Ciro Paoletti LE ARMI E LE CHIAVI STORIA MILITARE DEGLI STATI PONTIFICI NELL’ETA’ MODERNA E CONTEMPORANEA
Roma Associazione culturale Commissione Italiana di Storia Militare 2020 1
Ciro Paoletti
LE ARMI E LE CHIAVI STORIA MILITARE DEGLI STATI PONTIFICI NELL’ETA’ MODERNA E CONTEMPORANEA
Roma Associazione culturale Commissione Italiana di Storia Militare 2020 2
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Indice Premessa topografica Capitolo I Gli Stati del Papa alla fine del Medioevo Capitolo II Gli eserciti e la guerra del Rinascimento I) Cavalleria, Fanteria e Artiglieria II) La strategia, i comandanti e la tattica III) La “traccia italiana” IV) I militari V) Equipaggiamento ed uniformi VI) I pirati VII) La marina Capitolo III Il Moro, il Papa e Carlo VIII I) Carlo VIII e la Lega Italica: 1494 – 1495 II) Fornovo III) La guerra baronale del 1496 e il ritorno dei Francesi IV) La prima e la seconda campagna di sottomissione dei feudi della Santa Sede: 1499 – 1500 V) La terza campagna di sottomissione e Leonardo da Vinci ingegnere militare: 1501 – 1503 VI) La quarta campagna di sottomissione dei feudi pontifici del l502 - l503 e quel che seguì VII) La Santa Sede e la guerra austro-veneziana del 1507 VIII) La guerra della Lega di Cambrai: l509 Capitolo IV Giulio II e la Lega Santa I) II) III) IV)
Dalla Lega di Cambrai alla Lega Santa La guerra della Lega Santa La battaglia di Ravenna e le sue conseguenze La guerra d’Urbino del 1516–17
Capitolo V Dalla Riforma al Sacco di Roma e allo Scisma d’Inghilterra I) II) III) IV) V)
Lutero e la Riforma La breve pace Vaprio, Pavia e il ritorno del duca d’Urbino La guerra della Lega di Cognac, o “della seconda Lega Santa” del 1526–1529 Il sacco di Roma 4
Capitolo VI Il Concilio di Trento, il Ducato di Parma e l’assestamento dell’Italia I) II) III) IV) V)
L’avvento di Paolo III Farnese, la rivolta di Perugia del 1539 e la guerra contro i Colonna La guerra contro i Turchi del 1537–39 La guerra per Parma e Piacenza La guerra ispano-pontificia del 1556–1557 Le armi di Santa Chiesa da Pio IV in poi
Capitolo VII Le guerre per la religione da Pio IV a Paolo V I) II) III) IV) V) VI)
Le armi pontificie sotto Pio V, la guerra di Cipro e la gloria di Lepanto: 1570–1573 La marina di papa Gregorio La spedizione in Irlanda Le riforme di Sisto V l’intervento sabaudo-pontificio in Francia e la guerra per il Marchesato di Saluzzo: 1589– 1601 Le campagne d’Ungheria dal 1595 al 1601 Capitolo VIII Le armi pontificie del Seicento Capitolo IX La Santa Sede, l’Italia e la Guerra dei Trent’Anni
I) II) III) IV)
Premessa: l’Interdetto veneziano Le cause del conflitto I Pontifici e la Valtellina: 1623–1627 Urbano VIII Barberini e la riorganizzazione della frontiera padana Capitolo X De bello inter ecclesiasticos et Ducem Parmae – L’inizio della prima Guerra di Castro
I) II) III) IV) V) VI) VII) VIII) IX) X) XI) XII) XIII)
Le premesse Le prime operazioni: l’occupazione dei feudi e l’esercito pontificio La reazione farnesiana e la prima campagna dell’Emilia e dell’Umbria L’allargamento del conflitto e la campagna del 1643 in Emilia L’assedio e la battaglia di Nonantola Le operazioni per Pontelagoscuro La campagna dei Toscani in Umbria: giugno - settembre 1643 La battaglia di Mongiovino La diplomazia all’opera La battaglia di Perugia L’assedio di Monterchi e l’assedio e la battaglia di Pitigliano Le operazioni tardoautunnali La breve campagna del 1644 e la pace 5
XIV) Le forze in campo e le perdite XV) La fine della Guerra dei Trent’Anni XVI) La Seconda Guerra di Castro del 1649 Capitolo XI I Pontifici e la Guerra di Candia: 1645–1669 I) II)
Il principio Le operazioni Capitolo XII La fine del Seicento
I) II) III)
Due faccende spinose: “L’affare dei Corsi” di Roma e la questione dei privilegi degli ambasciatori, 1662–1688 I Pontifici e la Prima Guerra di Morea o “della Sacra Lega”, 1684–1699 La questione della Grande Alleanza 1690–1696 Capitolo XIII La Successione Spagnola
I) II) III)
La successione, la Santa Sede e gli Stati italiani: 1701–1703 L’Imperatore, il Papa e Comacchio: 1708 La pace di Utrecht Capitolo XIV Vent’anni di lotte giurisdizionali 1713–1733
I) II) III)
La svolta dopo Utrecht La Guerra di Morea Due dispute e una guerra. Capitolo XV Dalla Successione Polacca alla Rivoluzione Francese 1733–1793
I) II) III) IV) V) VI) VII)
La riforma delle forze pontificie del 1734 Le forze militari di polizia a piedi: il Battaglione in Luogo de’ Corsi Le forze militari di polizia a cavallo: la “Compagnia dei Carabini Rinforzati”, o “dei Cacciabanditi a cavallo” Alberoni a San Marino: 1739 La Successione Austriaca: 1740–48 La prima Guerra Fredda: 1748–1789 e l’apparato militare pontificio Le armi del Papa e la vita quotidiana dei militari pontifici Capitolo XVI La Rivoluzione: 1792–1798
I)
Il 1792 6
II) III)
Il riarmo pontificio del 1792 I Francesi, il Papa e la guerra del ‘97 Capitolo XVII “La Repubblica per ridere” in cui non ci fu niente da ridere
I) II) III) IV) V) VI) VII) VIII) IX) X) XI) XII)
La Repubblica Romana La guerra napoletana del ‘98 La resistenza della Tuscia Le insorgenze La guerriglia in Emilia, Marche e Umbria: aprile La guerriglia in Emilia, Marche e Umbria: maggio La guerriglia nel Lazio e la ritirata francese vero nord La guerriglia in Emilia, Marche e Umbria: giugno La guerriglia nel Lazio in giugno e luglio La guerriglia in Umbria e Lazio: luglio e agosto Finale Dopo Marengo Capitolo XVIII Pio VII e Napoleone Capitolo XIX La Restaurazione
I) II) III) IV)
La Restaurazione pontificia vista dal clero La Restaurazione pontificia vista dai laici L’esercito del 1814–15 I Carbonari, l’Austria, il Papa e i Moti del ‘21 Capitolo XX I Fatti di Romagna e i Moti del ‘31
I) II)
I Moti del ‘31 La repressione del ‘32 Capitolo XXI Verso il ‘48
I) II) III)
Il moto del ‘45 I primi 18 mesi di Pio IX e la crisi per la Guardia Civica Il pasticcio del 10 febbraio Capitolo XXII 1848: la campagna dei Pontifici e la Non semel
I) II)
Marzo del ‘48 La Non semel, Cornuda e Treviso 7
III) IV) V) VI) VII)
La diserzione di Mestre e la resistenza di Treviso Liti e mediazioni Vicenza Fine campagna e Bologna I Pontifici alla difesa di Venezia Capitolo XXIII La Repubblica Romana
I) II) III) IV)
Dal Papa alla Repubblica L’esercito della Repubblica Romana Vita e lotta della Repubblica Romana La fine in Emilia e ad Ancona Capitolo XXIV Lo Stato e l’Esercito Pontificio dall’estate del ’49 alla guerra del ‘59
I) II) III) IV)
Lo Stato Pontificio del decennio 1849–1859 L’Esercito Pontificio del decennio 1849–1859 Gli Austriaci a Bologna e l’invasione di San Marino Il crollo del 1859, Perugia e la Lega dell’Italia Centrale Capitolo XXV Da Castelfidardo a Mentana
I) II) III) IV) V) VI) VII) VIII) IX) X)
L’Armata del Re e quella del Papa La Diversione Zambianchi La campagna del ‘60 Castelfidardo L’assedio d’Ancona L’esercito pontificio degli ultimi dieci anni La Marina pontificia Castel Sant’Angelo e le fortezze pontificie Le carceri militari Brigantaggio Capitolo XXVI Mentana
I) II) III) IV)
La premessa Monterotondo Mentana Fra Mentana e Porta Pia Capitolo XXVII Il Concilio e la presa di Roma
I)
Il Concilio uccide l’Esercito 8
II) III) IV) V)
L’invasione La presa di Civita Castellana Attesa La Breccia di Porta Pia Capitolo XXVIII Dalla presa di Roma al Vaticano II 1870–1970
I) II) III) IV)
La Capitolazione di Villa Albani Lo scioglimento dell’Esercito Pontificio L’occupazione di Castel Sant’Angelo e Borgo Pio La sopravvivenza dei corpi armati nei centocinquant’anni seguenti
Note bibliografiche
Bibliografia
N.B. Trattandosi d’un testo in Pdf, non occorre indicare le pagine dei capitoli e paragrafi, come ai nomi e luoghi non servono indici, perché si trovano mediante la funzione di ricerca del programma di lettura. 9
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Premessa topografica
Prima di cominciare, una breve descrizione di Roma sarà utile a chi non la conosce. Assimilando l’Urbe a un cerchio, il Tevere l’attraversa da nord a sud, con un corso piuttosto sinuoso, dividendola in due parti disuguali. Al tempo del Papa, un settimo della città era sulla riva destra e il resto sulla sinistra. Sulla destra, seguendo il corso del fiume, l’abitato constava d’un triangolo sopra un rombo Il triangolo conteneva il rione di Borgo e la Basilica di San Pietro, aveva come base un’ansa del fiume, nell’angolo destro il Castello, al vertice i Giardini Vaticani dietro la Basilica e, nell’angolo inferiore sinistro, l’estremità dell’Ospedale di Santo Spirito coll’omonima porta. Da là una strada dritta, incassata fra il letto del fiume e le falde del ripido colle del Gianicolo, raggiungeva Porta Settimiana, dietro la quale iniziava il rombo, contenente il rione di Trastevere e delimitato sui due lati orientali dal fiume. Oltre a Porta Settimiana Trastevere aveva solo tre sbocchi: i ponti sul Tevere e le due porte: San Pancrazio a ovest e Portese a sud. La città vera e propria, coi suoi Sette Colli e i suoi monumenti stava in una specie di stella a sei punte dai contorni molto irregolari, le cui tre punte occidentali erano delimitate dalla riva sinistra del fiume. Le parti nord, est e sud invece erano protette dalle Mura Aureliane, entro le quali però la metà abbondante della superficie era poco o non costruita e sostanzialmente disabitata, perché le case occupavano solo una parte dei Sette Colli – nessuno per intero – e tutta la zona pianeggiante fra loro e il fiume. Il collegamento stabile fra le due sponde era ridotto a cinque ponti che consentivano quattro passaggi. Il primo, a monte della città, vari chilometri fuori dalla cinta muraria, era ponte Milvio, menzionato fin dal III secolo avanti Cristo. Poi, scendendo il corso del fiume, veniva ponte Sant’Angelo, costruito come ponte Elio nel II secolo dopo Cristo, a collegare il Mausoleo d’Adriano, poi divenuto Castel Sant’Angelo, sulla riva destra al centro cittadino su quella sinistra. Seguivano ponte Sisto, eretto da Sisto IV nel XV secolo sulle vestigia d’un ponte romano per unire Trastevere al centro e, infine, i ponti Cestio e Fabricio, che, attraverso l’isola Tiberina, consentivano il passaggio da Trastevere, sulla riva destra, al Ghetto e al retrostante Campidoglio a sinistra. A questi ponti la Roma Pontificia ne aggiunse solo tre e solo nell’ultimo decennio del Potere Temporale; altri venti ne avrebbero costruiti il Regno d’Italia e la Repubblica entro la cinta urbana nel successivo secolo e mezzo. Esistevano due porti fluviali: uno piccolo, detto di Ripetta, sulla riva sinistra, un po’ a monte del castello, l’altro, di Ripa Grande, all’uscita del fiume a valle della città, ma avevano meno traffico di quanto si può pensare. Il Tevere ha infatti una corrente abbastanza forte da rendere semplice la discesa verso la foce, ma difficile la risalita. Prima della comparsa del vapore, chi arrivava per mare alla foce, a Fiumicino – una spiaggia priva di qualsiasi infrastruttura portuale – doveva risalire il fiume al traino di bufali o buoi, che impiegavano fino a ventiquattro ore a percorrere i circa 30 chilometri in linea d’aria, che le numerose anse del fiume allungavano a 45. Per questo motivo l’Urbe era collegata al resto del mondo prevalentemente via terra, grazie all’antico sistema viario romano, ancora sfruttato. Non citerò tutte le strade in uscita dalle varie porte di Roma e mi limiterò a quelle di cui parlerò spesso. Sempre assimilando la città a un cerchio, procedendo in senso orario dall’uscita del fiume a valle, cioè partendo da sud e risalendo per ovest verso nord, la prima era Porta Portese, dove si trovava l’antico arsenale della flotta pontificia e dalla quale nasceva la via Portuense, diretta a Fiumicino lungo la riva destra del Tevere. Porta Portese era l’uscita stradale sud del rione di Trastevere, compreso nella piana tra il fiume e le falde meridionali della collina del Gianicolo. In cima al Gianicolo, dunque orientata più o meno a ovest, c’era la Porta San Pancrazio, da cui partiva la via Aurelia, che fin dal tempo dei Romani, andava alla costa tirrenica e la risaliva per Civitavecchia e Piombino fino a Genova. Ruotando in senso orario, cioè verso nord, da Porta San Pancrazio si arrivava alla Città Leonina e al Vaticano, gli si girava 12
intorno e fra questo e Castel Sant’Angelo, dunque orientata più o meno a nord, si trovava Porta Angelica. Da lì un lungo viale dritto tagliava verso nord la piatta prateria fra il fiume a destra e l’alta collina di Monte Mario a sinistra e, dopo alcuni chilometri, arrivava all’imboccatura di ponte Milvio. Là, davanti al ponte, nascevano le vie Cassia e Flaminia: per Viterbo, Siena e Firenze la prima; per l’Umbria, le Marche e l’Adriatico la seconda. Traversando ponte Milvio, sulla riva sinistra la strada tornava verso la città lungo il fiume, correndo alle falde delle colline dette Monti Parioli fino alla Porta del Popolo, così chiamata da un grosso pioppo – populus in latino – che vi si trovava in antico. Da là, se, invece d’entrare a Roma, si voltava a sinistra e si seguivano le mura, si raggiungeva Porta Salaria – orientata a nord-nord-ovest, da cui nasceva la via Salaria per la Sabina – e l’adiacente Porta Pia, orientata a nord-nord-est, da cui partiva la via Nomentana, diretta più modestamente alla cittadina di Mentana. Salaria e Nomentana a circa cinque chilometri dalle mura scavalcavano l’Aniene, un affluente del Tevere proveniente da est, abbastanza largo e vorticoso da costituire un ostacolo inguadabile e un grattacapo per qualsiasi esercito e sul quale si poteva passare solo attraverso i tre ponti Salario, Nomentano e Mammolo. Proseguendo lungo le mura urbane si trovavano Porta Tiburtina, da cui usciva la via Tiburtina, diretta a Tivoli, e Porta Maggiore, orientata a sud-est, dove nascevano le vie Prenestina – per Palestrina – e Casilina – per Frosinone. La porta seguente, sempre a sud-est, con alle spalle l’amplissimo e vuoto piazzale della basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, era Porta San Giovanni, punto di partenza della via Appia, per la Campania e Brindisi. Dall’Appia con una deviazione a sinistra, ci si innestava sulla Tuscolana, per i Castelli Romani. La via successiva, a sud, da Porta Ostiense, altrimenti detta Porta San Paolo, era l’Ostiense. Diretta ad Ostia, correva lungo la riva sinistra del Tevere, praticamente parallela alla Portuense per Fiumicino in uscita da Porta Portese sulla riva opposta. Infine Roma era ampia come giro di mura, ma poco popolata. Per tutto il periodo papale in sostanza non superò i 200.000 abitanti – ne aveva poco più di 203.000 al momento dell’entrata dell’Esercito Italiano nel 1870 – i quali vivevano in condizioni igieniche non peggiori di quelle delle altre città europee, con due differenze: avevano una maggior disponibilità d’acqua potabile grazie al grandissimo numero di fontane e, fino a dopo l’annessione all’Italia, erano afflitti dalla malaria, endemica in tutto l’Agro Romano.
