio Parri, il cui orientamento propende per un “esercito di popolo” ispirato alla traduzione volontaristica del Risorgimento, dove la struttura militare deve rivitalizzarsi con l’innesto dei civili: «Per Parri si trattava di ricostituire l’esercito discioltosi l’8 settembre, potenziandolo e trasformandolo con l’innesto di civili, senza però alterarne la struttura gerarchica e i criteri di efficienza. Egli privilegiava soprattutto il recupero dei


soldati e degli ufficiali regolari […], presupponendo così una lunga fase di censimento e di organizzazione dei nuclei dispersi».10 Contro le posizioni di Parri e del comitato militare milanese si schierano i comunisti, che chiedono «una più decisa iniziativa dei partiti della sinistra nella lotta di liberazione» e lamentando «l’appoggio dato alla politica attendista delle destre».11 Le divergenze sull’impostazione della lotta condizionano ugualmente i comitati militari di altre regioni, dalla Liguria, al Veneto, alla Toscana. L’esperienza piemontese è la più tipica. Il CLN regionale, in difficoltà dopo aver esaurito le modeste somme messe a disposizione da alcune grandi aziende (tra cui la Fiat, l’Italgas e la Stet) entra in contatto con il generale Piero Operti, già intendente della Quarta armata, che si è rifugiato nel cuneese con alcuni ufficiali del suo comando e con i cospicui fondi dell’armata. Dai primi abboccamenti risulta chiaro che l’Operti è disposto a elargire i fondi solo se il CLN propone il suo nome per l’investitura a comandante di una giunta militare e se gli concede di adoperare come stato maggiore gli ufficiali della sua cerchia. L’accordo non è facile, perché «per Operti la resistenza aveva bisogno di una fase preparatoria durante la quale, con complicati collegamenti e ingarbugliate trafile gerarchiche, i servizi del comando si sarebbero dedicati a censire i quantitativi di armi delle bande, le disponibilità di automezzi, i depositi del carburante. Quanto all’attività partigiana, essa sarebbe stata limitata ai sabotaggi e a periodici colpi di mano, in attesa di insorgere all’arrivo degli Alleati». Le diffidenze del comitato per l’impostazione attendista dell’Operti si scontrano con la necessità impellente di trovare denaro e all’inizio di novembre si decide per l’accordo (nonostante il voto contrario comunista): una delegazione (di cui fanno parte Vittorio Foa, Paolo Greco e Fausto Penati) reca al generale la designazione a coordinatore del comitato militare, ottenendo in cambio il versamento di dodici milioni di


lire, quanto basta per mantenere una forza media «di oltre ventimila unità per circa dieci mesi».12 La collaborazione è tuttavia di breve durata: gli ufficiali dell’Operti disperdono le energie «in inutili abbozzi di organizzazione da manuale ed entrano in contestazione con i capi partigiani delle varie zone, nelle quali il generale faceva giungere direttive giudicate irrealizzabili».13 A dicembre l’esperimento è già fallito: il sospetto che il generale voglia stabilire una tregua con i tedeschi sulla base di una divisione delle rispettive zone di influenza, induce il CLN a rimuoverlo dall’incarico, con voto unanime espresso nella seduta del 28 dicembre. All’interno dei comitati, la discussione più propriamente militare si intreccia con preoccupazioni di carattere politico: l’impostazione attendista è incoraggiata dagli angloamericani, favorevoli alla collaborazione di nuclei ristretti di sabotatori e informatori sul modello del maquis francese, piuttosto che quella di un possibile esercito popolare; analogamente, il governo Badoglio sospetta di un fenomeno ribellistico che non può controllare e quando

ne

riconosce

l’esistenza

contrappone

l’esigenza

di

«una

organizzazione veramente militare delle bande, agli ordini del comando supremo» alle iniziative dei partiti «spesso rivolte al conseguimento dei propri fini».14 Sulla spinta all’attivismo incoraggiato dai comunisti, d’altro canto, pesano non solo le urgenze immediate della guerra di liberazione, ma anche le prospettive politiche che si aprirebbero con la radicalizzazione della lotta resistenziale e con il ruolo che in essa avrebbero le formazioni garibaldine. Entro questo quadro complesso di tendenze e di pressioni non è possibile generalizzare in modo schematico le posizioni, contrapponendo in modo rigido l’attivismo delle forze di sinistra all’attesismo di quelle moderate e degli ufficiali di carriera. Se è vero che all’interno dei gruppi moderati


prevale la prudenza, è altresì vero che questo non impedisce a cattolici e liberali di avere un ruolo attivo: «Uomini come Marazza e Malvestiti rifiutano di farsi portavoce nel CLN lombardo dell’attesismo gradito al cardinale Schuster; uomini come Antonicelli e Verzone rifiutano, per non dire ignorano, le pressioni attesistiche di certo capitalismo torinese»;15 né mancano monarchici intransigenti, come il marchese Felice Cordero di Pamparato, orgogliosamente pronto a «continuare a combattere se dopo la guerra avesse vinto la repubblica» e nel contempo comandante partigiano di grande prestigio, impiccato da un reparto di SS italiane, le mani legate dietro la schiena con il filo di ferro, nell’agosto 1944.16 Tale considerazione vale anche a proposito degli ufficiali, a partire dal gruppo bovesano, di cui un dirigente azionista come Dante Livio Bianco disapprova l’impronta marcatamente militare ma riconosce che «la distingueva un grande attivismo, un appariscente e rumoroso dinamismo, un fervore quasi febbrile di iniziative».17 Di fronte al problema dell’impostazione militare, la Resistenza dispiega in realtà il suo carattere di fenomeno complesso, dove le linee di tendenza che segnano i confini tra gli schieramenti politici non esauriscono l’esperienza individuale e non irrigidiscono l’ambito di scelta dei singoli: il campo del possibile, allargato a giro d’orizzonte dal dramma dell’8 settembre, continua a essere terreno aperto di confronto, ospitando una pluralità di attitudini comportamentali e di posizioni che, almeno in parte, trascendono le caratterizzazioni ideologiche. Se l’attesismo, nella versione dilazionatoria di burocratizzazione delle formazioni e rinuncia all’azione armata sino all’arrivo degli alleati, riesce in alcune situazioni regionali a trovare uno spazio all’interno del CLN, diversa è la risposta che trova nelle bande, dove è la condizione stessa della clandestinità a spingere all’azione. Dalla fine di settembre, gli effettivi si moltiplicano e la mappa del ribellismo


si ridisegna: le formazioni diventano progressivamente dei riferimenti, attraendo i più animosi, come il “partigiano Johnny” di Fenoglio;18 il radicamento territoriale permette di stabilire forme di collegamento con la popolazione civile, allargando l’afflusso di residenti; i bandi di reclutamento del governo repubblicano, che il 9 novembre annuncia la chiamata delle classe 1924 e 1925, inducono alla scelta ribellistica una parte dei renitenti. Nelle bande così ingrossate cresce il bisogno di armamento, di generi alimentari, di coperte e vestiario, di mezzi di sussistenza per affrontare l’inverno, impellenze per le quali non possono esser sufficienti i fondi raccolti dal CLN. I “colpi” condotti in pianura contro i magazzini e i depositi degli ammassi diventano dunque strumento di sopravvivenza, così come gli assalti a posti di blocco, a piccole pattuglie, a militari tedeschi o fascisti repubblicani isolati per procurarsi armi e munizioni. Le azioni partigiane, a loro volta, provocano le reazioni nazifasciste, alzando il livello dello scontro: l’attivismo diventa conseguenza diretta del ribellismo e ne detta i comportamenti. Ma c’è anche un’altra ragione, legata alla dimensione “culturale” del fenomeno resistenziale, che rende poco credibili i programmi di burocratizzazione, ed è la rappresentazione della gerarchia maturata all’interno delle bande. Il ribellismo non è un’esperienza di coercizione, ma un’esperienza libera e totale, che seleziona sul campo i suoi militanti e i suoi quadri sulla base delle qualità fisiche e morali necessarie per superare un ciclo operativo. La riproposizione automatica di rapporti gerarchici sulla base dei gradi raggiunti nel Regio esercito, che pure viene tentata nelle prime settimane, contraddice la natura stessa della banda, dove «il controllo degli ordini è immediato e il collettivo ha il diritto sulla decisione finale nelle controversie e il potere reale di stabilire le norme generali».19 Questo non significa l’assenza di gerarchia, ma l’attribuzione delle funzioni di comando


in base a un consenso conquistato con i comportamenti quotidiani: a far “riconoscere” il comandante sono soprattutto la sua personalità, la sua capacità di organizzare e dirigere in modo persuasivo, la sua competenza militare, una commistione di coraggio, dinamismo, istruzione e senso pratico che ne costituiscono il carisma e ne legittimano la nomina a capo guerrigliero. Il modello non è univoco e i profili psicologici dei comandanti partigiani offrono un ventaglio di attitudini diverse: c’è chi si afferma per le sue capacità di razionalizzazione e il senso della misura, chi per il coraggio, chi per la solidità morale necessaria a sostenere l’urto degli attacchi nemici, chi per la professionalità precedentemente acquisita in guerra; com’è ovvio, non manca neppure chi detiene il comando senza averne le capacità, e mantiene il ruolo sino a quando le prove più dure non ne mettono in evidenza i limiti. Per tutti si tratta, comunque, di un’investitura che deve essere suffragata dall’esperienza sul campo, condizione che caratterizza sia le prime bande politicizzate (che rifiutano con energia ogni formalismo ereditato dalla tradizione dell’esercito), sia le bande “militari”, dove il rispetto della gerarchia presuppone la legittimazione della gerarchia stessa. Gli ufficiali costituiscono i riferimenti naturali per le loro competenze specifiche e il loro contributo è sollecitato anche dalle formazioni più critiche verso la cultura militare: «Malgrado il loro antimilitarismo, i “politici” sentivano bene l’opportunità di una direzione militare, messa nelle mani di tecnici capaci, energici e coraggiosi: e furono proprio essi a ricercare degli ufficiali superiori, per invitarli a venire in montagna e portare il contributo della loro competenza, esperienza e prestigio militare nelle formazioni».20 A rimanere nelle bande sono però solo coloro che si rivelano in grado di adattarsi alle esigenze della guerra irregolare e a legittimarsi attraverso l’azione, indipendentemente dal fatto che rinuncino agli aspetti più spiccatamente


militari della loro educazione o che, al contrario, li trasmettano ai propri uomini.

Militari e politici Accanto al problema dell’impostazione strategica della lotta, un altro terreno di confronto è costituito dal carattere del movimento resistenziale, secondo gli uni essenzialmente militare, secondo gli altri militare e politico insieme. L’apoliticità della lotta partigiana è rivendicata con forza dai gruppi dove è prevalente la presenza dei militari: la guerra è avvertita come guerra di liberazione, condotta contro i tedeschi occupanti e i collaborazionisti di Salò, in nome della fedeltà al governo legittimo del Regno del Sud e al giuramento prestato. L’intreccio del motivo patriottico con quello monarchicomilitaristico porta queste formazioni a considerarsi «reparti dell’esercito regio in territorio occupato dal nemico» e a guardare con iniziale sospetto al ruolo di coordinamento dei politici; in un secondo tempo, a mano a mano che l’estendersi dell’autorità del CLN impone un collegamento partitico, esse stabiliscono rapporti con il partito liberale o, come le “Osoppo” in Friuli e le “Fiamme verdi” in Lombardia, con la Democrazia cristiana. Gli attributi utilizzati per qualificare queste bande sono “bianche”, “badogliane”, “monarchiche”, “militari”, sino alla denominazione ufficiale di “autonome”. Alla rivendicazione di apoliticità degli “autonomi” si contrappongono le formazioni legate ai partiti di sinistra, che vedono la guerra di liberazione «non come una guerra tra stati, ma come una vera guerra civile, una guerra ideologica e politica quant’altra mai, destinata non solo a cacciare i tedeschi invasori e a eliminare i traditori fascisti, ma a gettare le basi per un nuovo ordine politico e sociale […]. Dunque, niente apoliticità delle formazioni, ma


anzi necessità assoluta di una coscienza politica, di una consapevolezza delle ragioni profonde della lotta e degli obiettivi veri da raggiungere».21 Con questa impostazione, pur nella diversità di programmi, si sono costituite sin dalle prime settimane le formazioni garibaldine e quelle azioniste: più tardi sorgono le Matteotti, legate al partito socialista (la prima brigata d’assalto Matteotti si costituisce a metà dicembre nella zona del Grappa). L’identificazione tra le formazioni e i rispettivi partiti non è formalmente rigida, perché il reclutamento non avviene sulla base di canali di partito, ma il rapporto è stretto, garantito dal ruolo dei comandanti e dalla presenza dei commissari politici. Ereditata dall’esperienza della guerra di Spagna, la figura del commissario è finalizzata alla formazione politica dei combattenti: «Il commissario è l’uomo che cura il morale dei combattenti, il loro orientamento, l’uomo che tiene l’ora di educazione politica ai partigiani, informandoli innanzitutto sull’andamento della guerra, sugli avvenimenti più recenti, sugli obiettivi della lotta di liberazione, sulle parole d’ordine del CLN».22 Il ruolo di orientamento del commissario è evidente, anche perché si

tratta quasi sempre di un quadro dirigente: ne consegue un rapporto stretto tra formazioni e partito, più marcati nelle file comuniste dove «non vi è in pratica una netta distinzione tra direzione del PCI al nord e comando generale delle Garibaldi»,23 ma è evidente anche tra gli azionisti, come dimostra il tentativo delle formazioni “GL”, dopo il giugno 1944, di superare l’identificazione con il PDA, autodefinendosi «politiche ma non partitiche» e cercando di assumere una funzione di centro, tra l’estremismo, militarmente poco valido, delle Garibaldi e l’efficientismo militare, con eccessivo difetto di sensibilità politica, delle formazioni autonome.24

La guerriglia partigiana nell’inverno 1943-44


Nel corso dell’inverno, mentre si sviluppano i processi di chiarimento sul ruolo politico e militare delle bande, la mappa del ribellismo va specificandosi. La chiamata alle armi delle classi 1924-26 sortisce un effetto diverso da quello atteso dal governo di Salò: su 180 000 giovani in età di leva, solo 87 000 si presentano ai distretti. Per le formazioni, questo significa un flusso consistente di nuove reclute, che non coinvolge la maggioranza dei renitenti, ma si assomma a quanti si uniscono alla resistenza attiva per l’opera di proselitismo dell’antifascismo organizzato o per il richiamo esercitato dalla guerriglia antitedesca (in particolare, il riferimento è ai soldati di origine polacca, cecoslovacca, sovietica, che per uscire dai campi di prigionia hanno accettato di combattere in reparti inquadrati della Wehrmacht e che colgono ora l’occasione per disertare e unirsi alle bande, dando un singolare carattere “internazionale” al ribellismo partigiano). Le cifre più accreditate indicano una consistenza di circa 15 000 combattenti partigiani all’inizio del 1944, cui si aggiungono alcune migliaia di fiancheggiatori (staffette, informatori, collaboratori a vario livello). Il Piemonte rimane la regione guida, con zone di influenza dai confini abbastanza definiti: gli autonomi nella parte meridionale della regione e nelle vallate affacciate su Torino (val Chisone e val Sangone); i giellisti nella provincia cuneese occidentale; i garibaldini nella val Varaita, nella valle del Po, nelle valli di Susa e di Lanzo, nel biellese e nella Valsesia. In Lombardia permangono le difficoltà del primo periodo: mentre Milano si avvia a diventare il centro politico del movimento, le formazioni restano limitate all’area bergamasca, con prevalenza garibaldina e giellista, e a quella bresciana, dove l’arciprete di Civitate, don Carlo Comensoli, e il capitano degli alpini Romolo Bagnoli, organizzano le “Fiamme verdi” cattoliche. Nel Triveneto, le trasformazioni rispetto alle prime settimane sono più evidenti: al confine orientale finisce «l’illusione garibaldina dell’internazionalismo


comunista», di fronte ai contrasti con le formazioni slave e lo scioglimento imposto ai gruppi italiani; nella zona di Udine si affermano invece le formazioni cattoliche, mentre i giellisti cercano di mediare tra «garibaldini e cattolici stando dentro e non fuori delle formazioni rivali». In Liguria il ribellismo è numericamente poco rilevante, ma con radici profonde, gielliste in Lunigiana e garibaldine nell’entroterra genovese. Povera la realtà emiliana, con esperienze garibaldine nel ravennate e nel reggiano e gielliste nel piacentino, mentre in Toscana gli epicentri sono la lucchesia, il grossetano e i colli fiorentini.25 Nell’Italia centrale la situazione è più complessa: mentre nel Lazio prevalgono le tendenze all’attesismo, favorite dalla presenza di ufficiali legati al comando militate di Brindisi, il ribellismo è vivace in Umbria e nelle regioni adriatiche, là dove costituisce una minaccia più grave per i tedeschi perché immediatamente alle spalle del fronte. La presenza delle formazioni è avvertita dalle autorità germaniche e fasciste: il 9 febbraio Mussolini scrive che «dalle segnalazioni della Guardia nazionale repubblicana appare ormai che il fenomeno ribellistico assume nell’Italia centrale un aspetto molto più inquietante che nelle valli alpine. Qui il fenomeno è periferico: nell’Italia centrale può tagliare le comunicazioni tra nord e sud, tra la valle del Po e Roma».26 Si tratta di bande penalizzate da un armamento inadeguato, con un certo numero di nuove reclute praticamente disarmate. Azioni di sabotaggio di una certa rilevanza e attacchi mirati vengono, tuttavia, compiuti in varie zone: a dicembre vengono minati un viadotto sulla Roma-Cassino e il ponte delle Sette Luci vicino a Pomezia; la vigilia di Natale salta il ponte di Vernante nella valle Vermenagna, interrompendo le comunicazioni ferroviarie tra il Piemonte e la Francia meridionale; sabotaggi minori ma sistematici vengono effettuati sulle linee ferroviarie del Frejus e del Sempione; il 19 gennaio il distaccamento Gramsci


fa saltare i trasformatori della centrale elettrica di Bellisio, nel pesarese, paralizzando per oltre un mese l’attività nella miniera di zolfo di Cabernardi; treni carichi di munizioni sono fatti deragliare a Bolzano, a Thiene, a Orte. L’attivismo non tarda a suscitare le reazioni tedesche: tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, gli epicentri della guerriglia sono investiti dai rastrellamenti,

condotti

da

grosse

colonne

che

non

agiscono

contemporaneamente su un intero settore, ma si dirigono in modo mirato contro singole formazioni. Le vallate del cuneese, quelle del novarese, il Friuli sono teatro di operazioni rapide e drammatiche: «La tattica usata dai tedeschi è assai semplice. Si usa il massimo volume di fuoco, batterie d’artiglieria pesante, mezzi blindati, aviazione leggera contro gruppi di partigiani che non superano il centinaio di effettivi: annientate le bande si completa l’opera ripulendo l’ambiente, dando alle fiamme i paesi che le hanno ospitate».27 I rastrellamenti colpiscono un movimento che è in fase ancora iniziale e che non ha esperienza di guerriglia. In molte circostanze, all’attacco tedesco viene opposta la difesa rigida e concentrata anziché lo sganciamento per piccoli nuclei, con il risultato che le poche postazioni difensive di mitragliatrici sono spazzate via dai tiri dei mortai e le bande si trovano presto accerchiate dai distaccamenti nemici che avanzano a raggiera sulle coste montagnose: «Si era ancora troppo inclini alla tattica del difesa rigida. Non vi era sufficiente esperienza della guerriglia e i partigiani si sentivano forti se uniti, ma così facilitavano la repressione dei rastrellatori».28

I GAP e la guerriglia in città Nell’inverno 1943-44 i risultati più clamorosi della lotta antinazista sono conseguiti dalle azioni terroristiche in città, compiute dai GAP (Gruppi armati


partigiani). Organizzati dal PCI con una decisione che precede quella di costituire i distaccamenti Garibaldi e sulla base dell’esperienza della guerra civile spagnola e dei maquisards francesi, i nuclei GAP sono costituiti da trequattro uomini con il compito immediato di compiere azioni esemplari nei grandi centri urbani contro soldati tedeschi e dirigenti fascisti o contro strutture militari e, in prospettiva, di proteggere con unità armate uno sciopero o una manifestazione di massa: l’obiettivo, politico e insieme militare, corrisponde alla strategia comunista di sollevare il livello dello scontro, destabilizzando il potere occupazionale tedesco e la normalizzazione di Salò e contrastando le tendenze attendiste presenti nel fronte antifascista. Il reclutamento non è semplice, neppure tra i quadri e i militanti di partito: «Il gappista deve non solo saper maneggiare bene la pistola, ma fabbricare una bomba, dell’esplosivo, deve sapere star nascosto, senza contatti anche per molto tempo, non avere mai fretta e non perdere mai l’occasione buona».29 Alle difficoltà tecniche si aggiungono le remore psicologiche di fronte al terrorismo, come ricorda Francesco Scotti, organizzatore dei GAP milanesi: «Più di uno sosteneva che non era giusto scatenare il terrore individuale. Non è facile per una persona onesta colpire a sangue freddo un uomo, sia pure un militare tedesco o una spia fascista».30 I primi nuclei sono così formati da reduci delle brigate internazionali di Spagna, come lo stesso Scotti, Ilio Barontini, Angelo Spada, Egisto Rubini, o da militanti di provata esperienza, come i fiorentini Elio Chianesi e Alessandro Sinigaglia o il genovese Giacomo Buranello. Le azioni gappiste suscitano grande impressione. A Torino vengono dapprima uccisi i miliziani Domenico Guardina e Aldo Mores, quindi, all’inizio di gennaio, sotto i portici del centralissimo corso Vittorio Emanuele, Giovanni Pesce fredda a colpi di pistola quattro ufficiali germanici. A Milano viene ucciso in pieno giorno il federale Aldo Resega; a


Firenze, il comandante del distretto militare; a Bologna, il federale Eugenio Facchini; a Roma, i gappisti organizzati da Antonello Trombadori attaccano gruppi di militi tedeschi in piena città, dinanzi agli alberghi requisiti. Si tratta di azioni che creano insicurezza tra le forze nazifasciste e la risposta agli attentati non si fa attendere: a Milano, su sollecitazione del ministro degli Interni di Salò, Guido Buffarini Guidi, nove detenuti politici vengono fucilati all’Arena per vendicare l’uccisione di Resega; altrove sono i tedeschi a prendere l’iniziativa con rappresaglie che non risparmiano la popolazione civile (di qui le divergenze all’interno del fronte antifascista sull’opportunità del terrorismo partigiano). Si tratta di episodi drammatici, alcuni dei quali saranno trasformati in patrimonio della coscienza nazionale. Uno dei più emblematici avviene in Emilia: l’uccisione del segretario comunale di Bagnolo, nel reggiano, porta alle esecuzioni del 28 dicembre, in cui cadono i sette figli di Alcide Cervi. La rappresaglia più feroce si ha, tuttavia, a Roma. Il 23 marzo una colonna tedesca che transita in via Rasella viene investita dallo scoppio di una bomba e dal fuoco dei partigiani appostati in una via trasversale, che provocano trentadue morti e numerosi feriti, uno dei quali spira poco dopo. La risposta concertata tra Kesselring e il responsabile delle SS a Roma, Herbert Kappler, porta al rastrellamento nelle carceri di 335 detenuti (alcuni consegnati direttamente dal questore Pietro Caruso): gli ostaggi sono condotti sulla via Ardeatina, fucilati alla nuca, poi gettati in una cava che viene fatta esplodere. Tra i caduti, dirigenti di partito come il comunista Gioacchino Gesmundo e l’azionista Pilo Albertelli, ufficiali come il generale Dardano Fenulli e il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, operai come Armando Bussi e Valerio Fortunato. A esecuzione avvenuta, il comando tedesco emette un comunicato in cui attribuisce la responsabilità dell’attentato di via Rasella ai «comunisti


badogliani» e ribadisce la «volontà di stroncare l’attività di questi banditi scellerati», per poi concludere: «Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il comando tedesco ha perciò ordinato che per ogni tedesco assassinato, dieci comunisti badogliani siano fucilati. Questo ordine è già stato eseguito».31

Le lotte operaie Parallelamente al fenomeno della resistenza armata, nell’inverno 1943-44 si sviluppa un nuovo ciclo di lotte sociali che coinvolge i grandi centri industriali del nord. All’origine delle manifestazioni ci sono le difficoltà della condizione operaia, aggravate dalla nuova situazione occupazionale: la pressione del fabbisogno alimentare aumenta infatti per le requisizioni dell’esercito tedesco e per la perdita delle regioni meridionali, che determinano la rarefazione dei generi razionati e la dilatazione del mercato nero. Le agitazioni partono a metà novembre da Torino, in seguito a un comunicato della Fiat che posticipa di dodici giorni la liquidazione delle competenze di ottobre; il giorno 15 si ferma l’officina 17 di Mirafiori, il mattino successivo le officine di produzione 7 e 8, il pomeriggio del 16 lo sciopero si estende a tutta Mirafiori, innescando un processo a catena che a partire dal 18 coinvolge molte aziende dell’area torinese e delle zone industriali della regione. Si tratta di agitazioni frammentate: non scioperi di tutta la giornata, ma interruzioni di durata variabile, sufficienti comunque a disegnare un quadro di fermento generalizzato.32 A Milano il movimento parte negli stessi giorni dalla Breda e dalla Magnaghi e si estende progressivamente sino a generalizzarsi tra il 13 e il 19 dicembre con uno sciopero che coinvolge officine siderurgiche, metallurgiche, meccaniche ed


elettriche della città e della provincia. A Genova le agitazioni partono a fine novembre, concentrate nelle aree industriali di Sampierdarena e di Voltri. La genesi delle manifestazioni è in gran parte spontanea, frutto di ragioni interne alla condizione operaia, ed esse si sviluppano indipendentemente dal ruolo organizzativo e direttivo delle forze politiche. La priorità data allo sviluppo della lotta armata dal

PCI

(l’unica forza organizzata all’interno delle

fabbriche) e le urgenze del CLN nel definire una strategia resistenziale unitaria portano a una «dicotomia tra spinta operaia e prospettive politiche».33 Questa impostazione è evidente nel carattere delle rivendicazioni, che trascurano le parole d’ordine di carattere politico per spaiare invece dall’aumento dei salari a quello delle razioni alimentari, alle centonovantadue ore di gratifica natalizia, ai minimi settimanali garantiti per le categorie più deboli. I risultati delle agitazioni, tuttavia, vanno al di là delle premesse da cui partono e non si esauriscono nell’ambito rivendicativo sindacale. Sul piano retributivo, le lotte risultano paganti e portano ad accordi che hanno come soggetti principali le autorità tedesche e il grande capitale, per motivi diversi interessati a mantenere la pace sociale e i livelli produttivi: vengono concessi aumenti salariali del 30 per cento estesi a tutte le maestranze del nord, oltre a contributi in viveri che aziende e comandi militari si impegnano a versare. Sul piano politico, il dato significativo è la delegittimazione del sindacalismo fascista: gli organi di rappresentanza introdotti dal governo di Salò si dimostrano incapaci di fronteggiare l’emergenza e i tedeschi si pongono come interlocutori diretti. A Torino, ad esempio, è il generale delle SS Zimmermann a condurre le trattative, con la duplice tattica delle minacce (deportazioni, licenziamenti, rappresaglie) e di concessioni salariali. In questo modo, è la stessa Repubblica sociale a subire una caduta di credibilità. In questo intreccio di elementi, la lotta operaia nei centri industriali del nord


assume una valenza politica nel quadro della dialettica resistenziale: anche se sono limitati i casi in cui essa si incrocia direttamente con l’attività delle formazioni partigiane,34 introduce elementi di destabilizzazione in qualche misura paralleli agli effetti dello scontro armato, contribuendo a rompere la tregua politica e sociale e rafforzando la posizione di chi, all’interno del fronte antifascista, vuole allargare gli ambiti del movimento di liberazione.

Il rapporto con gli alleati Per la resistenza del nord, stabilire contatti diretti con gli angloamericani è di fondamentale importanza sia politica che militare: da un lato, si tratta infatti di conquistare legittimazione internazionale e accreditarsi come interlocutori, bilanciando il sostegno assicurato da Londra e da Washington al governo Badoglio; dall’altro, di ottenere aiuti concreti in armi e mezzi, nella consapevolezza che una guerriglia difficilmente può reggersi senza un appoggio esterno. Gli Alleati, a loro volta, sono sensibili al problema dei rapporti con gli “irregolari” attivi dietro le linee nemiche. La Gran Bretagna nel 1940 ha creato un apposito organismo, il SOE (Special operations executive) per coordinare e stimolare azioni di sovversione e di sabotaggio nei paesi nemici; gli Stati Uniti, nel 1941, hanno assegnato funzioni analoghe alloro servizio di informazioni militari, l’OSS (Office of strategic services). I riferimenti immediati per i rapporti con l’Italia sono le due centrali svizzere di queste organizzazioni, entrambe con sede a Berna, di cui sono responsabili il britannico John McCaffery e l’americano Allen W. Dulles; a essi si affiancano gli organismi creati nell’Italia liberata, la Special Force britannica, agli ordini del colonnello Cecil L. Roseberry, e le missioni americane, coordinate dal colonnello William Eddy.35


A fare inizialmente da filtro tra la resistenza antifascista e gli angloamericani è il SIM, il Servizio informazioni militari costituito presso il comando supremo del Regno del Sud. Le notizie che il SIM è in grado di raccogliere sono però limitate alle zone più vicine al fronte, o a realtà come quella di Roma, dove opera il Fronte militare clandestino del colonnello Montezemolo, strettamente legato allo stato maggiore di Brindisi. Per avere informazioni dirette e attivare azioni di sabotaggio, gli inglesi organizzano, d’intesa con il governo Badoglio, alcune missioni da inviare nell’Italia occupata, che sino al giugno 1944 saranno composte esclusivamente da militari italiani; a loro volta, gli americani si appoggiano al gruppo ORI (Organizzazione della resistenza italiana), costituito dall’azionista Raimondo Craveri. Oltre a questi canali, c’è l’organizzazione Franchi di Edgardo Sogno, direttamente collegata ai servizi segreti alleati, e organizzazioni sorte per iniziative locali, come la Otto (dal nome del fondatore, il medico genovese Ottorino Balduzzi). L’insieme di queste iniziative tende a stabilire un contatto diretto con le bande anziché con il CLN: «Era logico che il SO preferisse avere rapporti con le singole formazioni, garantendosi così la supremazia sulle attività militari».36 Per la ragione opposta, i rappresentanti del CLN vogliono, invece, stabilire rapporti diplomatici e legittimarsi come direzione politica della resistenza armata, andando al di là di un’impostazione puramente militare della collaborazione. In questa direzione si muovono fin da metà settembre alcuni fuorusciti italiani rifugiati in Svizzera, tra i quali il socialista Rodolfo Morandi e gli azionisti Alberto Damani, Adolfo Tino ed Ernesto Rossi, che contattano la delegazione di Berna. In questa fase è il PDA a gestire in modo pressoché esclusivo gli sforzi diplomatici, e il 3 novembre sono infatti Ferruccio Parri e Leo Valiani a incontrarsi nei pressi di Lugano con Dulles e


McCaffery per il primo contatto ad alto livello. Durante i colloqui, Parri espone senza reticenze il punto di vista azionista, con le pregiudiziali antibadogliane e l’invito agli Alleati ad appoggiarsi alle forze progressiste e liberalsocialiste, e richiede un aiuto tramite aviolanci alle unità partigiane sulle montagne. L’impostazione è diversa da quella voluta dagli angloamericani, per i quali l’attività partigiana non deve mirare a creare un esercito popolare ma limitarsi a fornire informazioni e a effettuare atti di sabotaggio isolati: i due funzionari garantiscono comunque aiuti immediati e la delegazione italiana rientra a Milano con la convinzione di aver raggiunto il risultato voluto, mentre a Brindisi serpeggia il malumore per un’iniziativa che scavalca il governo del sud. Al di là dell’ottimismo di Parri e Valiani, il rapporto tra Alleati e Resistenza è tuttavia destinato a un’evoluzione lenta e non sempre lineare. In primo luogo, bisogna tenere presente la situazione generale della campagna d’Italia, che detta urgenze e priorità: tramontata l’ipotesi dell’immediata liberazione di Roma e di una rapida avanzata sino ai limiti della Pianura padana, l’attività partigiana nell’Italia settentrionale assume un’importanza secondaria, mentre nello scacchiere militarmente decisivo (Lazio e Abruzzo, nelle immediate vicinanze del fronte) la resistenza armata stenta a raggiungere una consistenza adeguata agli impegni. In secondo luogo, l’informazione sulla dislocazione delle bande e sulla loro potenzialità è frammentaria, condizionata dal fatto che le prime missioni «vanno a casaccio presso le unità partigiane» e che «la situazione nelle aree ribellistiche è spesso molto fluida».37 In terzo luogo, pesano nei rapporti le divisioni all’interno delle formazioni antifasciste, che ne indeboliscono la forza contrattuale. A questi problemi si aggiunge quello più generale della valutazione delle connotazioni politiche assunte dalla Resistenza italiana. Il


riconoscimento del

CLN

come referente privilegiato contraddirebbe il

sostegno al governo Badoglio; inoltre nel nord il quadro politico dell’antifascismo è passibile di sviluppi imprevedibili, e il “peso” delle forze moderate ancora indefinito. Da tutto questo scaturisce un atteggiamento di attesa, che fa rinviare i primi lanci (peraltro limitati) al mese di dicembre e che tende a scavalcare il CLN per stabilire contatti diretti con le formazioni. A fine febbraio, Parri riassume con rammarico la situazione: «Prima c’è stato l’assenteismo, che ha significato l’afflosciamento di molte situazioni promettenti soprattutto lombarde e venete; poi, ci sono stati lanci effettuati in modo disorganico e confusionario, con un’effettiva, forse deliberata, azione per scartare tutti gli organi centrali e controllare direttamente il movimento».38 Le incomprensioni sono d’altra parte insite nelle diverse ottiche di partenza e nel contrasto tra la dimensione essenzialmente militare privilegiata dagli Alleati e quella che coniuga lotta politica e lotta armata sostenuta dalle forze progressiste dell’antifascismo: in questo senso, le divergenze sono inevitabili e destinate a prolungarsi, pur con fasi alterne, sino alla primavera 1945.


1

“Liberazione” (bollettino del Comitato di liberazione dell’Italia settentrionale), 1, 15 ottobre 1943. 2 Mario Giovana, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, Feltrinelli, Milano 1962, p. 28. 3 Direttive per i distaccamenti partigiani, settembre 1943, in Giampiero Carocci, Gaetano Grassi (a cura di), Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, Feltrinelli, Milano 1979, vol. I, p. 102. 4

Le lettera di Pietro Secchia, scritta a Milano e diretta al centro di Roma, è in Pietro Secchia, Il partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, in “Annali dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli”, Feltrinelli, Milano 1971, p. 101. 5 A completamento di questa struttura di vertice vengono nominati due ispettori generali: Antonio Roasio, incaricato di organizzare il movimento nel Veneto, nell’Emilia e in Toscana, e Francesco Scotti, responsabile per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Ispettori generali delle Garibaldi saranno successivamente anche Antonio Cicalini, Antonio Carini, Francesco Leone, Giorgio Amendola e Umberto Massola. 6 Giampiero Carocci, Gaetano Grassi (a cura di), Le Brigate Garibaldi, cit., vol. I, p. 138. 7

Direttive per l’organizzazione e l’attività militare delle bande, 8 novembre 1943, in Giovanni De Luna (a cura di), Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti, Angeli, Milano 1985, p. 53. 8 Dante Livio Bianco, Guerra partigiana, cit., p. 33. 9 Leo Valiani, Il Partito d’Azione, in Leo Valiani, Azionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Angeli, Milano 1971, p. 87. 10 Giovanni De Luna, Nota introduttiva, in Giovanni De Luna (a cura di), Le formazioni GL nella Resistenza, cit., p. 21. 11

Giorgio Rochat, Nota storica, in Giorgio Rochat (a cura di), Atti del comando generale del Corpo volontari della libertà, Angeli, Milano 1972,


p. 4. 12

Mario Giovana, La Resistenza in Piemonte, cit., p. 36. 13 Ivi, p. 50. 14 La citazione è tratta dall’ordine di operazioni n. 333, emanato dal comando supremo del sud nel dicembre 1943 (riportato in Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., pp. 130-31). 15 Ivi, p. 138. 16 Cfr. Gianni Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., pp. 248-52. 17 Dante Livio Bianco, Guerra partigiana, cit., p. 29. 18 Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, cit., pp. 34-35. 19 Dante Livio Bianco, Guerra partigiana, cit., p. 52. 20 Ivi, p. 23. 21 Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., p. 123. 22 Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, cit., vol. V, p. 190. 23

Ivi, p. 179. 24 Giovanni De Luna, Storia del Partito d’azione, cit., p, 297. 25 Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., pp. 103-113 (censimento al dicembre 1943) e pp. 297-30 (censimento al 30 aprile 1944). 26 Frederick W. Deakin, La repubblica di Salò, cit., p. 644. 27 Roberto Battaglia, Storia della resistenza italiana, cit., p. 204. 28 Pietro Secchia, Cino Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit., p. 146. 29 Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, cit., vol. V, p. 182. Il primo documento in cui si fa riferimento ai GAP è una lettera dell’aprile 1943 di Antonio Roasio, uno dei tre responsabili del centro interno del PCI, in cui si fa presente a tutte le strutture periferiche del partito l’urgente necessità di attrezzare «i militanti alla lotta armata a mezzo dell’organizzazione di “Gruppi di azione patriottica”, capaci di condurre azioni di sabotaggio delle attrezzature militari e contro i massimi dirigenti del partito fascista»: cfr.


Santo Peli, Storie di GAP. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, Torino 2014. 30

Francesco Scotti, La nascita delle formazioni, in Aa.Vv., La Resistenza in Lombardia, Labor, Milano 1965, pp. 69-70. 31 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 264. 32 Claudio Dellavalle, Le lotte operaie: Torino, in Aa.Vv., Operai e contadini nella Resistenza, Feltrinelli, Milano 1975, p. 193. 33 Antonio Gibelli e Massimo Ilardi, Le lotte operaie: Genova, in Aa.Vv., Operai e contadini, cit., p. 85. 34 Un caso tipico è quello del biellese, dove gli scioperi dell’inverno 1943-44 ridanno slancio all’attività dei distaccamenti garibaldini, saldando l’esperienza della lotta di fabbrica con quella della lotta armata partigiana (Anello Poma, Gianni Perona, La Resistenza nel biellese, Guanda, Parma 1974, pp. 92 e sgg.). 35 John McCaffery è uno scozzese che prima del conflitto ha studiato a Roma ed è stato lettore all’università di Genova; Alles W. Dulles è il fratello del futuro segretario di Stato di Eisenhower e nel dopoguerra dirigerà l’intera organizzazione dei servizi segreti americani. Quanto alla Special Force, è composta da ufficiali che conoscono direttamente l’Italia, come Max Salvadori, o che hanno comunque la preparazione linguistica necessaria (cfr. Massimo De Leonardis, La Gran Bretagna e la resistenza partigiana in Italia 1943-1945, ESI, Napoli 1988, pp. 89 e sgg.). 36

Ivi, p. 175. 37 La considerazione è del tenente colonnello John Stevens, dal novembre 1944 ufficiale di collegamento nelle Langhe e poi presso il CLN piemontese, in John Stevens, L’Inghilterra e la Resistenza italiana, in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, n. 80, 1965, p. 82. 38 Massimo De Leonardis, La Gran Bretagna e la Resistenza partigiana in Italia, cit., p. 165.


3 La Repubblica sociale

I limiti politici di Salò Il 14 novembre 1943 si riuniscono a Verona i delegati delle organizzazioni del PFR (Partito fascista repubblicano) per ascoltare il rapporto del segretario nazionale Pavolini: è la prima riunione generale del partito dopo la sua ricostituzione. In termini numerici, i delegati rappresentano circa 250 000 iscritti, un numero molto maggiore rispetto a coloro che, alla stessa data, combattono nelle formazioni partigiane; in termini qualitativi, si tratta però di un’assemblea composita, lo spaccato di un movimento che procede senza una linea precisa, tra inquietudini, radicalizzazioni e rivalse rancorose. «Vi sono vecchi fascisti, privati dei profitti degli uffici e delle cariche in successive epurazioni regionali; vi sono giovani e avviliti gruppi di militanti, passati attraverso le organizzazioni universitarie. Fu un confuso dibattito tra generazioni, tra sopravvissuti a un disastro, amareggiati e umiliati per il passato e incerti per un futuro ora minacciato dalla guerra civile.»1 I lavori procedono in un clima di confusione, tra appelli nostalgici per un ritorno allo squadrismo delle origini, invettive contro i traditori del 25 luglio, propositi contrastanti sulla struttura della nuova repubblica e progetti improvvisati di socializzazione. La riunione si conclude con l’approvazione frettolosa di un manifesto in diciotto punti predisposto da Pavolini d’intesa con Mussolini:


carta programmatica dello Stato neofascista, il documento si richiama alle premesse

antiplutocratiche

e

socialisteggianti

del

primo

fascismo

annunciando una prossima assemblea costituente in cu saranno gettate le basi per una riforma sociale «squisitamente umana e assolutamente italiana, riallacciantesi cioè alle secolari tradizioni del nostro umanesimo e mazzinianesimo nella sua essenza spirituale e risolvendo in modo totale e definitivo le necessità e le aspirazioni della classe lavoratrice».2 Il momento più significativo della riunione, tuttavia, è costituito dall’annuncio dell’assassinio del federale di Ferrara Igino Ghisellini (attribuito agli antifascisti, in realtà perpetrati dai suoi stessi camerati per contrasti interni), cui i delegati rispondono infiammandosi di rabbia e rivendicando un’immediata spedizione punitiva: squadre d’azione partono subito dopo da Verona dirette in Romagna, e a Ferrara massacrano diciassette antifascisti, segnando una svolta decisiva nell’atteggiamento della Repubblica sociale verso gli oppositori. Se nelle settimane immediatamente successive all’armistizio ci sono state spinte alla riconciliazione ampiamente propagandate dalla stampa, la spedizione di Ferrara chiude ogni prospettiva di accordi. Il terreno della guerra civile, d’altra parte, è l’unico in grado di garantire un denominatore comune a gruppi privi di coesione e di controllo: la mancanza di prestigio da parte del potere centrale crea inevitabilmente un’atmosfera di rivalità personali e di intrighi, che contrappongono l’uno all’altro Pavolini, Graziani, Ricci, Buffarini Guidi. In questo quadro, l’esaltazione dell’aggressività in funzione antipartigiana, contro i “nemici” e contro i “traditori”, soddisfa all’esigenza di un fronte comune sul quale convergere. L’incapacità

progettuale

emersa

a

Verona

e

l’impostazione

movimentistica cui si è fatto ricorso per garantirne gli esiti, riflettono le


difficoltà nelle quali si dibatte la Repubblica di Salò, costituita in funzione di una normalizzazione dell’Italia occupata ma, nel contempo, delegittimata da quella stessa presenza tedesca che l’ha imposta e che la sostiene. Come scrive Mussolini a Hitler all’inizio di ottobre: «Ho il dovere di segnalarvi che i comandi tedeschi emanano ordinanze a getto continuo, in materie che interessano la vita civile, e spesso queste ordinanze sono in contrasto dall’una all’altra provincia. Le autorità civili italiane vengono ignorate e la popolazione ha l’impressione che il governo fascista repubblicano non abbia alcuna autorità, nemmeno in materie assolutamente estranee all’attività militare».3 L’insuccesso dei tentativi di Mussolini di conservare la capitale a Roma hanno sancito simbolicamente la subalternità del nuovo Stato, la cui macchina burocratica è stata frettolosamente trasferita e sparpagliata tra i laghi del nord: «La sede di governo scelta per Mussolini dalle autorità militari tedesche consiste in un gruppo di ville poste sulla sponda occidentale del lago di Garda. La famiglia di Mussolini è sistemata nella villa Feltrinelli a Gargnano, la segreteria in una villa accanto, la presidenza del consiglio a Bogliaco. I vari ministeri sono accampati disordinatamente in tutta la regione. Gli Interni a Maderno, sul lago di Garda, e così la segreteria del partito; gli Esteri vicino alla cittadina di Salò, dalla quale il nuovo regime prende il nome; il ministero della Difesa a Cremona, l’Economia e le Corporazioni a Verona, l’Agricoltura a Treviso, l’Educazione nazionale a Padova; la Cultura popolare nei primi tempi si sistema in un vecchio treno reale sistemato su un binario morto vicino al lago».4 Nella coscienza popolare la costituzione dello Stato di Salò viene percepita in forma contraddittoria. Dopo l’emergenza dell’armistizio e il dilagare delle truppe germaniche, la ricostituzione di un’autorità statale rappresenta una forma di garanzia per gli attendisti e i timorosi, per i quali il


ristabilimento di un riferimento istituzionale rappresenta un alibi di apparente neutralità. Se è vero che la RSI si presenta in termini di rottura rispetto al vecchio Stato monarchico, è altrettanto vero che i prefetti, i carabinieri, i funzionari rappresentano comunque la continuità di un’autorità statale cui delegare l’organizzazione della vita collettiva: «La normalizzazione operata dalla RSI non va intesa come reale ristabilimento di un ordine fondato su un sufficiente tasso di certezza del diritto, bensì come ottenuta acquiescenza, entro certi limiti, ai comandi di un’autorità sopravvenuta a riempire in qualche modo il pauroso vuoto venutosi a creare dopo l’8 settembre».5 In contrasto con questo elemento di consenso, ci sono tuttavia i dubbi che circondano il riproporsi dei fascisti in quanto tali, i timori per il conseguente protrarsi dell’impegno militare, le riserve suscitate da atteggiamenti di esibizione che contraddicono il bisogno di normalità da cui la Repubblica sociale può trarre legittimazione. Tra gli stessi quadri del regime non c’è unanimità nell’aderire al nuovo partito, tanto che Pavolini fissa al 1° dicembre il termine ultimo per l’iscrizione, pena la perdita della qualifica di squadrista e dei privilegi economici e morali connessi al titolo. A iscriversi sono invece elementi compositi, molti dei quali trovano un denominatore comune

nell’ansia

di

sfruttare

l’occasione

di

rivincita

offerta

dall’occupazione tedesca. Le motivazioni psicologiche, prima ancora che politiche, determinano atteggiamenti di contrapposizione rispetto a quanto rappresenta il “passato” e il “tradimento” e da qui discende la dimensione immediata di guerra civile entro la quale operano i fascisti di Salò: «Apparivano atletici», li descrive Fenoglio ne Il partigiano Johnny, «modernissimi, germanlike, tutti con sorrisi di esplodente fiducia, con un risultato visivo verminoso, apertamente, deliberatamente fratricida. L’acme era contenuto nelle foto dei legionari della Ettore Muti, parabellum a tracolla


di veri maglioni da sciatori, col fregio stagnoso del teschio. Erano reparti sbilanciati, all’esame composti di vecchi e di bambini, veterani, novizi e mascotte».6

L’apparato militare La contraddittorietà dell’immagine della Repubblica sociale e la mancanza di autonomia rispetto alle forze d’occupazione germaniche si intrecciano con le debolezze interne del nuovo apparato statale. La questione dalla quale traspaiono più evidenti questi limiti è la ricostituzione di una forza armata. Il 16 settembre il Duce annuncia per radio che il contributo italiano alla difesa sarà la creazione di un esercito di partito formato dalla milizia nazionale e posto sotto il comando di Renato Ricci; all’inizio di ottobre il maresciallo Graziani, nominato ministro della Difesa nazionale, contrappone però il progetto di un esercito regolare repubblicano, con divisioni costituite in parte di volontari reclutati nei campi di internamento in Germania, in parte di coscritti delle classi più giovani. La milizia risponde all’obiettivo di disporre di una forza armata fortemente politicizzata da impiegare in servizi di polizia, l’esercito di Graziani ambisce a riacquistare un ruolo militare nell’alleanza. L’idea di Graziani non piace a Ricci e Pavolini, preoccupati per il potere che deriverebbe al maresciallo dalla creazione di un vero esercito, e preoccupa i tedeschi per il rischio di interferenze con le proprie operazioni militari. Mussolini, oscillante tra le due ipotesi e ormai incapace a controllare le rivalità tra i suoi dirigenti, promuove una confusa mediazione che porta alla dispersione delle forze in una molteplicità di apparati non coordinati tra loro. Il progetto Graziani si trasforma nella costituzione di sole quattro divisioni da addestrare in Germania; la milizia di Ricci viene organizzata a


fine novembre nella GNR (Guardia nazionale repubblicana), una specie di polizia nella quale confluiscono carabinieri e miliziani. A queste forze vanno poi aggiunte le squadre d’azione, costituitesi per «difendere la vita del partito e quella dei suoi aderenti» organizzate da Pavolini in gennaio con la creazione presso ogni federazione di un «Centro arruolamento volontari per il combattimento», del quale devono far parte tutti i fascisti repubblicani tra i 17 e i 37 anni.7 Un reparto a sé è poi costituito dagli uomini del principe Junio Valerio Borghese, che recluta oltre quattromila marinai e dà all’unità l’antico nome di “San Marco”, e con la quale egli si dedica a «una sua guerra quasi privata contro i partigiani, inadeguatamente controllato sia dai tedeschi, sia dalla Guardia repubblicana».8 Accanto a queste forze, che almeno formalmente dipendono dal governo di Salò, ci sono i reparti delle SS italiane, inizialmente circa novemila uomini reclutati dai tedeschi tra i soldati fatti prigionieri dopo l’armistizio e comandati dal generale Wolff: si tratta di reparti voluti da Himmler e destinati a operare nella lotta antipartigiana sotto direzione germanica, che prestano giuramento a Hitler e che non hanno nessun rapporto con il governo di Mussolini.9 I primi tredici battaglioni formati in piccola parte da elementi di sicura fede fascista ma perlopiù da elementi convinti all’arruolamento con il ricatto del vitto e del ritorno in Italia,10 vengono addestrati a Münsingen e a Praga e trasferiti in Italia nel novembre. Il quadro complessivo che ne deriva è confuso: da un lato i reparti alle dirette dipendenze della Wehrmacht, che i tedeschi privilegiano per le operazioni controguerriglia; dall’altro, un apparato militare inefficiente, che non ha credibilità rispetto all’alleato germanico, dove ogni comandante rivaleggia con l’altro per aumentare le proprie forze. La debolezza militare di Salò risulta evidente di fronte al diffondersi della lotta partigiana e alle


agitazioni sociali. Nominalmente, nel gennaio 1944 gli uomini a disposizione della gnr sono 150 000: in realtà, gli effettivi sono molti meno e per lo più ragazzi tra i quindici e i diciassette anni, indisciplinati e scarsamente addestrati. Quanto all’esercito, il potenziale è stato assorbito quasi interamente dai tedeschi e solo 25 000 sono inquadrati nelle divisioni di Graziani e temporaneamente in Germania per l’addestramento. Alla scarsezza del

personale

corrisponde

la

precarietà

dell’armamento

e

dell’equipaggiamento, per i quali le autorità fasciste devono affidarsi alle concessioni tedesche. Inadeguate e prive di coordinamento, queste forze risultano incapaci di contenere le manifestazioni operaie dell’inverno, suscitando lo sdegno dei tedeschi. Gli attentati gappisti sono un’ulteriore dimostrazione di debolezza militare: il regime di Salò reagisce con rappresaglie dure, ma Rahn afferma che esse avvengono «dove il PFR ha fatto più rapidi progressi, non dove i ribelli sono forti e colpiscono».11 È soprattutto di fronte al consolidarsi del ribellismo che il nuovo Stato fascista dimostra i suoi limiti, non riuscendo a garantire il sistema di sicurezza della Repubblica. All’ambizione di Mussolini e di Graziani di schierare divisioni italiane a fianco della Wehrmacht sul fronte del Garigliano e di Anzio, si contrappone la realtà di uno Stato che delega alle forze germaniche anche il controllo interno. Come ammettono gli stessi dirigenti fascisti, «il responsabile delle operazioni per il mantenimento dell’ordine pubblico è il generale Wolff e noi dobbiamo ottenerne l’autorizzazione per impiegare i nostri reparti in azioni di rastrellamento antipartigiano».12 La situazione, che in alcuni casi suscita lo stupore dei partigiani (il comandante Giulio Nicoletta, incaricato di una trattativa in Piemonte per il rilascio di prigionieri, nota che un maggiore della milizia prende ordini da un sottotenente e non si trattiene dal chiedere: «Ma come, lei che è maggiore prende ordini da un inferiore in


grado?»)13 corrisponde ai rapporti di forze in campo: Salò ha bisogno di autonomia dalla Germania per poter essere credibile all’interno e contemporaneamente non può rinunciare alla tutela militare tedesca per sopravvivere. È la contraddizione di fondo che caratterizza sin dai primi mesi un’esperienza di cui sono già segnati sviluppo ed epilogo.

Tra processo di Verona e socializzazione Incapace e impossibilitato a ricostruire un apparato militare, Mussolini cerca altri terreni sui quali legittimare il nuovo Stato. In questa prospettiva rientra il processo di Verona contro i membri del Gran consiglio che nella notte del 24 luglio hanno votato la mozione di sfiducia di Grandi. La rifondazione del fascismo non può prescindere dalla punizione di quanti ne hanno decretato il collasso: «L’imponente violenza che si è manifestata al congresso del partito rende più urgente la necessità di una decisione. Se si vuole che la gracile amministrazione di Salò trovi un suo equilibrio, sono essenziali un bagno di sangue e una purga delle coscienze».14 Superati gli indugi iniziali e senza interferenze da parte tedesca,15 Mussolini lascia a Pavolini la gestione del processo che coinvolge anche Ciano, trasferito già in ottobre dalla Germania in Italia, perché «non colpire Ciano sarebbe come dire che non è possibile colpire nessuno».16 Il tribunale speciale, presieduto da Aldo Vecchini e composto da membri nominati dal partito, si riunisce l’8 gennaio a Verona nella stessa sala dove si è svolto il congresso di novembre e il 10 pronuncia la scontata sentenza: condanna a morte per Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Carlo Pareschi e Giovanni Martinelli, eseguita il giorno successivo da un plotone della milizia dopo che Pavolini ha bloccato le domande di grazia.17 Apparentemente il processo di Verona ha il


valore simbolico di recidere i legami con il passato: in realtà, esso si risolve in una sentenza modello, che dietro la condanna di alcuni capri espiatori assolve «i numerosi beneficiari del fascismo, grandi e piccoli, che pur non essendo colpevoli di slealtà verso Mussolini, non hanno compiuto il loro dovere nelle ore critiche del 25 luglio. È ad esempio inesplicabile che non siano inclusi nel processo il segretario del partito Carlo Scorza e il comandante della milizia Galbiati»,18 che pur non essendo firmatari del documento Grandi sono però i primi responsabili dell’inerzia con cui il regime assiste alla liquidazione del Duce. Una ricerca più approfondita di responsabilità comporterebbe, d’altra parte, una revisione della struttura stessa del partito e del sistema di governo e si trasformerebbe in un inverosimile autoprocesso del regime: l’epurazione che Badoglio non ha perseguito nei quarantacinque giorni trova così il corrispettivo in quella che, con valenza opposta, Mussolini non persegue a Salò. Se il processo di Verona è diretto a rafforzare il nuovo corso del fascismo all’interno del partito, il programma di socializzazione elaborato nello stesso periodo è diretto a legittimare lo Stato di Salò di fronte alle masse lavoratrici. Nel febbraio 1944 Mussolini e il suo ministro delle Corporazioni, Angelo Tarchi, fanno adottare dal governo alcuni provvedimenti mirati alla rifondazione dell’economia e alla creazione di una nuova struttura delle imprese. Il programma si articola su tre direttrici principali: la possibilità di sostituire (previo indennizzo) la proprietà pubblica alla proprietà privata in tutte le imprese che, per il genere della loro attività, trascendono l’ambito privatistico; l’immissione del lavoro nella gestione delle imprese, attraverso consigli di amministrazione rappresentativi degli azionisti e del personale dipendente; la ripartizione degli utili tra capitale e lavoro, con la deduzione dal profitto delle quote destinate ai proprietari e agli azionisti e la


distribuzione del rimanente tra i lavoratori in rapporto ai rispettivi livelli salariali. «Manovretta repubblicana, brevetto Mussolini», scrive Bottai con acredine. «Chi conosce l’uomo e il suo modo, tutto verbalistico e illuministico, di lanciare delle formule, non può prendere più sul serio questa roba.»19 Altrettanto scettico Goebbels, secondo il quale «al momento decisivo i fascisti abbandoneranno il loro radicalismo e lo neutralizzeranno con una buona dose di rispettabilità borghese».20 Apertamente ostile è invece il generale Hans Leyers, responsabile del dipartimento Armamenti e produzione bellica dell’amministrazione militare in Italia, che bolla il progetto come sabotaggio: «Nessun esponente dell’economia o uomo politico ragionevole in quest’ora, in cui si conduce una lotta inumana per l’essere o il non essere, potrà pensare seriamente ad avviare esperimenti di rivoluzione sociale».21 Sulla stessa lunghezza d’onda si schiera il mondo imprenditoriale italiano, che agita lo spauracchio della paralisi produttiva, mentre i lavoratori dell’industria restano sostanzialmente passivi. L’attuazione effettiva dei decreti di nazionalizzazione approvati il 12 febbraio slittano così da un mese all’altro, e quando entrano finalmente in vigore, il 30 giugno, Rahn impone a Mussolini che «nessuna applicazione della legge alle imprese protette può aver luogo senza l’autorizzazione tedesca»:22 poiché qualsiasi produzione che abbia una pur minima attinenza con la produzione bellica è sotto controllo germanico, questo significa la pratica impossibilità per i fascisti di dare seria attuazione alla riforma.

L’amministrazione militare tedesca Nell’inverno 1943-44 il profilo dell’amministrazione tedesca in Italia va precisandosi, in un’articolazione di competenze e di uffici che coprono ogni


aspetto della vita amministrativa ed economica della penisola e fanno lamentare a Mussolini, in una lettera all’ambasciatore Rahn, che il popolo italiano «ha l’impressione che ci siano due ministeri per ciascun ramo dell’amministrazione, e pertanto due governi».23 In Italia come altrove, la forma del potere nazista ha carattere “policratico”, con dirigenti che godono di ampi margini di autonomia e discrezionalità e che spesso sono in conflitto di competenze tra loro: tale policrazia (secondo alcuni, alla base stessa dello straordinario dinamismo del regime) assume tratti peculiari nell’Italia del 1943-45. In primo luogo, la limitazione del governo di Salò crea un vuoto politico che richiede la riorganizzazione radicale delle funzioni statali e questo favorisce l’esplodere di un’aspra lotta per le competenze tra gli organi dirigenti specificamente nazionalsocialisti. In secondo luogo, dopo quattro ani di guerra il meccanismo dei processi decisionali del Reich è giunto a un limite estremo: se è vero che le decisioni politiche importanti sono riservate a Hitler, è altrettanto vero che da Berlino possono venir solo indicazioni generali, la cui attuazione è lasciata alle autorità locali. L’emanazione di “ordini del Fuhrer” formulati in forma generica e, talvolta, in contrasto tra loro, scatena la competizione tra gli organi periferici, con il risultato di una politica di occupazione che ha l’obiettivo fondamentale di asservire il paese alle esigenze del Reich, ma che lo persegue per strade differenti, in modo più incontrollato che sistematico: un “caos organizzato”, che nelle particolari condizioni della guerra garantisce comunque l’efficienza dello sfruttamento.24 Quali sono dunque le linee organizzative dell’amministrazione tedesca? Mentre Kesselring conserva la responsabilità militare e il generale plenipotenziario della Wehrmacht Rudolf Toussaint la responsabilità amministrativa, la struttura è articolata in quattro dipartimenti principali: il primo, con sede a Verona, si occupa di amministrazione generale, finanze e


giustizia; il secondo, con sede a Riva del Garda, di commercio estero, credito, agricoltura, alimentazione, prezzi, foreste e legnami; il terzo, con sede a Milano e Como, di armamenti e produzione bellica; il quarto, con sede a Lecco, di impiego della manodopera. Presso ciascuno dei comandi di presidio insediati in Italia, l’amministrazione militare è rappresentata da un suo gruppo amministrativo con ramificazione capillare sul territorio, dalla quale restano escluse solo le zone teatro di guerra, la città di Roma (dove la formula della “città aperta” non impedisce a Kesselring di farvi transitare le proprie truppe e al generale Stahel di esercitare il potere di un’autorità di occupazione) e le due zone di operazioni Litorale Adriatico e Prealpi, scorporate dal resto della penisola in vista dell’annessione e affidate agli alti commissari Rainer e Hofer. L’obiettivo dell’amministrazione militare è duplice e, in certa misura, contraddittorio: asservire l’economia italiana alle esigenze belliche germaniche e reclutare manodopera da impiegare al servizio diretto o indiretto del Reich. Per questo, tra i vari dipartimenti, il peso maggiore spetta a quello degli armamenti, guidato dal generale Leyers, e a quello dell’impiego della manodopera, retto dal generale Kretschmann. Entrambi nominati dai corrispettivi ministri del Reich, Albert Speer e Fritz Sauckel, i due generali hanno contatti solo formali con le autorità di Salò: i loro interlocutori sono gli industriali, con i quali in particolare cerca di stabilire un rapporto di collaborazione il generale Leyers, uomo vicino all’ambiente della grande industria tedesca sensibile al ruolo che l’imprenditoria italiana può svolgere in cambio di profitti garantiti. Le direttive dell’amministrazione prevedono: la ridistribuzione territoriale delle imprese, con il trasferimento al nord degli impianti minacciati dall’avanzata angloamericana (è il caso delle officine Terni, della Galileo di Firenze, delle fabbriche di esplosivi di


Tarquinia e Orbetello); il decentramento delle stesse industrie settentrionali perché la concentrazione non favorisca i bombardamenti; la selezione dei rifornimenti di carbone e di energia in rapporto al tipo di produzioni. La maggior parte di ciò che viene prodotto è avviato verso la Germania: nel febbraio 1944 partono 6930 vagoni merci carichi di materiali di ferro e prodotti chimici, oltre a 727 con beni d’uso (dalla biancheria, alle pipe, agli articoli in vetro e porcellana); nel marzo i carichi ammontano a 6018 e 544 vagoni, in aprile a 6056 e 801, per un totale di 321 592 tonnellate (due terzi dell’intera produzione) e un valore vicino al mezzo miliardo di marchi.25 La volontà tedesca di impadronirsi dell’economia italiana è evidente e nell’agosto 1944 viene esplicitata in una convenzione sottoscritta dall’ambasciatore Rahn e dal sottosegretario agli Esteri Serafino Mazzolini: in essa si stabilisce che in caso di pericolo prossimo gli impianti industriali devono «essere trasferiti in territori nei quali possa essere assicurato il loro massimo sfruttamento possibile» e a seconda dell’opportunità si deciderà «se procedere al loro trasferimento nel Reich o in altre parti d’Italia».26 Accanto e in contraddizione con questi aspetti, vi è la requisizione di manodopera, perseguita dal dipartimento del generale Kretschmann per vie diverse, dalla lusinga alla vera e propria razzia. Inizialmente ai volontari sono offerte condizioni vantaggiose, con equiparazione di trattamento economico ai lavoratori tedeschi e indennità di separazione dalla famiglia: di fronte all’insuccesso dei tentativi di persuasione, l’amministrazione militare passa «alle minacce, alle deportazioni, alle punizioni esemplari», che da espediente diventano presto sistema. Disoccupati, operai licenziati da aziende dove l’intensificazione dei ritmi produttivi crea esuberi, scioperanti (Hitler reagisce agli scioperi del marzo 1944 ordinando la deportazione del 20 per cento dei manifestanti), civili fermati durante i rastrellamenti, gli stessi detenuti comuni


delle carceri diventano un serbatoio di forza lavoro da trasferire in Germania al servizio del Reich. Altri lavoratori, invece, sono destinati all’impiego in Italia, inquadrati nell’organizzazione Todt, adibiti ai lavori di fortificazione o, comunque, di interesse militare; in seguito si aggiunge il cosiddetto “programma Göring” per la creazione di servizi ausiliari della difesa antiaerea, che si affida anche all’arruolamento di ex militari della Regia aeronautica. A questi aspetti si aggiungono ancora i contributi di guerra imposti al governo di Salò (dieci miliardi di lire mensili per il 1944), l’iniziale immissione sul mercato del marco d’occupazione (ritirato a fine ottobre 1943) e lo sfruttamento dell’agricoltura, cui il ministro Backe attribuisce importanza rilevante dopo la perdita dell’Ucraina: per sottolineare l’attenzione che i tedeschi dedicano a questo settore, va ricordato che nella primavera 1945 l’amministrazione militare dispone di ben 1700 esperti agricoli distribuiti presso i vari comandi di presidio, il cui impegno maggiore è la lotta contro le evasioni agli ammassi. Il quadro che ne risulta per l’economia italiana è di profonda penalizzazione, non quantificabile in termini numerici, ma precisa nei suoi contorni generali: dopo l’armistizio, l’Italia diventa una preda di guerra, assoggettata a un regime di occupazione non diverso nella sostanza da quello degli altri paesi d’Europa.

Governo fascista e autorità tedesche La tradizionale difesa dei dirigenti di Salò è stata di avere obbedito al dovere e preservato la nazione da danni maggiori, costituendo un argine all’arbitrio delle forze tedesche. Su questa linea interpretativa c’è convergenza tra responsabili di vertice e funzionari minori: a Rodolfo Graziani, che nello stesso titolo della sua autobiografia, Ho difeso la Patria,


anticipa il senso dell’impostazione, fanno eco scritti di personaggi meno noti, come il diplomatico Luigi Bolla, che partendo da Roma per Salò annota nel suo diario: «Sento che questo è il mio dovere, per salvare quanto è possibile di vita e di cose: se tutti partono, l’Italia e gli italiani restano in piena balia dei tedeschi».27 Nelle scelte individuali che portano all’adesione al governo repubblicano si intrecciano motivazioni di vario genere, che vanno dalla sincera convinzione fascista al bisogno di mantenere l’identità di un ordine rassicurante, all’opportunismo di chi si schiera con i dominatori del momento, al desiderio di rivalsa verso i “traditori” del 25 luglio e dell’8 settembre, alla semplice obbedienza acritica verso un apparato statale ricostituito. In questo intreccio di ragioni, c’è sicuramente spazio anche per la buonafede di coloro che ritengono di poter «evitare altre rovine».28 L’esperienza della

RSI

nel suo rapporto con le autorità tedesche

suggerisce, tuttavia, conclusioni diverse. L’istituzione del governo di Salò nasce, all’interno del vertice nazionalsocialista, da una mediazione tra l’orientamento dei militari, che preferiscono avere mano completamente libera in Italia, e quello dei politici, sensibili al significato propagandistico di una ricostituzione del fascismo: tra gli uni e gli altri c’è, tuttavia, totale coincidenza di vedute nell’attribuire alle autorità italiane una funzione strumentale e subalterna. «Se una conclusione è lecito trarre, essa è che i tedeschi crearono un’estesissima rete di propri uffici tale da coprire praticamente tutti i settori dell’amministrazione italiana, almeno per i compiti più direttamente concernenti la condotta politica ed economica della guerra. Essi esercitavano cioè un controllo capillare assai al di là di quanto non possa apparire da una ricostruzione esterna degli organi dell’amministrazione militare e di quelli di rappresentanza politica»,29 esattamente come Mussolini ha paventato denunciando a Rahn l’esistenza di due governi anziché uno.


Uno degli esempi più chiari di debolezza è offerto dal problema dei soldati internati dopo l’armistizio, la cui soluzione costituisce un terreno decisivo per la legittimazione del governo di Salò: Mussolini affronta l’argomento direttamente con Hitler nella conferenza di Klessheim, a metà aprile,30 e più tardi nell’incontro alla stazione di Goerlitz, qualche ora dopo l’attentato contro il Führer del 20 luglio, ma non ottiene che generiche rassicurazioni su un miglioramento delle loro condizioni di vita. A parte le poche migliaia di uomini che accettano l’arruolamento e vanno a formare le quattro divisioni concesse a Graziani, gli altri rimangono internati nei campi, impiegati nel lavoro coatto. Di questa condizione di totale subalternità, Mussolini e i suoi collaboratori sono d’altra parte pienamente consapevoli, come dimostrano concordemente tutte le testimonianze: il governo di Salò è una finzione, dove le tradizionali rivalità tra i capi fascisti, non più controllate dal carisma del Duce, danno luogo a sovrapposizioni e confusione anche ai livelli più bassi dell’amministrazione. Minato da un lato dal ribellismo partigiano, dall’altro dal carattere occupazionale della presenza tedesca, il regime sopravvive in una vana pretesa di legittimazione. Proprio da questo quadro di condizionamenti e di fragilità deriva la responsabilità

storica

di

Salò:

«Lungi

dall’essere

riscattata

dalle

rivendicazioni di autonomia» essa risulta infatti «aggravata per la circostanza stessa che si presta a offrire ai tedeschi l’espediente di fatto e lo strumento propagandistico per attenuare le loro responsabilità».31 La creazione di un governo collaborazionista offre all’esercito di occupazione germanico l’alibi di una copertura istituzionale, garantendogli una struttura amministrativa poco efficace ma politicamente affidabile, cui delegare di volta in volta compiti di propaganda, di controllo, di repressione interna, di delazione. Da questa realtà discendono inevitabilmente i contorni di guerra civile che lo


scontro assume, contrapponendo le forze resistenziali non solo all’antagonista militare tedesco, ma anche a un apparato statale che di quell’antagonista è emanazione e che opera in sua funzione, al di là della buonafede vera o presunta dei singoli funzionari.


1

Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, cit., p. 618. 2 Ivi, p. 626. 3 Ivi, p. 611. 4 Attilio Tamaro, Due anni di storia 1943-45, Roma, Tosi, 1948, vol. II, p. 205. 5 Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 243. 6 Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino 1968, p. 9. 7 Ricciotti Lazzero, Le Brigate Nere. Il partito armato della Repubblica di Mussolini, Rizzoli, Milano 1983, p. 14. 8 Frederick W. Deakin, op. cit., p. 593. 9 La formula di giuramento recita: «Nella lotta per la mia patria italiana contro i suoi nemici sarò in maniera assoluta obbediente ad Adolf Hitler, supremo comandante dell’esercito tedesco». 10 «Noi non siamo fascisti», dice a Nuto Revelli nel dicembre 1943 il milite di un battaglione di SS italiane, «ma siamo dei poveri cristi che dopo aver fatto la Russia, ci hanno caricato sulle tradotte e portato fino al nord. Lei immagina cosa significhi tutto questo. Abbiamo aderito per venire qui» (testimonianza di Nuto Revelli in Ricciotti Lazzero, Le SS italiane, Rizzoli, Milano 1981, p. 38). 11 Frederick W. Deakin, op. cit., p. 655. 12 Zara Algardi, Processo ai fascisti, Parenti, Firenze 1958, p. 199. 13 Gianni Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 182. 14 Frederick W. Deakin, op. cit., p. 624. 15 Le preoccupazioni dei tedeschi non riguardano tanto la sorte di Ciano, quanto quella dei suoi diari: per scoprire dove sono custodite le carte private dell’ex ministro degli Esteri, essi mettono al servizio della famiglia Ciano, apparentemente come interprete, un’agente femminile del servizio di sicurezza che viaggia sotto il nome di “signora Beetz” e che è stata segretaria del capo della polizia tedesca a Roma, colonnello Kappler.


16

Giovanni Dolfin, Con Mussolini nella tragedia, Garzanti, Milano 1950, p. 114. 17 Tra gli accusati, solo Tullio Cianetti si salva dalla pena capitale. I membri del Gran consiglio che hanno votato la mozione Grandi sono diciannove, ma solo sei sono stati raggiunti e arrestati: Grandi è a Lisbona, Bottai nascosto in un convento romano, Federzoni e Bastianini sono in Svizzera. 18 Frederick W. Deakin, op. cit., p, 636. Carlo Sforza viene in effetti processato nell’aprile successivo a Parma, ma assolto. 19 Giuseppe Bottai, Diario 1944-1948, Rizzoli, Milano 1988, p. 51. 20 Paul Joseph Goebbels, Diario intimo, Mondadori, Milano 1947, p. 686. 21 Enzo Collotti, L’amministrazione tedesca dell’Italia occupata 19431945, Lerici, Milano 1963, p. 160. 22 Frederick W. Deakin, op. cit., p. 664. 23 Ivi, p. 622. 24 Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-47, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 10-11. 25 I dati sono ricavati da Enzo Collotti, L’amministrazione tedesca dell’Italia occupata, cit., pp. 164-66. 26 Ivi, p. 187. 27 Luigi Bolla, Perché a Salò. Diario dalla Repubblica sociale italiana, Bompiani, Milano 1982, p. 114. 28 Ivi, p. 116. 29 Enzo Collotti, op. cit., p. 139. 30 I colloqui di Klessheim sono riferiti, tra l’altro, in Filippo Anfuso, Da Palazzo Venezia al lago di Garda, Cappelli, Bologna 1957, pp. 434 e sgg. 31 Enzo Collotti, op. cit., p. 134.


