Altre indicazioni sulla condizione spirituale dei giovani intellettuali “irredenti” dell’ambiente vociano nel corso di quei mesi febbrili ci giungono da Elody Oblath: «rivivo Roma nella visione di D’Annunzio. E insieme – insieme un opuscolo su Guglielmo Oberdan che mi fa rabbrividire di rispetto e gratitudine», scriveva da Trieste il 29.I.1915 a Giani; aggiungendo «credere, credere, ammirare!». 6 E più tardi, in una riflessione degli ultimi anni Venti, ripensando allo stato d’animo con cui si era voluta la guerra e che poi l’aveva accompagnata nei primi mesi di entusiasmo ancora intatto: la nostra cospirazione di guerra fu veramente quarantottesca. Ripensando oggi a quella compattezza inviolabile e a tutto quello che con tanta temerarietà e fatica tentammo e facemmo, provo un senso d’ammirazione e insieme di pietà per quel nostro entusiasmo senza limiti e veramente eroico […]. Giorni d’illusioni folli, fede in un’umanità migliore, che ci faceva esultare e chiedere la morte di milioni di uomini.7
Se Giani, nelle pagine memorialistiche di Trieste nei miei ricordi, è reticente sul ruolo avuto nella campagna interventista, sulle speranze e sui pensieri che dovettero essere segnati, nei mesi della neutralità italiana, da attesa impaziente e maturante febbre del fare (si ricordi il già citato: «la guerra […] come la voglio io, come la devo volere io»), una lettera a Prezzolini dell’ottobre 1914 sciorina un ampio diapason di riflessioni, che toccano il tema del significato da dare alla guerra che divampava in Europa («il conflitto è solo di potenze interessate egoisticamente o è conflitto più vasto, di idee, di civiltà?»), e mostrano un giovane che si accinge, malgrado tutto, a iniziare un’esistenza normale («per vivere ho accettato un posto di professore a Trieste e qui aspetto e che mi si sciolga il dissidio interiore o che qualche fatto mi costringa a rifarmi da capo idee e vita: sento d’essere messo alla prova»). Ormai la consapevolezza di Giani è piena e frustrante. Trieste costretta a vivere una guerra non sua, potenzialmente pericolosa per l’italianità giuliana, deve attendere impotente. È solo dall’Italia che potrebbe giungere quel sì patriottico e virile essenziale per il futuro della città, perché capace di spingere, con una mobilitazione collettiva, il Paese nel conflitto: è questo il momento in cui si avvera ciò ch’io mai volevo ammettere: il nostro centro di gravità è spostato, è tutto fuori di noi, noi vogliamo lasciar fare e voi deciderete nello stesso tempo di tutti. […] Io, caro Prezzolini, sto per dire che hanno ragione quel pugno di volontari che (raccontano qui) hanno l’intenzione di forzare la mano al governo, sacrificandosi magari (e anche se invano).8
Poche frasi e non “ufficiali”. Che guadagnano spessore laddove Giani si esprime, in modo ben più esplicito, a proposito del compagno più caro: in quella partecipata 6 E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, cit., pp. 32. 7 Ead., Confessioni e lettere a Scipio, Fògola editore, Torino, 1979, pp. 32-33. 8 Cfr. lettera del 6 ottobre 1914 conservata nel Fondo Prezzolini nell’Archivio della Biblioteca cantonale di Lugano.
Il ritorno del reduce
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