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Capitolo I Gli Stati del Papa alla fine del Medioevo
Filo conduttore della storia della civiltà occidentale fin dai suoi albori è la ricerca della sovranità universale. Raggiunta e persa via via dalle varie città greche, dai Macedoni e da Roma, alla caduta dell’Impero d’Occidente ed al vuoto di potere che ne seguì passò nelle mani della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, che investì di quella temporale l’impero franco, appositamente creato colla consacrazione di Carlo Magno a Roma, nella notte di Natale dell'anno 800 L’universalità del dominio imperiale cominciò a sfrangiarsi già alla morte di Carlo, quando la sua eredità venne divisa tra i figli, separando così la Francia dal blocco centrale italo-germanico. Mentre lentamente si andavano formando i primi Stati nazionali, ciò che era rimasto dell’Impero continuava a perdere la propria unitarietà a vantaggio delle entità politiche di periferia più forti e ricche. specialmente italiane. Il tentativo di eliminarne la crescente autonomia portò gli imperatori della casa d’Hohenstaufen alla sconfitta di Legnano e a quello scontro colla Chiesa, noto come Lotta per le Investiture, che sancì, bene o male, la separazione fra il potere temporale e quello spirituale. L’indebolimento dell’Impero andò a vantaggio della Francia, che poté ampliare la sua influenza europea, dei Comuni italiani e della Casa d’Aragona, che poté installarsi da padrona nell'Italia meridionale. Dall’avviata formazione degli Stati nazionali l’Italia restò esclusa per la sua conformazione politica ma, soprattutto, per la presenza dello Stato della Chiesa, che si alleava di continuo all’uno od all’altro straniero, prima per ottenere la supremazia territoriale, poi per evitare che altri la raggiungessero ai suoi danni e, infine, più bassamente, per far avere un dominio indipendente al parente di qualche Papa. La situazione rimase più o meno statica fino alla fine del XV Secolo, quando si verificarono in un brevissimo lasso di tempo parecchi fatti destabilizzanti strettamente collegati fra di loro. I venticinque anni compresi fra il 1492 ed il 1517 videro: la morte di Lorenzo de’Medici, considerato l'arbitro della politica italiana; la fine della “Reconquista” ad opera di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, che permise alla Spagna di chiudere i suoi problemi interni ed affacciarsi alla scena europea: il matrimonio fra Giovanna, figlia maggiore di Ferdinando e Isabella, con Filippo d’Asburgo, primogenito dell’Imperatore germanico Massimiliano e, infine, la nascita del loro primogenito, che, ereditando e riunendo nelle proprie mani i domini dei nonni paterni e materni, avrebbe dato alla Spagna la signoria del mondo per centocinquant’anni: Carlo V. In quel venticinquennio, giocò un ruolo notevole la Chiesa attraverso lo Stato che dominava direttamente e che ne era in pratica l’incarnazione: quello pontificio. A dire il vero, lo Stato Pontificio in quanto tale non è mai esistito prima di Napoleone, perché non si è mai avuto uno Stato del Papa centralizzato fino alla Restaurazione; e dopo Napoleone ha avuto una vita assai travagliata e non molto lunga. Di conseguenza è più corretto parlare di Stati Pontifici, al plurale, o, meglio ancora, di Stati del Papa, nel senso di entità statali dalla sovranità più o meno affievolita, raggruppate in qualcosa di simile a un’unione personale sotto il Papa. Le condizioni degli Stati del Papa erano piuttosto strane, almeno secondo i canoni dei secoli XX e XXI. Pur essendo sostanzialmente omogenee, le leggi civili variavano da luogo a luogo, perché erano temperate o affievolite dai privilegi della città, del feudo, o della comunità, che all’atto della dedizione, o dell’incorporazione, potevano aver conservato tutte o in parte le antiche strutture di autogoverno, più o meno svuotate di potere. Gli ecclesiastici avevano un foro separato – e fin qui non ci sarebbe da stupirsi – tanto per le materie religiose, quanto per quelle civili e penali. Bisognava però vedere chi esattamente
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rientrasse nella giurisdizione ecclesiastica, perché molti laici 1 al servizio della Chiesa vi erano compresi e perciò erano “ipso facto” sottratti alla giurisdizione laica ordinaria. L’amministrazione civile a Roma aveva degli ecclesiastici ai propri vertici, però non ne aveva necessariamente nelle città e “comunità” degli Stati del Papa e, ad ogni modo, era del tutto separata da quella ecclesiastica e ad essa parallela. Entrambe dipendevano dal Papa, ma come i due lati che s’incontrano al vertice d’un triangolo. Di conseguenza in una città, come ad esempio Bologna, il cardinale arcivescovo aveva competenza esclusivamente sugli affari ecclesiastici e il legato pontificio, sempre almeno un vescovo e spesso pure lui un cardinale, l’aveva su quelli civili, ai quali era preposta però l’amministrazione urbana, che a Bologna era capeggiata da un Senato, composto inizialmente da 40 membri di altrettante famiglie nobili cittadine, e da un gonfaloniere, eletto per due mesi fra i senatori. In definitiva il cardinale arcivescovo rispondeva al Papa in quanto suo sottoposto ecclesiastico, il cardinal legato rispondeva al Papa in quanto suo sottoposto amministrativo temporale; e il Senato di Bologna rispondeva al Legato, ma comunicava col Papa tramite il proprio ambasciatore a Roma. A latere esistevano un tribunale laico civile e penale, un tribunale ecclesiastico per i reati ricadenti nella sfera ecclesiastica, che, come ho accennato prima, comprendeva pure quelli fatti dai laici dipendenti dalla Chiesa o contro di loro, e un tribunale dell’Inquisizione, con a capo un inquisitore – di solito un domenicano o un francescano – che non era un vescovo, ma aveva dei poteri più temuti di quelli d’un vescovo. Questa commistione era ulteriormente complicata dai diritti della nobiltà. Ve n’erano di scritti e non scritti, tutti ugualmente codificati – i primi dalle leggi, i secondi dall’uso – e scrupolosamente rispettati. I nobili sapevano cosa potevano fare e fin dove potevano spingersi. Un nobile normale poteva agire a suo piacimento purché rispettasse almeno esteriormente i precetti della Chiesa e non ne sfidasse la gerarchia. Se riusciva a mettersi sotto la protezione d’un sovrano straniero, aveva già molta più libertà d’azione; se aveva la fortuna d’essere parente d’un cardinale ne era ancor più avvantaggiato e, infine, se il parente cardinale era fatto Papa, l’impunità era assoluta e garantita; e tale la situazione, con una pausa nell’ultimo quarto del ‘500 sotto San Pio V e Sisto V, sarebbe rimasta fino a Benedetto XIV, eletto nel 1740. A questo si sommava un’ulteriore complicazione, divenuta via via più frequente dall’inizio del XVII Secolo. Alcuni sovrani che avevano ricevuto per sé e i loro successori, dei titoli che ne contraddistinguevano i servizi resi alla Chiesa, ai arrogavano pure un pericoloso privilegio, non scritto ma non per questo meno rispettato: quello di veto all’elezione d’un cardinale a papa. Era in un certo senso una resurrezione del Privilegium Othonis o Privilegium Ottonianum del 13 febbraio 962 con cui all’Imperatore era stato riconosciuto il diritto di sancire o meno l’elezione del Papa. Annullato da Niccolò II colla bolla In nomine Domini dell’aprile 1059, adesso ricompariva e se lo arrogavano l’Imperatore, perché in origine era stato privilegio imperiale, il Re Cattolico delle Spagne visto che le sue corone erano state unite a quella imperiale sulle testa di Carlo V, e il Cristianissimo di Francia in quanto erede della corona da cui era nato il Sacro Romano Impero. Loro pretendevano, all’apertura del Conclave, o nel suo corso per mezzo di un cardinale loro delegato, di valersi dello Jus exclusivae, cioè del diritto d’esprimere un veto inappellabile contro questo o quel candidato che a loro fosse spiaciuto. A tale diritto, adoperato per l’ultima volta da Francesco Giuseppe nel 1903 per vietare l’elezione del cardinal Rampolla e che sarebbe stato eliminato il 20 gennaio 1904 da San Pio X con la costituzione speciale Commissum nobis, nulla veniva opposto. Di conseguenza alcuni dei cardinali “protettori delle corone”, come erano chiamati quelli che curavano a Roma gli interessi dei sovrani cattolici, avevano un potere e un’influenza assai più grande dei loro colleghi e potevano fare e disfare quasi a loro piacimento, in proporzione alla potenza del sovrano che rappresentavano e in coordinazione col suo ambasciatore. Infatti il cardinal protettore d’una corona 1 Va ricordata una cosa che la distorsione del linguaggio a fini politici a partire dall’ultimo quarto del XX secolo ha confuso.
Un laico non è un ateo, o un agnostico; un laico è un credente e un cristiano che non ha pronunciato i voti maggiori e non appartiene ad un ordine religioso, quindi tutti i cristiani sono laici e quanti si dichiarano laici nel senso di ateo o agnostico distorcono artatamente la parola e il suo significato.
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poteva anche essere, ma di regola non era, l’ambasciatore, però era il curatore degli interessi ecclesiastici e giurisdizionali di un sovrano di cui poteva anche non essere suddito, ma dal quale lui o i suoi parenti ottenevano favori e benefici. Così, ad esempio, nella corte romana i Colonna erano tradizionalmente filospagnoli e nemici dei filofrancesi Orsini, mentre più tardi i Barberini sarebbero stati filofrancesi e gli Albani avrebbero curato gli interessi dei Savoia e in parte dell’Impero. Questa complicatissima situazione, questa mescolanza di religione, diplomazia e politica, cittadina, interna e internazionale, al contempo mondiale, europea, italiana e urbana era, per certi versi, tipica del cosiddetto Antico Regime, quello antecedente alla Rivoluzione Francese, ed aveva radici profonde. La potestà terrena della Chiesa, come è noto, risale al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e all’essere stata la gerarchia ecclesiastica l’unica organizzata rimasta in tutta l’Europa occidentale. Concretamente, il dominio pontificio aveva cominciato ad essere esercitato sulle prime terre donate al Papa, Nepi e Sutri, regalate dai Longobardi. Presto se ne aggiunsero altre, spesso datesi spontaneamente, perché essere sudditi della Chiesa portava notevoli vantaggi. I chierici godevano di moltissimi privilegi, a partire dal già citato foro separato, passando per l’esenzione da molte imposte e dal servizio militare, e terminando col diritto d’asilo e l’inviolabilità della persona e delle proprietà. In un’epoca dura come il Medioevo, appartenere alla Chiesa o esserne servitore garantiva sicurezza. Il bracciante d’un monastero o di una parrocchia, l’affittuario che ne lavorava i campi, il pastore che ne governava le bestie, erano certi che, se qualcuno avesse osato alzare la mano contro di loro, immediata sarebbe giunta la risposta, vibrata con la doppia forza delle armi terrene e celesti: il bando, l’interdetto e, soprattutto, la scomunica. Quest’ultima metteva lo scomunicato in una pessima posizione: non solo gli dovevano essere negati il riparo, il fuoco e l’acqua, ma qualsiasi obbedienza. I vassalli avevano il diritto di non eseguire gli ordini del signore scomunicato, di non pagargli le tasse in denaro o in prestazioni e, volendo, anche d’ucciderlo, con la certezza che non sarebbero stati puniti. Ci credessero o meno, la scomunica forniva loro un’ottima giustificazione per sottrarsi all’autorità del loro signore naturale. Essere servitori della Chiesa dava dunque notevoli vantaggi agli uomini e alle comunità. Il paese che si dichiarava suddito del Papa aveva protezione contro le angherie dei signori locali o dei sovrani, primo fra tutti l’Imperatore. Questo venne capito in fretta e implicò uno stillicidio di dedizioni alla Chiesa lungo tutto l’arco del Medioevo, portando a uno scontro meno evidente di quello noto come Lotta per le investiture, ma non meno importante. Politicamente, coll’eccezione sicura di Venezia e discutibile di Genova, tutta l’Italia a nord del Tevere prima sarebbe stata feudataria del Sacro Romano Impero, poi del Sacro Romano Impero Germanico. Il condizionale è d’obbligo perché la vera situazione era stata resa assai oscura da ripetuti cambiamenti, dovuti all’affievolimento dell’autorità imperiale nel corso dei secoli. Se al tempo di Carlo Magno la dipendenza era almeno formalmente vera, quattro secoli dopo non lo era più. I Comuni italiani si erano resi sempre più autonomi, l’autorità imperiale era stata fortemente scossa dalla Lega Lombarda, vittoriosa sul Barbarossa e sostenuta dal Papa, poi dallo scontro che aveva visto Enrico IV soccombente passare giorni interi in ginocchio nella neve davanti al castello di sua cugina Matilde a Canossa e, infine, dal crollo d’autorità seguito alla morte di Federico II di Svevia. Per questo i nobili e i Comuni italiani si erano progressivamente avvicinati o dati alla Chiesa. Dirsi sudditi della Santa Sede, oltre a svincolarli da qualsiasi obbligo verso il loro sovrano, offriva altri due vantaggi: la conservazione dei privilegi locali e un’autonomia proporzionale alla distanza da Roma. Questo però non aveva fatto decadere i diritti imperiali, o, almeno, l’Impero non aveva mai rinunciato ufficialmente ad essi. Formalmente, se si poteva discutere sul Lazio, al limite sulla Tuscia, tutta l’Italia a nord di esso, per quanto potesse essersi data al Papa, restava sempre suddita dell’Imperatore. Di fatto non lo era, non gli pagava le tasse, né gli forniva soldati; ma per secoli e secoli, fino agli ultimi anni del XVII e ai primissimi del XVIII, la questione non sarebbe mai stata veramente sollevata, creando una pericolosa situazione in cui ogni centro urbano, per piccolo che fosse, era in teoria servitore di due padroni, il suo sovrano, Papa o duca che fosse, e l’Imperatore. 17