4 Il Regno del Sud

Gli Alleati e il governo di Brindisi Tra la fine di settembre e l’inizio di novembre 1943, la legittimazione internazionale del governo di Brindisi è raggiunta. Churchill, parlando ai Comuni il 21 settembre, annuncia ufficialmente la presenza del re e del governo Badoglio dietro le linee alleate e sottolinea la loro centralità nella prospettiva della futura guerra civile: «La fuga di Mussolini in Germania e i suoi tentativi di formare un governo “quisling” […] aprono la strada alla guerra civile. È necessario, nell’interesse generale, che tutte le forze sopravviventi della vita nazionale siano raccolte attorno al re e Badoglio e che essi siano sostenuti da tutti».1 Il 29 settembre, Badoglio ed Eisenhower si incontrano a Malta per firmare l’“armistizio lungo”: si tratta di un documento dal rigore totale, che stabilisce pesanti clausole di carattere politico, finanziario ed economico, dal controllo alleato sulle attività amministrative del governo, sulle banche, sui cambi, sulle relazioni commerciali, alla censura sulla stampa e sulle rappresentazione teatrali e cinematografiche, al visto preventivo per l’espatrio dei cittadini italiani (le imposizioni sono tali che, su richiesta di Badoglio, gli alleati decidono di «non renderle pubbliche»).2 Se la firma dell’armistizio è la sanzione della sconfitta militare, l’incontro di Malta è invece un’ulteriore conferma della continuità dello Stato italiano e della sua


formale sovranità, significativamente riconosciuta da un comunicato del quartier generale alleato del Nordafrica che, il 30 settembre, annuncia un’avvenuta “conferenza militare” ai massimi livelli tra Badoglio e i suoi capi di stato maggiore da una parte, e Eisenhower, Cunningham, Alexander, MacMillan e Murphy dall’altra. La tappa successiva su questa strada è costituita dalla dichiarazione di guerra alla Germania, notificata il 13 ottobre a Madrid dall’ambasciatore Paulucci di Calboli al collega tedesco. Con questo atto l’Italia si vede riconosciuto il ruolo di “cobelligerante”, formula di compromesso che (come spiega “The Times”) definisce «una forza che è meno che alleata (poiché nessun accordo sui fini generali di guerra degli alleati è atteso o ricercato da essa), ma una forza che è cionondimeno congiunta con le maggiori forze alleate nel raggiungimento di uno specifico scopo».3 Nel mese di ottobre si riunisce a Mosca una conferenza dei ministri degli Esteri alleati (Molotov, Eden e Hull), che affronta il problema dell’Italia approvando una dichiarazione in sette punti, resa pubblica il 2 novembre: accanto alla liquidazione totale del fascismo (soppressione delle organizzazioni e istituzioni fasciste, liberazione dei prigionieri politici, arresto e consegna di tutti i capi fascisti e dei criminali di guerra), la dichiarazione sancisce la necessità che «il governo italiano sia reso più democratico mediante l’inclusione dei rappresentanti di quei settori del popolo italiano che hanno sempre avversato il fascismo». Anche se la risoluzione rinvia la decisione sui modi e sui tempi dell’attuazione al comandante delle forze alleate nel Mediterraneo (e quindi alla volontà angloamericana), le premesse teoriche per la democratizzazione della vita politica italiana sono poste: alla fine del 1943 «lo status dell’Italia nelle relazioni internazionali è dunque definito, né cambierà molto nei tre anni successivi».4


Dietro l’apparente linearità del processo, si nascondono in realtà contraddizioni che per un verso risalgono ai contrasti tra inglesi e americani, per altro all’evolversi della situazione militare, tra i quali si muovono con opposti obiettivi il governo di Brindisi e l’antifascismo organizzato. Le due potenze occidentali sono divise sulle prospettive della rinascita politica dell’Italia. Gli Stati Uniti, che non si muovono nell’ottica di una futura dominazione diretta in Europa ma piuttosto in quella di una tutela politicoeconomica, sono più possibilisti e interessati «al ruolo dell’antifascismo moderato rispetto alla rigida ortodossia istituzionale rappresentata dal re e da Badoglio».5 A spingere la dirigenza americana in questa direzione sono anche le preoccupazioni elettorali di Roosevelt, che nell’imminenza delle presidenziali non è insensibile al peso di sei milioni di elettori italoamericani. In concreto, questo significa disponibilità ad alleggerire le condizioni armistiziali, ricerca di nuovi soggetti politici da corresponsabilizzare nell’amministrazione, allargamento delle basi del governo. Per Churchill, che si muove nella prospettiva di una riconfermata egemonia britannica nel Mediterraneo ed è quindi interessato a mantenere un’Italia debole con una forte ipoteca conservatrice, è invece necessario sostenere Vittorio Emanuele III e Badoglio, sia perché abbastanza isolati e poco rappresentativi da non

risultare autonomi, sia perché dopo il crollo del fascismo «nulla è restato tra il re e il bolscevismo rampante»:6 in vista della prosecuzione della campagna d’Italia, inoltre, Churchill ritiene indispensabile mantenere la stabilità nelle retrovie, impedendo il sorgere di un dibattito politico gravido di sviluppi imprevedibili. «Roosevelt», è stato scritto, «mirava a deprimere le forze conservatrici e a favorire il rinnovamento dello spirito democratico del popolo italiano; Churchill mirava a deprimere l’Italia tout court perché non voleva che l’Italia acquistasse diritti da fare poi valere al tavolo della pace.»7


L’indefinizione sul futuro dell’Italia produce l’immobilismo della politica di occupazione, che da un lato si traduce nel mantenimento dello status quo penalizzando le forze antifasciste, dall’altro si riflette sulla popolazione alla quale «veniva concessa la minima attenzione necessaria a impedire “malattie e disordini”», mentre gli affari civili «venivano relegati al rango di un servizio-cenerentola»,8 come li avrebbe definiti lo stesso responsabile della commissione alleata di controllo, il generale britannico Mason-MacFarlane. L’impasse politico-diplomatica tra americani e inglesi trova un provvisorio sbocco con la conferenza di Teheran (28 novembre-1 dicembre 1943): l’ipotesi del secondo fronte nei Balcani, a lungo caldeggiata da Churchill con il duplice scopo di combattere la Germania e di contenere l’espansione sovietica, viene abbandonata per le oggettive difficoltà militari e sostituita con la prospettiva dello sbarco nella Francia settentrionale (da sempre sostenuto dagli Stati Uniti). Due giorno dopo, il 4 dicembre, Roosevelt e Churchill si accordano al Cairo per un avvicendamento nel comando delle forze nel Mediterraneo che riconosce agli inglesi un ruolo privilegiato nella politica italiana, a parziale compenso della rinuncia allo sbarco nei Balcani: in questo modo la formula della conferenza di Mosca viene interpretata «in senso restrittivo e conservatore, favorevole cioè alla monarchia e a Badoglio piuttosto che ai partiti antifascisti».9 Eisenhower assume il comando delle forze alleate in Inghilterra mentre a capo delle forze nel Mediterraneo va il generale inglese Maitland Wilson, alle cui dipendenze è il generale Alexander, comandante delle truppe operanti in Italia. A capo della Commissione alleata di controllo, creata il 10 novembre con uno staff di circa millecinquecento persone in prevalenza britanniche e ripartita in quattro sezioni (militare, economico-amministrativa, politica e delle comunicazioni), va l’inglese Noel Mason-MacFarlane. La situazione italiana è così congelata,


secondo l’impostazione voluta da Churchill: la continuità dello Stato è legittimata a livello internazionale con la formula della cobelligeranza, il re e Badoglio sono accreditati come interlocutori senza che vengano concessi loro margini di autonomia, la Commissione alleata assicura il controllo sull’amministrazione, gli interessi militari angloamericani sono tutelati nelle loro priorità. Di rinascita politica e di rinnovo del governo si parlerà più avanti, dopo la liberazione di Roma, come Churchill ha scritto prima ancor di partire per Teheran: «Sono convinto che qualsiasi ricostruzione del governo italiano debba attendere che noi si sia a Roma. È quello il luogo, noi per fare le nostre offerte, loro per esporre i loro propositi».10

Gli equilibri interni La debolezza del governo Badoglio è confermata dal rapido declino di due figure chiave del gruppo dirigente del 25 luglio, i generali Ambrosio e Roatta, dapprima emarginati perché gli angloamericani non accettano interferenze sul piano militare, quindi sacrificati alla campagna promossa dagli jugoslavi che accusano entrambi di atrocità criminose nella repressione antipartigiana in Croazia:11 a metà novembre essi sono allontanati dagli incarichi e sostituiti rispettivamente dal maresciallo Giovanni Messe e dal generale Paolo Berardi. La conservazione dello status quo rappresenta, nel contempo, una garanzia perché il governo Badoglio prosegua nella politica conservatrice imposta nei quarantacinque giorni: da qui i ritardi con cui si procede sulla strada della democratizzazione della vita pubblica (solo il 30 ottobre, ad esempio, viene ripristinata la libertà di stampa) e su quella dell’epurazione dei fascisti dagli apparati amministrativi. Sul terreno della defascistizzazione, anzi, sono le autorità alleate a fare pressioni: il governo


Badoglio dilaziona i tempi (il questore di Bari, responsabile dell’eccidio del 28 luglio, rimane in carica sino a ottobre), oppure ricorre alla politica dei trasferimenti, e quando la sostituzione appare inevitabile, la nomina dei nuovi funzionari è affidata ai prefetti secondo un’indicazione che restringe la scelta a «elementi di partiti di ordine di sicura fede monarchica e di specchiata onestà».12 Provvisoriamente cristallizzata nei suoi contorni politici, la situazione dell’Italia del sud è tuttavia passibile di sviluppi, come previsto sin dalla firma dell’armistizio di Cassibile, in relazione all’intensificarsi della cooperazione italiana, il che significa sia impegno nella lotta antitedesca, sia allargamento del gruppo dirigente. Su questo terreno, Vittorio Emanuele III e Badoglio si muovono ognuno per proprio conto, con una crescente insofferenza del re verso il maresciallo. Vittorio Emanuele, che «aveva finito con l’identificare le sorti del Pese e della stessa monarchia con le sue fortune personali, non si rendeva conto che la sua ventennale complicità con il fascismo ne faceva un simbolo imbarazzante per i suoi stessi sostenitori e per i governi angloamericani e si appoggiava perciò alle personalità più squalificate, che avevano bisogno della sua copertura».13 Il suo proposito di restaurare un «fascismo senza Mussolini» fa di lui un riferimento politicamente inconsistente, aggravato dalla presunzione di poter trattare con gli Alleati da una posizione di parità: caratteristica, in questo senso, la sua reticenza a dichiarare guerra alla Germania, sia per il timore che la scelta favorisca lo sviluppo delle forze antifasciste, sia per la presunzione di poter subordinare l’impegno a eventuali concessioni alleate. Di questi problemi Badoglio ha invece una visione più sfumata: il maresciallo ritiene opportuno che la monarchia si presenti agli Alleati come l’unica forza capace di fare una lotta al fascismo e ai tedeschi, che serva «a rialzare il prestigio internazionale


dell’Italia, concedendo però il minimo possibile alle istanze dell’antifascismo organizzato».14 Per questo egli diventa l’interlocutore privilegiato degli angloamericani. Il suo rafforzamento personale rappresenta un elemento di forza inedito rispetto agli equilibri politici dei quarantacinque giorni e assicura al suo governo il ruolo di riferimento per le forze sociali conservatici del Mezzogiorno che cercano di porre un argine alla disgregazione del blocco di potere creato attorno al fascismo. L’allargamento delle basi politiche del consenso a Badoglio si scontra però con le posizioni intransigenti degli antifascisti. Il Fronte nazionale d’azione, costituitosi a Bari con la partecipazione di comunisti, socialisti e azionisti, e il Comitato di liberazione di Napoli, presieduto dal liberale Arangio-Ruiz, non sono disponibili a una trattativa con il sovrano che ha sostenuto Mussolini. D’altra parte, neppure Badoglio è inizialmente orientato ad accordi con forze politiche che nella realtà

del

Regno

del

corresponsabilizzazione

Sud

non

sono

rappresenterebbe

rappresentativi un

e

la

cui

rafforzamento

dell’antifascismo. Secondo una sperimentata tecnica verticistica, i sondaggi del maresciallo sono invece diretti verso singoli esponenti dell’antifascismo moderato, convinti sostenitori dell’istituto monarchico: tra loro, in particolare, Carlo Sforza (ex ministro degli Esteri di Giolitti), il filosofo Benedetto Croce, il giurista Enrico De Nicola. Essi, significativamente, non pongono pregiudiziali su Badoglio, ma per opzione morale rifiutano la figura di Vittorio Emanuele: «Io ho sempre stimato la monarchia utile all’Italia», scrive Croce il 19 ottobre 1943, «ma non è colpa nostra se la monarchia dei Savoia ha perduto ogni prestigio, come tutti sentono e dicono».15 Il rifiuto del re a prendere in considerazione l’ipotesi dell’abdicazione, suggerita da Sforza e De Nicola, vanifica gli sforzi di Badoglio finalizzati a raggiungere un allargamento del suo governo: la nomina del nuovo esecutivo resa necessaria


dal fatto che tra i ministri solo De Courten e Sandalli sono fuggiti da Roma il 9 settembre, avviene così il 13 novembre ricorrendo a «figure di secondo piano, per lo più con un passato decisamente fascista, scelte in parte nell’ambiente di corte»:16 a costoro è riconosciuto il grado di sottosegretari per sottolineare la continuità con il precedente ministero, che si considera ancora in carica. Anche sul piano della ricostruzione militare Badoglio ottiene risultati modesti. Scartato il progetto di impegnare nella cooperazione un corpo d’armata costituito con le forze disponibili nel sud («le unità sono armate tipo 1918 e il loro apporto sarebbe praticamente nullo», scrive MacFarlane),17 alla vigilia dell’incontro di Malta viene autorizzata la creazione di una unità motorizzata di cinquemila uomini destinata a combattere a fianco degli angloamericani. I responsabili militari di Brindisi, non cogliendo i limiti entro i quali può svilupparsi la cooperazione militare, si preparano alla costituzione del reparto con una riserva mentale generata dallo stesso Roatta che parla di un’unità dall’«esistenza provvisoria», con elementi che torneranno ai reparti di appartenenza «appena la partecipazione del Regio esercito sarà estesa a intere Grandi Unità».18 Il 1° raggruppamento motorizzato, ufficialmente nato il 28 settembre, si forma così in un’atmosfera di dubbio sul suo futuro, che fornisce «una giustificazione a enti e comandi, richiesti di uomini, che si sentono in diritto di tergiversare per guadagnare tempo in attesa di probabili contrordini».19 La prima fase del Regno del Sud si conclude con una sconfitta della politica di Badoglio che, «pur dimostrandosi più duttile ed esperto di Vittorio Emanuele, non era riuscito a rompere il suo isolamento e si trovava ancora legato alla corte e con un governo non rappresentativo»:20 l’appoggio angloamericano conferma l’obiettivo della continuità dello Stato, perseguita


con l’armistizio e con la fuga, e per il momento assicura legittimazione internazionale e stabilità interna, ma sul piano dei rapporti di forza il governo Badoglio e il Regno del Sud non hanno peso e tre mesi dopo l’8 settembre non sembrano aver compiuto significativi passi in avanti.

I prigionieri di guerra degli Alleati Nel quadro delle debolezze politiche occorre fare un cenno al problema dei prigionieri di guerra in mano alleata. Gli uomini catturati dagli angloamericani dall’estate 1940 al settembre 1943 sono circa 600 000, sparsi nei campi di prigionia tra India, Canada, Australia, Medio Oriente, Nordafrica, Sudafrica, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. Le loro condizioni sono le più varie: si va dalle situazioni estreme della Tunisia e dell’Algeria, dove la manodopera è impiegata nei cantieri torridi della ferrovia transahariana, al relativo privilegio degli Stati Uniti dove i prigionieri vengono impiegati nell’amministrazione statale o assunti da privati con uno stipendio pari al 50-70 per cento di quello riservato alla manodopera libera. Le clausole dell’armistizio hanno previsto l’immediata liberazione dei soldati alleati prigionieri degli italiani, ma non hanno fatto menzione dello scambio inverso. Il governo di Brindisi avvia trattative in questo senso, ma gli angloamericani tergiversano perché i prigionieri di guerra costituiscono un patrimonio di forza lavoro cui è difficile rinunciare. La liberazione dei prigionieri, inoltre, porrebbe in termini nuovi il problema della ricostituzione di una forza armata italiana, che gli alleati preferiscono invece congelare nei limiti poco più che simbolici del 1° raggruppamento motorizzato. Le trattative del governo Badoglio non approdano, dunque, ad alcun risultato concreto, né sarà molto diverso l’atteggiamento degli


angloamericani nel prosieguo della guerra: i primi prigionieri vengono liberati solo nell’estate 1944 e si limitano a quelli catturati in Sicilia e residenti nell’isola; nel novembre successivo tocca a quindicimila uomini, prelevati da vari campi; nell’inverno 1944-45 inizia il rimpatrio dei malati e degli anziani; la grande maggioranza dei prigionieri viene liberata solo dopo la fine della guerra.21 In questo contesto va ricordato che altri soldati italiani sono prigionieri in Unione Sovietica: si tratta dei superstiti dell’Armir (armata italiana in Russia), circa quarantamila uomini secondo calcoli che tengono conto del numero di militari catturati durante la ritirata del Don e non di quanti sono effettivamente giunti nei campi dopo le marce di trasferimento. Nell’estate 1943, di questi quarantamila ne rimangono vivi circa diecimila, numero che resta costante sino alla fine della guerra. Nei campi, i prigionieri possono giovarsi del miglioramento della situazione alimentare e organizzativa dell’Urss, dovuta sia all’alleggerimento della situazione militare, sia agli aiuti alimentari americani. Al miglioramento delle condizioni di vita si affianca un’opera di “rieducazione” politica in cui si impegnano i comunisti italiani emigrati in Unione Sovietica con la pubblicazione di un giornale, “L’Alba”, e la creazione di una scuola di antifascismo: l’impostazione è celebrativa della realtà sovietica, ma vale almeno a garantire ai prigionieri l’informazione sugli sviluppi della guerra e della situazione italiana. Ciò che resta esclusa è la prospettiva di un rapido rimpatrio, sia per considerazioni analoghe a quelle angloamericane sull’impiego di manodopera, sia per le difficoltà logistiche di collegamento. La liberazione avverrà solo al termine del conflitto, accompagnata in Italia da una forte polemica anticomunista incentrata sull’accusa a Mosca di trattenere arbitrariamente uomini che in realtà sono morti prima dell’arrivo nei campi di prigionia: nell’inverno 1945-46 vengono


rimpatriati i soldati, nel giugno 1946 gli ufficiali: secondo i dati ufficiali, il rimpatrio riguarda complessivamente 10 030 prigionieri.22

La situazione socioeconomica Il

quadro

socioeconomico

dell’Italia

meridionale

all’indomani

dell’armistizio è ritratto dagli osservatori angloamericani a tinte fosche. Come scriverà a fine guerra un influente giornalista inglese, Cecil Sprigge, corrispondente dell’agenzia Reuter, «nell’autunno 1943 le strade dell’Italia meridionale erano piene di soldati italiani dispersi e stracciati, i quali non chiedevano altro che di tornare a casa. L’impressione tra noi era di uno sfacelo pressoché completo dell’organizzazione militare italiana. Anche a molti italiani desiderosi di battersi accanto agli Alleati sembrava difficile che si potesse riorganizzare una parte dell’esercito italiano a tempo per poter partecipare all’espulsione dei tedeschi dall’Italia, che si sperava allora sarebbe stata un’operazione di pochi mesi».23 Se lo sfaldamento delle forze armate è la rappresentazione della disfatta militare, le condizioni di vita della popolazione riflettono una crisi economica tanto profonda da pregiudicare la stabilità sociale del Mezzogiorno. Gli Alleati, convinti prima dello sbarco di trovare una nazione in grado di autoalimentarsi, scoprono la miseria nelle campagne e nelle città: «Il problema non era la guerra o l’ostilità», scriveva il giornalista Alan Moorehead, «la fame dominava tutto. Di fatto, stavamo assistendo al crollo morale di un popolo. Il cibo era l’unica cosa che importava: cibo per i bambini, cibo per se stessi, cibo a costo di qualsiasi abiezione e depravazione. E dopo il cibo un po’ di caldo e un riparo».24 I dati statistici confermano le preoccupazioni degli osservatori: nei centri urbani, il 41 per cento delle famiglie soffre la fame, il 43 per cento fruisce di un vitto


carente, il 14 per cento gode di un vitto scarso ma sopportabile e solo il 2 per cento ha un’alimentazione adeguata o esuberante. In rapporto al fabbisogno medio di calorie, i contadini raggiungono il 71 per cento, i ceti impiegatizi il 42 per cento, operai e artigiani il 41 per cento. Un osservatore come Agostino Degli Espinosa, sostenitore convinto del re e del governo Badoglio, è spregiudicato nel descrivere l’assenza dello Stato e la frammentazione del Paese: «Così, brutalmente, percorrendo la strada che da Foggia conduce ad Avellino, come quella che da Potenza va a Salerno, oppure quella delle Calabrie, si vedeva per ore svolgersi la dura lotta che una parte del popolo italiano sosteneva per non morir. Era una lotta dell’intera collettività per adattarsi alle nuove condizioni tecniche della distribuzione dei beni, retrocessa al grado di secoli lontani. I piccoli centri urbani si rinchiudevano in una povera autarchia alimentare, mentre quelli grandi come Napoli ricorrevano ai primitivi mezzi di commercio e di trasporto».25 In questo quadro di disgregazione confluiscono mali antichi e recenti del Meridione, dove l’assetto squilibrato dell’economia è stato accentuato dalle scelte del regime e dall’emergenza bellica. Un primo elemento di crisi è stato introdotto dalla politica autarchica. L’industria, caratterizzata da una struttura bipolare che presenta «da una parte un nucleo di grossi complessi in costante seppur lenta espansione, dall’altra una miriade di esercizi piccoli e piccolissimi tendenti a sconfinare nell’artigianato», ha visto allargarsi la forbice tra i due poli: «La rigida selezione del credito a favore delle maggiori concentrazioni industriali, la disciplina dei nuovi impianti con i connessi processi di cartellizzazione, la prevalenza assegnata all’industria di base»26 hanno garantito uno sviluppo notevole alle industrie siderurgiche e cantieristiche di grandi dimensioni, penalizzando quelle legate alla produzione di beni di consumo e, in genere, quelle di dimensioni modeste.


Analoghi i processi nell’agricoltura, dove i privilegi accordati alle colture granarie e il connesso sistema degli ammassi, con i prezzi vantaggiosi stabiliti dal governo, hanno favorito le grandi aziende capitalistiche o le proprietà latifondistiche a bassa produttività, penalizzando i piccoli proprietari e i braccianti, i primi perché producendo solo per il sostentamento della famiglia non hanno potuto giovarsi della rivalutazione dei prezzi agricoli, i secondi perché hanno visto ridursi le possibilità di occupazioni per la crisi delle colture da esportazioni. Il risultato è stato un processo di progressiva differenziazione sociale, con gli strati più deboli della popolazione che si sono visti ulteriormente impoveriti. La crisi si è aggravata con l’ingresso in guerra nel 1940. L’industria ha seguito i processi caratteristici dell’economia bellica, con l’intensificazione della produzione e dei ritmi di lavoro nelle aziende legate alle forniture militari e la progressiva marginalizzazione degli altri settori. L’agricoltura è stata, invece, attraversata da una crisi più complessa: in primo luogo, la produzione agricola si è rivelata sempre più insufficiente a soddisfare i consumi, né è risultato possibile integrarla con importazioni dall’estero, con la duplice conseguenza di un aumento incontrollato dei prezzi e del progressivo diffondersi del mercato clandestino, in secondo luogo, le chiamate alle armi e l’emigrazione dei lavoratori in Germania hanno determinato una rarefazione della manodopera, che «rovesciava sulle spalle di un numero fortemente contratto di lavoratori il peso della produzione, esasperandone le condizioni di sfruttamento»; in terzo luogo, la guerra ha accentuato «la sperequazione esistente tra aziende che producevano per il mercato e imprese contadine autoconsumatrici che avevano poco da vendere, sicché gli utili di congiuntura si distribuivano in modo fortemente ineguale tra i diversi ceti agricoli».27 I prezzi più alti sono stati pagati dalla fascia dei


piccoli produttori che costituiscono il ceto più numeroso: le discriminazioni subite nella distribuzione dei mezzi di produzione a vantaggio delle imprese maggiori, gli aumenti dei carichi di lavoro, la riduzione della quota assegnata per legge ai produttori (i tre quintali a testa del 1936 diventano 1,85 nel 1942) creano una situazione di grave disagio, destinata a incidere sulle condizioni di vita e sulle capacità produttive delle campagne. Come denuncia il questore di Avellino, nel 1942-43 in molte proprietà «non sono stati eseguiti neppure i lavori di sarchiatura, mancano sementi e concimi e persino lo stallatico, mentre i prezzi dei materiali utili in agricoltura (filo di ferro, spago, anticrittogamici) sono proibitivi».28 Le difficoltà degli addetti all’industria e all’agricoltura diventano crisi totale con l’apertura del fronte nelle province meridionali: al di là delle devastazioni belliche, si registrano la dissoluzione della rete dei trasporti e la paralisi pressoché totale del sistema di distribuzione; molte aziende industriali, prive di rifornimenti in materie prime e fonti di energia, interrompono l’attività; la produzione agricola, per la deficienza di concimi e di antiparassitari e per la disgregazione della piccola proprietà, si contrae sensibilmente nonostante l’annata climatica favorevole; il disfacimento del sistema di controllo sulla produzione provoca l’ascesa incontrollata dei prezzi dei generi di prima necessità, mentre l’approvvigionamento delle popolazioni diventa sempre più arduo. La smobilitazione seguita all’8 settembre aggiunge nell’immediato altri elementi di squilibrio: mentre le requisizioni per esigenze militari riducono ulteriormente le disponibilità di mezzi e di materiali, il cambio ufficiale molto alto (cento lire per un dollaro, quattrocento lire per una sterlina), la disponibilità di denaro dei soldati angloamericani, l’emissione in grandi quantità delle cosiddette “AM-lire” accelerano il processo inflazionistico e incrementano il mercato clandestino, a


tutto svantaggio di coloro che vivono di salari e di stipendi. L’esercito americano, in particolare, riceve più approvvigionamenti di quanto non sia necessario al proprio sostentamento e da ciò consegue un’immissione sul mercato di merci di ogni tipo provenienti dagli Stati Uniti, dal cibo in scatola allo zucchero, alle coperte militari, alle lamette da barba: «Con la connivenza di quasi tutti i livelli di comando dell’esercito, molto di questo materiale veniva avviato al mercato nero, portando notevoli profitti alle truppe alleate e agli operatori locali e facendo crollare del tutto l’economia locale».29 Di fronte a questo drammatico stato di cose, il governo Badoglio si muove con fatica, non avendo né le energie né gli uomini per affrontare l’emergenza produttiva: l’elemento ricorrente della politica economica nel Regno del Sud consiste nella richiesta pressante agli Alleati perché riducano la misura del cambio con la lira, forniscano materie prime per la ripresa industriale e la ricostruzione del sistema stradale, impediscano alle proprie truppe eccessivi acquisti di beni italiani. Si tratta di richieste legittime e comprensibili, alle quali però non si accompagna un programma coerente di interventi “sul campo”, neppure quando, l’11 febbraio 1944, il governo estende la sua giurisdizione a quasi tutto il territorio dell’Italia liberata. Si tratta certamente di incapacità progettuale, ma anche di carenza di volontà politica per non colpire gli interessi che concorrono a formare l’arco del consenso attorno a Vittorio Emanuele e a Badoglio: i provvedimenti adottati, nella loro frammentarietà, documentano bene la coincidenza dei due elementi. Mentre per l’industria gli interventi sono limitati e di scarsa efficacia (finanziamenti nel settore cantieristico, garanzia statale su anticipazioni bancarie a favore delle imprese), in agricoltura i provvedimenti risultano più significativi e mirano alla liberalizzazione dell’apparato produttivo, in sintonia con l’equivoco (condiviso peraltro da larga parte dello


schieramento antifascista), di identificare un sistema di rigido controllo sulla produzione e gli scambi con la dittatura fascista: «Nel mese di dicembre vengono sottratti a ogni vincolo il vino e i fichi secchi, le patate, la legna da ardere, la macellazione e la contrattazione dei suini»; accanto alla politica degli sblocchi, viene attuata quella dell’aumento dei prezzi per il rifornimento di cereali e olio all’ammasso, «ufficialmente motivata per contrastare l’evasione, in realtà sollecitata dagli agrari per adeguare i prezzi all’aumento dei salari, a sua volta decretato dal governo». In assenza di interventi disciplinatori, questi diversi provvedimenti «si risolvono a esclusivo vantaggio dei grandi produttori e degli incettatori, senza produrre alcun effetto sul decorso dei prezzi al mercato nero».30 Se l’intervento del governo di Brindisi risulta inadeguato, quello degli Alleati è ugualmente insufficiente. Il loro approccio alla situazione economica dell’Italia è condizionato sia dalle errate informazioni sulla situazione interna della Penisola fornite dai servizi segreti prima dello sbarco in Sicilia, sia dalla mancanza di personale esperto in questioni economiche, sia infine dai più generali contrasti tra americani e inglesi sulla futura riorganizzazione dell’Italia e sulle rispettive sfere di influenza. In alcuni settori di interesse militare (come il ripristino della viabilità o la rivitalizzazione delle produzioni cantieristiche) l’intervento risulta efficace, ma di fronte all’inflazione e all’emergenza alimentare le forze alleate non sono capaci di interventi regolatori e possono solo contrapporre un programma di aiuti, sollecitato da Roosevelt sin dall’estate 1943. Sino al giugno 1944 vengono così importate settecentomila tonnellate di generi alimentari, anche se le difficoltà nei trasporti rendono difficile la distribuzione: solo nel febbraio 1944, quando i primi interventi di ripristino viario riescono a garantire collegamenti meno precari, è possibile assicurare a


quasi tutta la popolazione una razione giornaliera di pane di duecento grammi e aumentare le calorie giornaliere, che a dicembre sono scese a mille per persona. In questo quadro di disgregazione, il comportamento delle masse popolari oscilla tra la rabbia e la rassegnazione, tradizionali poli entro cui si esprimono i problemi sociali del Mezzogiorno. Aree silenziose e apparentemente tranquille esplodono all’improvviso in manifestazioni disperate che si sviluppano senza collegamenti con altre realtà e che vengono prontamente represse: a Palermo si hanno 14 morti a metà ottobre, a Montesano (nel Salernitano) 8 morti e 55 arresti in dicembre, in Molise 6 morti e oltre 30 arresti in gennaio. Il peso dell’emergenza bellica, gli squilibri sociali, la fame di terra, la sottoalimentazione si assommano tra loro determinando una protesta popolare violenta che non nasce da un’esasperazione momentanea, quanto piuttosto da un’ostilità lungamente covata contro la guerra e le sue conseguenze e, prima ancora, contro l’assetto socioeconomico del sud, sostenuto e aggravato dal fascismo. Il limite di queste manifestazioni è tuttavia la loro estraneità al quadro politico generale e alla lotta che si sviluppa tra governo badogliano e partiti antifascisti. Il movimento antifascista sconta la sua debole presenza nel Mezzogiorno e resta ai margini di

queste

sollevazioni:

mentre

la

Democrazia

cristiana,

fidando

dell’organizzazione capillare che le assicura la Chiesa, «si rivolge alle masse contadine recuperando, in funzione anticomunista, la loro tradizionale avversione allo Stato e l’aspirazione alla proprietà della terra», il partito comunista si muove con estrema prudenza «preoccupato dell’isolamento cui teme di andare incontro nel caso di un più deciso impegno sul terreno sociale» e privilegiando l’obiettivo primario della sconfitta del nazismo rispetto «alle esigenze che esprimono i movimenti sociali provocati dal crollo


del fascismo».31 Il risultato è l’estraneità delle masse popolari meridionali rispetto a un dibattito politico che ha al centro la questione istituzionale, un problema, cioè, che nel contesto drammatico del Mezzogiorno di quei mesi non può avere forza di mobilitazione. All’effervescenza dell’Italia settentrionale corrisponde, così, il ristagno del sud, dove la frattura tra i bisogni della base e la dialettica politica è sempre più evidente. Il processo di crescita

politica

e

morale

garantito

nel

Centronord,

per

quanto

drammaticamente, dall’intrecciarsi di guerra di liberazione, guerra civile e guerra di classe, nel sud non trova la via per svilupparsi né in forma analoga né in forma differenziata, lasciando una pesante ipoteca sui futuri equilibri della nazione.

Monte Lungo e Monte Marrone Nell’autunno 1943 i comandi angloamericani confidano di poter giungere a Roma in breve tempo, ma l’efficacia della linea difensiva approntata dai tedeschi non tarda a dimostrare che l’avanzata sarà invece lenta e tormentata. Kesselring, che ha ormai la piena fiducia di Hitler e ha ottenuto il comando di tutte le forze germaniche in Italia (mentre Rommel è stato destinato ad altro incarico), ha ritirato i propri reparti oltre il Garigliano e disposto le difese lungo la linea Gustav, estesa dal Tirreno all’Adriatico nel punto più stretto della penisola. Si tratta di circa 160 chilometri di postazioni fortificate e difese naturali che partono dal golfo di Gaeta e seguono poi le pendici settentrionali dei monti Aurunci sorgenti sulla riva destra del fiume Garigliano, dalla foce sino al massiccio montuoso dominato dal monte Cairo, che ha come contrafforte sudorientale Montecassino: da qui la linea continua verso est, attraverso un terreno montagnoso e aspro lungo il fiume Sangro,


dalla sorgente presso Castel di Sangro sino alla foce sull’Adriatico, nell’Abruzzo meridionale, all’altezza della città di Ortona. Un’avanzata angloamericana lungo la costa adriatica è poco probabile per la presenza di barriere naturali formate da profonde valli di montagna, con torrenti che le piogge invernali trasformerebbero in ostacoli ardui. Il punto nodale del sistema difensivo tedesco diventa così il settore occidentale, costituito dalla catena dei monti Aurunci, che si staccano dalla dorsale appenninica per raggiungere il mar Tirreno. Questo settore, a sua volta favorito da formidabili difese naturali, è tuttavia attraversato dalle due principali vie che portano a Roma: la strada statale n. 7, l’antica via Appia, lungo la striscia litoranea, e la statale n. 6, la via Casilina, che attraversa la piana della valle del Liri (affluente del Garigliano) e corre sotto le pendici di Montecassino, dove si trova la celebre abazia benedettina. Per dare maggiore profondità a questo settore, dove si aspettano l’offensiva alleata, i tedeschi hanno aggiunto due cinture difensive, la linea Bernhardt come avamposto e frangiflutti davanti al Garigliano, e dietro di essa una linea di arresto, nota come linea Hitler, che sbarra l’uscita di nordovest della valle del Liri e termina a Terracina, sulla costa. L’insieme di queste tre linee è denominato dagli Alleati Winter Line, linea d’inverno, e contro di esso la Quinta armata americana si impegna fin dall’inizio di novembre. Entro questo quadro operativo si inserisce l’impiego del 1° raggruppamento motorizzato, aggregato alla 36ª divisone Texas. All’alba dell’8 dicembre il reparto del generale Dapino attacca le posizioni tedesche a Monte Lungo, tra la via Casilina e la ferrovia Napoli-Roma: l’azione viene contrastata efficacemente dalle difesa della Wehrmacht: mentre le unità della 36ª divisione vengono respinte, sul 67° reggimento di fanteria del colonnello Ulisse Bonfigli e sul 51° reggimento bersaglieri, punte avanzate del raggruppamento, si abbatte un fuoco di mortai pesanti, artiglierie


e mitragliatrici, che colpiscono frontalmente e d’infilata dal vicino monte Maggiore. Le forze attaccanti sono costrette a ritirarsi e il bilancio del 1° raggruppamento è pesante sia in termini di perdite (47 morti, 102 feriti e 151 dispersi su un totale di 1500 uomini), sia per la profonda depressione morale provocata dall’esito negativo della prova, sia per le polemiche sulle responsabilità. Secondo il generale Dapino, l’insuccesso è dovuto alla «mancata

realizzazione

di

alcune

condizioni

preliminari

ritenute

indispensabili dagli stessi alleati»,32 secondo gli americani ai limiti soggettivi delle truppe italiane e agli errori commessi dai comandi. Una settimana più tardi l’azione viene ripetuta, questa volta nell’ambito di un piano d’attacco su larga scala: i tedeschi, battuti da un intenso fuoco d’artiglieria e minacciati da tergo dalla fanteria americana, cedono all’attacco dei reparti italiani, che riescono a raggiungere gli obiettivi stabiliti. Nell’economia generale della campagna, l’episodio di monte Lungo non ha rilievo particolare e all’interno dell’unità determina uno stato di tensione per l’esito disastroso del primo combattimento e la conseguente impressione di «essere utilizzati per un obiettivo sproporzionato, con l’impiego di armi non adeguate al compito»: l’atmosfera di sfiducia e di stanchezza che caratterizza la vita del Regno del Sud si riflette sullo stato d’animo dei combattenti e «ci si cominciò a chiedere con insistenza perché soltanto il Raggruppamento doveva combattere a nome di tutti per tenere alto l’onore dell’Italia. L’essere una minoranza trascurabile in armi attribuiva all’unità un carattere volontaristico non sentito e non voluto dai più».33 Ne deriva la necessità di un periodo di riorganizzazione del raggruppamento stesso, protrattosi sino al febbraio del 1944, tra sostituzioni nelle responsabilità di comando (al generale Dapino subentra il generale Umberto Utili), completamento dei reparti e perplessità americane: il capitano Aldobrando


Medici Tornaquinci, incaricato dei collegamenti con la Quinta armata, scrive infatti che l’atteggiamento americano è di «disprezzo come combattenti e benevolenza verso “brava gente” incapace di grandi cose».34 Nella prospettiva di lungo periodo, i combattimenti di monte Lungo assumono, tuttavia, un rilevante valore simbolico perché segnano l’inizio della partecipazione di reparti regolari alle operazioni a fianco degli Alleati e sono il punto di partenza di un processo che porterà a migliorare l’organizzazione delle truppe e ad allargare l’organico a nove-diecimila uomini: in questa stessa logica si inquadrano gli impieghi successivi, prima alle dipendenze del corpo di spedizione francese, quindi il trasferimento nell’ambito dell’Ottava armata britannica, alle dipendenze della 5ª divisione polacca Kresowa. Il 31 marzo 1944 il raggruppamento affronta un nuovo combattimento a monte Marrone, nel quadro di un’operazione preventiva che mira a impedire il rafforzamento tedesco sul massiccio dell’Abruzzo. L’azione viene condotta con rapidità dal battaglione alpino Piemonte, che conquista il monte e lo difende dal tentativo di controffensiva della Wehrmacht. L’episodio è ampiamente utilizzato sul piano propagandistico da Radio Londra, che in tre trasmissioni successive (diffuse il 3, il 5 e il 6 aprile) sottolinea il significato politico della vittoria sul campo, «un ritorno offensivo che dimostra le virtù del soldato italiano quando sappia di combattere per una guerra

giusta».35

L’apprezzamento

arriva

dagli

stessi

comandi

angloamericani, come sottolinea il “Corriere alleato”: «Monte Marrone è l’esempio di come uomini adatti, adoperati in uno speciale lavoro e a tempo stesso giusto, possono portare a una brillante riuscita».36 Marginali sul piano operativo, monte Lungo e monte Marrone suggellano così il significato morale e politico dell’impegno del 1° raggruppamento motorizzato.


Le battaglie di Cassino Superate le difese avanzate della Winter Line, alla fine di dicembre la Quinta armata si trova di fronte alle postazioni della linea Gustav. Il piano per aprire la strada alla liberazione di Roma prevede una tripla azione: mentre la Quinta armata del generale Clark condurrà l’attacco centrale puntando su Cassino e su Frosinone, l’Ottava armata britannica del generale Oliver Leese (Montgomery è stato richiamato in patria a fine anno per comandare il 21° gruppo di armate nella prossima invasione della Francia) farà pressione da est per distrarre forze tedesche dal fronte principale e un contingente alleato di quarantamila uomini, al comando del generale americano John Porter Lucas, sbarcherà ad Anzio, a nord delle linee germaniche, per colpire alle spalle le truppe di Kesselring (la cosiddetta “operazione Shingle”). L’obiettivo è costringere la Wehrmacht a una rapida ritirata verso la Pianura padana ed esercitare una pressione abbastanza vicina ai confini della Germania per impedire a Hitler di rinforzare le difese francesi spostando le truppe dall’Italia. Lo sviluppo della campagna alleata ha però un andamento diverso da quello programmato: «Hitler ha deciso di opporre resistenza sulla linea Gustav e di mettere fine alle ritirate che erano iniziate a El Alamein quattordici mesi prima e non aveva esitato a mandare rinforzi»:37 mentre le truppe di Clark si trovano impantanate in un intrico di fiumi gonfiati dalle piene e dai rilievi che favoriscono la difesa, lo sbarco ad Anzio, effettuato il 22 gennaio, porta alla costituzione di una piccola testa di ponte, ma viene contrastato dalla Quattordicesima armata tedesca, che impiega tutte le riserve disponibili immobilizzando gli angloamericani. Il rapido sfondamento si trasforma così in un’avanzata lenta e difficile, che solo a maggio permetterà di superare la linea Gustav e di saldare la Quinta armata con le forze di


Anzio. Nell’ambito di queste operazioni, la battaglia di Cassino costituisce un elemento centrale, di grande risonanza internazionale perché al momento costituisce l’unico fronte angloamericano in Europa. Inizialmente Clark prevede l’attacco sulla via Casilina, lungo la valle del Liri, ma la resistenza del 14° Panzerkorps del tenente generale Frido von Senger und Etterlin respinge l’offensiva costringendo i comandi alleati a rivedere il piano. Clark decide

allora

di

attaccare

direttamente

Cassino,

una

possibilità

precedentemente scartata per le eccezionali difese del territorio: la collina che sovrasta la città è stata infatti predisposta dai genieri tedeschi con capisaldi che non sono difesi da bunker, ma si giovano sia di «grotte scavate nel colle dell’abbazia, proprio sotto le mura del monastero, che offrono riparo alle riserve e ai posti di assistenza», sia da un sistema di sangar, «muretti di pietre a secco costruiti dove il suolo è troppo roccioso per essere scavato».38 Ne risulta un sistema difensivo unico, con una rete di capisaldi che permette l’appoggio del tiro incrociato e lo sviluppo di eventuali contrattacchi locali. Contro questa barriera, le truppe alleate attaccano a partire dal 24 gennaio con le forze del corpo di spedizione francese e del 2° corpo d’armata americano. Operando con poca coordinazione e senza rinforzi, le divisioni alleate si impegnano nel logorante sforzo di rosicchiare terreno, mentre solo un potente attacco simulato può avere qualche probabilità di successo: i tedeschi contrappongo alle divisioni i

KG

(Kampfgruppen, gruppi di

combattimento), piccoli gruppi che, con il metodo della difesa frammentaria, riescono a contrastare l’avanzata, paralizzandola sulle pendici del monte in una serie di scontri furiosi nei quali i difensori hanno il vantaggio della posizione e del tiro concentrato, oltre che della pioggia e della neve che penalizzano i movimenti degli attaccanti. L’11 febbraio la prima battaglia di Cassino è conclusa e il 2° corpo d’armata americano, ormai provato, viene


rilevato dai neozelandesi e dagli indiani del generale Bernard Freyberg. Quattro giorni più tardi, il 15 febbraio, inizia la seconda battaglia di Cassino, denominata “operazione Avenger”, il cui episodio centrale è la distruzione del monastero con un bombardamento aereo, una scelta destinata a suscitare aspre polemiche per molti anni: dal momento che la battaglia in sé non porta ad alcun risultato operativo, vale la pena soffermarsi sulle ragioni che portano all’impiego dei bombardieri pesanti. Tra le forze alleate è diffusa la convinzione che i tedeschi abbiano trasformato il monastero in una fortezza: nonostante l’impegno assunto con il Vaticano da Kesselring di mantenere una fascia di rispetto di trecento metri dalle mura dell’abbazia, «qualsiasi soldato esperto avrebbe capito che i suoi avversari non avrebbero rinunciato a nessuno dei vantaggi offerti dalla collina» e lo stesso ordine benedettino «si era rassegnato all’evidenza che niente avrebbe potuto evitare danni una volta che l’abbazia fosse diventata parte integrante di un’entità fisica fortificata».39 Sulla base di queste considerazioni, Freyberg chiede a Clark un bombardamento preventivo per non esporre oltre il lecito le sue truppe. Il generale americano è stretto tra pressioni diverse: concedendo l’autorizzazione, sarebbe considerato un vandalo in caso di insuccesso e la propaganda nazista avrebbe ottimi argomenti; negandola, gli sarebbe imputata la perdita di vite umane se l’attacco si risolvesse in un sanguinoso insuccesso; il bombardamento del monastero senza conquista, d’altra parte, creerebbe delle rovine ancora più adatte alla difesa dell’edificio integro. Egli rimette perciò la decisione ad Alexander, comandante in capo degli eserciti alleati in Italia, e questi accoglie le richieste di Freyberg. Alle 9.30 del 15 febbraio inizia l’incursione, affidata a bombardieri pesanti e durata sino alle 13.30: 135 B-17, appoggiati da 43 Mitchell e Marauder, sganciano in otto passaggi successivi 493 tonnellate di bombe che abbattono il monastero, a


eccezione dei contrafforti dell’ala occidentale e dell’intrico di cantine e cunicoli dei sotterranei. L’obiettivo è stato ampiamente centrato, ma gli effetti si rivelano controproducenti: in primo luogo, l’abbazia non risulta fortificata dai tedeschi e il bombardamento non ha quindi migliorato la situazione tattica; in secondo luogo, le artiglierie della Wehrmacht si installano immediatamente tra le macerie, trasformandole in una posizione pressoché inespugnabile. Il successivo attacco terrestre delle due divisioni di neozelandesi e indiani si scontra così con una resistenza rafforzata, contro la quale sarebbero necessarie truppe ben più numerose: i tedeschi possono non solo difendere, ma anche contrattaccare verso la stazione di Cassino, costringendo la Quinta armata a un arretramento da posizioni già conquistate. Lo sforzo offensivo si esaurisce così in tre giorni con perdite pesantissime e con un grave contraccolpo psicologico sull’opinione pubblica dei paesi alleati. Analoghi sono i risultati della terza battaglia di Cassino, denominata “operazione Dickens” e lanciata un mese più tardi, il 15 marzo. Il piano prevede un nuovo bombardamento, questa volta sulla cittadina che deve essere rasa al suolo per eliminare le postazioni difensive, quindi l’attacco della fanteria di Freyberg. Il bombardamento realizza l’obiettivo di spianare la città, ma le condizioni della seconda battaglia si ripropongono: «Cassino diventava un’enorme barriera anticarro, dove crateri formati dalle granate, masse contorti di travi, traversine ferroviarie, ostacoli di ogni genere nascondevano l’insidia delle mitragliatrici di un pugno di paracadutisti tedeschi

che

riuscivano

a

contrastare

l’avanzata

della

fanteria

neozelandese».40 La mancanza di un numero adeguato di truppe si rivela anche in questo caso elemento decisivo e gli stessi tedeschi si stupiscono che a un tale sfoggio di potenza di fuoco segua un attacco di fanteria di


proporzioni tanto modeste, appoggiato da pochi mezzi corazzati. Il 23 marzo, dopo una settimana di tentativi e di perdite, Alexander ordina a Freyberg di fermarsi e consolidare le posizioni: è ormai evidente che il fronte di Cassino non può essere sfondato senza un impiego massiccio di uomini e mezzi e l’operazione viene perciò rinviata.

Il “discorso della caffettiera” La lentezza delle operazioni militari è destinata ad avere ripercussioni sul piano politico. A livello internazionale riaffiorano le divergenze tra americani e inglesi: nell’amministrazione di Washington si rafforza la convinzione che «continuando ad appoggiare il re e Badoglio, si sarebbe avuto a che fare con un

soggetto

politico

fallimentare»,

come dimostrano

«i numerosi

compromessi fatti dal governo con gli amministratori locali fascisti» e come evidenzia «l’abisso che separa il popolo italiano da Vittorio Emanuele e Badoglio».41 Tra gli stessi inglesi ci sono manifestazioni di dissenso da parte sia dell’opposizione laburista, sia di un personaggio di primo piano come il ministro residente ad Algeri MacMillan, secondo il quale la politica adottata da Churchill e Eden è troppo rigida: «Confessione e penitenza sono i sacramenti più idonei all’assoluzione del peccatore, ma mi sembra anche difficile rifiutare, pur con un certo tatto, l’assoluzione».42 All’interno del Regno del Sud i rappresentanti dei partiti cercano di varare a metà dicembre la prima iniziativa per mettere alle corde il governo Badoglio, convocando a Napoli un congresso dei comitati di liberazione nazionale delle regioni liberate. Inizialmente vietato dal comando alleato su pressione di Badoglio con la motivazione che Napoli è troppo vicina al fronte, il congresso si tiene un mese più tardi a Bari (28-29 gennaio) ed è


dominato dalle personalità di maggior spicco, liberali moderati come Croce e Arangio-Ruiz: al centro del dibattito è la pregiudiziale su Vittorio Emanuele III,

tenendo ben separata la figura del sovrano dall’istituto monarchico,

insistendo sui richiami all’Italia prefascista e prefigurando il futuro assetto del Paese secondo un’ottica di conservazione. I rappresentanti dei partiti di sinistra contrappongono programmi massimalisti (Oreste Lizzadri, su indicazione di Nenni, parla di repubblica socialista dei lavoratori e di socializzazione dei mezzi di produzione), ma in nome dell’unità di azione concordano poi su un ordine del giorno sfumato, i cui punti salienti sono la costituzione di una giunta esecutiva permanente composta di rappresentanti di tutti i partiti, e la richiesta di abdicazione del re, «presupposto innegabile della ricostituzione morale e materiale italiana».43 Per un verso, l’antifascismo esce dal congresso con il limite di una prospettiva politica di difficile praticabilità, perché la pregiudiziale su Vittorio Emanuele conferma la situazione di impasse e limita l’azione nelle settimane successive a contatti di vertice (in particolare, quelli di Enrico De Nicola, che prospetta al re e al conte Acquarone l’ipotesi della costituzione di una luogotenenza sino a un referendum

popolare);

per

altro

verso,

l’espressione

organizzata

dell’antifascismo, che corrisponde ai voti espressi dalla conferenza di Mosca, indebolisce e isola ulteriormente il governo Badoglio. Il Regno del Sud offre l’immagine sempre più marcata di una frantumazione irreversibile di esperienze e di condizionamenti geografici e politici: «Vi era la popolazione comune svolgente una vita interamente vegetativa; vi erano le truppe inglesi e americane assorte nella guerra e nella loro organizzazione di motori, armi, veicoli, sovrapposta a quella locale che spesso schiacciava; infine, c’erano lo Stato e i partiti politici che vivevano con un’intensità, l’uno decrescente e gli altri crescente, mano a mano che si allontanavano da Brindisi».44


Nel mese di febbraio 1944, due avvenimenti restituiscono, tuttavia, ossigeno al governo. L’11 vengono trasferiti all’autorità italiana i territori già liberati, a eccezione delle zone poste nelle immediate retrovie del fronte, e lo stesso giorno Badoglio si trasferisce dalla Puglia a Salerno. Il passaggio di poteri non allarga i ristretti margini di autonomia del governo, ma rappresenta un passo in avanti verso la ricostruzione del Paese e un successo di immagine per il maresciallo. Un altro avallo viene da Churchill, che per controbilanciare il peso della giunta nominata a Bari e replicare alle pressioni americane, il 22 pronuncia un discorso alla camera dei comuni sostenendo la necessità di appoggiare Vittorio Emanuele e Badoglio per «evitare un cambiamento della situazione proprio quando la battaglia ha raggiunto il momento decisivo e l’esito è quanto mai incerto»: con una metafora di dubbio effetto, Churchill aggiunge che «quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico fino a quando non si è sicuri di trovarne uno altrettanto comodo e pratico o almeno finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio».45 L’infelice paragone suscita reazioni indignate da parte dei partiti italiani di sinistra, ma sul piano dei rapporti internazionali l’intervento di Churchill è una conferma dell’appoggio britannico al re e al maresciallo. Stretto tra i contraccolpi della situazione diplomatico-militare e l’opposizione dell’antifascismo organizzato, Badoglio cerca una nuova strada per uscire dall’isolamento stabilendo contatti con l’Unione Sovietica, nella prospettiva di indurre gli angloamericani a garantirgli margini di manovra meno ristretti. Mosca, che ha interesse a incrinare il monopolio angloamericano nel Mediterraneo, dimostra disponibilità a riallacciare i rapporti con l’Italia, anche se non a livello di ambasciatori. Il governo Badoglio avanza in marzo una richiesta ufficiale e il 14 viene annunciata


l’apertura di relazioni diplomatiche tra Unione Sovietica e Regno del Sud, suscitando le reazioni degli angloamericani. Mason-MacFarlane comunica a Badoglio che «il suo governo non aveva diritto a entrare in relazione con potenze straniere senza il consenso preventivo del comandante alleato nel Mediterraneo»; gli americani denunciano invece l’ostinazione inglese nel sostenere a ogni costo Badoglio, e Roosevelt scrive a Churchill di non capire perché «si debba ancora esitare ad appoggiare i partiti antifascisti italiani».46 L’estremo tentativo del maresciallo di rilanciare le sorti del suo governo, inserendosi nelle contraddizioni dell’alleanza tra i tre grandi, «finiva così con un peggioramento della sua situazione, perché la crisi aperta nei rapporti con gli angloamericani non trovava un corrispettivo nei rapporti aperti con l’Unione Sovietica, che sviluppava la sua politica estera con molta prudenza, badando a non contrastare quella degli alleati».47


1

Winston S. Churchill, La seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1953, parte V, vol. 1, p. 174. 2

I comandi alleati informeranno in via riservata delle clausole dell’“armistizio lungo” i governi che succederanno a quello di Badoglio sino alla fine del controllo alleato in Italia, nel 1947. 3 La citazione da “The Times” del 2 ottobre 1943 è in Mario Toscano, Altre rivelazioni sull’armistizio di Malta, in “Nuova Antologia”, novembre 1964, p. 313. 4 David W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione angloamericana in Italia 1943-46, Feltrinelli, Milano 1977, p. 62. 5 Nicola Gallerano, La disgregazione delle basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno e il ruolo delle masse dei contadini, in Aa.Vv., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-44, Feltrinelli, Milano 1974, p. 463. 6 Winston S. Churchill, La seconda guerra mondiale, cit., parte V, vol. 1, p. 111. 7 Giampiero Carocci, Togliatti e la Resistenza, in “Nuovi Argomenti”, nn. 53-54, novembre 1961-febbraio 1962, p. 125. 8 David W. Ellwood, op. cit., p. 207. 9 Ivi, p. 68. 10 Ernesto Ragionieri, Il partito comunista, in Leo Valiani e altri, Azionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Angeli, Milano 1971, p. 357. 11 Il testo di Churchill è contenuto in una lettera a Harold Macmillan, addetto politico britannico presso il quartier generale di Eisenhower (Winston S. Churchill, La seconda guerra mondiale, cit., parte V, vol. 1, p. 136). 12

Secondo quanto scrive Giacomo Zanussi, la richiesta di allontanamento viene fatta dagli angloamericani all’inizio di novembre per Roatta e qualche giorno più tardi per Ambrosio perché considerati criminali di guerra; Badoglio parla invece di spontanee dimissioni di Ambrosio per raggiunti limiti di età (cfr. Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, cit., p. 827).


13

Telegramma di Badoglio ai prefetti, datato 21 settembre 1943, citato in Nicola Gallerano, La disgregazione delle basi di massa, cit., p. 472. 14 Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud, Miglioresi, Roma 1946, p. 107. 15 Giampiero Carocci, Togliatti e la Resistenza, cit., p. 126. 16 Benedetto Croce, Diario (10 ottobre 1943), Laterza, Bari 1981, p. 136. 17 Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, cit., p. 833. 18 Giuseppe Conti, Il Primo Raggruppamento motorizzato, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1984, p. 17. 19 Ivi, p. 57. 20 Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, cit., p. 834. 21 Cfr. Romain Rainero (a cura di), I prigionieri italiani durante la seconda guerra mondiale. Aspetti e problemi storici, Marzorati, Milano 1985 e Flavio Conti, I prigionieri di guerra italiani 1943-45, il Mulino, Bologna 1986. 22 Valdo Zilli, Gli italiani prigionieri in Urss: vicende, esperienze, testimonianze, in “Rivista di storia contemporanea”, n. 3, 1981, p. 213. 23 Cecil Sprigge, Prefazione ad Annibale Del Mare, La guerra è passata, Tosi, Roma 1945, p. XVI. 24

La citazione di Alan Moorehead è tratta da David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 64. 25 Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud, cit., p. 353. 26 Nicola Gallerano, La disgregazione delle basi di massa, cit., pp. 43638. 27 Ivi, p. 448. 28 La relazione del questore di Avellino, datata 31 marzo 1941, è citata in ivi, p. 454. 29 David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 323. 30 Nicola Gallerano, La disgregazione delle basi di massa, cit., p. 482.


31

Ivi, p. 454. 32 Relazione del generale Vincenzo Dapino al comando della 36ª divisione fanteria americana e al comando corpo d’armata americano, datata 10 dicembre 1943, riportata in allegato a Giuseppe Conti, Il Primo Raggruppamento Motorizzato, cit., pp. 262-63. 33 Ivi, p. 105. 34 La relazione del capitano Aldobrando Medici Tornaquinci, datata 24 gennaio 1944, è riportata in ivi, pp. 142-45. 35 Maura Piccialuti Caprioli, La cobelligeranza e la lotta di liberazione nell’opinione pubblica italiana, in Aa.Vv., La cobelligeranza italiana nella lotta di liberazione in Europa, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1986, p. 393. 36 “Corriere Alleato”, 8 aprile 1944. 37 Gilbert Alan Shepperd, La campagna d’Italia 1943-45, Rizzoli, Milano 1970, p. 269. 38 Dominick Graham e Shelford Bidwell, La battaglia d’Italia, Rizzoli, Milano 1989, p. 181. 39 Ivi, p. 192. 40 Ivi, p. 233 Tra i tanti contributi sulla distruzione dell’abbazia di Montecassino cfr. David Hapgood, David Richardson, Montecassino, Rizzoli, Milano 1985, dove la ricostruzione tende a sottolineare la complessità delle diverse motivazioni militari e dove è indicata un’esauriente bibliografia. Le polemiche su Montecassino scoppiano in modo clamoroso nel 1950, quando Clark, poco prima di essere chiamato a combattere in Corea, pubblica un’autobiografia intitolata Calculated Risk, in cui addossa la responsabilità del bombardamento a Freyberg e all’accondiscendenza di Alexander: la denuncia urta contro l’orgoglio nazionale neozelandese e, indirettamente, inglese, e apre un dibattito sui giornali di tutto il mondo. 41 David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 67.


42

Ivi, p. 69. 43 Presentato da Michele Di Pietro per il partito liberale, Andrea Galdo per la democrazia del lavoro, Adolfo Omodeo per il partito d’azione, Luigi Sansone per il partito socialista, Paolo Tedeschi per il partito comunista e Angelo Venuti per la Democrazia cristiana, l’ordine del giorno dice: «Il congresso, udita e approvata la relazione di Arangio-Ruiz sulla politica interna; ritenuto che le condizioni attuali del Paese non consentono la immediata soluzione della questione istituzionale; che, però, presupposto innegabile della ricostruzione morale e materiale italiana è l’abdicazione immediata del re, responsabile della sciagura del paese; che questo congresso, espressione vera e unica della volontà della nazione, ha il diritto e il dovere, in rappresentanza del popolo italiano, di proclamare tale esigenza; dichiara la necessità di pervenire alla formazione di un governo con i pieni poteri del momento di eccezione e con la partecipazione di tutti i partiti rappresentati al congresso che abbia i compiti di intensificare al massimo lo sforzo bellico, di avviare a soluzione i più urgenti problemi della vita italiana, con l’appoggio delle masse popolari, al cui benessere intende lavorare, e di predisporre con garanzia di imparzialità e libertà la convocazione dell’assemblea costituente, da indirsi appena cessate le ostilità; delibera la costituzione di una giunta esecutiva permanente, alla quale siano chiamati i rappresentanti designati dei partiti componenti i comitati di liberazione, e che in accordo col comitato centrale e in contatto con le personalità politiche riconosciute come alta espressione dell’antifascismo, predisponga le condizioni necessarie al raggiungimento degli scopi suddetti». 44 Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud, cit., p. 165. 45 David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 70. 46 Piero Pieri e Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, cit., p. 845. 47 Ivi, p. 856.


5 Il Comitato di liberazione nazionale di Roma

La dichiarazione del 16 ottobre Superate le fasi convulse dell’armistizio, la prima presa di posizione politica di rilievo è rappresentata dalla mozione approvata da tutti i rappresentanti del CLN di Roma il 16 ottobre, pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Germania del governo di Brindisi. Di fronte a quello che è un palese tentativo di far assumere al re e a Badoglio l’iniziativa della lotta contro il nazismo, il CLN afferma che la condizione prima per condurre efficacemente la guerra di liberazione è la creazione di un governo straordinario che sia espressione delle forze antifasciste. Dopo aver ribadito l’opposizione al fascismo mussoliniano risorto a Salò, il documento afferma la priorità della guerra di liberazione, per la quale è indispensabile l’aggregazione di tutte le forze sane della nazione: la realizzazione di una «sincera e operante unità spirituale del Paese» non può però svilupparsi «sotto l’egida dell’attuale governo costituto dal re e da Badoglio», prima complici

del

fascismo,

quindi

responsabili

dell’8

settembre.

Dall’intransigenza antibadogliana nasce la proposta di costituire un governo straordinario, «espressione di tutte quelle forze politiche che hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista e sin dal 1939 si sono schierate contro la guerra nazista». Il programma del governo straordinario è


sintetizzato in tre punti: «Assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato evitando ogni atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione; condurre la guerra di liberazione a fianco delle Nazioni Unite; convocare il popolo al cessare delle ostilità per decidere sulla forma istituzionale dello Stato».1 All’ordine del giorno del 16 ottobre si è arrivati non senza forti contrasti: di fronte all’azione moderatrice di uomini come Bonomi e Ruini, che vogliono

scongiurare

le

potenzialità

rivoluzionarie

del

movimento

resistenziale e incanalarlo nell’alveo di una lotta di liberazione nazionale condotta in nome della continuità dello Stato, a fine settembre comunisti e socialisti hanno firmato un patto di unità d’azione in cui si indica come obiettivo della lotta una democrazia popolare, prima tappa verso la conquista del socialismo.2 Alcuni gruppi della sinistra vanno però oltre, in nome della più rigorosa intransigenza: all’inizio di ottobre l’ala massimalista del PSIUP attacca la stessa politica unitaria del CLN, sostenendo che la collaborazione con i partiti borghesi è paralizzante e imbriglia le forze rivoluzionarie in un atteggiamento dilazionatorio e perdente; Lelio Basso contrappone all’unità antifascista la parola d’ordine della rivoluzione proletaria, da sviluppare contro i tedeschi e i fascisti, ma anche contro i capitalisti. Resa impraticabile dall’opposizione del PCI e del PDA (in particolare, l’azionista La Malfa e il comunista Secchia stigmatizzano queste posizioni come espressione del più trito massimalismo), il progetto di denuncia della destra ciellenistica come complice della monarchia e delle forze conservatrici del Regno del Sud rappresenta comunque un momento di grave crisi e una seria minaccia all’unità del CLN. In questo contesto, il voto unanime del 16 ottobre costituisce una tappa importante: da un lato, esso sancisce un rinnovato impegno unitario dei partiti antifascisti; dall’altro, costituisce una vittoria


delle forze progressiste che portano il CLN a rivendicare la direzione del Paese e a dichiarare la propria opposizione al governo badogliano. Frutto di un compromesso tra la mozione di rottura del PSIUP, la proposta azionista di sospensione formale delle prerogative della corona e le resistenze di Bonomi, il testo definitivo presentato dal democristiano Giovanni Gronchi ha tuttavia il limiti di non contenere nessuna previsione organizzativa:3 la formulazione lascia spazio al contrapporsi di due diverse interpretazioni giuridico-formali, dietro le quali si nascondono due differenti progetti politici. Da un lato, Bonomi e le forze moderate insistono sulla «Costituente come massima, indicando nel governo straordinario la sede del potere esecutivo e legislativo, fatta salva la prerogativa regia dell’investitura del capo del governo»; dall’altro, le sinistre respingono le pregiudiziali avanzate da Bonomi («non turbare la concordia del Paese») e considerano la Costituente non un obiettivo, ma un diritto che «sorge per via autonoma in conseguenza stessa della guerra».4 La contrapposizione interpretativa nasce già all’indomani della riunione di Roma: il 25 ottobre il CLN di Milano approva l’ordine del giorno romano, proponendo una precisazione in tre punti atta a sgomberare il campo dagli equivoci: «1 – ministri nominati dal re sino alla convocazione della Costituente e dal re non revocabili per nessun motivo; 2 – nessun giuramento nelle mani del re, ma solenne promessa di fronte al popolo italiano di condurre la guerra e di convocare subito dopo la Costituente; 3 – nel caso di rimpasti ministeriali o di altri provvedimenti che comportino l’esercizio della funzione di capo dello Stato, queste dovranno essere esercitate dal capo del governo

antifascista».5

La

“querelle”

sull’interpretazione

autentica

dell’ordine del giorno del 16 ottobre si protrae nei mesi successivi, condizionando l’attività del CLN romano che, a metà novembre, ribadisce la


chiusura a Badoglio per poi tornare a riunirsi soltanto il 18 gennaio 1944. Il confronto teorico procede parallelo alle iniziative politiche: Bonomi si mostra sollecito ai segnali che gli provengono dal sud dalle forze del compromesso liberale e dagli ambienti monarchici e «avvia una sottile trattativa diplomatica per il mantenimento dello status quo governativo fino alla liberazione di Roma»;6 all’opposto, i partiti di sinistra sottoscrivono l’11 dicembre a Roma un’intesa che impegna

PCI, PSIUP

e

PDA

alla «più ferma e radicale

intransigenza nei riguardi della monarchia e di Badoglio» e a un’azione comune di direzione politico-militare della guerra di liberazione, da condurre «con estrema energia e in tutte le sue forme contro i tedeschi come contro i fascisti».7 In entrambi i casi si tratta di operazioni autonome dal CLN, sorta di iniziative strategiche che mirano a condizionare gli orientamenti successivi dell’organismo unitario anticipandone le scelte. La pluralità di posizioni si intreccia con la pluralità di centri direzionali, inseriti in realtà geografiche, politiche e militari molto diverse tra loro, che suggeriscono priorità distinte e impediscono uno scambio regolare e rapido di informazioni (i contatti sono ardui non solo tra Brindisi e Roma, ma anche tra Roma e Milano, ostacolati da bombardamenti, controlli fascisti e tedeschi, interruzioni di linee ferroviarie e strade). Se nel CLN di Roma prevale il dibattito sul problema del governo straordinario e dell’atteggiamento da tenere verso Vittorio Emanuele e Badoglio, a Milano le urgenze della lotta partigiana spingono verso gli aspetti operativi della Resistenza e il dibattito si orienta sul terreno delle dimensioni e delle caratteristiche dell’azione armata; nel Regno del Sud la centralità spetta invece alla questione istituzionale e alla richiesta di abdicazione, posta da Croce e Sforza come condizione pregiudiziale. La complessità del quadro geopolitico si riflette all’interno degli stessi partiti. Nel PCI, per esempio, Luigi Longo, rappresentante del partito al nord, si


preoccupa dell’unità antifascista e si domanda se sia tatticamente opportuno l’irrigidimento antibadogliano; Mauro Scoccimarro, da Roma, giudica invece eccessive le preoccupazioni milanesi per il fascismo di Salò e sostiene la necessità di un’opposizione intransigente al re e al suo governo.8 A livello di CLN centrale una sferzata attivistica si ha nel gennaio, come conseguenza sia dello sbarco alleato ad Anzio, sia del congresso dei partiti a Bari. Poiché la testa di ponte costituita il 22 gennaio dagli angloamericani sul litorale laziale sembra preludere a una rapida liberazione della capitale, c’è la necessità di delegare a Milano la direzione politica della Resistenza: la delega viene ufficializzata con una lettera del 31 gennaio che investe il CLN di Milano dei poteri di governo straordinario del nord. Mentre a Roma si costituirà un governo democratico secondo le condizioni fissate dall’ordine del giorno del 16 ottobre, il CLN di Milano, che assume la denominazione di CLNAI (Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia), deve considerarsi il

rappresentante del nuovo governo in territorio occupato e agire come un centro dirigente e organizzativo di tutto il movimento partigiano. Le linee di condotta indicate sono improntate a un rigoroso attivismo militare: obiettivo immediato è «colpire il nemico subito, con tutti i mezzi, negli uomini e nelle cose, nei gangli vitali, nelle vie di comunicazione»; obiettivo finale, «l’insurrezione generale contro l’occupante», da raggiungere dando un deciso impulso a tutte le forze di azione, «dalla guerra di bande agli scioperi, dai sabotaggi alle manifestazioni popolari». Fin qui il documento ricalca le posizioni delle sinistre, confermando il ruolo che esse vanno assumendo all’interno dello schieramento antifascista. La conclusione è invece un invito a privilegiare a qualunque costo l’unità: «Non permettete a influenze reazionarie di minare la vostra compattezza e di paralizzare le vostre iniziative, impedite che le basse speculazioni disgregatrici servano gli


interessi del nazismo e del fascismo».9 Riconoscendo formalmente la direzione di Milano, il CLN romano contribuisce a superare le tendenze regionalistiche che si sono manifestate nei primi mesi, in particolare quelle del CLN piemontese che, forte del movimento partigiano sviluppatosi nella regione, è restio a riconoscere la superiorità gerarchica di Milano. Negli stessi giorni, un’altra questione sollecita il dibattito, il congresso dei partiti antifascisti di Bari, dove le deliberazioni sono generiche, prospetta l’abdicazione come auspicabile e circoscrive la richiesta di un nuovo governo alla formula dei pieni poteri (senza la specificazione sollecitata da Roma e Milano di «governo straordinario che assuma tutti i poteri costituzionali»). Liberali e democristiani interpretano positivamente i risultati del congresso, mentre comunisti e azionisti, pur constatando che a Bari si è realizzato un compromesso sbilanciato verso le posizioni moderate, esprimono una valutazione cautamente critica per il timore di ripercussioni sull’unità antifascista. I socialisti, che vivono una stagione di accentuato estremismo politico e ideologico, prendono invece una posizione molto netta e chiedono che il governo straordinario assuma «i poteri del parlamento e della corona», con il conseguente «accantonamento della monarchia».10 La radicalizzazione del dibattito interno porta entrambi gli schieramenti a ritenere giunto il momento di operare una forzatura, le sinistre per assumere la direzione del fronte resistenziale, i moderati per resistere a un’influenza che è andata aumentando nel corso dei mesi: il problema del governo straordinario e della sua investitura diventano così l’occasione di una grave crisi nel CLN centrale. Nella seduta del 1° marzo Bonomi propone, infatti, la sua ipotesi moderata e, superando le deliberazioni dell’autunno precedente, in nome del realismo politico afferma che bisogna accettare il compromesso con la monarchia come unica strada percorribile: attorno a questa posizione fanno


blocco democristiani, liberali e demolaburisti. La replica delle sinistre risente delle incertezze presenti nei singoli partiti: mentre nel PSIUP emergono le tradizionali oscillazioni tra l’anima riformista e quella massimalista, il PCI appare disorientato dall’iniziativa sovietica che, proprio in quelle settimane, stabilisce rapporti diplomatici con il Regno del Sud. Alla fine prevalgono le posizioni del PDA, che respinge le posizioni di Bonomi e ne accetta le dimissioni, ribadendo le priorità indicate nell’ordine del giorno del 16 ottobre. In questo modo le forze più progressiste si assumono la responsabilità di rompere il fronte unitario e di aprire una nuova fase politica, nella quale o trovano gli strumenti per tradurre in capacità operativa le proprie ipotesi e per assumere l’effettiva direzione del movimento antifascista, oppure rischiano di portare a uno stato di generale “impasse”, pericolosa e compromettente per la stessa guerra partigiana: un’alternativa grave e decisiva, che, tuttavia, sarà rimessa in discussione di lì a pochi giorni dall’arrivo di Togliatti da Mosca e della nuove direttive dei comunisti.

Gli scioperi del marzo 1944 Nella prima settimana di marzo i lavoratori dei centri industriali del nord scendono in lotta con una serie di agitazioni che coinvolgono sia la tradizionale area del triangolo industriale, sia zone periferiche dell’Emilia e del Veneto sino ad allora rimaste ai margini delle manifestazioni operaie: diversificate per capacità di mobilitazione e per condizioni oggettive (in alcune aziende l’agitazione dura poche ore, in altre si protrae per tutta la settimana), le manifestazioni coinvolgono migliaia di lavoratori in un movimento di protesta coordinati, di cui è evidente la valenza politica antinazista. Lo sciopero è frutto di una preparazione iniziata due mesi prima,


quando i comunisti hanno creato il Comitato segreto di agitazione, un organismo apposito che, scavalcando il CLN, ha il compito di organizzare un’agitazione estesa, formulandone le rivendicazioni e garantendone il coordinamento. L’ipotesi iniziale è maturata nel clima di fervore di gennaio, quando lo sbarco ad Anzio alimenta l’illusione di essere alla vigilia di avvenimenti bellici decisivi: le direttive comuniste chiariscono che tutte le organizzazioni del partito devono «insistere sugli obiettivi politici, la cacciata dei tedeschi e dei fascisti, e la conquista della libertà e dell’indipendenza. E si deve fare un piano militare, città per città, per scegliere gli obiettivi da conquistare e per attrezzare una difesa armata delle fabbriche. Le formazioni partigiane e gappiste devono fornire un sostegno armato alle lotte operaie».11 Nei giorni successivi, la mancata liberazione di Roma e il parziale insuccesso dello sbarco di Anzio correggono l’impostazione insurrezionale e inducono la propaganda comunista a un parziale recupero di parole d’ordine rivendicative (la rivalutazione dei salari, l’opposizione allo smantellamento delle industrie e alla deportazione dei lavoratori in Germania), ma nella sostanza lo sciopero conserva uno spiccato carattere politico, con obiettivi che vanno dalla rottura del fronte attesista al rilancio della centralità della classe operaia nella lotta di liberazione e al rafforzamento del PCI all’interno del CLN. In questo senso l’iniziativa trova serie resistenze da parte degli elementi moderati dello schieramento antifascista, preoccupati dal carattere prevaricatorio dei comitati d’agitazione, ma anche da parte dei vertici del PSIUP, che nel loro lavoro di propaganda non fanno cenno alla mobilitazione per lo sciopero generale. Per il PSIUP i ritardi dell’avanzata alleata, la fragilità del tessuto organizzativo nelle fabbriche, le prese di posizione di Churchill con il “discorso della caffettiera” costituiscono altrettanti elementi negativi che devono far decidere per un rinvio dello sciopero; all’opposto, gli stessi


elementi sono giudicati dal PCI motivi in più per reagire con una sferzata di attivismo al rischio di stagnazione e alle tentazioni attendistiche. Nella preparazione dello sciopero il ruolo complessivo del CLNAI e dei CLN

regionali risulta così modesto, mentre l’iniziativa è dei comitati di

agitazione controllati dai comunisti e la rete organizzativa è garantita dai quadri di base emersi nelle lotte dell’autunno precedente. Partita il 1° marzo, l’agitazione ha maggiore ampiezza a Milano, dove le stesse fonti fasciste calcolano centomila scioperanti; riesce, pur con qualche difficoltà, a Torino e nel circondario, così come ottiene risultati significativi in alcune realtà liguri (Savona, Vado, La Spezia) e si estende a realtà dell’Emilia e del Veneto (si fermano la Ducati e la Weber di Bologna, le Reggiane e l’Arrigoni di Cesena, i tessili di Schio, Valdagno e Padova); per contro, risulta debole in zone di forti tradizioni sindacali, come Biella e la val Sesia, dove la messa in ferie delle maestranze si intreccia con le difficoltà del movimento armato colpito dai rastrellamenti12 ed è del tutto irrilevante a Genova. In questo alternarsi di aree avanzate e di zone d’ombra, le agitazioni proseguono per qualche giorno, scontrandosi sia con la repressione aperta (con centinaia di arresti), sia con il rifiuto pregiudiziale dei tedeschi a concessioni di qualsiasi genere, sia con la tattica delle serrate e dei presidi armati che, tenendo i lavoratori fuori dalle fabbriche, ne riducono la compattezza. In presenza di una reazione rigida e abile e in assenza di interventi partigiani capaci di trasformare lo sciopero in insurrezione, la combattività operaia si smorza e il 5 marzo il comitato di agitazione decide di far rientrare la mobilitazione. Nel suo complesso, il risultato dello sciopero è contraddittorio, viziato dal mancato chiarimento tra l’impostazione di tipo insurrezionale e il processo di carattere politico-rivendicativo. Il proposito insurrezionale si è rivelato subito impraticabile, sia per l’oggettiva difficoltà di intervento delle formazioni


partigiane, sia per l’isolamento sociale della classe operaia; la rigida posizione dei tedeschi che rifiutano qualsiasi trattativa, d’altra parte, vanifica la piattaforma rivendicativa, trasformando l’agitazione in una questione di principio e di scontro puramente politico. «A Milano la mancanza di concrete indicazioni rivendicative favorisce una condotta passiva dello sciopero e una dispersione della forza d’urto della classe operaia; a Torino la lotta termina con la delusione per la mancanza di risultati tangibili, sia sul terreno delle rivendicazioni economiche sia su quello delle aspettative insurrezionali; a Genova la sfiducia e il timore di esporsi in uno scontro che è impossibile vincere provocano in partenza il fallimento dell’agitazione.»13 In questo senso, nel movimento del marzo 1944 emerge la tendenza operaia alla concretezza degli obiettivi e una certa diffidenza verso l’uso del proprio potenziale di mobilitazione in uno sciopero prevalentemente politico: di fatto, l’esperienza appare il frutto di una forzatura e il movimento andrà incontro a un lungo periodo di stasi. Nella prospettiva generale del movimento di liberazione, lo sciopero appare però una importante manifestazione di forza e di coraggiosa determinazione: migliaia di lavoratori mobilitati in un territorio occupato dalle forze di Hitler e controllato da quelle di Salò, l’interruzione per una settimana della produzione bellica, la sfida aperta al potere nazifascista, il sostegno sia pure solo propagandistico delle forze rappresentate nei CLN costituiscono altrettanti elementi di radicalizzazione dello scontro. A dimostrare la preoccupazione ingenerata nelle autorità tedesche è l’intervento dello stesso Hitler, che in marzo ordina la deportazione del 20 per cento degli scioperanti dell’Alta Italia e il loro affidamento a Himmler per il servizio del lavoro (il progetto non viene comunque attuato in quelle proporzioni). I fascisti, a loro volta, si rendono conto che le manifestazioni delegittimano il


governo di Salò, incapace tanto di guadagnare consenso quanto di mantenere la pace sociale, e ne vanificano il programma di socializzazione decretato poco prima. La stampa angloamericana, per contro, esalta le manifestazioni come espressione della forte volontà antifascista del popolo italiano e il “New York Times” scrive che «in fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa assomigliare alla rivolta degli operai italiani».14

Le formazioni partigiane nella primavera 1944 Quanti sono i partigiani armati all’inizio della primavera 1944? Secondo Leo Valiani, oltre trentacinquemila;15 secondo Ferruccio Parri, «cinquemila in Piemonte, tremila in Lombardia, duemila in Veneto!»;16 il comando generale delle Garibaldi non fornisce cifre, ma a fine marzo annuncia che sono già state costituite otto brigate e altre tre sono in fase di costituzione;17 da parte sua Mussolini, incontrando Hitler a Klessheim in aprile drammatizza la situazione dicendo di ritenere il movimento forte di sessantamila uomini, specialmente in Piemonte.18 La difficoltà delle stime non nasce soltanto dalle incertezze delle fonti, ma anche dall’articolazione dell’esperienza partigiana, frazionata tra combattenti armati che risiedono stabilmente nelle formazioni, volontari ancora privi di armamento, valligiani che mantengono le residenze abituali pur partecipando alle azioni, collaboratori stretti, referenti locali, staffette, gappisti. Probabilmente non è lontano dal vero Giorgio Bocca quando indica in trentamila unità la consistenza effettiva dei partigiani armati e attivi all’inizio della primavera. Al di là dei numeri, un elemento è comunque certo: il fenomeno ribellistico, pur restando un’esperienza minoritaria, va aumentando i propri effettivi. I nuclei della prima resistenza


autunnale, sopravvissuti ai rastrellamenti e all’inverno, si irrobustiscono con nuove reclute: in parte si tratta di “sbandati” dell’8 settembre che, dopo essere rientrati nei propri paesi d’origine in attesa degli eventi, raggiungono le formazioni spinti insieme dalla tensione morale, dalla pressione di rapporti amicali precostituiti, dalle difficoltà della latitanza individuale; in parte di lavoratori che hanno acquistato una coscienza antifascista attraverso l’esperienza delle lotte operaie; in parte ancora di giovani che maturano una scelta consapevole di militanza attraverso le sollecitazioni eccezionali del periodo. Il numero più significativo è però costituto dai coscritti renitenti ai bandi di Salò, la cui adesione al movimento partigiano si sviluppa sul terreno prepolitico come rifiuto di combattere con i tedeschi. La montagna è una garanzia per la renitenza, un ambito territoriale di rifugio contro la guerra, spesso abbastanza vicino ai luoghi d’origine per risultare psicologicamente rassicurante: sono poi le condizioni della vita in formazione, le esigenze di armamento e di rifornimenti per la sopravvivenza, il confronto con gli elementi più maturi a operare la selezione, trasformando il renitente in partigiano e inducendo invece alla rinuncia gli elementi meno solidi. Il fenomeno, iniziato dopo i bandi dell’autunno, riceve impulso dal decreto adottato il 18 febbraio dal governo di Salò, con il quale si stabilisce la pena di morte per i renitenti. Il maresciallo Graziani lo annuncia a Kesselring con il tono preoccupato di chi affida al rigore repressivo ciò che non ha ottenuto con il consenso: «Oggi con la promulgazione della legge eccezionale che commina la pena di morte per la renitenza, entriamo in un nuovo regime disciplinare e penale che, speriamo, servirà a molto ridurre questo triste fenomeno. Potete essere certo, maresciallo, che questo problema costituisce una delle mie più vive preoccupazioni».19 L’effetto non corrisponde, tuttavia, a quello atteso: se la minaccia di fucilazione spinge molti giovani a


presentarsi ai distretti, spinge nel contempo altri alla militanza partigiana, perché la riduzione dei margini di sicurezza rende sempre meno praticabile la semplice renitenza. Ciò che l’esercito di Salò acquista in effettivi (circa ventimila uomini delle leve ’24 e ’25 presentatisi dopo il 18 febbraio) è vanificato dal corrispettivo aumento del partigianato e dal conseguente maggiore impegno repressivo richiesto alla RSI. Nei primi mesi del 1944 la mappa del ribellismo si arricchisce: se l’Italia settentrionale continua a essere il settore più interessato, il fenomeno si sviluppa in altre realtà regionali (è il caso, in Emilia, del ravennate, del piacentino, dell’imolese; in Toscana, della lucchesia, della garfagnana, del senese, dell’aretino). Insieme alle bande già operanti nelle Marche e nell’Umbria, le formazioni di queste regioni costituiscono una minaccia diretta per le retrovie dello schieramento tedesco, come riconosce lo stesso Kesselring: «Il movimento partigiano diventò molesto nell’aprile 1944, quando le bande cominciarono ad agire sull’Appennino».20 Di fronte all’ampliarsi del fronte resistenziale, il governo di Salò cerca di creare forze specializzate nella lotta antipartigiana, costituendo i reparti della Guarda nazionale repubblicana, i gruppi “Onore e combattimento” (composti da giovani tra i 18 e i 25 anni di assoluta affidabilità politica), i Cars (Centri addestramento reparti speciali) da cui devono uscire i Rap (Reparti antipartigiani): a metà marzo il segretario del partito Pavolini annuncia a Cuneo l’imminente arrivo degli «uomini della nostra ripresa, bene equipaggiati e bene armati, che finalmente, con i camerati germanici, libereranno a poco a poco le nostre vallate».21 L’ostentato ottimismo di Pavolini si scontra però con le difficoltà nelle quali operano le forze armate di Salò e i risultati sono diversi dalle promesse: nell’incontro di Klessheim, Graziani denuncia le insufficienze dei reparti antiguerriglia repubblicani e


afferma che «sono stati impiegati contro i ribelli dai 10 ai 12 battaglioni armati poveramente e mancanti di tutto»,22 troppo poco per avere ragione di un fenomeno che va radicandosi sul territorio.

L’offensiva tedesca in Piemonte Di fronte alle debolezze del governo di Salò, i tedeschi decidono una controffensiva militare affidata al comando antipartigiano delle SS, creati nel gennaio1944 dal generale Willy Tensfeld e alle cui dipendenze operano unità delle SS, reparti dell’esercito di Kesselring e forze della RSI. I primi obiettivi sono le bande emiliane, colpite secondo i metodi già usati in Piemonte nell’inverno precedente: puntate rapide e massicce contro le basi da distruggere, azioni di terrorismo contro la popolazione civile, quindi ripiegamento sulle posizioni di partenza. Quindi è la volta delle Alpi occidentali: con il comando delle operazioni sempre affidato a ufficiali delle SS, a fine marzo vengono attaccate la Valle d’Aosta, la val Casotto, la valle

Varaita, le valli di Lanzo; tra aprile e magio è la volta delle altre vallate del cuneese, di quelle del Pellice, del Chisone, del Sangone, di Susa, del Sesia; quindi dell’Appennino ligure-piemontese, tra Serravalle Scrivia e Genova. La tecnica è quella affinata nella repressione antipartigiana in Russia e in Jugoslavia e prevede l’accerchiamento delle «zone infestate dalle bande», condotta da differenti basi di partenza e realizzata in modo tale da sbarrare ogni via di fuga e di garantirsi contro eventuali tentativi di sfondamento: «Il fondovalle viene percorso da una colonna corazzata, mentre reparti di fanteria marciano parallelamente a essa sui fianchi e sui crinali: altri reparti convergono verso la zona del rastrellamento dalle vallate trasversali e chiudono ai partigiani così accerchiati ogni sbocco, ogni via d’uscita».23


In assenza di preparazione militare specifica e di precedenti esperienze di riferimento, la risposta delle formazioni varia da un settore all’altro. In alcune zone, come in val Varaita, viene adottata la difesa rigida, con sbarramento trasversale delle vallate per infrangere le prime avanzate nemiche; in altre, come la val Casotto, la difesa a oltranza è predisposta con un sistema articolato, una prima linea di avvistamento, uno scaglione di sicurezza, una linea di resistenza rigida; in altre ancora, come in valle Stura e valle Grana, le difese sono disposte sui fianchi della montagna e le colonne nemiche lasciate avanzare nel fondovalle per essere poi attaccate nell’alta valle; diversa ancora l’esperienza della val Sesia, dove le formazioni non accettano lo scontro ma alle prime avvisaglie di rastrellamento si frazionano in piccoli nuclei abbandonando le sedi originarie e lasciando nella zona minacciata solo pattuglie di retroguardia. Gli esiti dei rastrellamenti della primavera sono diversi e dipendono sia dall’impostazione della difesa, sia dalla composizione delle bande, in alcuni casi selezionate e ben organizzate, in altri meno rigorose negli arruolamenti ed esposte all’infiltrazione di spie. Le sconfitte più gravi sono quelle degli autonomi del maggiore Enrico Martini, detto “Mauri”, in val Casotto,24 e quelle dei garibaldini della val Varaita, dove la difesa rigida fallisce perché offre ai tedeschi obiettivi più facilmente localizzabili. Sul colle della Benedicta, nelle Alpi marittime, le formazioni garibaldine e autonome, prive di coordinamento e con molti effettivi ancora disarmati, vengono accerchiate e annientate in ventiquattr’ore;25 in val Sesia, i risultati sono meno drammatici in termini di perdite, ma il frazionamento delle formazioni in tanti distaccamenti crea gravi problemi di collegamento e di riorganizzazione.26 Il ribellismo resiste, invece, con successo dove riesce a combinare il frazionamento e l’elusione dello scontro con i contrattacchi e a frantumare il rastrellamento in una serie di combattimenti d’alta montagna,


come in val Maira, in val Grana e in val Stura, dove i tedeschi, dopo una settimana di scontri, si ritirano senza aver raggiunto gli obiettivi prefissati e le formazioni conservano la propria efficienza militare.27 Il ciclo di rastrellamenti guidati dai comandi tedeschi si integra con la repressione giudiziaria affidata alle autorità fasciste. Il 1° aprile, a Torino, viene catturato l’intero comitato militare regionale e il giorno successivo inizia il processo dell’aula della corte d’assise, presente il ministro degli Interni di Salò Guido Buffarini Guidi. L’esito del dibattimento è segnato dal bisogno del governo fascista di una sentenza che non conceda attenuanti agli imputati: «Chi non c’è stato non può farsi una sia pur vaga idea dell’atmosfera che c’era là dentro. L’aula era un bivacco. Bombe a mano e pistole fin sul banco del tribunale. Divise di tutte le fogge. Non mancavano i “gros bonnets” del neofascismo: c’erano Buffarini Guidi, Zerbino, Solaro, c’era il raccomandabilissimo figlio del console tedesco».28 Il 3 aprile vengono comminate le condanne: otto pene capitali e quattro ergastoli. All’alba del 5 i condannati (tra cui ci sono ufficiali di ispirazione monarchica, operai di vecchia fede socialista e intellettuali azionisti) vengono fucilati nel poligono di tiro del Martinetto.29 Pesante in termini di perdite e di esasperazione dello scontro, la controffensiva di primavera non riesce, tuttavia, ad annientare il ribellismo piemontese. Le formazioni che hanno subito le sconfitte più gravi conservano ancora una struttura minima attorno alla quale ricomporre le forze: tipico il caso dei partigiani di Mauri della val Casotto, i cui superstiti si ritirano oltre il Tanaro e si stabiliscono nelle Langhe, dove raccolgono gli sbandati e riorganizzano i distaccamenti, nuclei originari di quello che diventerà il maggior centro di irradiazione degli autonomi in Piemonte; altrettanto accade in val Sesia, dove il frazionamento di fronte alla repressione sviluppa nuovi


centri di reclutamento nelle aree in cui sono distribuite le varie squadre. L’offensiva tedesca, d’altra parte, stimola la creatività della guerriglia e nuove strade vengono percorse: in alcune zone, l’esigenza di mobilità induce le formazioni ad abbandonare le concentrazioni di uomini in un’unica base e ad articolarsi in una pluralità di squadre agili e capaci di autonomia operativa; in altre, difficoltà di coordinamento inducono alla creazione di un comando unificato in grado di garantire i collegamenti; in altre ancora vengono attuati esperimenti di “pianurizzazione”, con la costituzione di gruppi volanti destinati a operare in pianura, dove le azioni producono maggiori danni al nemico e dove, nel contempo, è più facile lo sganciamento in caso di controffensiva.30

La svolta di Salerno Il 27 marzo Palmiro Togliatti “Ercoli” sbarca a Napoli, dopo un viaggio avventuroso iniziato a Mosca a metà febbraio e proseguito con il consenso angloamericano attraverso il Medio Oriente e l’Africa settentrionale. Sono giorni difficili per l’antifascismo organizzato: il 29 i rappresentanti dei partiti moderati nella giunta del sud presentano infatti un ordine del giorno di protesta contro quelle che considerano le prevaricazioni della sinistra e il liberale Arangio-Ruiz dichiara «assolutamente impossibile» la richiesta azionista di fare assumere alla giunta tutti i poteri.31 Per non arrivare all’immediata rottura, la giunta stessa si aggiorna al 3 aprile. In questa situazione complessa, scoppia la “bomba Ercoli”, come la definirà Pietro Nenni: il 31 marzo, Togliatti interviene al primo congresso del PCI delle regioni liberate e annuncia la svolta comunista: dopo aver ribadito la priorità della partecipazione alla guerra e dell’unità antifascista, egli afferma che


«bisogna mettere fine a una situazione che vede da una parte un governo al potere che non gode di autorità e dall’altra un movimento popolare antifascista con l’autorità ma senza il potere. I partiti antifascisti devono accantonare la questione istituzionale e pensare alla formazione di un nuovo governo che unisca tutte le forze impegnate nello sforzo bellico». A questo Togliatti aggiunge di «non avere alcuna pregiudiziale contro il maresciallo Badoglio per la presidenza di un nuovo governo».32 La posizione deriva da decisioni maturate a Mosca: negli stessi giorni la tesi togliattiana è ampiamente sviluppata in un articolo dell’“Izvestija”, organo del governo sovietico. In un successivo articolo, per i militanti comunisti l’avallo è tale da legittimare il cambio di rotta: come spiega “l’Unità” del 2 aprile, la causa del partito è strettamente legata a quella della lotta di liberazione: «Dall’esito della guerra e dal contributo che daremo a essa dipende tutto il nostro destino, il destino degli operai, dei contadini, dei giovani, degli intellettuali, in una parola il destino della nazione». La «democrazia progressiva» diventa la nuova parola d’ordine su cui devono marciare il partito e le forze progressiste del Paese.33 Le aperture inattese dei comunisti rimettono in movimento il mondo politico antifascista e spostano il baricentro dell’attività dei partiti da Roma all’Italia liberata, dove le intransigenze ideologiche sono meno rigide. Le reazioni sono contrastanti e riflettono sia il comune imbarazzo di fronte a una posizione che risulta spiazzante, sia le diverse prospettive tra il nord, dove dominano le emergenze della lotta partigiana, e i centri romani, dove c’è più spazio per le pregiudiziali ideologiche. I socialisti, con un editoriale di Nenni sull’“Avanti!”, prendono le distanze dalla proposta partecipazionista, ma non si irrigidiscono su una posizione di chiusura: riconoscendo che dopo il congresso di Bari «la barca antifascista è giunta in un punto morto» perché


non è stata presa alcuna decisione per «forzare il re ad abdicare e Badoglio ad andarsene», l’editoriale assicura che «gli organi competenti stanno esaminando la proposta di Ercoli con la volontà di confluire a un risultato e non di impantanarsi in polemiche».34 Il 15 aprile successivo, il consiglio nazionale del PSIUP riunito a Napoli accetta la partecipazione a un governo di guerra per le circostanze eccezionali entro cui esso si configura, ma con la clausola di un impegno comune nel processo di «integrale epurazione e conseguente restaurazione della vita politica ed economica del Paese».35 Tra le file del PDA le resistenze sono più forti: mentre la direzione romana non prende posizione, paralizzata dalla sua stessa incertezza propositiva, i gruppi azionisti del nord rifiutano la proposta togliattiana perché il compromesso squalificherebbe il partito di fronte agli elementi migliori, mossi all’azione politica da pure ragioni morali, sia perché un governo sostenuto da una coalizione

monarchico-comunista

sarebbe

presumibilmente

inetto.

All’opposto, nell’esecutivo del PDA meridionale (cui spetta di fatto la responsabilità delle decisioni in mancanza di indicazioni da Roma), prevale la linea collaborazionista sostenuta tra gli altri da Adolfo Omodeo e Alberto Tarchiani, e il 21 aprile l’adesione al nuovo governo viene approvata a maggioranza.36 I liberali concordano, invece, con la sostanza della proposta di Togliatti, ma tradiscono il disappunto per un’iniziativa che rafforza il ruolo dei comunisti e rischia di sottrarre loro l’egemonia politica avuta sino a quel momento. Il disagio è ben espresso in una pagina di Benedetto Croce, scritta “a caldo” il 2 aprile, in cui si riconosce l’abilità tattica dei comunisti e si denuncia l’ostinazione angloamericana: «È certamente un abile colpo della Repubblica dei soviet vibrato agli angloamericani perché, sotto colore di intensificare la guerra contro i tedeschi, introduce i comunisti al governo, facendoli iniziatori di una nuova politica sopra e contro gli altri partiti, che si


troveranno costretti a seguirli. La colpa di quanto accaduto è tutta dei Churchill, degli Eden, dei Roosevelt, che hanno per più mesi respinto le ragionevoli e ragionate proposte e le premure dei liberali e dei democratici italiani che chiedevano l’allontanamento del re per formare un governo democratico».37 Maggiore disponibilità mostrano i democristiani, che sono stati esclusi dalle trattative dirette con la monarchia: con un’intervista di Giulio Rodinò a “Il Popolo” essi esprimono riserve sulla forma perché i comunisti non hanno informato prima le altre forze politiche, ma riconoscono la validità dell’impostazione di Togliatti, che nasce dalla necessità di «salda unione» fra i partiti dei comitati di liberazione: «I democratici cristiani non possono essere contrari al fine cui tende la dichiarazione del PCI, convinti che questo atteggiamento corrisponda alla volontà della grande maggioranza del popolo italiano».38 Di fronte alla mossa abile di Togliatti, gli stessi angloamericani si trovano a disagio per un’iniziativa che permette all’Unione Sovietica di intervenire nella situazione interna italiana e avvertono l’inevitabilità di un coinvolgimento di tutti i partiti per temperare il successo comunista. Come osserva Harold Macmillan, con una colorata metafora calcistica, «due mesi fa ci venne passata la palla e, con la nostra evidente incapacità di adottare una politica costruttiva, la perdemmo. Adesso i russi se ne sono impossessati e stanno andando a rete».39 Per Washington e Londra la contromossa non può che essere l’intensificarsi della cooperazione con cui assicurarsi i mezzi per equilibrare lo sviluppo dell’influenza sovietica nel Mediterraneo e una rettifica di rotta sul problema del governo, con l’apertura a un esecutivo fondato sulla partecipazione delle forze antifasciste. L’evolversi degli eventi scaturisce implicito da queste posizioni. Il 6 aprile si riunisce la giunta esecutiva permanente40 e approva all’unanimità una mozione in cui si


dichiara che «la formazione di un Gabinetto di guerra è da considerarsi di estrema urgenza» e va raggiunta «senza aspettare la liberazione di Roma».41 L’8 la Commissione alleata di controllo avalla l’operazione esprimendo l’auspicio

che

«questi

sviluppi

possano

presto

portare

a

una

democratizzazione del governo italiano come risultato di un accordo tra tutti i partiti politici»:42 Il 12, Vittorio Emanuele III, sollecitato dagli Alleati e dagli esponenti liberali, annuncia il suo ritiro dalla vita pubblica e la nomina del principe Umberto a «luogotenente generale del Regno», fissando al giorno della liberazione di Roma il passaggio materiale dei poteri.43 Il 24 aprile, infine, il processo avviato dalle dichiarazioni di Togliatti approda all’insediamento del primo governo di unità nazionale, presieduto dal maresciallo Badoglio: su richiesta degli angloamericani, il capo del governo conserva il dicastero degli Esteri e i tre ministri militari sono confermati nelle rispettive competenze; gli altri incarichi sono divisi tra i partiti del CLN su base paritetica, mentre alcuni tra i più noti esponenti dell’antifascismo organizzato (Benedetto Croce, Palmiro Togliatti, Carlo Sforza, Giulio Rodinò, Pietro Mancini) entrano nella compagine come ministri senza portafoglio, a garanzia dell’impegno dei rispettivi partiti. Il programma è limitato a pochi punti essenziali, che sono promuovere la guerra contro i tedeschi e l’epurazione degli elementi fascisti e gestire l’ordinaria amministrazione, rinviando alla fine della guerra tutti gli altri problemi: si tratta di obiettivi circoscritti che rispecchiano le debolezze di un governo di transizione incerto sulle origini della propria legittimità, ma anche la base di partenza per il processo di democratizzazione istituzionale del Paese.

Composizione del governo di unità nazionale (24 aprile-6 giugno 1944)


Presidente del consiglio: Pietro Badoglio. Esteri: Pietro Badoglio. Guerra: gen. Taddeo Orlando. Marina: amm. Raffaele De Courten. Aeronautica: gen. Renato Sandalli. Agricoltura e foreste: Fausto Gullo (PCI). Giustizia: Vincenzo Arangio-Ruiz (PLI). Educazione nazionale: Adolfo Omodeo (PDA). Finanze: Quinto Quintieri (indipendente). Interni: Salvatore Aldisio (DC). Lavori Pubblici: Alberto Tarchiani (PDA). Industria, Commercio, Lavoro: Attilio Di Napoli (PSIUP). Comunicazione: Francesco Cerabona (DL). Ministri senza portafoglio: Benedetto Croce, Pietro Mancini, Giulio Rodinò, Palmiro Togliatti.

Il significato politico della svolta I “modi” della svolta di Salerno sono destinati a incidere sulla storia italiana più a fondo e più a lungo della svolta stessa: l’iniziativa vincente di una forza politica che sino ad allora è stata considerata rivoluzionaria e antinazionale e che in questo modo si legittima invece come forza nazionale, inserita a pieno titolo nel gioco politico democratico, introduce un elemento di novità di vaste proporzioni, che rimette in discussione ruoli e funzioni all’interno dello schieramento antifascista e condiziona profondamente gli indirizzi del movimento resistenziale. Le valutazioni dell’iniziativa di Togliatti determinano subito due schieramenti contrapposti. Per gli uni, la


mossa di “Ercoli” ha in primo luogo il merito di aver sbloccato la situazione di stallo determinatasi dopo il congresso di Bari, dando nuovo impulso alla lotta armata contro i tedeschi; in secondo luogo, la costituzione del nuovo governo Badoglio permette l’esautoramento di un esecutivo di funzionari legati al vecchio regime e scongiurato il pericolo che, dopo la liberazione di Roma, si crei un ministero moderato senza la presenza dei partiti della sinistra. Per gli altri, la svolta è invece una scelta tattica inopportuna, sia perché la situazione politica si sbloccherebbe comunque di lì a poco con la liberazione di Roma, sia perché la soluzione di compromesso è destinata a frenare lo sviluppo democratico della Resistenza, rilegittimando le forze conservatrici raccolte attorno a Badoglio e vanificando l’obiettivo di risanare moralmente

e

politicamente

la

nazione;

inoltre,

la

disponibilità

partecipazionista di Togliatti è giudicata il frutto delle indicazioni provenienti da Mosca, che da un lato inserisce i comunisti nella realtà italiana, dall’altra fa ricadere i costi dell’operazione sugli altri partiti di sinistra creando una rigida polarizzazione tra PCI e forze moderate. Una prima considerazione che si impone è che la svolta di Salerno «non fu soltanto un momento della vita interna e dei rapporti tra le forze politiche italiane», ma anche, e forse soprattutto, «un fatto di vita internazionale, legato alle relazioni tra le grandi potenze che combattevano contro il nazifascismo».44 L’Italia è, in qualche misura, il banco di prova della sfida tra le potenze alleate. Il regime armistiziale, che esclude i sovietici dai meccanismi di controllo, costituisce una soluzione unilaterale che Stalin adotterà a sua volta per amministrare i Paesi dell’area balcanica liberati dall’Armata rossa: la spartizione dell’Europa in aree di influenza, che abitualmente viene fatta risalire alla conferenza di Yalta, è in realtà già implicita nelle scelte adottate per il caso italiano.45 Esautorata dall’Italia per


la logica delle rispettive presenza militari, l’Unione Sovietica si sforza di rientrare nel gioco attraverso due strumenti, non a caso coincidenti nei tempi di impiego: le aperture diplomatiche verso il governo Badoglio e l’iniziativa di Togliatti: «Benché non avessero ancora rinunciato a trarre tutti i possibili vantaggi dell’alleanza con le potenze occidentali, i sovietici avviano un’azione parallela, con obiettivi suoi propri, non necessariamente divergenti ma certamente diversi da quelli angloamericani, e l’Italia, essendo il primo caso in cui tale diversità si era manifestata, era anche il primo caso in cui l’azione parallela prendeva forma, con l’obiettivo di ottenere con altri mezzi ciò che era stato negato dal negoziato diretto».46 In questo quadro diventa secondario stabilire se la decisione di Togliatti è maturata autonomamente rispetto ai centri decisionali sovietici o se ne è una conseguenza diretta. Tra politica sovietica e interessi del PCI si prospetta una sostanziale coincidenza che, sfruttando il dissenso tra americani e inglesi sul problema del governo italiano e giovandosi dell’ostinazione di Churchill nella difesa di Vittorio Emanuele III e Badoglio, porta Togliatti a operare la scelta decisiva della svolta, che garantisce l’ingresso del PCI nell’area governativa e all’Unione Sovietica la possibilità di mettere sul tappeto della politica italiana tutti gli elementi in grado di controbilanciare l’influenza degli alleati occidentali. Una seconda considerazione riguarda le conseguenze della scelta per il PCI. Nel breve periodo essa significa inserirsi a pieno titolo all’interno della

lotta politica italiana e del meccanismo dello Stato, assicurandosi il ruolo di principale interlocutore delle forze moderate e degli angloamericani: nel contempo, lo stretto legame con Mosca garantisce ai comunisti un peso internazionale che né i socialisti, né gli azionisti hanno e, di fronte alle masse, «il prestigio sufficiente per mantenere il difficilissimo equilibrio tra la politica di “solidarietà nazionale” e quella di difesa degli interessi di classe


del proletariato». In una prospettiva di lungo periodo, inoltre, l’uscita dall’isolamento apre un primo spazio al “partito nuovo” di massa che Togliatti intende costruire e alle prospettive della “democrazia progressiva”: anzi, «il modo specifico di questo avvio, cioè l’apertura e la capacità di concessioni alla destra e agli occupanti, aiutano il partito a farsi nella società il centro di aggregazione di forze reali al di là del proprio ambito tradizionale di classe».47 La scelta presenta, tuttavia, un rovescio della medaglia, imponendo costi politici che ricadono sia sulle esigenze di rinnovamento della società meridionale, sia sull’insieme delle forze di sinistra. Il riconoscimento esplicito del governo regio da parte comunista e l’accordo con forze sociali e politiche conservatrici che già hanno sostenuto il vecchio ministero cristallizzano, infatti, gli equilibri che il Mezzogiorno ha raggiunto e consolidato durante il fascismo: in un’area non attraversata dall’esperienza resistenziale, il compromesso «ha l’effetto di rendere più indolore possibile il passaggio dall’antico al nuovo blocco moderato interclassista, ma comporta il recupero pressoché integrale delle strutture statali ereditate dal passato, rendendo più difficile la democratizzazione tentata negli anni successivi».48 Per altre vie, ripercussioni di freno si hanno sui rapporti politici più generali: i modi e i tempi dell’operazione affossano il tentativo di formare un «governo straordinario con tutti i poteri costituzionali dello Stato», avanzato dal CLN, e ridimensionano il ruolo delle forze progressiste che su quel terreno intendono giungere alla rottura completa con il passato. Se è vero che il compromesso con la monarchia e la sua classe dirigente evita alla sinistra il rischio di essere estromessa dalla direzione del Paese, è altrettanto vero che il terreno di incontro con le forze del passato frena le aspirazioni al rinnovamento e reintroduce una pratica trasformistica di antiche tradizioni. Nel momento in


cui l’interlocutore privilegiato diventa un partito comunista strettamente legato a Mosca, lo schieramento moderato è spinto su posizioni di maggior prudenza e alla ricomposizione con una parte almeno delle forze conservatrici del Ventennio. L’assunzione dell’iniziativa d’intesa da parte del PCI, infine, mette in crisi gli alleati di sinistra, confinando per un lungo periodo i socialisti in un ruolo di subalternità e ridimensionando gli azionisti. Il progetto politico del PDA si fonda, infatti, sull’ipotesi della propria centralità di partito, che dovrebbe garantire loro la leadership governativa nell’eventualità di una soluzione politica più avanzata, e, in caso di una coalizione moderata insediata al governo, quella di riferimento privilegiato tra le forze di opposizione: la polarizzazione PCI-moderati avviata con il compromesso di Salerno toglie invece spazio a ogni ipotesi di centralità che non sia semplice subordinazione strategica all’uno o agli altri e rappresenta per gli azionisti una sconfitta «le cui conseguenze non possono in nessun modo essere minimizzate».49


1

La mozione approvata dal CLN di Roma il 16 ottobre 1943 viene

pubblicata su tutta la stampa clandestina del periodo e ampiamente commentata. 2 Il patto di unità d’azione è sottoscritto da Nenni, Saragat e Pertini per il PSIUP, e da Amendola e Scoccimarro per il PCI. 3

Il valore dell’ordine del giorno del 16 ottobre è oggetto di una diversa interpretazione: giudicato fondamentale dagli azionisti, viene invece ridimensionato dalla storiografia comunista che sottolinea la contraddizione tra un contenuto positivo nella sostanza e una formulazione scarsamente operativa. 4 Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione, cit., p. 150. 5 Franco Catalano, Storia del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, Bompiani, Milano 1956, p. 74. 6 Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione, cit., p. 155. 7 Il testo dell’intesa tra i tre partiti della sinistra dell’11 dicembre 1943 viene variamente pubblicato sulla stampa clandestina del tempo. 8 Sulla polemica Longo-Scoccimarro, cfr. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista, cit., parte V, pp. 113-18. 9

Franco Catalano, Storia del Comitato di liberazione dell’Alta Italia, cit., pp. 116-17. 10 Approvato dalla direzione del PSIUP il 9 febbraio, il documento è pubblicato sull’“Avanti!” del 14 febbraio 1944. 11 Le Direttive per l’organizzazione dello sciopero generale e dell’insurrezione nazionale, datate 25 gennaio 1944, sono riportate in Adolfo Scalpelli, Sciopero e guerriglia in Val Padana, Argalia, Urbino 1972, pp. 1420. 12 Anello Poma, Gianni Perona, La Resistenza nel Biellese, Guanda, Parma 1974, cit., pp. 145-46. 13 Aa.Vv., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-44, cit., p 86.


14

“New York Times”, 14 marzo 1944. 15 Leo Valiani, La Resistenza italiana e la questione istituzionale, in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, nn. 52-53, 1958, p. 83. 16 I dati sono contenuti in una lettera di Ferruccio Parri indirizzata ad Allen Dulles e datata 8 maggio 1944, riportata in Pietro Secchia, Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, Feltrinelli, Milano 1962, p. 87. 17 L’indicazione è in una lettera di Pietro Secchia alla direzione del partito a Roma, datata 28 marzo 1944, riportata in Luigi Longo, Un popolo alla macchia, Editori Riuniti, Roma 1947, p. 102. 18 Cfr. Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, cit., p. 671. 19 La lettera di Graziani a Kesselring, datata 18 febbraio 1944, è riportata in Albert Kesselring, Memorie di guerra, Garzanti, Milano 1954, p. 197. 20 Ivi, p. 186. 21 La citazione del discorso di Pavolini, pubblicato su “La Sentinella delle Alpi” del 22 marzo 1944, è riportata in Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., p. 286. 22 Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, cit., p. 671. 23 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 283. Le azioni di rastrellamento vengono condotte secondo le indicazioni del manuale 69/2 Bandenbekampfung (“lotta antibande”) compilato per ordine del generale Jodl ed entrato in vigore il 1° aprile 1944, (riportato in Alessandro Politi, Le dottrine tedesche di controguerriglia 1936-1944, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1991, pp. 373 e sgg.). 24 Il maggiore Enrico Martini è un ufficiale di stato maggiore e nel novembre 1943 succede al colonnello Rossi nel comando delle formazioni autonome del basso cuneese. 25 Molti partigiani della Benedicta, giovani renitenti ai bandi di Salò privi di preparazione militare e in parte di armi, di fronte al rastrellamento tedesco si lasciano prendere dal panico e anziché cercare di sganciarsi dalla zona di


operazioni si nascondono in una grotta, dove vengono facilmente catturati: 75 di loro vengono fucilati il 7 aprile presso il santuario diroccato. 26 Cfr. Pietro Secchia, Cino Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano, cit., p. 123 e sgg. 27 Per le tattiche adottate dai partigiani giellisti nelle valli Grana e Stura, cfr. Dante Livio Bianco, Guerra partigiana, cit., pp. 89-94 e Giorgio Bocca, Partigiani della montagna, Bertello, Cuneo 1945, pp. 52-59. 28 La testimonianza di uno dei due imputati assolti, Valdo Fusi, è citata in Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 291. Paolo Zerbino (futuro ministro degli Interni di Salò) all’epoca è prefetto di Torino, Giuseppe Solaro il commissario federale del PFR. 29

I caduti del Martinetto sono il generale Giuseppe Perotti, Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Erik Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano. 30 Secondo Roberto Battaglia, la scoperta della “pianurizzazione” va attribuita alla 4ª brigata Garibaldi (già distaccamento Pisacane) di Pompeo Colajanni “Barbato”, attiva nel Monferrato: in realtà la “pianurizzazione” è un’esperienza sviluppatasi contemporaneamente in più aree e anticipata nelle teorizzazioni di alcuni resistenti già nell’autunno 1943. 31 Aurelio Lepre, La svolta di Salerno, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 84. 32 Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, cit., vol. V, p. 306. Inizialmente convocato per il giorno 29 marzo, il congresso viene posticipato al 31 dopo l’arrivo di Togliatti. 33 Sulle reazioni interne al PCI dopo la svolta di Salerno cfr. Giorgio Amendola, Lettere da Milano 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 300 e sgg. 34 L’editoriale di Pietro Nenni è pubblicato sull’edizione romana dell’“Avanti!” del 5 aprile 1944. 35 La risoluzione del PSIUP meridionale del 15 aprile 1944 è riportato in


Simone Neri Serneri (a cura di), Il partito socialista nella Resistenza. I documenti e la stampa clandestina (1943-1945), Nistri-Lischi, Pisa 1988, pp. 137-38. 36 Cfr. Giovanni De Luna, Storia del partito d’azione, cit., pp. 176 e sgg. 37 La pagina di diario del 2 aprile 1944 è riportata in Benedetto Croce, Scritti e discorsi politici, Laterza, Bari 1963, p. 289. 38 L’intervista a Giulio Rodinò è su “Il Popolo”, 8 aprile 1944. 39 Harold Macmillan, Vent’anni di potere e guerra, Mondadori, Milano 1969, p. 589. 40 La riunione avviene nella casa di Benedetto Croce, a Sorrento, e oltre ai membri effettivi della Giunta vi partecipano Palmiro Togliatti, Carlo Sforza e Giulio Rodinò. 41 Il testo della mozione è riportato in Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud, cit., p. 400. 42 La dichiarazione della Commissione alleata di controllo è riportata in ivi, p. 403. 43 La proposta della “luogotenenza”, elaborata da De Nicola, è accettata dal re, il quale però vuole rinviarla alla liberazione di Roma: dopo un brusco intervento degli angloamericani che vogliono l’abdicazione subito, si giunge alla mediazione di annunciare pubblicamente l’istituzione della luogotenenza e contemporaneamente di rinviare il passaggio materiale dei poteri, un compromesso accettato dalle parti come il male minore. 44 Ennio Di Nolfo, La svolta di Salerno come problema internazionale, in Augusto Placanica (a cura di), 1944 Salerno capitale. Istituzioni e società, ESI, Napoli 1986, p. 21. 45 Cfr. Ennio Di Nolfo, L’armistizio dell’8 settembre come problema internazionale, in “Nuova Antologia”, ottobre-dicembre 1983, pp. 14 e sgg. 46 Ennio Di Nolfo, La svolta di Salerno, cit., p. 29. 47 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Feltrinelli, Milano 1976,


p. 165. 48 Nicola Gallerano, La disgregazione delle basi di massa, cit., p. 493. 49 Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione, cit., p. 176.


6 La liberazione di Roma

Le operazioni militari «Nella tarda serata dell’11 maggio, duemila cannoni alleati aprivano il fuoco per uno sbarramento simultaneo di artiglieria da Cassino al mare. Quarantacinque minuti dopo la fanteria diede inizio al suo attacco: erano forze inglesi, indiane, francesi, marocchine, polacche. […] Il mattino del 18 maggio, dopo quasi una settimana di continui combattimenti, le truppe polacche innalzarono la propria bandiera sulle rovine del monastero di Montecassino: dopo sei mesi di battaglia, la strada per Roma era aperta. Il 23 maggio più di 150 000 soldati angloamericani riuscirono a sfondare ad Anzio il perimetro entro il quale erano stati intrappolati per quattro mesi, e due giorni dopo, il 25, si collegarono con le forze alleate avanzanti da sud. Quello stesso giorno i soldati americani entrarono a Velletri, a meno di 40 km da Roma e la sera del 4 giugno raggiunsero il centro della capitale italiana. “In che magnifica maniera hanno combattuto le nostre truppe!” telegrafò quel giorno Churchill a Roosevelt. Il giorno seguente, dopo un formale e trionfale ingresso in Roma, i soldati alleati continuarono a inseguire verso nord i tedeschi in ritirata».1 L’offensiva di primavera, che in meno di un mese porta allo sfondamento della linea Gustav e alla liberazione di Roma, è stata pianificata a lungo dal


comando alleato per non ripetere gli errori dei mesi precedenti. A mano a mano che si avvicina la data fissata per l’“operazione Overlord” sulle coste settentrionali della Francia, la necessità di trattenere quante più divisioni tedesche possibile lontano dalla Normandia diventa il fattore predominante della strategia alleata nel Mediterraneo: in questo senso, la campagna d’Italia diventa prioritaria per ragioni insieme strategiche e politiche. Sul piano militare, si tratta infatti di impegnare tutte le truppe di Kesselring già nella penisola, eventualmente di costringere i comandi di Berlino a inviare rinforzi oltre il Brennero, di occupare i campi di aviazione vicini a Roma per integrare quelli disponibili in Corsica; sul piano politico, liberare la capitale avrebbe invece un forte impatto emotivo sull’intera economia della guerra e per questo gli Alleati vogliono conseguirlo prima dello sbarco in Normandia (a metà aprile, il generale Clark viene appositamente convocato a Washington per riferire quali siano le reali possibilità di arrivare a Roma prima dell’invasione oltre Manica). L’attacco, preceduto da uno sforzo intenso dell’aviazione contro i principali centri ferroviari dell’Italia settentrionale per sconvolgere le linee di rifornimento tedesche,2 è definito a fine aprile e scatta alle ore 23.00 dell’11 maggio: «Ci si proponeva di distruggere l’ala destra della X armata tedesca, di respingere i resti suoi e della XIV armata a nord di Roma, di incalzare il nemico sino alla linea PisaRimini. L’VIII armata britannica ricevette l’ordine di sfondare attraverso la valle del Liri e di avanzare lungo la via Casilina, mentre l’attacco simultaneo della V armata americana avrebbe colpito il saliente di Ausonia e sarebbe avanzata parallelamente all’VIII armata. Al momento opportuno, la forza del generale Truscott, ad Anzio, avrebbe attaccato lungo l’asse Cisternina-Cori e tagliato la via Casilina all’altezza di Valmontone, impedendo così i rifornimenti e il ritiro dell’armata germanica. Solo allora le armate avrebbero


effettuato la puntata contro Roma e, in base ai confini stabiliti tra le zone di impiego, toccava agli americani l’onore di entrare in città, mentre gli alleati avrebbero oltrepassato la capitale ai due lati».3 Kesselring, la cui aviazione non è in grado di effettuare i voli di ricognizione necessari per intercettare i piani nemici, non prevede né il punto né la portata dell’offensiva che sta per scattare e ordina spostamenti di truppe nel timore di uno sbarco tra il Lazio e la Toscana: il fronte della linea Gustav viene così indebolito per mandare truppe a Livorno e a Civitavecchia in funzione antisbarco e delle ventitré divisioni a disposizione del comando tedesco solo diciotto possono essere effettivamente impiegate nella battaglia di Roma. L’11 maggio le armate del generale Alexander hanno ottenuto la completa sorpresa tattica e strategica e l’esito dello scontro diventa inevitabile. Mentre i reparti polacchi del generale Anders attaccano Montecassino, le forse francesi del generale Juin sfondano la linea Gustav attraverso i monti Aurunci aprendo la strada del Liri. Kesselring, sottovalutando l’entità dell’offensiva, ritarda il richiamo delle divisioni inviate in Toscana e non riesce a rafforzare in tempo né la linea Hitler, né la successiva linea Caesar e, pur contendendo il terreno alle armate alleate per tre settimane, è costretto a ritirarsi dalla Campania e dal Lazio meridionale. A fine maggio, quando il generale Clark riesce a congiungersi con la testa di sbarco ad Anzio, il comando germanico ordina la ritirata verso nord rinunciando a un estremo tentativo di resistenza nella capitale per evitare il pericolo di accerchiamenti: a Kesselring non resta che abbandonare ponte Milvio e la periferia settentrionale della città per risalire in modo rapido il Tevere, lasciandosi alle spalle ventimila prigionieri e diecimila tra morti e feriti (il 3 giugno, a La Storta, pochi chilometri a nord di Roma, viene comunque compiuto un ulteriore atto di crudeltà con la fucilazione di 14


patrioti prelevati dalle carceri di via Tasso: tra loro, il socialista Bruno Buozzi, il quale cade pochi giorni prima che le trattative per la creazione di una confederazione sindacale unitaria, da lui stesso avviate con il comunista Giuseppe Di Vittorio e il democristiano Achille Grandi, giungano a conclusione con la firma del cosiddetto “patto di Roma”). Le proporzioni della sconfitta sono chiare sia ai responsabili militari tedeschi, sia al governo di Salò: Mussolini constata che «le forze del maresciallo Kesselring si stanno ritirando tanto velocemente che sembra doversi escludere la possibilità di una difesa tra Roma e gli Appennini».4 Giuseppe Bottai, rifugiato nei colli Albani, commenta con amarezza nel suo diario l’avanzata degli Alleati e la ritirata tedesca: «Malinconia di quest’epilogo: sdegno, vergogna, miseria infinita nell’anima. Vent’anni di storia giungono a questa triste maturazione: lo straniero insegue lo straniero per le strade e le piazze della mia città».5 Se le valutazioni di Mussolini e di Bottai guardano alla caduta di Roma come a un episodio della guerra tra angloamericani e tedeschi sul suolo italiano, il generale Alexander invia invece ai patrioti dell’Italia occupata un messaggio nel quale colloca la liberazione della capitale in una diversa prospettiva: «Faccio appello a tutti i patrioti d’Italia di insorgere compatti contro il comune nemico. Le armate tedesche sono già in ritirata a nord di Roma e vengono incalzate dalle nostre truppe. Ove il nemico tenti di sottrarsi o attenuare la battaglia di annientamento, faccio appello a voi tutti affinché lo colpiate. Fate tutto quello che è in vostro potere per intralciare i movimenti del nemico, aggravare la sua confusione. La liberazione d’Italia si sta attuando per la vostra causa: collaborate con me, insieme noi raggiungeremo la vittoria!».6 Anche se la città non è insorta e non si sono ripetuti gli episodi di resistenza spontanea del settembre 1943, l’effetto morale della liberazione è destinato ad avere ripercussioni decisive sul movimento resistenziale e


segna comunque l’inizio di una stagione nuova.

Da Badoglio a Bonomi Mentre le armate avanzano verso Roma, il nuovo governo Badoglio sviluppa la sua esperienza politica scontando la difficoltà di rientro nella democrazia dopo vent’anni di dittatura. La caratteristica del nuovo esecutivo consiste nella scissione tra una componente politica d’indirizzo e una tecnica di esecuzione, come ben coglie una battuta subito circolata a Salerno: «Il governo è composto da cinque ministri senza portafoglio e da cinque portafogli senza ministri». L’esigenza di compenetrare la legittimazione democratica con la gestione amministrativa apre la strada a una dicotomia destinata a lasciare il segno e a riproporsi nei governi successivi. Intanto, si sviluppa un confronto tra i partiti che esprimono valutazioni politiche diverse su Badoglio: «I partiti di centro avevano interesse a mettere da parte il maresciallo perché era un alleato imbarazzante e perché la loro politica era mobilitare le forze moderate del Paese attorno a uomini e simboli nuovi, non compromessi col passato: socialisti e azionisti vedevano nel maresciallo il garante della continuità di uno stato antidemocratico e ne chiedevano la sostituzione come premessa necessaria all’opera di rinnovamento; per i comunisti, che volevano impedire la formazione di un governo a egemonia moderata, Badoglio era invece il miglior presidente del consiglio possibile perché la mancanza di una base politica propria lo obbligava a porsi come mediatore tra i diversi partiti e garante del pluralismo di indirizzi del suo governo».7 L’investitura democratica della dirigenza politica non trova, però, sbocco nell’attività concreta del governo. Rinviate alla fine della guerra le scelte


istituzionali e le riforme economiche e sociali, l’attività predominante dell’esecutivo è rivolta a ripristinare il funzionamento delle istituzioni per ricostruire la rete spezzata dei poteri dello Stato e l’operazione avviene in uno spirito di continuità con il passato: Badoglio governa con il personale ereditato dal fascismo e con lo spirito burocratico che già hanno caratterizzato il periodo precedente, applicando con evidente fiacchezza i provvedimenti per l’epurazione e favorendo gli stessi gruppi industriali e agrari che hanno prosperato durante il Ventennio. Al di là di queste considerazioni, è evidente ed esplicitamente ammesso che il governo Badoglio rappresenta una soluzione provvisoria, destinata a essere superata con la liberazione di Roma: il rapido successo dell’offensiva di primavera non fa che anticipare i tempi di una trasformazione prevista. A fine maggio, quando lo sfondamento delle linee germaniche è ormai prossimo, Vittorio Emanuele III tenta di ottenere il permesso di rientrare nella capitale e solo lì cedere l’autorità al luogotenente, ma l’intervento di MacFarlane e di Badoglio, che accetta di mettere per iscritto la richiesta di un immediato trapasso di poteri, lo obbligano a firmare il 5 giugno l’avvento della luogotenenza. Il giorno successivo è lo stesso maresciallo a dimettersi e a ricevere dal luogotenente Umberto l’incarico di formare il nuovo esecutivo. Badoglio e i cinque ministri senza portafoglio partono quindi per Roma, dove la sera dell’8 giugno si incontrano con i membri del CLN romano.8 La riunione ha un esito diverso da quello sperato dal maresciallo, perché la convergenza tra le posizioni dei partiti di centro e quelle azioniste e socialiste portano alla sua eliminazione dalla vita politica. In apertura di seduta Meuccio Ruini, rappresentante Democrazia del lavoro, propone infatti di procedere a un rinnovamento completo del governo e alla costituzione di un esecutivo di unità nazionale senza legami con il passato: dopo di lui, Nenni chiede in


termini espliciti il ritiro di Badoglio; De Gasperi, La Malfa e Casati si associano alla proposta Ruini. Togliatti, che pure è propenso alla collaborazione, non forza la situazione ed esprime l’opinione che il compito del maresciallo sia ormai esaurito. A Badoglio non resta che comunicare al luogotenente la sua rinuncia all’incarico e il commiato avviene con parole piene di acredine: «“Voi siete riuniti ora intorno a questo tavolo in una Roma liberata”, disse Badoglio ai rappresentanti dei partiti, “non perché voi, che eravate nascosti o chiusi in conventi, abbiate potuto fare qualcosa; chi ha lavorato finora, assumendosi le più gravi responsabilità, è quel militare che non appartiene a nessun partito”. Badoglio dimenticava che almeno metà dei presenti aveva alle spalle vent’anni di esilio, di galera e di lotta aperta al fascismo, con il quale egli soltanto aveva collaborato, non senza vantaggi, fino al momento in cui Mussolini lo aveva licenziato».9 Due giorni dopo, il 10 giugno, si forma il nuovo governo, presieduto dall’anziano leader della Democrazia del lavoro, Ivanoe Bonomi, che i partiti del CLN indicano concordemente al principe Umberto. È sintomatico che l’unica protesta per l’accantonamento del maresciallo venga da Churchill, il quale teme che la soluzione politica rischi di intralciare la strategia inglese per l’Italia e si indigna con MacFarlane per avere «acconsentito che questo disastro si compisse»: Mosca non è insensibile alle rimostranze di Londra, convinta che un primo ministro senza base politica è tatticamente utile alle sinistre perché ritarda la costituzione di un saldo fronte moderato, ma gli americani sono irremovibili. «Per Roosevelt il problema primario consiste nel mettere a tacere, in patria e all’estero, le critiche dirette contro il compromesso, accettato sin dai primi giorni dell’armistizio, con i più importanti personaggi sopravvissuti al fascismo. Gli americani sentivano da tempo l’esigenza di allargare politicamente il governo e ritenevano che


qualsiasi tentativo di imporre dei veti avrebbe avuto solo l’aspetto di una interferenza.»10 Di fronte alle posizioni di Washington, Churchill è costretto a cedere, pur imponendo due riserve: la richiesta del riconoscimento formale di tutti i termini dell’“armistizio lungo” e il divieto di riaprire la questione istituzionale prima della fine della guerra. Mentre MacFarlane si dimette e viene sostituito alla guida della Commissione alleata di controllo dall’ammiraglio americano Ellery Wheeler Stone,11 la stampa americana saluta il nuovo governo come un momento di netta rottura con il passato: «Nella politica che abbiamo fatto finora vi era troppo opportunismo e pochi principi», scrive il “Chicago Daily News”. «Come potevamo pretendere di combattere il fascismo mentre noi stessi ci accordavamo con il fascismo o con persone vicine ai fascisti? Il CLN ci ha reso un servizio».12

Composizione del primo governo Bonomi (10 giugno-25 novembre 1944) Presidente del consiglio, Esteri, Interni: Ivanoe Bonomi. Guerra: Alessandro Casati (PLI). Marina: amm. Raffaele De Courten. Aeronautica: gen. Pietro Piacentini. Tesoro: Marcello Soleri (PLI). Giustizia: Umberto Tupini (DC). Industria, Commercio, Lavoro: Giovanni Gronchi (DC). Comunicazione: Francesco Cerabona (DL). Finanze: Stefano Siglienti (PDA). Istruzione pubblica: Guido De Ruggiero (PDA). Agricoltura e foreste: Fausto Gullo (PCI).


Lavori pubblici: Pietro Mancini (PSIUP). Ministri senza portafoglio: Carlo Sforza (indipendente), Benedetto Croce (PLI, poi sostituito da Niccolò Carandini), Alcide De Gasperi (DC), Palmiro Togliatti (PCI), Meuccio Ruini (DL), Giuseppe Saragat (PSIUP), Alberto Cianca (PDA).13 Gli elementi di novità rappresentati dal governo Bonomi sono in realtà più apparenti che reali. Il riconoscimento del CLN come soggetto politico nelle trattative per la formazione del nuovo esecutivo e la formula di giuramento dei ministri che impegnano la propria fedeltà verso la nazione e non verso il luogotenente14 costituiscono infatti dei risultati sul piano formale che non implicano necessariamente spinte innovative sul piano politico. La personalità stessa del capo del governo, che non si presenta come figura forte ma come uomo esperto di governo per essere stato ministro durante e dopo la prima guerra mondiale e presidente del consiglio nel 1921-22, stabiliscono un rapporto di continuità con l’Italia prefascista che sottintende l’intento di ricostituire il vecchio ordinamento piuttosto che di rinnovarlo. I limiti del compromesso di Salerno si riproducono nella situazione romana, con la dicotomia tra livello politico e livello amministrativo e con il rinvio al dopoguerra dei problemi socioeconomici del Paese. Questa prospettiva è implicita nell’atto più significativo del nuovo governo: il decreto luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944. Esso stabilisce che alla fine del conflitto sarà eletta un’assemblea costituente per scegliere la nuova forma di Stato e preparare la nuova costituzione, e attribuisce la funzione legislativa al governo, che sino alla elezione del futuro parlamento emanerà decreti legge sanzionati dal luogotenente. Il decreto contiene un grave elemento di ambiguità perché non chiarisce se l’attribuzione al governo dei poteri legislativi ordinari dura sino alla convocazione della Costituente o a quella


del parlamento fissato dalla nuova costituzione: lascia cioè aperta la porta a una interpretazione restrittiva sull’attribuzione del potere decisionale nel periodo decisivo della ricostruzione, e su questo terreno si muoveranno le forze moderate, in sintonia con gli Alleati, per limitare la facoltà legislativa della Costituente e assicurarla invece al governo, dove la regola dell’unanimità può impedire l’assunzione di provvedimenti più radicali.15 È evidente che nell’Italia del 1944 i margini per soluzioni politiche diverse non sono molti e che l’azione dei partiti non può uscire dai limiti ristretti imposti dal controllo angloamericano: le recriminazioni di Bonomi, che in una lettera a Stalin del 7 agosto lamenta le difficili condizioni dell’Italia, ostacolata «dall’amministrazione e dai controlli alleati» che soffocano «la ripresa attraverso un’enorme burocrazia straniera che si ingerisce di tutto e su tutto»,16 sono espressione di un disagio difficilmente superabile, se non con uno sforzo decisivo da parte del movimento resistenziale del nord.


1

Martin Gilbert, La grande storia della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1990, p. 613. 2 L’operazione prende il nome convenzionale di “Strangle” e impegna gli aerei di tutti i tipi (dai cacciabombardieri ai bombardieri strategici) in un’azione coordinata di “interdizione simultanea”, che ha l’obiettivo di attaccare interi tronchi di linee ferroviarie, compresi i ponti, gli scali, i binari scoperti, le gallerie, i tratti ferroviari “in trincea”. 3 Gilbert Alan Shepperd, La campagna d’Italia 1943-1945, cit., p. 313. 4 Le considerazioni di Mussolini sono contenute in un memorandum sui problemi militari, scritto all’inizio di giugno e indirizzato a Kesselring (cfr. Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, cit., p. 678). 5 Giuseppe Bottai, Diario. 1944-1948, cit., p. 84. 6 Il messaggio del generale Alexander ai patrioti dell’Italia occupata, datato 6 giugno 1944, è riportato in Pietro Secchia, Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, cit., p. 112. 7 Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, cit., p. 851. 8 L’incontro avviene nella stessa sala del Grand Hotel dove, nel 1922, Mussolini aveva formato il suo primo governo. 9 Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, cit., p. 852. L’ultimo atto di governo di Badoglio è la dichiarazione di nullità dell’armistizio di villa Incisa imposto alla Francia il 24 giugno 1940 dallo stesso Badoglio per conto di Mussolini, un gesto di sconfessione del proprio passato esemplificativo delle ambiguità della sua posizione. 10 David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 88. 11 Ellery Wheeler Stone, nato in California nel 1894, esperto di ingegneria radiotecnica, è un capitano di vascello della marina americana, poco dopo promosso commodoro: in Italia egli viene però comunemente indicato come ammiraglio. 12 L’articolo del “Chicago Daily News” del 12 giugno 1944 è riportato in


David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 90. 13 Pietro Nenni non entra nel governo perché impegnato nella direzione dell’“Avanti!” e nella direzione del partito, ma soprattutto perché «non ho fiducia in Bonomi come capo di un governo. È un buon uomo e noi abbiamo bisogno invece di un uomo forte» (Pietro Nenni, Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956, Sugarco, Milano 1981, p. 85). Nella composizione del governo pesano comunque le indicazioni degli Alleati: su Sforza al ministero degli Esteri vi è un veto esplicito di Churchill, così come la conferma di De Courten alla marina è sollecitata dagli inglesi. 14 A differenza dei ministri, il presidente del consiglio Bonomi giura fedeltà nelle mani del luogotenente Umberto. 15 Cfr. Claudio Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in Aa.Vv., Le origini della Repubblica, Einaudi, Torino 1974, pp. 211-16. 16 Cfr. David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 128.


PARTE TERZA La stagione della Resistenza


1 Sulla linea Gotica

Le operazioni militari nell’Italia centrale Esaurita con la liberazione di Roma la prima fase della campagna di primavera, il generale Alexander si propone di continuare la risalita della penisola con l’obiettivo di sfondare a Pistoia e a Bologna entro la metà di agosto: raggiunta la Pianura padana, le sue truppe punterebbero poi a est e si salderebbero in un fronte unico con i sovietici contro il delicato fianco tedesco sudorientale, mettendo nel contempo un’ipoteca britannica sui Balcani. Discusso dai capi di stato maggiore riuniti a Londra tra l’11 e il 13 giugno, questo piano viene ridimensionato dalle pressioni degli americani. Eisenhower ritiene infatti che Alexander debba avanzare sino alla linea Pistoia-Bologna-Rimini, ma a quel punto il teatro italiano esaurisce la sua funzione strategica di tenere lontane le riserve tedesche dalla Francia settentrionale e le divisioni angloamericane rese disponibili devono essere sbarcate in Provenza (la cosiddetta “operazione Anvil”), sia per costringere la Wehrmacht a distrarre truppe dal nord, sia per disporre di un grande porto in Francia dove appoggiarsi per i rifornimenti. Nell’economia della guerra, i comandi americani ritengono che il teatro decisivo sia quello francese e che il peso del fronte balcanico debba essere lasciato all’Armata rossa e ai movimenti partigiani, senza diversioni dalla Pianura padana verso le Alpi


Giulie e la Jugoslavia.1 A livello politico Churchill fa pressioni su Roosevelt perché lo sforzo in Italia non venga ridotto e si raggiungano prima dell’inverno la Pianura padana e Trieste: nella convinzione di poter conservare un ruolo egemonico britannico nello scacchiere del Mediterraneo, egli ritiene che una penetrazione verso est conterrebbe l’avanzata sovietica e permetterebbe una spartizione dei paesi balcanici con Stalin. Roosevelt punta invece a una grande vittoria in Francia per affermare la propria egemonia sull’Europa occidentale e controbilanciare i successi dell’Armata rossa a est: per questo non intende correre rischi sul fronte principale, sul quale si giocano l’immagine e il futuro degli Stati Uniti come potenza mondiale, e ritiene priva di reali prospettive strategiche l’offensiva in Italia (pur raggiungendo Trieste entro il 1944, non sarebbe facile proseguire verso Vienna attraverso le Alpi, né contrapporsi alla schiacciante superiorità sovietica nell’Europa centrale e balcanica). Tra le due impostazioni prevale quella americana, «non soltanto come conseguenza del peso preponderante degli Stati Uniti nella coalizione, ma anche come espressione di una volontà di potenza nuova e ambiziosa».2 L’“operazione Anvil”, ribattezzata “operazione Dragoon”, viene così programmata per metà agosto. Il 13 inizia lo sbarco nella zona di Tolone: tre divisioni d’assalto e 5000 paracadutisti inquadrati nella Settima armata al comando del generale americano Alexander Patch prendono terra costringendo le divisioni tedesche a ritirarsi lungo la valle del Rodano e raggiungono a metà settembre Digione, dove si uniscono agli elementi della Terza armata americana che, dalla testa di sbarco in Normandia, si sono spinti verso est. Lo sbarco in Provenza, pur diventando operativo solo a metà estate, condiziona la campagna d’Italia, dove il generale Alexander riceve l’ordine di mettere a disposizione sette divisioni per l’operazione: la seconda fase


dell’offensiva nella penisola viene così condotta dagli angloamericani con forze proporzionate sia alla mancanza di reali obiettivi strategici, sia alla necessità di continuare comunque gli attacchi, con una inevitabile soluzione di compromesso che garantisce progressi all’avanzata ma rende impossibile una vittoria netta sul campo, prima almeno del completo collasso della Germania nella primavera 1945. Nei dodici giorni successivi alla liberazione di Roma, gli Alleati avanzano di circa 140 chilometri, incalzando la ritirata tedesca a un ritmo che equivale all’inseguimento di un nemico in rotta, ma a partire da metà giugno l’avanzata si riduce a 30-40 chilometri alla settimana. Kesselring, che con un rapido ripiegamento è riuscito a ricongiungere le sue due armate, riceve rinforzi dalla Germania e cerca di riprendere in mano la situazione. La linea d’arresto su cui egli intende attestarsi per una difesa definitiva dell’Italia è la linea Gotica, una posizione prevista sin dall’estate 1943 ma che nel giugno 1944 è ancora in fase di costruzione. Per guadagnare tempo, il feldmaresciallo tedesco adotta una tattica ritardatrice, prima nella bassa Toscana e sul Trasimeno, poi sulla linea dell’Arno, che da Pisa raggiunge Firenze (dove tutti i ponti vengono distrutti ad eccezione del Ponte Vecchio), quindi corre attraverso gli Appennini sino al fiume Metauro, a sud di Pesaro. «Arretrando a brevi tappe di venti chilometri per volta, le retroguardie obbligavano continuamente gli angloamericani ad attaccare su posizioni successive che a seconda della loro forza naturale, venivano difese per periodi sino a tre giorni, dopo di che i difensori si ritiravano occupando le posizioni subito dietro, costringendo gli attaccanti ad avanzare lentamente e con fatica.»3 L’avanzata verso la linea Gotica dura da giugno a settembre, con azioni combinate terrestri e aree. Sul fronte della Quinta armata americana, lo slancio iniziale permette di liberare entro giugno Viterbo, Tarquinia,


Grosseto, per poi raggiungere Volterra l’8 luglio, Arezzo il 15, Livorno il 19 (il porto quasi completamente bloccato da navi affondate e con la zona dei moli pesantemente minata, viene ripristinato solo un mese più tardi); Firenze, insorta prima dell’arrivo degli Alleati, viene liberata il 13 agosto, Pisa il 2 settembre. Sul fronte dell’Ottava armata britannica, il balzo iniziale allontana i tedeschi dall’Abruzzo, dalle Marche e dall’Umbria; una dopo l’altra sono liberate Pescara, Macerata, Orvieto, Orte, Terni, Spoleto, Perugia; il 18 luglio l’Ottava armata è ad Ancona, il 21 a Jesi, a metà agosto sulla linea del Metauro, il 26 i primi reparti superano il fiume. Le operazioni terrestri, condotte prevalentemente dalla fanteria e dall’artiglieria con il concorso importante ma non decisivo dei mezzi corazzati, sono sostenute dagli attacchi aerei, con cui gli angloamericani sfruttano l’assoluto dominio dei cieli: mentre i caccia concentrano gli sforzi sul fronte di battaglia, i bombardieri medi e leggeri raggiungono i centri ferroviari e i nodi dell’Italia settentrionale, con l’obiettivo della distruzione sistematica delle vie di comunicazione e di rifornimento delle armate di Kesselring. Anche se i tedeschi corrono ai ripari utilizzando ponti di barche, istituendo punti di attraversamento con imbarcazioni navetta e impiegando unità di manodopera italiana in un continuo lavoro di ripristino delle comunicazioni stradali e ferroviarie, la situazione della Pianura padana diventa precaria, con la maggior parte dei ponti sul Po divenuti intransitabili e le linee ferroviarie da Milano tagliate verso sud e verso est.

Le stragi naziste nell’Appennino tosco-emiliano Il completamento della linea Gotica da parte dei tedeschi (che per ragioni simbolico-propagandistiche viene ribattezzata dallo stesso Hitler “linea


Verde”)4 avviene sotto la duplice pressione dell’avanzata alleata e delle azioni della resistenza tosco-emiliana. A mano a mano che il fronte si sposta verso l’Appennino, le notizie sugli attacchi partigiani si amplificano allarmando le unità germaniche: «In particolare pareva pericoloso ai tedeschi che i partigiani minacciassero le vie di comunicazione retrostanti il fronte, con il rischio di tagliare la strada ad un eventuale ripiegamento».5 Il timore di un tracollo ormai imminente, la consapevolezza di una guerra perduta, la preoccupazione di trattenere i nemici il tempo necessario a terminare i lavori fortificatori, la sopravvalutazione delle forze partigiane, imprimono una svolta feroce alla repressione. Entro questo quadro militare e psicologico insieme, maturano gli ordini draconiani dell’estate-autunno 1944: impunità ai comandanti

impegnati

nella

repressione

delle

bande

per

eccessi

eventualmente commessi e ordine di fucilazione per i civili che appoggiano in qualunque modo la guerriglia. Il generale Gustav-Adolf von Zangen, comandante dell’Ottantasettesimo corpo d’armata, ordina il 29 giugno che «là dove compaiono bande di notevoli proporzioni, bisogna ogni volta arrestare una determinata percentuale della popolazione maschile della zona e qualora si verifichino violenze, fucilarla. Bisogna farlo sapere agli abitanti. Se in qualche località si sparerà sui soldati, la località stessa dovrà essere incendiata. Esecutori e caporioni verranno impiccati in pubblico».6 Alla “ripulitura” delle aree minacciate dal ribellismo non sono destinate le truppe migliori (utilizzate al fronte), ma, all’opposto, truppe poco addestrate e talvolta irrequiete, comandate da ufficiali che hanno visto la loro carriera interrotta per scarsa affidabilità: ne risulta una miscela esplosiva in cui si mescolano fanatismo nazista, paura, ansia di vendetta, impreparazione militare. In particolare, sull’Appennino tosco-emiliano sono impiegate le unità della Sedicesima divisione corazzata granatieri delle SS “Reiseführer-


SS”, composta dai reggimenti Trentacinquesimo e Trentaseiesimo e da un

reparto esploratori, e comandata dal generale Max Simon: il generale Joachim Lemelsen, comandante della Quattordicesima armata, la descrive come una divisione formata da «quadri molto giovani, poco addestrati e con una ridotta capacità al combattimento, non ancora abbastanza disciplinati ma in ogni caso educati nello spirito delle SS». Questa divisione, ampiamente sottorganico, viene mandata in Italia per l’emergenza successiva alla caduta della linea Gustav: «È psicologicamente comprensibile», afferma ancora Lemelsen, «che questi soldati non fossero all’altezza dell’impegno morale richiesto da simili combattimenti e che dietro la linea del fronte la disciplina fosse scarsa, tanto più che a causa degli aspri combattimenti non sempre i superiori potevano esercitare il controllo necessario».7 Uno degli episodi più efferati avviene il 12 agosto a Sant’Anna di Stazzema, un piccolo borgo dell’Alta Versilia, in provincia di Lucca, sulle pendici delle Alpi Apuane. L’operazione di rastrellamento procede senza incidenti nella prima parte della mattinata, ma nella borgata Vaccareccia un colpo di fucile partito da una casa colpisce alla spalla un soldato. La reazione è atroce: settanta persone vengono rinchiuse in alcune stalle, massacrate a colpi di mitragliatrice e bombe a mano, poi le case vengono incendiate con i lanciafiamme. Sulla piazza di Sant’Anna vengono concentrate altre centotrenta persone, per la maggior parte anziani, donne e bambini, e abbattuti a colpi di mitra: i cadaveri vengono poi cosparsi di benzina e dati alle fiamme. Altre esecuzioni avvengono nelle vicine borgate di Franchi, le Case, Coletti, Mulino di Stazzema, Capezzano Monte; ridiscendendo verso Valdicastello, gli uomini della Sedicesima divisione fucilano altri quattordici civili a Molino Rosso. Il numero complessivo di morti è tradizionalmente fissato in 560, anche se studi più recenti lo hanno ridotto 389: i comandi della


Sedicesima

divisione

non

hanno

comunque

provveduto

a

nessun

approfondimento, fermandosi alla relazione del comandante di battaglione Anton Galler che «si limitò a comunicare che le sue truppe avevano annientato 270 banditi».8 Dopo Sant’Anna di Stazzema la violenza prosegue più a nord, nell’entroterra carrarese, dove la repressione è affidata al Sedicesimo battaglione esploratori del maggiore Walter Reder, uno dei nomi più tristemente noti nella memoria italiana del periodo. Nato nel 1915, Reder ha studiato a Vienna ed è entrato presto nelle file dei nazisti austriaci: come Hitler, egli «proviene da quella piccola borghesia austriaca che passa dalla nostalgia asburgica a un’attesa impaziente di evasioni e di rivincite, poi offerte dall’avventura nazionalsocialista».9 Indagato nel 1934 perché sospettato di aver preso parte all’assassinio del cancelliere Engelbert Dollfuss, si sottrae al processo fuggendo in Germania, dove studia a Berlino ed entra nelle SS. Impegnato prima nella campagna di Francia, poi sul fronte orientale, nel maggio 1944 viene inviato in Italia e assegnato alla lotta contro le formazioni partigiane. Nonostante la militanza nelle file naziste sin dalla prima ora, non è uomo destinato a scalare i vertici militari: «In un profilo del giugno 1944 egli viene definito “un carattere semplice e schietto, di media intelligenza” e un “combattente temerario”, adatto a ricoprire l’incarico di comandante del battaglione di ricognizione, ma non certo a impieghi più importanti o di altro tipo».10 Il mattino del 19 agosto gli uomini di Reder occupano il paese di Bardine San Terenzo, una frazione di Fivizzano, nel carrarese, dove qualche giorno prima c’è stato uno scontro con un gruppo partigiano: dopo aver ucciso una donna, fanno scendere dai camion 53 uomini rastrellati nelle zone vicine e li impiccano nelle strade del paese. Al pomeriggio si spostano nella vicina località di Valla sul Bardine e fanno


strage di 115 persone. Il 24 agosto lo stesso reparto si reca a Vinca, anch’essa una borgata delle Alpi Apuane, uccidendo per rappresaglia 173 persone, di cui 16 bambini con età inferiore ai dieci anni. In quegli stessi giorni un episodio altrettanto raccapricciante accade a Padule di Fucecchio, nel Pistoiese, a opera del Ventiseiesimo reparto esplorante, inquadrati nella Ventiseiesima divisione corazzata del generale Peter Eduard Crasemann: durante un’azione di rastrellamento i molti civili si rifugiano impauriti nella palude che si estende per una decina di chilometri a sud di Montecatini Terme. Temendo che i nascondigli della palude possano favorire attacchi partigiani, i tedeschi sparano raffiche di mitragliatrice e lanciano numerose bombe a mano, uccidendo 184 persone, di cui 63 donne e 27 bambini. A fine agosto, la geografia delle stragi si trasferisce dalla costa tirrenica verso il settore orientale della linea Gotica e iniziano operazioni sistematiche sul versante emiliano dell’Appennino. In questo quadro operativo, dove il timore del crollo del fronte è incombente e le azioni di rastrellamento diventano sempre più aspre, si colloca la strage di Marzabotto, la più drammatica avvenuta in Italia per numero di vittime e per atrocità commesse. Protagonisti sono ancora gli uomini del maggiore Reder, che all’inizio di settembre vengono trasferiti a Rioveggio (Bologna), nella valle del fiume Setta: nelle alture circostanti, Monte Sole, Monte Salvari e Monte Caprara, ha le proprie basi un’agguerrita formazione partigiana, la brigata “Stella rossa”, comandata da Mario Musolesi “Lupo”.11 Poiché nella strategia di Kesselring Monte Sole deve diventare una posizione nevralgica della nuova linea difensiva, l’area va “bonificata” dalle presenze ribellistiche. L’operazione, guidata da Reder, vede la partecipazione non solo del Sedicesimo battaglione esploratori, ma anche di uomini del Centocinquesimo reggimento “Flak” della Luftwaffe e dei collaborazionisti russi del Centocinquantanovesimo


battaglione dell’est, oltre ad alcuni fascisti locali, conoscitori dei luoghi, che fungono da guide. Il piano di Reder è semplice: marciare verso Monte Sole lungo tre direttrici (Grizzana Morandi, la valle del Reno e la valle del Setta), eliminando chiunque si trovi sulla strada, indipendentemente dalla loro appartenenza alle bande. L’azione scatta alle prime luci dell’alba del 29 settembre e termina il 5 ottobre, tra massacri, fucilazioni e borgate incendiate: mentre i partigiani della “Stella rossa” si sbandano e riescono solo in parte a sganciarsi, i civili inermi cadono uno dopo l’altro. Il battaglione dell’est uccide almeno 120 persone, le compagnie del reparto esploratori 368, i reparti della contraerea 97: «Ne risulta un totale di 585 persone uccise sulle montagne, a cui si deve aggiungere un numero corrispondente di persone sterminate nel fondovalle».12 Crimine compiuto dalle truppe sul campo, la strage di Marzabotto trova comunque l’avallo del comando superiore: già la sera del 29 settembre, informato che nella zona ci sono stati duecento nemici uccisi, Kesselring si congratula con il comando del Sedicesimo battaglione delle SS, manifestando la sua «riconoscenza per il bel risultato ottenuto».13

La battaglia della linea Gotica A settembre, dopo aver percorso in tre mesi circa cinquecento chilometri, gli Alleati sono di fronte alla linea Gotica, un sistema articolato esteso da costa a costa (da La Spezia a Rimini) che sfrutta le posizioni naturali favorevoli rafforzandole con il ricorso alle mine, alle distruzioni stradali e ferroviarie e ai lavori di fortificazione campale in cemento armato. Un rapporto relativo alle opere di difesa, steso all’inizio di settembre, elenca 2376 appostamenti di mitragliatrici, 479 posizioni per cannoni anticarro, per mortai e per cannoni d’assalto, 120 000 metri di filo spinato e molti


chilometri di fosse anticarro. Il sistema difensivo approntato dai tedeschi a ritmi accelerati presenta, tuttavia, dei limiti, sia per la mancata strutturazione in profondità, sia perché la ricognizione e la costruzione sono partite da sud con il risultato che non sempre le postazioni hanno adeguate vie d’accesso dalle retrovie, sia infine perché le fortificazioni si sono concentrate nei settori naturalmente più forti e difendibili lasciando in parte scoperti quelli più deboli.14 Gli angloamericani non sono però in grado di sfruttare appieno questi limiti: «La dottrina militare della prima e della seconda guerra mondiale indica che, per avere probabilità di successo, l’attacco a postazioni fortificate deve essere condotto almeno con una superiorità di forze di tre a uno, possibilmente di cinque a uno. Ora la superiorità alleata nella seconda parte della campagna d’Italia è forse di due a uno per quanto riguarda l’artiglieria e la fanteria combattente, ma viene vanificata dalla rapidità con cui i tedeschi riescono a spostare le loro truppe: poiché il dominio alleato dell’aria non basta a bloccare questi movimenti, l’offensiva si arena sulla seconda linea di resistenza tedesca».15 A questo bisogna aggiungere le difficoltà di trasporto in un terreno che le piogge d’autunno, cadute abbondanti e in anticipo, rendono fangoso, impedendo quasi completamente il movimento dei veicoli fuori dalle poche strade disponibili. Entro questo quadro si sviluppa il piano di attacco denominato “operazione Olive”, messo a punto dal generale Alexander, dal generale Oliver Leese, comandante dell’Ottava armata, e dal generale Mark Clark, comandante della Quinta armata. Il piano prevede la concentrazione dello sforzo lungo il litorale adriatico contro l’ala sinistra dello schieramento tedesco: l’Ottava armata deve avanzare sulla fascia costiera marchigiana e romagnola, dove il terreno è meno favorevole al nemico, puntando poi sulla direttrice Rimini-Bologna, mentre la Quinta armata deve spingersi verso i


passi della Futa e del Giogo e produrre il maggior sforzo offensivo sulla direttrice Firenze-Bologna. I combattimenti si protraggono da settembre a dicembre e permettono agli angloamericani di ottenere importanti successi parziali (il 20 settembre l’Ottava armata raggiunge Rimini, il 9 novembre Forlì, all’inizio di dicembre Ravenna, mentre la Quinta armata in ottobre è a quaranta chilometri da Bologna), ma la tenace resistenza germanica non permette uno sfondamento definitivo e le posizioni devono essere conquistate una dopo l’altra, con dispendio notevole di uomini, mezzi e tempo. Rendendosi conto della criticità della situazione, a fine ottobre il generale Wilson avverte i capi di stato maggiore alleati che se la linea RavennaBologna-La Spezia non è raggiunta entro la metà di novembre, l’offensiva va interrotta per «la mancanza di formazioni adeguate allo sfondamento e per l’instaurarsi delle avverse condizioni atmosferiche autunnali».16 Le difficoltà incontrate da Eisenhower nel settore nordoccidentale inducono a proseguire comunque lo sforzo in Italia per impedire ai tedeschi di spostare truppe verso la Francia, ma senza le forze necessarie a conseguire risultati decisivi: di fatto, la battaglia della linea Gotica si trasforma in una battaglia di logoramento, con perdite sproporzionate da entrambe le parti e un fronte ormai fissato alle soglie della Pianura padana, tra la Versilia e la Romagna. A questo punto è evidente che la soluzione del conflitto deve essere rinviata alla primavera successiva: il 30 dicembre i comandi alleati ne prendono atto e Alexander ordina l’arresto dell’offensiva.

Le forze regolari del ricostituito esercito italiano Il Corpo italiano di spedizione, operando nel settore dell’Ottava armata, partecipa alle operazioni nell’Italia centrale e nel corso della campagna vede i


suoi effettivi salire da 14 000 a 25 000. Si tratta, comunque, di un’aliquota modesta (circa 6-7 per cento) rispetto al numero di uomini disponibili: nonostante le trasformazioni politiche avvenute con la svolta di Salerno e con il governo Bonomi, gli angloamericani mantengono un atteggiamento di freddezza rispetto al problema della ricostituzione delle forze armate italiane, subordinando le proprie scelte alle esigenze operative contingenti e contribuendo a determinare un’atmosfera di difficoltà materiale e psicologica tra gli uomini reclutati nell’Italia liberata. I soldati italiani (che nel settembre 1944 risultano essere 272 520) vengono «impiegati nelle retrovie come truppe territoriali», perlopiù «utilizzati per lavori di manovalanza, carico e scarico di materiali, lavori del genio e altri servizi».17 Nell’agosto 1944, dopo l’invio di sette divisioni alleate nella Francia meridionale e la conseguente necessità di uomini in Italia, gli Alleati varano un nuovo programma per l’esercito italiano, sancendo la nascita di sei gruppi di combattimento, per una forza complessiva di 60 000 uomini armati. Si mette così in moto la macchina per la costituzione dei gruppi “Cremona”, “Friuli”, “Folgore”, “Legnano”, “Piceno”, “Mantova”, ma le attese suscitate dalla decisione finiscono presto deluse perché il progressivo allontanarsi dell’ipotesi di concludere la guerra entro l’anno allunga i tempi di costituzione e di impiego operativo: a metà novembre, quando il generale Alexander visita i gruppi “Friuli” e “Cremona” esprime compiacimento per il grado di addestramento raggiunto, ma comunica che i reparti saranno impiegati solo a addestramento realmente ultimato: il “Cremona” verrà infatti schierato in combattimento solo nel gennaio 1945, mentre degli altri cinque gruppi previsti, tre (“Friuli”, “Folgore”, “Legnano”) parteciperanno a brevi cicli operativi, uno (“Mantova”) verrà colto dalla fine della guerra in fase di avvicinamento al fronte e l’ultimo (“Piceno”) sarà destinato al centro addestramento reclute.