Ovviamente l’Impero aveva protestato, ma gli era stata sbattuta in faccia la donazione di Costantino. Apparentemente era un originale del 30 marzo del 315,2 ma in realtà era un falso che solo nel 1440 Lorenzo Valla avrebbe dimostrato tale, anche se sarebbero serviti altri settantasette anni prima che il suo manoscritto potesse vedere la luce. La Donazione era importante perché serviva a sostenerne un’altra, abbastanza generica, con cui Carlo Magno avrebbe regalato al Papa i territori a nord del Tevere, o, nell’ipotesi più benigna, a nord del Lazio. Secondo l’interpretazione più restrittiva, che sarebbe stata fatta propria da Napoleone nel 1808, quella di Carlo Magno era non una donazione vera e propria, ma un’investitura feudale. Secondo la più favorevole alla Chiesa, invece, avendo Carlo ridato a papa Adriano i territori che già i Longobardi gli avevano concesso, era una restituzione di possesso a tutti gli effetti e con tutte le conseguenze del caso. Chiaramente, qualunque fosse stata l’idea di Carlo, la comparsa d’una donazione fatta da Costantino con cui mezzo millennio prima di Carlo Magno si davano al Papa Roma e tutto l’Occidente non poteva che servire a sostenere le pretese papali di piena sovranità. Alla fine del XV Secolo la questione era accantonata e ancora irrisolta, l’opera di Valla inedita, perché sarebbe uscita solo nel 1517, i possedimenti terreni della Chiesa ampi, i suoi eserciti potenti, la sua diplomazia esperta e ramificata, il suo potere pesante su tutta la Respublica Christiana, come era chiamata dai giuristi la Cristianità d’allora, sostanzialmente coincidente coll’Europa non ortodossa e non occupata dai mussulmani. Nella sua qualità di sovrano temporale, il Papa aveva avuto e ancora poteva avere delle contese, per cui un esercito gli era necessario. La marina invece gli serviva contro i mussulmani che devastavano sistematicamente le coste italiane ed entrambe le forze armate scendevano regolarmente in guerra ogni volta che occorresse alla politica pontificia. Questa era resa assai complicata da due fattori. Intanto era discontinua perché cambiava a ogni nuovo papa, il quale poteva essere eletto anche pochissimo tempo dopo l’elezione precedente; poi perché raramente un papa apparteneva alla stessa famiglia di uno dei suoi predecessori e infine perché, se pure capitava, l’intervallo fra lui e il suo parente predecessore c’era sempre e non era da poco. Ad esempio, quando nel 1492 Colombo scoprì l’America, Carlo VIII scese in Italia, morì Lorenzo de Medici e fu anche eletto il nuovo papa, lo spagnolo Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borja, per gli Italiani Borgia, che era il secondo pontefice di quella famiglia; ma il precedente, suo zio Callisto III, eletto nel 1455, era morto nel ’58 e dopo di lui erano stati papi un Piccolomini, un Barbo, un della Rovere e un Cybo, per cui, se anche vi fosse stata identità di interessi e vedute fra i due Borgia, trentaquattro anni e quattro altri papi di distanza fra loro avrebbero impedito qualsiasi continuità politica. Due dei tre papi Medici – Leone X morto nel 1521 e Clemente VII, morto nel 1534 – furono più vicini – Clemente fu eletto nel 1523 – ma intervallati da Adriano VI, fiammingo e del tutto alieno dalle questioni italiane. Quanto al Medici successivo, Leone XI, sarebbe stato eletto solo nel 1605 per morire dopo appena diciassette giorni. Questa discontinuità implicava pure un altro antipatico aspetto: il papa eletto cercava sempre di favorire la sua famiglia, facendola nobile se non lo era, poi dandole prebende, cariche, cappelli cardinalizi e, se possibile, feudi o addirittura corone e, poiché al papato si arrivava da vecchi, si sapeva che il tempo La Donazione era conservata in copia nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro e, sotto forma d’interpolazione, in alcuni manoscritti del Decretum di Graziano del XII Secolo. L’autore delle Decretali è ignoto, anche se gli studi hanno concluso che si sia trattato non di un singolo, a suo tempo indicato come Isidoro Mercator o anche Pseudo-Isidoro, ma di un gruppo di autori, diretti da un solo coordinatore che, se è vero che i documenti adoperati per la stesura venivano dalla biblioteca dell’abbazia francese di Corbie, potrebbe essere stato l’abate Pascasio (al secolo Radberto), poi santificato, in carica nel quinquennio dall’842 all’847, anno in cui l’insieme dei falsi fu, se non completato, quanto meno avviato al completamento per essere terminato entro l’852. La raccolta comprese almeno un paio di centinaia di falsi di vario genere, tutti tendenti a rafforzare la gerarchia ecclesiastica e a provvederla d’una base giuridica che la sottraesse alla giurisdizione laica. Per quanto riguarda la Donazione di Costantino, sarebbe restata indiscussa fino al 1440, quando Lorenzo Valla l’avrebbe fatta oggetto di uno studio, pubblicato però solo nel 1517 sotto il titolo di De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio, (Discorso sulla falsa donazione di Costantino, creduta e smentita) e finito all’indice dei libri proibiti nel 1593. 2
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stringeva, per cui le azioni erano spasmodicamente veloci, con conseguenze spesso pericolose e destabilizzanti. Se poi il papa non aveva troppe intenzioni di darsi da fare, erano magari i suoi parenti a prendere l’iniziativa, mettendolo davanti al fatto compiuto e con conseguenze ancor più gravi. Questa febbrile attività della politica pontificia, che fu particolarmente nefasta proprio durante il papato di Alessandro VI, si svolgeva e spesso si intersecava coll’altro aspetto che la rendeva complicata: quello religioso. La difficoltà della politica della Chiesa consisteva nel dover rispettare e far rispettare nella forma e, se possibile, nella sostanza l’ortodossia cattolica in tutto e per tutto. Questo significava che, in materie che toccassero anche indirettamente la religione, non era possibile alcun compromesso. Ad esempio, quando nel periodo napoleonico si trovò a dover contrastare con le sole proprie e indebolitissime forze la minaccia dei pirati mussulmani, la Santa Sede non poté sottoscrivere con loro degli accordi come tutti gli Stati europei, perché era esclusa a priori qualsiasi trattativa coi nemici della Fede.3 Le relazioni coll’Inghilterra per tutto il Settecento furono complicate dal sostegno e dall’ospitalità papale ai cattolici Stuart, così come il Re di Prussia non veniva riconosciuto come tale e per Roma restava sempre e solo il Marchese di Brandeburgo. E’ chiaro che con tali invalicabili limiti il margine di manovra della diplomazia pontificia era esiguo. Quando ad esso si sommava l’interesse dei parenti del papa, o del papa stesso, ad acquisire beni e vantaggi per la propria famiglia, la politica diveniva assai difficile e la diplomazia pure, a meno che la controparte non fosse marcatamente più debole. La debolezza poteva essere morale o materiale. Dal punto di vista morale, la supremazia pontificia reggeva finché le autorità laiche le riconoscevano il primato religioso ed accettavano che ne derivasse uno politico. L’incoronazione di Carlo Magno aveva reso evidente e pubblica l’affermazione di supremazia del Papato e della Chiesa sul potere politico laico. Ancora di più avevano giocato in questo senso prima il riconoscimento ai Normanni delle corone di Napoli, cioè di tutta l’Italia del sud, e della Sicilia, poi la supremazia pontificia sui potentissimi ordini monastico-cavallereschi dei Templari, dei Gioanniti e dei Teutonici. Lo scioglimento dei primi aveva fatto confluire molti di loro e quasi tutti i loro beni fra i Gioanniti, il Sovrano Militare Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, che, caduta la Palestina, si sarebbe arroccato nell’isola di Rodi, prima, e poi, persa anche questa, a Malta, divenendo feudatario del Re di Sicilia, ma restando gerarchicamente sottoposto al papa. Tutto questo dava al pontefice forza e vantaggio, ma nel corso del Medioevo gli imperatori avevano fatto in fretta a contestare la supremazia della Chiesa sullo Stato. Proprio per chiudere loro la bocca e appena mezzo secolo dopo l’incoronazione di Carlo Magno era stata confezionata la falsa Donazione di Costantino; ma non era bastata. Il papa aveva dovuto dotarsi di truppe e gli era stato necessario avere i sudditi e poi i professionisti per formarle e il denaro per mantenerle, il che aveva portato la Chiesa a impegnarsi spasmodicamente per conservare e possibilmente aumentare le sue prerogative e le sue terre. La Lotta per le Investiture era stata un incubo da cui i papi avevano tratto una lezione: nessun sovrano doveva mai più essere in grado d’assalire la Chiesa in Italia; nessuno Stato doveva mai più essere tanto forte in Italia da poter minacciare la Chiesa e la sua autonomia. Questo lo si doveva ottenere per salvaguardare sia i beni dei parenti del papa, sia quelli dell’organizzazione e della gerarchia ecclesiastica, 3 Il motivo è complesso e ci tornerò sopra in seguito. In sostanza gli ostacoli erano due, Il primo e meno importante era che,
fino alla fine della Guerra di Morea nel 1718, la guerra era il mezzo d’espansione della religione islamica, perciò non poteva essere terminata ma solo sospesa. Il sultano non faceva la pace, ma, con ciò che in Occidente era un trattato di pace, prometteva a un certo sovrano solo di sospendere le ostilità e la promessa valeva solo fra i due contraenti, non per i loro eredi e successori. Di conseguenza, quando morivano o il sultano, o il sovrano destinatario della promessa, questa era automaticamente sciolta e la guerra ricominciava. L’altro ostacolo, il maggiore in assoluto, era che il sultano faceva questa promessa solo a chi si era riconosciuto “inferiore”, non in termini razziali o nazionali, ma religiosi. In altre parole, concludere un trattato col sultano significava riconoscere che la religione islamica era quella vera e la propria no, cosa che il Papa non poteva e sopratutto non doveva assolutamente fare, essendo la religione cristiana l’unica vera.
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sia, soprattutto – e su questo vi sarebbe stata sempre una mirabile continuità attraverso i secoli – l’integrità della Fede da qualsiasi influsso statale, laico, o peggio eretico o non cristiano che potesse minacciarla. Di conseguenza le forze armate del Papa dovevano agire come il braccio armato di uno Stato e di una Fede, per proteggere gli interessi temporali del Papa e al tempo stesso consentirgli di conservare intatti i dogmi cristiani contro qualsiasi tentativo di intaccarli, minacciarli o distruggerli. Ci provarono, ma con successo sempre minore man mano che il tempo passava, perché lo scontro fra il Papa e i suoi nemici era sempre meno materiale e sempre più morale e spirituale, per cui il ricorso alle armi – costose e via via meno efficaci e forti – diminuì, fino a cessare nel terzo quarto del secolo XIX; e le forze armate, dopo l’ultimo quarto del XX secolo, si ridussero al mantenimento d’un simulacro d’esercito, rimasto a presidiare un simbolo di Stato incaricato di custodire l’integrità del Messaggio della Fede e della Tradizione cristiana in un Continente scristianizzato: e questa è la loro storia.
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Capitolo II Gli eserciti e la guerra del Rinascimento
I) Cavalleria, Fanteria e Artiglieria. Prima di cominciare occorre dire che, per tutti i motivi di ordine generale esposti in precedenza,dopo il 1492 lo Stato del Papa fu coinvolto in guerre di lunga durata solo due volte: nel 1556 contro gli Spagnoli e nel 1641 contro la Lega dell’Italia centrosettentrionale. Naturalmente le truppe pontificie combatterono molto di più, dentro e fuori d’Italia, ma si trattò o di marginali partecipazioni da alleate a guerre di grande entità – come contro i Turchi – o di conflitti limitati a una sola campagna, come nel 1708 contro l’Impero o nel 1860 contro il Re di Sardegna. Questo capitò perché col passare de tempo la Santa Sede contò sempre meno in politica e dunque ebbe meno occasioni di scontro. Se nel XVI secolo era un’entità di primaria importanza, alla fine del XVII non lo era più. Nel XVIII si ridusse a cercare con poco successo di mantenere le sue posizioni. Nel XIX sopravvisse solo sul piano dell’autorità meramente spirituale e a condizione di essere realmente cattolica, cioè universale, e di prescindere una buona volta dalle questioni italiane. Questo le permise di attraversare con successo tutto il XX secolo, prima di trovarsi nella disastrosa crisi del primo quarto del XXI. Per questi motivi, visto che il fulcro delle azioni militari pontificie è nel periodo dal 1555 al 1645 e visto che in quell’epoca l’organizzazione militare e il modo di far la guerra erano ancora quelli rinascimentali, converrà dire brevemente come fossero e operassero gli eserciti in quel periodo. Dall’Antichità erano divisi in fanteria e cavalleria, poiché l’artiglieria, che, nel senso di corpo preposto ai cannoni, esisteva già almeno dal XIII secolo, non era considerata un’arma a pieno titolo, per la lentezza d’impiego dei pezzi e per la conseguente scarsa risolutività sul campo di battaglia La cavalleria era ancora reputata l’arma principale, nonostante le guerre più recenti ne avessero dimostrato l’incapacità di vincere una battaglia in presenza di un saldo e fortificato schieramento di fanteria. Divisa in cavalleria, o genti d’arme (o uomini d’arme), e cavalleggeri, l’Arma si articolava in piccole unità base risalenti al Medioevo e chiamate Lance, ognuna delle quali comprendeva un capolancia, o caporale, un cavalcatore e un ragazzo, rispettivamente montati su tre diversi cavalli: un destriero, un corsiero, e un ronzino. Lancia spezzata era invece definito il singolo cavaliere seguito dallo scudiero. La fanteria rinascimentale reclutava e serviva per Bandiere, comprendenti due caporali, due ragazzi, dieci balestrieri, nove palvesai, equipaggiati coi grandi scudi medioevali detti palvesi, e una “paga morta”, che era di solito il servitore del capitano comandante. Entrambe le armi, però, alla fine del Rinascimento e sull’onda delle compagnie di ventura, si stavano organizzando in compagnie, la cui forza poteva aggirarsi di solito intorno ai 50 uomini. Mediamente in guerra la proporzione d’impiego sul campo tra cavalleria e fanteria faceva ammontare la prima al dieci per cento della seconda. Variava invece a seconda delle contingenze il numero dei cannoni e, nonostante le varie teorie, non sembra esserci stata una regola generalmente seguita per il loro impiego e la loro ripartizione in combattimento, o a seconda dei vari tipi di combattimento: ossidionale offensivo, ossidionale difensivo, campale. Del resto l’enorme varietà di calibri e la lentezza dei tempi di spostamento, messa in batteria, caricamento e sparo rendeva l’artiglieria ancora poco versatile, benché la sua potenza fosse già riconosciuta come fondamentale per il successo militare. L’evoluzione dell’artiglieria è forse uno degli aspetti di maggiore interesse nell’evoluzione tattica del Secolo XVI. 4 Il MONTÙ, Carlo, Storia dell'artiglieria italiana, vol. 1, Roma, Rivista d'Artiglieria e Genio, 1934, a pag. 100 contiene indicazioni dal Regesto Fiorentino su chi a Firenze era incaricato di provvedere alle artiglierie ai primi del XIV secolo, precisamente nel 1326, aggiungendo che nel 1327 Guglielmo Dro, castellano di Gassino, feudo del marchese del Monferrato 4
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Cinquecento si apre infatti con un uso ancora rudimentale dell’Arma, che si evolve rapidamente dopo la battaglia di Ravenna, in cui l’apporto determinante è quello dei cannoni da campagna, usati come tali per la prima volta, e termina con un impiego sempre crescente dei pezzi di vario genere, tanto in mare quanto in terra. A sua volta l’evoluzione tecnica e tattica dell’Arma coi suoi letali effetti determina quella delle altre due. La fanteria impara a sue spese – e lo si vede a Pavia – quanto poco le servano le picche davanti ai cannoni. La cavalleria comprende di non poter ignorare l’artiglieria e di doverla considerare una nemica pericolosa almeno quanto la fanteria Infine un altro aspetto nuovo fu la progressiva adozione di equipaggiamenti omogenei. Il principio fu appunto nel XVI secolo e riguardò non tanto le armi – l’omogeneità delle quali era forzatamente limitata dalle capacità tecniche e produttive ancora ridotte – quanto l’aspetto dei militari. L’introduzione di vestiario uniforme almeno a livello di compagnia è documentata da fonti iconografiche del tempo. Esistono infatti rappresentazioni pittoriche cinquecentesche – su tela o su muro – di soldati, specie pontifici, vestiti tutti nello stesso modo a seconda almeno delle compagnie. Si trattò di un’uniformologia ancora molto rudimentale, spesso limitata alla sola casacca e comunque pesantemente condizionata dalla mancanza di rifornimenti e di denaro, ma comunque fu un primo e definitivo passo verso una marcata identificazione delle truppe.