La sottoutilizzazione delle forze crea una situazione di malessere tra le truppe, soprattutto tra quelle impiegate nei lavori ausiliari delle retrovie, e suscita un corrispettivo disagio nei responsabili militari, come ben documenta nel gennaio 1945 il generale Giovanni Messe: «Il sistema di controllo è diventato più pesante, più invadente, quasi che con il procedere del nostro pur modesto riarmo aumentasse la necessità di garantirsi contro inesistenti conati di evasione». I vincoli posti sono tali, lamenta ancora il generale, da «imbrigliare ogni iniziativa dell’autorità militare italiana e da compromettere seriamente l’autorevolezza dei comandanti di ogni grado».18 Il peso di questi interventi è destinato a condizionare i rapporti tra l’esercito italiano e le formazioni partigiane. Mano a mano che procede l’avanzata nell’Italia centrale, i comandi alleati impongono il disarmo alle formazioni che hanno operato nelle zone liberate e questo porta un numero sempre maggiore di volontari a chiedere l’arruolamento nell’esercito regolare per proseguire in questo modo la lotta di liberazione. Il 17 giugno 1944, mentre il CIL al comando del generale Utili si sta dirigendo verso Ancona, l’ufficio operazioni del comando supremo invia un promemoria al ministro Orlando in cui si segnala la presenza in Abruzzo di molti partigiani che il generale Utili ha invitato ad arruolarsi nel CIL per sfruttarne l’entusiasmo patriottico. Tale iniziativa, sostenuta dai CLN locali, si scontra però con la rigidità dei comandi angloamericani, la cui posizione è molto netta: nell’esercito regolare deve essere immesso un numero di partigiani limitato e controllato, l’arruolamento deve essere rigorosamente individuale, nessuna formazione può essere incorporata come tale. La tecnica utilizzata è quella dello scoraggiamento immediato, come scrive il generale Paolo Berardi, capo di stato maggiore dell’esercito: «Immediato disarmo, inquadramento in truppe di colore, interrogatori come fossero prigionieri di guerra; nessuna assistenza morale o


sanitaria; nessuna distribuzione di oggetti di corredo; trattamento alimentare inadeguato. Stando così le cose non c’è da meravigliarsi se i partigiani, una volta passate le linee, preferivano in gran numero tornarsene a casa, anziché continuare a combattere con chi non li voleva». Il capo di stato maggiore, il generale Messe, è altrettanto esplicito: «Il comando alleato apprezza in pieno il concorso militare dei patrioti di là delle linee, cui lancia incitamenti, aiuti, lodi. Ma il riconoscimento dei proclami non dà luogo a manifestazioni concrete di riconoscenza quando i nostri combattenti delle montagne entrano nelle linee di combattimento. Soldati della causa comune ieri, diventano oggi elementi sospetti di torbidi fermenti che occorre disperdere e rendere inattivi. La linea di combattimento è il limite tra due mondi: a nord il patriota è tutto, a sud non c’è posto per lui».19 Di fronte a questa situazione, le autorità militari italiane possono fare ben poco: nella prima fase, la più delicata, quando occorrono interventi di urgenza, essi hanno le mani legate perché la zona delle operazioni è sotto il diretto controllo angloamericano; successivamente, l’endemica mancanza di viveri, vestiario, mezzi di trasporto, che affligge gli stessi reparti regolari, rende difficile un intervento concreto e soddisfacente. Almeno sino al gennaio 1945, quando gli Alleati cominciano a mostrarsi meno riluttanti perché l’inserimento sembra «il mezzo migliore per controllare la massa dei partigiani e impedire che trattengano le armi»,20 e si verifica in questo modo una situazione contraddittoria, che penalizza insieme i volontari e l’esercito regolare, riassunta così dal generale Berardi: «Coloro che chiedono di andare a combattere – e la maggior parte di questi non ha obbligo di servizio – vengono mandati ai reparti ausiliari o scoraggiati, mentre vengono inviati ai gruppi di combattimento elementi che non hanno nessuna volontà di combattere. E lo dimostra il totale delle assenze nei gruppi: 5821 uomini tra


ottobre e dicembre 1944. Tutto ciò sarebbe avvenuto in scala molto più ridotta se fin dall’inizio la questione dei volontari fosse stata risolta».21

Il contributo della marina e dell’aeronautica Dopo l’8 settembre, la Regia marina è riuscita a mettere a disposizione degli Alleati circa il 65 per cento delle proprie unità da guerra con una forza alle armi di 76 000 uomini (delle 261 unità censite all’atto dell’armistizio, oltre 160 raggiungono i porti controllati dagli angloamericani e 144 continuano le operazioni sino alla primavera 1945): si tratta di un contributo prezioso, perché il limite del grande potenziale bellico alleato, impegnato nelle operazioni “Overlord” e “Dragoon”, non sta nella disponibilità di uomini e di armi, ma nei mezzi per metterli in linea e alimentarli. Di qui l’attenzione e l’apprezzamento di Eisenhower e di Cunningham per il ruolo della marina italiana nella cobelligeranza e il diretto intervento della Commissione di controllo nella formazione del governo Bonomi affinché l’ammiraglio De Courten conservi il suo dicastero come garanzia di continuità dell’impegno militare. L’impiego del naviglio italiano è molteplice: trasporto di uomini e materiali attraverso il Mediterraneo; missioni di scorta sulle rotte che partono dal Nordafrica e da Malta verso i porti continentali; attività di dragaggio nelle zone minabili; attività antisommergibile, con motosiluranti impiegate nelle zone antistanti ai porti e lungo le rotte; concorso all’addestramento aeronavale; ricerca e soccorso di naufraghi; navigazioni di prova dopo periodi in cantiere per lavori di riparazione. Per quanto riguarda le operazioni belliche, le unità da guerra sono impiegate nel Mediterraneo in occasione di occupazioni di isole egee e ioniche, nel recupero di uomini sulle coste adriatiche della Penisola


balcanica, nei bombardamenti costieri; nell’Atlantico operano invece gli incrociatori Duca degli Abruzzi, Garibaldi e Duca d’Aosta, che dalle basi di Freetown partono con unità britanniche per lunghe crociere di ricerca e caccia di navi corsare tedesche. Accanto a queste operazioni, assumono rilievo le missioni speciali, che secondo gli scopi e le modalità esecutive possono raggrupparsi in quattro settori: sbarco e recupero di informatori e sabotatori sulle coste controllate dal nemico; sbarco di materiali destinati a patrioti; rilievi idrografici di tratti costieri controllati dal nemico; appoggio a operazione dei mezzi d’assalto. In quest’ultima attività vengono impiegati alcuni uomini di punta della Decima MAS, gli assaltatori catturati nel 1940-41 durante gli attacchi alle basi inglesi di Alessandria d’Egitto, di Gibilterra e di Malta e liberati dai campi di prigionia per essere coinvolti nella campagna d’Italia.22 Lo stesso Churchill riconoscerà, in un discorso alla camera dei comuni del 5 giugno 1945, i meriti della Regia marina: «La resa della flotta italiana fu accettata dall’ammiraglio sir Andrew Cunningham a Malta e deve essere considerata un onorevole avvenimento marittimo. La sua immissione nel complesso delle forze navali alleate fu allora senz’altro di aiuto”.23 Diversa la situazione della Regia aeronautica. All’atto dell’armistizio, solo 203 i velivoli (un quinto del totale) raggiungono le basi del sud o della Sardegna, e di questi non più della metà risultano efficienti. A fine settembre, la riorganizzazione imposta dagli angloamericani prevede lo sgombero degli aeroporti di Bari, Gioia del Colle, San Vito, Grottaglie e San Pancrazio, che devono restare a completa disposizione dell’aeronautica alleata, e la concentrazione di velivoli e materiali italiani a Lecce: l’attività operativa di queste forze deve essere effettuata nella regione balcanica, a sostegno dei reparti italiani rimasti nell’area e collegati con i movimenti di liberazione jugoslavo e albanese. Nel corso del 1944 l’efficienza e la disponibilità di


mezzi migliorano, sia per il recupero di materiale di volo effettuato in Africa settentrionale e in Italia meridionale, sia perla cessione di alcuni velivoli modello “Aircobra”, “Spitfire” e “Baltimore” da parte di inglesi e americani. Inquadrata nella “Balkan Air Force”, l’aeronautica italiana contribuisce così alle operazioni di sostegno al movimento partigiano jugoslavo con azioni di bombardamento sugli obiettivi tedeschi e con lanci di materiali alle forze titoiste. Per quanto riguarda, invece, le operazioni nella Penisola, gli Alleati circoscrivono il ruolo dei velivoli italiani ad azioni secondarie, lancio di paracadutisti sabotatori e di manifesti di propaganda nei territori occupati dai tedeschi.24


1

Cfr. Dominick Graham, Shelford Bidwell, La battaglia d’Italia, cit., p. 342. 2 Giorgio Rochat, “La campagna d’Italia 1943-45: linee e problemi”, in Aa.Vv., Linea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, Angeli, Milano 1986, p. 18. 3 Gilbert Alan Shepperd, La campagna d’Italia 1943-1945, Rizzoli, Milano 1970, p. 361. Cfr. anche Andrea Saccoman, La campagna d’Italia, Hobby&Work, Milano 2007, pp. 132-37. 4 L’eventuale caduta della linea avrebbe minore impatto sul morale della popolazione tedesca con la denominazione di “Verde”, anziché con quella storicamente impegnativa di “Gotica”. 5 Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli, Roma 1997, p. 355. 6 Ibid., p. 359 7 Le dichiarazioni del generale Lemelsen, rese durante il processo a suo carico nel gennaio 1946, sono riportate in Joachim Staron, Fosse Ardeatine e Marzabotto. Storia e memoria di due stragi tedesche, il Mulino, Bologna 2007, p. 71. 8 Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca 1943-1945. Le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000, p. 195. 9 Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., p. 377. 10 Joachim Staron, Fosse Ardeatine e Marzabotto, cit., p. 85. 11 Nato a Monzuno (BO) nel 1914, operaio meccanico, antifascista senza collocazione di partito, sinceramente cattolico, Mario Musolesi è sopranominato “Lupo” sin dall’infanzia per il suo coraggio: con il fratello Guido organizza i partigiani di Monte Sole nella brigata “Stella rossa”. Viene ucciso il 29 settembre durante un’operazione di sganciamento da un portaordini tedesco, Kurt Wolfle, che per questo motivo viene insignito di decorazione al valore militare tedesco (cfr. Jack Olsen, Silenzio sul Monte


Sole. La prima cronaca completa della strage di Marzabotto, Garzanti, Milano 1970). 12 Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia, cit., p. 137. 13 Ibid., p. 133. Vale la pena ricordare che nel 1951 il maggiore Walter Reder (il cui reparto viene trasferito nel dicembre successivo sul fronte ungherese, da dove sarà costretto a una ritirata conclusasi nel maggio 1945 a Klagenfurt con la resa agli inglesi) viene processato dal tribunale militare di Bologna e condannato all’ergastolo. Egli sconta la pena (confermata nel 1954 dal processo di appello) nel reclusorio militare di Gaeta, dal quale viene liberato nel 1985 dopo oltre trent’anni di detenzione. Nessun altro componente del suo battaglione ha mai dovuto rendere conto delle sue azioni di fronte alla giustizia, né in Italia né in Germania. 14 Gerhard Schreiber, “La linea Gotica nella strategia tedesca: obiettivi politici e compiti militari, in Aa.Vv., Linea Gotica 1944, cit., p. 36. 15 Giorgio Rochat, La campagna d’Italia 1943-45, cit., p. 21. 16 Gilbert Alan Shepperd, La campagna d’Italia 1943-1945, cit., p. 401. 17 Luigi Poli, Le Forze Armate nella guerra di liberazione 1943-45, Edizioni Stabilimento Grafico Militare, Roma 1994, p. 120. 18 Le affermazioni del generale Giovanni Messe sono riportate in Giuseppe Conti, “L’esercito italiano sulla linea Gotica tra alleati e partigiani”, in Aa.Vv., Linea Gotica 1944, cit., pp. 146-47. 19 Ibid., p. 158. 20 Elena Aga Rossi Sitzia, La situazione politica ed economica dell’Italia nel periodo 1944-45: i governi Bonomi, in “Quaderni dell’Istituto romano per la storia dell’Italia dal fascismo alla resistenza”, n. 2/1971, p. 42. 21 La relazione del capo di stato maggiore dell’Esercito Paolo Berardi, datata 16 gennaio 1945, è riportata in Loris Rizzi, Lo sguardo del potere, Rizzoli, Milano 1982, p. 74. Sul problema delle diserzioni nei gruppi di combattimento cfr. Giorgio Boatti, Un contributo alla riforma delle Forze


Armate nel 1944-45: l’esperienza del gruppo di combattimento “Cremona”, in “Italia contemporanea”, n. 122/1976, pp. 237 e sgg. 22 Tra questi va segnalato Luigi Durand de la Penne, protagonista con altri cinque assaltatori dell’attacco al porto di Alessandria d’Egitto del 19 dicembre 1941, durante il quale vengono gravemente danneggiate la nave ammiraglia Queen Elisabeth e la corazzata Valiant. Liberato dal campo di prigionia in Palestina nel febbraio 1944 per essere impiegato nell’unità speciale Mariassalto, nel marzo 1945 egli viene decorato a Taranto con la medaglia d’oro e ad appuntargli la decorazione è l’ammiraglio Charles Morgan, che nel 1941 era il comandante della Valiant colpita dal siluro a lenta corsa piazzato sotto la chiglia proprio da Durand de la Penne. 23 Il discorso di Churchill alla camera dei comuni del 5 giugno 1945 è riportato in Giuseppe Fioravanzo, La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, Ufficio storico della Marina, Roma 1993, p. 376. 24 Cfr. Raffaele Parisi, “L’apporto dell’aeronautica nella guerra di liberazione”, in Aa.Vv., Le Forze Armate italiane nella guerra di liberazione, Edizioni Regione Piemonte, Torino 1989.


2 L’espansione della guerriglia

Giugno 1944, il mese decisivo Il 23 maggio l’offensiva ordinata da Alexander; il 4 giugno la liberazione di Roma; il 6 giugno il D-Day, lo sbarco in Normandia. Negli stessi giorni, a oriente, l’Armata rossa supera le frontiere del 1939 ed entra nei territori orientali del Reich. La percezione di trovarsi a una svolta decisiva della guerra è condivisa da tutti, dirigenti antifascisti, militanti partigiani di base, gente comune. Pietro Nenni intitola il fondo dell’“Avanti!” del 6 giugno «Si passa e si passerà» e con un vigore insieme risorgimentale e militare chiama gli italiani allo sforzo decisivo. Un giovane partigiano piemontese, Guido Quazza, riassume nel suo diario in stile telegrafico l’emozione per avvenimenti che ribaltano quattro anni di guerra: «6 giugno: Giorgio torna alla sera dalla Maddalena con le novità sensazionale della presa di Roma e dello sbarco alleato di Cherbourg e Le Havre. Gioia incredibile!».1 La percezione della svolta è evidente anche tra le file dei fascisti. Il 18 giugno il segretario del partito, Pavolini, scrive a Mussolini constatando la disgregazione dell’apparato statale di Salò: «Dopo la caduta di Roma e l’avanzata verso Bolsena, la situazione politica è pessima. Nel Lazio e in Toscana meridionale si è verificato lo squagliamento della GNR. Quasi sempre con le armi, e altrettanto e più dicasi dei reparti dell’esercito […]. Capoluoghi


e paesi della provincia sono in balia di se stessi, in una demoralizzante carenza delle istituzioni repubblicane e fasciste e con un’anticipata reviviscenza dei vecchi partiti».2 Lo sviluppo nazionale e internazionale della guerra è elemento imprescindibile per comprendere l’estate partigiana 1944, l’impulso che ne riceve il movimento resistenziale, le nuove condizioni in cui vive la popolazione, l’esasperazione della guerra civile. I margini di astensione, che la lontananza del fronte ha garantito sino alla primavera 1944, si riducono nel momento in cui tutte le regioni del Centronord diventano teatro dello scontro decisivo, al di là del quale non sono possibili ulteriori linee di arresto o di contrasto. Se le operazioni militari degli angloamericani segnano le tappe della liberazione, i bandi della Repubblica di Salò scandiscono i ritmi delle scelte e insieme documentano l’affanno crescente del regime. Il 18 febbraio Graziani ha decretato la fucilazione per i renitenti delle classi 1922-25, col risultato di portare sotto le armi «soldati mal accasermati, in parte candidati alla diserzione o addirittura pronti a passare dall’altra parte».3 Il 18 aprile il nuovo decreto di Graziani, questa volta dedicato agli “sbandati”, e in cui le minacce si mescolano all’allettamento del perdono, sancisce la condanna a morte per i “banditi” e per «chiunque dia rifugio o presti assistenza agli appartenenti alle bande armate», e l’amnistia per quanti si costituiscono entro il 26 maggio. L’effetto del decreto è quello di porre un numero sempre maggiore di persone di fronte alla scelta. Non si afferra il senso complessivo di quel periodo se non si tiene conto di due componenti strettamente correlate tra loro, quella dei contadini coinvolti nella lotta generale tra schieramenti opposti e quella dei giovani ventenni che entrano in scena con una tumultuosa presenza: «Sono i figli dei contadini, il più spesso, che debbono scegliere tra la renitenza, l’imboscamento, l’arruolamento nell’esercito di


Salò o in quello partigiano. Tutto il panorama delle migliaia e migliaia di paesi si anima. Si entra, o anche si è trascinati, in guerra, e in una guerra diversa dalle altre, dove difendere il raccolto dalle requisizioni, la casa dall’incendio, il figlio dall’arresto o il salario dalla svalutazione, spesso sono tutt’uno, su una scala maggiore di quella dell’autunno o dell’inverno precedenti. La scala ingrandisce nella misura stessa in cui si diffonde la convinzione che si va verso mesi decisivi e il cannone o la raffica di mitragliatrice, il passaggio furtivo nella notte di una pattuglia partigiana o il rumoroso spostamento di una colonna blindata tedesca, la carica di esplosivo che fa saltare in aria un ponte o interrompe una strada al traffico, il barbaro eccidio, la scorribanda fascista, l’improvviso comparire nel cielo di uno stormo di caccia inglesi, il bando di reclutamento e la minaccia di fucilazione ai disertori affisso al muro, il senso di sgomento, di rabbia, di attesa della fine di un incubo, la trama cospirativa che corre lungo mille fili, tutto questo diventa qualcosa che fa parte di un’esperienza collettiva di regioni intere».4 In questa atmosfera eccitata ed esasperata, dove guerra di liberazione, guerra civile e lotta di classe si intrecciano in una trama di drammatica effervescenza, quanti entrano nelle file della Resistenza? Le cifre sono contraddittorie, ma indicano una chiara linea di tendenza: con l’estate e l’avanzata alleata, il ribellismo diventa fenomeno di ampie proporzioni, coinvolgendo regioni che prima sono state più tiepide e consolidandosi là dove si è radicato sin dall’autunno 1943. Secondo Graziani, in estate i ribelli sono 82 000, di cui 25 000 in Piemonte e 17 000 in Emilia e Toscana (si tratta di cifre verosimilmente arrotondate per eccesso per fare pressione sull’alleato tedesco);5 secondo un calcolo di Pietro Secchia e Filippo Frassati, si tratta invece di 50 000 effettivi, che potrebbero triplicarsi se i comandi delle formazioni non fossero costretti a respingere una grossa aliquota di volontari


per la mancanza di armi;6 il comando generale del Corpo volontari della libertà (l’organismo costituito in giugno per coordinare le azioni delle formazioni) calcola a metà luglio poco meno di 60 000 partigiani effettivi, il cui armamento individuale è costituito da fucili modello ’91, moschetti e, in percentuale minore, da Sten (un mitra a canna corta, adatto per i combattimenti ravvicinati), mentre l’armamento di squadra è limitato a mitragliatrici leggere Breda e a qualche esemplare di Bren (potente e sicura, ma lesinata dai lanci alleati). Al di là delle cifre e delle dotazioni di armi, è evidente un attivismo ribellistico che dalle tradizionali vallate alpine si estende alle immediate retrovie del fronte: «Dopo l’abbandono di Roma», scriverà Kesselring, «si ebbe un inasprimento dell’attività partigiana, per me affatto inattesa. L’afflusso di nuovi elementi alle bande andò intensificandosi in modo visibile, tanto da potersi calcolare che la loro forza fosse salita in breve tempo da poche migliaia di individui a circa centomila uomini. A partire da quell’epoca la guerra partigiana diventò per il comando tedesco un pericolo reale, la cui eliminazione era un obiettivo di importanza capitale».7 La ritirata della Wehrmacht da Roma a Firenze è costellata da interventi di gruppi partigiani dell’Abruzzo, dell’alto Lazio, dell’Umbria, della Toscana, delle Marche: la banda “Ammazzalorso” scende su Teramo, i patrioti della “Conca di Sulmona” entrano a L’Aquila insieme ai bersaglieri del CIL, la brigata “Maiella” incalza i reparti germanici in ritirata verso la linea del Metauro, la brigata garibaldina “Gramsci” entra a Terni, la brigata “Melis” scende su Spoleto. L’atmosfera preinsurrezionale percorre l’Appennino e l’offensiva partigiana si intensifica: gli attacchi contro singole pattuglie si alternano ai sabotaggi, ai colpi di mano, alle requisizioni nei magazzini, ma anche alla difesa del patrimonio produttivo, degli impianti industriali, dei raccolti. Non si tratta, beninteso, di azioni militarmente


decisive, ma di un’attività continua di disturbo, fatta di iniziative modeste in se stesse, che ripetute in tanti luoghi diversi finiscono tuttavia con il costituire una minaccia incombente, capace di rallentare la ritirata tedesca e di disgregare i reparti repubblicani. Che la presenza partigiana sia considerata con preoccupazione crescente dagli occupanti lo dimostrano le rappresaglie contro la popolazione e il trattamento riservato ai prigionieri: 40 fucilati a Gubbio, 38 ostaggi eliminati a Cortona, massacri a Civitella val Chiana, a San Giovanni Valdarno, a Marradi, 23 partigiani impiccati a Figline di Prato, episodi che precedono le già ricordate stragi di fine estate lungo la linea Gotica.

L’insurrezione di Firenze L’episodio di maggior rilievo è costituto dall’insurrezione di Firenze, primo esempio di città in cui il CLN assume il controllo della situazione prima dell’arrivo delle truppe alleate. A fine luglio il comando militare (costituito dopo i vivaci contrasti tra le forze antifasciste che caratterizzano la prima fase dell’organizzazione partigiana fiorentina e che trovano il loro momento di maggiore tensione in aprile, dopo l’uccisione del filosofo Giovanni Gentile) predispone un piano insurrezionale che prevede tre obiettivi principali: la difesa dei ponti sull’Arno; l’attacco delle forze tedesche nel centro della città, nel momento del ripiegamento; la cacciata dei tedeschi dalla periferia sulla riva destra, per sospingerli il più possibile a nord. In questa prospettiva, la città viene divisa in quattro settori, affidati rispettivamente alle forze cittadine comuniste, gielliste, socialiste e democristiane: «A Firenze dobbiamo ad ogni costo dar battaglia ai tedeschi», scrive l’azionista Enzo Enriques Agnoletti, «altrimenti, senza nessun fatto clamoroso, tutto lo sforzo patriottico italiano


rischia di passare inosservato all’opinione pubblica».8 L’iniziativa rimane però nelle mani delle truppe tedesche del maggiore Fuchs che, scomparse le autorità fasciste, presidiano la città con l’ordine di ritardare in qualunque modo l’avanzata alleata: il 4 agosto il comando germanico ordina il coprifuoco totale e fa saltare tutti i ponti a eccezione di Ponte Vecchio: i gruppi partigiani che tentano di impedire la distruzione dei ponti della Carraia e della Vittoria sono ricacciati e subiscono gravi perdite. La situazione si stabilizza per una settimana, con le avanguardie alleate ormai vicine alla città e le formazioni partigiane a contatti con le retroguardie tedesche (negli scontri di quei giorni, cade, tra gli altri, Aligi Barducci “Potente”, il comandante della divisione garibaldina “Arno”, la maggiore unità toscana). Nella notte tra il 10 e l’11 agosto il maggiore Fuchs ordina l’inizio del ripiegamento e il comando militare dà il via all’insurrezione facendo suonare la campana del Bargello. I combattimenti sono modesti all’interno della città, dove l’azione più impegnativa è il rastrellamento dei franchi tiratori fascisti, ma si accende nella periferia, dove si combatte alle Cascine, sui colli di Fiesole, al Mugnone. A Palazzo Vecchio, intanto, si insedia come sindaco Gaetano Pieraccini, nominato dal CLN, mentre un distaccamento partigiano occupa la sede della “Nazione” e ne trasforma il nome in “La Nazione del popolo”. A differenza di quanto accaduto a Napoli a fine settembre 1943, dove le “quattro giornate” sono nate dalla spontanea rabbia popolare e si sono sviluppate senza coordinamento, l’insurrezione fiorentina si presenta come un momento organizzato da forze ormai mature, capaci di direzione e di amministrazione, che si propongono come i nuovi riferimenti politici del Paese. Gli angloamericani entrano in Firenze due giorni dopo, nella mattinata del 13, e il presidente del

CLN

toscano, l’azionista Carlo Ludovico

Ragghianti, si incontra con i comandanti militari come rappresentante


dell’autogoverno locale: è un contatto franco e fermo, attraverso il quale le autorità alleate misurano le capacità e l’autorevolezza delle forze antifasciste e l’importanza che può avere la collaborazione con loro. Se ha fallito una parte degli obiettivi militari, l’insurrezione di Firenze risulta così significativa sul piano politico: «Per la prima volta si incomincia a intravedere nei membri del CLN non singoli esponenti di qualche ideologia, ma vere autorità capaci di trattare e di impegnarsi con i generali delle forze alleate».9 Due giorni dopo il tenente colonnello R.S. Rolph, commissario della provincia di Firenze per conto della Commissione alleata di controllo, ufficializza il riconoscimento esprimendo «l’intenzione di lavorare a fianco del locale CLN, sicuro che i suoi uomini sono ben accetti alla cittadinanza tutta».10 Due mesi più tardi, “The Times” ritorna sull’argomento scrivendo: «Firenze è stata teatro di un esperimento spontaneo di autogoverno, che può avere importanza considerevole per determinare quale sarà il sistema politico che in definitiva prenderà il posto del fascismo. Il risorgere di uno spirito pubblico e di un’azione politica costruttiva nell’Italia del centro nord costituisce un sintomo incoraggiante».11

Il movimento di liberazione al nord Mentre combattimenti si attestano sulla linea Gotica, nella Pianura padana e nelle vallate alpine, il ribellismo vive la sua stagione di massima espansione. Le formazioni della montagna e della collina, i gruppi cittadini, i nuclei di fabbrica aumentano la loro consistenza e il loro tessuto organizzativo, mentre i comitati di liberazione si moltiplicano, ramificandosi sul territorio e fungendo da punto di riferimento non solo per il ribellismo armato, ma anche per la resistenza civile e per le cento forme di autodifesa


della comunità. L’intensificarsi delle azioni e delle iniziative disegnano il quadro di una regione dove la guerriglia è ormai in grado di pregiudicare la stessa sicurezza dei reparti tedeschi e fascisti: in molte località compaiono i cartelli di avvertimento “Achtung, Bandengefahr” che segnano il limite oltre il quale i movimenti delle truppe germaniche sono a rischio per la presenza delle bande. Il governo di Salò ne risulta ulteriormente delegittimato e la sua autorità sempre più territorialmente circoscritta. Graziani scrive a Mussolini che «praticamente il governo della Repubblica sociale controlla, e solo fino a un certo punto, la fascia piana a cavaliere del Po: tutto il resto è virtualmente in mano ai cosiddetti ribelli, che riscuotono il consenso di larghi strati della popolazione. Nei piccoli centri e nelle campagne manca ogni elemento di forza che possa far rispettare ed eseguire gli ordini del governo».12 Se i toni di Graziani sono probabilmente studiati per drammatizzare la situazione, la realtà delle zone ufficialmente liberate, o di fatto sotto controllo partigiano, si estende: è il caso delle Langhe, dove operano gli autonomi di “Mauri” e i garibaldini di ”Barbato”, delle vallate gielliste cuneesi, dell’area PelliceChisone-Sangone-Susa-Lanzo affacciata su Torino, della Valsesia, del biellese; una vasta zona montagnosa tra Genova, Piacenza e l’Oltrepò pavese è sotto controllo garibaldino e giellista; nel modenese e nel reggiano i partigiani si raggruppano nella zona di Montefiorino; in Veneto si intensificano le azioni nel bellunese e nel trevigiano, cuore della Repubblica di Salò; in Friuli si gettano le basi della futura zona libera della Carnia e si stabiliscono contatti con i partigiani sloveni. Si tratta di una presenza ribellistica che non ha più soltanto il significato morale e politico dell’autunno 1943, ma che stabilisce uno stretto legame con il territorio e costituisce una forma di contropotere di cui le autorità fasciste devono prendere atto. In una relazione di fine giugno dell’ufficio relazioni e


addestramento dello stato maggiore dell’esercito di Salò si dice che «l’attività dei ribelli ha subito un notevole incremento, delineandosi sempre più aperta, aggressiva e coordinata». Le cause sono individuate nei bandi di reclutamento che hanno sortito l’effetto opposto a quello voluto, nell’inefficacia delle operazioni di rastrellamento «condotte sin qui in forma blanda e con forze limitate», ma anche «nell’avversione generale contro il fascismo e nel desiderio che la guerra finisca al più presto»: il risultato è un movimento la cui azione disgregatrice va sempre più aumentando e che «la massa della popolazione segue con interesse e molta simpatia».13 In questo contesto la lotta al ribellismo diventa decisiva per la Repubblica sociale, la cui impalcatura rischia di sgretolarsi di fronte alla duplice offensiva dell’avanzata alleata e della disgregazione interna. Pavolini, convinto che le uniche strutture efficaci siano quelle del PNF, presenta un progetto per la creazione di reparti speciali da impiegare nella controguerriglia, le Brigate nere, che si devono costituire secondo la vecchia organizzazione di partito: «Gli italiani fedeli al Duce lo sono per davvero», egli spiega all’ambasciatore Rahn, «ma non amano essere chiusi in caserma, inquadrati, irreggimentati, portare vistose e pesanti divise. Il movimento partigiano ha successo perché il partigiano ha l’impressione di essere un uomo libero. Bisogna, quindi, creare un movimento antipartigiano con le stesse caratteristiche».14 Pochi giorni dopo, il 26 giugno, Mussolini firma il decreto costitutivo delle Brigate nere, che di fatto porta alla totale militarizzazione dell’apparato del partito, identificando il comando di brigata con le federazioni provinciali e affidando il controllo dell’ingranaggio allo stesso Pavolini. Il compito stabilito è il combattimento «per la difesa dell’ordine nella RSI, per la lotta contro i banditi e i fuorilegge e per la liquidazione di eventuali nuclei di paracadutisti nemici».15 Nel mese di luglio la nuova struttura militare viene predisposta:


comando generale a Maderno sul lago di Garda (trasferito all’inizio del 1945 a Milano), oltre quaranta brigate territoriali (ognuna con il nome di un caduto per la causa fascista repubblicana), un raggruppamento di Brigate nere mobili; come divisa, una camicia o un maglione neri su pantaloni grigioverdi alla zuava, sul petto e sulla bustina nera l’insegna macabra di un teschio con due ossa trasversali. Ciò che più caratterizza le Brigate nere, costituite nell’atmosfera di crepuscolo che avvolge il regime, è soprattutto l’eterogeneità del reclutamento, che ne fa dei reparti tanto violenti quanto irrequieti, in cui si mescolano esaltazione, volontà punitiva, avventurismo minorile: «Esse nascono come possono, da iniziative locali, raccogliendo gli ex componenti delle squadre d’azione, i vecchi fascisti ultracinquantenni (padri e figli) che continuano a credere ciecamente in Mussolini, giovani corrigendi liberati dai carceri minorili, disertori pescati durante i rastrellamenti, ragazzi imprigionati perché renitenti alla leva, e addirittura dei tredicenni della classe 1931».16 La costituzione delle Brigate nere di Pavolini, che entrano per la prima volta in azione nell’agosto in Piemonte, drammatizza i contorni della guerra civile introducendo ulteriori elementi di violenza e di esasperazione, ma non muta la situazione: il movimento resistenziale è ormai una realtà consolidata e ramificata, che dalle vicende generali della guerra trae stimoli e forze sufficienti per reagire alla repressione; il governo di Salò, per contro, è vicino alla paralisi, delegittimato dallo stesso alleato tedesco che ormai guarda all’Italia settentrionale come a un fronte estremo dove arrestare l’ultima spallata angloamericana. Il problema è posto direttamente a Hitler il 20 luglio 1944 alla stazione di Görlitz, dove Mussolini giunge poche ore dopo il fallito attentato al Führer per quello che sarà il loro ultimo incontro. Il Duce e Graziani denunciano l’acuirsi della minaccia partigiana e chiedono misure


per restituire credibilità al loro governo, in particolare l’invio nella Penisola delle divisioni ancora in addestramento in Germania. Hitler, distratto dalla situazione interna tedesca e preoccupato di ordinare a Himmler la repressione contro gli attentatori, risponde con un generico assenso, che non muta la condizione di satellite dell’Italia di Salò e non incide sulla situazione politicomilitare: il problema degli internati rimane insoluto, pregiudicando la credibilità del governo repubblicano di fronte alle centinaia di migliaia di famiglie coinvolte; le province del confine nordorientale costituiscono ormai territori dai quali l’autorità di Salò è completamente esclusa. Quanto alle divisioni dell’esercito di Graziani, esse rientrano effettivamente in Italia (la “San Marco” in luglio, la “Monte Rosa” in agosto, la “Littorio” in settembre e l’“Italia” a fine anno), ma vengono unite a tre divisioni tedesche nell’armata “Liguria”, il cui compito è opporsi a un possibile sbarco alleato sulla costa nordoccidentale, oppure a un attacco alleato ai passi alpini dal territorio francese: anziché di impiego operativo al fronte, si tratta di azioni principalmente dirette contro le formazioni partigiane del Piemonte e della Liguria per tenere libere le linee interne di comunicazione. Il risultato è l’aumento delle diserzioni, delle assenze arbitrarie, dell’indisciplina, del passaggio alle file della resistenza, come Mussolini scrive in una lettera a Kesselring: «L’inazione è lo stato che porta più rapidamente al disfacimento le forze militari. Le nostre divisioni, quando tornarono in Italia, erano animate da un forte spirito, ma furono polverizzate sull’Appennino ligure per difenderlo contro uno sbarco che gli inglesi non hanno alcun interesse a tentare. Il risultato è questo: assenze e diserzioni, con passaggio ai partigiani»”.17 Il senso di impotenza del Duce è confermato dalla confusione con cui procede l’antiguerriglia, che pure costituisce l’obiettivo primario per


restaurare l’autorità di Salò. Il frazionamento e la concorrenza tra le forze armate repubblicane, la scarsità delle truppe germaniche a disposizione, la diffidenza dei comandi della Wehrmacht verso la lealtà e l’efficienza degli italiani creano una situazione caotica, in cui la repressione procede sempre più brutale, con margini di arbitrio e di abuso incontrollati di cui fa le spese la popolazione civile, ma che sul piano militare risulta inadeguata al compito. Tipico di questo stato di crisi è lo stesso esordio delle Brigate nere, impegnate in agosto in un ciclo operativo contro le formazioni piemontesi che Pavolini guida di persona. L’11 agosto reparti della Prima brigata nera mobile, della Brigata nera “Augusto Felisari” di Cremona e della Decima MAS si inoltrano nella valle di Locana, verso le pendici del Gran Paradiso, e

con loro sono Pavolini, il principe Junio Valerio Borghese, il federale di Torino Giuseppe Solaro e il suo vice Lorenzo Tealdy, il federale di Brescia Antonino Melega. L’attacco partigiano, condotto da un centinaio di garibaldini e di giellisti che operano nella zona di Cuorgnè, scatta nel primo pomeriggio e colpisce direttamente i gerarchi: Pavolini viene ferito ai glutei, Borghese si ritrova con il braccio sinistro trapassato da una pallottola, Tealdy è colpito a una gamba. I giornali di regime non possono che nascondere la beffa dietro la retorica del sacrificio: «Il comandante delle Brigate nere ha dato un esempio e il sangue da lui versato sia un monito per i nostri nemici interni che si ostinano ad operare contro la Patria».18 Dopo un mese di operazioni in Piemonte Mussolini scrive: «La situazione non è molto migliorata e in alcune zone è notevolmente peggiorata. Bisogna riconoscere che dopo un mese di attività, i risultati sono modesti e non sono comunque in relazione allo sforzo compiuto e ai programmi iniziali».19

Le agitazioni operaie


Nei confronti dei lavoratori industriali, la liberazione di Roma e l’avanzata degli eserciti alleati determinano un duplice effetto. Da un lato, restituiscono vigore a un movimento operaio che dopo gli scioperi del marzo 1944 ha risentito sia della repressione, sia delle contraddizioni emerse durante le agitazioni. Dall’altro, le vicende militari ridisegnano il ruolo dell’Italia nella strategia tedesca, con pesanti contraccolpi nella situazione generale delle fabbriche: «L’andamento della guerra potrebbe comportare a breve scadenza la perdita del controllo del Centro e del Nord Italia, diventa quindi rischioso continuare ad inviare materie prime e scorte in un territorio che potrebbe essere perso. Non solo si profila un arresto o comunque un calo produttivo, con drammatiche conseguenze sull’occupazione operaia, ma si presenta anche il pericolo che la linea di spoliazione degli impianti e di manodopera qualificata si affermi come ultimo e definitivo sfruttamento delle risorse del paese “alleato”».20 A metà giugno iniziano così forme di lotta, che pur risultando più modeste di quelle di marzo, segnano la ripresa della conflittualità. In alcuni casi le manifestazioni spontanee coniugano il malessere per le condizioni di vita con l’entusiasmo per la liberazione di Roma; in altri maturano di fronte all’ipotesi di smantellamento degli impianti e trovano un obiettivo unificante nella “battaglia per le macchine”, che è contemporaneamente autodifesa dalla deportazione. Le maestranze di Mirafiori, sollecitate dal comitato di agitazione, si mobilitano il 12 giugno, quando si sparge la notizia dell’intenzione tedesca di trasferire sul lago di Garda l’officina numero 17, addetta alla produzione dei motori per aereo. La serrata a tempo indeterminato degli stabilimenti di Mirafiori, decretata il 21 giugno dalla prefettura di Torino, aumenta la tensione e l’agitazione di estende ad altre fabbriche dell’area metropolitana, saldando il rifiuto dei trasferimenti con le rivendicazioni salariali: dal 17 al 27 giugno le industrie


torinesi sono almeno parzialmente bloccate. Rispetto alle manifestazioni dei mesi precedenti, il quadro è mutato e gli industriali si mostrano più duttili, impegnandosi in una “partita a più tavoli” che mira a garantirsi margini di manovra sia per la conservazione dei propri impianti, sia per la difesa della manodopera. Il bombardamento del 22 giugno, che colpisce con sorprendente precisione proprio l’officina 17 di Mirafiori nel primo giorno in cui, per la serrata, non ci sono maestranze nei locali, lascia facilmente pensare a un accordo preventivo tra dirigenza Fiat e comandi angloamericani e appare come la spia evidente di una ridefinizione delle posizioni. Nel momento in cui la mobilitazione operaia si combina con una nuova strategia padronale, i comandi germanici sono costretti a muoversi con maggior cautela per non correre il rischio di trovarsi di fronte a una situazione insostenibile sul piano sociale e dell’ordine pubblico: il programma di trasferimento degli impianti procede a rilento, mentre il progetto di smantellamento generalizzato della struttura produttiva italiana e di deportazione degli operai industriali viene accantonato. Lo sciopero torinese del giugno 1944 è importante sia perché rivela un’acquisita capacità di mobilitazione generale sulla base di parole d’ordine che legano insieme la difesa degli strumenti di lavoro e delle condizioni di vita, sia perché riesce a bloccare un’iniziativa tedesca che potrebbe riprodursi su larga scala: «Nel momento in cui la logica della spoliazione militare germanica tenta di intaccare il nucleo centrale della classe operaia, concentrata nelle grandi aziende metalmeccaniche, non solo deve scontare la resistenza che queste oppongono, ma anche la capacità di questo nucleo di mobilitare gli strati operai più deboli delle piccole e medie imprese, nei settori marginali, e di coinvolgere anche impiegati e tecnici, fino a quel punto in gran parte estranei alle agitazioni operaie».21


Le agitazioni dell’estate costituiscono la premessa di una conflittualità destinata ad aumentare nell’autunno-inverno, con uno sviluppo di azioni che non sfociano in un movimento generalizzato, ma che coinvolgono in tempi diversi varie realtà locali. Alla base di questo stato di tensione c’è sicuramente la forbice tra costo della vita e salari: questi ultimi nella seconda metà del 1944 sono pari a circa un quarto del valore del 1913, mentre la mancanza di generi di prima necessità rende inevitabile il ricorso al mercato nero e il calo della produzione comporta un numero minore di ore e quindi una perdita secca nella busta paga. L’iniziativa operaia si dispiega così su una gamma di rivendicazioni, che vanno dall’abolizione del cottimo, alla rivalutazione dei salari più deboli, alla richiesta di alimenti attraverso gli spacci, alla distribuzione di legna da ardere. A queste rivendicazioni gli industriali rispondono con interventi differenziati da fabbrica a fabbrica, in rapporto al peso dell’iniziativa operaia: si va dalla corresponsione di salari superiori ai minimi contrattuali, alla concessione di premi, anticipi e prestiti, alla creazione di mense e spacci aziendali, al mantenimento di un livello occupazionale superiore alle esigenze produttive, in un quadro in cui la forza del movimento si salda all’esigenza degli imprenditori di svolgere un ruolo “sociale” da fare valere nelle scadenze ormai prossime del dopoguerra. Le implicazioni della conflittualità, tuttavia, vanno oltre gli aspetti rivendicativi. A partire dall’estate 1944 il sabotaggio della produzione diventa parola d’ordine diffusa e praticata, di cui è evidente la valenza politica nella prospettiva della lotta di liberazione. All’interno delle fabbriche, il movimento clandestino si attrezza e si ramifica: gli elementi più politicizzati svolgono la loro attività di propaganda e di organizzazione, ma nel contempo trovano i canali per un contatto più stretto con le formazioni partigiane, riuscendo talvolta a segnalare gli elementi pericolosi e avvertire quando un


carico di armi o di materiale bellico esce dagli stabilimenti, a procurare pezzi di ricambio e materiali necessari alla guerriglia, a indirizzare verso la montagna lavoratori in pericolo. Poco alla volta, si crea nelle aziende una sorta di contropotere, i cui criteri di aggregazione sono costituiti dalla rete di organismi prima promossi dal PCI, quindi sollecitati dal CLNAI: organismi politici, come i CLN aziendali; organismi sindacali, come i comitati di agitazione; organismi militari, come le Squadre d’azione patriottica (SAP) destinate specificatamente alla difesa degli impianti; ma anche organismi estesi al di fuori dell’ambito della fabbrica, come i Gruppi di difesa della donna22 o il Fronte della gioventù.23


1

Guido Quazza, Diario partigiano, Giappichelli, Torino 1966, p. 184. 2 La relazione di Pavolini a Mussolini del 18 giugno 1944 è citata in Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, cit., p. 679. 3 Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, cit., vol. V, p. 321. 4

Ibid., p. 341. 5 Le cifre indicate da Graziani sono riportate in Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., p. 386. 6 Pietro Secchia, Filippo Frassati, Storia della resistenza, Editori Riuniti, Roma 1965, vol. 2, p. 656. 7 Albert Kesselring, Soldato sino all’ultimo giorno, Mondadori, Milano 1954, p. 25. 8 Enzo Enriques Agnoletti, La politica del Comitato toscano di liberazione nazionale, in “Il Ponte”, n. 5/1945. 9 Cecil Sprigge, Agosto 1944, in “Il Ponte”, n. 9/1954. 10 Le dichiarazioni del tenente colonnello Rolph sono pubblicate sul “Corriere Alleato” del 15 agosto 1944. 11 “The Times”, 25 ottobre 1944. L’articolo del quotidiano londinese è riportato in “Italia libera” del 20 dicembre 1944. 12 La relazione di Graziani a Mussolini, datata 27 giugno 1944 e scritta in risposta a un improbabile ordine del Duce di «marciare contro la Vandea monarchica, reazionaria e bolscevica», è citata in Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di salò, cit., p. 714. 13 La relazione, riferita alla situazione al 30 giugno 1944, è riportata in Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (a cura di), Documenti del governo di Salò sulla guerra partigiana, in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, n./1950. 14 Cfr. Eitel Friedrich Moellhausen, La carta perdente. Memorie diplomatiche 25 luglio 1943-2maggio 1945, Sestante, Roma 1947, p. 339. 15 Il decreto legislativo numero 446 del 30 giugno 1944, istitutivo delle


Brigate nere, è riportato in Ricciotti Lazzero, Le Brigate Nere, Rizzoli, Milano 1983, p. 26. 16 Ibid., p. 30. 17 La lettera di Mussolini a Kesselring è riportata in Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, cit., p. 716. Nel processo celebrato dopo la fine della guerra, Graziani afferma con ostinazione che il compito principale delle sue divisioni è la lotta contro una possibile invasione e non contro i partigiani, ma la distinzione ha un valore relativo perché per affrontare una possibile invasione è necessario garantire le retrovie del fronte e quindi “bonificare” la zona dalla presenza delle formazioni. 18 Ricciotti Lazzero, Le Brigate Nere, cit., p. 32. 19 L’osservazione di Mussolini è in una lettera del 26 agosto indirizzata al generale Archimede Mischi, riportata in Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, cit., p. 707. 20 Claudio Dellavalle, “La classe operaia piemontese”, cit., p. 346. 21 Ibid., p. 348. 22 L’iniziativa di costituire i Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà risale al novembre 1943 e ha, tra le promotrici, militanti comuniste come Giovanna Barcellona, azioniste come Ada Gobetti Marchesini e socialiste come Lina Merlin. Aperta alla partecipazione di «tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica e religiosa che vogliano partecipare all’opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione», i Gruppi di difesa della donna nel giugno 1944 ottengono il riconoscimento ufficiale del CLNAI, che li considera organizzazione aderente al Comitato di liberazione nazionale. 23 Il Fronte della gioventù si propone come organismo unitario per la partecipazione dei giovani alla lotta di liberazione, anche se la presenza comunista è preponderante. Tra i dirigenti nazionali vanno ricordati Gillo Pontecorvo ed Eugenio Curiel per i comunisti, Dino Del Bo e Alberto Grandi


tra i democratico-cristiani, Giorgio Peyronel e Carlo Sampietro tra i liberali, Renato Carli Ballola e Gianni Baldi tra i socialisti. Suddivisi in gruppi attivi nelle fabbriche, nelle scuole e sul territorio, i giovani del Fronte arrivano a organizzare particolari reparti nelle formazioni partigiane (specie nelle SAP), fino a costituire vere e proprie brigate (come la brigata “Fronte della gioventù” attiva in Valsesia e facente parte della Terza divisione “Garibaldi”).


3 La dimensione militare della Resistenza

Guerra di liberazione, guerra civile, guerra di classe Nell’estate-autunno 1944 il movimento di liberazione è ormai un fenomeno articolato, capace sul piano militare di minacciare le retrovie del fronte tedesco e su quello politico di delegittimare il governo della Repubblica sociale. Di questo fenomeno complesso, che procede tra fluttuazioni, offensive, ripiegamenti, pause, diversificazioni, non è possibile rendere ragione in termini descrittivi: le interrelazioni tra i gruppi armati e la popolazione civile, l’intersecarsi dello scontro militare con quello sociale, le implicazioni della guerra civile, il significato e il ruolo della mediazione politica, la dimensione della violenza esercitata o subita costituiscono elementi peculiari di ogni singola zona e possono essere rintracciati solo in una dimensione microstorica. Come già scriveva Roberto Battaglia all’inizio degli anni cinquanta, «parlando degli avvenimenti singoli si corre il rischio di perdere di vista il clima generale della Resistenza, che ha sì dei momenti culminanti, ma che consiste innanzitutto in un’attività ininterrotta di colpi di mano e di atti di sabotaggio, ognuno dei quali è sempre diverso perché rispecchia le profonde differenze di carattere sociale e politico da cui è scaturito».1 Sulla base di queste considerazioni risulta più opportuno proporre una chiave di lettura per aree tematiche, rinunciando alla ricostruzione minuta


e analizzando, invece, le grandi problematiche del periodo: l’elaborazione teorica dei partiti, la natura della banda, la posizione dei soggetti sociali e delle istituzioni, il rapporto tra città-campagna e centro-periferia. Questo non significa perseguire un progetto di semplificazione schematica, ma, all’opposto, individuare linee di tendenza prevalenti, con l’avvertenza che il tratto più caratteristico dell’esperienza resistenziale è la presenza di molteplici percorsi individuali o collettivi, la trasversalità di molte attitudini, la presenza di motivazioni analoghe in soggetti diversi. Sorta e sviluppatasi al di fuori di un quadro istituzionale garantito, spontanea nella sua genesi e con un programma che va definendosi nel corso della lotta, la Resistenza è un fenomeno storico articolato e talvolta contraddittorio, dove le esigenze, le aspettative, i comportamenti dei militanti non sempre coincidono con le mediazioni politiche dei partiti e dove non mancano le esperienze eretiche rispetto al canone ciellenistico. Queste considerazioni trovano una conferma immediata nel momento in cui si cerca di risalire all’origine del movimento resistenziale e di rintracciarne le motivazioni di fondo. L’antifascismo esistenziale, l’antifascismo politico e l’antifascismo di classe (già proposti nei capitoli precedenti) non rappresentano motivazioni indipendenti l’una dall’altra ma, al contrario, spesso si intrecciano in un rapporto di interdipendenza presente all’interno della coscienza dei singoli. A maggior ragione il problema si pone quando la ricerca si trasferisce dal terreno della scelta a quello della caratterizzazione e della finalità della lotta e ci si domanda quale guerra combattono i resistenti del 1943-45. L’edizione romana dell’“Unità” propone, già nell’autunno 1943, una triplice caratterizzazione: «Guerra contro l’aggressore nazista; guerra civile contro i fascisti suoi alleati; lotta politica contro le forze reazionarie».2 In sede storiografica la tesi delle “tre guerre” è stata ripresa da Norberto Bobbio e,


soprattutto, da Claudio Pavone che l’ha proposta con forza come criterio che attraversa orizzontalmente la realtà resistenziale: con questa chiave interpretativa, infatti, si individuano elementi che, in misura e combinazioni differenti, sono presenti in più formazioni e che sono entrati a far parte di quello che può essere definito il “senso comune resistenziale”. La Resistenza è, innanzitutto, guerra patriottica di liberazione contro il nemico occupante. Il tedesco rappresenta il nemico più ovvio e immediato e, almeno per certi aspetti, il più unificante, come i “patrioti” percepiscono sin dal primo momento: è certo di grande rilievo che, nella memoria dei resistenti, «la guerra contro i nazifascisti non avesse bisogno di legittimazioni estrinseche che si rifacessero a criteri di legalità incarnati nelle istituzioni del vecchio Stato».3 Il tedesco può, tuttavia, essere visto sotto diversi profili: per taluni è un mero straniero invasore, responsabile di una politica di sfruttamento economico e di terrorismo verso la popolazione civile, razziatore di uomini e di risorse che si impone con la violenza delle armi; per altri, più sensibili alla memoria storica, è il tradizionale nemico del Risorgimento e della “quarta guerra d’indipendenza” combattuta nel 1915-18; per altri ancora è l’eterno “barbaro teutonico”, brutale nel comportamento e inesorabile nella repressione; per altri, infine, è il nazista, protagonista di una stagione di sangue in nome dell’ideologia della superiorità razziale e di un programma di ridefinizione dei ruoli e degli equilibri tra i popoli. Un’interpretazione può, ovviamente, sfumare nell’altra o sovrapporsi, ma la lotta contro il tedesco assicura un denominatore comune al movimento resistenziale sul quale convergono posizioni politicamente distanti: il militante comunista della cellula di fabbrica, l’antifascista di formazione liberaldemocratica, l’ufficiale di provata fede monarchica trovano qui un terreno di incontro e di impegno e la guerra assume un carattere “patriottico”


che per molti costituisce una scoperta («le parole “patria” e “Italia”», ha scritto Natalia Ginzburg, «ci apparvero d’un tratto così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta»).4 La Resistenza è, in secondo luogo, guerra civile, nel senso storicamente accreditato di lotta armata tra forze di uno stesso paese, comunque organizzate e numericamente significative. Per un verso, essa si collega a una più generale guerra civile europea condotta dagli Alleati contro le forze fasciste; per un altro, essa si inserisce nello specifico contesto storico italiano, riflettendo elementi che risalgono sia all’esperienza del 1919-22, sia alla realtà della Repubblica sociale. Il fascista, in quanto italiano, ha una sua specifica fisionomia di nemico: «Non possiamo dimenticare che il fascismo era stato inventato in Italia e che tutta Italia, non solo Milano, era stata, rispetto all’Europa, un grande “fascio primigenio”. I conti aperti del 1919-22 potevano, dopo l’8 settembre, essere finalmente chiusi dagli antifascisti armi alla mano. Il duce redivivo, i gerarchi riemersi, le brigate nere, la Muti, la Decima MAS, la guardia nazionale repubblicana, le SS italiane e le altre compagnie

di

ventura

che

infestavano

l’Italia

centrosettentrionale,

rinnovando ed esasperando il vecchio mito fascista dell’ordine da imporre con il disordine, erano nemici in carne e ossa e a tutti visibili, carichi di passato e portatori di simboli a tutti noti».5 Evidente nella dinamica dell’evento storico, il concetto di guerra civile è stato oggetto di critiche e di sospetti: l’espressione stessa, utilizzata nel periodo iniziale della Resistenza dai protagonisti della lotta, è stata successivamente rigettata di fronte all’uso strumentale fattone dai neofascisti nel dopoguerra per acquistare la stessa legittimità storica ed etica dei loro avversari. Va però osservato che la categoria della “guerra civile” non pone sullo stesso piano i contendenti: al contrario, è proprio nella guerra civile che le contrapposizioni sono più nette


e le avversioni più irriducibili. Il quadro storico del 1943-45 è, sotto questo profilo, paradigmatico: da un lato, c’è un occupante straniero che trova sostegno in un seguito di forze italiane, politicamente rappresentate dal fascismo repubblicano e istituzionalmente organizzate nella Repubblica di Salò; dall’altro, c’è un’opposizione che sin dal settembre 1943 è scesa sul terreno dello scontro armato, senza necessariamente richiamarsi all’autorità di un governo legittimo, ma schierandosi sulla base di un’opzione individuale etico-politica variamente motivata. Entro questa cornice, i termini della guerra civile sono ampiamente compresi e costituiscono un aspetto essenziale del periodo. In terzo luogo, la Resistenza è guerra di classe, espressione più corretta di “lotta di classe” perché lo scontro sociale si intreccia strettamente alla guerra patriottica e alla guerra civile. Gli scioperi nelle fabbriche e, più in generale, le agitazioni dei lavoratori costituiscono un elemento significativo dell’esperienza resistenziale, in evidente rapporto con la lotta armata e con accentuazioni che talora giungono all’identificazione del nemico della nazione con il nemico di classe. La guerra di classe non è, tuttavia, fenomeno univoco: «Possiamo assumere che per un proletario militante nella Resistenza l’ideale sarebbe stato trovarsi di fronte ad un padrone che fosse anche fascista e sfacciatamente servo dell’invasore tedesco»,6 ma la realtà è più articolata, con posizioni padronali che spaziano dal collaborazionismo aperto e convinto, a quello strumentale, all’apparente neutralismo, al sostegno tattico del movimento partigiano, all’impegno sincero e talvolta diretto nella Resistenza. A loro volta, nelle posizioni operaie trovano spazio sia atteggiamenti semplicemente rivendicativi, sia la memoria di antichi comportamenti eversivi, sia il mito dell’Urss e di Stalin come liberatore degli oppressi, sia una radicata tradizione internazionalista. In concreto, all’interno


delle stesse coscienza ed esperienze operaie, la guerra di classe talora coincide con la guerra patriottica e la guerra civile, talaltra si dissocia, in un quadro di complessità che non è riconducibile a schematizzazioni. Individuate le tre componenti dell’esperienza resistenziale, la ricerca deve riconoscere l’impossibilità di andare oltre. Per comprendere quanto avviene in Italia nel 1943-45, bisogna sempre tener conto che «sotto gli occhi di tutti si svolgeva il raro spettacolo della rottura del monopolio statale della violenza, elemento costitutivo, secondo le note tesi di Max Weber, dello Stato moderno. Tutto questo avviene nell’ambito di uno Stato nazionale, messo in crisi sia nel sostantivo, perché le istituzioni tradizionalmente unificanti barcollano, sia nell’aggettivo, perché l’identità nazionale viene rimessa in discussione, insidiata sia dall’esterno che dall’interno».7 Il dilemma se il nemico principale siano i tedeschi o i fascisti è un dilemma reale, ma difficile da cogliere con nettezza, così come è difficile definire ed isolare gli ambiti dello scontro sociale: le azioni di lotta spesso finiscono per ricollegare gli uni agli altri i diversi aspetti, sfumandone i contorni e accentuando la complessità dell’insieme. Come ha scritto Claudio Pavone, «le tre guerre erano “dentro” ogni partito e “dentro” ogni forza sociale, seppure in forma diversa. Più estensivamente ancora, si può dire che erano “dentro” la coscienza dei singoli militanti, talora in modo unitario, talora in aperta dissociazione».8

La “banda” come «microcosmo di democrazia diretta» Se la scelta resistenziale è un atto prettamente individuale, l’esperienza partigiana si sviluppa invece in un ambito collettivo, dove l’iniziativa del singolo si inserisce nel sistema di relazioni interpersonali tra i militanti e nel


rapporto tra il gruppo armato e la popolazione civile e dove ogni azione (dall’imboscata, all’attacco mirato, alla requisizione, all’amministrazione della giustizia) riconduce al problema di fondo dell’autogoverno. La natura stessa della guerriglia, «nel suo tratto specifico di iniziativa dal basso, di partecipazione piena e non delegata, di democrazia armata» conferisce così alla banda partigiana quel carattere di «microcosmo di democrazia diretta»9 che è stato sottolineato come uno degli aspetti più rilevanti e originali: unità di base dell’esercito partigiano, cui il comando generale del CVL riconosce piena autonomia,10 la banda è l’ambito entro il quale si esprime la creatività politico-militare e dove la coscienza dell’uomo-partigiano matura in uno scambio continuo di riflessioni, di cognizioni, di esperienze. La designazione dei comandanti, la definizione di un codice di autodisciplina concordemente accettato, l’amministrazione delle risorse economiche, l’assegnazione delle armi, il razionamento dei viveri, i rapporti con i civili, l’individuazione di obiettivi da colpire e di tattiche da adottare, i nodi politico-morali della violenza e della giustizia, il problema del «legame tra singolo e banda e, quindi, del grado di interdipendenza dei membri e della forza coesiva del collettivo»,11 rappresentano altrettanti terreni di confronto e di impegno, nei quali i combattenti portano il contributo della propria preparazione e della propria forza morale: un processo dialettico, che si sviluppa nel clima eccezionale della lotta e che è per tutti strumento di maturazione politica e umana. Nella memorialistica resistenziale, la rappresentazione della banda si tinge spesso di colori celebrativi che ne esaltano il carattere di partecipazione dal basso sino a individuarvi funzioni palingenetiche: «C’era in formazione una fratellanza e una carità che faceva credere che il mondo fosse cambiato», scrive nel 1946 don Berto Ferrari, cappellano di una divisione garibaldina.12


Agli eccessi agiografici di rappresentazioni come questa, fanno da contrappunto testimonianze di segno opposto, che non mancano di sottolineare frizioni tra bande di differente collocazione politica e all’interno della stessa banda e che caratterizzano l’umanità partigiana in una varietà di personaggi che include l’eroe, l’ardimentoso, l’audace, il millantatore, l’opportunista, l’ingenuo, lo sconsiderato: è il caso, per esempio, delle rappresentazioni letterarie, dove la celebrazione lascia il posto a una caratterizzazione più probabile e dove coesistono uno accanto all’altro lo spessore morale del commissario Kim del Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, la coerenza solida e spontanea della protagonista di L’Agnese va a morire di Renata Viganò, la solitudine acerba del gappista Enne 2 di Uomini e no di Elio Vittorini, l’approssimazione politica e militare dei giovani partigiani che entrano in città nei Ventitré giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio. Pur tralasciando gli eccessi celebrativi e assumendo come riferimento il quadro di una realtà problematica e complessa, è indubbio che la Resistenza si sviluppa in un clima morale e psicologico di partecipazione dal quale non si può prescindere se si vuole cogliere la sua potenzialità innovativa. Per muoversi e consolidarsi in un terreno fortemente “illegale”, dove le regole sono da inventare così come gli strumenti per renderle conoscibili e farle applicare, la Resistenza deve misurarsi in uno sforzo costante di elaborazione “dal basso”, che trova il suo ambito naturale nella banda. La designazione dei comandanti rappresenta il terreno primario della democrazia di base, momento iniziale e costitutivo della vita della formazione. La cornice entro la quale si colloca il contributo dei singoli non è, infatti, l’anarchia o l’arbitrio individuale, ma l’autorità effettiva della banda in quanto organismo retto da una sua legge, e la legge è rappresentata


dall’autorità del comandante. È il “capo”, nei vari livelli della gerarchia interna (il comandante di squadra o di distaccamento, di brigata, di divisione, di zona) a incarnare le regole del gruppo e a farsi garante del loro rispetto: ma questa autorità, in assenza di un quadro istituzionale di riferimento, risulta effettiva soltanto perché «frutto dell’investitura diretta della “base” e come tale immediatamente e continuamente soggetta al controllo di essa e alla possibilità di revoca in qualsiasi momento».13 Nella fase iniziale della lotta partigiana il principio dell’investitura dal basso si scontra con la presenza di ufficiali del Regio esercito che pretendono il riconoscimento del grado e cercano di ritagliarsi margini di distinzione: ne derivano contrasti accesi, nei quali si esprimono sia l’esasperazione verso la guerra fascista, sia l’aspirazione a una nuova organizzazione dei rapporti. Gli ufficiali che nella stagione della maturità della Resistenza si ritrovano alla testa delle formazioni, sono combattenti che hanno saputo rinnovarsi dopo il dramma dell’8 settembre, mettendo le proprie competenze al servizio della lotta partigiana in un quadro di riferimento totalmente nuovo e guadagnandosi il consenso in virtù del proprio carisma: accanto a loro, si trovano militanti antifascisti o semplici soldati, la cui preparazione militare pregressa è spesso approssimativa, ma che nell’esperienza della lotta hanno acquisito le competenze necessarie e conquistato la fiducia dei loro uomini. Nell’uno e nell’altro caso, si tratta sempre di comandanti selezionati sul campo, oppure di dirigenti proposti dall’alto per contingenze particolari ma approvati dalla base. L’investitura dei comandanti dal basso è la garanzia di un sistema disciplinare che nasce dall’accettazione consapevole dei singoli combattenti e non può avvalersi degli strumenti coattivi di un esercito regolare: il controllo immediato degli ordini, il potere reale del collettivo di stabilire norme


generali, il diritto di decisione finale in caso di controversie, la possibilità stessa di revocare la fiducia, creano un clima di partecipazione che assicura tratti particolari alla disciplina della banda. Come osserva Dante Livio Bianco, «la disciplina è severa, talora anche rigorosa. I vari servizi, a cominciare da quello essenziale della guardia, vengono organizzati nel modo più regolare con turni e ispezioni. Gli atti di indisciplina e le scorrettezze vengono puniti con sanzioni che vanno dalla esclusione alla distribuzione di tabacco, al raddoppiamento dei turni di guardia, sino all’espulsione dalla banda. Per i reati più gravi si arriva al tribunale di banda e alla fucilazione».14 Disciplina rigorosa non significa certo assenza di zone grigie, così come accettazione consapevole non esclude né trasgressioni, né margini di dissenso. Nella storia di ogni formazione ci sono momenti di frizione che vanno dai malumori per presunti favoritismi alle intemperanze caratteriali, alle insubordinazioni di chi non si attiene alle disposizioni per insofferenza o per leggerezza: in una situazione eccezionale, dove il gesto sconsiderato del singolo può pregiudicare la sicurezza del collettivo, gli stati di tensione sono inevitabili e in alcuni casi portano a conseguenze drammatiche. Il problema si pone a due livelli: il primo, meno grave ma più frequente, riguarda l’attitudine comportamentale. Nelle testimonianze dei civili ricorrono spesso riferimenti ad atteggiamenti arroganti, a imprudenze, tratti non sostanziali ma appariscenti di un ribellismo che contiene in sé una componente di spregiudicatezza non sempre adeguatamente controllata. Su questi elementi degenerativi dell’esperienza partigiana incidono i condizionamenti entro cui essa si sviluppa: un primo elemento è l’età dei combattenti, in gran parte giovani delle classi 1920-25 soggetti all’obbligo di leva, con presenza di giovanissimi del 1926-27 e con quadri spesso sotto i venticinque anni;15 un secondo elemento è la frammentazione della banda, suddivisa per ragioni


tattiche e logistiche in piccoli distaccamenti distribuiti sul territorio, ognuno dei quali gode di ampia autonomia; un terzo elemento è la provenienza sociale e geografica delle formazioni, con aggregazioni interne che spesso si formano sulla base di rapporti amicali preesistenti e portano a forme accese di campanilismo. Su questi elementi di fondo incidono poi le attitudini dei singoli comandanti, non tutti in eguale misura carismatici e capaci di imporre una disciplina rigorosa. La quotidianità della vita partigiana lascia così spazio a

comportamenti

di

esuberanza

incontrollata,

destinati

a

incidere

nell’immaginario collettivo, ma che in sede di ricostruzione storica vanno ricondotti entro i loro limiti naturali. Un secondo aspetto del problema, più circoscritto ma nel contempo più grave, riguarda la repressione della criminalità: il movimento resistenziale deve legittimarsi agli occhi dei civili e garantirsi al proprio interno attraverso un sistema punitivo capace di impedire gli abusi e di condannare in modo esemplare i colpevoli, garanzia di un “ordine” che sa affermarsi anche in assenza di un’autorità statale riconosciuta. Soprattutto nell’autunno 1943, sull’onda della dissoluzione dell’esercito e dei saccheggi ai magazzini che ne sono seguiti, si sono diffusi fenomeni di grassazione, con azioni di rapina e intimidazione compiute in nome dei “patrioti”: di fronte a furti nelle cascine, a requisizioni di bestiame poi rivenduto alla borsa nera, a taglieggiamenti di vario genere, le prime bande prendono provvedimenti severi per distinguere tra “ribelli” e “banditi”. Come scrive nel suo diario Nuto Revelli, «ex militari della 4^ armata e malviventi locali, mascherandosi alla partigiana, terrorizzano le popolazioni. Tanti ne pescheremo, tanti ne fucileremo. Se vorremo evitare che tedeschi e fascisti facciano di ogni erba un fascio, speculando per diffamarci, non dovremo perdonare».16 La severità contro gli atti di banditismo arriva quasi sempre alla condanna a morte, soluzione


estrema che nell’eccezionalità della guerriglia partigiana non trova valide alternative per l’impossibilità di forme di detenzione: «Il fondamento di questa volontà di punire fino alla morte stava certo nella necessità di autolegittimazione senza ombre del movimento resistenziale. Oltretutto, occorreva distinguersi, anche su questo piano, da quelle formazioni fasciste che si comportavano esse prime come bande di grassatori. Disciplinare la violenza poteva dunque significare esercitarla fino in fondo contro quelli della propria parte che ne stravolgevano le ragioni».17 Rapine e furti non sono, comunque, l’unica emergenza. I disertori, i sobillatori, i colpevoli di gravi atti di indisciplina, per non parlare delle spie, possono subire a loro volta la pena capitale. La casistica è numerosa e va dalla lucida consapevolezza dell’azionista Dante Livio Bianco che parla «con la coscienza perfettamente serena» della condanna a morte di tre partigiani che si apprestano a disertare in vista di un rastrellamento,18 all’inflessibilità dell’autonomo Enrico Martini “Mauri”, drastico nel prevedere la fucilazione di chi «si allontana con le armi per ventiquattr’ore, di chi passa ad altro reparto senza essere autorizzato, di chi abbandona il posto durante un combattimento, di chi sparge malcontento tra i patrioti».19 Nell’estate 1944 il comando generale del CVL emana una circolare specifica sull’istituzione dei tribunali marziali presso le unità partigiane, ufficializzando e uniformando una prassi già in corso e specificando che il giudizio spetta «al comandante, al commissario che sostiene l’accusa e a quattro partigiani».20 Non esistono statistiche attendibili per quantificare le sentenze emanate dai tribunali partigiani: nell’approssimazione di un sistema di norme che viene definendosi in modo autonomo, il confine tra legalità e illegalità spesso sfuma e trova interpretazioni diverse da parte delle bande. Se le formazioni autonome, per la loro impostazione più vicina al modello militare


tradizionale, si dimostrano rigorose nel reprimere le manifestazioni di indisciplina e gli atti di insubordinazione, le formazioni garibaldine riflettono spesso «le esasperazioni dell’educazione terzinternazionalista alla vigilanza rivoluzionaria»21 e manifestano la propria inflessibilità «innanzitutto nei confronti delle spie e dei traditori» («anche nel dubbio», raccomanda un documento emiliano del maggio 1944, «occorre eliminare la spia per la ragione suprema della nostra incolumità»).22 Nei limiti di un’esperienza intrinsecamente variegata, il movimento partigiano riesce tuttavia a creare un sistema di autorità riconosciuta: se le formazioni sono in grado di superare cicli operativi drammatici mantenendo la coesione interna, se gli sbandamenti seguiti ai rastrellamenti più duri vengono ricomposti, se, soprattutto, la convivenza con la popolazione civile non pregiudica la sicurezza delle bande ma, al contrario, ne garantisce la sopravvivenza, significa che il codice di autodisciplina assicura al ribellismo gli strumenti di regolazione necessari per non scadere nell’anarchia e nel caos.

La struttura delle formazioni partigiane Quanti sono, dunque, i militanti del movimento resistenziale nel momento di maggior affluenza nelle bande e quale è la loro estrazione sociale? Il numero più accreditato dalla storiografia (e confortato dai risultati della Commissione per i riconoscimenti delle qualifiche partigiane)23 è quello di circa 250 000, cifra che può essere accolta con l’avvertenza che si tratta di un dato assolutamente relativo, all’interno del quale andrebbero individuati i periodi e i modelli di effettiva militanza, così da poter costruire un grafico delle presenze. Non è facile, d’altra parte, stabilire i requisiti necessari alla qualifica di partigiano. Le formazioni sono realtà composite: c’è il


combattente che rimane alla macchia per tutto il periodo, c’è il partigiano che alterna periodi di clandestinità con altri in cui torna alla propria abitazione (magari in occasione dei raccolti o dell’aratura), c’è chi ha contatti stretti con le bande e talora partecipa alle azioni militari pur conservando il proprio inserimento nella vita civile, c’è chi, per stanchezza psicologica o per contingenze diverse, abbandona temporaneamente la formazione per poi farvi rientro; e c’è, naturalmente, una varietà di ruoli che spazia dal combattente, al collaboratore, alla staffetta, all’informatore, al propagandista. La fluidità del fenomeno

guerrigliero,

che

ha

la

sua

caratteristica

peculiare

nell’interscambiabilità dei ruoli, pregiudica di per sé gli sforzi di quantificazione. All’assenza di dati definitivi corrisponde la mancanza di analisi sulla composizione sociale del partigianato. Uno studio condotto su 6181 partigiani delle formazioni “GL” piemontesi offre uno spaccato significativo, ma ovviamente parziale: 30 per cento operai, 20 per cento contadini, 11,7 per cento artigiani, 11,2 per cento studenti, 10 per cento impiegati, 5,3 per cento professionisti, 3,3 per cento ufficiali e soldati regolari, 1,6 per cento casalinghe, i restanti non identificati. Un analogo studio su una casistica di 7270 partigiani del ravennate indica il 44,5 per cento contadini, 31,9 per cento braccianti agricoli, 11,1 per cento operai, 4,7 per cento artigiani, 3,5 per cento impiegati, 3,4 per cento studenti, 2,2 per cento casalinghe, 1,6 per cento ufficiali e soldati regolari. Le differenze tra le due griglie di dati rinviano alla diversa composizione sociale dei territori, ma altri elementi andrebbero analizzati: è verosimile, per esempio, che la percentuale di operai sia più alta nelle formazioni garibaldine, e quella di ufficiali nelle formazioni autonome. Anche le indicazioni su caratteri regionali della Resistenza riflettono i limiti di studi analitici ancora da compiere: se ci sono conferme alla tesi di una partecipazione preminente dei


contadini alle formazioni partigiane dell’Emilia-Romagna, di una forte presenza operaia in Liguria, di una maggiore eterogeneità nelle alte regioni del nord, restano comunque da documentare i termini dei rapporti. Se la ricostruzione statistica richiede molta cautela, qualche cosa in più si può dire sulla struttura delle formazioni. Inizialmente denominate “bande”, esse assumono progressivamente il nome di “brigate”, termine carico di suggestione perché evoca l’esperienza dell’antifascismo internazionale nella guerra civile spagnola. Costituite da un numero approssimativo di 250-300 elementi, le brigate sono articolate in “distaccamenti”, suddivisi a loro volta in “squadre”, secondo i principi tattici della guerra per bande che richiede il frazionamento delle forze in piccole unità operative. La struttura di comando prevede il comandante e il vicecomandante di brigata, un capo di stato maggiore e (nelle formazioni meglio organizzate) i responsabili delle sezioni particolari dello stato maggiore (operazioni, informazioni, intendenza, logistica, sanità). Con l’ingrandirsi del movimento partigiano nell’estate 1944, al di sopra delle brigate, vengono create le divisioni, secondo una terminologia di derivazione militare che tradisce l’intenzione propagandistica di amplificare le dimensioni. Un elemento caratteristico, che differenzia le formazioni a seconda degli orientamenti, è rappresentato dal commissario politico, componente del comando presente solo nelle formazioni che fanno riferimento ai partiti di sinistra: il commissario è il responsabile della cura e della direzione politica e morale degli uomini, oltreché dei rapporti con la popolazione civile. Le brigate garibaldine individuano l’importanza di questo ruolo già nell’autunno 1943, sia per l’esigenza di coniugare l’efficienza militare con la coscienza politica, sia per le prospettive di una lotta che, nell’impostazione comunista, non si limita alla liberazione del territorio, ma guarda ai nuovi equilibri dell’Italia postbellica. Analogamente, le formazioni


di “Giustizia e Libertà” e, successivamente, le formazioni “Matteotti”, creano una dualità di direzione, affiancando il commissario al comandante militare in un equilibrio di competenze che garantisce maggior coesione alla banda, ma che può anche creare difficoltà là dove non si verifichi il necessario coordinamento. Questa preoccupazione viene generalmente sottolineata dagli ufficiali di carriera entrati nel movimento partigiano, timorosi di interferenze nell’azione di comando, e si intreccia con la pregiudiziale contro la politicizzazione della lotta, largamente presente nelle formazioni autonome: questo spiega la sostanziale assenza della figura del commissario tra gli autonomi.

I caratteri delle formazioni La complessità del fenomeno resistenziale impedisce di racchiuderlo entro schematizzazioni semplificative: l’esistenza di formazioni quali “Garibaldi”, “Autonome”, “Giustizia e libertà”, “Matteotti” (per non ricordare che le più numerose) non significa omogeneità di opzione politica all’interno di ognuna. Nel momento in cui opera la propria scelta, il singolo partigiano non cerca la formazione che gli è più congeniale, ma quella verso la quale lo spingono rapporti amicali o contingenze territoriali (come ben documenta Beppe Fenoglio nel Partigiano Johnny, dove il protagonista, studente universitario di formazione liberale, entra in contatto con una banda garibaldina all’interno della quale non si sente a proprio agio e solo in un secondo tempo si aggrega alla banda autonoma del comandante “Nord”, a lui più consona): questo spiega perché all’interno delle “Garibaldi” ci sia spesso il cappellano militare, pur in un’epoca in cui il comunismo ha un’attitudine profondamente anticlericale.


Sulla base dei dati ufficiali della Commissione per il riconoscimento delle qualifiche partigiane, è tuttavia possibile indicare alcuni elementi caratteristici. Su 1090 brigate (partigiane, GAP e SAP) attive nel corso della lotta di liberazione, 575 sono garibaldine: pur tenendo conto della tendenza propagandistica al sovradimensionamento e a definire “brigate” formazioni dal numero di effettivi modesto, questo dato è indicativo della presenza preminente delle formazioni legate al partito comunista. La loro costituzione risale al 20 settembre 1943, quando i dirigenti del partito al nord danno vita a un comitato militare per l’organizzazione del movimento partigiano garibaldino: nascono così i primi distaccamenti d’assalto “Garibaldi”, il cui marcato attivismo militare corrisponde all’obiettivo politico di imprimere un carattere aggressivo alla lotta e di contrastare le tendenze all’attendismo. Dallo sviluppo dei distaccamenti derivano le brigate, organizzate secondo precise disposizioni centrali e gestite attraverso un modello articolato: le “Garibaldi” prevedono infatti un comando generale (di cui fanno parte Luigi Longo e Pietro Secchia), le delegazioni regionali e gli ispettori politicomilitari per il collegamento tra le brigate e gli organismi direttivi. In questo modo non viene garantita solo omogeneità tra le brigate, ma anche un saldo rapporto tra partito e formazioni, le quali riflettono nella propria azione la linea politica del PCI. Per certi aspetti analoghe alle “Garibaldi” nella struttura organizzativa sono le formazioni “Giustizia e Libertà”, legate al Partito d’azione e quantificabili in circa il 30 per cento delle forze partigiane: dal comando generale (il cui uomo di riferimento è Ferruccio Parri) dipendono i comandi regionali. Retti da un responsabile militare affiancato da un commissario politico. All’unità di comando centrale e regionale, non corrisponde tuttavia un’analoga omogeneità politica: brigate fortemente politicizzate come quelle


del cuneese coesistono, così, con altre la cui dipendenza dal comando delle “GL” si esaurisce sul piano militare (la Settima divisione alpina della zona di Ivrea ha, per esempio, come comandante il democristiano Felice Mautino “Monti” e come commissario l’azionista Alimiro Pelizzari). Caratteristica di queste bande, d’altra parte, è la larga tolleranza di idee politiche e di dibattito interno, che va a scapito dell’omogeneità ma permette di fruire di apporti qualitativi rimarchevoli sul piano intellettuale. Più lente a formarsi, le “Matteotti”, legate al partito socialista nascono nella primavera 1944, quando i dirigenti del PSIUP (inizialmente favorevoli a una unità non differenziata delle forze combattenti partigiane) decidono di costituire proprie brigate come segno della vitalità del partito. L’arrivo a Milano di Sandro Pertini dà ulteriore impulso al movimento che si struttura sul modello delle altre formazioni politiche, con un comando militare affidato a Corrado Bonfantini: le presenze più significative delle “Matteotti” sono in Piemonte e in Lombardia, dove nei giorni dell’insurrezione arrivano a 20 000 effettivi. Le formazioni che fanno riferimento alla Democrazia cristiana (ma che non esauriscono certo la presenza cattolica nella Resistenza armata) sono raccolte sotto denominazioni diverse: alcune, come le “Osoppo” attive in Friuli, le “Di Dio” (dal nome dei fratelli Alfredo e Antonio Di Dio) operanti a cavallo del confine lombardo-piemontese, o le “Brigate del popolo” presenti a Milano e nella pianura lombarda nel periodo finale della lotta di liberazione, non vanno al di là di forme di collegamento regionali. Le “Fiamme verdi”, cosiddette dalla caratteristica mostrina verde degli alpini, hanno invece un’organizzazione più ampia e cercano di ramificarsi su tutto il territorio: sorte per iniziativa di alcuni intellettuali cattolici e comandate dal generale degli alpini Luigi Masini “Fiore”, esse sono particolarmente presenti nel bresciano, nel bergamasco, nel Trentino e in alcune province venete. Il


legame delle “Fiamme verdi” con la Democrazia cristiana non è diretto, ma ampiamente mediato dalla chiesa attraverso personaggi come Teresio Olivelli e Gastone Franchetti. Le brigate “a carattere autonomo” (o, semplicemente, “autonome”) sorgono con l’apporto preminente di ufficiali e soldati del Regio esercito e trovano la loro area privilegiata di reclutamento nelle vallate piemontesi, dove al momento dell’armistizio sono radunati molti reparti della Quarta armata rientrati dalla Francia: privilegiando l’aspetto della lotta nazionale di liberazione e sottolineando la priorità dell’azione militare, esse si caratterizzano per l’apartiticità, intesa come assenza di legami di appartenenza a partiti movimenti politici. Molti ufficiali rivendicano la fedeltà del giuramento prestato al sovrano e si dimostrano intransigenti nell’escludere qualsiasi forma di propaganda politica all’interno delle rispettive zone; altri, più possibilisti, si avvicinano alle posizioni dei partiti moderati; in alcune province, specialmente nel Veneto, alcune formazioni autonome hanno collegamenti stabili con esponenti democristiani; in altri casi i riferimenti politici sono invece rappresentati dagli esponenti liberali. Inizialmente impostati secondo il modello dell’esercito regolare con una tattica legata alla difesa rigida dei territori, gli autonomi si adattano in seguito alle esigenze della guerriglia adottando sistemi di combattimento più elastici, spesso distinguendosi per la capacità organizzativa dei comandi. Il loro raggruppamento più importante è rappresentato dal Primo gruppo divisioni alpine, comandato da Enrico Martini “Mauri”, dislocato nelle Langhe.

Il problema della violenza Un documento delle autorità militari tedesche della zona operativa del


Litorale adriatico, datato ottobre 1944, elenca le diverse forme di combattimento adottate dai “ribelli”. Al primo posto sono annoverate le azioni condotte nei centri abitati contro i presidi militari: effettuate di notte secondo un piano tattico che prevede l’occupazione dei «punti d’appoggio dominanti» e «l’interdizione di ponti, sentieri e strade nelle vicinanze» per impedire l’inseguimento: tali azioni si propongono l’obiettivo minimo di requisire armi e munizioni e quello massimo di catturare o eliminare soldati nemici. Analoghe a queste prime azioni sono considerate le requisizioni di generi alimentari realizzate nei centri di raccolta dell’ammasso, nei magazzini militari e nelle fabbriche. Al secondo posto si trovano gli «attacchi contro le colonne in marcia», in particolare contro i reparti che si spostano sui mezzi motorizzati: l’azione scatta dopo lo sfilamento della colonna, con piccoli gruppi agili che colpiscono ai fianchi e alle spalle del convoglio, mirando in primo luogo ai guidatori, e poi si defilano secondo vie di fuga preordinate. Al terzo posto vengono elencate le azioni di sabotaggio contro ponti, stazioni e caselli ferroviari, linee elettriche, per le quali le modalità vanno dalla posa di mine, alla manomissione della segnaletica, all’abbattimento di pali e tralicci, alla distruzione di traversine. Alla stessa categoria appartengono gli attacchi mirati contro carichi di armi e di vettovaglie militari o l’incendio di vagonicisterna, realizzati lungo il percorso o nelle stazioni. Dopo aver esaminato le varie forme di attacco (alle quali va aggiunta l’attività cittadina dei GAP), i comandi tedeschi analizzano le tecniche di difesa della guerriglia, adottate nelle operazioni di rastrellamento. In alcuni casi si incontra la “difesa passiva”, che consiste nel frazionare le forze in gruppi di 8-10 uomini per poter «attraversare più facilmente la rete delle truppe operative, che non formano mai una catena ininterrotta»; in altri casi si incontra invece la “difesa attiva”, con «blocchi stradali, campi minati e tronchi d’albero abbattuti,


postazioni di armi automatiche sulle strade di transito», tentativi di «spezzare l’accerchiamento con attacchi mirati contro il settore più sguarnito dell’avversario».24 Il documento delle autorità tedesche descrive azioni tatticamente esemplari, poco verosimili perché la guerriglia sconta spesso l’insufficienza della propria preparazione militare: esse rappresentano comunque la varietà delle forme attraverso cui il movimento resistenziale esprime la sua volontà di lotta, al di là dell’efficacia operativa con cui esse vengono compiute. Il problema delle azioni armate della guerriglia rinvia a quello della violenza nelle sue complesse implicazioni etiche, utile per cogliere l’esperienza partigiana “dal basso”, articolata nelle motivazioni e nelle forme. Se nel contesto della guerra regolare gli atti di distruzione e di eliminazione fisica del nemico discendono da una concatenazione di ordini superiori che in qualche misura assolvono la coscienza di chi li compie, nel caso specifico della guerra partigiana essi derivano da una libera scelta individuale: «La grande differenza di valore simbolico che ha la violenza esercitata dagli uomini della resistenza discende dalla rottura del monopolio statale della forza». Non è più un superiore a ordinare di colpire e uccidere in nome delle leggi dello stato, ma è il singolo che è sceso in campo per propria libera scelta: «I problemi morali fatti nascere dalla smisurata violenza praticata da decine di milioni di uomini durante l’intera guerra vengono così caricati in modo particolare, pretendendo più nette risposte, su poche decine di migliaia di partigiani che esercitano la violenza per propria scelta».25 Sulla scorta di queste osservazioni, va anzitutto sottolineata una sostanziale differenza tra violenza fascista e violenza partigiana: nel primo caso, le azioni rientrano in un quadro istituzionalmente garantito e si esprimono all’interno di una struttura regolare di comando che ne sancisce la legittimità anche quando ai


singoli è lasciata la più ampia discrezionalità nello stabilire la misura della violenza da esercitare; nel secondo, non si può invece prescindere dalla responsabilità individuale, perché la stessa obbedienza all’ordine del comandante implica una precedente adesione volontaria. Il partigiano non è protetto dall’anonimato morale garantito a priori al soldato regolare nel momento in cui uccide un nemico altrettanto anonimo, e la memorialistica resistenziale ha conservato tracce profonde di un processo di riflessione sollecitato dalla necessità di ricorrere alla violenza. Valga per tutte una pagina del diario di Ada Gobetti, alla quale il figlio Paolo racconta di aver assistito alla fucilazione di un individuo sospetto, ordinata da un comandante partigiano: «Mentre Paolo raccontava, osservavo con una certa ansia il suo volto, temendo di trovarvi soddisfazione o indifferenza. Invece ha detto, con pudore trattenuto: “Mi ha fatto una certa impressione”. E ho tirato il fiato. Può essere necessario uccidere, ma guai se lo si trova semplice e naturale».26 Una seconda osservazione riguarda la natura della violenza. L’obiettivo positivo della lotta (la liberazione del territorio nazionale) permette di ricondurre la violenza partigiana a una matrice difensiva, anche quando si tratta di assumere l’iniziativa di un attacco: «La scelta di uccidere veniva dopo, era una conseguenza della scelta fondamentale di contrapporsi alla violenza dell’altro. La violenza resistenziale poteva dunque essere ricondotta, in senso ampio, sotto la categoria della legittima difesa. […] L’affermazione del carattere difensivo della lotta aveva per i resistenti innanzitutto un valore di garanzia morale, tanto più necessaria quanto più l’esercizio della violenza era il risultato di una scelta personale».27 All’opposto, per i militanti della RSI assume un carattere di aggressività che in parte è congenito alla cultura del fascismo, in parte deriva dall’assenza di prospettive che la guerra rende via via più evidente: «Nei fascisti la mancanza di futuro non solo esasperava la


mortuarietà, ma rendeva particolarmente mostruosa ai loro occhi la figura del nemico, contribuendo a trasformarlo, assai più di quanto avvenisse nei partigiani, in “nemico assoluto”. Il nemico non è più un ostacolo da rimuovere lungo il cammino, ma diventa qualcosa il cui annientamento assorbiva tutto il progetto dell’azione violenta».28 Un terzo aspetto è rappresentato dalle forme della violenza. Colpire il nemico costituisce la parola d’ordine comune di quanti intendono “resistenza” sul piano dell’assunzione di iniziativa: l’attacco comporta, però, il rischio di rappresaglie, che possono coinvolgere i combattenti e, soprattutto, la popolazione civile. Il problema è complesso: in primo luogo, le reazioni dei tedeschi non sono sempre uguali ma spaziano dalla rappresaglia indiscriminata a scopo deterrente, alla reazione mirata contro sedi di bande o singoli resistenti, all’inazione per mancanza di forze disponibili, ed è perciò impossibile prevedere con esattezza le conseguenze di un’azione; in secondo luogo, posto che la scelta resistenziale implica comunque costi drammatici, è difficile stabilire il punto di mediazione tra la necessità di risparmiare vite umane e il dovere di non farsi intimidire; in terzo luogo, è arduo decifrare le conseguenze politiche e psicologiche delle rappresaglie nazifasciste, che possono intimorire le popolazioni allontanandole dai resistenti o, al contrario, suscitare un odio più profondo verso gli occupanti e alimentare così la lotta. Le indicazioni che giungono dagli organi centrali della Resistenza non forniscono chiarificazioni definitive: in un documento del febbraio 1944 il comando militare per l’Alta Italia sostiene che «tutte le volte che sia possibile vanno evitati o limitati i motivi di rappresaglia», ma nel contempo aggiunge che «la preoccupazione della rappresaglia non deve rappresentare una mascheratura della non capacità e non volontà di agire».29 La soluzione del problema viene lasciata alla sensibilità dei combattenti, alla valutazione delle


situazioni contingenti, alle singole attitudini comportamentali: «Gli atteggiamenti assunti dai resistenti di fronte alle rappresaglie si collocano lungo una linea che ad un estremo ha la controrappresaglia partigiana e riscontra all’altro estremo una forte incentivazione all’attendismo. Il punto focale del dissenso non stava naturalmente nella riprovazione dell’inumana vendetta nazifascista, ma nell’accettare o negare che lo “strumento di garanzia” funzionasse davvero a favore del nemico. Piegarsi di fronte alle rappresaglie poteva essere infatti considerato un implicito riconoscimento del diritto del nemico ad esercitarle».30 L’accettazione dell’inevitabilità dei costi umani della lotta si accompagna, generalmente, all’impegno di ridurli al minimo, ma è sulla quantificazione di questo “minimo” che si manifestano le differenze più marcate, in un intreccio di preoccupazioni umane per lo spargimento di sangue e di preoccupazioni politiche per l’innalzarsi del livello di scontro. Nell’emergenza della guerra civile la pratica della violenza implica, comunque, contraddizioni ed eccessi: in quante situazioni non è possibile stabilire il punto oltre il quale si degenera in quello che è stato definito il “surplus” di violenza? L’eliminazione di una sospetta spia o la fucilazione di prigionieri sotto la pressione di un rastrellamento rientrano nella sfera della legittima difesa o costituiscono un atto arbitrario? Una demarcazione etica tra gli impulsi individuali alla violenza non è sempre possibile perché la pratica della guerra comporta il rischio di una confusione con il nemico. A stabilire il confine resta l’appello ai fini della lotta, come scrive Italo Calvino in uno dei passi più intensi del Sentiero dei nidi di ragno: «Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la


storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, mi intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà, se non a liberare noi, a liberare i nostri figli. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali».31

La costituzione del comando generale del Corpo volontari della libertà Il 19 giugno 1944 il CLNAI approva la trasformazione del comitato militare dell’Alta Italia in comando generale per l’Italia occupata del Corpo volontari della libertà: al di là del mutamento di nome, il fatto rappresenta una svolta si profondo significato politico, legata alle trasformazioni dell’Italia liberata e alla conclusione ritenuta ormai prossima della guerra. Se nella prima fase della lotta di liberazione il comando unitario ha avuto un ruolo modesto, la creazione del nuovo organismo nasce invece da un accordo consapevole delle forze politiche, concordi nel riconoscere la necessità di una direzione tecnico-militare in grado di rappresentare con autorevolezza il movimento davanti agli Alleati e al governo monarchico. La gestazione è lunga e inizialmente prevede la creazione di una struttura di coordinamento fondata su basi paritetiche, con esponenti dei partiti affiancati da un elemento tecnico quale consigliere militare: accanto a Parri (PDA), Longo (PCI), Mosna (PSIUP), Argenton (PLI) e Bignotti (DC, poco dopo sostituito da Mattei) viene così nominato Giuseppe Bellocchio, generale in servizio attivo. La presenza di Longo, comandante delle brigate “Garibaldi” e massimo esponente del PCI nell’Italia occupata, e di Ferruccio Parri, responsabile delle brigate “GL”, sbilancia però verso sinistra la struttura di comando: «Il comando generale nasce in sostanza sull’alleanza tra comunisti e azionisti, ugualmente


impegnati a portarne avanti il lavoro: gli altri partiti continuano ad essere in secondo piano e peso ancor minore ha l’esperto militare, che non ha alle spalle alcuna forza politica».32 Le richieste dei partiti moderati e le pressioni degli Alleati e del governo Bonomi producono, tuttavia, una rapida trasformazione degli equilibri. A fine luglio, su indicazione dei liberali, emerge come consigliere militare il nome di Raffaele Cadorna e il CLNAI ne richiede la presenza al governo di Roma.33 La designazione incontra il favore dei comandi angloamericani che, in previsione della continuazione della campagna d’Italia, ritengono che l’introduzione di un capace ufficiale di carriera nella struttura direttiva partigiana possa essere garanzia militare e politica. Cadorna accetta l’incarico e, prima della partenza, riceve le istruzioni per la missione, riassunti in un documento in cui si individuano i compiti della Resistenza in quattro punti, secondo una prospettiva che tiene conto dell’ampiezza raggiunta dal movimento (non solo sabotaggi, ma vera e propria «guerriglia con attacchi contro istallazioni tedesche») e si sottolinea il problema del rapporto tra organizzazione militare e organizzazione politica: «Diamo aiuto a tutte le organizzazioni di resistenza considerate capaci di contribuire per distruggere le armate tedesche in Italia e non ci interessa il colore politico di tali organizzazioni. Viceversa, dove le tendenze politiche interferiscono con i piani di operazione che formano una parte integrate dell’avanzata alleata in Italia, l’aiuto non verrà fornito». Il documento si conclude con le istruzioni sulla smobilitazione dopo l’arrivo degli angloamericani, sottolineando il dovere dei comandanti di fornire tutte le informazioni relative ai propri gruppi e di garantire la consegna delle armi.34 Entro questa cornice operativa, il mandato di Cadorna va ovviamente al di là di una semplice consulenza tecnica. A metà agosto, quando viene paracadutato in val Cavallina, nel bergamasco, dopo un volo da Bari, il


generale è forte di un’investitura che fa di lui un comandante militare designato piuttosto che un semplice consigliere e vanifica il progetto delle sinistre di relegarlo al ruolo di rappresentante delle formazioni autonome. L’arrivo di Cadorna, d’altra parte, coincide con una delega fatta dal governo di Roma al CLNAI, riconosciuto «autorità coordinatrice di tutte le attività politiche e militari della Resistenza» e autorizzato a «emanare tutte le istruzioni e gli ordini necessari per potenziare l’attività dei patrioti».35 Anche se il generale si muove con prudenza e nei primi incontri a Milano con i rappresentanti politici rivendica per sé un ruolo equilibratore, il dibattito sulla sua funzione si fa subito aspro all’interno del CLNAI. Il 4 settembre, a nome dei liberali, Giustino Arpesani presenta una nuova proposta di organizzazione del comando generale, che prevede un comandante unico con potere decisionale su ogni questione di carattere operativo e organizzativo, assistito da cinque membri designati dai partiti. La proposta viene bocciata dai rappresentanti della sinistra, mentre i democristiani si astengono. Un contemporaneo telegramma del ministro della Guerra Casati al CLNAI, in cui si chiarisce che la delega fatta da Bonomi al comitato «non diminuisce, anzi potenzia l’autorità del comandante militare da voi prescelto e desiderato»,36 introduce un elemento di ulteriore dissidio politico. I contrasti sull’organizzazione del comando si intrecciano con le diverse concezioni della lotta partigiana. Cadorna cerca ufficiali di carriera cui attribuire posti di responsabilità per «dare alla lotta partigiana una cornice che, senza menomare il dinamismo dei partiti e una loro sana emulazione, ne comprendesse e fondesse le aspirazioni in un superiore quadro nazionale. Il che equivaleva a rimproverare ai partiti di non aver tenuto conto di quel superiore quadro nazionale, perché intenti a perseguire fini di parte. Ma alle affermazioni di Cadorna, Parri e Longo rispondevano che il carattere politico


delle formazioni corrispondeva agli obiettivi essenzialmente politici di quella guerra».37 La situazione è presto al limite della rottura, come denuncia Cadorna in una relazione al maggiore Oliver Churchill, ufficiale di collegamento con il quartier generale alleato: «I comunisti marciano diritto allo scopo di conquistare posizioni molto al di sopra delle loro forze reali, con le quali assicurarsi domani un predominio. Il fermo atteggiamento del rappresentante liberale e le mie dichiarazioni hanno avuto l’effetto negativo di rompere l’accordo idilliaco perdurato nel CLNAI, ma l’effetto positivo di chiarire le posizioni. Si è così visto che esistono due posizioni nette: quella dei liberali e quella dei comunisti. Le correnti intermedie si schierano a seconda dei casi e delle opportunità politiche. Nel comando generale la tempesta era stata sinora evitata perché i partiti comunista e d’azione di fatto regnavano indisturbati».38 Dopo un mese di discussioni, considerazioni di convenienza politica inducono le sinistre a cercare un compromesso che salvi le ragioni sostanziali dell’una e dell’altra posizione: la presenza di Cadorna ha ormai posto fine all’egemonia di Parri e Longo e di fronte al rischio di una rottura del fronte partigiano e all’ipotesi di aiuti angloamericani riservati solo alle formazioni autonome, all’inizio di ottobre la delegazione comunista propone di dare al comando una struttura puramente militare, accettando il ruolo preminente di Cadorna, ma controbilanciandone l’influenza con l’inserimento degli esponenti politici in funzione di vicecomandanti. Questa ipotesi è accettata sia dagli Alleati, sia dai partiti del CLNAI e il 3 novembre il comando generale viene definitivamente riorganizzato: Cadorna riceve il titolo di comandante, Parri e Longo di vicecomandanti, il socialista Mosna diventa capo di stato maggiore, il liberale Arpesani e il democristiano Mattei vicecapi di stato maggiore (il primo addetto alle informazioni, il secondo all’intendenza). La


struttura conserva margini di ambiguità perché le funzioni di comando possono essere esercitate solo in collaborazione con i due vicecomandanti, che conservano il controllo diretto sulle formazioni garibaldine e gielliste. Pur con i limiti di una soluzione di compromesso, l’assetto del comando generale varato nell’autunno rimane inalterato sino al febbraio 1945, con qualche sostituzione nei rappresentanti dei partiti legata alle contingenze della guerra di liberazione: in particolare, Mosna viene sostituito da Sandro Pertini, Argenton da Edgardo Sogno, mentre al posto di Parri (prima inviato in missione in Italia meridionale, poi arrestato) viene nominato Fermo Solari.

L’attività del comando generale Il comando generale si riunisce generalmente il giovedì, con la partecipazione dei sei membri e del colonnello Vincenzo Palombo, diventato primo collaboratore di Cadorna. Il martedì e il sabato si riunisce, invece, il cosiddetto “piccolo comando”, vale a dire la sezione operazioni costituita da Cadorna, Parri e Longo. Le decisioni più importanti sono riservate alle riunioni plenarie, che però non riescono a svolgersi con la tempestività necessaria: ne risulta accresciuto il ruolo della sezione operazioni, le cui competenze riguardano «l’organizzazione, la vita e la direzione delle formazioni partigiane».39 Tra le diverse attività, importanza decisiva ha quella svolta dal servizio informazioni, la fonte più ampia e regolare di notizie sull’Italia occupata: diretto prima da Vittorio Guzzoni, quindi da Enzo Boeri, il servizio organizzato è in tre sezioni (controspionaggio, economia, militare) e conta su un’ottantina di centri periferici che forniscono notizie all’ufficio centrale. Il servizio prepara un notiziario giornaliero con le informazioni più urgenti, dattiloscritto in poche copie per i membri del comando generale; un


bollettino settimanale di informazioni politiche, militari ed economiche, inviato ai comandi regionali; un bollettino di controspionaggio ogni dieci giorni, con elenchi di spie, collaborazionisti e criminali. Una copia di ogni documento viene regolarmente inviata ai comandi alleati e alle autorità del governo. Altrettanto importante è il ruolo del servizio cassa, che gestisce i fondi ricevuti dagli angloamericani. Le somme si aggirano sui settanta milioni mensili, saliti a centosettanta dal dicembre 1944 dopo la missione del CLNAI al sud, e vengono trasmesse attraverso la Banca commerciale italiana e

il Credito italiano: l’inoltro alle varie formazioni avviene utilizzando la rete dei partiti. I collegamenti con gli Alleati sono affidati sia al servizio radio, che opera con diversi centri ricetrasmittenti mobili dislocati sulle Alpi (e nell’ultimo periodo addirittura a Milano), sia al servizio aviorifornimenti che coordina i lanci di armi e materiali, sia a una delegazione permanente stabilita a Lugano sin dalla primavera 1944. L’attività più propriamente militare si manifesta, invece, nella produzione di direttive, di istruzioni, di promemoria, di indicazioni operative che spaziano dalle tecniche della guerriglia alla difesa degli impianti industriali ed elettrici, al sabotaggio delle linee di comunicazione, alla fabbricazione di ordigni esplosivi, all’atteggiamento da tenere con la popolazione civile, al mantenimento della disciplina interna alle formazioni. La segreteria del comando generale, retta da Walter Audisio sotto la supervisione di Longo, si occupa della riproduzione dei documenti nel numero di copie necessario e del loro inoltro ai comandi dipendenti. Il comando generale assolve i compiti di direzione e di coordinamento per i quali è stato istituito? Una valutazione complessiva è difficile: per una varietà di ragioni che spaziano dalla pluralità di indirizzi politici al radicamento territoriale delle formazioni, in Italia la lotta partigiana non


raggiunge i caratteri di unitarietà politica e militare di altre esperienze resistenziali europee (valga per tutti l’esempio della Jugoslavia e dell’esercito di liberazione nazionalcomunista del maresciallo Tito). In questo senso, il comando generale prende atto della situazione e non si propone di impartire ordini operativi, limitandosi a dare disposizioni di massima che facilitino i rapporti tra le formazioni e le stimolino a adeguarsi alle esigenze militari e politiche della lotta;40 dall’altra parte, il comando non dispone neppure di una propria rete di collegamenti interni, ma dipende dalla rete dei singoli partiti, cioè da quella comunista (la più sviluppata e sicura) integrata da quella azionista, e non può andare oltre l’ambizione di porsi come punto di riferimento e di stimolo. Se rispetto alla direzione effettiva del movimento l’azione del comando generale è limitata, la sua funzione risulta tuttavia decisiva nel rapporto con gli alleati e con il governo dell’Italia liberata: «Da tutte le testimonianze e le ricerche emerge l’importanza del ruolo che il comando generale seppe assumere presentandosi come valido rappresentante delle forze partigiane. Malgrado le prevenzioni e i desideri degli alti comandi e di moltissime missioni alleate, il comando generale dimostrò costantemente di essere l’organo più informato sulla situazione reale dell’Italia settentrionale, l’unico in grado di anticiparne gli sviluppi e di incidere sull’evoluzione in corso: si rivelò, insomma, l’unica controparte reale con cui gli Alleati e il governo monarchico dovevano trattare a proposito della guerra partigiana». In questo senso, va riconosciuto agli uomini del comando generale una capacità di rappresentanza del movimento partigiano, colto insieme nelle sue divergenze e nelle sue ansie di rinnovamento: «Quegli uomini seppero esprimere la realtà della guerra partigiana e agirono su di essa con fermezza e coscienza, e con un’intransigenza di fondo che non rifuggiva dai compromessi pratici necessari per raggiungere quell’azione unitaria di cui


il CVL e il suo comando furono simboli».41


1

Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 328. 2 “Governo dei partiti”, in “l’Unità”, edizione romana, 5 ottobre 1943. 3 Claudio Pavone, “Le tre guerre: patriottica, civile e di classe”, in Massimo Legnani, Ferruccio Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Angeli, Milano 1990, p. 28. 4 Natalia Ginzburg, Prefazione a Giovanni Falaschi (a cura di), La letteratura partigiana in Italia, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 8. 5 Claudio Pavone, “Le tre guerre”, cit., p. 31. 6 Ibid., p. 35. 7 Ibid., p. 49. 8 Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 175. 9 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 241. 10 Il comando generale del Corpo volontari della libertà è l’organismo creato nel giugno 1944 per coordinare l’attività delle diverse formazioni partigiane. Nella sua prima circolare, datata 22 giugno e indirizzata a tutti i comandanti delle formazioni, si legge che «il comando generale per l’Italia occupata non presume di dirigere le azioni delle singole unità, nell’autonomia e nell’iniziativa delle quali riconosce un elemento di quella rapidità e agilità che devono caratterizzare l’esperienza partigiana» (cfr. Giorgio Rochat, a cura di, Atti del comando generale del Corpo volontari della libertà, Giugno 1944-Aprile 1945, Angeli, Milano 1972, pp. 41-42). 11 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 243. 12 Don Berto Ferrari, Sulla montagna con partigiani, Edizione del Partigiano, Genova 1946, p. 72. 13 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 242. 14 Dante Livio Bianco, Guerra partigiana, cit., p. 52. 15 I dati forniti da Leo Valiani indicano il 46,3 per cento nati tra il 1920 e il 1925, e il 40,8 per cento tra il 1910-20 (Leo Valiani, La Resistenza italiana, in “Rivista storica italiana”, n. 2/marzo 1973, p. 66).


16

Nuto Revelli, La guerra dei poveri, cit., p. 144 (l’osservazione di Revelli è datata 16 ottobre 1943). 17 Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 454. 18 Dante Livio Bianco, Diario partigiano, cit., p. 57. 19 Le diposizioni del maggiore Enrico Martini “Mauri”, contenute in un bando emanato il 24 luglio 1944, sono riportate in Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 455. 20 La circolare del Comande generale del CVL, avente per oggetto: “Costituzione e funzionamento dei tribunali marziali presso le unità partigiane”, datata 16 luglio 1944, si riferisce a reati «militari o comunque interessanti le operazioni militari (banditismo, spionaggio, oltraggio alle popolazioni o alle loro organizzazioni politiche)». Le sentenze sono “inappellabili” e diventano «immediatamente esecutive»: «In caso di flagranza di reato, di abbandono di posto davanti al nemico o di tradimento», i colpevoli «possono essere passati per le armi senza formalità processuali» (Giorgio Rochat, a cura di, Atti del comando generale del Corpo volontari della libertà, cit., pp. 82-83). 21 Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 473. 22 “Istruzioni del comando del distaccamento Modena al distaccamento Stanzioni”, datato marzo 1944, in Giampiero Carocci, Gaetano Grassi (a cura di), Agosto 1943-maggio 1944, Feltrinelli, Milano 1979, vol. I, p. 341. 23

La Commissione viene istituita con decreto luogotenenziale n. 518 del 21 agosto 1945: articolata in dieci commissioni regionali e una Commissione di 2° grado d’appello, la Commissione ha raccolto oltre 700 000 dossier, dal 2012 depositati presso l’Archivio Centrale dello Stato. Il decreto stabilisce che per ottenere l’attestato di “partigiano combattente” bisogna dimostrare di aver militato almeno per tre mesi in una formazione e aver partecipato ad almeno tre azioni ad alto rischio; per la qualifica di “patriota” la legge richiede invece di aver contribuito attivamente alla lotta. La domanda deve


essere obbligatoriamente sottoscritta dai Comandanti delle formazioni partigiane di appartenenza: l’iter prevede poi un’istruttoria, anche con escussione di testimonianze. Due terzi circa delle domande vengono rigettate. 24 Il documento, prodotto dalla SS-Standarte “Kurt Eggers”-Kommando Adria Trieste e intitolato “Lotta antibande nella zona operativa Litorale adriatico”, è riportato in Alessandro Politi, Le dottrine tedesche di controguerriglia, cit., pp. 449-455. 25 Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 415. 26 Ada Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, Torino 1972, p. 100. 27 Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 447. 28 Ibid., p. 434. 29 Il documento, che si presume sia stato redatto da Ferruccio Parri, è riportato in Giorgio Rochat (a cura di); Atti del comando generale del Corpo volontari della libertà, cit., p. 547. 30 Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 480. 31 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1947, p. 147. 32 Giorgio Rochat, “Le vicende del comando Generale del CVL”, in Giorgio Rochat (a cura di), Atti del comando generale del Corpo volontari della libertà, cit., p. 14. 33 Secondo Cadorna, il 25 luglio un ufficiale di stato maggiore gli avrebbe mostrato a Roma un radiogramma proveniente da un agente dislocato nell’Italia occupata, con la richiesta del CLNAI per la sua designazione a consulente tecnico. 34 “Istruzioni della N. 1 Special Force al generale Raffaele Cadorna”, in Pietro Secchia, Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, cit., pp. 125-27. 35 A proposito dell’ampia delega, espressa in una lettera di Bonomi al CLNAI del 25 agosto 1944, cfr. Franco Catalano, Storia del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, cit., pp. 217-18


36

Il telegramma del ministro Casati è riportato in Pietro Secchia, Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, cit., p. 157. Secondo l’organizzatore della “Franchi”, Edgardo Sogno, già all’inizio di agosto ci sarebbe stata una richiesta di liberali e democristiani al governo Bonomi di nominare Cadorna “comandante” anziché “consigliere”: tale richiesta, avanzata all’insaputa degli altri partiti del CLNAI, sarebbe stata trasmessa al governo dallo stesso Sogno (Edgardo Sogno, Guerra senza bandiera. Cronache della Franchi nella Resistenza, Rizzoli, Milano 1950, p. 223). 37 Franco Catalano, Storia del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, cit., p. 224 38 “Relazione del generale R. Cadorna a maggiore O. Churchill”, datata 28 settembre 944, in Pietro Secchia, Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, cit., p.146. 39 “Circolare n. 1 del comando Generale”, datata 24 giugno 1944, in Giorgio Rochat, Atti del comando generale del Corpo volontari della libertà, cit., p. 42. 40 Una parziale eccezione si ha solo per la val d’Ossola, che viene seguita assai più da vicino dal comando generale, e per la liberazione di Milano: in ogni caso si tratta, appunto, di eccezioni. 41 Giorgo Rochat, “Le vicende del comando Generale del CVL”, cit., p. 30.


4 La quotidianità partigiana

La giornata partigiana All’abbondanza di materiali e testimonianze sull’attività politica e militare delle formazioni, corrisponde la scarsità di indicazioni sul tempo libero: la memoria ha fissato i momenti drammatici o eroici, ma ha rimosso quelli ordinari. Nell’impossibilità di proporre una ricostruzione complessiva, ci si limita a riprodurre una lunga pagina dedicata al quotidiano della divisione “Sergio De Vitis”, una formazione attiva nella val Sangone, alle porte di Torino, dove sotto la denominazione ufficiale di “autonomi” operano insieme gruppi garibaldini, giellisti, monarchici e socialisti: l’eterogeneità della formazione fa del suo quotidiano uno spaccato della vita collettiva di una banda e permette di considerarlo, in qualche misura, emblematico. La descrizione di Giaveno, piccolo borgo rurale e principale centro della vallata, è rivelatrice di una realtà irrequieta. Il testimone, Carlo Chevallard, giovane dirigente di industria che nel settembre 1944 si reca a parlamentare con i comandanti partigiani per concordare la restituzione di un camion, annota nel suo diario: «I partigiani di Giaveno controllano tutta l’alta val Sangone da Trana a Coazze, spingendosi frequentemente fino a Bruino, Orbassano, Beinasco, vale dire alle porte di Torino; non per niente, uscendo dalla città, al posto di blocco della barriera di Orbassano, un cartello tedesco ammonisce


“Achtung! Bandengefahr!”. In Giaveno i partigiani girano tutti in borghese, anche se armati. Il motivo, mi è stato spiegato, è poter sfuggire più facilmente a un’eventuale incursione di tedeschi o repubblicani. Sulla montagna sono tutti più o meno in divisa: ma quale varietà! Manca un segno distintivo (coccarda, bracciale o altro) comune: in compenso tutte le più strane fogge sono ammesse. Divise tedesche, divise repubblichine, pantaloni kaki di origine inglese, ecc.; quello che mi stupisce è di non aver incontrato, almeno tra quelli che ho visto, una divisa del vecchio esercito regio. Ne ho visto uno con un grande cappello da prete; tanti sono in short kaki. I tipi che si incontrano sono una gamma vastissima: tutti hanno (o forse sono) facce classiche di evasi dalle patrie galere, tanti hanno invece un’aria molto a posto. Ne ho visti alcuni che, nel trasandato abito borghese, conservano un’indubbia eleganza che ne rivela le origini. Tratto comune a molti è una grande gentilezza: non dirò che siano damerini, né gente che rischia quotidianamente la morte potrebbe esserlo, ma sono indubbiamente assai più cortesi dei repubblicani. Molto meno di quelle arie da matamori, di quei truci sguardi dei giannizzeri neri: ai posti di blocco sono stato naturalmente osservato attentamente, accompagnato anche, ma senza il minimo sgarbo né la minima posa […]. Un aspetto caratteristico della vita dei partigiani sono le automobili. Lamentano tutti la scarsità di benzina: però le macchine scorrazzano avanti e indietro, sempre ad andatura folle, con grandi cambi di marcia fragorosi, curve con abbondanti derapages ecc. La piazza di Giaveno rassomiglia a certe strade di Rapallo o di Stresa negli anni andati, quando i giovani figli di famiglia scorrazzavano a tutta andatura con le loro auto. Danno un po’ l’idea di ragazzi che si divertono con giocattoli che hanno raramente in mano. Il risultato è un logorio spaventoso dei mezzi: non c’è macchina, si può dire, che circoli intatta, tutte ammaccate nei parafanghi,


nelle portiere. Uno dei lati meno simpatici è la presenza di elementi assai giovani: vi sono molti ragazzi di 17-18-19 anni, i quali naturalmente copiano i più grandi e si abituano così a bere (ho visto tirare giù certe dosi di vino e di vermouth!) e a maneggiare le armi con una facilità che non sarà facile dimenticare. Alla trattoria dove sono andato a mangiare c’era un ragazzino di 14 anni, il quale, mi dissero, il giorno prima aveva ucciso a Rivoli tre tedeschi con una raffica di mitra».1 Se l’osservatore visitasse gli accampamenti della montagna, troverebbe la stessa varietà multiforme della piazza del paese: tende da campo con i paletti di legno sporgenti, baite trasformate in depositi, biancheria stesa sui rami ad asciugare, grandi marmitte con acqua bollente; e, ancora, partigiani di sentinella, altri intenti a pulire le armi, altri a trasportare viveri; alcuni addormentati sulla paglia, altri seduti nel prato a giocare a carte; forse anche qualcuno, più raro, con un libro in mano. Gli accampamenti non sono concentrati ma, al contrario, dispersi su tutto il territorio della val Sangone, secondo l’articolazione delle formazioni. La brigata “Sandro Magnone”, di orientamento monarchico, adotta come unità di base il nucleo, formato da cinque o sei uomini; le altre bande presenti in valle, il distaccamento, che varia dalle venti alle quaranta unità. Al mattino, chi è addetto al vettovagliamento va a prendere i viveri al comando, chi si occupa di cucina distribuisce la colazione, poi si avviano le diverse attività: «La cosa principale era la guardia al distaccamento; c’erano turni fissati dal comando di brigata, bisognava darsi il cambio a guardare i punti importanti della valle, i prigionieri, se ce n’erano, le automobili. Altri giravano per il cibo. Ogni mese, ma non tanto regolarmente, si ricevevano dei soldi, 300 lire all’inizio e 900 alla fine. Con quei soldi si andava nelle botteghe o in trattoria. E poi c’era chi andava a far legna per il fuoco, chi faceva da mangiare».2


L’alimentazione è povera ma sufficiente: grandi quantità di polenta e di patate, il latte, la carne ogni otto-dieci giorni, talvolta il riso. Gli alcolici sono abbondanti: vino da tavola, ma anche vermouth, qualche bottiglia di grappa, cordiale. I partigiani russi, presenti in buon numero in val Sangone, sono bevitori instancabili e impressionano per la capacità di ingurgitare qualunque sostanza purché abbia gradazione: «27 marzo», scrive nel suo diario Guido Quazza, «si prendono liquori e viveri su tre autocarri. Scene disgustose di ubriacature di russi e altri […]. 1 maggio: i russi si ubriacano, suscitano un increscioso scompiglio con spari e scariche in piena notte; allarme, corsa a ponte Pietra. Il giovane Anatoli mi presenta il petto nudo: “Sparare, comandante Guido!”».3 Abbondante è anche il tabacco: la GNR segnala frequenti requisizioni nelle rivendite dei paesi vicini di Cumiana, Piossasco, Orbassano. Alle prese con un’organizzazione del tempo da reinventare secondo ritmi inconsueti, i partigiani reagiscono a seconda della fantasia e dell’indole di ognuno. Qualcuno, abituato alle comodità della vita borghese, sente maggiormente il disagio dell’improvvisazione, ma c’è anche chi sa adattarsi e inventare riempitivi: «26 aprile: cura del sole. Leggo Salvatorelli. 27 aprile: cura del sole. Leggo Salvatorelli e Murray Bluter, un saggio sulla crisi della società contemporanea. 28 aprile: bella gita al Grandubbione (un’ora e un quarto andata e ritorno). 1 maggio: bella gita a L’Aquila. Serata sportiva».4 Ci sono le carte, la dama, gli scacchi, le bocce, la morra. C’è la musica. Tra i documenti della brigata “Carlo Carli” (una delle prime che si costituiscono in val Sangone) è conservata una lettera del 23 settembre 1944, indirizzata al signor Guglielmotto di Giaveno, in cui si dice: «Egregio signore, in questo momento ogni italiano dovrà secondo le sue possibilità dare un contributo alla causa di liberazione. Le nostre necessità sono di diversa natura, le più


essenziali sono quelle che tengono alto lo spirito e la compagine nel riposo dei nostri garibaldini. Vi preghiamo quindi di consegnare al latore della presente due fisarmoniche delle seguenti caratteristiche o consimili: 120 bassi di quinta, 41 tasti in terza e quarta a piano. Saluti garibaldini».5 A volte ci sono partite di pallone tra distaccamenti vicini: «23 luglio. Vinciamo il distaccamento di Reano 16 a 7 a pallone, subissando la loro sfida. 25 luglio, primo annuale della caduta del fascio. Vinciamo (1° plotone) la squadra comando al pallone 12 a 1».6 Dai distaccamenti ai paesi il tratto è breve. Nelle bande dove la disciplina è più rigorosa occorrono i permessi dei comandanti, mentre dov’è meno rigida gli uomini scendono con maggior frequenza. Il paese è innanzitutto il luogo di incontro con le ragazze, dove l’immagine del partigiano che vive nell’avventura può esprimere la sua carica di fascino. Marisa Diena ha osservato che «tra i motivi che hanno spinto gli ultimi giovani dei villaggi ad aggregarsi infine alla esistenza, vi è stato, non trascurabile, l’atteggiamento femminile nei loro confronti: non che fossero disprezzati, ma semplicemente ignorati».7 Generalizzata, l’affermazione risulta impropria, ma è indubbio che il mito del partigiano penetri nell’immaginario collettivo e che i rapporti tra gli uomini delle bande e le valligiane siano frequenti: «Erano momenti particolari. C’era l’immagine del partigiano che viveva nell’avventura, c’erano i nostri racconti che spesso gonfiavano le cose, ma c’erano anche altri fattori. Chi sceglieva la montagna anziché il nascondiglio o l’arruolamento con Salò era, in genere, un giovane dotato di personalità perché si metteva sul terreno della scelta, e questo contava nei rapporti con le donne. D’altra parte, la guerra aveva allentato la morale: c’era un controllo sociale minore, c’erano molte donne sole, veniva offerta ospitalità a chi stava in montagna, le cose nascevano naturali».8 Questi rapporti non mancano di suscitare perplessità.


La confidenza può portare a rivelazioni imprudenti e una presenza femminile troppo numerosa può attirare l’attenzione delle autorità nazifasciste: «Nell’estate-autunno 1944 abbiamo più volte bloccato la tramvia che collega Giaveno con Torino perché la domenica era piena di ragazze che venivano a trovare i loro compagni. Non potevamo attirare così i rastrellamenti e poi c’era sempre il timore di qualche spia infiltrata».9 Ma il paese non è soltanto lo spazio delle confidenze amorose: a volte ci sono inviti da parte di qualche famiglia, altre volte pranzi in trattoria, durante l’estate qualche festa da ballo improvvisata in cortile con la musica di un fonografo: «C’erano degli sfollati che avevano un fonografo e qualche sera hanno fatto musica e abbiamo ballato. C’erano ragazze di qui e c’erano partigiani, altri giovanotti non se ne vedevano quasi».10 Più spesso ci sono semplici distrazioni dalla vita dell’accampamento: «Tutte le volte che si poteva si scendeva a Giaveno o a Coazze. Lì c’era gente, si incontravano le ragazze, c’erano le osterie. Quando si rischia di prendersi una fucilata tutti i giorni, c’è ancora più voglia di divertirsi quando si può»;11 «qui alla nostra osteria venivano i partigiani, erano ragazzi come gli altri, insomma facevano ciò che fanno tutti in osteria, bevevano e parlavano. All’inizio facevano effetto perché avevano i fucili, ma poi ci siamo abituati perché nella vita ci si abitua sempre a tutto».12 La presenza partigiana diventa, così, una componente della vita sociale della val Sangone, mescolandosi con quella della popolazione civile. Il partigiano non è soltanto il guerrigliero che attacca le pattuglie nazifasciste, che si muove con le armi a tracolla, che requisisce: è anche la presenza quotidiana che si incontra per strada, che anima le conversazioni, che si muove nella piazza, che entra nei negozi o nelle case – una presenza che può suscitare simpatia o disapprovazione, che nell’emergenza

delle

rappresaglie

suscita

sicuramente

sentimenti


contraddittori, ma che è a tutti gli effetti un componente della società in mezzo a cui si muove: «Qui in val Sangone non si può pensare a quel periodo senza pensare ai partigiani. I civili eravamo molto più numerosi, c’eravamo noi valligiani e c’erano tanti sfollati da Torino, però anche adesso, dopo tanti anni, si parla sempre di partigiani: sono rimasti nella memoria, sono il riferimento dei giudizi, delle speranze, delle paure di quei due anni».13

I nomi di battaglia Un elemento importante dell’immaginario partigiano è costituito dai nomi di battaglia. «Lo studio dei miti e dei simboli tramite i quali uomini e donne percepiscono il loro mondo», è stato scritto, «può farci vedere a fondo nelle scelte personali e politiche, per mezzo delle quali tendono a fronteggiare la realtà e a contribuire così alla formazione dell’avvenire»:14 sotto questo profilo, l’onomastica della Resistenza appare un campo di ricerca significativo. Il nome di battaglia, oltre alla funzione pratica di celare l’identità del suo portatore, assolve anche a funzioni culturali, espressive e simboliche in senso lato: «Esso serve a mascherare la nostra identità e di rimando a tradire il nostro carattere: rivela le nostre ambizioni, o le nostre letture, oppure i limiti della nostra fantasia».15 Nella casistica di 3800 pseudonimi partigiani raccolti e studiati da Franco Castelli nell’area piemontese si ritrova così, «un caleidoscopio prodigioso di creatività linguistica e mitopoietica, che per la sua rigogliosa e spumeggiante varietà e per le ampie risonanze simboliche»16 offre uno spaccato della cultura popolare in uno dei momenti più significativi della propria storia. L’elemento che a prima vista qualifica gran parte dei nomi di battaglia è l’irruenza espressiva: nomi forti, fragorosi, ad alta tensione emotiva, che


trovano un corrispettivo nelle fotografie, dove l’autorappresentazione non prescinde mai dall’esibizione del fucile e dei caricatori. Alcuni aggettivi e avverbi che rimandano a improbabili qualità di coraggio: Tremendo, Terribile, Ovunque, Sempre, Vandalo. Altri nomi di fenomeni naturali violenti e di animali feroci: Nembo, Folgore, Saetta, Leone, Lupo. Altri ancora nomi di armi ed esplosivi: Cannone, Sten, Dinamite. Più rari, ma ugualmente presenti, nomi degli eroi del cinema e dei fumetti: Tarzan, Buffalo Bill, Sceriffo. Non è difficile scorgere in queste parole-sfida forme ingenue di esorcismo della paura: il timore del combattere, la prospettiva quotidiana di essere catturati o uccisi o torturati, determina l’adozione di parole minacciose e terribili, uno scudo dalle minacce concrete della guerra. La retorica di questi nomi è però anche l’espressione di un bisogno di autodefinizione, attraverso la quale le masse popolari manifestano un’individualità a lungo sottomessa: «Non solo si tratta di retorica inconsapevole e innocua, ma essa è di tipica estrazione popolare, un modo riflesso di manifestare un’individualità compressa da un’inferiorità secolare di classe e perciò anche un segno genuino della larga partecipazione al movimento partigiano di masse sino ad allora soggiogate, nello scontro con la morte in guerra, all’uniforme del soldato obbligato, del precettato di leva, di chi subisce e non partecipa all’opera collettiva».17 In questa stessa prospettiva si inseriscono i nomi di derivazione storica, reminiscenze di scuola elementare che portano all’identificazione con un personaggio rimasto a vario titolo impresso nella memoria: Asdrubale, Fieramosca, Cavour, Carlo Magno, Cicerone, Nerone. Un altro consistente numero di nomi è costituito da semplici alterazioni o abbreviazioni del nome proprio: Cecu, Giors, Cele, Giuan, Carlin, Beppe, Lele, Berto (talvolta l’alterazione coinvolge anche il cognome, ad esempio


“Giofa” per Giovanni Fassino o “Frico” per Federico Tallarico). In questa categoria, apparentemente più opaca, si nota tuttavia una grande fantasia dovuta all’esigenza di piegare i nomi più comuni per evitare doppioni, confusioni e sovrapposizioni: così Eugenio viene variato in Genio, Geni, Bocia; Francesco in Cecu, Cecco, Ciccio, Cesco; Giovanni in Nino, Giuanin, Giò, Gianni, Giuan, Giangi, Nanni, Gian. Non mancano, poi, i nomi derivati dalla tradizione contadina degli “stranom”, come Vigin, Notu, Cincio, Vecio, Fineur, Carubi, Galet; né quelli geografici, che indicano la provenienza degli esterni riferendosi a città, regioni, fiumi o monti (Palermo, Marsala, Valdustan, Mincio, Piave, Calabria, Etna); né, ancora, quelli derivanti da attributi fisici (Barba, Moretto, Risulin, Biondo, Guercio, Pizzo). Meno frequenti sono, invece, i nomi derivanti dalla tradizione politica della democrazia risorgimentale e del movimento proletario internazionale: i vari Garibaldi, Bixio, Menotti, Bandiera, Matteotti compaiono in percentuali modeste, segno inequivocabile della rottura della memoria storica perpetrata dal fascismo e dell’isolamento culturale dell’Italia durante il Ventennio: più diffusi sono i nomi derivanti dalla Rivoluzione russa (Lenin, Stalin, Molotov, ma anche Russo, Tavarich e persino Ceka e Ghepeù), nomi che, depurati dalla loro storia, si trasformano in bandiere e identificazioni proiettive. Il panorama dell’onomastica partigiana è ampio e, al di là di queste categorie prevalenti, contempla pseudonimi legati all’esperienza culturale dei singoli, dalla storia antica (Cesare, Cincinnato, Gracco, Spartaco) alla Rivoluzione francese (Marat, Robespierre), alla guerra civile spagnola (Ramon, Gomez, Manuel, José), alla resistenza jugoslava (Tito, Stella Rossa, Janovic): non mancano neppure nomi che sfuggono alle classificazioni ma che ben esprimono l’ansia di parole nuove, come Libertà, Beppe Naviga, Giostra, Edelweiss, Gioco, Vivere. Da queste tipologie si discostano i nomi attribuiti o


assunti dalle donne partigiane, dove prevale l’abitudine di conservare il proprio nome di battesimo oppure un diminutivo, indizio di una minore disposizione all’eroismo immaginario. Scarsi i riferimenti letterari o romanzeschi (che paiono trapelare da nomi come Kira, Tundra, Liala), mentre abbondano i riferimenti all’assetto fisico (Bionda, Bruna, Rossa) e all’agilità, alla destrezza e alla velocità negli spostamenti, di capitale importanza per le staffette (Trottolina, Freccia). Non manca qualche attribuzione apparentemente più bellicosa (Breda, Katiuscia), qualche riferimento risorgimentale (Anita), qualche indizio di provenienza geografica, corretto talvolta con il vezzeggiativo. Roberto Battaglia ha fornito un’interpretazione riduttiva del fenomeno, riconducendolo alla vecchia tradizione popolare per cui «i patrioti si ribattezzano da sé in mille modi diversi, ma seguendo nelle grandi linee i suggerimenti della tradizione e adattandosi, spesso inconsapevolmente, all’ambiente regionale».18 Ciò che sembra caratterizzare la maggior parte del patrimonio onomastico è, invece, l’innovazione, il desiderio di inventare e creare anche sul piano lessicale: «Non tanto quindi la continuità di una tradizione, quanto la sua rottura, che nasce in primis per indubbia volontà dei giovani ribelli, sulla base di una decisa, imprecisa e impellente voglia di parole nuove, oltre che di nuovi simboli e nuovi miti».19

Linguaggio e autorappresentazione La ricchezza di influssi culturali e di ricorsi al simbolico, che convivono nel repertorio dell’onomastica di battaglia, non esauriscono l’immaginario partigiano, un complesso articolato dove le sedimentazioni della cultura fascista si intrecciano con l’aspirazione al rinnovamento e alla rottura.


Canzonieri e i giornali partigiani rappresentano un osservatorio privilegiato. L’innodia consiste nella produzione di canti, strofe, inni, ritornelli che esprimono i sentimenti collettivi e in cui le speranze, le paure, le attitudini maturate nel corso della lotta si precisano a vari livelli. In un certo modo, essi sono la traduzione nel linguaggio canoro della voce popolare narrante indicata da Italo Calvino come uno degli aspetti più creativi dell’esperienza resistenziale: «Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte accanto al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca di effetti angosciosi o truculenti».20 Più complesso il discorso relativo ai giornali, talvolta testate di diffusione allargata (è il caso del “Combattente”, organo delle formazioni garibaldine, o del “Partigiano alpino”, organo giellista), ma più spesso prodotti a livello di divisione o di brigata da piccole redazioni animate dal commissario politico. La funzione principale di questa stampa è quella di «filtrare la linea politica di partito espressa dai giornali antifascisti diffusi a livello nazionale, un ruolo non solo di mediazione, ma di formazione politica o di politicizzazione in senso più esteso».21 Nella prospettiva di una ricerca sull’autorappresentazione, un rilievo particolare assumono i racconti militari, di cui la stampa partigiana è ricchissima. Mentre negli eserciti regolari la divulgazione delle imprese è affidata all’impersonalità dei bollettini di guerra, nella pubblicistica partigiana si ha invece il “racconto”, con tutto il repertorio di elementi autorappresentativi che questo comporta: «Nei corpi militari regolari il soldato combatte per i comandanti, i quali si impossessano dell’impresa militare e la spersonalizzano rendendola ufficiale. Il partigiano è invece il “proprietario” dell’impresa che compie perché combatte innanzitutto per sé, e quindi la valuta moralmente, la commenta e la propone agli altri. La


dilatazione del resoconto militare nel racconto è possibile proprio perché il fatto militare viene interpretato attraverso un ampio contesto umano […]. La maggior parte dei racconti obbedisce ad una necessità pedagogica, del resto comprensibile visti i tempi in cui erano scritti. Essi tendono a dimostrare la superiorità del partigiano sui fascisti, la sua lealtà, il suo coraggio, il favore di cui gode presso la popolazione. Il racconto può dunque, nel giornale, affiancare l’articolo politico di propaganda».22 Raccogliendo insieme le indicazioni dei canzonieri, della stampa e degli stessi nomi di battaglia è possibile individuare alcuni miti e tratti autorappresentativi prevalenti. Il più diffuso sembra essere quello della montagna, che valorizza l’ambiente operativo e, nel contempo, permette il recupero patriottico del mito del corpo degli alpini rovesciandone il significato attribuito dal fascismo: «La montagna riassume in valori simbolici il concetto di patria: è stata la culla degli alpini, gli eroi della prima guerra mondiale, e diviene rifugio dei nuovi eroi, i figli migliori. Essa riunisce il concetto di unità e di solidarietà: alpini e popolazione delle vallate discendono dalle stesse famiglie». Si tratta di un riferimento non semplicemente ideologico: «Vi sono esigenze operative, immediate, di reclutamento nelle formazioni partigiane, che danno una direzione precisa a quello che nel linguaggio è luogo comune. Nei giornali, nelle canzoni, nelle poesie, nei disegni viene diffusa l’immagine del partigiano alpino. Di questo sono ripresi i gesti, le espressioni più note. Gli alpini sono buoni compagni, valorosi, instancabili e leali. Esprimono il carattere di chi è nato e vissuto sempre a contatto con la montagna». Questo mito racchiude in sé anche il tema della rigenerazione: «La montagna è simbolo di purificazione: il contatto con l’aria aperta, il sole, il vento sono ripresi come sue metafore».23 Il rinnovamento dell’atmosfera politico-culturale della nazione trova, così, il


suo riferimento simbolico nell’ambiente operativo stesso delle formazioni, luogo insieme di sofferenza, di lotta e di palingenesi. Al tema del sacrificio si collega il mito del partigiano caduto, la cui memoria è strumento per rinsaldare vincoli di solidarietà all’interno della banda e per confermare il valore etico della lotta. I necrologi, diffusissimi in tutta la stampa partigiana, vengono costruiti secondo due tecniche diverse: la commemorazione oratoria o il ricordo dettagliato di alcuni episodi che hanno avuto come protagonista il caduto. «Nel primo caso non si danno molte notizie del morto, se non genericamente esaltandone lo spirito di sacrifico e l’amore per la causa: la morte è un messaggio per i vivi il cui contenuto ammonisce a non continuare per non tradire il caduto.» Nel secondo caso la tecnica è più elaborata: il caduto viene ricordato attraverso elementi particolari che lo hanno distinto da vivo (la determinazione, l’altruismo, la condizione sociale di provenienza, le attese) e che si proiettano sulla lotta partigiana, presentata di volta in volta come riscatto sociale, esperienza di solidarietà, ambito di crescita morale e culturale. Denominatore comune dei necrologi è, inoltre, la demonizzazione del nemico, tecnica comune a tutta la propaganda e l’autorappresentazione di guerra: all’eroismo del partigiano caduto si contrappone la crudeltà del fascista e del tedesco, talora esplicitamente ricordata (la tortura, l’esecuzione in piazza, l’esposizione del cadavere), talaltra implicitamente veicolata nell’esaltazione dell’estrema difesa del caduto. L’eroismo si ricollega al mito della giovinezza, anche in questo caso eredità del repertorio simbolico fascista che l’esperienza resistenziale rovescia di segno. «Hanno vent’anni e il cuore giovane»,24 scrive Nuto Revelli dei suoi partigiani: giovinezza significa ardore, slancio, spirito di iniziativa, ma anche freschezza di energie morali, impegno per la


rigenerazione del Paese, disponibilità al sacrificio per la “giusta causa”. La gioventù irreggimentata e standardizzata del regime per celebrare la grandezza imperiale dell’Italia fascista diventa, così, forza di ribellione, che nella guerriglia partigiana trova la dimensione per esprimere la propria esuberanza e la propria sete di giustizia, garanzia di un popolo che uscirà diverso e migliore dalle prove della Resistenza. Più direttamente collegato all’esperienza militare della guerriglia e, insieme, ai retaggi culturali del Ventennio, è, invece, un repertorio simbolico che spazia dalla celebrazione dell’arma automatica, al culto dei motori, della velocità e degli aerei, dove le sedimentazioni della cultura fascista risultano più evidenti. L’arma automatica potente, preda di guerra o regalo dei lanci alleati (Parabellum, Machinenpistol, Thompson) è uno strumento di forza e una garanzia, ma anche uno status symbol all’interno della gerarchia partigiana, ben esemplificato da un brano di Beppe Fenoglio: «Biagino schiaffeggiò la canna del suo moschetto e disse: “Io spero solo che quelli che vengono abbiano addosso un’arma automatica. Io sono stufo di questo moschetto, ne sono vergognoso. Voglio un’arma che faccia le raffiche”».25 Il culto dei morti e della velocità è collegato alla dimensione di dinamismo della guerriglia e recupera il gusto dell’avventura e del nuovo fascismo: ciò che è stato riservato ai figli della borghesia, diventa ora patrimonio del mondo partigiano, che si appropria di mezzi sino ad allora monopolio delle classi privilegiate. «La passione dei giovani partigiani per le automobili e le motociclette (causa, non di rado, di tragiche imprudenze) traspare dai nomi di battaglia (Bolide, Ardea, Aprilia), mentre l’ebbrezza per la velocità si esprime negli pseudonimi “dinamici” e “dinamitizzanti”, Razzo, Saetta, Fulmine, Folgore, Furia, Vento.» Il culto dell’aereo e il mito dell’aviatore provengono, a loro volta, dalla cultura degli anni venti-trenta, «dalle imprese


degli aviatori solitari alla Lindbergh e dalle trasvolate oceaniche di De Pinedo e Balbo»,26 che la propaganda e il cinema fascisti hanno ampiamente alimentato. Nel contesto della guerra, l’aereo richiama l’idea del dominio del cielo, minaccia di bombardamenti nemici che rompono la notte con spezzoni incendiari, ma anche promessa di lanci: nell’immaginario collettivo, il mito penetra sino alla personificazione del ricognitore inglese (in realtà più di uno) che sorvola nel buio i centri dell’Italia occupata, designato con il nome di “Pippo” o “Pippetto”. In questa rassegna di miti e di rappresentazioni, il mondo partigiano esprime la sua emotività, la sua cultura, ma anche la sua creatività: guerra “nuova” per modalità e contesto, la lotta di liberazione procede in uno sforzo di rielaborazione tanto ingenuo quanto sincero, che l’immaginario partigiano registra in un sovrapporsi di attese, di affermazioni e di recuperi. È la forza della cultura popolare, che nella sfida dell’emergenza cerca i percorsi del proprio rinnovamento.


1

Carlo Chevallard, Torino in guerra. 1942-1945, Edizioni Bancarella, Torino 1974, pp. 232-33. 2 Testimonianza di Elio Pereno, classe 1926, di Avigliana (TO), partigiano della brigata “Carlo Carli”, in Gianni Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 211. 3 Guido Quazza, Un diario partigiano, cit., p. 174. Guido Quazza, dapprima partigiano nel biellese, giunge in val Sangone a fine inverno 1944 e diventa comandate della brigata “Ruggero Vitrani”. 4 Ibid., p. 178. 5 La lettera della brigata “Carlo Carli”, datata 23 settembre 1944, è riportata in Gianni Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 306. 6 Guido Quazza, Un diario partigiano, cit., p. 193. 7 Marisa Diena, Guerriglia e autogoverno. Le brigate garibaldine nel Piemonte occidentale, Guanda, Parma 1970, p. 50. 8 Testimonianza di Nino Criscuolo, classe 1922, di Modena, comandante della brigata “Ferruccio Gallo”, poi generale degli Alpini, in Gianni Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 176. 9 Testimonianza di Giulio Nicoletta, classe 1921, di Crotone, comandante della Quarantunesima divisione autonoma “Sergio De Vitis”, in ibid., p. 178. 10 Testimonianza di Bartolomeo Romano, classe 1924, di Giaveno (TO), partigiano della Quarantunesima divisione “Sergio De Vitis”, in ibid., p. 188. 11 Testimonianza di Carlo Suriani, classe 1925, di Avigliana (TO), partigiano della brigata “Carlo Carli”, in ibid., p. 185. 12 Testimonianza di Margherita Rege Gianas, classe 1913, di Coazze (TO), albergatrice, in ibid., p. 190. 13 Testimonianza di Albina Lussiana, classe 1927, di Giaveno (TO), impiegata, in ibid., p. 198. 14 George L. Mosse, Uomini e masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Bari 1982, p. 17.


15

Angelo Del Boca, La scelta, Feltrinelli, Milano 1963, p. 182. 16 Franco Castelli, “Miti e simboli dell’immaginario partigiano: nomi di battaglia”, in Aa.Vv., Contadini e partigiani, Edizioni Dell’Orso, Alessandria 1986, p. 291. 17 Ibid., p. 292. 18 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 183. 19 Franco Castelli, “Miti e simboli dell’immaginario partigiano”, cit., p. 290. 20 Italo Calvino, “Prefazione” a Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 8. 21 Giovanni Falaschi, La resistenza armata nella narrativa italiana, Einaudi, Torino 1976, p. 19. 22 Diana Carminati Masera, “Ideologia e rappresentazione dell’antifascismo 1943-945. I linguaggi della propaganda nei giornalini formazione partigiani in Piemonte”, in Aa.Vv., I linguaggi della propaganda, Bruno Mondadori, Milano 1991, p. 184. 23 Giovanni Falaschi, La resistenza armata nella narrativa italiana, cit., p. 21. 24 Nuto Revelli, La guerra dei poveri, cit., p.189. 25 Beppe Fenoglio, “L’andata”, da Racconti della guerra civile, in Opere, Einaudi, Torino 1978, vol. 2, p. 30. 26 Franco Castelli “Miti e simboli dell’immaginario partigiano”, cit., pp. 305-06.


5 La dimensione politica della Resistenza

I CLN e il problema della rappresentatività Se le bande rappresentano lo strumento militare, i CLN sono gli strumenti politici destinati non solo a coordinare e supportare la lotta, ma a preparare l’Italia alla democrazia del dopoguerra. Di fatto, Il CLNAI opera come equivalente del governo nell’Italia occupata, «assume su di sé la responsabilità esclusiva di decidere l’insurrezione, costituisce il comando generale, mantiene l’onere della ricerca e della distribuzione dei finanziamenti, si dedica ai compiti politici».1 Al di là della rappresentanza paritetica dei cinque partiti e del carattere unitario delle decisioni, l’influenza delle forze progressiste è evidente, sostenuta dal ruolo delle formazioni garibaldine e gielliste nella lotta e dalla spinta delle agitazioni di fabbrica. L’attività legislativa del CLNAI durante l’estate, elaborata in un’atmosfera di ottimismo per i risultati dell’avanzata alleata, riflette tale carattere. In questa chiave possono essere interpretate, per esempio, le disposizioni del 16 agosto affinché i CLN provinciali costituiscano «commissioni di giustizia» per avviare un processo di epurazione contro «i fascisti repubblicani e i loro complici», in modo che «al momento della liberazione gli Alleati si trovino in presenza di una giustizia politica già in pieno funzionamento»,2 oppure la proibizione formale di accordi tra singoli rappresentanti di partito e


proprietari di grandi industrie per la difesa degli impianti perché «il Comitato è disposto a trattare con gli industriali solo a condizione che questi riconoscano esplicitamente l’autorità che ad esso compete»;3 oppure ancora l’appello del 21 settembre, quando la conclusione del conflitto pare imminente, in cui con toni ultimativi si invitano gli industriali a «corrispondere il salario alle maestranze anche quando gli stabilimenti chiuderanno per l’emergenza dell’insurrezione» se non vorranno essere chiamati a «rendere conto del loro egoismo».4 Mentre nell’Italia liberata il dibattito tra i partiti e l’intervento degli Alleati preparano il quadro politico del dopoguerra, il sistema dei comitati di liberazione del Nord si pone come “terzo governo indipendente” rivendicando a sé il carattere di «solo rappresentante della volontà popolare».5 Prevalenza delle forze progressiste non significa, tuttavia, unità di azione tra comunisti, azionisti e socialisti. Se a livello di dirigenti la logica della politica di ampia unità nazionale vale a stemperare gli attriti, tra i militanti comunisti di base essa è percepita solo come espediente tattico, «destinata soltanto a preparare il predominio finale del partito assicurato dalla spinta delle masse e dalla forza dell’Urss».6 Per questo gli altri partiti di sinistra diffidano del PCI, sospettandolo di “doppio gioco”, e sia azionisti come Leo Valiani e Ferruccio Parri, sia socialisti come Pietro Nenni e Sandro Pertini richiamano spesso l’esigenza prioritaria di una «pratica leale e conseguente dell’unità di azione».7 Il ruolo dei partiti moderati del CLNAI, almeno sino all’autunno, risulta meno centrale e rivela in alcune sue manifestazioni posizioni diverse rispetto a quelle dei centri direzionali di Roma: mentre De Gasperi prepara la Democrazia cristiana a essere il partito-diga anticomunista, “Il Popolo” clandestino manifesta una precisa volontà di impegno nelle riforme sociali.8 Piuttosto che nelle prese di posizione all’interno degli organismi unitari, il ruolo delle forze moderate va


considerato in rapporto alla rete di contatti stabiliti con i centri del potere economico e con gli angloamericani. Emblematico, a questo proposito, il percorso di Piero Mentasti, legato al binomio lombardo Mattei-Falck e a Giuseppe Volpi. Esperto di problemi contadini, Mentasti si è recato negli Usa nel 1938-39 a studiare le tecniche di ristrutturazione industriale per conto dei gruppi del capitalismo veneto, e lì ha preso contatto con alcuni esponenti dell’antifascismo in esilio. Nella primavera 1944 viene assegnato alla segreteria della DC Alta Italia e stringe rapporti con Giuseppe Volpi, che dal 1925 al 1928 è stato ministro delle Finanze di Mussolini e dal 1934 al 1943 presidente di Confindustria, e che ha interessi nel settore chimico (Porto Marghera), in quello elettrico (Società adriatica di elettricità), nei consorzi agrari veneti: attraverso Mentasti passano i finanziamenti di Volpi al CLNAI e al CLN veneto, benemerenze che permetteranno all’imprenditore e al suo gruppo di uscire indenne dall’ondata antifascista. Arrestato dai tedeschi nell’ottobre 1944 e fuggito poi dall’ospedale di Como, Mentasti ripara in Svizzera, dove allaccia contatti con i servizi segreti alleati e con vari esponenti del capitalismo italiano, tra cui Giancarlo Camerana, vicepresidente Fiat: forte di questa fitta rete di relazioni, nel dopoguerra egli diventerà un uomo di riferimento per De Gasperi, in quanto espressione di un blocco di potere che proprio nei mesi decisivi della lotta di liberazione va organizzandosi attorno ai partiti moderati. L’elemento più rilevante da valutare in rapporto ai partiti dell’Italia occupata è la loro capacità di porsi come riferimenti di massa: in altre parole, si tratta di vedere se il modello di democrazia realizzato all’interno delle bande si ripropone all’esterno e rappresenta un livello adeguato di maturazione politica della popolazione, in grado di guidare il processo di rinnovamento del Paese. Le considerazioni sviluppate da Guido Quazza sono,


a questo proposito, ancor oggi essenziali. Il primo dato è il carattere “giacobino” del CLNAI e dei CLN regionali, nel senso di «potere che scende dall’alto di una minoranza “organizzata”, secondo la più classica tradizione del Novantatré»: questo carattere risponde «alla necessità profonda, ineliminabile, dell’antifascismo dei politici, dell’antifascismo del Ventennio, di afferrare e affermare subito e fortemente la presenza di una volontà, se non di una forza, capace di esprimere la “vera” Italia, l’Italia che Parri chiama subito del “nuovo Risorgimento” e Togliatti chiamerà della “rinascita”». Se per molti mesi le strutture dei vari CLN regionali sono diversificate e i contatti scarsi, «la coscienza del proprio carattere di autorità che scende dall’alto si rivela chiara nella costante ricerca di un accordo interno tra i membri dei vari partiti sulla base dell’unanimità per le decisioni che impegnano tutti i componenti»: l’impossibilità di verificare il grado di consenso di ciascuna forza, con il conseguente principio della pariteticità, e la necessità di conservare il carattere unitario, introduce una dialettica interna fondata sulle ragioni della politica di partito che accentuano il carattere di direzione dall’alto. Questa situazione diventa ancora più netta nella tarda primavera 1944, quando «si impone una sorta di gerarchia tra i CLN regionali attraverso l’assestarsi di una struttura che vede al vertice il comitato lombardo trasformato in CLN dell’Alta Italia», organo di direzione centrale accreditato dal governo di Roma e interlocutore degli Alleati.9 La prospettiva dell’insurrezione sollecita l’allargamento dell’esperienza dei comitati come strumento di democrazia fondata sull’autogoverno e la loro trasformazione da organi di partito in organismi di massa. Per i comunisti, in particolare, si tratta di saldare la lotta di liberazione nazionale alle spinte “dal basso” che si sono espresse nelle manifestazioni operaie. Su questa strada il PCI

ha espresso il suo attivismo sin dall’inverno 1943, sollecitando la


formazione dei comitati di agitazione di fabbrica, a cui sono seguite le forme di organizzazione di base cui si è già fatto cenno (Gruppi difesa della donna, Fronte della gioventù, Comitati di difesa contadina). Anche se questi organismi sono programmaticamente aperti al contributo di tutti, «i liberali e i democristiani, ma in non pochi casi anche i socialisti, manifestano molte perplessità ad aderirvi».10 All’origine delle resistenze delle forze moderate non c’è soltanto la diffidenza per l’attivismo comunista, ma anche la preoccupazione di non accentuare il carattere politico della lotta contro il nazifascismo. Il risultato comunque è la caratterizzazione comunista di questi organismi, che si presentano assai più come strumenti di partito che di massa. Sul ruolo di questi organismi nel quadro della democrazia resistenziale si sviluppa il confronto all’interno del CLNAI nell’estate 1944. L’esigenza di raccogliere attorno al movimento di liberazione il massimo delle forze possibili nel momento in cui sembra imminente l’insurrezione e, contemporaneamente, il timore di lasciare troppo spazio all’intraprendenza comunista, inducono il CLNAI a fare appello a una diffusione capillare dei comitati di liberazione quali «centri di impulso e di iniziativa indipendente». Nell’appello agli italiani delle terre occupate del 30 agosto si invitano tutti i cittadini a «aderire alle organizzazioni di massa che fanno parte del movimento di liberazione, a crearne eventualmente altre, a costituire ovunque dei comitati di liberazione di località e dei comitati di liberazione di categoria, di amministrazione, di fabbrica».11 Il 7 ottobre il CLNAI ammette ai comitati provinciali un rappresentante del Fronte della gioventù e il 16 dello stesso mese allarga la rappresentanza ai Gruppi difesa della donna. La proliferazione dei comitati risulta più apparente che reale e la loro formazione riproduce spesso a livello periferico il carattere “giacobino” degli organismi centrali: «Le istruzioni dal centro non possono sostituire la spinta delle


masse, la quale, anche là dove la lotta di classe è più dura e diretta, è viva, spesso vivacissima, ma non riesce a diventare da se stessa compatta e coerente in una direzione politica sorretta da suoi organici ed efficienti strumenti istituzionali. La spontaneità non arriva, sul piano generale, a tradursi in vera “autonomia”, sebbene dia luogo a vasti e persistenti fenomeni di ribellione».12 La capacità di mobilitazione e di resistenza civile rimane allo stadio di spontaneità disorganizzata, senza tradursi in rappresentanza effettiva degli organismi di massa: il dato più evidente rimane la sfasatura, quando non il contrasto, tra la natura di “partito” degli organismi di massa e la natura di “movimento” che la spinta dal basso porta fortemente con sé. La carenza della base apre, così, la strada a una preponderanza pressoché esclusiva del vertice anche all’interno della Resistenza, da cui deriveranno conseguenze decisive per l’esito del processo storico iniziato con l’8 settembre.

L’esperienza delle zone libere Le “zone libere” o “repubbliche partigiane” rappresentano un osservatorio privilegiato per esaminare il movimento resistenziale nel suo sforzo di creare un’organizzazione politica e amministrativa e, nel contempo, per verificare i limiti dei risultati raggiunti. È già stato osservato nei capitoli precedenti che a partire dalla tarda primavera 1944, la crescita sempre più articolata dell’attività partigiana, il moltiplicarsi dei colpi di mano, l’affacciarsi delle bande ai fondovalle e il contemporaneo trasferimento delle unità tedesche verso la linea Gotica, creano una situazione di sempre più evidente delegittimazione della Repubblica sociale. I presidi della GNR dislocati nelle zone periferiche vivono in stato di permanente insicurezza, spesso costretti a ripiegare verso località meglio protette, e le autorità amministrative (podestà,


commissari prefettizi, segretari comunali) ne seguono in molti casi le sorti, assentandosi dalle proprie sedi. Di fatto, il governo di Salò conserva l’esercizio formale delle proprie funzioni solo là dove la presenza militare tedesca ne garantisce l’autorità, o nel momento in cui vengono concentrate le forze militari in vista dei rastrellamenti. In questo modo, senza seguire un disegno preordinato ma per effetto naturale delle trasformazioni nei rapporti di forza, porzioni più o meno estese di territorio passano sotto il controllo partigiano, trasformandosi in “zone libere” (alcune ufficialmente dichiarate, altre tali di fatto), dove l’autorità della RSI è esautorata e dove si realizzano forme originali di autogoverno. L’estensione delle zone libere rappresenta una sfida per il movimento resistenziale, che deve dimostrare la capacità di creare un’amministrazione alternativa a quella fascista e di trasformare il semplice controllo militare partigiano in una forma reale di autogoverno, creando organismi politici democratici. «Le zone libere», ha scritto Roberto Battaglia, «vanno valutate sotto questo più preciso angolo visuale: non soltanto come una serie di astratti temi tattici più o meno felicemente risolti, ma come il maggior contributo fatto all’allargamento della lotta, come una prima effettiva conquista e attuazione della democrazia nei tempi più difficili»:13 in questa prospettiva,

la

sovrapposizione

dell’organizzazione

politico-militare

antifascista alle strutture ormai in crisi del governo di Salò deve costituire l’esito ultimo della lotta armata e, insieme, il primo banco di prova della nuova classe dirigente. Questo progetto si scontra, tuttavia, con due limiti: il primo è rappresentato dall’esaurirsi dell’offensiva alleata sulla linea Gotica e dalla conseguente esposizione delle zone libere alla controffensiva nazifascista, che in autunno ne soffocherà le esperienze; il secondo, interno al movimento resistenziale, è la debolezza degli organismi antifascisti in


periferia e la fragilità della struttura ciellenistica nelle aree lontane dai grandi centri. Di fatto, la responsabilità dell’instaurazione dei nuovi poteri nei territori liberati e della riorganizzazione delle attività civili ricade sui comandi partigiani, per i quali le direttive centrali possono solo avere carattere orientativo. Dalle diverse risposte date al problema di conciliare le esigenze della guerriglia con il proposito di restituire alla vita locale un assetto democratico derivano le esperienze delle repubbliche partigiane, non riconducibili ad un unico modello, ma classificabili secondo tre diverse linee di tendenza, perseguite a seconda «delle caratteristiche particolari delle singole zone, dell’orientamento politico delle formazioni e delle componenti sociali della vita locale: la diretta assunzione dei compiti politici e amministrativi da parte dei comandi partigiani; la scelta dei membri del CLN e delle giunte ad opera dei commissari; la preparazione e la convocazione di assemblee elettorali come uniche sedi idonee alla legittimazione dei nuovi poteri».14 Un esempio del primo tipo di soluzione è offerto dall’Appennino parmense, dove in val di Taro, val Parma e val d’Enza la liberazione ha carattere strettamente militare ed è accompagnata da disposizioni annonarie emanate

dal

comando

partigiano

soprattutto

per

provvedere

all’approvvigionamento delle formazioni: la breve autonomia di queste prime zone libere, costituite verso la metà di giugno e cadute un mese più tardi, unita all’assenza di forze politiche organizzate tra la popolazione locale, non permette di andare oltre il presidio del territorio. Analoga l’esperienza dell’entroterra imperiese (una lunga striscia compresa tra Imperia e Ventimiglia), dove la popolazione contadina, impaurita dalla prospettiva dei rastrellamenti e di un ritorno in forze dei nazifascisti, mantiene un atteggiamento di neutralità e non collabora allo sforzo di autogoverno. Al


secondo modello è invece riconducibile l’esperienza della Repubblica di Montefiorino, nell’Appennino modenese, dove all’inizio dell’estate i comandi partigiani promuovono la costituzione di giunte popolari attraverso la designazione di membri effettivi sui quali la popolazione è chiamata a pronunciarsi nelle assemblee dei capifamiglia. Anche se la consultazione procede in modo empirico e fortunoso, i nuovi organismi nascono «col riconoscimento esplicito della loro autonoma sfera d’azione, creando i presupposti per un maggior equilibrio tra poteri militari e autorità amministrative»: nel verbale della prima riunione di giunta di Montefiorino c’è, infatti, un esplicito riferimento alle autonomie locali cancellate dal fascismo («l’amministrazione comunale rappresenta l’espressione e la volontà del popolo»), che non sottintende solo il rifiuto teorico dello statalismo, ma anche una «precisa rivendicazione di indipendenza dai comandi partigiani».15 Lineare in questo primo passaggio, l’esperienza di Montefiorino si rivela più sofferta nel successivo sforzo di creare organismi di direzione politica e di costituire il CLN: la contraddizione, comune all’attività di governo di tutte le zone libere, «fra la politica di unità nazionale e le esigenze di lotta di classe insite in qualsiasi proposta realmente innovatrice»16 si esprime qui nella contrapposizione tra l’orientamento comunista della maggior parte delle formazioni e un ambiente largamente conservatore e legato alla chiesa. «Se da un lato, per i comunisti, la nascita dell’organismo unitario e la libera attività dei partiti nella zona rappresenta un passaggio obbligato verso una maggiore influenza politica sulla popolazione, dall’altro i cattolici temono di perdere una parte dei sostegni che tradizionalmente vengono loro dai ceti agricoli»: questa ragione di fondo, unita alla breve sopravvivenza dei nuovi organismi, impedisce di fatto al territorio di Montefiorino di darsi un assetto definito, circoscrivendone


l’esperienza in un ambito essenzialmente amministrativo. I modelli più interessanti di “repubbliche partigiane” sono costituiti dalle Langhe, dall’Alto Monferrato, dall’Ossola e dalla Carnia, territori dove il processo di creazione di organismi rappresentativi si sviluppa in profondità: se l’iniziativa parte pur sempre da comandi partigiani, l’intervento delle forze politiche non è marginale e l’esperienza acquista un diverso respiro. Nella zona libera delle Langhe, la cui esperienza si sviluppa in estate e nei primi mesi dell’autunno, la compresenza sul territorio di formazioni garibaldine e autonome determina un duplice approccio. I garibaldini procedono alla designazione di una “delegazione civile” che, in posizione autonoma rispetto ai comandi militari e ai commissari politici, prende contatto con le personalità del paese e prepara le consultazioni elettorali, proponendo liste di candidati che rispecchiano la composizione sociale dei borghi; gli appelli ai parroci per la collaborazione, lo sforzo per mobilitare un corpo elettorale numericamente significativo, la stampa di regolari schede per il voto documentano l’impegno per la democratizzazione della vita civile. Gli autonomi privilegiano invece la conservazione della zona libera sotto il profilo militare, come dimostra l’episodio della liberazione di Alba, dove la piena responsabilità della situazione è avocata a sé dall’autorità militare. Una diversa prospettiva si apre in ottobre, quando gli esponenti dei partiti ciellenistici annunciano la costituzione del CLN delle Langhe attribuendogli anche i compiti di giunta di governo, ma la controffensiva di tedeschi e fascisti alla fine dello stesso mese, con la conseguente caduta di Alba e i rastrellamenti nella zona liberata, impediscono all’esperienza delle Langhe di esprimere forme politicamente più mature e articolate di autogoverno.17 Nell’Alto Monferrato, dove è prevalente la presenza di formazioni garibaldine e i CLN comunali sono sorti parallelamente all’estendersi della


guerriglia, la liberazione del territorio porta immediatamente alla creazione di organismi amministrativi locali, che in ottobre costituiscono un organo centrale, la giunta popolare amministrativa. Riflettendo le difficoltà nel conciliare le esigenze della politica unitaria con i reali rapporti di forza, la giunta si forma solo inseguito a un lungo confronto, in cui il tentativo comunista di ottenerne il controllo viene contrastato dagli altri partiti. L’intesa viene infine raggiunta secondo la formula della rappresentanza paritaria: la presidenza e l’Economia spettano ai socialisti, gli Interni ai comunisti, la Difesa ai democristiani e ai liberali, le Finanze agli azionisti e l’Agricoltura a un comunista, un democristiano e un liberale.18 Nell’Ossolano l’esperienza procede in modo diverso: il giorno stesso della liberazione di Domodossola, il comandante della divisione “val d’Ossola”, Dionigi Superti, insedia la giunta di governo, con una procedura dall’alto che viene sconfessata dallo stesso CLNAI, ma che non impedisce alla giunta stessa di essere

successivamente

integrata

sino

a

diventare

un

organismo

rappresentativo. La presenza di un gruppo di autorevoli personalità dell’antifascismo permette alla giunta dell’Ossola di allargare i propri settori di intervento, riflettendo «una visuale non municipale dei problemi» e la tendenza «ad inserire ogni provvedimento in un più generale disegno di governo che, mentre nega e soppianta la legislazione fascista, vuol dar ragione dei principi democratici ai quali si ispira».19 L’esempio più significativo è rappresentato dalla Carnia, una repubblica che comprende tutta la regione carnica e l’alto bacino del Tagliamento, a esclusione di Tolmezzo. La liberazione avviene progressivamente dall’inizio dell’estate e la riorganizzazione della vita politica e amministrativa avviene dapprima con la creazione di CLN comunali, quindi con la creazione di CLN di vallata, ciascuno dei quali, a loro volta, nomina il proprio rappresentante in


seno al comitato carnico: l’elezione dei nuovi organismi amministrativi è affidata ad assemblee di capifamiglia. La spinta verso un’ulteriore democratizzazione viene a metà settembre dai rappresentanti comunisti del CLN di zona, che chiedono la creazione di una giunta centrale dotata di poteri

di governo sull’intero territorio e l’inclusione dei rappresentanti degli organismi di massa nei CLN e criticano come «sistema patriarcale in decadenza» le assemblee di capifamiglia. Con le posizioni comuniste concordano gli azionisti, mentre da parte cattolica «vennero sollevate le più forti obiezioni ed era palese che in esse confluivano sia i legami della chiesa con le strutture patriarcali della società carnica, sia i timori per un’egemonia comunista». I termini del dibattito sviluppato nella Repubblica di Montefiorino si ripropongono così in Carnia, ma con esito differente: il confronto «sfociò in un compromesso che sanciva la presenza degli organismi di massa nei CLN ma conferiva ad essi solo il voto consultivo, tranne che sui problemi direttamente riguardanti le categorie interessate. Inoltre, alla direzione di ciascun organismo di massa veniva associato un esponente cattolico».20 Attraverso questo compromesso, la zona libera della Carnia raggiunge un assetto compiuto e definitivo.