II) La strategia, i comandanti e la tattica. Contrariamente a quanto si pensa comunemente, la strategia era ben conosciuta dai capitani del Rinascimento; solo che raramente era teorizzata e ancor più di rado era codificata in principi scritti e stampati, complice la scarsa diffusione dei libri per le difficoltà di stampa e l’alto costo.5 L’andamento delle guerre del Cinquecento dimostra a sufficienza come ogni scelta venisse non solo ponderata attentamente in base agli obiettivi fissati al principio della campagna, ma considerata anche in relazione a quanto era noto dell’andamento politico-militare della guerra. Compatibilmente con la lentezza dei corrieri, le decisioni prese erano raramente sbagliate e, il più delle volte, la campagna o la guerra venivano perse non per incapacità dei comandanti. ma per maggior potenza o miglior addestramento dell’avversario. Del resto era ovvio che fosse così perché, in un periodo in cui i comandanti erano sempre in prima linea, la selezione naturale faceva sì che tra loro solo i bravi sopravvivessero per far carriera. I fortunati ed abili comandanti usciti da questa durissima scuola applicavano ogni trucco per vincere, dall’imboscata alla corruzione e, quando avevano una buona conoscenza dei classici – fondamentale per un uomo del Rinascimento – non disdegnavano d’applicare sul campo le nozioni apprese. Ne è un esempio la manovra dei Fiorentini contro i Senesi a Marciano il 2 agosto del 1554: scontro di cavalleria pagò 72 soldi e 7 denari di Vienna a Frà Marcello per fare palle di piombo. A pag. 149, relativamente all’artiglieria papale, si trovano dati sulla preparazione dell’artiglieria per la Guerra di Romagna del 1350. Nello specifico, il 30 aprile 1350 monsignor Tesoriere pagò Cicchino Carnerio da Modena:"pro cannonibus, ballottis et malleis de ferro, et aliis fulcimentis pro bombardis, per ipsum Cicchinum emptis et paratis", il 12 maggio al medesimo Cicchino Carnerio da Modena una somma “pro pulvere, pro bombardis et aliis rebus et fulcimentis bombardarum per eum emptis et paratis". Il 16 maggio il Tesoriere pagò Andrea di Donato d’Antella “pro duobus fascibus ferri, pro fieri faciendo ballottas pro bombardis", il 3 giugno liquidò Ferrarino Rossellini da Borgo San Donnino e Jacopo di Giovanni da Modena "magistris facientibus ballottas de ferro pro bombardis pro parte salarii dictorum magistrorum temporis quo servierunt"; il 13 giugno Angelo olim Locchi d’Antella: "pro libris millequinquaginta ferri operati et etiam operandi ad faciendum ex eo fieri ballottas pro bombardis" e il 29 giugno 1350 infine pagò Andrea di Donato d’Antella "pro ducentis viginti sex ballottas de ferro ad bombardas ponderis centum octoginta octo librarum", segno che le artiglierie pontificie a metà del Trecento facevano già ampio uso di cannoni, o meglio, di pezzi a polvere nera. 5 Dopo l’invenzione di Gutenberg della stampa a caratteri mobili, fra il 1455 e il 1500 si stima che siano state pubblicate 35.000 edizioni diverse di varie opere, prevalentemente religiose, filosofiche, poetiche e di letteratura antica, per un totale di dieci milioni di copie, di cui ne restano circa 450.000, meno d’un ventesimo. Nel secolo successivo la tiratura complessiva si calcola essere stata di circa 220 milioni di copie. Ciò nonostante, il loro prezzo rimase elevato e la quantità di opere militari, per quanto ampia, continuò ad essere inaccessibile a molti per via della spesa.
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sulle ali e di fanterie al centro. La cavalleria senese cede e si sbanda, la fanteria fiorentina ripiega attirando in avanti quella senese sulla quale, da entrambi i lati, piomba poi intrappolandola e distruggendola la cavalleria fiorentina: è Canne. Allora come in seguito il modo migliore per battere il nemico consisteva nell’assunzione del controllo del suo territorio cioè delle vie di facilitazione – strade, ponti, fiumi, laghi, approdi marittimi e lacustri di buona capacità ricettiva – e dei punti fissi di presidio – castelli, città o torri – destinati a proteggerli. La loro presa di solito paralizzava l’avversario tagliandogli i rifornimenti. Non si trattava dei viveri, perché l’esercito raramente eccedeva i 20.000 uomini ed era abbastanza piccolo da sopravvivere per una campagna con le risorse del territorio, né del denaro – perché bastava prendere e saccheggiare una città per tacitare i soldati – quanto dei ripianamenti di parti di ricambio – corazze e lame – armi da fuoco, munizioni e, soprattutto, cavalli e complementi. Per questo motivo una guerra, dal tardo Rinascimento e più o meno fino al periodo svedese della Guerra dei Trent’Anni cioè almeno fino al 1629, aveva un andamento caratterizzato da una sequela apparentemente infinita di assedi, contornati da scorrerie nelle campagne e molto raramente da grandi battaglie campali. Del resto la battaglia campale era quasi sempre una soluzione definitiva della campagna, se non della guerra. La scarsa abitudine allo scontro di grandi proporzioni e la ridotta mobilità dei combattenti appiedati e delle salmerie, con la conseguente difficoltà di sganciamento determinavano la necessità di vincere o morire; ragion per cui di solito i due eserciti si affrontavano senza esclusione di colpi finché uno veniva distrutto più o meno completamente dall’altro. III) La “traccia italiana” La guerra d’assedio conobbe una notevole evoluzione, definita molto impropriamente da alcuni storiografi della seconda metà del Secolo XX come “la Rivoluzione militare” 6 mentre fu una semplice “evoluzione militare”, che s’imperniò sull’accelerazione del classico duello fra difesa ed offesa – arma e corazzatura – grazie allo sviluppo dell’artiglieria e a quello, conseguente, delle fortezze, sviluppo in cui gli Italiani svolsero il ruolo principale. L’uomo rinascimentale italiano considerava ogni aspetto del conoscibile come parte d’un tutto armonico e della verità cosmologica. Correlando le sue conoscenze, sempre intese come aspetti di una sola globalità, egli era al tempo stesso matematico, architetto, pittore, scultore, musicista, poeta e inventore; e ogni branca del suo scibile si rifletteva sulle altre, arricchendole ed innovandole di continuo. Ecco allora Michelangelo trasformarsi senza il minimo sforzo da architetto in pittore per il Papa e, nel 1530, in ingegnere militare, ma per la Repubblica di Firenze. Ecco Leonardo fare la medesima cosa – e prima di Michelangelo – per Cesare Borgia, cioè per il Papa, dedicandosi pure allo studio di nuove armi e macchine militari. Ma ad esse l’ancora ridotta capacità tecnica del XVI secolo non diede attuazione, mentre invece l’applicazione dell’ingegno rinascimentale italiano alle fortificazioni determinò la loro forma per oltre due secoli, forma che sarebbe restata immutata fino a Vauban, che comunque l’avrebbe solo modificata, ma non cambiata. E’ certo che i primi mutamenti nelle strutture murarie nacquero in Italia, dove l’artiglieria aveva conosciuto un largo impiego già a metà del Quattrocento – ad esempio durante la guerra del Chianti negli anni ’70 di quel secolo – facendo rilevare la propria potenza distruttrice, davanti alla quale le verticali mura medievali crollavano in fretta. Bisognava rimediare, si calcolò, si fecero attente osservazioni e si 6 Il primo a parlare dell’evoluzione militare – tecnica, tattica ed organica – verificatasi fra il XVI ed il XVIII secolo come di
una “Rivoluzione militare” fu Michael Roberts nel 1955 e il concetto fu poi sviluppato da Geoffrey Parker trent’anni dopo. La teoria è stata osteggiata da moltissimi autori e definitivamente demolita da me nel 2020 col saggio Military Revolution, military evolution or simply evolution?/Rivoluzione militare, evoluzione militare o semplicemente evoluzione? pubblicato il 26 aprile 2020, direttamente sul sito C.I.S.M. http://www.commissionestoriamilitare.it/articoli-libri/ e diffuso in tutto il mondo.
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procedé lentamente alle innovazioni. Le mura si abbassarono e divennero oblique e molto più spesse, in modo da sfuggire al fuoco dei cannoni e offrire una maggior resistenza. Nacque il bastione – la vera novità dell’arte ossidionale dell’epoca moderna – e la struttura delle fortificazioni venne attentamente studiata, sia per opporre al nemico il massimo risultato difensivo col minimo sforzo in termini di consistenza del presidio e dei pezzi, sia per muovere in maniera ottimale uomini e mezzi all’interno della cinta difensiva. La fortezza diventò quindi molto meno rilevata sul piano di campagna e fu circondata da opere esterne, destinate a rompere l’impeto dell’attacco avversario, frazionandolo in una lunga serie di piccoli assedi preliminari, necessari allo svolgimento di quello vero e proprio. In più fu dotata di bastioni – ecco la novità – e assunse una forma pentagonale stellata, perché la si riconobbe per quella ottimale. Generalmente si attribuisce a Giuliano da Sangallo l’introduzione del bastione, fissandola al 1520. Il primo esempio è appunto eretto a partire dal 1519 a Civitavecchia, base della flotta pontificia; ma le fortificazioni medicee di Volterra presentano già alcuni elementi di bastionatura. Comunque sia, lo schema inaugurato a Civitavecchia da Sangallo per conto del Papa, forse sulla scia di un progetto michelangiolesco, e sempre da Sangallo sviluppato più compiutamente nella fortezza costiera pontificia di Anzio e da Baccio Pontelli in quella di Ostia e applicato poi di nuovo da Sangallo a Civita Castellana, prevedeva appunto un abbassamento delle mura, che dovevano obliquare verso l’esterno. Questo schema classico della fortificazione rinascimentale venne poi fissato nella seconda metà del secolo XVI dal conte urbinate Francesco Paciotti – forse il miglior architetto militare del suo tempo – con la realizzazione della cittadella di Torino fra il 1564 ed il 1568. Rapidamente lo schema italiano si diffuse in tutta Europa. E’ praticamente impossibile calcolare l’effettivo numero di architetti, geometri e semplici capimastri e muratori italiani sparsi per l’Europa come apostoli della nuova tecnica della fortificazione. Vennero chiamati in tutte le corti europee con onorari altissimi; e le fortezze di stile italiano, più moderne e imprendibili, sorsero ovunque.
IV) I militari Alcuni Stati avevano forme di leva, per cui le singole comunità, intendendosi con questo termine i paesi e i villaggi, normalmente identificati sulla base della circoscrizione parrocchiale, sia negli Stati cattolici sia, dopo la Riforma protestante, in quelli luterani, si impegnavano o erano costrette a fornire un contingente che, normalmente, poteva ammontare a non più del 10% degli abili al servizio militare, limite oltre il quale si compromettevano i lavori agricoli per mancanza di braccia valide e si condannava lo Stato o la comunità alla fame in pochi mesi. Poiché difficilmente il gettito copriva le necessità di guerra, si doveva far ricorso ai professionisti, che per forza di cose finivano per costituire la maggioranza delle truppe. Erano costosi, sia in termini di armamento e mantenimento, sia per il lungo tempo necessario ad addestrarli, e non erano molto affidabili. Del resto il professionista aveva grosse spese. Intanto le armi, il cui prezzo, di per sé elevato, saliva ancora in proporzione all’abilità del produttore. Una lama di Toledo, un’armatura di Milano o una pistola di Brescia costavano molto più dell’analoga dotazione prodotta altrove. Erano soldi ben spesi, perché una lama che non si rompesse nello scontro, un’armatura che non venisse bucata come uno straccio, o una pistola che sparasse bene salvavano la vita; ma erano tanti soldi e obbligavano il mercenario ad andare da chi lo pagava meglio. Poi c’erano il problema della cavalcatura, per chi combatteva a cavallo e, comunque e per tutti, quello del cibo e dell’alloggio quotidiani. Se c’era guerra paradossalmente c’era vita. La guerra portava ingaggi, denaro e bottino, che poteva essere consumato o venduto. E’ dunque chiarissima e verissima la famosa risposta dell’Acuto, il condottiero inglese John Hawkwood al servizio fiorentino, che, al saluto di due frati minori: “Monsignore, Dio vi dia pace” aveva ribattuto: “Dio vi tolga la vostra elemosina”, spiegando subito: “Come credete dir bene, che venite a me, e dite che Dio mi facci morir di fame? Non sapete voi che io vivo di guerra e la pace 25
mi disfarebbe? E così come io vivo di guerra, così voi vivete di lemosine; sì che la risposta che io v’ho fatta, è stata simile alla vostra salutazione.”I Dunque il militare del Rinascimento poteva trovarsi un mese sotto una bandiera ed il mese dopo, scaduto l’ingaggio, dalla parte opposta, a meno che l’ingaggio precedente non avesse esplicitamente previsto l’impegno di non prendere le armi contro il sovrano ingaggiante prima del trascorrere di un certo numero di mesi. Da questo derivava una situazione abbastanza strana, per cui militari, che magari erano divenuti amici o conoscenti in un certo periodo, si trovavano entro poco tempo su fronti opposti. Per di più, consci che quanto facevano oggi ad altri poteva capitare a loro domani e che l’integrità fisica era alla base della loro sopravvivenza, tentavano di ridurre al minimo le occasioni di danno, non tanto evitando di combattere, quanto limitando il più possibile le perdite. Non c’era dunque da stupirsi di casi come quello di Serravalle Scrivia del 1544, in cui i mercenari italiani, e per di più tutti toscani, al servizio della Spagna e della Francia, riconosciutisi come colleghi e conterranei, si erano trattati con molto riguardo, riducendo le perdite a un centinaio di caduti e limitandosi a darsi e riceversi prigionieri, con tanto scandalo di Carlo V da fargli esclamare che quella era stata una guerra fra compari. Lo era, certo, ma non tra compari italiani o toscani; lo era fra compari soldati professionisti, i quali, fra l’altro, avevano fin dall’inizio del combattimento l’abitudine – diffusa in tutta Europa – di avvertire gli avversari di cosa li aspettava. L’attacco infatti era accompagnato da varie grida, tra le quali però era sempre presente una di tre, diverse ma precise e obbligate: “con quartiere”, “senza quartiere” e “a discrezione.” Indicavano come il vincitore avrebbe trattato il vinto che s’arrendeva. Nel primo caso s’impegnava a sostenergli le spese di vitto e alloggio, contando di rifarsi col riscatto. Nel secondo caso – “senza quartiere”, che non aveva il significato preso dal XIX secolo di “nessuna pietà” – il prigioniero doveva pagare da sé vitto e alloggio; nel terzo il vincitore poteva fare del prigioniero quel che gli pareva, “a sua discrezione”, appunto. Rarissimo il caso d’un quarto e temuto grido: “Senza pietà”, che significava il massacro generale. Se la prima cura del militare era salvarsi la vita, la seconda consisteva nel mantenerla nelle migliori condizioni possibili e, quando gli sembrava che venissero a mancare o che il sovrano di cui era al servizio non mantenesse i patti, disertava. Motivi non ne mancavano: il soldo somministrato irregolarmente o non corrisposto, lo stesso il cibo; nell’esercito potevano esserci epidemie, all’epoca inguaribili, oppure il futuro poteva presentarsi così incerto da far preferire di prendere il largo, come duecent’anni dopo avrebbe fatto quel soldato prussiano che, preso mentre disertava e portato da Federico il Grande, alla domanda: “Perché mi lasciavi?”, avrebbe risposto: “In fede mia sire, i vostri affari vanno così male che mi è parso opportuno di abbandonarli.”II Dunque la diserzione facile e diffusa era una costante degli eserciti professionali e lo sarebbe rimasta a lungo, fino alla fine delle guerre della Rivoluzione Francese e dell’Impero, perché sempre il disertore avrebbe trovato un altro esercito in cui arruolarsi e sempre ci sarebbero stati il perdono e l’accoglienza ai disertori, perché grande era il bisogno di soldati esperti: col professionismo la domanda eccedeva l’offerta, con la leva sarebbe stato il contrario e solo con la leva la disciplina si sarebbe potuta affermare e gli eserciti avrebbero cambiato volto; mancavano però ancora tre secoli.
V) Equipaggiamento e uniformi Un altro aspetto dell’evoluzione in campo militare fu la progressiva adozione di equipaggiamenti omogenei. Il principio fu appunto nel XVI secolo e riguardò non tanto le armi – l’omogeneità delle quali era forzatamente limitata dalle capacità tecniche ancora ridotte – quanto l’aspetto dei militari. L’introduzione di vestiario uniforme almeno a livello di compagnia è documentata da fonti iconografiche del tempo. Esistono infatti rappresentazioni pittoriche – su tela o su muro – in qualche caso del Quattrocento, in molti altri del Cinquecento di soldati vestiti tutti uguali a seconda delle compagnie. Per esempio negli affreschi del Romanino dell’incontro del Re di Danimarca col Colleoni, datati al 1467 nel 26
castello di Malpaga a Cavenago, i militari a piedi sono vestiti in due modi diversi: gli uni in tenuta a strisce verticali bianche e rosse, calze incluse; gli altri in tenuta bianca picchiettata di rosso, con calze bianche, non a caso, essendo quelli i colori araldici del Colleoni. Per il secolo seguente, in un quadro che mostra sullo sfondo l’imbarco della fanteria veneziana sulle galere in partenza per la guerra di Lepanto nel 1571, conservato nel Museo Storico Navale di Venezia, i soldati sono identici per i colori, il taglio degli abiti e per le armi. In un affresco nella basilica di San Pietro a Tuscania, che rappresenta una processione papale del 1583 (l’anno è indicato sull’affresco) i soldati hanno tutti lo stesso abito, cogli stessi colori: rosso e giallo; e in un altro affresco, nel chiostro del Museo Nazionale Etrusco sempre di Tuscania, sono dipinti dei soldati pontifici cinquecenteschi tutti vestiti ugualmente di bianco con mostre rosse. D’altra parte i tentativi d’uniformità nell’equipaggiamento non erano rari. Prima dell’imbarco di 1.600 soldati pontifici sulle galere in partenza per Lepanto, Marcantonio Colonna ordinò ai suoi capitani di dotare gli archibugieri di: “…morione alla moderna, fiaschi per la polvere di velluto grande et belli quanto sia possibile, et che tutti gli archibugi siano a miccia et de buona munitione, come volgarmente se dice alla spagnola”III Specificando per gli alabardieri: "che li dieci corsaletti siano buoni et aggarbati, alla moderna. Et le alabarde tutte di velluto in asta et chiodate.... I capitani …procureran ancora che li soldati abbino li calzoni di velluto per quanto possibile, e di, panno. Et le borricchi et pesse alli lati alla francese. Et col giubboni che siano buoni. Et con un poco di bombace. Perchè ancorchè sia d’estate, in galera fà freddo.”IV Riguardo alle armi, le truppe pontificie avevano quelle dei soldati del tempo, per le quali esisteva una certa uniformità a livello di compagnia, ma difficilmente oltre la compagnia, a causa dei differenti fornitori e delle fabbricazioni artigianali che, nell’epoca pre-industriale, impedivano qualsiasi omogeneità del prodotto. Il soldato era responsabile di quanto gli veniva assegnato e, come in altri Stati italiani, era soggetto a una ritenuta per le armi. V La paga non era altaVI e rimase sostanzialmente la stessa7 fino alla fine del XVII Secolo, benché vi fossero variazioni dovute ai vari impieghi operativi in mare VII o all’estero.VIII Il vitto era poco vario. Consisteva in razioni giornaliere di pane, zuppa, verdure, vino e carne, tanto a terra quanto in mare, rispettava rigidamente i tre giorni di magro settimanali previsti dalla Chiesa ed era più o meno incrementato in casi specifici, come quello di sede vacante. IX
VI) I pirati Le truppe del ‘500 dovevano spesso combattere pure per respingere le incursioni dei pirati, che imperversavano endemicamente in tutto il bacino mediterraneo fin dal tempo dei Fenici, in particolare intorno all’Italia. Questi generalmente provenivano dalle Reggenze Barbaresche di Tripoli, Tunisi e Algeri ed erano al di fuori di qualsiasi autorità o gerarchia, pur se in teoria, almeno fino alla metà del XVIII Secolo, si riconoscevano sudditi del Sultano di Turchia. Accanto ai pirati mussulmani ne esistevano però anche dalmati, i famigerati Uscocchi, o europei, basati di solito nei porti degli Stati cristiani, in particolare della Francia. Le scorrerie e le catture di navi civili e militari servivano a impadronirsi sia di merci sia di prigionieri, che potevano essere subito messi al remo o venduti come 7 Cfr. infra, nota 52.
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schiavi a prezzi piuttosto alti, proporzionati al rango, all’età ed al sesso. Le Reggenze avevano infatti un’economia prettamente agricola, i cui prodotti, di solito, non trovavano sbocco sui mercati internazionali. E poiché abbisognavano sia di armi e munizioni, prodotte solo in Europa e, in minima parte, in Turchia, sia di merci di lusso o prodotti finiti di prima necessità, anch’essi provenienti dall'Europa, da pagare in contanti, la cattura ed il commercio, o il riscatto, degli schiavi, consentiva un enorme introito di valuta, reimpiegata appunto nell’acquisto dei beni europei necessari. Per il successo della scorreria era determinante la sorpresa e, per questo, i legni corsari adottavano la tattica degli agguati, occultandosi in calette ed anfratti della costa, o nei canali e negli stretti degli arcipelaghi, attendendo a lungo il momento più propizio per aggredire la preda. Era quindi necessario dotarsi di imbarcazioni di pescaggio e dislocamento ridotto, in modo da avere una buona velocità e potersi avvicinare al massimo a terra, occultandosi alla vista e sottraendosi alla caccia da parte dei grandi e meglio armati legni da guerra. Per lo stesso motivo, le marine militari mediterranee in generale, ed italiane in particolare, si evolsero in modo diverso da quelle oceaniche. Invece di dotarsi dei grandi vascelli atti al trasporto di grandi quantità di uomini e materiali e capaci di reggere alla tempeste dei lunghi viaggi per l’America e l’Asia, si orientarono verso navigli leggeri, buoni per la ricognizione ed il pattugliamento sotto costa e in grado d'ingaggiare il nemico su qualsiasi fondale, per basso che potesse essere. E poiché il pattugliamento poteva essere osteggiato dagli avversi elementi atmosferici, le marine mediterranee, di tutte le nazionalità, rimasero sempre articolate su due tipi di navi che, secondo la nomenclatura veneziana, erano definite Squadre Leggere e Squadre Pesanti e che a Napoli erano indicate più esplicitamente come squadra delle galere e squadra delle navi reali, cioè dei vascelli.
VII) La marina. Le Squadre delle Galere erano costituite dai legni a vele latine e remi: galere, galeazze, mezze galere, galeotte e via dicendo e le Squadre dei Vascelli dalle navi a vele quadre. La distinzione era sia strumentale che operativa, poiché le galere, alla cui squadra di solito appartenevano anche gli sciabecchi e i legni non a remi ma comunque a vele latine, erano impiegate prevalentemente per la navigazione costiera, mentre ai vascelli toccava quella d’altura. Anche se le Squadre Leggere si articolavano su una o più squadre, la marina del Papa ne aveva una sola che, come tutte, si articolava in Galera Reale, o più brevemente Reale, che era la più importante e la prima della squadra, Capitana e Padrona, rispettivamente la seconda e terza per importanza della medesima squadra e in galere sensili – dallo spagnolo “sensillas”, comuni – o ordinarie. Il loro vantaggio consisteva, grazie ai remi, nel potersi muovere con o senza vento ad una velocità tanto elevata da essere competitiva e, talvolta, superiore a quella delle Squadre Pesanti. L’equipaggio comprendeva: la ciurma, cioè i rematori, criminali condannati, prigionieri di guerra, in massima parte mussulmani, e volontari. detti “Buonavoglia”; i marinai veri e propri, addetti alla manovra; gli ufficiali, sottufficiali e militari semplici sia di marina che delle truppe da sbarco, costituite da reparti di fanteria dell’esercito, o di fanteria di marina vera e propria ed erano impiegate tanto nei combattimenti navali ravvicinati quanto negli sbarchi. I vascelli avevano invece bisogno di un maggior numero di marinai per la manovra, ma godevano d’una maggiore autonomia alimentare, non limitata ai soli 4 -7 giorni delle galere, poiché non dovevano nutrire i rematori. Potevano inoltre imbarcare più cannoni e di maggior calibro e un più consistente nerbo di truppe da sbarco. Restava il fatto che le Squadre Leggere erano considerate migliori da impiegare e, per questo motivo, non solo godevano la precedenza su quelle pesanti. ma in certe Marine, come quella pontificia, erano le uniche esistenti, anche se, in certi casi, la Marina del Papa noleggiava pure delle navi a vela. 28
Come per le truppe di terra, l’amministrazione pontificia retribuiva il personale imbarcato, inclusi i buonavoglia perché volontari, ma non i forzati o gli schiavi di galera, cioè i prigionieri turchi, e passava a tutti indistintamente il vitto due volte al giorno. X Gli Stati italiani più colpiti dalla pirateria furono senza dubbio i tre regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, seguiti a ruota dallo Stato della Chiesa e dalla Repubblica di Venezia; ma mentre i primi quattro vedevano delle pesanti e frequenti incursioni sulle proprie coste, la quinta era danneggiata nella navigazione commerciale o nei propri domini in Levante. Dall’inizio del XVI Secolo la pirateria ebbe una crescita spaventosa a cui solo la vittoria di Lepanto mise un freno, per di più nemmeno tanto robusto. Le campagne navali servivano a poco e, per questo, gli Stati più colpiti, ripiegarono sulle difese statiche terrestri impiantando reti di avvistamento articolate su torri armate con cannoni e integrate da reparti di fanteria e cavalleria. Tanto per fare un esempio, nella seconda metà del Cinquecento, il viceré di Napoli Pedro Afan de Rivera avrebbe ripartito oltre 8.000 uomini nelle 13 piazze meridionali – 11 delle quali pugliesi – più minacciate, sempre con risultati non definitivi. Nel XVII Secolo invece la situazione sarebbe cambiata lievemente e si sarebbe assistito ad un crescendo di incursioni identiche a quelle piratesche, ma effettuate dagli Italiani, specialmente degli ordini monastico-cavallereschi di San Giovanni di Gerusalemme – cioè di Malta – e di Santo Stefano, con un consistente apporto pontificio contro i domini ottomani. Ma sarebbe servito solo a risarcire in parte i danni della pirateria, testimoniando come l’incapacità di arrestarla fosse una conseguenza indiretta dello stato di frantumazione e sudditanza in cui versava la penisola italiana dal principio del XVI Secolo.