I provvedimenti delle “repubbliche partigiane” La varietà delle forme attraverso cui vengono costituiti gli organismi politici amministrativi trova riscontro nella molteplicità di iniziative e di soluzioni avviate dalle giunte. Il primo problema da affrontare è costituito dagli approvvigionamenti, reso più urgente sia dal fatto che spesso la zona liberata si sovraffolla per l’arrivo di civili e partigiani da altre aree, sia perché le autorità fasciste interrompono i rifornimenti. I provvedimenti immediati


presi dai comandi militari prevedono il censimento delle scorte e la riorganizzazione degli ammassi, la razionalizzazione della distribuzione in rapporto alle esigenze delle formazioni e delle famiglie, il blocco delle esportazioni fuori zona. In un secondo tempo, quando interviene l’opera di governo delle giunte e dei CLN, il quadro delle decisioni diventa più complesso. CLN e giunte, se da un lato si configurano come strumenti di mobilitazione popolare a sostegno dell’azione militare, dall’altro si presentano come naturali interlocutori dei comandi partigiani nella definizione dei problemi della vita locale. Sono quindi, almeno potenzialmente, anche dei centri di contestazione delle richieste avanzate dalle formazioni. Il dichiarato proposito di ancorare gli obiettivi militari a quelli politici e di fare delle zone libere le basi operative per azioni più vaste, implica d’altra parte una politica di mediazione tra gli interessi delle formazioni e quelli delle categorie produttrici, essenziale per la stabilità e gli sviluppi delle zone: i contadini, sino ad allora chiamati al sabotaggio economico antitedesco e alla sottrazione di prodotti all’ammasso, devono adesso venire coinvolti in un impegno costruttivo attraverso una soddisfacente politica dei prezzi. Le soluzioni adottate variano da una zona all’altra, ma la tendenza generale è la rivalutazione delle tariffe: il prezzo del grano al quintale, che gli ammassi fascisti hanno fissato a 350 lire, sale a 900 nelle Langhe, 600 a Montefiorino e nella Carnia, mentre nell’Alto Monferrato varia dalle 800 di Rocca d’Arazzo alle 600 di Nizza, per essere poi uniformato alle 900 in novembre. Il timore di fughe di grano verso il mercato nero delle città e il peso dei rappresentanti dei produttori nelle giunte inducono a una politica di tariffe remunerative che penalizza i consumatori e spinge, per compensazione, a sistematiche misure assistenziali per assicurare ai meno abbienti i generi di prima necessità a prezzi differenziati: di fatto, si


innesca un processo di scompenso economico (evidente anche nella politica di distribuzione, con iniziali aumenti delle razioni corretti da successive restrizioni), che si rivela sintomatico sia di inesperienza amministrativa, sia della natura delle alleanze sociali. Analoghe tendenze si manifestano in campo fiscale. Se in alcune esperienze viene demagogicamente stabilita la cessazione di ogni esazione e in altre (come in Carnia) si sopprimono tutte le imposte dirette e indirette per sostituirle con un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, la tendenza più diffusa è il mantenimento del sistema fiscale vigente: «Il carattere “popolare” delle nuove amministrazioni trovava un limite proprio sul terreno fiscale, e se resta valida l’osservazione che il carattere di coalizione della Resistenza inibiva di compiere esperimenti audaci sul piano sociale, la dialettica che si esprime nelle zone libere, dove i partiti in quanto tali sono perlopiù assenti, indica piuttosto nei gruppi economicamente più forti i protagonisti di questo mantenimento dell’assetto tradizionale».21 La priorità dei problemi economici non esclude altri terreni di intervento. La necessità di dotarsi di strumenti per l’esecuzione delle proprie deliberazioni, porta le giunte a istituire appositi corpi di polizia. Nella repubblica di Torriglia (in val Trebbia, nell’entroterra genovese) viene organizzato il “servizio informazioni e polizia”, con appositi uffici aperti nei diversi centri per la raccolta di notizie e il controllo dell’ordine tra i civili; in Carnia si forma la “guardia del popolo” a difesa dei cittadini inermi e della proprietà; nell’Alto Monferrato i nuclei di polizia hanno invece funzioni più politiche e sono impegnati nella «neutralizzazione e repressione dell’attività disgregatrice fomentata da elementi repubblicani, ex fascisti, filotedeschi, filorepubblicani».22 Al problema delle forze di polizia è strettamente collegato quello dell’amministrazione della giustizia. I risultati maggiori sono


conseguiti nell’Ossola, dove l’esigenza di evitare il disordine è più sentita perché la presenza di giornalisti e uomini politici stranieri venuti dalla Svizzera la rende l’osservatorio privilegiato della nuova democrazia. La giunta ossolana affida l’amministrazione della giustizia a un giudice straordinario incaricato delle istruttorie di carattere politico e la designazione cade su un avvocato di formazione socialista, Ezio Vigorelli. Pur nell’eccezionalità del momento, Vigorelli è attento a garantire i diritti degli imputati: anziché procedere all’arresto indistinto di tutti gli aderenti al fascismo repubblicano, come è stato chiesto dalla giunta, egli decide la convocazione di tutti i neofascisti e procede all’arresto solo di coloro per i quali vengono accertati atti di collaborazionismo. I prigionieri, concentrarti nel campo di Druogno in val Vigezzo, vengono trattati senza durezza, come constata polemicamente il commissario garibaldino Cino Moscatelli («a questi, magari veramente carognosi, due coperte; ai miei ragazzi, che stanno a duemila metri, una coperta quando c’è»).23 Dalla repubblica dell’Ossola vengono le proposte più avanzate anche in campo pedagogico: il contributo di intellettuali come Mario Bonfantini, Carlo Calcaterra e Gianfranco Contini porta all’elaborazione di una carta programmatica della scuola presentata alla giunta provvisoria. Fondata su un ciclo iniziale di formazione comune a tutti e sulla successiva distinzione tra studi liceali e studi tecnico-professionali, la Carta prevede un riordino complessivo dell’istruzione: «Si propone di ordinare provvisoriamente la scuola come segue: a) scuola unica di tre anni (detta scuola inferiore), la quale ammetterà a tutte le scuole medie: ginnasio superiore di due anni e liceo di tre, istituto magistrale di quattro anni; b) scuole professionali: corsi biennali di avviamento, scuola di avviamento professionale maschile e femminile triennale, scuola tecnica industriale di due anni». Come


indicazioni programmatiche immediate, si raccomanda di seguire uno spirito umanistico «nel senso di sviluppare armonicamente e per gradi tutte le forze dello spirito che innalzano e temprano l’uomo»; rispetto ai programmi della scuola fascista, si raccomanda l’esaltazione dei valori umani insiti nella cultura classica, il ripristino dello studio delle lingue straniere, l’eliminazione delle forme militaresche della ginnastica; per i libri di testo, si sollecita la correzione di quelli esistenti e, nel frattempo, si chiede l’invio di quelli adottati nelle scuole della Svizzera di lingua italiana.24 Le repubbliche partigiane hanno vita troppo breve per poter misurare appieno l’esito dell’esperienza: in molti casi, l’azione delle giunte resta allo stato di elaborazione teorica perché la controffensiva nazifascista arriva prima che sia possibile metterne in pratica i programmi. Montefiorino, che per la sua posizione a ridosso della linea Gotica viene attaccata per prima, cade già in agosto; la Carnia torna in mano tedesca il 15 ottobre; l’Ossola il 23; Alba e le Langhe all’inizio di novembre; l’Alto Monferrato il 2 dicembre. Le altre zone libere seguono la sorte delle repubbliche maggiori, investite da rastrellamenti che non cancellano la presenza partigiana, ma vanificano l’ambizione di creare organismi di amministrazione autonomi. Alcuni elementi di valutazione emergono tuttavia con evidenza. In primo luogo le difficoltà materiali e l’arretratezza politica, che limitano la partecipazione popolare. I civili restano spesso ai margini delle iniziative, generalmente preoccupati per le conseguenze di probabili rastrellamenti. L’azione di stimolo dei comandi partigiani vale ad avviare sostenere gli esperimenti di autogoverno, ma la maturazione di una coscienza democratica è un processo lento e difficile, come riconosce Luigi Longo in una nota del settembre 1944: «È necessario dare maggior peso al lavoro politico organizzativo tra le popolazioni. L’essenziale è che dove si va e dove si passa resti qualche cosa


di solido. La gente non deve solo acclamare, ma organizzarsi, aiutarci a lottare. Noi non dobbiamo sostituirci agli organismi popolari, ma suscitarli e valercene per condurre la guerra partigiana».25 Un secondo tratto è la contraddizione tra la pressione sociale e le esigenze della politica unitaria, in un quadro complicato dalle difficoltà oggettive che esasperano la situazione alimentare: «Da un lato, il blocco dei rifornimenti impone il censimento delle risorse e la pianificazione dei consumi; dall’altro, l’accrescimento dei prelievi partigiani, il blocco delle esportazioni, la riorganizzazione degli ammassi. Di fronte ai due corni del dilemma, per un verso vi è la naturale spinta degli organi politici a difendere gli interessi dominanti nella zona, per l’altro le speranze e le rivendicazioni degli eterni sfruttati, talora sostenute dai militari. I risultati di queste contraddizioni sono quasi sempre nel senso della prevalenza di chi possiede su chi non ha che il proprio lavoro».26 Un terzo elemento è rappresentato dalla fragilità militare delle zone libere, che non possono essere difese in modo efficace sia per difetto di armamento, sia per le condizioni dell’ambiente geografico. Dubbi sull’opportunità di creare le “repubbliche” sono stati espressi da alcuni comandi partigiani sin dall’inizio, nel timore che l’occupazione rappresenti una deviazione dal naturale terreno di lotta della guerriglia e che non sia possibile organizzare una valida resistenza di fronte alla controffensiva nemica. La battaglia di Montefiorino dell’estate e quelle autunnali delle altre zone libere confermano le preoccupazioni: le forze partigiane sono costrette in pochi giorni a evacuare i territori, lasciando la popolazione civile esposta alle rappresaglie. Le conseguenze immediatamente avvertibili sono un solco di diffidenza che si apre tra i ceti rurali delle zone coinvolte e il movimento resistenziale, come ben coglie il dirigente azionista Giorgio Agosti “Filippo”: «La tattica del “tanto peggio tanto meglio”, che consiste nel compromettere con la causa


partigiana anche i tiepidi e gli indifferenti e nel suscitare nelle zone più addormentate l’atmosfera della guerra civile, è utile nell’imminenza dell’insurrezione, ma diventa pericolosa quando si è costretto alla difensiva. Le campagne oggi sono allarmate, domani potranno diventare decisamente ostili».27 Entro questo quadro generale, il giudizio complessivo sulle zone libere non può che ribadire la distanza tra i propositi di rinnovamento e le realizzazioni: «Procedendo alla creazione di zone franche, la resistenza italiana accentua il proprio distacco dalle forme di lotta e dagli obiettivi perseguiti dalla maggior parte dei movimenti clandestini di altri paese e si avvicina al modello della resistenza jugoslava. Sotto questo profilo l’attività svolta dagli organi di potere operanti nelle “repubbliche” rappresenta la volontà di trasformare la lotta armata in strumento di un più ampio rivolgimento politico, di trasferire anche sul terreno della vita sociale ed economica le parole d’ordine di rinnovamento lanciate dai partiti antifascisti. Ma in quale misura tale rinnovamento è stato concepito e perseguito? Nella maggior parte dei casi ogni volontà di radicali riforme è stata sacrificata alla necessità di restituire alla vita delle zone un aspetto di normalità. Lo imponevano le necessità militari, gli accordi unitari sanciti dal vertice del movimento clandestino, il rigido rispetto della formula ciellenistica che in più di una “repubblica” finiva per assumere carattere di freno nei confronti delle idee più avanzate. Certo non sono mancati gli episodi che testimoniano i tentativi di superare i confini della politica unitaria nella sua accezione più indiscriminata e, per così dire, passiva, ma essi appaiono fragili e disorganici, insufficienti per costituire una reale alternativa alla politica attuata da giunte e comitati. E, sul versante opposto, non sono mancati neppure tentativi di soffocare sul nascere l’organizzazione politica delle zone o, almeno, di


limitare il più possibile la sfera d’azione dei nuovi poteri. Tutti questi fattori emergono limpidamente dalle tormentate vicende delle “repubbliche partigiane” e ripropongono costantemente alla nostra attenzione il sottofondo di arretratezza politica e di difficoltà materiali che finiva per favorire in misura decisiva i gruppi sociali più influenti».28


1

Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 291. 2 La circolare del CLNAI con i criteri direttivi per l’organizzazione della giustizia del 16 agosto 1944 è riportata in Gaetano Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo”. Atti e documenti del CLNAI 1943-1946, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 157-59. 3 I “criteri di massima” per la difesa delle fabbriche, fissati dal CLNAI il 9 agosto 1944, sono riportati in ibid., pp. 155-56. 4 L’appello del CLNAI agli industriali del 21 settembre 1944 è riportato in ibid., pp. 177-78. 5 La citazione è tratta dall’appello agli italiani dell’ottobre 1943, in ibid., p. 106. 6 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 281. 7 Pietro Nenni, Socialisti e comunisti, in “Avanti!”, 19 luglio 1944. 8 Nel numero del 2 agosto 1944 “Il Popolo” scrive che «questa non è l’epoca dei compromessi e dei palliativi, onde tenere a freno le masse lavoratrici, le quali non aspirano solo al proprio miglioramento economico, ma più sostanzialmente alla eliminazione di quelle condizioni per le quali si creano enormi sperequazioni sociali». 9 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., pp. 288-89. 10 Ibid., p. 279. 11 L’appello “Agli Italiani delle terre occupate”, diffuso dal CLNAI il 30 agosto 1944, è riportato in Gaetano Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo”, cit., pp.160-61. 12 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 287. 13 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 377. 14 Massimo Legnani, Politica e amministrazione nelle repubbliche partigiane, in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, n. 88/1978. 15 Ermanno Gorreri, La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, il Mulino, Bologna 1966, p. 98 La Repubblica di


Montefiorino si estende per circa 1200 chilometri, con una popolazione di 50 000 abitanti: oltre al paese che funge da capitale, i centri più importanti sono Carpineti, Ligonchio, Toano, Villaminozzo. Dichiarata il 17 giugno 1944, la zona libera cade il 1° agosto successivo. 16 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 256. 17 Diana Carminati Masera, Gli esperimenti politico-amministrativi dell’estate 1944 nella zona libera delle Langhe, in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, n. 1/1967. La zona liberata, con un perimetro di circa duecento chilometri, segue il corso del Tanaro da Ceva ad Alba e oltre, comprendendo i comuni di La Morra, Serralunga, Castiglione Falletto, Barolo, Monforte, Dogliani, Bossolasco, San Benedetto, Cravanzana, Niella Belbo, Mombarcaro, Carrù, Farigliano, Marsaglia, Cigliè, Castino, Neive, Neviglie, Vesime, Mango, Barbaresco. L’esperimento più alto di consultazione elettorale si ha nella zona controllata dalla Sesta divisione garibaldina comandata da Giovanni Latilla “Nanni”, che riordina le liste elettorali dei comuni di competenza e fa stampare in una tipografia di Dogliani schede pieghevoli, con le istruzioni sommarie per il voto sulla facciata esterna e, su quella interna, l’elenco dei candidati proposti, più lo spazio per l’indicazione di eventuali nomi non compresi nella lista. 18 Anna Bravo, La Repubblica partigiana dell’Alto Monferrato, Giappichelli, Torino 1964, p. 45. Costituita a sud del Tanaro nel mese di settembre, la Repubblica dell’Alto Monferrato ha i centri principali in Nizza Monferrato e Costigliole d’Asti: l’esperienza cessa il 2 dicembre 1944. 19 Massimo Legnani, Politica e amministrazione nelle repubbliche partigiane, cit., p. 32. La Repubblica dell’Ossola nasce il 10 settembre 1944 e cade il 23 ottobre successivo. 20 Ibid., p. 26. L’esperienza della Repubblica della Carnia dura dal 26 settembre al 10 ottobre 1944. 21 Ibid., p. 43.


22

Anna Bravo, La Repubblica partigiana dell’Alto Monferrato, cit., p. 56. 23 Cfr. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., p. 497. 24 Quinto Casadio, Gli ideali pedagogici della Resistenza, Edizioni Alfa, Bologna 1967, pp. 155 e sgg. 25 La lettera di Luigi Longo, indirizzata al comandante garibaldino della Valsesia Eraldo Gastone “Ciro”, è riportata in Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 356. 26 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 264. 27 La relazione di “Filippo” (Giorgio Agosti) è riportata in appendice a Raffaele Cadorna, La riscossa. Dal 25 luglio alla liberazione, Rizzoli, Milano 1948, p. 321. 28 Massimo Legnani, Politica e amministrazione nelle repubbliche partigiane, cit., p. 57.


PARTE QUARTA La liberazione


1 Il dibattito politico

Il ruolo degli Alleati nell’Italia liberata Il dato essenziale della situazione dell’Italia dopo la liberazione di Roma è l’egemonia degli angloamericani nei confronti della vita pubblica: l’azione del governo Bonomi e il dibattito politico tra i partiti si sviluppano, infatti, entro i condizionamenti dettati da questa egemonia. Si è già parlato dei diversi atteggiamenti con cui inglesi e americani guardano alla situazione della Penisola: dall’estate 1944 alla liberazione, le differenze di impostazioni delle «nazioni disunite»1 trovano ulteriori occasioni di manifestarsi. Gli inglesi, che occupano una posizione di primo piano all’interno della Commissione di controllo, continuano considerare l’Italia senza indulgenza, come un paese sconfitto che «si guadagna il biglietto di ritorno a casa»: l’ostilità dell’opinione pubblica britannica per chi ha scatenato la guerra accanto alle armate di Hitler, rafforza in Churchill un atteggiamento di chiusura, che lo porta a guardare al dopoguerra secondo una vecchia impostazione imperialistica. Il governo di Londra pensa a un controllo esterno per un periodo indefinito, come rivela un documento prodotto nell’agosto 1944 dal Foreign Office: prevedendo, per il dopoguerra una situazione di caotica conflittualità politica, gli esperti di Londra propongono aiuti economici amministrati da esperti britannici e, di fatto, una tutela


politica senza limiti di tempo: «Quando il popolo italiano avesse afferrato i vantaggi di un nuovo governo democratico sotto controllo inglese, proverebbe forse un nuovo e più costruttivo interesse per la politica e i sarebbe qualche possibilità che, in futuro, la democrazia metta radici nel paese».2 Per l’immediato, la politica di Churchill prevede il mantenimento delle condizioni armistiziali e l’esclusione di qualsiasi forma di riabilitazione: «Abbiamo bisogno dell’Italia non più della Spagna», dice lo stesso Churchill alla camera dei comuni nel gennaio 1945, «nel senso che non abbiamo programmi che richiedano l’appoggio di queste potenze».3 Questa rigida posizione di principio si scontra, tuttavia, con le aperture pratiche suggerite dalle esigenze militari, che portano gli inglesi a riconoscere un ruolo al governo dell’Italia liberata e a stabilire un rapporto con la Resistenza al Nord: nello sforzo per sfondare la linea Gotica, l’Italia non può essere considerata soltanto un nemico sconfitto, ma coinvolta e accreditata di funzioni che sgravino i comandi militari dalle incombenze di un controllo capillare del territorio. Da qui ambiguità e contraddizioni, ben rilevate dallo stesso MacMillan: «A volte gli italiani sono nemici, a volte cobelligeranti. Talvolta desideriamo punirli per i loro peccati, talvolta vogliamo apparire come liberatori e angeli custodi. Tutto ciò mi lascia molto perplesso».4 Sulla politica americana influiscono, invece, pressioni di altro genere. Negli Stati Uniti c’è una comunità italo-americana forte numericamente e politicamente, che non nutre diffidenze pregiudiziali verso l’Italia, è favorevole a un programma di aiuti e sostiene la necessità di restaurare nel Paese la democrazia: in vista delle elezioni presidenziali dell’autunno 1944, il peso di questa comunità diventa elemento importante nelle valutazioni di Washington. A queste pressioni interne si associano le prospettive aperte dall’imminente conclusione del conflitto: la difesa della collaborazione


antifascista con l’Unione Sovietica non esclude la consapevolezza della crescente tensione che caratterizza i rapporti con i sovietici e l’esigenza americana di scegliere in politica estera tra le due sole alternative possibili, l’intervento o l’isolamento. Sotto questo profilo, l’Italia costituisce un banco di prova. Il rappresentante di Roosevelt presso il Vaticano, Myron C. Taylor, tramite privilegiato per la definizione della politica americana verso l’Italia, propone un’analisi lucida della situazione: «La preoccupazione principale del Papa è la diffusione del comunismo in Europa e in Italia». Nella Penisola, il rischio è legato alla condizione di estrema povertà e di assoluta paralisi economica in cui vivono le popolazioni “liberate”, disagio che crea una situazione «piena di dinamite» e favorisce i progetti destabilizzanti. Rimediare diventa un’esigenza politica essenziale: «Non ho dubbi che l’incapacità di alleviare la fame e le sofferenze avrà conseguenze politiche che possono rovesciare tutto l’assetto. Essendo stato il primo paese ex nemico a diventare alleato, esso costituisce un eccellente terreno di prova per mostrare la validità di alcune nostre promesse alla famiglia umana mondiale».5 La diagnosi di Taylor non differisce da quella di altri autorevoli rappresentanti americani, come l’alto commissario della Commissione di controllo, Alexander Kirk, che si fa portavoce delle richieste di ambienti finanziari e governativi italiani affinché gli Usa rinuncino a una politica isolazionista e si impegnino in una presenza non solo militare nella Penisola: il sindaco di New York, Fiorello La Guardia, minaccia di interrompere le sue trasmissioni radiofoniche propagandistiche sull’Italia se l’amministrazione Roosevelt non dimostra una maggiore attenzione ai problemi della Penisola. Queste diverse pressioni inducono Roosevelt a ridefinire la politica di Washington verso l’Italia e a sollecitare Churchill perché l’alleanza assuma un atteggiamento meno punitivo verso l’ex nemico. Il risultato è la


dichiarazione congiunta di Hyde Park del 26 settembre 1944, che comprende misure sostanzialmente formali di carattere politico (lo scambio di rappresentanti diplomatici con il governo di Roma, la trasformazione della Commissione alleata di controllo in semplice Commissione alleata) e misure più sostanziali di carattere economico: invio di approvvigionamenti alimentari e sanitari, aiuto nella ricostruzione della rete idroelettrica, stradale e ferroviaria, riapertura dei rapporti commerciali. In ottobre, alla vigilia delle presidenziali, Roosevelt fa seguire alla dichiarazione di Hyde Park alcune iniziative unilaterali degli Stati Uniti: l’aumento della razione del pane a trecento grammi giornalieri a persona in tutte le regioni liberate, la disponibilità di un numero di automezzi sufficiente al trasporto di generi alimentari, l’accreditamento al governo italiano dell’ammontare in dollari delle “AM-lire” emesse per pagare le truppe americane. Anche se l’impegno americano tradisce gli intenti propagandistici della campagna elettorale, con l’autunno le scelte di Washington sono ormai fatte: «La restaurazione delle istituzioni democratiche in Italia cominciava ad essere considerata parte integrante di una politica di aiuti intesa a far sì che la sinistra non traesse vantaggio dalle difficili condizioni materiali».6

Il primo governo Bonomi Se il governo Bonomi costituisce un passaggio determinante sulla strada della democrazia, per gli alleati esso deve soprattutto garantire il rispetto degli accordi istituzionali esistenti e arginare l’avanzata delle sinistre. Anche in questo caso la posizione americana non coincide con quella inglese. Per l’amministrazione di Washington in Europa occorre individuare forze capaci di garantire insieme il rispetto delle libertà civili e la pratica riformista, e


pensare per il dopoguerra a «governi provvisori sufficientemente progressisti da venire incontro alle esigenze di riforme economiche e sociali, e abbastanza di destra da escludere il rischio di una dittatura comunista. In Italia, il Dipartimento di stato ritiene che il CLN possa fornire il richiesto modello di stabilizzazione».7 Churchill, per contro, è preoccupato per la sostituzione del maresciallo Badoglio e ritiene che il governo Bonomi non dia garanzie sufficienti: a suo giudizio, la presidenza dell’esecutivo dovrebbe essere affidata a Vittorio Emanuele Orlando, personalità gradita al re e in grado di raccogliere il consenso della destra conservatrice e filo monarchica, più adatto a costituire un argine solido all’avanzata delle forze di sinistra. Indebolito dalle pressioni inglesi e dalla minaccia di un’alternativa a destra, Bonomi si muove con cautela, orientando la sua politica in senso sempre più moderato e senza tentare di imporre una politica almeno parzialmente autonoma dagli Alleati. Questa impostazione è evidente nella conduzione del processo di epurazione. Il 27 luglio 1944 viene deciso di rivedere l’organismo preposto al processo di defascistizzazione e l’alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, di cui Carlo Sforza conserva la presidenza, viene suddiviso in quattro settori guidati ognuno da un commissario aggiunto: punizione dei delitti fascisti (Mario Berlinguer, PDA), epurazione dell’amministrazione dello stato (Mauro Scoccimarro, PCI), accertamento dei profitti di regime (Mario Cingolani, DC), liquidazione dei beni appartenuti alle organizzazioni fasciste (Pier Felice Stangoni, demolaburista e capogabinetto di Bonomi). Questa riorganizzazione e la definizione di parecchie norme fino a quel momento imprecisate, portano senza dubbio a una maggiore attività degli organi amministrativi e giudiziari preposti all’epurazione, suscitando attorno al problema un vivace interesse dell’opinione pubblica, ma si scontrano con tre ostacoli di fondo: in primo


luogo, l’ingerenza delle autorità alleate, la cui autorizzazione preventiva è indispensabile per sottoporre a procedimenti tecnici ed esperti impiegati dalle forze armate angloamericane; in secondo luogo, la contraddizione tra la volontà di defascistizzare l’amministrazione e l’uso degli organi di uno stato che manifesta una sostanziale continuità con quello fascista proprio nel campo giuridico e amministrativo; in terzo luogo, le divergenze all’interno del governo tra chi preme per un’epurazione radicale e chi vuole limitarsi a qualche provvedimento esemplare. Il risultato è un oggettivo rallentamento dell’azione che, tra interferenze politiche, ostacoli burocratici e laboriosità tecniche, perde presto lo slancio iniziale: a fine dicembre, secondo i dati forniti dal presidente Sforza, si contano 1013 processi avviati per punire i delitti; in quello dell’epurazione, 3210 sentenze emesse di cui 539 di dispensa dal servizio, 1316 sanzioni minori e1355 proscioglimenti; in quello dei profitti di regime, 3006 istruttorie compiute.8 Emblematica, in questo quadro, la vicenda del generale Roatta, che deve rispondere delle attività del SIM, il servizio segreto militare da lui diretto dal 1934 al 1939, ma anche dei suoi trascorsi nella guerra di Spagna e nella repressione antipartigiana in Jugoslavia. Sui particolari della vicenda non è stata fatta chiarezza e non si sa se «sia fondata l’asserzione che Roatta, per ottenere una via di scampo, abbia portato l’inchiesta a toccare anche le responsabilità di personalità più note». Sta di fatti che nel novembre 1944, nelle indagini viene coinvolto il maresciallo Badoglio, il quale sfugge a un mandato di cattura rifugiandosi per due settimane nell’ambasciata britannica: «Sembra accertato che ci fu un intervento di Churchill, finché Bonomi e Sforza diedero le più ampie garanzie sulla sua incolumità».9 Quanto a Roatta, «è probabile che il processo avrebbe rivelato particolari compromettenti per la monarchia e gli organi militari e anche da parte alleata si temeva che


venissero presentati documenti riguardanti i rapporti dei governi inglese e americano». Il problema viene risolto in maniera clamorosa nel marzo 1945: il generale, ricoverato nel liceo Virgilio di Roma (trasformato in ospedale militare) e piantonato dalle forze dell’ordine, riesce a sottrarsi in maniera alquanto sospetta alla vigilanza e inizia una lunga latitanza in attesa di momenti più favorevoli (Bonomi fronteggia l’ondata di indignazione susseguente la fuga di Roatta scaricando la responsabilità sul comandante dei carabinieri Taddeo Orlando, che viene sostituito dal generale Brunetto Brunetti). La volontà politica di non procedere in modo conseguente nell’accertamento delle responsabilità è evidente: «Il rallentamento del processo di epurazione gioca in favore del ristabilimento della continuità dello stato e del ritorno all’ordine e corrisponde agli interessi politici e militari delle forze di occupazione».10 In questo clima si esaurisce un’altra iniziativa governativa, l’inchiesta sulle responsabilità dell’8 settembre. Inizialmente ambiziosa e allargata all’accertamento di tutte le responsabilità militari dell’armistizio, l’inchiesta viene ridimensionata in accertamento sulla mancata difesa di Roma e affidata il 19 ottobre 1944 al sottosegretario comunista alla Guerra, Mario Palermo, e a due generali che nei mesi dell’occupazione tedesca di Roma hanno aderito alla Repubblica di Salò, Ago e Amantea. Le conclusioni giungono il 5 marzo 1945 e ne viene resa nota solo una parte, in cui si scaricano le colpe su Roatta e Carboni: «Ma erano conclusioni così insufficienti che Palermo chiese per iscritto al governo l’apertura di un’inchiesta politica sull’8 settembre, denunciando per suo conto le responsabilità di Badoglio e Ambrosio. Non è sorprendente che anche questa richiesta sia rimasta inevasa. In definitiva, nessuno dei personaggi implicati fu colpito sul piano giudiziario o disciplinare, e ben presto tutti si trovarono d’accordo nell’addossare ogni


colpa al generale Carboni, reo di avere reagito con energia alle accuse anziché fare appello all’omertà di casta».11 Se sul terreno dell’epurazione i limiti imposti dagli angloamericani si incontrano con la prudenza delle forze moderate italiane, su quello della revisione dei termini dell’armistizio il ruolo giocato dal governo è marginale. In dicembre, gli americani sollevano la questione di una pace preliminare con l’Italia, proponendo di abolire il regime armistiziale e di sostituirlo con un accordo consensuale, rimandando le questioni territoriali alla fine della guerra, ma sir Anthony Eden ribadisce l’opposizione del suo governo, contrapponendo un trattato di pace con l’Italia immediatamente dopo la fine del conflitto, in modo da distinguere il problema italiano da quello tedesco. Il problema non viene posto durante la conferenza di Jalta e viene risollevato da Roosevelt a metà febbraio 1945, con una lettera a Churchill in cui si chiede la collaborazione britannica per «superare le obsolete e onerose condizioni armistiziali», ma riceve risposta solo due mesi più tardi (quando Roosevelt è scomparso e al suo posto vi è l’ex vicepresidente Truman): il Foreign Office ribadisce la posizione espressa da Eden. La debolezza del governo Bonomi (che nel rapporto con gli angloamericani si manifesta anche sul terreno della partecipazione italiana alla guerra, con i soli sei gruppi di combattimento impiegati) è ancora più evidente nel settore economico e finanziario. La situazione delle regioni liberate è grave e per certi aspetti peggiore di quella del nord, sia per la debolezza strutturale del sistema produttivo del Mezzogiorno, sia per le contingenze belliche: la paralisi delle attività industriali, la diminuzione della produzione agricola dovuta alla mancanza di concimi e fertilizzanti, la riduzione delle terre coltivate, lo sfacelo pressoché completo dei sistemi amministrativi di controllo sulla produzione, il processo inflattivo, la


disintegrazione del sistema dei prezzi e il dilagare del mercato nero, determinano una situazione al limite dell’emergenza, di cui la penuria alimentare e la disoccupazione costituiscono gli aspetti più evidenti: «I due inverni 1943-44 e 1944-45 furono, per l’Italia liberata, inverni terribili, con la popolazione tenuta ben al di sotto del minimo vitale. Agli stessi funzionari del governo alleato non sfuggiva che le condizioni di vita dell’Italia liberata erano peggiori di quelle esistenti al Nord».12 Nelle città le condizioni di vita sono particolarmente critiche: volendo fornire un dato di confronto, rispetto al 1938, nell’estate 1944 il costo dei generi alimentaria Milano aumenta di 10 volte, a Roma di 29 e, nel febbraio 1945, rispettivamente di 24 e 40 volte.13 Di fronte all’emergenza, «la mancanza di una struttura statale efficiente e la totale dipendenza dalle direttive alleate lasciavano al governo Bonomi ben poca scelta per i “tempi brevi”. Si poteva però tracciare una politica economica per i “tempi lunghi”, che prevedesse maggiori controlli dello stato sull’economia e una programmazione della ricostruzione almeno per settori fondamentali. La via scelta da Bonomi fu invece un ritorno al liberismo, su cui incisero sia la reazione all’interventismo statale del fascismo, sia l’influenza della presenza americana, sia il gruppo riunito attorno a Luigi Einaudi».14 Il carattere conservatore-liberista delle soluzioni adottate è evidente nell’abolizione del prezzo politico del pane, decisa in dicembre dal ministro del Tesoro Marcello Soleri e compensata con un supplemento salariale, il “caropane”: la soluzione viene adottata per fronteggiare il crescente deficit statale e rientra in un programma antinflazionistico concordato con la commissione antinflazione della Commissione alleata, ma non vale a risolvere il problema, mentre inasprisce il nodo fondamentale del rialzo dei prezzi determinato dal ricorso al mercato nero. Gli sforzi fatti dal governo per ottenere aiuti concreti dagli Alleati non ottengono risultati


definitivi: gli interventi disposti dagli americani si delineano come un programma di aiuti immediati per evitare disordini nelle retrovie del fronte, ma lasciano insoluto il problema di fondo del rilancio dell’economia nelle regioni liberate.

Il confronto tra le forze politiche Il 26 novembre Bonomi rassegna le proprie dimissioni, conseguenza di una crisi latente sin dall’estate: l’unità d’azione tra le forze moderate e quelle di sinistra è messa a dura prova dal processo di epurazione, che gli uni vogliono accelerare e gli altri frenare; dalla questione istituzionale, che il noto decreto legge del 25 giugno rinvia all’assemblea costituente, ma che le forze moderate vogliono affidare a un referendum popolare dall’esito più incerto; dal ruolo dei comitati di liberazione nazionale, che le sinistre vogliono valorizzare, attribuendo loro ogni potere, mentre l’esperienza delle regioni liberate evidenzia la tendenza a esautorarli. Su quest’ultimo problema si apre un confronto serrato: le forze moderate hanno ben chiaro che il trapianto dell’istituto del CLN sulle vecchie strutture statali aprirebbe una breccia per far posto a «una nuova legalità rivoluzionaria basata non più sulla continuità costituzionale, ma sui nuovi organismi popolari»:15 Di fronte alle pressioni del PDA e del PSIUP, Bonomi decide di dare una prova di forza rassegnando le dimissioni non nelle mani del CLN centrale, che lo ha espresso come presidente del consiglio, ma in quelle del luogotenente Umberto. Il principe, a sua volta, non esita ad annunciare aperte le consultazioni, ricevendo nei modi tradizionali Orlando e Tomasi della Torretta in qualità di ultimi presidenti della camera dei deputati e del senato.16 La crisi ministeriale che si apre è l’osservatorio per misurare orientamenti e forza di quei partiti che si


preparano al confronto del dopoguerra, esprimendo leader destinati a dominare per decenni la lotta politica nazionale (da De Gasperi a Togliatti, a Nenni, a La Malfa, a Saragat, a Gronchi). Per quanto riguarda il Partito comunista, Togliatti precisa la sua linea politica attorno a due idee centrali: il «partito nuovo» e la «democrazia progressiva». La formulazione più netta del partito nuovo viene fatta a fine settembre, alla conferenza della federazione comunista romana: «La classe operaia intende oggi assumere, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta di liberazione del Paese e per la costruzione di un regime democratico. Partito nuovo è il partito che è capace di tradurre in atto questa posizione attraverso la sua politica e la sua attività e quindi anche trasformando a questo scopo la sua organizzazione. In pari tempo, il partito nuovo deve essere un partito italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema dell’emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione». Il PCI, così ridefinito come partito legale e di governo, deve svolgere il proprio ruolo propulsivo per il raggiungimento della democrazia progressiva, una commistione di democrazia popolare e democrazia rappresentativa, definita come quella che «organizzerà un governo del popolo per il popolo e nella quale tutte le forze del Paese avranno il loro posto. Questo vuol dire che non proporremo un regime il quale si basi sulla esistenza e sul dominio di un solo partito: nell’Italia democratica e progressiva vi saranno diversi partiti corrispondenti alle diverse correnti ideali e di interessi esistenti nella popolazione italiana»17. Dall’idea del partito nuovo e della democrazia progressiva discende una politica di alleanze parzialmente diversa da quella seguita prima della svolta di Salerno: anziché all’unità di azione delle forze di sinistra, Togliatti guarda a quelli che proprio


allora cominciano a essere definiti «partiti di massa», la DC e il PSIUP. «Stretta unità d’azione con socialisti e accordo politico con la Democrazia cristiana diventano i due pilastri della prospettiva togliattiana»,18 nella consapevolezza della larga presenza cattolica tra le masse contadine: la fondamentale tesi di Gramsci sull’alleanza tra masse operaie e masse contadine viene così reinterpretata come alleanza tra partiti di massa, in una prospettiva che privilegia l’accordo politico e le ragioni di partito. Rispetto a questa impostazione, il PSIUP si muove su un piano diverso. Nella elaborazione di Rodolfo Morandi, la prospettiva è una «democrazia di massa» fondata sull’egemonia politica, tecnica e produttiva delle classi lavoratrici all’interno di un quadro istituzionale dello stato imperniato sul sistema ciellenistico. Per affermare tale egemonia, Morandi indica due campi: «Da un lato, la difesa e lo sviluppo a tutti i livelli delle istituzioni democratiche

attraverso

il

rafforzamento

della

soggettività

politica

organizzata delle classi popolari, dall’altro la progressiva affermazione del controllo sociale e collettivo sull’economia attraverso lo sviluppo delle capacità di direzione, razionalizzazione e trasformazione del sistema produttivo da parte delle classi lavoratrici».19 La prospettiva di Morandi si inserisce nel quadro di una rottura della continuità dello stato, sistematicamente ribadita da Nenni nei suoi editoriali sull’“Avanti!”,20 dove si rivendica l’intransigenza sul problema della monarchia, la sovranità del CLN, la ricerca di una nuova legittimità costituzionale: in questo quadro, il

compromesso togliattiano suona ambiguo, perché la DC appare al PSIUP «il partito della continuità dello stato storico che, nonostante la presenza nelle sue fila di masse cospicue di lavoratori, opera perché il rinnovamento si ricomponga in restaurazione».21 La Democrazia cristiana di De Gasperi mantiene a sua volta una


posizione sfuggente, attenta sia a non compromettere la collaborazione, sia a non impegnare il partito. La prudenza degasperiana22 riflette un processo di progressiva definizione del ruolo della DC come guida dello schieramento moderato. Al patito di De Gasperi guarda il Vaticano (anche se manca ancora un mandato fiduciario per i dubbi della chiesa sull’affidamento a un solo partito della rappresentanza dei cattolici), e ancor più guardano gli angloamericani, convinti dell’inadeguatezza della classe dirigente liberale prefascista. Dal suo osservatorio della Santa sede, Myron Taylor prevede il ruolo che i cattolici dovranno esercitare nella futura scena politica italiana e sollecita l’intervento di Washington per appoggiare un’alleanza tra liberalmoderati e democristiani in funzione anticomunista. Da parte sua, De Gasperi in tutte le questioni urgenti della politica governativa si orienta verso soluzioni moderate che confermano la fiducia degli Alleati: nelle sue prese di posizione, emergono i tratti di una marcata autonomia della linea strategica di fronte a quella degli altri partiti popolari e, nel contempo, un marcato accento centrista nei confronti di ogni estremismo di destra o di sinistra. Emblematica la posizione dei democristiani nei confronti dell’unità sindacale, raggiunta con la firma del patto di Roma del giugno 1944. La scelta unitaria nasce da considerazioni strategiche sul rischio di un’esclusione dei cattolici e sul possibile uso del sindacato come strumento di lotta politica al fianco dei partiti di sinistra. La chiesa e la DC guardano tuttavia più avanti e operano in modo da costituire importanti giunture ideali e organizzative con il mondo del lavoro: in questa direzione va la creazione nell’agosto 1944 delle Associazioni

cristiane

dei

lavoratori

italiani

(Acli),

di

cui

sono

significativamente presidente e segretario Achille Grandi e Giulio Pastore, a sottolineare il collateralismo con la corrente sindacale democristiana. Nella stessa direzione va la costituzione dell’Associazione dei coltivatori diretti


promossa da Paolo Bonomi e destinata a diventare un grande serbatoio sociale ed elettorale della DC. Attraverso questi percorsi complessi, la direzione della DC si mostra abile nel ritagliarsi un proprio spazio politico sufficientemente articolato, nel quale trovano rappresentanza sia le masse contadine sia i ceti medi urbani e rurali, raccolti in un progetto interclassista già proiettato verso l’assunzione di future responsabilità di governo. Lo sviluppo dei partiti di massa e la ricerca da parte di Togliatti di un’alleanza con i cattolici riduce il margine di autonomia degli altri partiti, pure pariteticamente rappresentati negli organismi ciellenistici e nel governo. Per i liberali e i demo-laburisti (il cui ruolo è strettamente legato alle personalità politiche che li rappresentano) questo non modifica la situazione precedente, ma per il partito d’azione aggrava una crisi che si è manifestata con la svolta di Salerno. Nel dibattuto ideologico interno le due anime del partito si contrappongono trovando le loro espressioni, da una parte, nell’impostazione liberaldemocratica di Ugo La Malfa, dall’altra in quella di Emilio Lussu favorevole a una definizione socialista: «Alle soglie dell’estate 1944 potevano già dirsi definiti tutti i termini della futura dissoluzione del PDA: riferimenti ideologici opposti (liberalismo e socialismo), progetti politici

alternativi (partito operaio e contadino/partito dei ceti medi), programmi divergenti (transizione al socialismo/modernizzazione)».23 In realtà, è stata la particolare contingenza dell’8 settembre a favorire una sintesi operativa tra le molteplici componenti dell’azionismo, ma, come scrive Nenni già nel gennaio 1944, «un movimento che ha come minimo comune denominatore l’antifascismo non può affrontare compatto i problemi della ricostruzione».24 Di fronte alla crisi ministeriale aperta dalle improvvise dimissioni di Bonomi, i partiti dispiegano le strategie elaborate nei mesi precedenti, misurandosi con le pressioni angloamericane. Quando si profila un esecutivo


guidato da Carlo Sforza, l’intervento inglese è immediato e sir Noel Charles comunica a Bonomi che in nessun caso Sforza deve ottenere un incarico da primo ministro, mentre è auspicabile l’inclusione nel nuovo governo di Orlando: il veto di Londra (peraltro stigmatizzato come ingerenza dal nuovo segretario di Stato americano, Edward R. Stettinius)25 ripropone la candidatura di Bonomi, il quale, escludendo dalle trattative il CLN centrale, si rivolge con una lettera ai tre partiti di massa, tagliando fuori il PDA che si è dimostrato il più intransigente nei suoi confronti. Mentre i socialisti e gli azionisti scelgono di passare all’opposizione e di riservarsi piena libertà di azione di fronte all’offensiva dei moderati, Togliatti accetta invece di entrare nel nuovo esecutivo coerentemente con la linea inaugurata a Salerno. Le ragioni della scelta sono ricondotte alla necessità difensiva di «evitare che, tanto attraverso un prolungamento della crisi, quanto attraverso la formazione di un governo di destra o di un governo di lotta contro il CLN, si venisse ad una acutizzazione della situazione interna italiana»,26 ma più in generale si ricollegano alla strategia togliattiana di inserire stabilmente il PCI nel gioco politico nazionale. Il 12 dicembre si costituisce così il secondo governo Bonomi, con la sola partecipazione di liberali, demolaburisti, democristiani e comunisti. Impostata come prova di forza dei moderati contro le sinistre, la crisi si conclude con un esito i cui significati vanno al di là della soluzione del problema ministeriale. Le sinistre escono sconfitte sul piano politico, né la presenza degli angloamericani consentirebbe uno sbocco diverso: le tesi delle forze moderate sulla continuità dello stato e sulla tregua istituzionale si affermano con l’esautoramento del CLN centrale. Oltreché sconfitte, le sinistre escono anche divise, il che costituisce un elemento di debolezza molto più sostanziale, sia per il presente sia per il futuro. L’adesione di Togliatti al


nuovo governo scaturisce da una linea politica orientata in funzione del partito e sottintende di fatto la rinuncia all’esperienza ci ellenistica e alle sue potenzialità innovative: «Per il PCI la direzione giacobina del CLN non vale più quanto la guida dei partiti di massa, che Togliatti ha decisamente preferito a Roma».27 Nel nuovo governo, comunisti e democristiani ottengono posizioni di preminenza e questo rafforza il processo di legittimazione del PCI, ma il prezzo pagato a sinistra è alto, anche se subito dopo il compromesso Togliatti si affretta a rilanciare l’obiettivo del partito unico della classe operaia e se Nenni non insiste sugli elementi di rottura, parlando di «incrinatura superficiale» del patto di unità d’azione.28 Le forze moderate, d’altro canto, attribuiscono al compromesso il valore strumentale di un accordo inevitabile nella situazione contingente, come scrive con chiarezza De Gasperi in una lettera a don Sturzo, denunciando il duplice rischio di una «dittatura reazionaria» e di una «dittatura socialcomunista»: «I comunisti hanno il mito e la forza della Russia, dispongono di un funzionarismo propagandistico addestrato e ben pagato, di mezzi imponenti, di capi abili: ma, soprattutto, dominano i partigiani del Nord. Gli alleati temono un qualche tentativo di putsch a Milano o Torino. È più probabile che essi si impadroniscano delle cariche più importanti, per poi fare pressione sul governo. Ho l’impressione che sperino di conquistare una dittatura di fatto attraverso le forme democratiche. Gran parte del Paese è anticomunista, ma non è sulla base dell’anticomunismo che noi possiamo radunare le forze, altrimenti correremmo il rischio di confonderci con correnti reazionarie».29 In questo senso, l’esperienza del secondo governo Bonomi favorisce l’affermarsi del ruolo centrista della Democrazia cristiana: «Mentre il rafforzamento del PCI fu più apparente che reale, perché il potere contrattuale acquisito con l’aumento del numero dei ministri fu controbilanciato dal suo isolamento nel


governo stesso e dalla incrinatura del patto d’azione con il PSIUP». La Democrazia cristiana approfitta invece della situazione per «candidarsi come il solido partito di centro che gli Alleati stavano cercando, atto a mantenere l’equilibrio tra tendenze estremiste».30

Il secondo governo Bonomi (12 dicembre 1944-12 giugno 1945) Presidente del consiglio, Interni, Africa italiana: Ivanoe Bonomi (DL). Vicepresidenti del consiglio: Palmiro Togliatti (PCI) Giulio Rodinò (DC). Ministro senza portafoglio: Manlio Brosio (PLI). Affari esteri: Alcide De Gasperi (DC). Grazia e giustizia: Umberto Tupini (DC). Finanze: Antonio Pesenti (PCI). Tesoro: Marcello Soleri (PLI). Guerra: Alessandro Casati (PLI). Marina: amm. Raffaele De Courten. Aeronautica: Carlo Scialoja (PLI) dal gennaio 1944 Luigi Gasparotto (DC). Pubblica Istruzione: Vincenzo Arangio-Ruiz (PLI). Lavori pubblici: Meuccio Ruini (DL). Agricoltura e foreste: Fausto Gullo (PCI). Trasporti: Francesco Cerabona (DL). Poste e telecomunicazioni: Mario Cevelotto (DC). Industria, Commercio e Lavoro: Giovanni Gronchi (DC). Italia occupata: Mauro Scoccimarro (PCI).


1

La significativa definizione è di David W. Ellwood che da il titolo di “1944: nazioni disunite” a un capitolo della citata monografia L’alleato nemico. 2 David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 99. 3 Il discorso di Churchill alla camera dei comuni è ripreso e criticato con fermezza da “Italia libera”, 20 gennaio 1945. 4 David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 101. 5 Cfr. Ennio Di Nolfo, “La svolta di Salerno come problema internazionale”, in Augusto Placanica (a cura di), 1944 Salerno capitale. Istituzioni e società, ESI, Napoli 1986, p. 58. 6

David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 124. 7 Ibid., p. 136. 8 Carlo Sforza, Le sanzioni contro il fascismo, quel che si è fatto e quello che si deve fare. Dichiarazioni e documenti inediti, Casini, Roma 1945, p. 18. 9 Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, cit., p. 854. 10 Elena Aga Rossi Sitzia, “La politica degli Alleati verso l’Italia”, in Renzo De Felice (a cura di), L’Italia tra tedeschi e alleati, il Mulino, Bologna 1973, p. 219. 11 Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, cit., p. 856. 12 Enzo Forcella, “Lo stato nascente e la società esistente”, Introduzione a Nicola Gallerano (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, Angeli, Milano 1985, p. 40. 13 Cfr. Paolo Baffi, “L’evoluzione monetaria in Italia dall’economia di guerra alla convertibilità (1935-1958)”, in Paolo Baffi, Studi sulla moneta, Giuffré, Milano 1965, pp. 225-27. 14 Elena Aga Rossi Sitzia, La politica degli Alleati verso l’Italia, cit., p. 229. 15 Franco Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia (1919-1948), Lerici, Milano 1962, p. 54.


16

Le due Camere non sono state ricostituite dopo la liberazione di Roma, ma per continuità degli organi statali ne sono stati ugualmente nominati i presidenti nelle persone di Vittorio Emanuele Orlando e di Tommaso Tomasi della Torretta. 17 Le citazioni del discorso di Togliatti “Avanti verso la democrazia” pronunciato il 24 settembre 1944 al congresso della federazione comunista di Roma sono riportate in Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, cit., vol. 5, pp. 388-90. 18 Ibid., p. 393. 19 Simone Neri Serneri, Per una storia del PSIUP nella lotta di liberazione, cit., p. 19. 20 Il programma di Nenni viene abbozzato negli editoriali per slogan allusivi: «Si passa e si passerà» (6 giugno 1944), «La battaglia del Nord» (4 luglio), «Gli ossi duri» (19 agosto), «Tutto il potere a Comitati di liberazione nazionale» (14 ottobre), sino al più celebre «Vento del Nord» (7 febbraio 1945) con la variante «Adeguarsi al Nord» (28 marzo). 21 Enzo Santarelli, Nenni, Utet, Torino 1988, p. 261. 22 Con la sua consueta abilità giornalistica, Nenni sintetizza la prudenza di De Gasperi parlando del “ni” della Democrazia cristiana: l’“Avanti!” del 13 luglio 1944 titola appunto l’editoriale Il ni della Democrazia cristiana. 23 Giovanni De Luna, Storia del Partito d’azione, cit., p. 201. 24 L’osservazione di Nenni è riportata in Enzo Santarelli, Nenni, cit., p. 260. 25 Sull’intervento inglese e le reazioni americane, con l’accanito dibattito che si sviluppa sulla stampa internazionale e la quasi unanime condanna della linea Churchill-Eden, cfr. David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 11318. 26 Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, cit., vol. 5, p. 491. 27 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 301.


28

Pietro Nenni, “Una soluzione di compromesso”, in “Avanti!”, 8 dicembre 1944. 29 La lettera di De Gasperi a don Sturzo, datata 12 novembre 1944, è citata in Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, cit., vol. 5, p. 435. 30 Elena Aga Rossi Sitzia, La politica degli Alleati verso l’Italia, cit., p. 242.


2 Il proclama Alexander

I rastrellamenti d’autunno Nei mesi estivi la controguerriglia tedesca si sviluppa senza un piano generale, articolandosi in numerosi episodi locali in cui le ruppe germaniche agiscono da sole o con il concorso (in funzione militarmente subordinata) dei vari gruppi armati della Repubblica sociale. All’inizio di ottobre, quando lo sbarramento della linea Gotica dimostra di riuscire a contenere l’avanzata alleata, Kesselring decide un’offensiva massiccia e coordinata contro le forze partigiane per garantirsi le retrovie, ponendo definitivamente termine al sistema delle zone libere e rioccupando stabilmente i punti chiave. A questo scopo vengono emanate disposizioni perché siano impiegati nelle operazioni non solo gli specifici reparti di lotta antibande, ma anche le riserve tattiche che si trovano nelle rispettive zone: per garantire la sorpresa, Kesselring raccomanda di mascherare «tutti i preparativi come esercizi di allarme o alcunché di simile, mentre le azioni effettive sono da comunicare ai comandanti nei limiti assolutamente necessari. Nessuna comunicazione deve essere trasmessa preventivamente alle truppe. Per quanto riguarda i comandanti di truppe italiane, possono essere messi a conoscenza solo gli elementi considerati di tutta fiducia».1 Obiettivi principali dell’offensiva autunnale sono le “repubbliche partigiane” dell’Ossola, della Carnia,


dell’Alto Monferrato, delle Langhe e in quelle zone si concentra lo sforzo maggiore. Queste operazioni sono completate da azioni in aree importanti dal punto di vista industriale (il biellese, le vallate affacciate sulla pianura torinese) o nevralgiche per il sistema difensivo germanico (le province a ridosso della linea Gotica, da La Spezia a Bologna, l’entroterra di Genova) o, ancora, determinanti per le linee di comunicazione militari (le zone di Bolzano, di Udine, di Alessandria); in dicembre si ultima il ciclo con un’azione combinata in Emilia, che avvolge il piacentino, il parmense, il reggiano e il modenese. Di fatto, da ottobre alla fine dell’anno tutta l’Italia occupata è sottoposta a un ciclo operativo serrato, con una serie di azioni e di reazioni che in Piemonte e ancor più in Veneto assumono carattere di continuità. Alla pressione militare si assomma quella psicologica, con una nuova amnistia concessa da Mussolini ai ribelli il 28 ottobre e con lo sfruttamento prima del proclama Alexander, poi dell’offensiva tedesca nelle Ardenne. La ricostruzione di Giorgio Bocca restituisce l’atmosfera greve del periodo: «Ossola, Grappa, Carnia, Friuli, Langhe, Monferrato, grandi battaglie repressive, decine di migliaia di uomini mandati a scardinare l’esercito partigiano: e poi le azioni di medio impegno e di media forza, ma in ogni valle, per periodi lunghissimi, per non dare tregua a un avversario di cui si immaginano lo scoramento e la paura. Rastrellamenti insistenti accompagnati da una campagna psicologica grossolana ma tambureggiante: gli aerei sorvolano le valli e lasciano cadere una pioggia di manifestini con appelli alla pacificazione, inviti alla resa, al ritorno a casa, illustrati dalle fotografie di una madre in attesa o di una famiglia ricostituita attorno al focolare. L’offensiva psicologica tocca il suo culmine ai primi di dicembre, allorché giunge notizia che le divisioni tedesche hanno iniziato la controffensiva delle


Ardenne, aprendosi la strada al mare attraverso lo schieramento alleato e puntando su Anversa. Ci si mette anche il tempo, un autunno orribile, un principio di inverno durissimo. E molte formazioni vengono colte dalle intemperie sprovviste di abiti invernali».2 Di fronte all’offensiva continua, le formazioni rispondono in modi diversi. Alle due estremità della linea Gotica, i partigiani del lunense e del ravennate cercano di ricongiungersi con gli Alleati; sull’ala sinistra del fronte, verso il Tirreno, il tentativo di stabilire un corridoio di rifornimenti porta alla conquista di alcune posizioni nella valle del Serchio, attaccate di sorpresa, ma poi si frantuma in una serie di scontri parziali inefficaci, e alla fine si esaurisce. All’estremità opposta, sull’Adriatico, le forze garibaldine di Arrigo Boldrini “Bulow” riescono invece a coordinare i propri sforzi con quelli degli Alleati e a combinare la spinta dei reparti dell’Ottava armata con una manovra irradiante alle spalle dei tedeschi (concentrazione a tergo del nemico e attacco su sette direttrici diverse): il risultato è, all’inizio di dicembre, la liberazione di Ravenna. In alcune zone i partigiani tentano, invece, la difesa a oltranza, come nell’Ossola, dove il piano difensivo prevede successive posizioni di arresto tenute da piccoli nuclei armati di mitragliatrici, mentre i reparti mobili dislocati sull’alto e sulle pendici delle montagne dovrebbero contrattaccare sui fianchi le colonne nemiche avanzanti: la sproporzione tra lo schieramento difensivo e l’ampiezza del territorio determina, però, la caduta della Repubblica ossolana dopo due settimane di scontri. Se la pressione nazifascista riesce dovunque a sconfiggere sul campo le resistenze partigiane e a riconquistare il controllo del territorio con la dislocazione di presidi militari nelle valli, non riesce tuttavia a soffocare un movimento ribellistico che supera ormai le 100 000 unità. Battute sulle montagne, le formazioni tendono a sparpagliarsi nelle


pianure, filtrando attraverso lo schieramento avversario e distribuendosi in piccoli distaccamenti, a ridosso dei grandi centri o nelle zone collinari. Il movimento della montagna verso la pianura non è di per sé nuovo: esperienze analoghe si sono verificate già in primavera in Piemonte, con spostamenti di intere formazioni (per esempio, la Quarta brigata Garibaldi del comandante “Barbato” trasferitasi dalla valle del Po al Monferrato) o con la creazione di gruppi mobili che operano nel piano mentre il resto della banda resta nelle vallate; uno stretto contatto logistico tra pianura e montagna è stato realizzato, a sua volta, in gran parte delle province venete. Nella crisi dell’autunno-inverno 1944-45, il fenomeno assume però un carattere generalizzato e attribuisce una nuova collocazione alla resistenza armata. Se la discesa verso il basso nasce come ricerca di una via di scampo di fronte ai rastrellamenti, essa rappresenta nondimeno un’operazione militare di rilievo. Un’indicazione in tal senso è stata fornita dal comando generale del CVL già all’inizio di ottobre, in previsione delle difficoltà invernali: «Col sopraggiungere della cattiva stagione la permanenza delle nostre formazioni partigiane nella zona di montagna incontra particolari difficoltà. Alcune formazioni hanno già provveduto ad avvicinare alcuni loro distaccamenti a zone prealpine e anche della pianura finitima, meno inospitali. Noi consigliamo di prendere in considerazione una simile misura a tutte le formazioni dislocate in zone particolarmente difficili e sovrappopolate di partigiani». A fine mese, una nuova circolare stabilisce criteri per coordinare l’azione dei distaccamenti in pianura con le organizzazioni territoriali SAP e con i nuclei GAP, in una unità di azione concordata con i comandi di piazza (da cui dipendono i gruppi sappisti e gappisti delle città) e i costituendi comandi di zona della pianura.3 La “pianurizzazione”, indicata dai documenti del CVL come possibile percorso, diventa ora realtà e avvicina i poli


dell’esperienza resistenziale, la lotta armata e la lotta sociale dei centri urbani. Un fenomeno iniziato sotto la spinta dell’emergenza militare si carica così di valenza politica, preparando condizioni importanti per la fase insurrezionale della primavera.

Il proclama ai “patrioti italiani” Il 13 novembre 1944 Radio Italia Combattente dirama le «Nuove istruzioni impartite dal generale H.R. Alexander ai patrioti italiani»: un testo carico di implicazioni, destinato ad accendere aspre polemiche. Annunciando la conclusione della campagna estiva e l’inizio di un periodo di sostanziale stasi, in cui l’avanzata sarà condizionata dalle piogge e dal fango, Alexander impartisce ordini ai patrioti in vista di una fase nuova della lotta, nella quale mutano le esigenze operative e gli aiuti saranno limitati dalle difficoltà dei lanci: «1) Cessare le operazioni organizzate su larga scala; 2) conservare le munizioni e i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini; 3) attendere nuove istruzioni che verranno date; 4) approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti; 5) continuare nella raccolta di notizie di carattere militare concernenti il nemico, studiarne le intenzioni, gli spostamenti e comunicare tutto a chi di dovere; 6) le predette disposizioni possono venire annullate da ordini di azioni particolari; 7) poiché nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti), i patrioti siano preparati e pronti per la prossima avanzata». Conclude il proclama un ringraziamento che ha il sapore di un commiato: «Il generale Alexander prega i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l’espressione della sua profonda stima per la collaborazione


offerta alle truppe da lui comandate durante la scorsa campagna estiva».4 Il tenore del testo, ma ancora più i modi e i tempi di diffusione, non possono non avere effetti deprimenti sul movimento resistenziale. In primo luogo, la formulazione ambigua e il generico indirizzo ai “patrioti” anziché al comando generale del CVL, favoriscono l’interpretazione pessimistica delle direttive, intese come un benservito o quantomeno un congedo provvisorio; in secondo luogo, l’invito a rinunciare ad azioni su larga scala e a stare «in guardia e in difesa», nello stesso momento in cui i tedeschi scatenano la controffensiva autunnale contro le formazioni, ha il sapore di una smobilitazione assai più che della predisposizione a una fase diversa della lotta; in terzo luogo, la diffusione del messaggio attraverso la radio, che può esser ascoltata da chiunque, dà la dimensione di un’indifferenza morale nei confronti dei partigiani e favorisce la propaganda nazifascista. Il comando generale del CVL si sforza di proporre un’interpretazione rassicurate del testo e in una circolare del 2 dicembre, interamente scritta da Luigi Longo, distingue tra «campagna invernale» e «stasi invernale»: il generale Alexander non intende smobilitare, ma semplicemente annunciare un rallentamento del ritmo della battaglia, il che per il movimento partigiano significa rinunciare alla prospettiva insurrezionale immediata, ma non alla guerriglia quotidiana. «Non possiamo dire ai patrioti», scrive il comando generale, «che da un anno si battono contro i nazifascisti “adesso vattene a casa, noi ci disinteressiamo di te”. Nessuno dei patrioti può tornare alla sua casa, né al suo lavoro, perché lo ghermirebbe la reazione nazifascista. Una smobilitazione anche solo parziale significherebbe un invito a capitolare».5 Lo sforzo interpretativo del CVL e lo stesso ritardo nella predisposizione del documento (che segue di tre

settimane il proclama) sono la spia evidente di un disagio diffuso tra le formazioni. Per alcuni si tratta della sanzione di una lunga pausa militare,


durante la quale non sarà possibile mantenere in armi un movimento clandestino: di qui l’orientamento a sciogliere le bande. Secondo altri, si tratta invece di una mossa mirata degli angloamericani per liquidare una forza di cui temono l’autonomia e la caratterizzazione politica. La prospettiva in cui si colloca il proclama di Alexander è, in realtà, più complessa e contraddittoria di quanto non venga colto da queste interpretazioni “a caldo”. Innanzitutto va considerato che nella strategia complessiva stabilita dai comandi alleati, il contributo della Resistenza deve considerarsi essenzialmente in azioni di sabotaggio e di controinformazione, come spiegato a Ferruccio Parri in Svizzera già nell’autunno 1943: un fenomeno di diverse proporzioni risulta difficilmente comprensibile, suscita diffidenze per la difficoltà a controllarlo e viene comunque ritenuto marginale ai fini dei risultati pratici della campagna. La genesi del proclama, secondo quanto raccontato dallo stesso Alexander a Parri, nasce da questo atteggiamento di sottovalutazione: il generale, “molto imbarazzato”, nega di essere l’autore del testo e spiega di «aver detto a un tale, un pastore evangelico della Psychological Warfare del suo comando, che era necessario dire qualcosa a partigiani in vista dell’inverno. Di qui il proclama, ma lontana da lui l’idea di offenderci e di mandarci a casa».6 Queste giustificazioni a posteriori di Alexander non escludono, tuttavia, che al movimento di liberazione venga attribuito un peso diverso secondo il periodo e il teatro di guerra, in una prospettiva che privilegia in ogni caso le esigenze di carattere militare. Inglesi e americani hanno inviato in territorio occupato numerose missioni di collegamento con il compito di verificare l’organizzazione delle forze resistenziali e valutarne le esigenze, le potenzialità, gli orientamenti politici in vista del dopoguerra. Questo favorisce l’invio di aiuti, distribuiti tenendo conto in primo luogo delle esigenze militari della campagna, e in via


subordinata di discriminanti di carattere politico. Ne risulta un flusso per molti aspetti irregolare, ma conseguenza di fattori legati all’andamento della guerra. Nel quadro delle operazioni nel Mediterraneo, gli Alleati devono commisurare i mezzi disponibili (soprattutto gli aerei per i lanci) con le esigenze dell’Italia e dei Balcani e in questo ambito gli aiuti al movimento partigiano italiano vengono al terzo posto rispetto a quelli forniti ai movimenti di liberazione della Jugoslavia e della Grecia, dove la pressione contro la Wehrmacht è sostenuta dalle sole forze della guerriglia. Il ruolo subalterno delle formazioni rispetto al teatro del fronte, d’altra parte, determina intensificazioni o rarefazioni dei rifornimenti in rapporto alle scelte strategiche: gli aiuti del luglio-agosto al partigianato ligure-piemontese, per esempio, sono conseguenza della necessità di aumentare la pressione sulle retrovie tedesche per facilitare lo sbarco nella Francia meridionale, mentre i mancati aiuti alla zona libera dell’Ossola nascono da valutazioni sulla marginalità strategica dell’area.7 In questo quadro, anche il proclama di Alexander trova una spiegazione di carattere militare, al di là delle riserve sulle modalità di diffusione: «Nell’ottobre 1944 si verificò una situazione inaspettata nel teatro del Mediterraneo: da una parte, la tenace difesa tedesca sulla linea Gotica fece fallire i piani alleati per arrivare sino al Po; dall’altra, la ritirata dell’esercito tedesco dai Balcani fece intravedere una rapida liberazione della Jugoslavia. Di fronte a questa prospettiva, il comando alleato stabilì di aumentare gli aiuti ai partigiani di Tito e, date le limitate risorse disponibili, questo significava una diminuzione dei rifornimenti per gli italiani. È quindi nella decisione di concentrare ogni sforzo sulla Jugoslavia che devono essere cercate le origini del proclama Alexander e non in motivazioni politiche antipartigiane».8 Nelle valutazioni dei comandi angloamericani, le priorità dei Balcani rendono


inevitabile un ridimensionamento del movimento partigiano in Italia e la rinuncia alle operazioni su larga scala, in particolare le “zone libere” su cui il quartier generale di Caserta è sempre stato scettico. Di qui la diffusione di un testo, certamente infelice nelle forme, ma che evidenzia realisticamente la necessità di ridefinire la strategia ribellistica come conseguenza di una logica militare complessiva.

La missione del CLNAI al sud Il progetto di un incontro diretto di alcuni esponenti della Resistenza con il comandante supremo nel Mediterraneo matura sin dal primo autunno 1944 e viene concordato definitivamente in un incontro che i rappresentanti del CLNAI Alfredo Pizzoni e Leo Valiani hanno a Berna con i responsabili dei

servizi segreti alleati, Allen Dulles e John McCaffery. A metà novembre partono per il sud lo stesso Pizzoni, Ferruccio Parri, Giancarlo Pajetta e Edgardo Sogno, con un viaggio predisposto via Ginevra-Annemasse-Lione e di qui in volo sino a Napoli.9 La composizione della delegazione non corrisponde ai rapporti di forza interni al fronte resistenziale, ma nasce da una mediazione con gli Alleati: se Pizzoni come presidente del CLNAI e Pajetta e Parri come rappresentanti delle formazioni più consistenti (“Garibaldi” e “GL”) hanno una riconosciuta legittimità, il nome di Sogno è imposto dagli angloamericani come uomo di loro fiducia. Gli obiettivi che si propongono i rappresentanti della Resistenza sono essenzialmente due: il riconoscimento ufficiale del CLNAI da parte degli Alleati e del governo Bonomi e il riconoscimento del Corpo volontari della libertà come forza armata regolare da integrarsi nell’esercito italiano. Impegnative sul piano politico, le due questioni vengono poste in un momento particolare, in cui la vicenda legata


al ruolo di Raffaele Cadorna nel CVL è stata spia evidente e il compromesso raggiunto il risultato di «un faticoso tiro alla fune che ha incrinato l’unità antifascista».10 Queste divisioni si intrecciano con altri fattori negativi destinati a condizionare l’esito della missione: la crisi del governo Bonomi, con la conseguente delegittimazione del CLN centrale e la spaccatura del fronte antifascista; la controffensiva tedesca nel nord e le difficoltà delle formazioni, alle prese con la prospettiva di un secondo inverno in montagna; la diffusione del proclama Alexander, con il suo effetto di demoralizzazione e le polemiche che suscita; la crisi in Grecia, con l’intervento delle forze militari britanniche contro i partigiani filocomunisti dell’Elas. Le trattative si protraggono per più settimane (e questo è un primo evidente indizio di difficoltà): giunti a Napoli il 14 novembre, dove vengono accolti con molta sufficienza dal prefetto,11 i delegati si spostano a Roma e si incontrano con Bonomi, che si dimostra evasivo, si trincera dietro la volontà degli Alleati che impediscono un sostegno aperto al movimento resistenziale del nord e indica nell’accordo diretto con i comandi angloamericani la strada per raggiungere risultati positivi. Nei giorni successivi la delegazione ha vari incontri con i responsabili politici e militari angloamericani, in particolare con il generale Maitland Wilson, comandante supremo del teatro operativo del Mediterraneo: anche se i colloqui si svolgono in un clima di apparente disponibilità, le richieste di riconoscimento ufficiale e di finanziamento avanzate da Pizzoni si scontrano con le pregiudiziali relative al controllo del territorio dopo la liberazione e al disarmo dei partigiani. Di fronte alla rigidità degli Alleati, il 25 novembre la delegazione torna a rivolgersi a Bonomi con una nota per impegnare l’esecutivo alla «costituzione immediata di un organo di governo centrale per trattare i problemi relativi all’Italia occupata» e ad accogliere alcuni provvedimenti relativi alle forze partigiane: «L’integrazione


del CVL negli eserciti italiano e alleato, l’assimilazione militare dei gradi acquisiti nella guerra partigiana ai gradi dell’esercito regolare, l’estensione ai patrioti smobilitati delle provvidenze già stabilite per gli ex combattenti»;12 inoltre, la delegazione chiede che il governo si adoperi perché i comandi alleati riconoscano ufficialmente il CLNAI e il CVL. La nota viene però inviata negli stessi giorni in cui Bonomi, rassegnando le dimissioni nelle mani del luogotenente, innesca una crisi che deve costituire il banco di prova di forza tra chi sostiene la continuità dello stato e chi ne vuole la rottura: questo significa che la delegazione del CLNAI si rivolge a Bonomi nel momento in cui il presidente delegittima il CLN centrale. Pizzoni, Parri e Pajetta provano ancora a fare pressioni sulle autorità politiche alleate, coinvolgendo l’ambasciatore americano Alexander Kirk che sembra più disponibile, ma le condizioni della trattativa sono ormai definite: la via della “normalizzazione” dell’Italia settentrionale, con il ridimensionamento politico della Resistenza e dei suoi organismi, è imboccata prima ancora che le armate di Alexander abbiano sfondato la linea Gotica. Il 7 dicembre, dopo ulteriori colloqui a Roma e a Caserta, viene firmato un accordo bipartito in un salone del Grand Hotel della capitale: «Da un canto», scriverà Ferruccio Parri, «imponente, maestoso come un proconsole, sir H. Maitland Wilson, dall’altro noi quattro. Un bicchiere di qualche cosa, qualche parola, una stretta di mano: poi la firma. Mi domando se quando i proconsoli britannici firmano protocolli con qualche sultano del Belucistan o dell’Hadramaut non sia un po’ la stessa cosa».13 Il documento attribuisce al CLNAI un ruolo di coordinamento delle forze in lotta contro il nazifascismo

(assegnandogli un contributo mensile di 160 milioni di lire) e sul piano militare riconosce nel comando generale del

CVL

l’esecutore delle

disposizioni del comandante in capo alleato, ma nella sostanza ripropone la


logica che ha ispirato l’armistizio dell’8 settembre: nel restante periodo di guerra, CLNAI e CVL sono tenuti a eseguire gli ordini emanati dal comandante supremo alleato, a consultare le missioni alleate in tutte le questioni riguardanti la lotta armata; dopo la liberazione, il CLNAI deve riconoscere il governo militare alleato cedendogli tutti i poteri precedentemente assunti, mentre il CVL si impegna a «eseguire qualsiasi ordine, ivi compresi gli ordini di scioglimento e di consegna delle armi».14 Nel dibattito sviluppatosi all’interno del CLNAI dopo il rientro della delegazione non mancano le riserve (gli stessi esponenti mandati nel sud hanno firmato non senza esitazioni e dubbi).15 I socialisti, in particolare, denunciano limiti della missione e Sandro Pertini si dissocia dalla firma apposta al documento del 7 dicembre, perché il testo «è un atto di asservimento del CLNAI alla politica britannica, il cui scopo evidente è quello di legare al proprio carro i movimenti di liberazione europei».16 Le altre forze di sinistra esprimono posizioni più prudenti che non nascondono, tuttavia, i limiti degli accordi: per gli azionisti, rifiutare l’intesa comporta in primo luogo l’isolamento internazionale e in secondo luogo la scissione interna; i comunisti sostengono invece l’esigenza di rafforzare l’unità antifascista e intensificare la lotta, nella prospettiva di ottenere maggiori margini di autonomia e di far valere il ruolo del movimento partigiano al momento della liberazione: «Noi conteremo di fronte agli Alleati per quanto sarà la nostra unione nazionale, davanti a loro dobbiamo avere un atteggiamento unitario non solo a parole ma soprattutto nell’azione».17 Nel momento in cui sottoscrivono i documenti, i delegati del CLNAI perseguono verosimilmente disegni politici paralleli: «Forse Pizzoni e Parri speravano che il riconoscimento alleato sarebbe stato un elemento riequilibratore rispetto alla forza dei comunisti? E, mentre la funzione di


Sogni era chiara (facilitare al massimo l’assoggettamento agli Alleati per dare la massima chance possibile alla destra del CLNAI), la presenza di Pajetta stava forse nel desiderio di coinvolgere il PCI e convalidare con il suo avallo la soluzione moderata, mentre era per il PCI un segno di legalizzazione definitiva del proprio inserimento nel quadro politico normale del Paese? Probabilmente le risposte devono essere positive».18 Al di là dei giudizi formulati con il senno di poi, resta il fatto che l’esito della missione al sud corrisponde agli equilibri che vanno determinandosi nell’Italia liberata: il peso politico della presenza angloamericana, la svolta segnata dalla crisi del primo governo Bonomi, le spaccature all’interno del fronte antifascista, l’aggregazione delle forze moderate attorno a un progetto di continuità dello stato, la consequenzialità di Togliatti nel legittimare e costruire il “partito nuovo”, la debolezza del movimenti partigiano di fronte alla controffensiva tedesca e alle prospettive difficili dell’inverno, creano condizioni generali sfavorevoli alla missione al sud e ne predeterminano l’esito. La lunga vertenza sulla delega dei poteri al CLNAI, iniziata nella primavera, si conclude così con la sconfitta politica della Resistenza: «Una sconfitta, tuttavia, che proprio per la gravità della crisi militare provocata dai rastrellamenti di novembre-dicembre, viene accettata con animo meno turbato da parte dei capi della lotta».