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Capitolo III Il Moro, il Papa e Carlo VIII
I) Carlo VIII e La Lega Italica: 1494 - 1495 L’inizio dei guai e della fine dell’indipendenza italiana si ebbero quando, essendo papa dal 1492 lo spagnolo Alessandro VI Borgia, Ludovico il Moro, signore di Milano, chiese appoggio a Carlo VIII di Valois, re di Francia, perché si sentiva minacciato dagli altri signori italiani, in particolare dal re di Napoli Alfonso d’Aragona. I rapporti del Re di Napoli con Ludovico e cogli altri Principi italiani erano complicati; non erano buoni nemmeno col Papa, però migliorarono di colpo quando consentì al matrimonio fra sua figlia naturale Sancia e Goffredo Borgia, figlio naturale del Papa. L’unione fra le due famiglie indusse Alessandro VI a desistere dall’alleanza che aveva in un primo tempo desiderata coi Valois e a cercare di distogliere Carlo VIII dall’idea d’una venuta in Italia alla quale prima l’aveva spinto; ma i suoi tentativi, fatti tramite il cardinale Guillaume Briçonnet, ministro di Carlo VIII, furono sistematicamente cancellati dall’azione del cardinal della Rovere, che nel precedente conclave aveva avuto come più diretto concorrente alla tiara. Carlo VIII diede retta tanto al cardinal della Rovere quanto ai propri desideri e, ai primi di settembre del 1494, passò il Monginevro ed entrò in Italia. Il suo esercito non era enorme, circa 30.000 uomini 8 e 150 cannoni, ma contava su una buona organizzazione, specie nell’impiego coordinato e centralizzato dell’artiglieria, e sulla qualità delle fanterie svizzere. Distrutta a largo di Rapallo la flotta aragonese di Napoli e fatta una breve diversione verso il Ducato di Milano, i Francesi scesero verso Firenze appoggiati dalla flotta genovese. A quel punto le cose si complicarono molto. Carlo ebbe voci d’un tentativo papale e veneziano di staccare il Moro da lui, ma, fra le belle parole con cui Lodovico cancellò i suoi sospetti e le pressanti richieste che il partito antimediceo gli mandava da Firenze, nella speranza di veder finire il potere di Piero de’Medici, proseguì. Distaccò una parte del suo esercito in Romagna contro le truppe napoletane del Duca di Calabria e, cogli orrori e i massacri della presa del castello di Mordano, fece sì che Faenza e Forlì si accordassero rapidamente e le opposizioni scemassero fino a sparire, complice pure la ritirata del Duca di Calabria verso Napoli. Carlo allora vide aprirglisi completamente la via dello Stato fiorentino da est e le sue truppe avanzarono su due direttrici: la prima a sud lungo la Romagna; la seconda, percorsa da lui stesso con 8.000 cavalieri e 4.000 fanti, per Pontremoli verso Firenze. Saccheggiati i paesi che tentavano di opporsi, i Francesi giunsero alle porte dello Stato mediceo circondati da un’atmosfera di paura. Piero de’ Medici, spaventato, consegnò a Carlo VIII le fortezze di Sarzana, Sarzanello, Livorno, Pisa e Pietrasanta – le principali a sbarrare il passo verso Firenze – e s’impegnò a pagargli 200.000 ducati. I Fiorentini si infuriarono e proclamarono la Repubblica. Ad essa Carlo chiese alteramente il passaggio, mentre Pisa approfittava del suo arrivo per ribellarsi alla sudditanza impostale al tempo del Magnifico, seguita presto da altre città del dominio mediceo. Restò invece inattivo il Papa, come del resto il Re di Napoli, il quale sperava nell’intervento del parente, Ferdinando re d’Aragona. Il risultato fu che Carlo decise che era meglio trattare coi Fiorentini, anziché combatterli, negoziò, ebbe libero passaggio, arrivò a Roma sano e salvo il 31 dicembre 1494 e vi svernò mentre, per non incontrarlo, papa Alessandro VI si chiudeva inizialmente in Castel Sant’Angelo. A Roma Carlo trattò a lungo col Papa, ottenendo l’investitura del Regno di Napoli col libero passaggio attraverso gli Stati Pontifici, e, fino al suo ritorno da Napoli, il cardinale Cesare Borgia in ostaggio e in 8 Erano 15.000 uomini d’arme e scudieri, 8.000 archibugieri guasconi, 6.000 alabardieri svizzeri e 1.500 arcieri.
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pegno le città e fortezze di Terracina, Viterbo, Civitavecchia e Spoleto. Il 16 gennaio 1495 si recò infine a salutare il Papa in Vaticano e il 28 puntò su Napoli, dove detronizzò la dinastia aragonese. Ciò fece muovere Venezia. Vecchia avversaria del Moro, preoccupata dai successi del di lui alleato, ormai del tutto incontrollabile, decise di promuovere una Lega Italica della durata di 25 anni, stabilita il 31 marzo 1495. Accortisi che Carlo VIII era troppo forte e rischiava di divenire il padrone della Penisola, aderirono il Papa, il Re di Napoli e lo stesso Ludovico il Moro, ai quali si unirono i due sovrani stranieri con possessi in Italia, cioè Massimiliano d’Asburgo e Ferdinando il Cattolico di Spagna, un cui corpo di spedizione affrontò i Francesi, inducendoli ad una rapida ritirata dal Regno di Napoli. Il 1° giugno 1495 i Francesi erano di nuovo a Roma, però Alessandro VI se n’era andato a Perugia con tutte le sue genti d’arme. Carlo proseguì verso nord, saccheggiò Toscanella, 9 uccidendovi 600 persone e continuò verso Siena.
II) Fornovo Le truppe della Lega – 40.000 uomini e 20 pezzi d’artiglieria – decisero di sbarrare la strada ai Francesi lungo il corso del Taro, presso Fornovo, nella prima settimana di luglio del 1495. Il grosso era composto dalla milizie veneziane, comandate dal marchese di Mantova Francesco Gonzaga, alle quali si erano uniti un piccolo contingente milanese del conte di Caiazzo ed un altro bolognese agli ordini del Bentivoglio. Gonzaga attese il nemico, ridotto a circa 10.000 uomini 10 e 42 pezzi, nella bassa valle del Taro. Il primo scontro vide gli stradiotti veneziani respingere l’avanguardia francese; ma poiché Fornovo era stata abbandonata dai difensori, Carlo VIII poté entrarvi il 5 luglio. La mattina del 6 l’esercito francese passò il greto del fiume e cominciò a sfilare sulla destra lungo la collina di Medesano. Fu colto in crisi di movimento; ma gli Italiani, tra il fiume ingrossato che impediva il passaggio dei rinforzi e la defezione degli stradiotti veneziani, buttatisi al saccheggio delle salmerie nemiche, non riuscirono a prevalere. La mattina dell’8 luglio Carlo VIII, vistasi rifiutare una tregua, si mosse verso la Francia, inseguito lentamente dall’esercito della Lega, al quale comunque lasciò un bottino valutato oltre 300.000 ducati Nonostante quel che si disse all'epoca, cantando vittoria a più non posso, le truppe italiane non avevano vinto, più per scarso coordinamento che altro. In un quarto d’ora di scontro e tre quarti d’ora di ritirata di Carlo VIII circa 2.000 italiani e 1.000 francesi 11 erano rimasti sul terreno, anche se i primi avevano inflitto tali e tante perdite ai secondi da indurli ad accelerare la ritirata verso la Francia. Fornovo ebbe di notevole una cosa. Fu forse la prima volta che si disse di combattere “per l'onore d’Italia”, o “per la libertà d’Italia”. Il concetto nazionale era apparso in stato ancora embrionale, ma comunque identificabile con certezza: era la prima volta che l’identità comune degli Italiani si trasformava da culturale in politica e militare. L’assenza di Firenze e la somma degli opposti interessi particolari non consentirono però d’avviare un processo d’integrazione fra i vari Stati. Era difficile a quel tempo immaginare qualcosa di diverso da uno Stato unitario e centralizzato: e nessuno voleva perdere il potere di cui disponeva. Né era ipotizzabile una federazione, visto che la sola esistente in quel momento, la Svizzera, aveva dei caratteri inapplicabili alla realtà italiana. Gli opposti interessi si manifestarono subito. Il Papa aveva mandato truppe ad aiutare il Re di Napoli a liberarsi dei 5.000 francesi rimasti nel Regno. Firenze invece era abbastanza filofrancese, ma soprattutto 9 Poi divenuta Tuscania. Riporterò questa e altre località col nome antico nel testo e con quello nuovo in nota da qui in poi. 10 Cioè 800 lance francesi – 2.400 uomini – 200 cavalieri della guardia del Re, 100 lancieri e 3.000 svizzeri di Trivulzio,
altrettanti Guasconi e un paio di migliaia di Italiani. 11 Come sempre, i dati divergono sulle perdite, andando da 100 a 1.000 francesi e da 1.500 a 4.000 italiani.
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era decisa a mantenere il dominio su Pisa, per avere uno sbocco serio sul mare; poiché però sia i Veneziani che i Milanesi erano interessati a sostenere Pisa per appropriarsene, Firenze non poteva unirsi alla Lega senza perdere la città; ma d’altra parte non aveva neanche intenzione di appoggiare Carlo VIII, al quale, più o meno direttamente Pisa doveva la libertà in quel momento. Venezia pensava ad espandersi sia impegnandosi con Ferdinando d’Aragona re di Napoli a “tuor in protetione l’ditto Re e l’suo Regno”XI in cambio dei porti pugliesi di Otranto, Brindisi e Trani, sia accogliendo la richiesta di protezione di Astorre Manfredi, signore di Faenza, che per il Papa era un feudatario. Davanti a questa complessa situazione ognuno pensò a sé. La Spagna concluse un armistizio separato con la Francia nel novembre del 1497; e Ludovico il Moro cominciò a cercare qualche altro straniero da impiegare contro il crescente potere della Serenissima e contro il pericolo d’un ritorno francese, visto che nel febbraio del ‘98 Carlo VIII si preparava a scendere di nuovo in Italia in cooperazione col duca di Savoia, ma, prima di poterlo fare, il 7 aprile 1498 morì.
III) La guerra baronale del 1496 e il ritorno dei Francesi. Nel frattempo Alessandro VI aveva cominciato a consolidare il potere pontificio con una campagna per sottomettere i troppo ribelli feudatari romani. Il 27 agosto 1496, al comando di Guidobaldo da Montefeltro, duca d’Urbino e del generale di Santa Chiesa Juan Borgia duca de Gandia, figlio del Papa, un forte esercito era uscito da Roma, diretto a nord per togliere agli Orsini i loro castelli. Per la fine di settembre ne erano stati presi una decina, ma restavano quelli che guardavano il lago di Bracciano: Anguillara, Trevignano e Bracciano. Le loro guarnigioni erano estremamente deboli e non superavano la forza d’una bandiera, molto male in arnese, al comando del quarantunenne umbro Bartolomeo d’Alviano. Anguillara spalancò le porte ai Pontifici alla prima intimazione di resa. Trevignano rifiutò d’arrendersi e fu rasa al suolo. Bracciano venne difesa ottimamente da Bartolomeo che, sostenuto da scarsi rinforzi mandatigli da Carlo VIII e guidati da Vitellozzo Vitelli, il 24 gennaio 1497 riuscì a battere i Pontifici, tra Bassano Romano e Soriano al Cimino catturando loro la maggior parte dei cannoni e varie bandiere e ferendo il duca d’Urbino, . Per fortuna di Alessandro VI arrivarono da Napoli le truppe spagnole di Consalvo di Cordova che, presa Ostia ai Della Rovere, si diressero verso Bracciano, convincendo gli Orsini a dare al Papa le fortezze di Cerveteri ed Anguillara e 50.000 scudi d’oro. L’apparente pace tra il Papa e i feudatari non sarebbe durata a lungo. Alessandro VI voleva a tutti i costi stabilire i suoi figli fra i principi italiani e per questo aveva staccato Benevento, Pontecorvo e Terracina dalle terre della Chiesa per darle a Juan, che aveva contato d’arricchire ulteriormente coi feudi degli Orsini. Questo progetto franò nella notte dal 14 al 15 giugno 1497, quando Juan, accompagnato da un solo servitore, venne ucciso in una piazza del Ghetto di Roma e buttato nel Tevere. Non si seppe mai chi fossero i mandanti. Certo era che di nemici Juan colle sue dissolutezze se n’era fatti a dismisura, in famiglia e fuori, e nessuno lo pianse tranne il padre, il quale concentrò la propria attenzione sull’altro figlio, Cesare, rendendolo al secolo. In Francia intanto la morte di Carlo VIII non aveva mutato la politica italiana dei Valois; infatti Luigi XII stava preparando diplomaticamente il rientro nella penisola, largheggiando in favori con Cesare Borgia per ingraziarsi il Papa, rendendosi amica l’Inghilterra in giugno e mutando, in agosto, in un trattato di pace l’armistizio firmato l’anno prima colla Spagna. Nel marzo del ‘99 neutralizzò gli Svizzeri, alleandoseli approfittando della guerra in cui si trovavano contro Massimiliano d’Asburgo ed ottenendone il permesso d’arruolare fanterie. Il 15 aprile raggiunse, col trattato di Blois, l’alleanza con Venezia contro Milano in cambio di Cremona e di territori sull’Adda. In maggio concesse a Cesare Borgia il ducato di Valentinois – per cui Cesare sarebbe poi spesso stato chiamato “il Valentino” – le nozze con una d’Albret, figlia del re di Navarra, e un aiuto militare per la riconquista delle Marche e della Romagna, ottenendo cosi il favore di Alessandro VI. 33
Tutto sommato l’alleanza pontificia era stata facile da ottenere. Alessandro aveva molto bisogno d’appoggi. Poiché la sua condotta era pessima, riprovata da tutti e criticata a fondo dal Savonarola, come avrebbe scritto Muratori duecentocinquant’anni dopo: “Temeva forte papa Alessandro uno scisma; e guai a lui, se persona d’autorità avesse allora alzato un dito contra di lui. Non vi era chi non detestasse un pastore di vita sì contraria al sublime suo grado.”XII Del resto il Papa si era allontanato dalla dinastia aragonese di Napoli perché re Federico non aveva consentito a dare sua figlia in sposa a Cesare Borgia con in dote il principato di Taranto, per cui meglio la Francia. Adesso, aderendo all’alleanza il Papa otteneva esplicitamente l’appoggio francese alla conquista di Pesaro, Imola, Faenza e Forlì per Cesare; il suo interesse era salvo e questo gli premeva. L’obbiettivo principale della campagna questa volta era Milano, perché si era imparato dall’esperienza che, militarmente parlando, e specialmente in mancanza di una flotta, se si voleva avere il Regno di Napoli, bisognava controllare fermamente la Pianura Padana e i valichi alpini. Luigi assunse quindi il titolo di duca di Milano e, il 15 luglio 1499, il suo capitano Giangiacomo Trivulzio entrò nel Ducato e l’occupò, mentre il Moro fuggiva. Ma in breve tempo i Francesi cessarono d’essere benvisti dai Milanesi. Ci furono delle sommosse, tra le quali particolarmente forte quella del 28 ottobre, quando “il populo, visto che non li era observato quanto li hera stato promesso, se levò a romor cridando: Moro, Moro”XIII per cui Ludovico si mise alla testa di 8.000 svizzeri e il 5 febbraio 1500 rientrò a Milano; ma terminò i soldi e fu abbandonato dai suoi mercenari, mentre Trivulzio si rinforzava di giorno in giorno con truppe, armi e denaro in arrivo dalla Francia. Finì che al momento dello scontro i soldati del Moro si rifiutarono di combattere; e i mercenari svizzeri lo tradirono e lo consegnarono al nemico. “Confesso ho fatto gran male all’Italia, ma l’ho fatto per conservarmi. L’ho fatto malvolentieri” XIV avrebbe detto Ludovico sul letto di morte. Non aveva nemmeno la più piccola idea di che disastro avesse combinato e di quanti secoli e milioni di morti sarebbero occorsi per riparare alle conseguenze delle sue ambizioni. Intanto Luigi XII, liberatosi dell’avversario milanese, ritenne di poter scendere alla presa di Napoli. Del resto l’impresa appariva facile, perché dopo la pace precedente, nel novembre 1500 gli Aragonesi di Spagna e i Valois si erano alleati per spartirsi Napoli. Il trattato stipulato a Granada andava a tutto vantaggio della Spagna, poiché le concedeva Puglia e Calabria, pur lasciando il resto alla Francia, che sulle terre meridionali d’Italia non poteva vantare alcun diritto. Dunque in apparenza il gran capitano del Re Cattolico, Consalvo di Cordova, arrivava a Napoli come difensore degli interessi del nuovo re Federico; ma quando, ottenute le fortezze napoletane si rivelò alleato dei Francesi, fu la fine della locale dinastia aragonese.