L’unificazione delle formazioni Un ulteriore terreno di confronto tra le diverse forze della Resistenza è rappresentato dal ruolo di Cadorna all’interno del CVL e dal progetto di integrazione delle formazioni in un vero corpo d’esercito. La lunga “querelle” sui poteri del generale si è conclusa in novembre con una soluzione che ha


riconosciuto a Cadorna il ruolo di comandante, affiancato però da Longo e Parri come vicecomandanti. Alfine anno, in un’atmosfera ormai segnata dagli esiti della crisi governativa e dal protocollo del 7 dicembre, i termini del compromesso vengono rimessi in discussione. In una relazione inviata al quartier generale alleato, Cadorna lamenta la fragilità della propria autorità, indebolita dalle missioni militari che «comandano direttamente», ma soprattutto insidiata dall’interno dagli «obiettivi particolari perseguiti dai partiti politici».19 In un promemoria inviato al ministro della Guerra Casati, Cadorna sottolinea «il preponderante elemento politico della guerra partigiana e il ruolo preminente del partito comunista e del partito d’azione»: per affrontare concretamente il problema ed «equilibrare la supremazia dei comunisti e degli azionisti è indispensabile incrementare le formazioni militari dei liberali e dei democristiani», cosa che il generale rivendica di aver fatto «mettendo a disposizione tutti gli ufficiali che ho potuto trovare per incamerare le formazioni autonome nel partito liberale».20 Egli chiede perciò una presenza maggiore del governo nazionale per poter incidere sugli equilibri interni del movimento resistenziale, di cui non si può annullare il carattere politico, ma in cui si può cercare di rafforzare la presenza moderata. Parallelamente alle iniziative di Cadorna, si sviluppa il dibattito sull’unificazione delle formazioni in un vero corpo dell’esercito. La volontà degli Alleati di procedere al disarmo dei partigiani, già attuata nelle regioni liberate, è un punto fermo che non permette opposizione di sorta: il movimento resistenziale deve, però, attrezzarsi per giungere al momento della liberazione in condizioni tali da non vedere esaurita la sua spinta e la sua potenzialità, e in questa prospettiva l’unificazione in un unico e omogeneo Corpo dei Volontari della Libertà costituisce un elemento fondamentale. Partendo da questo presupposto, l’11 gennaio 1945 il PDA


presenta un progetto per «l’unificazione organizzativa di tutte le forze partigiane differenziate in un unico e organico complesso militare, costituente il fronte armato della guerra di liberazione nazionale»: superando le divergenze tra formazioni e irrobustendo gli apparati di collegamento, il movimento partigiano deve prepararsi alla fase finale dell’insurrezione e a quella successiva della ricostruzione «proponendosi come forza che aspira a formare i quadri del nuovo esercito». Efficienza militare e impegno democratico si coniugano nella proposta azionista: «L’iniziativa nasce da un’esigenza morale di ulteriore chiarificazione di una lotta da cui deve scaturire la rinascita del nostro popolo. È l’espressione di una volontà di combattimento implacabile sino al completo annientamento del nemico».21 Contemporaneamente all’iniziativa azionista, il PCI prepara un suo progetto che, evitando ogni valutazione politica, si pone sul piano strettamente tecnico e si articoli in dodici punti. Gli elementi essenziali sono la dipendenza organizzativa disciplinare delle unità partigiane esclusivamente dai comandi unici regolarmente costituiti, il raggruppamento dei vari gruppi in formazioni superiori (in divisioni e queste in zone operative) indipendentemente dal coloro politico originario, il conferimento a tutti i comandanti e i commissari dei gradi militari in uso nell’esercito italiano, la trasformazione del CVL in organizzazione politico-militare senza differenziazioni di partito ma con «il colore politico unitario nazionale patriottico del CLN». Conclude il documento un appello al governo «perché faccia proprie e traduca in legge queste direttive e intervenga presso le autorità alleate perché le formazioni partigiane, così trasformate in unità regolari dell’esercito italiano, siano riconosciute alla stessa stregua di tutte le altre unità dell’esercito».22 Superate le riserve socialiste sull’opportunità di inserire le formazioni partigiane nell’esercito regio, all’inizio di febbraio il CLNAI nomina una


commissione per la stesura del progetto definitivo, nella quale lavorano il generale Cadorna e i rappresentanti azionista e comunista. Il generale nutre dubbi sull’impostazione data dalle sinistre, temendo che l’esito possa essere la politicizzazione delle formazioni autonome: a suo giudizio, l’unificazione deve solo essere strumento per definire i compiti militari dei partigiani, evitando che le formazioni «siano una palestra di campagna preelettorale». Le diverse impostazioni provocano la crisi il 22 febbraio, quando Cadorna prende spunto da un contrasto con l’azionista Soleri (subentrato a fine gennaio a Parri dopo che questi è stato arrestato dai nazifascisti) per rassegnare le proprie dimissioni dalla carica di comandante del CVL: la questione su cui si consuma lo strappo (l’opportunità o meno di creare un corpo di ispettori) è marginale, ma le motivazioni profonde affondano nel clima di ridefinizione degli equilibri generali. Forte dell’appoggio di Roma e di quello alleato, Cadorna ripropone al CLNAI la questione dei suoi poteri, saldandola a quella dell’unificazione: «Mi sembrava doveroso definire con il CLNAI l’ampiezza dei miei poteri», scriverà il generale nelle sue memorie,

«posto che vi era certamente contrasto tra la concezione degli Alleati (potere illimitato) e quella stabilita dal CLNAI, ossia giurisdizione riconosciuta solo nel campo strettamente militare, mentre nel campo politico-militare le decisioni dovevano essere prese collegialmente».23 Come due mesi prima nelle trattative al sud, la pressione degli angloamericani lascia pochi margini alle forze di sinistra. La composizione della crisi avviene sulla base di una proposta formulata dallo stesso Cadorna: al comandante generale è lasciata la piena libertà di decisione nella condotta militare della guerra e la sua autorità è riconosciuta come derivante dal CLNAI, ma con la precisazione che tale rapporto di dipendenza non può prescindere dal fatto che «la sua qualità di generale italiano gli impedirebbe di tenere il posto qualora si manifestasse


discordanza di direttive tra il governo italiano e gli Alleati che ne controllano l’opera da una parte, e il CLNAI delegato dal governo stesso dall’altro».24 Di fatto, questo significa un’ipoteca moderata sulla conduzione degli ultimi, decisivi momenti della lotta di liberazione. Compressa tra polemiche e diffidenze reciproche, l’unificazione delle bande è affidata a un progetto che il CLNAI approva il 29 marzo25 e a un regolamento interno emanato dal comando del CVL il 18 aprile,26 alla vigilia dell’insurrezione. I documenti sanciscono la prevalenza dei tecnici sui politici, ma ormai è troppo tardi per passare dalla guerra per bande all’esercito partigiano e per assicurarsi i risultati politici potenzialmente contenuti nell’unificazione.


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La circolare di Kesselring è riportata in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, n. 20/1952, pp. 44-46. 2 Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., p. 515. 3 Le circolari del comando generale del CVL, rispettivamente dell’8 e del 29 ottobre 1944, sono riportate in Giorgio Rochat (a cura di), Atti del comando generale del Corpo volontari della libertà, cit., pp. 207 e 223. 4 Le “Nuove istruzioni impartite dal generale H.R. Alexander per la campagna invernale” del 13 novembre 1944 sono riportate in Pietro Secchia, Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, cit., pp. 151-52. 5 La circolare del comando generale del CVL del 2 dicembre 1944 è in Giorgio Rochat (a cura di), Atti del comando generale del Comitato di liberazione nazionale, cit., pp. 265-72. 6 Ferruccio Parri, Momenti cruciali della politica della Resistenza nel 1944, in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, nn. 52-53/1958. 7 Ai delegati del CLNAI John McCaffery, direttore della centrale di Berna dello Special Operations Executive spiega i mancati aiuti all’Ossola con le difficoltà dei lanci dovuti alle cattive condizioni atmosferiche, ma soprattutto con la scarsa importanza strategica della zona che fa ritenere intempestiva e di dubbia utilità militare l’azione del partigianato ossolano. 8 David W. Ellwood, L’alleato nemico, cit., p. 254. La decisione di ridurre i rifornimenti ai partigiani italiani è contrastata dai politici americani e inglesi: Allen Dulles, per esempio, teme che se il movimento partigiano dovesse sciogliersi, all’atto della liberazione nell’Italia del nord vi sarebbe una situazione caotica di difficile gestione; Churchill, da parte sua, raccomanda agli stati maggiori di mantenere gli aiuti al partigianato italiano pur senza rinunciare alle ambizioni sui Balcani. Nelle valutazioni prevale tuttavia la posizione dei militari, anche se vi sono oscillazioni nel corso dei mesi: scesi a 149 tonnellate nel novembre, i rifornimenti risalgono a 350 nel dicembre.


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Ferruccio Parri, Il Movimento di Liberazione e gli Alleati, in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, n.1/1949, p. 18. 10 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 294. 11 Secondo la testimonianza di Egardo Sogno, la delegazione viene ricevuta dal prefetto di Napoli dopo una lunga attesa in anticamera: privo di interesse e di sensibilità verso la lotta contro i tedeschi condotta nel nord, il prefetto si dilunga sul problema della ripresa del servizio tramviario, spiegando che «i tram per Napoli sono la vita» (Edgardo Sogno, Guerra senza bandiera, il Mulino, Bologna 1995, p. 284). 12 La “Nota delle Delegazioni del CLNAI e del CVL per il Governo Italiano”, che giunge al presidente del consiglio negli stessi giorni della crisi di governo, è riportata in Pietro Secchia, Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, cit., pp. 179-80. 13 Ferruccio Parri, Il Movimento di Liberazione e gli Alleati, cit., p. 24. 14 Il “Memorandum di accordo tra il Comandante supremo alleato del Teatro di operazioni del Mediterraneo e il Comitato di Liberazione Nazionale per Alta Italia”, sottoscritto il 7 dicembre 1944 dal generale Maitland Wilson, da “Pietro Longhi” (Pizzoni), “Maurizio” (Parri), “Mare” (Pajetta) e Edgardo Sogno, è riportato in Pietro Secchia, Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, cit., pp. 192-94. 15 «Ci domandammo a lungo se convenisse firmare. Ma firmammo» (Ferruccio Parri, Il Movimento di Liberazione e gli Alleati, cit., p. 26). 16 Cfr. verbale della seduta del CLNAI del 12 gennaio 1945, in Gaetano Grassi (a cura di), Verso il governo del popolo, cit., p. 222. 17 Ibid., p. 229. 18 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, cit., p. 296. 19 La relazione, trasmessa attraverso il maggiore O. Churchill, è nota per la testimonianza dello stesso generale (Raffaele Cadorna, La riscossa, cit., pp.179-80).


20

Il promemoria al ministro Casati (senza data ma presumibilmente della seconda metà di dicembre 1944 per l’accenno all’avvenuta nomina del comandante, approvata dal CLNAI il 12 dicembre), è riportata in Pietro Secchia, Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, cit., pp. 278-80. 21 La proposta del PDA è riportata in Giovanni De Luna, Storia del Partito d’azione, cit., p.325. 22 Il documento presentato dal PCI al CLNAI l’8 gennaio 1945 è riportato in Claudio Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, Feltrinelli, Milano 1979, vol. 3, pp. 206-08. 23 Raffaele Cadorna, La Riscossa, cit., p. 212. 24 Il testo della proposta di mediazione è in ibid., pp. 221-22. 25 Il progetto di unificazione delle formazioni approvato dal CLNAI nella seduta del 29 marzo 1945 è riportato in Franco Catalano, Storia del Comitato di liberazione dell’Alta Italia, cit., pp. 356-61. 26 Il regolamento predisposto dal comando del CVL è in Giorgio Rochat (a cura di), Atti del comando generale del Corpo volontari della libertà, cit., pp. 486-94.


3 L’aprile 1945

L’agonia di Salò Nel gennaio 1945 l’Armata rossa, dopo aver attraversato l’Oder, penetra nel territorio della Germania orientale, occupando così la maggior fonte tedesca di carbone dell’Alta Slesia. In occidente, dopo avere arrestato l’offensiva della Wehrmacht nelle Ardenne, le armate di Eisenhower investono la linea Sigfrido, che corre dal Belgio sino al confine svizzero; sul fronte meridionale, gli Alleati si preparano all’offensiva di primavera contro la linea Gotica. Nonostante le estreme allusioni di Hitler all’“arma segreta” in preparazione nei laboratori tedeschi, l’esito della guerra è ormai segnato e i tre “Grandi” possono incontrarsi a Jalta per la spartizione del mondo. La situazione internazionale si riflette con evidenza nell’Italia occupata e contribuisce ad accelerare il processo di decomposizione del fascismo repubblicano di Salò. A metà dicembre, approfittando della momentanea debolezza del movimento partigiano investito dalla controffensiva tedesca, Mussolini tiene il suo ultimo discorso al Teatro Lirico di Milano. Di fronte a un pubblico di fedelissimi (quelli che poche settimane prima il cardinale Schuster ha definito «una dozzina di compagnie e di squadre autonome, ciascuna delle quali agisce di propria iniziativa»,1 Mussolini ha ribadito a tutto campo le accuse di tradimento, coinvolgendo il re, la corte, i circoli


plutocratici delle classi medie, i massoni degli stati maggiori, le forze clericali: venendo incontro alle proposte dei sostenitori del “fascismo sociale” e alle esigenze liberaleggianti espresse da alcuni elementi moderati,2 egli ha promesso l’immediata attuazione della legge sulla socializzazione e la convocazione di un’assemblea costituente a guerra finita, assicurando che nel nuovo sistema repubblicano fascista ci sarà libertà di esprimere opinioni diverse da quelle del partito unico. Non avendo invece nulla da promettere sul piano militare, il Duce ha insistito sulle presunte difficoltà politiche degli Alleati, evidenziate dalla liquidazione del movimento partigiano greco, e ha fatto cenno a sua volta all’“arma segreta”, capace di ristabilire l’equilibrio delle forze. L’ultima adunata del fascismo si conclude con un appello al sacrificio supremo, un artificio retorico che sottintende la coscienza di una sconfitta annunciata: «Noi vogliamo difendere con le unghie e coi denti la Pianura padana; noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l’Italia sia repubblicana. È Milano che deve dare e darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa».3 L’iniezione di fiducia che Mussolini si propone con il discorso al Teatro Lirico è di breve durata. Nell’imminenza della resa dei conti finale, le contraddizioni del regime di Salò emergono ancora più nette, rendendo evidenti le tensioni con i tedeschi ed esasperando l’atmosfera di complotti e di intrighi che ha caratterizzato la RSI sin dalla sua nascita. A metà gennaio, constatando la crisi dell’amministrazione repubblicana, il governo di Salò invia una delegazione all’ambasciatore Rahn per una radicale chiarificazione dei rapporti. Graziani denuncia la mancanza di fiducia degli ambienti militari germanici, che «si ostinano a ritenere gli Italiani incapaci di portare le armi» e accusa gli alleati di Berlino di avere lasciato le sue divisioni senza materiali e senza divise; a sua volta il ministro delle Finanze, Giampietro Pellegrini,


lamenta il peso insostenibile delle contribuzioni di guerra e quello degli Interni, Buffarini Guidi, chiede un chiarimento sui territori delle Prealpi e del Litorale adriatico governati da “gauleiter” tedeschi. La risposta non lascia margini di trattativa e ribadisce la totale sottomissione di Salò al Reich: Rahn replica, infatti, ricordando i 10 000 disertori delle file dell’esercito repubblicano, invita a non sollevare la questione delle due zone di confine e conclude dichiarandosi «personalmente ferito» dalle dichiarazioni.4 I rapporti di forza non lasciano spazio alle ambizioni di autonomia del fascismo repubblicano, e d’altra parte Mussolini non ha carte da giocare per riconquistare una credibilità ormai compromessa. Mentre il tentativo di attuare il decreto sulla socializzazione fallisce per la resistenza della grande maggioranza degli operai, per il sabotaggio delle autorità germaniche e per l’opposizione degli imprenditori, a fine febbraio il Duce cerca di affermare la propria libertà di azione con un ultimo rimpasto governativo che porta alla sostituzione di Buffarini Guidi (giudicato troppo vicino al comandante delle SS Wolff) con Paolo Zerbino. La reazione tedesca per un’iniziativa che viene

presa al di fuori di ogni intesa è irritata, ma non produce interventi tali da costringere Mussolini a recedere: i contrasti interni alla classe dirigente di Salò hanno, ormai, un’importanza marginale in uno scenario bellico che si avvia all’epilogo e nel quale la maggior preoccupazione delle autorità militari e diplomatiche tedesche in Italia è piuttosto di trovare una via per negoziare la resa. Da

parte

sua,

Mussolini

gioca

le

ultime

carte:

consapevole

dell’inevitabilità della sconfitta militare, egli «era preoccupato sino all’ossessione di creare, prima che fosse troppo tardi, l’ultimo mito di un fascismo repubblicano travolto da una cospirazione internazionale delle nazioni plutocratiche e bolsceviche».5 La liquidazione di Buffarini Guidi per


sancire la riacquistata libertà di azione politica rispetto ai tedeschi è una mossa in questa direzione; un’altra è il richiamo di Berlino di Anfuso e la sua nomina a sottosegretario agli Esteri, per avere accanto l’unico diplomatico disponibile dotato di una certa esperienza e abilità. Alla vigilia dell’offensiva finale alleata, il Duce pensa di potere ancora cercare una soluzione politica italiana alla guerra: il suo piano prevede il trasferimento del governo a Milano, da dove è possibile stabilire contatti con emissari alleati, e contemporaneamente la predisposizione di una ridotta in Valtellina, dove, in caso di fallimento degli sforzi diplomatici, il fascismo condurrebbe un’estrema difesa per cadere con le armi in mano e lasciare ai posteri una testimonianza di coerenza morale. Il mese di marzo e la prima metà di aprile scorrono tra questi progetti, in un alternarsi di illusioni, di timori e di sospetti, scontrandosi con le diffidenze delle autorità tedesche e con le difficoltà oggettive (l’organizzazione della difesa in Valtellina rivela, per esempio, la scarsezza di risorse umane cui poter fare appello): è l’agonia di un regime giunto ormai al capolinea della sua esperienza storica.

L’operazione “Sunrise” Nell’autunno 1944 il timore per la possibile distruzione degli impianti da parte

della

Wehrmacht

e

le

preoccupazioni

politiche

per

l’esito

dell’insurrezione inducono alcuni elementi moderati dell’Italia settentrionale a cercare una soluzione negoziabile che garantisca la pacifica ritirata delle truppe germaniche e il passaggio diretto dei poteri agli alleati. Tra gli altri merita di essere ricordato il tentativo fatto dal monsignor Giuseppe Bicchierai, uomo di fiducia del cardinale Schuster, in stretto contatto con il colonnello delle SS Eugen Dollmann: in un colloquio in Svizzera con Allen


Dulles, monsignor Bicchierai propone un piano che prevede l’impegno dei tedeschi a ritirarsi senza distruggere gli impianti industriali e l’impegno dei partigiani a cessare atti di ostilità contro le truppe in ritirata, in modo che l’insediamento delle autorità angloamericane avvenga senza combattimenti. Il tentativo si scontra però con l’opposizione del CLNAI, che nella riunione del 3 novembre stigmatizza la posizione di quanti hanno dato un esplicito assenso alla trattativa.6 Una più consistente iniziativa viene presa, all’inizio del 1945, da un soggetto nemico, Karl Wolff, il comandante delle SS in Italia: da lui partono i negoziati chiamati dagli americani “operazione Sunrise” (Aurora), destinati a concludersi con la capitolazione delle forze germaniche nella penisola. Il tentativo di Wolff non è isolato: negli ultimi mesi delle ostilità vari dirigenti delle SS (da Himmler a Kaltenbrunner) cercano di stabilire contatti con gli angloamericani, nell’illusione di rompere l’alleanza antifascista e mettere le truppe della Germania a disposizione di un’eventuale lotta contro l’Unione Sovietica, ma anche per il timore che le sanzioni nei loro confronti saranno molto più severe che nei riguardi dei capi dell’esercito. Il tentativo di Wolff si basa su un duplice presupposto: il rischio che uno sfondamento alleato in Emilia isoli le truppe che presidiano l’Italia nordoccidentale tagliando loro le vie di ritirata verso l’Austria, potrebbe trovare concorde all’operazione Kesselring; d’altro lato, la presenza al nord di complessi industriali altamente organizzati, la cui conservazione può essere utilizzata come elemento, dovrebbe sollecitare l’interesse angloamericano a un accordo. Attraverso la mediazione del barone Giuseppe Parrilli (che per qualche mese ha viaggiato per affari tra Italia e Svizzera) il colonnello Dollmann incontra il 3 marzo a Lugano l’agente americano Paul Blum, il quale pone alcune condizioni preliminari: contatti solo con i rappresentanti militari, rifiuto di rapporti con


le autorità di Berlino o con esponenti della diplomazia e, come prova di buona fede, il rilascio di Ferruccio Parri e del maggiore Antonio Usmiani (un ufficiale italiano del servizio segreto catturato poco prima dai tedeschi). Dopo consultazioni tra Dollmann, Wolff e l’ambasciatore Rahn, le condizioni preliminari sono accettate: Parri e Usmiani vengono liberati e l’8 marzo Wolff si reca a Zurigo per incontrare Allen Dulles. La disponibilità da parte degli Alleati non manca, ma la struttura gerarchica del comando tedesco in Italia è complessa e non consente iniziative individuali: l’iniziativa delle SS non basta, bisogna persuadere Kesselring, ma anche il comandante dell’aviazione Oswald Pohl (che dipende direttamente da Göring) e bisogna riuscire a operare in segreto, senza che le autorità di Berlino siano informate dato il loro scontato rifiuto alla trattativa. Wolff chiede una settimana di tempo con l’impegno di convincere i vertici militari in Italia ad assumersi la responsabilità di agire per proprio conto, ma rientrando a Milano scopre che Kesselring è stato quello stesso giorno assegnato al comando delle truppe che combattono sul fronte occidentale, mentre per il fronte meridionale è stato designato il generale Heinrich von Vietinghoff, il cui arrivo è previsto per il 19 marzo. A Wolff non resta che attendere, assicurando a Dulles in un nuovo incontro a Locarno le sue buone intenzioni e l’impegno ad agire sul generale von Vietinghoff (il quale, giunto in Italia, si dimostrerà peraltro assai scettico sull’iniziativa). Nel frattempo, l’“operazione Sunrise” provoca un grave motivo di dissenso tra gli angloamericani e l’Unione Sovietica. La sopravvalutazione dei possibili sviluppi dei negoziati induce Churchill ad avvertire Stalin, nel timore che i russi vengano a conoscenza delle trattativa da altre fonti: Mosca chiede allora che due generali russi partecipino agli incontri, ricevendo un netto rifiuto da parte americana. Ne segue un’aspra polemica epistolare, resa


più tesa dalle incertezze determinate nei dirigenti americani dall’aggravarsi della malattia di Roosevelt, e ricomposta solo all’inizio di aprile, pochi giorni prima della morte del presidente. La duplice complicazione in campo tedesco e in campo alleato determinano di fatto la sospensione dei negoziati, anche se Dulles e Wolff continuano a tenere contatti attraverso propri emissari: il 9 aprile l’inizio dell’offensiva finale alleata contro la linea Gotica pone fine a qualsiasi ipotesi di intesa e l’“operazione Sunrise”, intesa come strumento per evitare l’insurrezione nel nord della penisola e un passaggio indolore dei poteri, è archiviata. Da tutti i contatti e i negoziati che si sviluppano nei primi mesi del 1945, Mussolini e il governo di Salò sono esclusi: la preoccupazione di segretezza di Wolff, Dollmann e Rahn e il ruolo marginale del fascismo repubblicano portano all’emarginazione della RSI, considerata una creazione del sistema occupazionale tedesco e come tale priva di autorità per negoziare. La liquidazione politica di Buffarini Guidi, inoltre, priva Mussolini di un collaboratore esperto nel campo dei servizi di polizia e di informazione, l’unico sufficientemente accreditato per poter scoprire le manovre tedesche in Svizzera: le notizie dei contatti giungono così al Duce imprecise e indirette, senza che egli possa immaginare che siano il preludio alla resa totale dei tedeschi e all’abbandono della Repubblica sociale. Da parte sua, il governo di Salò tenta di stabilire un contatto diplomatico autonomo all’inizio di marzo, quando Vittorio Mussolini consegna al cardinale Schuster un promemoria in cui il Duce propone presuntuosamente che le forze armate fasciste mantengano l’ordine sino all’arrivo degli angloamericani. Le offerte del fascismo non suscitano interesse nei comandi alleati, per i quali gli interlocutori sono le autorità militare tedesche: come spiegano i rappresentanti inglesi in un incontro a Lione con Leo Valiani e Raffaele


Cadorna, l’unica prospettiva per le forze armate di Mussolini e di Graziani è la resa senza condizioni.7 Ciò che potrebbe essere messo sul piatto della bilancia per ammorbidire le posizioni (la salvaguardia degli impianti industriali e l’impedimento dell’insurrezione) non dipende dalle truppe disordinate e male armate di Salò: a Mussolini non resta che l’isolamento politico e diplomatico, nell’imminenza di un epilogo scontato.

L’offensiva alleata della primavera Nei primi mesi del 1945, l’offensiva alleata contro la Germania consegue risultati decisivi su tutti i fronti. In febbraio le armate americane, britanniche e canadesi superano la linea Sigfrido a ovest del Reno e in marzo combattono nel cuore industriale del Reich; all’inizio di aprile circondano la Ruhr, intrappolando oltre 300 000 soldati tedeschi; sul fronte orientale, l’Armata rossa è in movimento su tutto il vasto territorio compreso tra Danzica e la frontiera orientale dell’Austria. Il crollo tedesco appare inevitabile, ma l’ipotesi di un’estrema resistenza di Hitler sulle Alpi bavaresi e la determinazione dimostrata dalle armate germaniche su tutti i fronti obbligano gli Alleati a una continua pressione. L’offensiva di primavera sul fronte italiano si inquadra in questa strategia: anche se il settore meridionale è secondario rispetto alla linea di penetrazione dal Reno, l’obiettivo di bloccare in Italia il maggior numero di divisioni nemiche implica uno sforzo offensivo massiccio contro la linea d’arresto che Kesselring ha predisposto dalla costa ligure alle valli di Comacchio. Superiori numericamente, le forze della Wehrmacht lasciate a presidio della Pianura padana sono limitate dall’inferiorità dell’armamento, dalla mancanza di copertura aerea, dall’insidia della guerriglia partigiana, dai danni alle linee di comunicazione


provocati dai bombardamenti. Il nuovo comandante, il generale von Vietinghoff, è consapevole delle difficoltà: con le sue 24 divisioni (tra cui le quattro di Graziani) può combattere sulla linea d’Inverno, naturalmente solida per le catene di montagne che uniscono la Liguria alle alture di Bologna, poi ritirarsi sulla linea del Po, quindi su quella dell’Adige e infine sui passi alpini. L’azione alleata punta sullo sfruttamento della schiacciante superiorità di fuoco: 3000 pezzi di artiglieria contro mille, 3100 carri armati contro 200, 5000 aerei contro 60. L’impiego massiccio di questi mezzi riduce al minimo l’azione manovrata, che prevede lo sfondamento della linea Gotica e un’azione a tenaglia su Bologna, il passaggio del Po in diversi punti tra Piacenza e Ferrara con una profonda penetrazione in Lombardia e in Veneto, infine puntate a ovest su La Spezia e Genova e a est su Venezia e Trieste. Se il successo dell’azione è scontato, non altrettanto si può dire dei tempi: l’ipotesi di un ripiegamento delle divisioni tedesche verso le Alpi orientali è particolarmente temuto dai comandi alleati perché protrarrebbe la guerra per altri mesi su un fronte di combattimento estremamente difficile per gli attaccanti. La crisi della macchina da guerra germanica, tuttavia, è più avanzata di quanto si pensi al quartier generale di Caserta. Privo di riserve strategiche e impossibilitato a spostare con tempestività le sue divisioni, di fronte all’offensiva iniziata il 9 aprile von Vietinghoff chiede a Berlino l’autorizzazione a disimpegnare forze dalla linea difensiva del Po, ma riceve una risposta molto dura in cui lo si accusa di atteggiamento disfattista e si ribadisce l’ordine di mantenere a ogni costo le posizioni. La scelta tedesca di resistere a oltranza favorisce l’offensiva: l’Ottava armata britannica sfonda nel settore adriatico, puntando su Bologna da est, mentre la Quinta armata americana avanza dalla Lunigiana verso il settore ligure e l’Emilia occidentale. Il 21 aprile gli italiani del gruppo di combattimento “Legnano” e


le brigate polacche entrano nel capoluogo emiliano, mentre le città insorgono una dopo l’altra e i tedeschi si ritirano precipitosamente al di là del Po. È l’epilogo di una campagna iniziata con lo sbarco in Sicilia del luglio 1943: «Centinaia di veicoli e armi pesanti giacevano abbandonati nei campi, alcuni in fiamme. Tra i relitti pascolavano centinaia di cavalli messi in libertà. I soldati tedeschi avevano ricevuto l’ordine di raggiungere il Po da soli, ma molti dei ponti e dei traghetti organizzati per loro erano stati distrutti dagli attacchi aerei. Più di 100 000 uomini aspettavano di essere catturati. La confusione nell’area della battaglia dilagava dalle piccole unità sino all’Alto comando. Kesselring, benché realista in privato, si schierò allora con i duri a morire che volevano combattere fino al drammatico finale. Altri che, come von Vietinghoff, non vedevano alternative alla resa, si sentivano ancora legati al giuramento di fedeltà che avevano prestato».8 L’iniziativa risolutiva viene presa da Wolff, che ha un canale aperto di comunicazione con gli angloamericani e che convince von Vietinghoff a delegare un suo rappresentante per le trattative di resa, pur senza autorizzazione da Berlino. Il 29 aprile, quando tutta l’Italia settentrionale è ormai insorta, il colonnello Victor von Schweinitz (Wehrmacht) e il maggiore Eugen Wenner (SS) si recano a Caserta e firmano il documento di resa, valido dalle ore 14 del 2 maggio. Nel frattempo giunge la notizia che Hitler si è suicidato a Berlino e che il Terzo Reich è finito: le armate alleate dilagano in tutta l’Italia settentrionale e il 4 maggio si incontrano sul Brennero con altre forze alleate provenienti dalla Germania.

Le preoccupazioni degli Alleati Nel momento in cui gli Alleati sferrano l’attacco decisivo, il movimento


resistenziale si prepara all’insurrezione secondo i piani elaborati già nell’estate precedente. La prospettiva in cui le forze di sinistra inseriscono l’insurrezione va al di là dell’aspetto militare: «Nell’Italia del Nord non c’era un Palazzo d’Inverno di cui impadronirsi, una Bastiglia da distruggere. C’erano tante fabbriche da difendere dalle distruzioni dei tedeschi, tante caserme da occupare per neutralizzare i fascisti e le Brigate nere, tanti edifici pubblici (dai municipi alle prefetture) da conquistare per insediarvi il nuovo potere della democrazia e della libertà. L’insurrezione, quindi, non è lo scoccare dell’ora “x”, un evento unico e istantaneo, concentrato nel tempo e nello spazio, ma, all’opposto, un momento politico-militare diffuso nello spazio e dilatato nel tempo».9 La “politicizzazione” della lotta armata, l’elemento più originale della Resistenza, caratterizza così l’insurrezione come un duplice processo di liberazione del territorio dalla presenza nemica e di instaurazione degli organi di autogoverno: un fenomeno articolato in momenti successivi, coordinato dall’azione direttiva del CLN, al quale devono concorrere l’iniziativa delle masse lavoratrici con lo sciopero insurrezionale, e quella militare delle squadre cittadine (SAP e GAP) e delle squadre foranee (le formazioni partigiane che devono calare sulle città). L’ipotesi dell’insurrezione preoccupa le autorità militari angloamericane per gli spazi che può aprire a equilibri politici imprevisti: l’esperienza delle regioni centrali già liberate, i colloqui avuti nel dicembre 1944 con la delegazione del CLNAI, i documenti sottoscritti non lasciano dubbi sulla volontà alleata di contenere il fenomeno partigiano e di assumere il controllo del territorio dopo la liberazione. Per ribadire queste posizioni, a fine marzo viene paracadutato nelle Langhe un membro del governo, il sottosegretario per le terre occupate Aldobrando Medici Tornaquinci: in successivi incontri con il CLN piemontese e con il CLNAI, il sottosegretario prospetta i timori per


un ripetersi della situazione greca e ribadisce le misure che gli Alleati intendono prendere per mantenere il controllo della situazione: «Io vengo come inviato del comando supremo alleato e del governo», spiega Tornaquinci, «per dirvi quelle che sono le ultime, definitive intenzioni: il disarmo rapido delle formazioni partigiane e la riduzione dei CLN a organi consultivi. Non credo sia possibile aderire a nessuna richiesta che il CLNAI possa fare, di carattere sostanziale, piccola o grande».10 Ciò che gli Alleati chiedono al movimento partigiano è solo la difesa degli impianti: alla liquidazione delle forze della Wehrmacht e di Salò penseranno loro stessi. Di fronte alla rigidità di questa posizione, il CLNAI cerca di difendere la posizione politica dei comitati di liberazione, rivendicandone il ruolo nella prospettiva della ricostruzione del Paese. Il risultato è una mozione, concordata con il sottosegretario, in cui il movimento resistenziale si impegna a «difendere, con tutti i mezzi e col concentramento delle forze armate necessarie, le strutture industriali», ma nel contempo non rinuncia alla prospettiva di «attaccare i tedeschi e i fascisti, scatenando un’insurrezione antitedesca e antifascista», né a quella di esercitare attraverso i CLN l’autorità politica sino a quando essa non sia avocata a sé dal governo di Roma o dal comando alleato: il movimento, inoltre, si attribuisce il compito di «attuare una epurazione rapida e profonda sia in campo politico che amministrativo, economico e finanziario».11 I margini di autonomia lasciati dai rapporti di forza con gli Alleati sono scarsi, ma la parte più progressista del movimento resistenziale vuole impedire la completa liquidazione politica dell’esperienza. In questo senso, l’insurrezione costituisce un elemento determinante: liberare i grandi centri urbani prima dell’arrivo degli angloamericani non è solo un fatto simbolico, ma un modo per insediare nuove amministrazioni, per dimostrare capacità di


autogoverno, per avviare i processi di epurazione, per creare organi di potere di cui i comandi alleati debbano tenere conto. Nella primavera 1945 sia le prospettive di rivoluzione socialista, sia quelle di rivoluzione democratica sono di fatto escluse dai condizionamenti interni e internazionali: quando il CLNAI, nella seduta del 20 febbraio 1945, ha stabilito la spartizione delle varie

cariche di prefetto, questore e sindaco tra i diversi partiti, ha di fatto rinunciato a un progetto di rinnovamento radicale della struttura statale, accettandone la continuità e limitandosi a una rigenerazione del personale politico.12 Anche se viene annunciata la nomina di un “comitato insurrezionale” composto da tre uomini di sinistra (l’azionista Valiani, il socialista Pertini e il comunista Sereni) e la sostituzione alla presidenza del CLNAI dell’“apolitico” Pizzoni con il socialista Rodolfo Morandi, il quadro è

ormai definito: «La sostanziale opposizione di Cadorna ai progetti di insurrezione, le posizioni alleate riferite dal sottosegretario per le terre occupate sono un eloquente preannuncio degli ostacoli che il “vento del Nord” sta per incontrare al momento dell’insurrezione e dopo».13 Per i comandi alleati pesano, tuttavia, le incognite di una situazione che in parte può sfuggire al loro controllo: le assicurazioni di Cadorna, che garantisce sull’impossibilità che si presenti in Italia una situazione come quella greca, e quelle di Parri che esclude la presenza di un atteggiamento secessionistico del CLNAI nei confronti del governo di Roma,14 persuadono solo in parte. Il 10

aprile il generale Clark, con un radiomessaggio e un successivo dispaccio, annuncia l’inizio della battaglia finale raccomandando ai partigiani di «non agire prematuramente»: «Voi siete preparati a combattere, ma il momento della vostra concreta azione non è ancora giunto. Non fate il gioco del nemico agendo prima del tempo. Non sperperate la vostra forza. Quando verrà il momento, ciascuno di voi e tutti voi sarete chiamati a far la vostra parte nella


liberazione dell’Italia e nella distruzione dell’odiato nemico».15

L’insurrezione Il 10 aprile il Partito comunista dirama la «Direttiva n. 16 del PCI per l’insurrezione»: redatto da Luigi Longo e pubblicato su “La Nostra Lotta”, il documento presenta un carattere conclusivo, esaurendo in poche righe concitate la descrizione della situazione generale («L’ora dell’assalto finale è scoccata. L’esercito tedesco è in rotta disordinata su tutti i fronti. Anche noi dobbiamo scatenare l’assalto definitivo») per passare subito dopo alle indicazioni operative. Nella prima parte, le direttive comuniste invitano a «predisporre vere e proprie azioni insurrezionali», in stretta correlazione tra manifestazioni popolari di massa e interventi delle formazioni armate: per le bande partigiane questo significa «iniziare gli attacchi in forze ai presidi nazifascisti e spingere a fondo la liberazione di paesi, vallate e intere regioni»; per i GAP e le SAP continuare nella neutralizzazione dei gerarchi fascisti e dei loro complici e sviluppare «azioni più ampie nelle città per la liquidazione di posti di blocco, di sedi fasciste e tedesche, di commissariati di polizia»; per le organizzazioni di massa, avviare «lo sciopero generale insurrezionale», concepito «non come uno scoppio improvviso d’ira popolare», ma «come una progressione accelerata di movimenti popolari, di fermate, di manifestazioni e di scioperi». La seconda parte del documento è dedicata alla lotta contro l’attendismo e alla denuncia di qualsiasi tentativo di compromesso. Consapevole degli sforzi fatti da più parti per giungere a una soluzione mediata che eviti la fase insurrezionale, la direzione del PCI chiama alla mobilitazione di tutte le energie e le risorse popolari per lo scontro finale: «Per nessuna ragione vanno accettate proposte, consigli, piani tendenti a


limitare, a evitare, a impedire l’insurrezione nazionale di tutto il popolo. Se non riuscissimo a persuadere i nostri amici ed alleati, noi dobbiamo anche fare da soli, cercando di trascinare al nostro seguito quante più forze possibili, agendo però sempre in nome del CLN».16 L’iniziativa comunista trova riscontro nell’atteggiamento complessivo del CLNAI, dove le riserve della componente moderata verso l’insurrezione non

impediscono di deliberare all’unanimità una serie di provvedimenti determinanti. Il primo atto è la denuncia di Mussolini e dei membri del direttorio fascista come traditori della patria e criminali di guerra: di fronte ai tentativi del Duce di trovare in extremis una soluzione politica attraverso la mediazione della chiesa, il 12 aprile il CLNAI afferma «la propria decisa intenzione di combattere senza esitazioni né compromessi sino al totale risanamento della lebbra politica che ancora avvelena, con la protezione delle baionette tedesche, la vita pubblica italiana» e ordina al CVL di «procedere alla cattura di Mussolini, Pavolini, Graziani, Zerbino, Vidussoni, Ricci» e altri tredici gerarchi membri del direttorio fascista.17 Il secondo atto è la seduta del 19 aprile, quando la decisione dell’insurrezione viene assunta in modo esplicito. Nei giorni precedenti i comitati di agitazione dei ferrovieri piemontesi hanno paralizzato il traffico nella regione e il giorno 18 Torino è stata bloccata da uno sciopero preinsurrezionale: gli sviluppi della guerra, con le armate alleate che marciano verso la Pianura padana, e l’iniziativa popolare in Piemonte indicano che è giunta l’ora dello scontro finale. I rappresentanti del CLNAI si riconoscono nelle parole del delegato socialista: «Bisogna dire alle masse che la libertà deve essere conquistata con le nostre forze e non averla in dono dagli Alleati». Le altre forze di sinistra sono naturalmente concordi con questa affermazione, ma anche il delegato liberale afferma che «l’insurrezione deve essere fatta, perché è il nostro preciso dovere». Alcune


preoccupazioni vengono espresse dal delegato democristiano, secondo il quale la concentrazione degli operai nelle fabbriche potrebbe «dar luogo ad incidenti ed abusi, specie per quanto riguarda la sicurezza delle scorte di viveri» e potrebbe «creare situazioni di violenza verso qualche dirigente», ma il principio della legittimità dell’insurrezione non viene messo in discussione. La riunione si conclude con l’approvazione di due mozioni. La prima, «Arrendersi o morire!», è rivolta ai «tedeschi che calpestano il nostro suolo e a quanti, italiani, hanno tradito la patria, sostenuto il fascismo, servito i tedeschi». Si tratta di un’intimazione a consegnarsi alle formazioni partigiane e ai CLN: «Sia ben chiaro a tutti che chi non si arrende sarà sterminato. Sia ben chiaro per i componenti delle forze armate del cosiddetto governo fascista repubblicano che chi sarà colto con le armi alla mano sarà fucilato. Solo chi abbandona oggi, subito, prima che sia troppo tardi, volontariamente, le file del tradimento, solo chi si arrende al Comitato di liberazione nazionale e consegna le armi ai patrioti, avrà salva la vita, se non si sarà macchiato personalmente di più gravi delitti». La seconda mozione è dedicata alla situazione piemontese: dopo aver espresso solidarietà ai ferrovieri in lotta, il CLNAI incita tutti i ferrovieri d’Italia a seguire l’esempio piemontese e invita

«formalmente i comitati di agitazione compartimentali a organizzare l’abbandono immediato e in massa del lavoro».18 Di fatto, il testo è il preannuncio dello sciopero insurrezionale. Due giorni dopo, il 21 aprile, il CLNAI invia le “Direttive per l’insurrezione nazionale”: al momento della

proclamazione, tutti devono concentrarsi compatti nei rispettivi posti di lavoro per «difendere gli impianti e impedirne la distruzione da parte del nemico». Le fabbriche diventeranno «la fortezza dell’insurrezione nazionale nelle città», mentre i comandi militari di piazza e i comitati di agitazione garantiranno l’armamento e il coordinamento delle iniziative.19


Da parte sua, il comando generale del CVL chiama allo sforzo finale con la direttiva del 23 aprile, ordinando alle formazioni di scendere verso i grandi centri a sostegno dello sciopero insurrezionale: «Intensificare con tutti i mezzi l’azione di disgregazione delle forze nemiche. Si faccia di tutto per ottenere la resa dei presidi di unità, di caporioni nazifascisti. L’azione partigiana deve farsi sentire in ogni dove, dilagare dappertutto, abbracciare sempre nuovi territori, liberare centri e vallate e intere regioni. Le formazioni partigiane devono appoggiare gli scioperi, i comizi, le dimostrazioni di strada e davanti alle podesterie, prefetture, questure. Partigiani, gappisti e sappisti devono assicurare la protezione armata di queste manifestazioni, devono essere in grado di rintuzzare ogni velleità di offesa di reparti o di elementi nazifascisti, devono obbligarli a lasciare libere le strade e le piazze e convincersi che l’unica via che ad essi resta è quella della resa senza condizioni».20

Bologna, Genova, Torino, Milano L’intensificazione dell’attività partigiana è contemporanea all’annuncio dell’offensiva alleata e le formazioni cercano di precludere le vie di ritirata occupando posizioni chiave. Si sviluppano combattimenti aspri per il controllo del passo della Cisa, della val di Taro, del passo del Cerreto: i partigiani occupano la centrale elettrica di Teglia, presso La Spezia, ottengono la resa del presidio tedesco di Borgo Taro, si stabiliscono nel punto strategico di Castell’Arquato nel piacentino. Prima ancor che la linea Gotica sia sfondata, l’area emiliana è in fase preinsurrezionale: i successi militari degli angloamericani costringono le forze tedesche a ritirarsi oltre il Po, in un ripiegamento caotico che le formazioni partigiane contrastano ovunque,


assicurando nel contempo la protezione degli impianti. Il 21 viene liberata Bologna e l’insurrezione cittadina è contemporanea all’ingresso delle avanguardie alleate: altrove, a Modena, a Reggio Emilia, a Parma, a Piacenza l’iniziativa delle formazioni partigiane e delle forze popolari precede l’arrivo delle armate angloamericane. La particolare combinazione di intervento delle formazioni partigiane e di mobilitazione popolare trova le sue espressioni migliori nel triangolo industriale. Nella notte fra il 23 e il 24 aprile inizia Genova, dopo che il CLN ligure ha rifiutato le offerte del generale Gunther Meinhold di rispettare la città purché gli sia lasciata via libera nella ritirata. Dopo alcuni scontri notturni nella zona del porto, all’alba del 24 le formazioni cittadine occupano gli edifici pubblici e bloccano le stazioni, interrompendo la circolazione ferroviaria nella regione. Le forze tedesche, che dominano le colline circostanti ma in città sono frazionate, non riescono a contrattaccare: il 25, dopo due giorni di combattimento, i partigiani conquistano l’altura di Granarolo, dove si trova la stazione radio, Castel Raggio, posizione chiave per le comunicazioni verso ovest, le caserme di Sturla nel settore orientale, mentre si arrende la batteria di Arenzano. La sera dello stesso 25, il generale Meinhold, rifugiatosi presso l’arcivescovado, si arrende al comando militare per la Liguria: la resa, che da parte tedesca prevede la «presentazione ai reparti partigiani più vicini» e da parte del CLN la successiva consegna dei prigionieri al comando alleato, diventa operante dalle ore 9 del 26 aprile.21 Una parte dei presidi germanici rifiuta, tuttavia, di eseguire gli ordini e si concentra nella zona del porto, dove il capitano di vascello Max Berninghaus ordina la difesa a oltranza: la situazione si sblocca il 26, quando l’arrivo delle formazioni partigiane foranee prima blocca un tentativo di sortita verso nord, quindi costringe le forze tedesche a capitolare definitivamente.


Meno contrastata l’insurrezione a Milano, dove «la città cade in mano agli insorti come un frutto maturo, scarsa resistenza oppone la milizia fascista, i presidi tedeschi vengono superati dagli insorti dopo essere stati accerchiati».22 L’insurrezione parte dalla periferia la sera del 24, con un attacco della Terza brigata “Garibaldi” contro una caserma della milizia: mentre gli operai si mobilitano e occupano le fabbriche, prime fra tutte la Pirelli, le brigate sappiste raggiungono la circonvallazione la sera del 25 e il giorno successivo la cerchia dei Navigli; sempre il 26 arrivano in città le prime formazione dell’Oltrepò pavese. «A partire da un certo momento», commenta Leo Valiani, «si agisce come “in trance”. Tutto quello che si decide di fare è ben fatto, tutto riesce, tutti gli ostacoli crollano.»23 A Torino la situazione è più complessa. A metà aprile le formazioni partigiane del Monferrato, al comando di Pompeo Colajanni “Barbato”, liberano la cittadina di Chieri, portando la minaccia offensiva a pochi chilometri dal capoluogo: il 18 aprile lo sciopero generale «contro la fame e il terrore» dimostra la combattività popolare; il 20 il comando militare del Piemonte avverte tutti i comandi dipendenti che stanno per iniziare le operazioni conclusive, secondo le indicazioni del piano E 27, elaborato nell’autunno 1944 e variamente modificato sino ad allora. L’ordine esecutivo tarda, tuttavia, a giungere per l’opposizione del colonnello John Melior Stevens, rappresentante degli Alleati in Piemonte, che con diverse argomentazioni cerca di dilazionare il momento dell’insurrezione: la forza del movimento operaio torinese, la consistenza delle formazioni garibaldine e gielliste, la relativa distanza da Torino delle avanguardie alleate fanno temere al colonnello inglese una radicalizzazione della situazione, con il governo della città affidato per un lungo periodo alle forze più a sinistra del movimento resistenziale.24 La sera del 24 il CLN piemontese rompe gli indugi


e, forando l’atteggiamento dilatorio di Stevens, impartisce il segnale dell’insurrezione. Dopo ulteriori indugi, dovuti a un falso contrordine diramato dallo stesso rappresentante alleato, la notte tra il 25 e il 26 il piano insurrezionale prende avvio con l’occupazione delle fabbriche. Il 26 e il 27 le formazioni dapprima raggiungono e presidiano i ponti sul Po, quindi conquistano le caserme della periferia, mentre i pochi tedeschi presenti si ritirano nel centro città. La situazione di Torino è delicata perché da ovest premono le forze del generale Schlemmer, in ritirata dal Piemonte meridionale. Il CLN rifiuta, tuttavia, la richiesta della Curia di considerare Torino “città aperta” per consentir per quarantott’ore il passaggio delle divisioni germaniche. Tra il 28 e il 30 i combattimenti continuano sia nella periferia, dove le formazioni partigiane contrattano i tentativi di sfondamento delle truppe di Schlemmer, sia nei quartieri cittadini, dove procede metodico il rastrellamento dei cecchini fascisti. La situazione si sblocca quando le truppe rimaste in città riescono a forzare lo sbarramento e dirigersi a est verso Chivasso, mentre Schlemmer decide di rinunciare all’attraversamento della città e di aggirarla dalla periferia occidentale, puntando su Venaria-Vercelli. La capitale industriale si è liberata da sola, riuscendo nel contempo a difendere il proprio patrimonio di strutture produttive. Nel settore nordorientale, dove si esercita più direttamente la pressione dell’offensiva alleata e dove si concentrano le truppe tedesche in ripiegamento verso l’Austria, l’insurrezione si fraziona in una pluralità di episodi direttamente collegati alle operazioni belliche. Gli angloamericani puntano su Verona e Padova: dalla prima città possono puntare verso ovest cercando di intercettare le truppe della Wehrmacht in ripiegamento dalla Liguria e dal Piemonte; dalla seconda possono iniziare una manovra a largo raggio per chiudere i valichi verso l’Austria. A questo piano le forze


resistenziali lombarde e venete contribuiscono con azioni nelle retrovie tedesche, interrompendo le comunicazioni tra il settore nordovest e quello nordest, contrastando la ritirata nemica (in particolare, nella zona tra l’Adige e il Brenta), proteggendo gli impianti industriali (a Schio, Valdagno, Arzignano, Piovene), contribuendo agli sforzi insurrezionali cittadini di Bergamo, Padova, Belluno, Udine, Vittorio Veneto. Mentre l’insurrezione dilaga, il 25 aprile il CLNAI assume pubblicamente i poteri civili e militari, proclamando lo stato d’eccezione: «In nome del popolo italiano il Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia, delegato dal governo per assicurare la continuazione della guerra di liberazione a fianco degli Alleati, per garantire e difendere contro chiunque la libertà, la giustizia e la sicurezza pubblica, assume tutti i poteri civili e militari. Tali poteri sono esercitati attraverso i comitati di liberazione nazionale regionali e provinciali». Il decreto affida la tutela dell’ordine pubblico alle formazioni dei CVL, istituisce i tribunali di guerra per la repressione dei reati di saccheggio, sabotaggio, rapina, grassazione, furto, ordina lo scioglimento di tutti i corpi armati fascisti, dichiara prigionieri di guerra tutti i militari tedeschi.25

La fine di Mussolini Mussolini, che dal 18 aprile si è trasferito con il governo a Milano stabilendosi nella prefettura di corso Monforte, il pomeriggio del 25 cerca una soluzione estrema di compromesso e si reca nella sede arcivescovile, accompagnato dal maresciallo Graziani, dal ministro dell’Interno Zerbino, dal sottosegretario Barracu e dal prefetto Mario Bassi. Un’ora più tardi giungono il generale Raffaele Cadorna e due esponenti del CLNAI, Achille Marazza e Riccardo Lombardi (Pertini, benché atteso, arriverà trafelato solo a colloqui


conclusi). Alla presenza del cardinale Schuster si imbastisce una trattativa senza prospettive: i dirigenti resistenziali vogliono la resa senza condizioni, Mussolini vuole invece un passaggio di poteri incruento con la garanzia di incolumità per i fascisti e di esodo indisturbato per le milizie repubblicane. Il dialogo è teso e difficile: il Duce appare disorientato, incapace di valutare quali siano i margini di trattativa, diffidente sulla lealtà dell’arcivescovo, timoroso di essere caduto in una trappola. Quando il prefetto Bassi dichiara che secondo le sue informazioni da tre giorni i tedeschi hanno intavolato una trattativa con il comitato per la resa unilaterale, Marazza conferma: Mussolini, che sino a quel momento è apparso apatico e stanco, reagisce con rabbia sentendosi tradito dall’alleato e chiede un’ora di tempo per prendere una decisione. Dopo una consultazione in prefettura con Pavolini, Graziani e le poche autorità fasciste presenti, decide di lasciare Milano e dirigersi a Como. Difficile stabilire quale sia il piano: probabilmente, nelle ore convulse della fine si intrecciano progetti e suggestioni, in contrasto gli uni con le altre. Un’ipotesi è attendere l’arrivo degli Alleati in una città meno effervescente e politicamente esposta di Milano e consegnarsi ai comandi angloamericani; una seconda è cercare rifugio in Svizzera, paese tradizionalmente ospitale verso esuli e fuorusciti; una terza è il trasferimento in Germania, per rinviare di qualche giorno l’epilogo. La quarta ipotesi è la più confacente alla cultura fascista: cadere con le armi in pugno nel ridotto della Valtellina, andare a cercare la “bella morte” lasciando in testimonianza ai posteri un esempio sanguinante di coerenza e di audacia. Nella notte del 25, nella giornata del 26 e nella notte seguente Mussolini e quanti si aggregano a lui (ministri, gerarchi, brigatisti neri, funzionari di Salò, personale di servizio, famigliari, ma anche un reparto tedesco della contraerea) indugiano lungo la sponda occidentale del lago di Como, tra


dubbi sulla destinazione, timore di attacchi partigiani, conciliaboli, insofferenze reciproche. La mattina del 27, quando la colonna diventata ormai lunga oltre un chilometro, si avvia verso l’Alto Lago con destinazione Valtellina (per un’estrema difesa o forse per passare in Trentino), viene fermata a un posto di blocco partigiano a Musso, due chilometri prima del comune di Dongo. Mussolini viene individuato durante la perquisizione dei camion su cui sono i soldati tedeschi: su consiglio di Claretta Petacci, è infatti salito su uno di questi travestito da militare germanico. I partigiani del posto di blocco (che appartengono alla Cinquantaduesima brigata Garibaldi e sono comandati da un giovane fiorentino di origini aristocratiche, Pier Luigi Bellini delle Stelle “Pedro”) trasferiscono il Duce a Dongo, dove il municipio viene trasformato in carcere provvisorio e dove vengono concentrati tutti i gerarchi, i ministri e le personalità fasciste identificati nell’autocolonna. Temendo un’azione per liberare i prigionieri, in piena notte i partigiani trasferiscono Mussolini e la Petacci (che ottiene di seguire il compagno) venti chilometri più a sud, in una cascina di Giulino di Mezzegra: qui vengono presi in consegna nel pomeriggio del 28 da due esponenti garibaldini giunti da Milano con un lasciapassare del CLNAI e del CVL, Aldo Lampredi “Guido” (ispettore delle brigate Garibaldi) e Walter Audisio “colonnello Valerio”. Il resto è storia nota e, nel contempo, ancora indecifrata: Mussolini e la Petacci vengono abbattuti a colpi di mitra poco distante dalla cascina, davanti al muro di cinta di Villa Belmonte, lungo la strada che da Giulino riconduce sull’Antica Strada Regina del lungolago (anche se a tutt’oggi vi sono trentuno versioni diverse sull’eliminazione). I due esponenti garibaldini si spostano poi a Dongo, dove un plotone di esecuzione di partigiani dell’Oltrepò pavese fucila quindici tra i fascisti catturati (Alessandro Pavolini, segretario del PFR, e Paolo Porta, federale di Como; i membri del governo di Salò Ferdinando


Mezzasoma, Augusto Liverani, Paolo Zerbino, Ruggero Romano, Francesco Barracu; funzionari di vari livelli; il fratello di Claretta, Marcello Petacci, e Nicola Bombacci, idealista confuso amico del Duce, socialista-comunistafascista repubblicano). Alle 17.30, dopo i rintocchi secchi dei colpi di grazia, tutto è concluso e Lampredi e Audisio rientrano a Milano per riferire ai comandi.26


1

Ildefonso Schuster, Gli ultimi tempi di un regime, Daverio, Milano 1960, p. 68. 2 Nell’autunno 1944 e nell’inverno 1944-45 varie manovre vengono tentate da elementi non fascisti per gettare un “ponte” tra Mussolini e alcuni gruppi antifascisti moderati. Tra gli uomini che si impegnano in questa direzione vi sono Edmondo Cione, Corrado Bonfantini, Carlo Silvestri. Cfr. Giorgio Bocca, La Repubblica di Mussolini, Laterza, Bari 1977, pp. 303-13. 3 Il discorso del 16 dicembre 1944 al Teatro Lirico di Milano è riportato in Benito Mussolini, Opera omnia, La Fenice, Firenze 1951, vol. 32, pp. 126 e sgg. 4 Frederick W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, cit., p. 725. 5 Ibid., p. 755. 6 Il rendiconto della riunione del 3 novembre 1944 è in Gaetano Grassi, Verso il governo del popolo, cit., pp. 201-02. 7 Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, cit., p. 107. 8 Dominick Graham, Shelford Bidwell, La battaglia d’Italia, cit., p. 419. 9 Giovanni De Luna, “L’insurrezione nella Resistenza italiana”, in Aa.Vv., L’insurrezione in Piemonte, Angeli, Milano 1987, p. 67. 10 Il resoconto degli incontri avuti dal sottosegretario Aldobrando Medici Tornaquinci tra i 26 e il 29 marzo 1945 prima con il CLN piemontese, poi con il CLNAI, è in Amedeo Ugolini (a cura di), Resistenza e Governo italiano nella missione Medici Tornaquinci, in “Il Movimento di Liberazione in Italia”, n. 3/1953, pp. 40 e sgg. 11 Il testo del documento concordato il 29 marzo 1945 tra il sottosegretario Medici Tornaquinci e il CLNAI è riportato il Gaetano Grassi (a cura di), Verso il governo del popolo, cit., pp. 291-94. 12 La spartizione delle cariche di prefetto, viceprefetto, sindaco, vicesindaco, questore, presidente CLN, presidente commissione di epurazione e presidente deputazione provinciale, discussa dal CLNAI il 20 febbraio 1945, è


riportata in ibid., pp. 268-74. 13 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia., cit., p.315. 14 Nei primi giorni di aprile, su richiesta del comando alleato, Ferruccio Parri e Raffaele Cadorna si recano a Caserta per un incontro con le autorità militari angloamericane che vogliono rassicurazioni sulla situazione politicomilitare al nord. 15 Mark Wayne Clark, Le campagne d’Africa e d’Italia della 5^ Armata Americana, Editrice Goriziana, Gorizia 2010, p. 414. 16 La “Direttiva n. 16 del PCI per l’insurrezione” del 10 aprile 1945 è riportata in Claudio Pavone (a cura di), Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, cit., vol. 3, pp. 591-96. 17 L’atto di denuncia di Mussolini e dei membri del direttorio fascista del 12 aprile 1945 è riportato in Gaetano Grassi (a cura di), Verso il governo del popolo, cit., p. 295. 18 Il verbale della seduta del 19 aprile 1945 e le mozioni approvate sono in ibid., pp. 296-310. 19 Le “Direttive per insurrezione nazionale” del 21 aprile 1945 sono in ibid., pp. 312-13. 20 La direttiva del comando generale del CVL del 23 aprile 1945 è in Giorgio Rochat (a cura di), Atti del comando generale del Corpo volontari della libertà, cit., p. 499-500. 21 L’atto di resa, firmato dal generale Meinhold e dal presidente del CLN di Genova, l’operaio Remo Scappini, è riportato in Aa.Vv., Documenti del CLN per la Liguria, Edizione del Partigiano, Genova 1947, pp.261-63. 22 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 642. 23 Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, cit., p. 336. 24 Sui contrasti tra il CLN del Piemonte e il colonnello Stevens cfr. Allen Young, “La missione Stevens e l’insurrezione di Torino”, in Aa.Vv., L’insurrezione in Piemonte, cit., pp. 94 e sgg.


25

Il testo della proclamazione dello stato d’eccezione del 25 aprile 1945 è riportato in Gaetano Grassi (a cura di), Verso il potere del popolo, cit., pp. 323-24. 26 Per una trattazione organica dell’episodio conclusivo del fascismo sul lago di Como, per le varie versioni sulla morte del Duce e di Claretta Petacci e per il mistero del cosiddetto “oro di Dongo” che i gerarchi avevano con loro, si rinvia a Gianni Oliva, Il tesoro dei vinti, Mondadori, Milano 2015.


PARTE QUINTA La resa dei conti


1 Il furore popolare

Milano, 29 aprile 1945 Poco dopo le 3 di notte di domenica 29 aprile entra in una Milano insorta il camion del colonnello “Valerio” e sul selciato di piazzale Loreto scarica i cadaveri di Benito Mussolini e Claretta Petacci: accanto a loro i corpi degli altri fascisti fucilati a Dongo. I corpi «sono buttati giù come immondizia»1 e rimangono per terra, addossati l’uno all’altro, nel buio di una città dove le prime avanguardie americane sono entrate da qualche ora, ma dove la “normalizzazione” alleata è ancora lontana da venire. L’insurrezione è iniziata quattro giorni prima: scontri nelle strade, spari attorno agli stabilimenti, attacchi alle caserme, negozi con le saracinesche abbassate e tram fermi. E cadaveri sui selciati, alcuni coperti con un telo, altri abbandonati senza riguardo, tra chiazze di sangue sui muri e bossoli per terra. La guerra è entrata in tutti i quartieri e ogni milanese è diventato insieme spettatore e protagonista: al coprifuoco, che per mesi ha regolato la vita della città, è subentrata la febbre di un’atmosfera irreale, dove il passato si intreccia con il presente. Tra il pomeriggio del 27 e la giornata del 28, la situazione si definisce: una dopo l’altra, le unità fasciste si disperdono o si arrendono e il Comitato di liberazione nazionale assume i poteri, ma la tensione rimane alta, nel centro cittadino come nelle periferie. Riecheggiano di quando in quando i


colpi sparati dai cecchini e dagli insorti, si sentono auto e motociclette correre per le strade, voci concitate che si richiamano, uomini armati che calpestano i marciapiedi con gli scarponi pesanti: a volte sono i colpi sordi delle esecuzioni sommarie. La guerra che finisce ha un tratto inquietante di frenesia nel quale si esprimono cinque anni di tormento soffocato: pronta a esprimersi c’è la gioia liberatoria delle bandiere esposte, che presto saluterà le formazioni partigiane e le unità angloamericane, ma nell’immediato c’è ancora l’eco di armi che hanno sparato per troppo tempo, la tragedia di chi è rimasto solo, la rabbia di una generazione perduta. È in questa atmosfera che va collocato ciò che accade nel piazzale milanese la mattina del 29 aprile, una delle pagine più tormentate della storia nazionale, descritta da una bibliografia

ricchissima

e

ampiamente

documentata

dalle

riprese

cinematografiche e dalle immagini fotografiche. Milano, più di ogni altra città, ha vissuto l’agonia della Repubblica sociale, lunghi mesi in un clima sospeso di rarefatta follia «tra l’ebbrezza di un potere effimero e il presagio della morte»:2 la conclusione è giunta drammatica e convulsa, e se pure si è trattato di una conclusione annunciata, essa è scesa sulla città come una furia improvvisa. Il cittadino milanese dei giorni dell’insurrezione ha smarrito la cognizione della normalità e vive un’emergenza in cui tutto è possibile e tutto sembra impossibile. La notizia che Mussolini è morto e il suo corpo giace a piazzale Loreto fa il giro dei quartieri, prima ancora che Radio Milano Libera ne informi la cittadinanza. Appena albeggia, la gente comincia ad affluire: ci sono uomini, donne, partigiani armati; una folla numerosa che aumenta di momento in momento, operai e borghesi, giovani e anziani, volti scavati dalla penuria della guerra e corpi ben nutriti dalla speculazione del mercato nero. I primi arrivati si assiepano davanti ai cadaveri, guardano con occhi attoniti i potenti


di ieri, si chinano per constatare ancor più da vicino; chi arriva quando la piazza è già gremita sale sulle camionette ferme per vedere meglio, oppure si fa largo a spintoni per raggiungere le prime file. L’impressione iniziale è un senso generale di sbigottimento per un mondo senza Mussolini: «Sembrava incredibile. Incredibile che fosse esistito, incredibile che fosse morto».3 Poi il numero crescente delle persone trasforma lo sbigottimento in un fermento vociante e piazzale Loreto si anima di rumori: nelle strade che vi affluiscono (viale Abruzzi, viale Brianza, viale Monza) c’è una fiumana confusa di passi affrettati, di biciclette, di commenti scambiati al volo tra gente che neppure si conosce. Il picchetto partigiano, che fa il servizio d’ordine attorno ai cadaveri, si sforza di mantenere la folla a distanza, ma è costretto a indietreggiare, sempre più pressato dalla calca: in segno di irrisione, o forse per renderlo meglio visibile, qualcuno appoggia il capo di Mussolini sul petto della Petacci. A calamitare i milanesi verso il piazzale è una curiosità morbosa, nella quale si mescolano emozioni contrastanti: c’è l’ansia di constatare che il Duce è morto davvero, e con lui la sua guerra e il suo regime; c’è l’eccitazione di sentirsi protagonisti di un avvenimento irripetibile; c’è il fervore che da quattro giorni attraversa la città insorta. Oreste Del Buono, allora giovane ventenne, è tra la folla: «La gente andava in una certa direzione. Non si trattava di una manifestazione organizzata. Era passato il tempo delle adunate coatte. Comunque, la gente andava in quella direzione e non in un’altra qualsiasi di tutte le direzioni possibili. Si andava. Lo dico perché c’ero anch’io tra la gente. Si andava, si doveva andare avanti. Corso Buenos Aires era intasato da una fiumana vociante di uomini, donne, vecchi e bambini. I bambini più piccoli erano issati sulle spalle dei genitori, i vecchi più malandati arrancavano con stampelle e bastoni. Ma se quella non era una


delle solite adunate coatte, perché si doveva andare a costo di procedere appena di qualche millimetro alla volta sotto quel sole già così impazientemente estivo? Si doveva andare avanti, semplicemente perché si doveva. Si doveva, ecco. Era all’ultimo appuntamento a cui si andava, millimetro dopo millimetro, sotto il sole che ci friggeva le teste. Era pensando alla spiegazione finale con Lui, che vociavano rancori, giustificazioni, lamenti, abiure, alibi, esecrazioni, esorcismi. Avevo il sospetto di essere condannato a restare parte indissolubile di quella massa. Neppure riuscivo a distinguere la mia voce da quella altrui. Più che restare parte indissolubile, mi ero dissolto, in quella massa esorcizzante vent’anni di vita».4 E in quella folla sempre più numerosa e incontenibile, che senza averne coscienza va a fare i conti con il proprio passato, la curiosità si converte presto in esasperazione: la suggestione del numero e l’eccezionalità del momento tolgono i freni inibitori e fanno esplodere le rabbie covate negli anni del conflitto. Prima sono imprecazioni che si levano dagli animi più eccitati, insulti al Duce e alla sua amante, irrisione all’onnipotenza finita. Poi è la violenza sui cadaveri: c’è chi li colpisce a calci, chi li imbratta con manciate di fango, chi li oltraggia con sputi e orina, chi li batte con un bastone. Il corpo di Mussolini è il più bersagliato: una signora, che ha perso cinque figli uccisi da un bombardamento, estrae una pistola dalla borsetta e gli spara cinque colpi;5 altri, per dileggio, gli mettono in mano un gagliardetto fascista tronco; altrui ancora uno scettro di burla; c’è persino chi cerca di infilargli in bocca un topo morto.6 Sul piazzale scende un’atmosfera greve, in cui si mescolano rabbia, sofferenza, disperazione e il furore irrazionale della “resa dei conti”. Alcuni sfogano un’aggressività cieca e sembrano voler uccidere una seconda volta corpi già morti. Altri, all’opposto, vivono un’angoscia inquietante e si tormentano senza riuscire ad allontanarsi: «Una donna piangeva, un’altra


vomitava. Io fui preso come gli altri e non capii più niente. La vita cominciò a farmi paura. Respingevo la vita che mi obbligava a vedere una cosa di questo genere».7 A metà mattinata, il servizio d’ordine partigiano, che sino ad allora ha fatto soltanto da filtro contenendo con la forza i più esagitati, decide di sottrarre i corpi allo scempio e di esporli alla vista: è un’esposizione macabra, ma evita che la pressione della folla diventi travolgente. Uno dopo l’altro, i cadaveri sono trascinati al vicino distributore di benzina e appesi al traliccio, con i piedi in aria e la testa in giù: i vestiti scivolano verso il basso, le braghe si rigonfiano alle ginocchia, si scoprono braccia e polpacci; per decenza, qualcuno annoda la gonna della Petacci. Qualcun altro si arrampica sul traliccio e in corrispondenza dei piedi mette un cartello con nomi dei fascisti, perché non ci siano dubbi sulla loro identità: “Mussolini”, “Pavolini”, “Mezzasoma”, il fascismo appeso all’ingiù, secondo il rituale di infamia delle esecuzioni medievali. Seduti sul traliccio, con i fucili ben esposti, alcuni partigiani sanzionano scenograficamente la vittoria sul regime. Verso mezzogiorno, a bordo di un camion, viene trasportato nel piazzale Achille Starace, ex segretario del Partito nazionale fascista, uno degli uomini più potenti e caricaturali del Ventennio: fermato nel pomeriggio del 27 a Porta Ticinese da partigiani della Sedicesima brigata Garibaldi, quindi tradotto al Politecnico dove ha sede il comando divisionale garibaldino, è stato condannato a morte dal “tribunale del popolo”. Starace viene fatto scendere e trascinato davanti ai cadaveri: ha lo sguardo vitreo di chi è giunto alla fine, indossa la stessa tuta da ginnastica che aveva al momento dell’arresto. Gli spari del plotone di esecuzione sono secchi, ma si disperdono nella confusione vociante del piazzale: Starace cade nell’anonimato, sullo sfondo dei gerarchi che penzolano dal traliccio.8 Alle 14, per intervento del comando


militare americano e dei dirigenti del CLNAI, l’esposizione pubblica si conclude: i corpi martoriati vengono staccati dal distributore di benzina e portati all’obitorio, deposti in improvvisate casse di legno. La folla si dirada lentamente, mentre qualcuno provvede a pulire il selciato dalle macchie con una pompa, ma sino a sera il piazzale non si vuota: c’è chi indugia a commentare, chi guarda assorto, chi non c’era al mattino e vuole vedere il “luogo”. L’indomani, alle 7.30, i medici legali dell’Università di Milano iniziano le autopsie e anche questa si rivela un’operazione non facile: come ha testimoniato Caio Cattabeni, il perito responsabile dell’autopsia, il lavoro si svolge in una situazione precaria, «in una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l’assenza di un servizio d’ordine armato, giornalisti, fotografi, partigiani e popolo»:9 la morbosità calamita i più intraprendenti e prolunga l’esposizione.