IV) La prima e la seconda campagna di sottomissione dei feudi della Santa Sede: 1499 - 1500. Intanto la Santa Sede stava proseguendo l’eliminazione dell’autonomia dei suoi feudatari. Dal punto di vista del Papa la presenza di Francesi e Spagnoli non era ancora un pericolo, proprio perché erano due. Se e quando da alleati si fossero ritramutati in contendenti e uno solo avesse prevalso, la Santa Sede si sarebbe trovata in pericolo; ma, per poterlo fronteggiare, era necessario eliminare qualsiasi fonte di debolezza interna agli Stati Pontifici, per cui occorreva sbrigarsi a riprendere in mano il controllo politico di tutti i feudi. Per questo, assicuratosi il predominio sul Lazio, Alessandro VI aveva approfittato dell’arrivo in Italia di Luigi XII e, forte dell’appoggio francese, il 1° ottobre 1499, aveva dichiarato decaduti dalle investiture feudali i Malatesta signori di Rimini, gli Sforza di Pesaro, i Riario d’Imola e Forlì, i Manfredi di Faenza, i Varano di Camerino e i Montefeltro d’Urbino. Poi aveva nominato Cesare 34
capitano generale delle milizie pontificie e gli aveva fatto avere da Luigi XII 45.000 ducati per le spese della guerra, pagati coi fondi del Ducato di Milano. Cesare Borgia si mise in campagna senza troppa fatica. Imola gli aprì le porte il 24 novembre 1499, nonostante una breve resistenza della cittadella durata fino al 27 e, dopo di essa, tutte le altre piazze si arresero rapidamente, colla sola eccezione di Doccia. Il 17 dicembre Cesare entrò a Forli con 14.000 uomini e assediò la cittadella. La prese d’assalto il 12 gennaio 1500 solo dopo un lungo e continuato bombardamento di sei giorni, con cui aveva aperto due brecce, e catturò la sovrana del luogo, Caterina Sforza, che vi si era chiusa rifiutando d’arrendersi. Una settimana dopo, il 19 gennaio 1500, prese Forlimpopoli, poi interruppe le operazioni e tornò a Roma. Vi rimase fino ai primi d’ottobre, quando si rimise in marcia con 300 lance a cavallo, 700 armigeri e 14.000 fanti italiani, francesi e spagnoli. Sottomise Todi e Fossato e fece entrare nel Pesarese le sue avanguardie l’11 ottobre. La popolazione insorse in suo appoggio e la rocca di Pesaro si arrese il 21. Ora sarebbe toccato a Faenza. “Io non so quello che vorrà fare Faentia: ella ce vorrà forse far prova de tenerse?”XV si domandò Cesare; e decise di andare a vedere. Strada facendo prese Rimini e il l0 novembre investì Faenza, difesa da Astorre III Manfredi.
V) La terza campagna di sottomissione e Leonardo da Vinci ingegnere militare: 1501 - 1503 Interrotto l’assedio di Faenza per la cattiva stagione, nella primavera del 1501 Cesare Borgia lo riprese e, dopo vari assalti, il 26 aprile lo concluse. Astorre Manfredi si fidò della sua parola e gli si consegnò prigioniero. Non fu una buona idea. Fu mandato a Roma e chiuso in Castel Sant Angelo; il 9 giugno 1502 il suo corpo sarebbe stato ripescato nel Tevere. Adesso comunque toccava a Bologna. Giovanni Bentivoglio la difendeva con 12.000 uomini. Erano decisamente troppi e si andò all’accordo. Bentivoglio accordò la cessione di Castel Bolognese al Papa e di una compagnia di cento uomini d’arme e d’un contingente di fanteria a Cesare in cambio della promessa di non essere più assalito in futuro, peccato che non sarebbe stato così. Sottomesse quasi tutte le Romagne, delle quali il Papa lo proclamò duca in concistoro, e poi le Marche, Cesare Borgia pensò ad organizzarle e decise di farle fortificare da Leonardo da Vinci. Chiamatolo, nell’aprile del 1501 lo incaricò di riorganizzare non solo le fortificazioni, ma anche le vie di comunicazione e gli acquedotti. “Sia libero il passo al nostro prestantissimo e dilettissimo familiare architetto et Ingegnere militare”XVI ordinò, lasciandogli carta bianca; e Leonardo si mise a lavoro. Smantellò e ricostruì con criteri moderni le fortificazioni di Castel Bolognese, scavò un canale da Cesena a Porto Cesenatico, esaminò Orvieto ed Acquapendente, in seguito avrebbe edificato le cortine degli spalti della rocca d’Urbino, progettando fontane, macchinari bellici e costruzioni per Rimini, Pesaro Cesena e Ceri, tutto nei pochi mesi che precedettero il suo richiamo a Firenze. Mentre Leonardo lavorava, papa Alessandro aveva deciso di distruggere le due potenti famiglie dei Colonna e dei Savelli, privandole dei loro feudi e beni. Il pretesto era l’essersi dichiarate a favore di Federico di Napoli, il fine era di dare tutto a Cesare, i mezzi furono prima quelli spirituali, in un simile caso del tutto inefficaci sia temporalmente che spiritualmente, poi quelli militari. Guidate dal Papa stesso, che diresse l’assedio di Sermoneta, le truppe pontificie sottomisero in brevissimo tempo tutti i paesi e le cittadine dei vari feudi.. Nel frattempo Cesare aveva passato l’Appennino. Aveva preso Cortona, la Val di Chiana, Anghiari, Borgo San Sepolcro e Arezzo e, accampatosi con circa 5.800 uomini 12 a sei miglia da Firenze, aveva chiesto ed ottenuto dalla Signoria metà delle artiglierie cittadine per conquistare Piombino. Poi aveva stilato con essa un capitolazione di ferma e perpetua amicizia, facendosi ufficialmente assoldare come condottiero dalla Repubblica Fiorentina col salario di 36.000 ducati d’oro l’anno, impegnandosi a 12 Erano 4.850 fanti, 490 uomini d’arme, 290 cavalleggeri, 160 lance spezzate e balestrieri.
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mantenere a disposizione di Firenze 300 uomini d’arme, senza però essere obbligato a servire di persona. Dopo questo taglieggiamento, avuta dal Re di Francia l’intimazione di lasciar stare Firenze, aveva marciato su Piombino e, appoggiato dalla squadra pontificia,13 l’aveva conquistata, insieme alle fortezze sulle isole d’Elba e Pianosa, affidando a Leonardo da Vinci il rinforzo della cinta difensiva. Rientrò poi a Roma il 13 giugno 1501 per unirsi ai Francesi in marcia verso Napoli, coi quali avrebbe partecipato alla sanguinosa presa e all’orribile saccheggio di Capua il 24 luglio. I suoi successi però avevano attirato la preoccupata attenzione degli Stati italiani. Dopo aver sottomesso Romagne, Emilia, Marche e Umbria, ufficialmente per ripristinarvi l’autorità pontificia, in realtà per ritagliarvisi un suo dominio, Cesare stava evidentemente allargando le sue mire alla Toscana; e ciò preoccupava sia Venezia sia Firenze, perché Siena sembrava disposta a passare sotto dominio papale, mentre Pisa addirittura lo andava cercando apertamente.
VI) La quarta campagna di sottomissione dei feudi pontifici del l502 - l503 e quel che seguì L’arrivo di Cesare in Toscana e l’atteggiamento di Pisa erano nati dall’insurrezione d’Arezzo del 7 giugno 1502, alla quale aveva fatto seguito, il 10, un’ambasciata a Roma con cui Pisa offriva la sua sottomissione a Cesare Borgia. Poiché la Francia non avrebbe gradito, il Papa aveva rifiutato; ma intanto Cesare aveva rinunciato a scendere a sud e, preceduto da 1.000 uomini e seguito da altri 1.000, era uscito da Roma verso nordest, risalendo la via Flaminia alla testa di 7.000 soldati, deciso a prendere Urbino, Camerino e Senigallia. La presa d’Urbino era un problema politico più che militare. Il duca Guidobaldo, oltre ad essere un bravo generale, era pure un ubbidientissimo suddito del papa e il suo comportamento non dava adito al minimo pretesto per muovergli guerra. Cesare non se ne preoccupò e decise di spodestarlo a tradimento. Gli chiese truppe e artiglierie per assediare Camerino e le ebbe perché Guidobaldo stimò pericoloso rifiutarle. Con quelle, Cesare prese Cagli e poi marciò su Urbino, ormai del tutto indifesa; perciò a Guidobaldo e a suo nipote Francesco Maria della Rovere non rimase che la fuga a Mantova, dove li aveva preceduti la duchessa. Commentò Muratori: “con queste arti fece acquisto il duca Valentino di quattro città, e di trecento castella, componenti quel ducato.”XVII Il colpo seguente fu contro Camerino. Finse di trattare con Giulio da Varano che la signoreggiava, trovò modo d’entrare in città, l’occupò di sorpresa e fece strozzare Giulio e due suoi figli. Ottenute a Milano 300 lance da Luigi XII per la conquista di Bologna e dal Papa il breve del 2 settembre 1502 col quale s’intimava ai Bentivoglio di sottomettersi alla Santa Sede entro quindici giorni, il Valentino marciò contro la città, che nemmeno diciotto mesi prima aveva promesso di non attaccare mai più in futuro. L’impresa non andò nel modo migliore, anche perché tutti i suoi nemici, accordatisi nella cosiddetta “dieta di Magione” del 9 ottobre 1502, gli si coalizzarono contro, adunarono 9.000 fanti e 700 cavalieri e fecero sollevare la popolazione delle Romagne e delle Marche. I pontifici furono cacciati da San Leo, Imola, Urbino ed altri castelli minori e, concentratisi in oltre 8.000 per la ritirata sotto gli ordini di Cesare, furono agganciati e battuti pesantemente a Calmazzo dai 12.000 uomini dei collegati, comandati da Vitellozzo Vitelli. Sconfitto, prima che fosse troppo tardi Cesare si mise a trattare separatamente coi suoi nemici. Coi Bentivoglio si accordò, lasciando loro la città in cambio della nomina a condottiero al soldo di Bologna a 12.000 scudi d’oro all’anno per otto anni e della disponibilità bolognese a dargli 100 uomini d’arme e 200 balestrieri a cavallo per un anno. Poi continuò a negoziare cogli altri suoi avversari, cioè Vitellozzo Vitelli signore di Città di Castello, Giampaolo Baglioni signore di Perugia, Paolo Orsini, Francesco Orsini 13 Composta da sei galere, tre brigantini e due galeoni.
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duca di Gravina, Pandolfo Petrucci Moderatore della Repubblica di Siena, ed Oliverotto da Fermo, i quali avevano reinsediato Guidobaldo da Montefeltro ad Urbino e i Varano a Camerino. Lentamente, sotto l’ammirato sguardo dell’inviato fiorentino Niccolò Machiavelli, riuscì a dividerli, largheggiando in promesse che poi non avrebbe mantenuto. Ne risultò che, a un mese scarso dalla dieta di Magione, nell’incontro di Chianciano il gruppo si divise e, mentre Baglioni e in un primo tempo pure Vitelli e Petrucci rifiutarono qualsiasi accordo con Cesare, gli altri se ne fidarono, tornarono ai suoi ordini, seguiti di lì a poco pure da Vitelli e Petrucci e fecero il peggior errore della loro vita, ormai molto breve. Lo sfaldamento della coalizione indusse Guidobaldo a lasciare Urbino e Giovanni da Varano Camerino. Cesare allora il 28 dicembre 1502 rimise in marcia le truppe pontificie, stavolta contro Senigallia. Sovrintendeva alla sua difesa Andrea Doria; ma non vi fu scontro, perché il lungimirante genovese pensò a salvare la vita del giovane duca Francesco Maria, sottraendolo ai soldati del Valentino insieme alla cassa e alle gioie dei della Rovere. Presa Senigallia, il 30 dicembre Cesare Borgia ordinò a Paolo Orsini, Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo di mandare le loro truppe ad accamparsi fuori città, poi li convocò insieme a Lodovico da Todi e al duca di Gravina, fece uccidere a tradimento Vitellozzo, Oliverotto e i due Orsini, infine coi suoi uomini piombò di sorpresa sulle loro truppe e le distrusse. Poi si volse contro gli altri avversari. Entrò a Città di Castello, feudo dei Vitelli, tutti fuggiti al suo appressarsi, e a Perugia, da cui Giampaolo Baglioni se n’era andato con tutta la famiglia; infine marciò verso Siena, ordinandole di cacciare Pandolfo Petrucci in quanto suo nemico. Pandolfo si spostò a Pisa, dicendo esplicitamente di farlo per levare al Valentino qualsiasi pretesto per assalire Siena. Questa dichiarazione mise le carte in tavola. Un assedio adesso avrebbe mirato palesemente solo a impadronirsi della città, non a catturare Petrucci. Si poteva fare? Siena era talmente forte da far dubitare della riuscita e, mentre ci pensava, Cesare fu richiamato a Roma, perché tanto gli Orsini quanto i Savelli, dopo la notizia del massacro di Senigallia e l’imprigionamento del cardinale Orsini ordinato dal Papa a Roma, erano corsi alle armi per difendersi fino all’ultimo uomo. Rientrato nel Lazio, Cesare iniziò ad assediare e prendere tutti i castelli delle due famiglie, alle quali restarono rispettivamente solo Bracciano e Vicovaro, i due più forti. Prima della loro caduta, il Re di Francia intervenne di nuovo, disgustato da tutte le soperchierie di Cesare e dalle menzogne del Papa. Sentendosi minacciato, Alessandro VI accettò subito di congedare il grosso dei suoi soldati, i quali però vennero subito segretamente arruolati da Cesare, confermando il detto dell’epoca che: “il papa non faceva mai quello che diceva e il Valentino non diceva mai quello che faceva.”XVIII Poi, come Dio volle, questa sequenza di bassezze ebbe fine. Il 18 agosto 1503 Alessandro VI morì, dopo otto giorni di malattia ed agonia seguiti alla cena del 6 agosto, in cui, si disse, voleva uccidere il cardinale Castellesi – il cardinale di Corneto – per impadronirsi dei suoi beni. Gli autori contemporanei sostennero che il vino avvelenato preparato per il cardinale fosse stato bevuto dal Papa e da Cesare, però, a parte il fatto che il cardinal Castellesi era un fedelissimo del Pontefice e che pure lui stette male, altre fonti specificano che il 10 agosto Alessandro VI si ammalò con febbri e morì in otto giorni, cosa perfettamente in accordo col decorso d’un attacco di malaria. Di veleno o di malaria, la morte del padre lasciò Cesare malato, completamente privo della copertura politica e militare necessaria a consolidare le sue conquiste e in un mare di difficoltà. I signori da lui spogliati dei loro Stati li ripresero, chi da solo, chi, come Baglioni, coll’aiuto dei Fiorentini, chi, come il principe di Piombino, richiamato sul trono dalla rivolta antiborgiana dei sudditi. I feudatari romani si armarono sia per riprendere le loro terre sia per osteggiare i Borgia. I cardinali vollero cacciare Cesare da Roma; lui reagì ordinando si suoi uomini d’occupare il Vaticano e questo fece muovere le truppe spagnole e francesi a protezione della Sede Vacante. Con una certa fatica, i cardinali riuscirono a far uscire Cesare da Roma, le sue truppe dal Vaticano e a tenere quelle francesi e spagnole a otto miglia dalle mura dell’Urbe per evitare imposizioni al conclave. 37
Il 22 settembre fu eletto papa Pio III, che a Cesare sarebbe andato benissimo, visto che assunse subito un atteggiamento benevolo revocando le misure coercitive prese nei suoi confronti in Sede Vacante, però morì il 18 ottobre. Si disse per un’ulcera alla gamba dovuta a un cancro di cui soffriva, si disse per veleno fattogli somministrare da Pandolfo Petrucci; sia come sia, dal nuovo conclave uscì eletto il sessantenne Giulio II e per Cesare non ci fu scampo: era il cardinal della Rovere, il vescovo di Ostia, l’antico avversario di suo padre. Giuliano della Rovere era una persona difficile. “Impastato di bile e tacciato ancora di disordinato amore per il vino,”XIX da cardinale, come ho già detto, era stato il più acerrimo nemico di Rodrigo Borgia e suo diretto avversario nel conclave del 1492, alla fine del quale, temendo per la propria vita e non fidandosi dei Borgia, aveva preferito scappare prima nella sua diocesi di Ostia e poi in Francia dove aveva consigliato a Carlo VIII la calata in Italia. L’elezione di Pio III era stata opera sua, ma la di lui morte gli aveva imposto l’alternativa fra la guerra a oltranza e il patteggiamento coi cardinali della fazione borgiana. Aveva scelto l’accordo e, colla medesima sincerità dei suoi antagonisti, se n’era garantito l’appoggio, promettendo che da papa avrebbe confermato a Cesare i possedimenti e la posizione usurpati in Romagna. I Borgia gli avevano creduto e lui in breve li avrebbe ripagati con la stessa loro moneta corrente. Per prima cosa Giulio II mise mano ai non pochi problemi generati dalla criminale politica famigliare di papa Borgia e dalle due sedi vacanti dell’ultimo semestre, poiché in particolare Venezia ne aveva profittato per impadronirsi della Romagna ed estendersi nell’entroterra emiliano fino a Faenza, arrivando vicina ai passi dell’Appennino che immettevano in Toscana dalla valle del Lamone. Dato che i Signori italiani ormai temevano Venezia più della Francia o della Spagna, Giulio II si fece loro portavoce. Affermò di voler consolidare la religione e la pace d’Italia, ma in realtà voleva ripristinare ed aumentare il potere dello Stato ecclesiastico, liberandolo da ogni inframmettenza italiana o straniera. Dal suo punto di vista non aveva alternative: o il Papato recuperava il pieno ed assoluto possesso dei suoi dominii, o diventava il servo della potenza egemone in Italia. Per questo occorreva innanzitutto recuperare i territori ex-pontifici e poi, appena possibile, cacciare gli stranieri per rimettere in piedi il sistema di equilibrio fra gli Stati italiani, mantenendoli tutti abbastanza deboli da impedire a ciascuno di diventare preminente nella penisola e quindi minacciare la Chiesa. Questa politica, allora in un certo senso obbligata, avrebbe forse assicurato al Pontefice un minimo d’autonomia se avesse avuto successo. Col senno di poi si può dire che, ammesso che, coll’eccezione di Venezia, potesse esistere un minimo d’indipendenza da qualche parte in Italia nei due secoli e mezzo seguenti, specie durante il predominio spagnolo, finì di causare la rovina politica della penisola iniziata da Alessandro VI, facendo ritardare l’unità nazionale e costituendo la causa primaria del frazionamento e dell’asservimento alle potenze straniere. Papa Giulio non lo immaginava, oppure era troppo convinto della bontà dei suoi piani, dunque cominciò col portare a termine quanto Cesare Borgia aveva incominciato, o meglio: prima fece arrestare proprio il Valentino, ordinando di liberarlo solo dopo averne ricevuto i contrassegni 14 di tutti i castelli conquistati o signoreggiati. Ne seguì una serie di alti e bassi che presero la fine del 1503 e gran parte del 1504. I castellani rifiutarono la cessione delle fortezze finché Cesare non l’avesse ordinata. Lui fu spostato a Roma, apparentemente libero, in realtà agli arresti domiciliari e si ottenne che mandasse un suo uomo di fiducia a chiedere i castelli, ma questi fu ucciso dai castellani sotto l’accusa di tradimento. Allora Giulio II incaricò un suo vecchio amico, il cardinale Alidosi, vescovo di Pavia, di proporre a Cesare un compromesso: libertà limitata consegnandolo al cardinal Carvajal, in cambio delle rocche. Cesare accettò; il Papa ebbe i castelli, ma Carvajal di nascosto fece riparare Cesare a Napoli, dove fu ben accolto da
14 Il Contrassegno di un castello era una cifra, un nome od una medaglia spezzata tenuta dal
castellano, il quale doveva
riconoscere come signore del castello chi aveva la parte mancante.