La simbologia di piazzale Loreto Per un paese come l’Italia, che a differenza della Francia o dell’Inghilterra non ha nella sua storia regicidi come spartiacque tra epoche contrapposte, piazzale Loreto è il rito macabro che sancisce nella forma più tragica la fine di una stagione tragica: come tale, «esso è ancora “dentro” il fascismo e non approda alla liberazione».10 In questa chiave lo interpreta il massimo organismo della Resistenza, il CLNAI: assumendosi la responsabilità di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, esso stigmatizza il furore di piazzale Loreto affermando che «l’esplosione di odio popolare che è trascesa in quest’unica occasione costituisce un eccesso comprensibile soltanto nel clima creato da Mussolini: il fascismo stesso è l’unico responsabile».11 Al di là dei commenti espressi dai dirigenti politici resistenziali e dai testimoni


oculari, nella sua sequenza drammatica l’epilogo di piazzale Loreto è gravido di significati simbolici attraverso i quali i giorni della “resa dei conti” assumono i contorni storici che gli sono peculiari. Innanzitutto, il luogo: il 10 agosto 1944, proprio in piazzale Loreto, un plotone di volontari della brigata nera “Ettore Muti” ha fucilato quindici prigionieri per rappresaglia, dopo un presunto attentato gappista. Per ordine delle autorità militari germaniche, i corpi sono rimasti esposti per ventiquattr’ore nel caldo umido dell’estate milanese, in uno scempio macabro e impietoso che ne ha presto reso irriconoscibili i volti. L’episodio è penetrato nell’immaginario collettivo resistenziale come luogo della memoria antifascista: «Davanti ai cadaveri dei quindici martiri, si sono fermati decine, centinaia di cittadini milanesi. Per un uomo che ha sparato nel mucchio di cadaveri, molte donne hanno osato deporre fiori. Dai carnefici alle vittime agli spettatori, una tragedia tutta italiana: questo hanno cercato di suggerire i militari tedeschi cui è occorso di fotografare la pubblica esposizione, e questi avrebbe ritenuto del 10 agosto la memoria resistenziale».12 Dopo l’eccidio, piazzale Loreto diventa, per una parte almeno dei milanesi, il luogo del martirio antifascista, tanto che, appena liberata la città, la piazza viene ribattezzata “piazza dei XV martiri”. Nulla di casuale, dunque, nell’esposizione di Mussolini e dei gerarchi proprio in quel luogo, anche se la decisione non è premeditata ma matura presumibilmente in modo spontaneo tra gli uomini del colonnello “Valerio” che trasportano il loro carico di cadaveri illustri da Dongo a Milano: scegliendo di depositarli nel piazzale, essi interpretano in modo letterale quel criterio toponomastico dell’esercizio della vendetta che informa la giustizia partigiana durante i giorni dell’insurrezione. Là dove l’eccidio ha offeso più profondamente la coscienza resistenziale, là, per contrappasso, avviene l’esibizione del tirannicidio. Si tratta di una vendetta logica, quasi scolastica: «Logica, perché


la Resistenza aveva troppo sofferto delle esibizioni mortuarie del fascismo saloino per rinunciare alla tentazione del contrappasso; scolastica, perché l’immaginario partigiano aveva deputato piazzale Loreto a sede della memoria resistenziale”.13 Il secondo elemento simbolico è rappresentato dall’esposizione. Storicamente, l’ostentazione dei corpi dei condannati ha un valore sanzionatorio, che glorifica il vincitore e visualizza l’esito di un conflitto: come ha scritto Michel Foucault a proposito dell’“Ancien Régime”, «da parte della giustizia che lo impone, il supplizio deve essere clamoroso, deve essere constatato da tutti, un po’ come il suo trionfo. L’eccesso stesso della violenza esercitata è uno degli elementi della sua gloria. Di qui, senza dubbio, quei supplizi che si prolungano dopo la morte: cadaveri bruciati, ceneri buttate al vento, corpi trascinati sui graticci, esposti ai bordi delle strade».14 Mussolini è stato fucilato in fretta e senza spettatori, in un luogo anonimo e appartato: se dunque l’esecuzione ha risolto la pendenza individuale, ha però lasciato irrisolta la forma sociale della messa a morte. La pubblica esibizione del suo corpo diventa necessaria, sia come prova incontrovertibile della sua morte, sia come credenziale della nuova autorità partigiana. Sintomatico, in questo senso, l’atteggiamento del generale Raffaele Cadorna: «Non appena ha notizia della manifestazione, il generale è fortemente deciso a interromperla, ma quando, ancora lontano da piazzale Loreto, un gruppo di donne sostiene che Mussolini è stato ucciso troppo presto e che bisognava portarlo in giro per ricoprirlo di sputi, egli comincia a pensare che quella, dopo tutto, era la vendetta che il popolo esigeva».15 L’esibizione della morte rientra d’altra parte in un rituale che proprio i fascisti hanno alimentato nella stagione della Repubblica sociale: le pubbliche esecuzioni e le esposizioni prolungate dei cadaveri sono state strumento per il controllo della piazza, il terrore


dell’esempio attraverso il quale lo stato fascista repubblicano ha cercato di mascherare la propria debolezza ostentando la capacità di punire. «E come potevamo noi cantare», si domanda Salvatore Quasimodo in una delle sue poesie più celebri, «con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo?»16 Un terzo elemento simbolico è strettamente legato al “corpo” del Duce e al significato che esso ha assunto nel corso del Ventennio. Se è vero che il rapporto con il corpo del capo è un tratto distintivo di tutti i regimi autoritari, è ancora più vero che la propaganda fascista ne ha fatto un uso quasi scientifico: «Alle immagini di Mussolini che pilota ogni tipo di veicolo, dell’aria, della terra e del mare, si affiancano quelle di lui aratore, trebbiatore, minatore. La varietà consentì anche il dispiegarsi di molteplici travestimenti, in cui si esplicava sia il gusto carnevalesco del dittatore, sia la sua capacità di riflettere molti aspetti del popolo italiano e del suo immaginario».17 Mussolini con la divisa, Mussolini a petto nudo, Mussolini al balcone di Palazzo Venezia, Mussolini oratore, Mussolini che passa in rassegna le truppe, Mussolini che saluta romanamente; e, ancora, le effigi di Mussolini in ogni edificio pubblico, i suoi detti trasformati in scritte murali, le descrizioni del suo agire e le sue frasi celebri nei libri di testo delle scuole. Il corpo del Duce assurge a una sacralità che è parte essenziale dell’immaginario collettivo del Ventennio, incarnazione insieme della rivoluzione fascista, del regime e della nazione intera. Appendere per i piedi “quel” corpo significa rovesciare l’autorappresentazione del fascismo e, insieme, la sua storia: sospeso inerte a testa ingiù, il cadavere di Mussolini è un corpo macellato, attraverso il quale si ribaltano vent’anni di ruoli nei rapporti di potere. «La sconcia bestia è stata


appesa a piazzale Loreto»,18 scriverà Carlo Emilio Gadda, interpretando con linguaggio brutale il senso di ciò che accade il mattino del 29 aprile: l’onnipotenza sconfitta è uno spettacolo riparatore che giunge a invertire le posizioni precedenti, ribaltando il contrasto tra la sofferenza di chi ubbidiva e la privilegiata sicurezza di chi comandava. E, ancora, è uno spettacolo liberatore: calpestando l’idolo si calpesta l’idolatria e ci si assolve dall’essere stati idolatri. Per questo piazzale Loreto assume i contorni di un feroce smembramento rituale, attraverso il quale un popolo (simbolicamente rappresentato dalla folla milanese) distrugge il mito del regime, ma anche i propri silenzi e le proprie complicità. Il 29 aprile non nasce un’Italia nuova, ma agisce un’Italia vecchia che facendo i conti con il corpo di Mussolini fa i conti con se stessa: «Gli italiani di piazzale Loreto sono uomini alla ricerca di altre identità, intenti a liberarsi del proprio passato, ma proprio per la pesantezza di quel “ieri” collettivo segnato da una spirale di violenza minacciata o subita, il distacco non può avvenire in modo morbido o pacifico».19 Un ultimo elemento simbolico va individuato nel grande spettacolo di massa rappresentato dalla folla del 29 aprile, contrappasso delle adunate oceaniche che hanno contraddistinto il Ventennio. La mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso appuntamenti rituali, carichi di suggestione e di messaggi, è stata una costante della scenografia di regime: «L’ultima “scena italiana” è la scena del Ventennio fascista. Ecco dispiegarsi nell’immaginario l’euforia delle adunate oceaniche, il prestigio del Verbo, l’agonismo dei ludi ginnici, la mascherata delle uniformi (da quelle dei balilla a quelle dei gerarchi), il fervore delle battaglie economiche, politiche e militari, le battaglie del grano, della lira, per lo stato corporativo; guerra d’Africa, d’Albania, e via dicendo. Ecco risorgere, nel simbolico, il culto


dell’Impero, della tradizione, della famiglia, della patria, della morte, dell’eroismo, nella sapiente messa in scena di rituali atti a disciplinare, animare e magnetizzare le masse».20 Anche sotto questo profilo, l’epilogo non può che richiamarsi al retroterra storico. Il fascismo e il suo capo finiscono in un’estrema scena collettiva, dove la partecipazione non è più organizzata, ma si dispiega nell’irruente confusione della spontaneità popolare. «La scena del Ventennio non poteva finire se non con la messa a morte del “saturnalicus rex”, nell’aprile 1945, e l’esposizione su una piazza italiana del suo cadavere impiccato per i piedi con uno scettro da burla tra le mani, come quello del monarca eletto dai Pulcinella romani nell’episodio goethiano. Così la farsa si ripete nella storia come una tragedia, e la tragedia si ripete e si conclude, nella scena, come una farsa.»21

Tanti piazzali Loreto I “cadaveri illustri” di piazzale Loreto hanno fatto assumere carattere emblematico alla giornata milanese del 29 aprile: le stesse dinamiche, dalla ritualità del luogo di esecuzione, all’esasperazione della rabbia popolare, all’esposizione dei corpi, si ritrovano però in molte altre piazze dell’Italia settentrionale, dove l’uscita dalla guerra e dal fascismo implica forme di rottura altrettanto drammatiche. A volte ne sono protagonisti-vittime personaggi

che

hanno

occupato

posizione

di

un

certo

rilievo

nell’amministrazione della RSI; a volte si tratta di soldati o ufficiali tedeschi, individuati come autori diretti di stragi; a volte ancora di personaggi minori, che per i loro atteggiamenti protervi sono penetrati nella coscienza collettiva della comunità come simboli di oppressione. A Torino il “cadavere illustre” è Giuseppe Solaro, l’ultimo federale della città, nominato nel febbraio 1945


dopo che il suo predecessore, Paolo Zerbino, ha lasciato l’incarico per diventare ministro degli Interni a Salò. Il suo atteggiamento sprezzante e la sua durezza sono penetrati a fondo nell’immaginario popolare torinese, così come è diventata famosa una sua presunta frase, «per i banditi partigiani non è necessario il piombo, basta la corda».22 Catturato il 28 aprile e tradotto nelle carceri improvvisate della caserma “Bergia”, in piazza Carlo Emanuele II, Solaro viene immediatamente giudicato e condannato a morte dal comando dell’Ottava zona militare, trasformato in tribunale di guerra: insieme a lui, stessa sorte per Giovanni Cabras, comandante locale della Guardia nazionale repubblicana. Per la legge del contrappasso, l’esecuzione viene effettuata tramite impiccagione ed è la stessa Giunta regionale di governo per il Piemonte a stabilirlo con l’apposito decreto n. 5 del 29 aprile: «Ritenuta l’assoluta necessità che l’esecuzione capitale dei maggiori responsabili dei crimini nefandi, che più profondamente hanno commosso la coscienza popolare durante il regime di occupazione, avvenga in forma solenne ed esprima e consacri alla presenza del popolo l’indignazione della sua anima, decreta: in deroga alle vigenti disposizioni, l’esecuzione capitale di Giuseppe Solaro e Giovanni Cabras, condannati a morte da tribunali di guerra per atrocità di guerra, avverrà mediante capestro».23 La messa a morte di Cabras all’ultimo viene rinviata,24 quella di Solaro è invece eseguita il giorno 30. Automobili con altoparlanti la annunciano per tutta la città, il luogo prescelto è corso Vinzaglio angolo via Cernaia, vicino alla stazione di Porta Susa. Come per piazzale Loreto, si tratta di una scelta non casuale: lì, il 22 luglio 1944, sono stati impiccati quattro partigiani, tra i quali Ignazio Vian, l’ufficiale della Quarta armata che nel settembre 1943 ha animato a Boves, nel cuneese, uno dei primi nuclei ribellistici ed è diventato una delle figure più popolari della resistenza piemontese.25 Anche a Torino c’è un accorrere


confuso di gente, che si muove tra curiosità e rabbia e che prova l’ansia morbosa di assistere a un rituale conclusivo: le fotografie mostrano folla nelle strade, sui balconi, alle finestre dei palazzi. Già il trasferimento del condannato nel luogo del supplizio ha un tratto di spettacolarità: Solaro viene prelevato con un camion dalla caserma “Bergia” e condotto in corso Vinzaglio lungo le vie del centro cittadino, preceduto da un’auto sulla quale sono i comandanti della Diciannovesima brigata Garibaldi, cui è affidata l’esecuzione. Con lui, ad assisterlo, don Giuseppe Garneri, parroco del Duomo, che così ricorda l’atmosfera della città: «La gente formava due fitte ali di popolo. Molti gridavano il loro odio. Ho visto donne urlare contro il condannato. Non dimentico mamme che indicavano ai bambini Giuseppe Solaro. La scena ebbe momenti drammatici. Ricordo un episodio. Quasi a inserire un gesto di bontà tra tanto tumulto di folla, io presi una mano di Solaro nelle mie mani. Il gesto fu notato. Sentii un crescendo di odio e di ferocia. Furono indirizzate a me, prete, parole di insulto e di minacce, mi furono puntati anche tre mitra. Due partigiani del camion con delicatezza e prontezza mi fecero da schermo. Poi fecero salire in piedi Solaro sulla panca perché fosse più visibile».26 Giunto sul luogo dell’esecuzione, Solaro riceve i conforti religiosi, mentre il cappio viene legato al ramo di un platano, ma la scena di corso Vinzaglio si complica per un imprevisto macabro: quando il corpo viene fatto spenzolare nel vuoto, il ramo si spezza e l’ex federale precipita ancora agonizzante. Ciò che succede dopo non è chiarito dalle testimonianze contrastanti: secondo alcuni, l’esecuzione viene ripetuta, secondo altri Solaro viene prima ucciso dalla bastonata rabbiosa del padre di un partigiano caduto, poi riappeso. In ogni caso, si tratta di una scena infinita, dove scompare il senso del tempo e la morte inflitta prolunga tragicamente la guerra.


La dinamica di piazzale Loreto non è propria delle sole città. Episodi analoghi accadono anche in piccoli borghi di provincia, dove l’espressione della rabbia popolare assume toni ancora più drammatici perché non può giovarsi della copertura dell’anonimato. Se i cittadini milanesi o torinesi che si ritrovano in piazza sono spesso sconosciuti gli uni agli altri e inconsciamente possono agire in una situazione di irresponsabilità, in una comunità di campagna l’autore di ogni gesto è immediatamente identificabile dal suo vicino e l’esplosione della violenza presuppone un carattere di coralità, una condivisione solidale di atteggiamenti e di reazioni: ognuno sa chi è l’altro e ognuno sa di essere a sua volta conosciuto. Emblematico, in questo senso, il caso di Cumiana, una comunità di 4000 abitanti nelle campagne torinesi. Il 3 aprile 1944 vi è stato uno degli eccidi più efferati perpetrati dai tedeschi in Piemonte: dopo uno scontro nella piazza del paese, durante il quale i partigiani hanno catturato 32 SS italiane e 2 sottufficiali germanici, è scattata una massiccia rappresaglia con il fermo indiscriminato di tutta la popolazione maschile. Due giorni dopo, senza attendere l’esito delle trattative con il comando partigiano per uno scambio di prigionieri, cinquantuno ostaggi sono stati fucilati: il più giovane è un ragazzo di quattordici anni, il più anziano un contadino di settantatré. Per la piccola comunità di Cumiana il peso è troppo forte per immaginare di riscoprire la normalità, e quando la guerra sta per finire, giunge la resa dei conti. Il 3 maggio 1945 una squadra delle SAP cattura a Torino Giuseppe Durando, il podestà di Cumiana, un fascista convinto che dopo l’eccidio è fuggito dal paese: egli non ha responsabilità dirette in quanto è accaduto, ma agli occhi della popolazione ne è il responsabile morale. Durando viene portato nella piazza di Cumiana e la sua sorte è segnata: «Fatti segno a sberleffi, preso a calci, stordito, l’ultimo fascista cumianese viene sospinto giù dall’automezzo.


La violenza popolare non è più trattenuta: l’uomo viene tormentato con forbici taglienti, con zoccoli sbattuti in faccia». A colpire sono soprattutto le donne, le vedove, le orfane, le madri di quelli fucilati un anno prima. Già agonizzante, «l’uomo viene infine portato nel prato a monte del cimitero, e lì fucilato a colpi di mitra».27 Così il linciaggio popolare prolunga oltre la liberazione l’ombra inquietante della guerra, ribadendo nel piccolo borgo di provincia gli atteggiamenti della grande città. Analogo il linciaggio subito a Villadeati, un piccolo borgo del Monferrato, dal maggiore tedesco Mayer, comandante della piazza di Casale, che il 9 ottobre 1944 ha guidato in paese un feroce rastrellamento concluso con la fucilazione di dieci ostaggi. Rintracciato in un campo di prigionia vicino ad Asti, il 30 aprile 1945 il maggiore viene condotto a Villadeati da Bartolomeo Paschero “Tromlin”, vicecomandante della brigata garibaldina operante nella zona, il quale subito dopo l’eccidio aveva promesso che Mayer avrebbe reso conto a tutto il paese della sua crudeltà di nazista. Quanto accade è sintetizzato in una raccolta di memorie partigiane, reso con una prosa tanto rapida quanto eloquente: «Vi arrivano a pomeriggio avanzato, all’ora dell’Angelus, ancora molto osservato in campagna. “Tromlin” entra nella chiesa stipata di gente che, nel vederlo, si agita e si distrae. Il prete affretta la fine della funzione. Allora “Tromlin” annuncia: “Gente, io ho mantenuto la promessa: fuori c’è il maggiore Mayer. È tutto vostro, facciamo in fretta”. E la brava gente, la semplice, pacifica, laboriosa gente di Villadeati fece in fretta».28 In altre situazioni le piazze non si riempiono per le esecuzioni, ma per manifestazioni di dileggio, nelle quali la violenza appare più trattenuta e la rabbia popolare si esprime attraverso le ingiurie e le derisioni. È il caso delle “tosature”, la pratica di radere a zero i capelli a ragazze accusate di


complicità con il fascismo e di esporle nei luoghi pubblici con appesi al collo cartelli infamanti. I documenti sono essenziali nel riferirne: «Moltissime donne rapate, cosparse di minio e messe alla berlina dal furore popolare», si legge in una relazione partigiana sulla liberazione di Asti;29 «alcune donne sono state tosate e fatte circolare per il paese con cartelli al collo», scrive un documento della divisione autonoma “Sergio De Vitis”, operante nel torinese.30 Che si tratti di linciaggio o di manifestazioni di irrisione, il tratto caratterizzante di una diffusa rabbia popolare è ricorrente: a testimoniarlo sono le stesse fonti fasciste, che da un lato riconducono la responsabilità esclusiva allo spirito di vendetta dei partigiani comunisti, ma dall’altra descrivono dovunque folle pronte all’ingiuria, alla derisione e alla violenza. Gli esempi sono innumerevoli. Il colonnello dell’aviazione Felice Fiorentini, protagonista della lotta antipartigiana nell’Oltrepò pavese, viene fucilato il 3 maggio a Piane di Varzi, nello stesso luogo dove un anno prima ha fatto fucilare tre giovani di Crociglia: prima dell’esecuzione, «viene trascinato nei paesi dell’Oltrepò ed esposto al ludibrio della folla inferocita. A Voghera è circondato da una plebaglia che lo offende, sputacchia, malmena. Una donna lo colpisce alla testa con il tacco di uno zoccolo». Renato Morotti, comandante del presidio della Brigata nera di Sanremo, viene «malmenato da una folla tumultuante» prima di essere fucilato. Analoga sorte tocca a Maria Locarno, segretaria del fascio di Arsiero, nel vicentino, fucilata «dopo essere stata costretta ad attraversare il paese tra la folla imbestialita, tra la quale si nota un’ampia rappresentanza femminile»; e ancora, violenze e insulti per Pietro Maffeo a Biella, per il maggiore Giuseppe Gagliardi ad Alba, per Tullio Santi e Mario Maffei a Carpenedo, in provincia di Venezia.31 Nella sua drammaticità, l’uscita dalla guerra 1943-45 è un fatto collettivo: il conflitto ha coinvolto tutti, senza lasciare margini di astensione, e ora tutti


hanno debiti da saldare, con gli altri e con se stessi. A giustiziare sono le armi dei partigiani, ma sullo sfondo c’è la rabbia della gente comune, il rancore troppo a lungo soffocato che esplode impetuoso, l’ansia di liberarsi con violenza da un passato violento. Le piazze diventano il luogo privilegiato della resa dei conti e la punizione si spettacolarizza, corrispondendo a un bisogno diffuso di conferma e sanzionando la fine di un’epoca con atti irreversibili.


1

Testimonianza di Robert Gordon Edwards, ufficiale statunitense testimone oculare dei fatti, riportata in Mirco Dondi, “Piazzale Loreto”, in Mario Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Bari 1996, p. 492. 2 Camilla Cederna, Milano in guerra, Feltrinelli, Milano 1979, p. 30 (la testimone oculare citata è la madre dell’autrice). 3 Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, Mondadori, Milano 1986, p. 298. 4 Oreste Del Buono, La debolezza di scrivere, Marsilio, Padova 1987, pp. 49-50. 5 Testimonianza riportata in Mirco Dondi, “Piazzale Loreto”, cit., p. 494. 6 Cfr. Luisa Passerini, “Mussolini”, in Mario Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Laterza, Bari 1997, p. 183. 7 Testimonianza citata in Mirco Dondi, “Piazzale Loreto”, cit., p. 498. 8 Cfr. Giovanni Pesce, Quando cessarono gli spari, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 146-47. 9 Sergio Luzzatto, Il corpo del duce, Einaudi, Torino 1998, p. 66. 10 Luisa Passerini, “Mussolini”, cit., p. 184. 11 Manifesto del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia, datato 29 aprile 1945. 12 Sergio Luzzatto, Il corpo del duce, cit., p. 60. 13 Ibid., p. 64. 14 Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, p. 38. 15 Mirco Dondi, “Piazzale Loreto”, cit., p. 497. 16 Salvatore Quasimodo, “Alle fronde dei salici” da “Giorno dopo giorno”, in Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1960, p. 227. 17 Luisa Passerini, “Mussolini”, cit., p. 182. Cfr. Mario Isnenghi, “Il corpo


del duce”, in Sergio Bertelli, Sergio Grottanelli (a cura di), Gli occhi di Alessandro. Potere umano e sacralità del corpo da Alessandro Magno a Ceausescu, Ponte alle Grazie, Firenze 1990, p. 175 e sgg. 18 Carlo Emilio Gadda, Lettere agli amici milanesi, Il Saggiatore, Milano 1983, p. 50. 19 Mirco Dondi, “Piazzale Loreto”, cit., p.496. 20 Alessandro Fontana, La scena, in “Storia d’Italia”, Einaudi, Torino 1972, vol. I, p. 865. 21

Ibid., p. 876. 22 Giuseppe Graneri, Tra rischi e pericoli. Resistenza, liberazione, persecuzione contro gli ebrei: fatti e testimonianze, Alzani, Pinerolo 1981, p. 82. 23 La sentenza della Giunta regionale di governo per il Piemonte è riportata in Giorgio Vaccarino, Carla Gobetti, Romolo Gobbi, L’insurrezione a Torino, Guanda, Parma 1968, pp. 318-19. 24 Il rinvio dell’esecuzione di Cabras è dovuta all’incertezza nell’identificare il “vero” Giovanni Cabras. Secondo le fonti fasciste (Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia 1943-45, Edizioni val Padana, Milano 1974, vol. III, p. 1628) a Torino tre persone sono state giustiziate erroneamente come Giovanni Cabras. 25 Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, sottotenente di fanteria, dopo l’8 settembre è tra i primi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca e assume il comando di un nucleo di circa 150 uomini attestati nella zona di Boves. Viene arrestato nell’aprile 1944 a Torino, dove si è recato in missione, e lungamente torturato. Secondo la testimonianza di Enrico Martini “Mauri”, Vian viene portato all’impiccagione in barella perché in carcere si è svenato nel timore di non reggere alla tortura. 26 Giuseppe Graneri, Tra rischi e pericoli, cit., p. 83. 27 Marco Comello, Cumiana tra le due guerre, Alzani, Pinerolo 1998,


p.196. 28 Gianni Dolino, Anche i boia muoiono, Edizioni AGT, Torino 1992, p. 93. 29

Giancarlo Carcano, Strage a Torino, La Pietra, Milano 1973, p. 82. 30 Il documento è riportato in Gianni Oliva, La resistenza alle porte di Torino, Angeli, Milano 1989, p. 270. 31 Le testimonianze sono tratte dal sito “Repubblica sociale italiana”, curato dall’Associazione storico-culturale Italia-RSI. Sul tema cfr. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano 2003.


2 Violenza e guerra civile

Il problema della violenza Per comprendere la “resa dei conti” bisogna partire dal dato oggettivo che il 1943-45 ha avuto un tratto marcato di guerra civile. «I fascisti per noi erano degli stranieri come e più dei tedeschi», scrive Nuto Revelli in un’intervista significativamente intitolata: “Fucilavamo i fascisti e non me ne pento”.1 Per il fronte fascista l’espulsione del “ribelle” dal corpo sociale della nazione discende invece dal tradimento dei valori: «No, non sono italiani quelli che si schierano con i vincitori, che gettano fango sulla nostra storia e sui nostri morti».2 Pur sviluppandosi all’interno di una guerra di liberazione patriottica e pur intrecciandosi per alcuni aspetti a una guerra di classe, la guerra civile emerge così come il tratto psicologicamente più saliente del periodo 1943-45. Da un lato c’è un occupante straniero che si presenta sotto un’insegna ideologica del tutto nuova e trova sostegno in un seguito di forze italiane, politicamente rappresentate dal fascismo repubblicano e istituzionalmente organizzate nella Repubblica sociale; dall’altro, c’è un’opposizione che sin dall’autunno

1943

scende

sul

terreno

della

lotta

armata,

senza

necessariamente richiamarsi all’autorità di un governo legittimo, ma schierandosi sulla base di una scelta etico-politica variamente motivata. Entro questo schema, lo scontro tra fascismo e antifascismo rappresenta il cuore


stesso degli eventi che caratterizzano il periodo, la ragione ideale per la quale si combatte: il che, al di là di qualsiasi strumentalizzazione di parte, rinvia necessariamente alla categoria interpretativa della guerra civile, la più idonea sul piano scientifico a offrire una chiave di lettura generale degli avvenimenti. Il dato comune a tutte le guerre civili è l’esasperazione della violenza. Non si tratta, beninteso, di un problema numerico (sul piano della quantità degli uomini caduti, gli assalti tra le trincee della prima guerra mondiale o i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki costituiscono limiti tragici e insuperati, pur essendosi sviluppati nel quadro tradizionale di guerre tra stati); e non si tratta neppure di “legittimità” della violenza (in molte guerre alle truppe è stata data ampia licenza di sevizie e di stupri e le morti in combattimento si sono intrecciate con i massacri di civili).3 Si tratta, invece, di un’atmosfera di violenza che attraversa in profondità l’intero corpo sociale, contagiandolo in tutte le sue componenti e assuefacendolo a uno scenario di morte. Il primo elemento di una guerra civile è infatti la rottura del monopolio statale della violenza e «lo scontro tra i contendenti per imporre su tutto il territorio il proprio monopolio, alternativo e sostitutivo rispetto a quello dell’altra parte».4 Nell’Italia del 1943-45 non c’è l’autorità riconosciuta di uno stato a garantire la legittimità dell’uso della forza, né ci sono apparati statali (forze armate o di polizia) delegati a esercitarla. Il problema è più evidente per i resistenti partigiani, che devono trovare nella propria coscienza la legittimazione della lotta e solo con uno sforzo intellettuale possono richiamarsi all’autorità lontana del Regno del Sud, ma in parte vale anche per i fascisti di Salò: la Repubblica sociale garantisce infatti la copertura istituzionale e l’inquadramento in formazioni militari o paramilitari, ma è


essa stessa frutto di una rottura nella tradizione statale nazionale e implica un’adesione individuale a quella rottura. In un quadro dove l’esercizio della forza sfugge al controllo dello stato per trasferirsi ai singoli individui, la soglia della violenza viene automaticamente a elevarsi, mentre sfumano le regole entro le quali essa è ordinariamente esercitata: ogni cittadino può trovarsi con un fucile in mano, o nella necessità di imbracciarlo perché minacciato, ognuno può diventare combattente, nell’uno o nell’altro fronte. Tutto questo introduce nella collettività un’atmosfera sconosciuta prima dell’armistizio dell’8 settembre, una licenza di uccidere che trova ragione nelle motivazioni alte della contesa, ma che proprio per questo alza il livello dello scontro, sottraendo la morte all’anonimato della guerra al fronte per trasformarla in un atto deliberato dove si è costretti a guardare il nemico negli occhi prima di ucciderlo. «Dappertutto», è stato scritto, «la guerra ha diffuso una facile crudeltà, una crudeltà inconsapevole e piatta che è la peggiore linfa dell’uomo. L’orribile senso del gratuito, dell’omicidio non necessario. Tolti i ritegni, diviene consuetudine uccidere e punire è diventato un esercizio. L’orrenda debolezza dell’uomo è venuta fuori, la debolezza dell’uomo che può comandare.»5 La violenza della “guerra regolare” si trincera dietro l’alibi morale dell’ordine ricevuto. La violenza della guerra civile entra invece nelle coscienze individuali, si parcellizza in un’infinità di gesti singoli, spesso costringe alla scelta anche le persone più refrattarie. È una violenza assai più coinvolgente sul piano psicologico e assai più ravvicinata sul piano spaziale: è la guerra sotto casa, con i morti nelle piazze, nelle strade, sul sagrato della chiesa; è la guerra dove cade il combattente in divisa, ma dove da un momento all’altro possono cadere anche il conoscente inerme della porta accanto, il bottegaio abituale, il sacerdote, l’amico incontrato un’ora prima. Il secondo elemento della guerra civile è la non riconoscibilità del


nemico. Visibili sono gli uomini in divisa, le Brigate nere, le divisioni del maresciallo Graziani: meno visibili, ma comunque individuabili, sono i partigiani, armati anche se non irreggimentati. Ma dove sono, e chi sono, le spie, gli informatori, i complici del nemico, i traditori? Possono essere tutti e nessuno, annidarsi all’interno del proprio reparto o della propria banda, oppure tra la popolazione civile più insospettabile; possono essere gli anonimi della “zona grigia”, coloro che cercano di ritagliarsi uno spazio silenzioso di neutralità in attesa di schierarsi con il vincitore; oppure possono essere gli equilibristi del doppio gioco, pronti sempre alla delazione più conveniente. La non intelligibilità del nemico, l’alone di incertezza che avvolge la linea di demarcazione tra i contendenti, crea uno stato permanente di sospetto e di paura, cui è legata gran parte delle guerre civili: «L’incertezza, l’angoscia, la paranoica diffidenza, generate da una guerra senza fronti chiari, senza retrovie sicure, dove il vicino di casa, l’antico compagno di scuola, il gioviale portalettere, il solerte farmacista possono nascondere la spia, il traditore, il delatore, il nostro futuro assassino: dove un nucleo armato può sorgere improvvisamente dai fianchi o alle spalle, da un vecchio magazzino o dal retrobottega, in soccorso del nemico che sta di fronte; tutto ciò può scatenare eccessi di violenza sfrenata, rigurgiti di barbarie. È l’effetto “quinta colonna” che presiede le più efferate operazioni di “limpieza” (pulizia) nel corso della guerra civile spagnola, che produce la legge dei sospetti durante il Terrore, che scatena a volte o potenzia le attitudini alla persecuzione»;6 ancora, è l’aggressività che ispira i rastrellamenti nazifascisti, dove l’accusa di complicità con il ribellismo giustifica ogni genere di violenza contro i civili; ed è la durezza che si esprime da parte resistenziale nei confronti delle presunte spie, eliminate a volte per colpe approssimativamente stabilite perché, come scrive un


documento di partigiani del Friuli, «l’eliminazione delle spie è più importante degli atti di sabotaggio».7 Il terzo elemento di una guerra civile è il suo carattere “totale”: permane, beninteso, una maggioranza di individui non schierati, che cercano di ricavarsi uno spazio di renitenza alla lotta, ma è proprio in quest’area che le minoranze attive devono alimentare le proprie forze. «In mezzo e dentro i fronti delle due minoranze in conflitto continua ad estendersi la zona grigia», ha scritto Gabriele Ranzato a proposito della guerra civile spagnola. «Imbelle e incolore, essa è disprezzata da entrambe per la sua pavidità e coloro che la compongono sono considerati dai combattenti cittadini di secondo rango, che è lecito sottomettere, sacrificare, usare. Su di essi la costrizione a prendere parte si esercita attraverso una violenza indiretta, provocando in loro spirito di vendetta, esponendoli a rappresaglie, creando concatenazioni di atti sanguinari, coinvolgimenti, punti di non ritorno.»8 Nella realtà italiana del 1943-45 questo schema interpretativo non è automaticamente applicabile perché una delle due parti deve combattere una guerra per bande. La violenza esercitata dal movimento partigiano consiste infatti nell’esposizione del territorio alla repressione della controguerriglia, ma generalmente non assume forme di costrizione diretta, se si escludono le requisizioni di generi alimentari pagati con buoni esigibili a vittoria ottenuta. All’opposto, anzi, le bande devono legittimarsi agli occhi della popolazione in mezzo alla quale operano per poter sopravvivere e devono reprimere coloro che eventualmente si macchiano di atti di usurpazione. L’atteggiamento del fascismo repubblicano corrisponde invece allo schema indicato. La costrizione viene esercitata in primo luogo con la chiamata alle armi, che nella condizione di precaria legittimità della guerra civile è avvertita come un estremo sopruso, tanto da provocare l’effetto di alimentare le forze avverse. In secondo luogo,


la violenza viene esercitata attraverso rastrellamenti e rappresaglie contro una popolazione considerata nemica nella sua globalità. Agli occhi dei fascisti di Salò, gli italiani sono in larga parte dei “traditori”, uomini che nelle adunate del Ventennio hanno osannato Mussolini come duce invitto, e che poi gli hanno voltato le spalle schierandosi con i vincitori: dunque, essi sono nel complesso uomini indegni, che non meritano né tolleranza né pietà. In questa chiave di lettura, il periodo 1943-45 esce dai contorni generali delle guerre civili e si complica per la specificità del caso italiano. Nel momento stesso in cui inizia, la guerra civile ha un esito segnato: le armate angloamericane sono ormai saldamente stabilite nell’Italia meridionale, l’Armata rossa preme dai confini dell’Europa orientale, la Germania è in arenamento su tutti i fronti. Lo scontro può durare ancora qualche mese o due anni, ma chi saranno i vincitori e chi i vinti è già scritto. Di questo destino storico, molti dei fascisti che aderiscono alla Repubblica sociale sono consapevoli e da questa consapevolezza scaturisce l’esasperazione dei comportamenti. «Avevo la sensazione di essere stato sradicato», scrive Carlo Mazzantini, «e questa sensazione si trasformava in rabbia sorda, in rifiuto di una passiva accettazione.»9 Per sfuggire alla verità che metterebbe in discussione

tante

storie

individuali,

scattano

i

meccanismi

di

autoconservazione della propria identità e si entra nelle file della RSI non per raggiungere una vittoria impossibile, ma per «cercar la bella morte». Avvolta nell’ombra cupa di una catastrofe annunciata, la militanza fascista si veste di mortuarietà: «Potrò guardare in faccia la morte, sfuggirla, divertirmi con essa» scrive un’ausiliaria della RSI. «Giocare a rimpiattino deve essere bello. Le volontarie in camicia nera non temono la morte e prendono tutto con filosofia. Così viviamo guardando in faccia alla morte col sorriso sulle labbra.»10 Un giovane brigatista scrive: «Saper morire era il nostro rovello:


tutta la nostra mistica del coraggio ruotava attorno a quella capacità di affrontare la morte. Un uomo valeva per come sapeva morire».11 Nella coscienza di molti militanti della RSI, il valore della lotta si esaurisce nella lotta stessa, perché non esistono prospettive credibili di successo. Il nesso tra questa condizione psicologica e l’esasperazione della violenza è evidente: «Nei fascisti la mancanza di futuro non solo esasperava la mortuarietà, ma rendeva particolarmente mostruosa ai loro occhi la figura del nemico, contribuendo a trasformarlo, assai più di quanto avvenisse tra i partigiani, in “nemico assoluto”. Il nemico non era più un ostacolo da rimuovere lungo il cammino, ma diventava qualcosa il cui annientamento assorbiva tutto il progetto dell’azione violenta».12 Il furore diventa autoreferenziale e giustificazione di se stesso, sfera irrazionale nella quale si rifugia un’identità sconfitta. Nel romanzo autobiografico A cercar la bella morte, Carlo Mazzantini ha ben sintetizzato questo stati d’animo mettendo in bocca ad uno dei

camerati

impegnato

nei

rastrellamenti

antipartigiani

parole

drammaticamente significative: «Morire per la Patria, per l’Idea! No, è una scappatoia! Anche al fronte uccidi. Morire è niente, non esiste. Nessuno riesce a immaginare la propria morte. È uccidere il punto! Varcare quel confine! Quello si è un atto concreto della tua volontà. Perché lì vivi, in quella di un altro, la tua. È lì che dimostri di possedere qualcosa che senti valere più della tua vita: della tua e di quella degli altri».13 Nel quadro di questa esasperazione culturale e psicologica, l’aggressività fascista si esprime verso un nemico che non è solo il partigiano o il singolo civile che lo aiuta apertamente ma, spesso, l’insieme della popolazione, colpevole di non essersi schierata con la RSI. Il senso di isolamento, l’angoscia di una causa senza futuro, la debolezza manifesta generano un’avversione indiscriminata vero tutto ciò che è altro da sé. Su questo piano,


la violenza della RSI si incrocia con un altro elemento caratterizzante del 1943-45, la presenza occupazionale tedesca e gli eccidi nazisti. Secondo Gerhard Schreiber, il numero complessivo dei civili assassinati da militari della Wehrmacht e delle SS tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 è di 9180, in buona parte donne, anziani e bambini.14 Alcune stragi sono entrate nella coscienza collettiva nazionale, dalle Fosse Ardeatine a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema; altre sono profondamente radicate nella memoria locale, come Boves, Civitella, Guardistallo, Caiazzo, Gubbio, Forno di Coazze, Cumiana. Alle stragi collettive, che in quanto tali presuppongono una direzione dall’alto, si associano gli omicidi commessi individualmente e scaturiti da tentativi di saccheggio, da colpi sparati per intimidazione, da reazioni incontrollate. In Italia i comandi militari germanici applicano i modelli di condotta di antiguerriglia sperimentati nei Balcani e sul fronte orientale e che prevedono la repressione indiscriminata nelle zone partigiane: «I massacri di popolazione civile sono stati commessi per la maggior parte nell’ambito di cosiddette “azioni contro le bande”, all’interno di territori dichiarati dalle autorità tedesche “Bandengebiet” (territori di bande). Con ciò non si intende affermare l’esistenza di un’intima connessione tra assassinio di civili e lotta contro i partigiani. Vi era invece una connessione diretta con la lotta contro ciò che le unità tedesche intendevano con il termine “bande”: la soggettiva valutazione tedesca delle “bande” deve essere distinta dallo sviluppo oggettivo del movimento partigiano. La brutalità della “lotta contro le bande” non aveva connessione con il pericolo rappresentato dai partigiani. Perlopiù si trattava non di una risposta ad una reale minaccia, quanto piuttosto di “azioni punitive”. Solo così è spiegabile il fatto che azioni partigiane di importanza relativa, compiute in zone che non erano assolutamente tra i maggiori centri partigiani, provocarono azioni di


repressione particolarmente brutali».15 Ai civili assassinati si associa un’altra costante della politica occupazionale, l’arresto e la deportazione dei nemici (reali o supposti tali): ebrei, collaboratori del movimento ribellistico, cittadini sospettati di attività antitedesca, operai che partecipano alle agitazioni di fabbrica, persone rastrellate a caso nelle zone partigiane. Rinchiusi nelle carceri o nei campi di concentramento in Italia, costoro vengono deportati nei lager e costituiscono un numero di vittime difficile da quantificare, ma certamente nell’ordine di diverse migliaia. A queste vittime civili, vanno aggiunte le uccisioni di partigiani, i quali «consideravano se stessi, o venivano considerati da parte tedesca, combattenti, non civili estranei, anche se per molto tempo fu negato loro lo status di combattenti, con le conseguenze di diritto internazionale da esso derivanti»:16 47 720 caduti secondo i dati forniti nel 1954 dal Servizio commissioni per il riconoscimento della qualifica partigiana. E, ancora, vanno aggiunte tutte le violenze individuali, per le quali non esiste quantificazione: gli stupri, i furti, gli incendi di abitazioni, saccheggi, le devastazioni. Di alcune stragi autori materiali sono i reparti tedeschi (in particolare di quelle compiute a ridosso del fronte), ma in tutti gli altri casi sono coinvolte le formazioni armate della Repubblica sociale, brigatisti neri, militi della Guardia nazionale repubblicana o della Decima MAS, SS italiane, soldati delle divisioni dipendenti dal maresciallo Graziani. In questo quadro operativo generale, la distinzione di responsabilità tra tedeschi e fascisti si annulla nella percezione dei contemporanei. Per la popolazione dei territori occupati, la violenza subita è da ricondurre a una responsabilità collettiva: responsabili i tedeschi, responsabile Mussolini che ha voluto la guerra, responsabile il fascismo di Salò alleato con la Germania, responsabili i “repubblichini”. La


brutalità della repressione è la norma occupazionale, il clima di intimidazione e di minaccia attraversa il Paese senza risparmiare nessuno: il “fascista” che all’interno della comunità rappresenta il regime, sia esso il federale, il podestà, il comandante del presidio o semplicemente il saloino convinto che ostenta le sue idee, diventa automaticamente il soggetto a cui ricondurre la colpa di quel clima e di quella brutalità. L’intreccio tra guerra civile e occupazione germanica carica così l’atmosfera di ulteriori valenze negative, in una continua “escalation” di atrocità e di violenze: nell’immaginario popolare il concetto giuridico di “responsabilità soggettiva” sfuma in quello, gravido di conseguenze drammatiche, di “responsabilità collettiva”, dove la colpevolezza è stabilita a priori.

Le ragioni del furore popolare A fine aprile 1945 le condizioni sono mature per un epilogo di furore: paradossalmente, l’eccezionalità dei tanti “piazzale Loreto” rientra in una drammatica normalità, maturata nella spirale di violenza dei lunghi mesi precedenti. Il furore è ancora “dentro” la guerra, dentro “quella” guerra, e corrisponde a un bisogno epurativo complesso e contraddittorio. Le sofferenze, le rabbie, le paure e tutto quanto è stato patito per venti mesi richiedono una riparazione, una forma, per quanto macabra, di risarcimento morale. Alla gente non basta sapere che tutto è finito, che il nazifascismo è stato sconfitto, che i comandi tedeschi si sono arresi: la gente (o, almeno, “molta” gente) vuole vedere i vinti, constatarne direttamente la sconfitta, infliggere o vedere infliggere la pena. E i vinti non sono tanto i soldati germanici, odiati e temuti, ma anonimi nelle loro divise di stranieri: i vinti sono soprattutto i fascisti di Salò, quelli che parlano la stessa lingua e che per


la loro scelta si sono trasformati in “stranieri interni”. Il fascista repubblicano non ha la protezione dell’anonimato: anche se come individuo non è conosciuto, simbolicamente rappresenta tutti i conoscenti che si sono schierati con l’occupante, l’antico compagno di scuola, il collega di lavoro, il compaesano. Eliminarlo, o comunque punirlo in forma spettacolare, significa vendicare ciò che si è subito ed epurare la comunità nel senso più letterale del termine, renderla “pura” per iniziare una stagione nuova: «A parte ogni altra considerazione di carattere militare, i tedeschi non avevano nulla da spartire con il nostro futuro: sarebbero tornati in Germania, o si sarebbero consegnati agli Alleati. I fascisti no: i fascisti erano parte d’Italia, per il passato, per il presente e per il futuro. Dopo tanti mesi di sangue, non si poteva immaginare una convivenza senza prima una “purga”, una resa dei conti».17 D’altra parte, il fascismo non è soltanto la RSI: esso è il retroterra comune di tutto il popolo italiano, l’esperienza e l’educazione di due decenni. Infierire contro il corpo morto di Mussolini in piazzale Loreto è la forma più diretta del processo di auto liberazione, ma in tutte le piazze il rito assume un carattere analogo. Disumanizzare il nemico, estrometterlo, annientarlo, non serve soltanto a consolidare la propria identità, ma a negare un’antica identità comune, quella che invece il nemico ha voluto conservare. A fine aprile si fanno i conti con il proprio passato, non solo con gli ultimi venti mesi di guerra. Quanto più feroce è la stagione dalla quale si esce, tanto più feroci sono le modalità dell’uscita. La violenza è entrata nel paesaggio quotidiano degli italiani, così come la licenza di esercitarla: in assenza di uno stato che avoca a sé il diritto di usare la forza, tutto sembra essere diventato lecito. È evidente che questo rappresenta un arretramento della civilizzazione e apre lo spazio alle degenerazioni, dove «il “bisogno” epurativo a volte sembra sorpassare e


smarrire il “criterio” epurativo»:18 ci sono eccessi di violenza, ci sono brutalità in giustificate, ci sono vendette private camuffate dietro l’alibi della giustizia politica e dell’ideologia. La guerra civile rappresenta, d’altra parte, un ritorno alle forme primarie della guerra: «Dal punto di vista psicologico, risulta più appagante sfogare il proprio odio su persone conosciute, e quindi sul proprio immediato vicino. Di conseguenza la guerra civile non è soltanto una consuetudine antica, bensì la forma primaria di tutti i conflitti collettivi».19 Il regresso allo stato primario del conflitto implica, d’altra parte, il riaffacciarsi di atteggiamenti antichi, superati dalla cultura dei secoli XIX e XX ma, secondo una lettura antropologica, latenti nell’animo umano: il furore

popolar di fine aprile richiama facilmente le processioni penitenziali che nell’Antico Regime accompagnavano il condannato al supplizio. In quelle processioni brutali «rivive lo spirito della muta da caccia e la furia dell’antica massa che in tempi preistorici aveva eseguito il più antico rituale della pena capitale, la lapidazione per mano collettiva».20 Esemplari, per cogliere la durezza e la contraddittorietà delle violenze di fine aprile, le considerazioni di Enzo Barbano, testimone quattordicenne di quanto accade a Varallo, in Valsesia: nelle sue memorie, il ricordo di un corteo di fascisti e di ausiliarie prigionieri, fatti sfilare nella piazza del paese, sollecita una triplice riflessione su ciò che accade nell’aprile 1945, su ciò che è accaduto nei mesi precedenti, su ciò che accadeva nei secoli passati in quella valle piemontese: «Tutte le campane suonavano, la piazza era di nuovo piena di gente. Avanzò uno strano corteo. Una ventina di fascisti e di loro ausiliarie, tratti dalle carceri ove erano stati tradotti in quei giorni, venivano fatti sfilare per Varallo in mezzo a partigiani armati. Ognuno aveva sulla schiena un pezzo di stoffa con su scritto “brigante fascista n…”. Al n. 1, una figura alta, veniva fatto impugnare un lungo bastone con in cima il cartello


“noi siamo i briganti neri”. Il gruppo fu portato poi in piazza e allineato nello spazio a fianco del Teatro Civico. Salii in una casa attigua da dove si vedeva distintamente. I fascisti venivano malmenati. Alcune ausiliarie rapate con le forbici. Arrivò il Pegsu, accolto da gran battimani. Alto, col cappello alpino e camicia ricavata dalla seta dei paracadute, come si usava in quei giorni. Si avvicinò ai fascisti e, sovrastando con la statura le donne rapate in prima fila, gridò loro: “Mi fate pena!”. In disparte, mio zio osservava la scena, fortemente impressionato, e mormorava quasi tra sé: “… che cose orribili devo vedere!”. Io, nell’impeto dei quattordici anni, esclamai: “Giusto, invece. Loro che cosa hanno fatto?”, o qualcosa del genere. Sta di fatto che mio zio mi vibrò un cazzotto». La rievocazione sofferta della scena induce l’autore a ripensare a ciò che la Valsesia ha subito durante i venti mesi di occupazione tedesca: «Oggi, nella maturità, sono perplesso. È difficile dare un giudizio su tutte quelle cose per chi, a quattordici anni, vi si è trovato nel mezzo. Più di quattrocento morti in venti mesi, più delle perdite subite dalla Valsesia nella prima guerra mondiale. Penso ai partigiani impiccati di Quarona. Passando sotto quel ponte, ogni giorno, ho l’impressione di vedere profilarsi dall’alto, sul parabrezza dell’auto, lunghe ombre ciondolanti e ammonitrici. Il ponte è chiamato “ponte della pietà” perché vi sorgeva la Cappella della Pietà, demolita per farvi passare la ferrovia. Nel 1944, invece, si diceva in Valsesia “pietà l’è morta”. Pare sia vero che uno dei cinque partigiani è stato impiccato due volte perché la corda si è rotta». Una lotta esasperata, senza misericordia. La memoria dell’autore spazia ai sistemi di eliminazione fisica tradizionali nella vallata: «Una volta, dalle nostre parti, la resa dei conti avveniva con un suo rituale. Candela accesa sul fondo di una scatola di cartone cosparsa di foglie secche. Il pirovendicatore collocava tutto nel bosco del nemico e poi correva giù di corsa nel paese a cercarsi l’alibi nelle osterie,


mentre l’incendio cominciava a divampare. La vendetta all’ultimo sangue avveniva invece aggredendo le vittime in località isolata e percuotendole con sacchetti di sabbia. La morte sopraggiungeva giorni dopo, per lesioni interne, senza tracce apparenti. Si sussurra che gli ultimi casi di “insaccamento” siano ancora avvenuti questo secolo». Storia di violenze e di esecuzioni. L’autore ritorna sulla scena di fine aprile: «Sulla piazza un fascista, vecchiotto, tremava. Aveva lo sguardo fisso e si bagnava addosso. I piedi erano in una pozzanghera. Nel gruppo c’era anche un fascista molto giovane. Guardandolo pareva che stesse per chiamare la mamma. Ma di mamme quel giorno non ce n’erano». La conclusione è un giudizio sospeso: «Mentre mi avvicinavo a quel gruppo di disgraziati, cominciai a pensare che lo zio avesse ragione. Cercavo, sul viso di quei fascisti pestati, i tratti di quello che voleva fare il bagno alle donne della montagna o di quel milite che asseriva di non trovare gusto a fucilare un inerme, ma non riuscivo a trovarli. Questi erano come povere bestie inermi, alla mercé dell’uomo».21 Rabbia e commozione, ingiurie esacerbate e amarezza pensosa, passato e presente: la guerra finisce in un groviglio inestricabile di sentimenti contrastanti. Di fronte ai tanti “piazzale Loreto” non ci sono né assoluzioni, né condanne, né spiegazioni ideologiche: c’è, semmai, la registrazione di un evento traumatico che non ha nulla di casuale, ma discende per intero dalle sedimentazioni prossime e remote della storia nazionale: «Posso dire che mi sono vergognata, a posteriori, per quanto accaduto a piazzale Loreto», racconta una testimone, «ma a che cosa serve? Non si possono giudicare i momenti eccezionali con il metro della normalità. In quei giorni c’era qualcosa di molto più grande di noi, più grande di tutti quelli che sono andati in piazza a Milano o di quelle come me che sono andate a vedere l’impiccagione di Solaro a Torino. C’era la nostra storia di italiani, con tutte


le sue contraddizioni: c’erano quelle come me, che nel 1939 ero stata a sentire Mussolini in piazza Vittorio con le altre matricole di Magistero e poi ero corsa a Mirafiori per vederlo una seconda volta. Per poter riprendere a vivere, bisogna seppellire le colpe: probabilmente, nell’aprile 1945 non era possibile farlo in modo meno brutale».22


1

Nuto Revelli, intervista a “la Repubblica”, 16 ottobre 1991. 2 Carlo Simiani, I “giustiziati fascisti” dell’aprile 1945, Omnia, Milano 1949, p. 86. 3 Nella stessa campagna d’Italia c’è l’episodio degli stupri e delle violenze perpetrati dalle truppe francesi del generale Alphonse-Pierre Juin nel frosinate nella primavera 1944, dopo la conquista di Montecassino, reso celebre da Alberto Moravia nel romanzo La ciociara e da Sophia Loren nell’interpretazione cinematografica. 4 Gabriele Ranzato, “Un evento antico e un nuovo elemento di riflessione”, in Gabriele Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. XXXVI. 5

Giaime Pintor, Doppio diario (1936-1943), Einaudi, Torino 1975, p. 110. 6 Gabriele Ranzato, Un evento antico e un nuovo elemento di riflessione, cit., pp. L-LI. 7

Il documento, senza indicazione di data, è citato in Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 474. 8 Gabriele Ranzato, Un evento antico e un nuovo elemento di riflessione, cit., p. XLVIII. 9

Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, Marsilio, Padova 1986, p. 136. 10 Lettera dell’ausiliaria Sara Corsellini, datata 14 marzo 1945, citata in Maria Fraddosio, Donne nell’esercito di Salò, in “Memoria”, n. 4, giugno 1982, p. 73. 11 Lettera alla madre del brigatista nero Ferdinando Mugnaini, citata in Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 432. 12 Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, cit., p. 139. 13 Ibid., p. 133. 14 Gerhard Schreiber, La Wehrmacht e la guerra ai partigiani in Italia, in


“Studi Piacentini”, n. 15/1994, pp. 97 e sgg. 15 Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli, Roma 1997, p. 19. 16 Ibid., p. 28. 17 Testimonianza di Antonia Gennaro, di Torino, classe 1916, medico ospedaliero, raccolta dall’autore il 6 maggio 1988, depositata presso l’Archivio dell’Istituto storico per la Resistenza in Piemonte. 18 Gabriele Ranzato, Un evento antico e un nuovo oggetto di riflessione, cit., p. XXIV. 19

Hans Magnus Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, Torino 1994, p. 4. 20 Wolfgang Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998, p. 114. 21 Enzo Barbano, Il paese in rosso e nero. Diario 1943-1945, edizioni Comune di Varallo, Varallo (VC) 1985, pp. 128-131. 22

Testimonianza di Magherita Giai Piancera, classe 1920, di Giaveno (TO), professoressa di francese, raccolta dall’autore il 14 aprile 1989, depositata presso l’Archivio dell’Istituto storico per la Resistenza in Piemonte.


Conclusione Resistenza e costituzione

Gli avvenimenti che seguono la fine della guerra si sviluppano all’interno di coordinate diverse da quelle che avevano caratterizzato il 1943-45, ma altrettanto complesse e frastagliate: il ritorno alla normalità, tanto più difficile quanto più aspri sono stati gli echi della guerra civile; l’emergenza della ricostruzione, tra città sventrate dai bombardamenti e apparato industriale da ricostituire; le differenze profonde tra realtà regionali che hanno conosciuto l’occupazione tedesca e altre che sono uscite dalla guerra già nell’autunno 1943; i condizionamenti del quadro internazionale, che delineano visioni del mondo opposte nel progressivo cristallizzarsi della Guerra Fredda; le lacerazioni tra istanze di rinnovamento e volontà di stabilizzazione; l’esaurirsi progressivo dell’alleanza antifascista; la riscoperta del voto e della rappresentanza con la consultazione del 2 giugno 1946. Non è questa la sede per una ricostruzione storica che richiederebbe altrettanto spazio e approfondimento di ricerca. Un’osservazione va tuttavia fatta: pur in un periodo così convulso, dove nel maggio 1947 si consuma la rottura dei governi di unità nazionale con il passaggio all’opposizione di comunisti e socialisti, i lavori dell’assemblea costituente si sviluppano senza soluzione di continuità nella ricerca di un compromesso inteso nel senso più nobile del termine, “cum promittere”, “promettere insieme”. I risultati della consultazione del 2 giugno sono noti: una maggioranza di


circa 2 milioni di voti per la repubblica,1 e un sostanziale equilibrio tra le forze politiche rappresentate alla Costituente, con 207 seggi alla Democrazia cristiana, 115 al Partito socialista, 104 al Partito comunista, 41 al Partito liberale, 30 al Fronte dell’uomo qualunque, 23 al Partito repubblicano, i restanti distribuiti tra monarchici, azionisti, indipendentisti siciliani e partiti minori. Tra forze progressiste e forze moderate vi è una sostanziale parità numerica, che rende comunque necessario trovare un punto di mediazione. Il primo atto è la scelta di un capo provvisorio dello Stato: per pacificare un paese lacerato dal risultato referendario, i costituenti, che sono in larghissima maggioranza repubblicani e hanno leader di origine settentrionale, scelgono un monarchico meridionale, l’avvocato napoletano Enrico De Nicola. Chi ha votato per il re non deve sentirsi straniero nella repubblica e, nel contempo, la repubblica deve mostrarsi abbastanza forte e inclusiva da poter essere rappresentata da un monarchico. Il secondo, decisivo atto, è il lavoro comune per arrivare alla definizione del testo, per il quale non c’è un modello di riferimento da adattare ma uno sforzo originale di confronto e di rielaborazione. Al di là degli equilibri politici, vi è un elemento che porta i costituenti a una collaborazione proficua: in tutti loro vi è la coscienza viva di dover dare una risposta alla domanda di una radicale rifondazione che sale dal paese dopo gli orrori della guerra. Come ha scritto Pietro Scoppola, «solo chi rilegga gli articoli della costituzione sullo sfondo degli scenari drammatici della seconda guerra mondiale, della invasione dei paesi neutrali, di popolazioni inermi ridotte in schiavitù, dei vagoni piombati che trasportavano gli ebrei verso i campi di sterminio, di episodi militari che non hanno precedenti nella storia umana per numero di vittime e per dispiego di mezzi come la battaglia di Stalingrado o lo sbarco in Normandia, di bombardamenti che hanno distrutto intere città e da ultimo delle esplosioni atomiche di


Hiroshima e di Nagasaki, avverte il senso pieno delle grandi affermazioni della costituzione sui diritti inviolabili dell’uomo, sui doveri di solidarietà politica, economica, sociale, sulla pari dignità senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua e di religione, sul ripudio della guerra».2 In questo senso, la costituzione del 1948 è figlia prima di tutto del periodo lungo 1940-45: come tale, essa non è semplicemente antifascista, ma democratica, termine che esprime un concetto superiore. La democrazia, infatti, è sempre antifascista perché si fonda sui principi di libertà e di uguaglianza; mentre l’antifascismo può anche non essere democratico (come dimostra l’Unione Sovietica di Stalin). Uno dei più lucidi tra i padri costituenti, Giuseppe Dossetti, ha ben espresso il legame tra guerra, costituzione e democrazia: «Alcuni pensano che la costituzione sia un fiore pungente nato quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti postbellici e da risentimenti faziosi volti al passato. Altri pensano che essa nasca da un’ideologia antifascista di fatto coltivata da certe minoranze che avevano vissuto soprattutto da esuli gli anni del fascismo. Altri ancora si richiamano alla resistenza, con cui l’Italia può aver ritrovato il suo onore e in certo modo si è omologata a una certa cultura internazionale. E così si potrebbe continuare a lungo nella rassegna delle opinioni o sbagliate o insufficienti. In realtà la costituzione italiana è nata ed è stata ispirata – come e più di altre pochissime costituzioni – da un grande fatto globale, cioè dai sei anni della seconda guerra mondiale. Questo fatto emergente della storia del XX secolo va considerato rispetto alla costituzione, in tutte le sue componenti oggettive e al di là di ogni contrapposizione di soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme del quale nessun uomo che oggi vive o anche solo nasca oggi, può o potrà attenuare le dimensioni, qualunque idea se ne faccia e con qualunque animo lo scruti».3 La completezza del nostro testo costituzionale non si può tuttavia


comprendere senza la ricchezza e la pluralità ideologica delle forze formatesi nella Resistenza. La lotta di liberazione ha visto combattere fianco a fianco cattolici e comunisti, laici di ispirazione liberale e laici di ispirazione azionista, moderati e progressisti. Questo retroterra plurale si proietta nella scelta di comprendere nella costituzione due categorie fondamentali di diritti, i diritti civili e i diritti sociali. I primi indicano ciò che lo Stato “non può fare” al cittadino: non può impedirgli di esprimersi, di associarsi, di scrivere, di professare una fede o un’ideologia, di muoversi. Sono le libertà che dal 1789 rappresentano gli obiettivi del liberalismo e che nella partecipazione democratica trovano la loro esaltazione. I diritti sociali sono invece ciò che lo Stato “deve fare” per il cittadino: deve garantire il diritto al lavoro, alla casa, all’istruzione, all’assistenza, alla previdenza. Sono i diritti per i quali, dalla fine del XIX secolo, si è battuto il movimento operaio. Sul piano teorico, la costituzione definisce in modo puntuale le esigenze liberali, garantendo la libertà dei cittadini e assicurandone quanto più possibile la partecipazione attiva alla vita politica. Le esigenze sociali non si traducono invece in norme immediatamente vigenti, ma rappresentano enunciazione di scopi verso cui dovrà tendere la futura legislazione. Il carattere prescrittivo delle une e quello programmatico delle altre garantiscono la prospettiva di una democrazia matura e progressiva, figlia dell’esperienza della guerra e delle tensioni morali e politiche della Resistenza: «Era viva nei costituenti l’esigenza di dare all’Italia una costituzione democratica e antifascista nel senso più ampio delle parole, che tenesse conto cioè dell’esperienza del fascismo e che fosse capace, nei limiti in cui può esserlo una legge fondamentale, di garantire nel modo più ampio la libertà, l’uguaglianza dei cittadini e la partecipazione di questa la vita politica, cioè la democrazia».4 Questa resta l’eredità più profonda della generazione che ha fatto la guerra e la Resistenza.


1

Il risultato ufficializzato dalla Corte di Cassazione il 18 giugno indica 12.717.928 voti per la Repubblica, 10.769.284 per la monarchia, 1.498.154 schede nulle. Il dato relativo alle schede nulle non è irrilevante. Subito dopo la proclamazione dei risultati da parte del ministro dell’Interno Romita, il 5 giugno, viene sollevata una questione da un gruppo di giuristi dell’università di Padova, trasformata in ricorso dall’esponente monarchico Enzo Selvaggi: poiché il decreto luogotenenziale istitutivo del referendum assegna la vittoria a chi ottiene «la maggioranza dei votanti», è necessario sapere quanti sono i voti nulli per capire se la repubblica ha davvero la maggioranza richiesta del 50 per cento più uno di chi è andato a votare. Il ministro Romita si è invece limitato a comunicare i voti validamente espressi per l’una o per l’altra forma istituzionale. Le perplessità sollevate, unite alla profonda divisione dell’orientamento tra l’Italia del Sud (monarchica) e quella del Centro nord (repubblicana), scatenano accuse di frode, manifestazioni di piazza, scontri sanguinosi con una ventina di morti a Napoli. A porre fine alla situazione di tensione, che rischia di trascinare il Paese nella deriva della guerra civile, è il re Umberto II, che il 13 giugno lascia l’Italia per l’esilio in Portogallo, di fatto avallando il risultato referendario. La pronuncia della Corte di Cassazione del 18 giugno precisa che per «maggioranza dei votanti» deve intendersi la «maggioranza dei voti validi»: in ogni caso, la Repubblica ha ottenuto anche la maggioranza dei votanti, con un margine di 453.506 voti. 2 Pietro Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, p. 61. 3 Discorso di Giuseppe Dossetti pronunciato a Firenze il 16 settembre 1994 a sostegno della sua iniziativa a difesa della costituzione (riportato in ibid., p. 52). 4 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. XI, Feltrinelli, Milano 1986, p. 142.


Indice dei nomi

Acquarone, Pietro Adami Rossi, Enrico Adamoli, Gelasio Agnelli (famiglia) Agnelli, Giovanni Agnoletti, Enzo Enriques Agosti, Giorgio Albertelli, Pilo Aldisio, Salvatore Alexander, Harold Alvaro, Corrado Ambrosio, Vittorio Ammazzalorso, Armando Anfuso, Filippo Antonicelli, Franco Apollonio, Lorenzo Arangio-Ruiz, Vincenzo Argenton, Mario Arpesani, Giustino Audisio, Walter Azzi, Arnaldo Badoglio, Pietro


Bagnoli, Romolo Balbo, Italo Balduzzi, Ottorino Barducci, Aligi Barge, Hansen Barontini, Ilio Barracu, Francesco Bassi, Mario Basso, Lelio Battaglia, Roberto Baudrino, Cesare Bellino, Piero Bellocchio, Giuseppe Beltrame, Claudio Berardi, Paolo Bergamini, Carlo Bergolo, Giorgio Carlo Calvi di Berio, Alberto Berlinguer, Mario Bernardi, Giuseppe Berninghaus, Max Bertolani, Oliviero Biancheri, Luigi Bianco, Dante Livio Bicchierai, Giuseppe Bignotti, Luigi Bluter, Murray


Bocca, Giorgio Boeri, Enzo Boldrini, Arrigo Bolla, Luigi Bombacci, Nicola Bonfantini, Corrado Bonfantini, Mario Bonfigli, Ulisse Bonomi, Ivanoe Borboni, Paola Borghese, Junio Valerio Bottai, Giuseppe Brosio, Manlio Brunetti, Brunetto Buffarini Guidi, Guido Buozzi, Bruno Buranello, Giacomo Bussi, Armando Cabras, Giovanni Cadorna, Raffaele Calamandrei, Piero Calcaterra, Carlo Calvino, Italo Camerana, Giancarlo Campbell, Ronald Campioni, Inigo Canfora, Fabrizio


Cantelli, Umberto Carandini, Niccolò Carboni, Giacomo Cardinali, Giovanni Carli, Guido Caruso, Pietro Casati, Alessandro Cascione, Felice Castellano, Giuseppe Castelli, Franco Catalano Gonzaga, Gaetano Cattabeni, Caio Cattani, Leone Cavallero, Ugo Caviglia, Enrico Cerabona, Francesco Cerica, Angelo Cervi, Alcide Cevelotto, Mario Charles, Noel (sir) Chevallard, Carlo Chianesi, Elio Chierici, Renzo Churchill, Winston Cianca, Alberto Ciano, Galeazzo Cingolani, Mario


Clark, Mark Colajanni, Pompeo Comandini, Federico Contini, Gianfranco Correnti, Mario Cotta Morandini, Sergio Crasemann, Peter Eduard Craveri, Raimondo Croce, Benedetto Cunningham, Andrew Dalmazzo, Faustino Damani, Alberto Dapino, Vincenzo Davide, Mario Da Zara, Alberto De Bono, Emilio De Courten, Raffaele De Gasperi, Alcide Degli Espinosa, Agostino Del Buono, Oreste De Maria, Giovanni De Nicola, Enrico De Pinedo, Francesco De Ruggiero, Guido De Secly, Luigi De Stefanis, Giuseppe De Vitis, Sergio


Dick, Roger Di Dio, Alfredo Di Dio, Antonio Dimitrov, Georgi Di Napoli, Attilio Di Vittorio, Giuseppe Dollfuss, Engelbert Dollmann, Eugen Dulles, Allen W. Durando, Giuseppe Eddy, William Eden, Anthony (sir) Einaudi, Luigi Eisenhower, Dwight Etterlin, Fridolin von Senger und Facchini, Eugenio Falck, Enrico Farinacci, Roberto Federzoni, Luigi Felmy, Hellmuth Fenoglio, Beppe Fenulli, Dardano Feroleto, Mario Caracciolo di Ferrari, Berto (don) Fiorentini, Felice Foa, Vittorio Fortunato, Valerio


Foucault, Michel Franceschini, Adelmo Franchetti, Gastone Fransoni, Francesco Frassati, Filippo Freyberg, Bernard Gadda, Carlo Emilio Gagliardi, Giuseppe Galbiati, Enzo Emilio Galimberti, Duccio Galler, Anton Gambara, Gastone Gandin, Antonio Gariboldi, Italo Garneri, Giuseppe (don) Gasparotto, Luigi Gavagnin, Florian Armando Gentile, Giovanni Gesmundo, Gioacchino Geymonat, Ludovico Ghisellini, Igino Giaccone, Leandro Ginzburg, Natalia Giovannini, Giovanni Giurati, Ernesto Gobetti, Ada Gobetti, Paolo


Goebbels, Paul Joseph Göring, Hermann Gottardi, Luciano Gramsci, Antonio Grandi, Achille Grandi, Dino Graziani, Rodolfo Greco, Paolo Gronchi, Giovanni Guardina, Domenico Guariglia, Raffaele Gullo, Fausto Guzzoni, Vittorio Himmler, Heinrich Hitler, Adolf Hobbes, Thomas Hofer, Franz Hoxha, Enver Hull, Cordell Infante, Adolfo Jodl, Alfred Kaltenbrunner, Ernst Kappler, Herbert Keitel, Wilhelm Kennan, George Kesselring, Albert Konrad Kirk, Alexander


Kretschmann, Hermann La Guardia, Fiorello La Malfa, Ugo Lampredi, Aldo Lanz, Hubert La Pira, Giorgio Leese, Oliver Leggio, Felice Leyers, Hans Liverani, Augusto Lizzadri, Oreste Locarno, Maria Lohr, Alexander Lombardi, Riccardo Longanesi, Leo Longo, Luigi Lorenzini, Ferruccio Lucas, John Porter Lusignani, Luigi Lussu, Emilio Macmillan, Harold Maffei, Mario Maffeo, Pietro Magnone, Sandro Malaparte, Curzio Malvestiti, Piero Mancini, Pietro


Marazza, Achille Marchesi, Concetto Mariotti, Luigi Martinelli, Giovanni Martini, Enrico Masini, Luigi Mason-MacFarlane, Noel (sir) Mattei, Enrico Matteotti, Giacomo Mautino, Felice Mayer, Wilhelm Mazzantini, Carlo Mazzolini, Serafino McCaffery, Margo Medici Tornaquinci, Aldobrando Meinhold, Gunther Melega, Antonino Menotti, Ciro Mentasti, Piero Messe, Giovanni Mezzasoma, Ferdinando Milano, Luigi Molotov, Vjačeslav Michajlovič Monelli, Paolo Montanari, Franco Montezemolo, Giuseppe Cordero Lanza di Montgomery, Bernard Law


Moorehead, Alan Morandi, Rodolfo Mores, Aldo Morotti, Renato Moscatelli, Cino Mosna, Guido Murphy, Robert Daniel Musolesi, Mario Mussolini, Benito Mussolini, Vittorio Muti, Ettore Navarrini, Nuto Nenni, Pietro Nicoletta, Giulio Oliva, Romeo Olivelli, Teresio Omodeo, Adolfo Operti, Piero Orlando, Taddeo Orlando, Vittorio Emanuele Pajetta, Giancarlo Palermo, Mario Palombo, Vincenzo Pampaloni, Amos Pamparato, Felice Cordero di Pansa, Giampaolo Pareschi, Carlo


Parri, Ferruccio Parrilli, Giuseppe Paschero, Bartolomeo Pastore, Giulio Patch, Alexander Pavese, Cesare Pavolini, Alessandro Pavone, Claudio Peiper, Joachim Peli, Santo Pelizzari, Alimiro Pellegrini, Gianpietro Penati, Fausto Perini, Spartaco Pertini, Sandro Pesce, Giovanni Pesenti, Antonio Petacci, Claretta Petacci, Marcello Piacentini, Pietro Pintor, Giaime Pirelli, Alberto Pizzoni, Alfredo Pohl, Oswald Porta, Paolo Puntoni, Paolo Quarello, Gioacchino


Quazza, Guido Quintieri, Quinto Ragghianti, Carlo Ludovico Rahn, Rudolf Rainer, Friedrich Ramcke, Hermann-Bernard Ranieri, Paolino Reder, Walter Resega, Aldo Revelli, Nuto Riccioni, Siro Ricci, Umberto Rinaldi, Luigi Rizzatti, Mario Roatta, Mario Robotti, Mario Rodinò, Giulio Rolph, Ralph S. Romano, Ruggero Rommel, Erwin Roosevelt, Franklin Delano Roseberry, Cecil L. Rosi, Ezio Rossi, Ernesto Rossi, Francesco Roveda, Giovanni Rubini, Egisto


Ruggero, Vittorio Ruini, Meuccio Sala, Edoardo Salvatorelli, Luigi Sandalli, Renato Sansonetti, Luigi Santagata, Carlo Santi, Tullio Santoro, Giuseppe Saragat, Giuseppe Sauckel, Fritz Schellenberg, Walter Schlemmer, Hans Scholl, Walter Schreiber, Gerhard Schuster, Ildefonso Scialoja, Carlo Scoccimarro, Mauro Scoppola, Pietro Scorza, Carlo Scotti, Francesco Secchia, Pietro Senise, Carmine Sereni, Aldo Sforza, Carlo Siglienti, Stefano Sinigaglia, Alessandro


Skorzeny, Otto Smith, Walter Bedell Sogno, Edgardo Solari, Fermo Solaro, Giuseppe Soleri, Marcello Spada, Angelo Spataro, Giuseppe Speer, Albert Sprigge, Cecil Stahel, Rainer Stangoni, Pier Felice Starace, Achille Stelle, Pier Luigi Bellini delle Stettinius, Edward R. Stevens, John Melior Stone, Ellery Wheeler Strong, Kenneth Student, Kurt Superti, Dionigi Tarchi, Angelo Tarchiani, Alberto Taylor, Maxwell Taylor, Myron C. Tealdy, Lorenzo Tensfeld, Willy Tino, Adolfo


Tito, Josip Broz Togliatti, Palmiro Torretta, Pietro Tomasi della Toussaint, Rudolf Trombadori, Antonello Truman, Harry Truscott, Lucian Tupini, Umberto Usmiani, Antonio Utili, Umberto Utimperghe, Idreno Valiani, Leo Valletta, Vittorio Vanoni, Ezio Vassallo, Antonio Vecchiarelli, Carlo Vecchini, Aldo Ventre, Gigi Venturi, Marcello Veratti, Roberto Vercellino, Mario Verzone, Guido Vian, Ignazio Vidussoni, Aldo Viganò, Renata Vigorelli, Ezio Vittorini, Elio


Volpi, Giuseppe von Gyldenfeldt, Heinz von Hirschfeld, Harald von Mackensen, Hans Victor von Ribbentrop, Joachim von Schweinitz, Victor von Vietinghoff, Heinrich von Zangen, Gustav-Adolf Wenner, Eugen Wilson, Henry Maitland (sir) Wolff, Karl Woodhouse, Chris Woodward, Llewellyn Zangrandi, Ruggero Zanussi, Giacomo Zerbino, Paolo


Referenze fotografiche dell’inserto

1. Prima pagina della “Stampa” che annuncia le dimissioni di Mussolini, 26 luglio 1943: De Agostini Picture Library.

2. Festeggiamenti per la caduta del fascismo, Roma, 25 luglio 1943: Istituto Luce/Gestione Archivi Alinari, Firenze.

3. Soldati dell’Esercito italiano catturati dalla Wehrmacht a Corfù, fine settembre – inizio ottobre 1943: Cuno/Bundesarchiv.

4. Partigiani durante un bagno all’aperto in montagna: Archivio Luigi Leoni/Archivi Alinari.

5. Partigiane durante un momento di riposo nei pressi di Castelluccio (MO): Hulton-Deutsch Collection/Corbis/Getty Images.

6. Appostamento di partigiani su uno sperone roccioso: Archivio Luigi Leoni/Archivi Alinari.

7. Falsa patente di guida di Sandro Pertini: Archivio GBB/Contrasto.

8. Reparti della Decima Mas durante un rastrellamento nel Verbano, 31 luglio 1944: Istituto Luce/Gestione Archivi Alinari, Firenze.

9. Fucilazione di sei uomini durante l’eccidio di S. Anna di Stazzema: Foto di Luca Zennaro, 1944/ANSA su licenza Archivi Fratelli Alinari.


10. Ritratto del feldmaresciallo Harold Alexander, 1945 ca.: Library and Archives Canada/Wikimedia Commons.

11. Manifesti angloamericani di propaganda nelle strade di Napoli, 1944/1945: FPG/Hulton Archive/Getty Images.

12. Civili armati a Milano, 25 aprile 1945: Archivi Alinari, Firenze.

13. Gerarchi della R.S.I. prima della fucilazione, Dongo, 28 aprile 1945: Archivio di Stato di Como, fascicolo processuale giudice istruttore di Como, ruolo n. 1572 anno 1963 a carico di (imputati): Longo Luigi, Togliatti Palmiro, Parri Ferruccio, Audisio Walter, Lampredi Aldo, Bellini delle Stelle Piero, busta n. 1006bis/anno 1963.

14. Partigiani delle Fiamme Verdi bresciane, brigata Giacomo Cappellini, sfilano a Milano il 6 maggio 1945: De Agostini Picture Library.

15. Giovane collaborazionista condotta tra gli insulti della folla, Milano, 26 maggio 1945: Keystone-France/Gamma-Keystone/Getty Images.

16. Ufficiali tedeschi trattano la resa con un gruppo di partigiani e alcuni preti, Milano, maggio 1945: PhotoQuest/Getty Images.


Inserto fotografico


1. La prima pagina del quotidiano “La Stampa” che annuncia le dimissioni di Mussolini e la nomina del maresciallo Badoglio a Presidente del consiglio, 26 luglio 1943.


2. Festeggiamenti per la caduta del fascismo, Roma, 25 luglio 1943.


3. Soldati dell’Esercito italiano catturati dalla Wehrmacht a Corfù, fine settembre-inizio ottobre 1943. Furono circa 700 000 i militari italiani internati nei lager: la stragrande maggioranza di loro rifiutò di collaborare con il Reich, preferendo la prigionia.


4. Partigiani durante un bagno all’aperto nei pressi di un bivacco di montagna, s.d.


5. Partigiane in un momento di riposo, durante azioni a sostegno degli Alleati lungo la Linea Gotica, nei pressi di Castelluccio (MO), s.d.


6. Appostamento di partigiani su uno sperone roccioso: nel corso del 1944, con l’intensificarsi dei rastrellamenti nazifascisti, la necessità di prevenire l’arrivo di colonne nemiche diviene di importanza vitale.


7. Falsa patente di guida di Sandro Pertini, sotto il nome fittizio di Nicola Durano: Pertini la usò per missioni clandestine nella primavera del 1944.


8. Reparti della X Flottiglia Mas durante un rastrellamento in una località del Verbano, 31 luglio 1944.


9. La fucilazione di sei uomini durante l’eccidio di S. Anna di Stazzema (LU), in cui furono uccisi 560 civili inermi, tra cui 130 bambini, 12 agosto 1944.


10. Harold Alexander, conte di Tunisi e feldmaresciallo a capo delle forze armate britanniche in Italia. Il suo proclama del 13 novembre 1944, che chiedeva ai partigiani la sospensione di ogni iniziativa bellica,


diede inizio all’inverno più duro della Resistenza.


11. Manifesti angloamericani di propaganda antinazista nelle strade di Napoli, 1944/1945.


12. Civili armati al riparo di un carro armato M13/40 catturato al nemico, all’angolo tra via Cernuschi e viale Premuda, Milano, 25 aprile 1945.


13. I gerarchi della R.S.I. – tra questi: Bombacci, Pavolini, Barracu e Zerbino – poco prima di essere fucilati, Dongo, 28 aprile 1945.


14. Partigiani delle Fiamme Verdi bresciane sfilano per le vie di Milano, 6 maggio 1945. Da notare il cappello alpino indossato alla rovescia, a indicare simbolicamente il radicale cambio di rotta che la Liberazione aveva significato.


15. Una giovane collaborazionista viene condotta tra gli insulti della folla: sono ben visibili le rasature sulla testa e le scritte di scherno sul volto. Milano, 26 maggio 1945.


16. Ufficiali tedeschi trattano con un gruppo di partigiani e alcuni preti la resa di circa trecento uomini in un quartiere residenziale di Milano, maggio 1945.


.

Frontespizio Introduzione PARTE PRIMA. IL CROLLO DELL’ITALIA FASCISTA

4 7 10

1. L’ultima settimana del luglio 1943 2. La caduta del regime 3. Il governo dei quarantacinque giorni: la politica interna 4. Il governo dei quarantacinque giorni: la politica estera 5. L’annuncio dell’armistizio 6. La dissoluzione del Regio esercito 7. I Balcani e la Grecia 8. L’8 settembre della Regia marina

11 30 59 76 93 107 131 154

PARTE SECONDA. LA SCELTA

1. Le forze in campo 2. Il fronte resistenziale 3. La Repubblica sociale 4. Il Regno del Sud 5. Il Comitato di liberazione nazionale di Roma 6. La liberazione di Roma

PARTE TERZA. LA STAGIONE DELLA RESISTENZA 1. Sulla linea Gotica 2. L’espansione della guerriglia 3. La dimensione militare della Resistenza 4. La quotidianità partigiana 5. La dimensione politica della Resistenza

PARTE QUARTA. LA LIBERAZIONE 1. Il dibattito politico 2. Il proclama Alexander 3. L’aprile 1945

PARTE QUINTA. LA RESA DEI CONTI 1. Il furore popolare 2. Violenza e guerra civile

Conclusione. Resistenza e costituzione Indice dei nomi Referenze fotografiche dell’inserto Inserto fotografico

179 180 206 231 250 283 314

326 327 347 366 402 419

441 442 462 482

509 510 530

547 552 569 572


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