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Consalvo di Cordova. Saputolo, Giulio II si infuriò e scrisse a Ferdinando d’Aragona, che mandò ordini a Napoli, in esecuzione dei quali Cesare fu arrestato e tradotto in Spagna, dove sarebbe morto nel 1507. Eliminato il maggior pericolo interno, il Papa distrusse l'autonomia che le città e i signori locali dell’Umbria, delle Marche e dell’Emilia si erano accaparrati negli ultimi mesi. In certi casi adoperò le buone, come quando Giampaolo Baglioni andò – obtorto collo e su consiglio del duca d’Urbino – a sottometterglisi a Orvieto nel 1506, in certi altri le cattive, come quando spiegò davanti a Bologna oltre 8.000 uomini, inducendo i Bentivoglio a consegnargli la città. Poi intimò a Venezia di restituire le zone occupate in Romagna, dichiarando che non avrebbe esitato a ricorrere all’aiuto francese o spagnolo per riaverle. Proprio per questo rappacificò Asburgo e Valois, divisi dalla questione di Milano, e anzi li unì in un’alleanza. Coi Patti di Blois della primavera 1504 si ribadì la dipendenza feudale del Ducato di Milano dal Re dei Romani, cioè dal successore dell’Imperatore, ma se ne nominò duca il re Luigi XII, stabilendo che le tre parti contraenti, Roma, Francia e Impero, si sarebbero arricchite a spese della quarta ignara, cioè Venezia, dal cui dominio di Terraferma sarebbe stato sottratto tutto quanto feudalmente spettava a Milano, al Papa o all’Imperatore, ovvero, in sostanza, lasciandole a malapena la Laguna. La Serenissima tentò d’evitare la condanna che le pendeva sul capo restituendo al Papa alcune parti, le meno ricche, della Romagna, ma trattenendo Faenza, Ravenna. Cervia – per le saline – e Rimini. Giulio II decise d’accontentarsi per il momento, in modo da tranquillizzarla, facendole abbassare la guardia per colpirla meglio più tardi, e approfittò del differimento dell’attacco per recuperare quanto ancora gli mancava entro i propri confini. Sistemate Perugia e Bologna, dove nel 1508 avrebbe mandato il cardinale Alidosi come governatore, riebbe da Firenze le terre pontificie di cui s’era impadronita e continuò a tessere la tela in cui Venezia doveva essere avvolta. Non aveva fretta e il differimento faceva comodo anche agli altri, in particolare al Luigi XII, che consolidò il proprio dominio su Genova e trovò un amichevole modus vivendi con Ferdinando il Cattolico.
VII) La Santa Sede e la guerra austro-veneziana del 1507 Riassicuratosi Genova, Luigi XII si preoccupò nuovamente di come iniziare l’incombente guerra ai Veneziani. Un aiuto glielo fornì indirettamente Massimiliano d’Asburgo il quale, insospettito dal convegno di Savona, tenutosi nel 1507 fra Luigi XII e Ferdinando d’Aragona, pensò di scendere a Roma per farvisi incoronare Imperatore, ribadendo così ufficialmente e con la benedizione della Chiesa i diritti che vantava su tutta l’Italia centrosettentrionale. Come tutti i suoi predecessori decise di farsi accompagnare da un esercito, che doveva attraversare il Veneto Dominio di Terraferma, poiché questo si stendeva ad arco dal confine svizzero alla costa adriatica. Ovviamente il Senato veneziano non fu del parere di concedere il passaggio a tanta gente armata. Ne nacque una contesa e Massimiliano la sfruttò come casus belli: guerra dal Trentino al Quarnaro. Perse, fu costretto a venire a più miti consigli e, colla mediazione della Francia, all’armistizio nel giugno 1508. Venezia credé di poter stare tranquilla, ma Luigi XII approfittò della trattativa per rimettere sul tavolo l’alleanza sancita a Blois ai danni della Serenissima, anzi, per ampliarla coll’adesione della Spagna, tesa al recupero dei porti pugliesi; dell’Ungheria, desiderosa della Dalmazia; dei Savoia, decisi a ottenere l’isola di Cipro del cui titolo regale si fregiavano ed avrebbero sempre continuato a fregiarsi; del Duca di Ferrara, che voleva recuperare il Polesine, e di quello di Mantova, anche lui intenzionato a riprendersi qualche lembo di terra. Sottoscritta a Cambrai il 10 dicembre 1508 un’alleanza per la lotta contro gli Infedeli mussulmani, gli alleati, in forza di quanto stabilito nel proemio del trattato, che prevedeva di castigare gli avidi Veneziani e punirli delle offese inferte alla Santa Sede ed alle altre potenze, si armarono contro i Cristiani della Serenissima.
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VIII) La guerra della Lega di Cambrai: 1509 I primi a muoversi contro Venezia furono i Francesi dal Ducato di Milano. I Pontifici il 1° aprile 1509 misero in campo due contingenti, uno comandato dal nuovo duca d’Urbino, Francesco Maria della Rovere, l’altro dal conte Lodovico Pico della Mirandola, entrambi sotto il comando superiore del cardinale Alidosi, legato di Bologna e di Romagna. Il 29 aprile, battuti i Veneziani a Brisighella, i due contingenti si unirono e il 5 maggio in un consiglio di guerra a Castel Bolognese, Alidosi li fuse sotto il comando del duca d’Urbino, ordinandogli di marciare su Ravenna, mentre lui prendeva contatto col presidio di Faenza per assicurarne la resa. I Veneziani si erano preparati quanto più possibile e avevano messo in moto la propaganda per far apparire la loro una guerra di Italiani che difendevano la propria indipendenza. In breve però, resisi conto della preponderanza dei nemici, iniziarono a cercare di dividerli. Ambasciatori furono mandati a Massimiliano d’Asburgo, ma senza esito. A Roma il cardinal Domenico Grimani si adoperò in favore della Repubblica, sottolineando come, con la restituzione delle città romagnole, avesse adempiuto a quanto intimato dal Papa nel suo monitorio. Visto che a queste ragioni Giulio II non aveva reagito male, Grimani ne avvertì il Senato, il quale inviò a Roma un’ambasciata coll’ordine d’essere quanto più conciliante e sottomessa possibile. Ma con essa, sentendosi forte, il Papa tenne duro e avanzò altre pretese. Allora a Venezia molti chiesero d’interrompere i negoziati e il figlio del doge, Lorenzo Loredan, arrivò a dire che quasi quasi, vista la loro offerta di aiuti militari, era meglio accordarsi coi Turchi che con la Chiesa. Invece il doge Leonardo Loredan e il Senato scelsero la via migliore. La Repubblica aveva subito pesanti sconfitte, perso quasi tutte le sue conquiste e, anche armandosi a fondo come stava facendo, non poteva vincere se non diminuiva il numero dei nemici; perciò mandò a Roma delle lettere umilissime, confessandosi rea e rimettendosi alla clemenza papale. Questo non sarebbe servito se Giulio II non avesse già concluso da sé che, per la convenienza della Chiesa e dei Signori italiani, la Repubblica andava conservata. Si era però tanto impegnato nell’alleanza, da non poterne uscire all’improvviso, perciò finse di sostenerla per indebolirla dall’interno. L’estate del 1509 vide dunque un complesso doppio gioco, reso più articolato dagli alti e bassi della campagna in Veneto, il cui fulcro era Padova. Venuta in mano alle truppe imperiali comandate da Costantino Arianiti Comneno, despota di Morea, Padova le aveva cacciate con un’insurrezione popolare il 17 luglio 1509. Per Venezia era stato un grosso risultato, dato che in quel momento la Terraferma Veneta era persa ed erano già stati abbandonati i porti pugliesi come le città romagnole. In agosto però Massimiliano d’Asburgo avanzò proprio verso Padova alla testa d’un esercito numeroso e malpagato. Riuscì a sostenerne le spese grazie a 150.000 scudi d‘oro datigli da Luigi XII in cambio dell’investitura feudale di Milano, a circa 160.000 ducati d’oro passatigli da Giulio II per le spese di guerra e specialmente grazie al saccheggio a cui si dedicarono le truppe imperiali nel Padovano. “Terribile fu infatti la desolazione di quel fertilissimo paese, ma costò anche non poco a quei nobili assassini, perché i contadini, oltre all’essere sempre stati ben affetti e fedeli alla repubblica, irritati dal crudele trattamento d’essi imperiali, quanti ne poterono cogliere tanti ne sacrificarono alla loro vendetta.”XX Gli Imperiali furono rinforzati da un contingente francese proveniente da Milano, da uno ferrarese di 2.300 uomini agli ordini del cardinale d’Este e da uno pontificio di duecento lance e duecento cavalleggeri della Chiesa, comandati da Lodovico della Mirandola. Massimiliano però sprecò tempo a impadronirsi di parecchie località circostanti, pare per suggerimento del conte della Mirandola e del despota di Morea, i quali, si disse poi, eseguivano ordini impartiti dal Papa. Sia come sia, in settembre finalmente Massimiliano assediò Padova e, dopo due settimane di scontri 40
massacranti, il 27 settembre 1509, viste le perdite elevate, desisté. Ai primi d’ottobre radunò le sue truppe a Vicenza, ne licenziò una gran parte e rientrò in Germania col resto. A Venezia si esultò e si contrattaccò. Le città di Terraferma che avevano resistito furono soccorse, quelle cadute vennero liberate e si fece una pesantissima rappresaglia contro il duca di Ferrara, che subì parecchi danni ma riuscì a respingerla, infliggendo ai Veneziani ingenti perdite,
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Capitolo IV Giulio II e la Lega Santa
I) Dalla Lega di Cambrai alla Lega Santa L’inverno del 1509-10 portò la notizia della pace separata fra Roma e Venezia. Riacquistati i territori già sottoposti alla Santa Sede, il 24 febbraio del 1510 Giulio II ammise gli ambasciatori veneti alla sua presenza, assolse la Repubblica e si diede da fare per conciliarla con Massimiliano d’Asburgo. Il Re di Francia capì subito cosa si stesse preparando e perse ogni dubbio quando seppe dei tentativi di Roma d’alienargli l’appoggio inglese e svizzero. La pacificazione fra Vienna e Venezia non si ottenne, l’interruzione dell’appoggio inglese alla Francia nemmeno, ma la separazione degli Svizzeri si; e fu cementata dall’assoldamento di ben 15.000 di loro da parte papale per calare contro i Francesi in Lombardia. Il passo seguente di Giulio II fu contro Alfonso d’Este duca di Ferrara, fedele alleato di Luigi XII: gli ordinò di non fare più sale a Comacchio, per non danneggiare gli affari delle saline di Cervia appena recuperate dalla Santa Sede. Alfonso ribatté di non avere alcun impegno in materia col Papa e d’accettare imposizioni solo dall’Imperatore, in grazia del quale riteneva Comacchio come feudatario. Giulio intanto era andato avanti coi tentativi diplomatici e, rinunciato definitivamente a staccare Enrico VIII dall’alleanza francese, s’era concentrato sulla Spagna, col cui re ottenne un accordo in cambio dell’investitura di Napoli, 15 purché non la cumulasse alla corona dell’Impero o al dominio diretto sulla Lombardia o sulla Toscana, così da evitare l’accerchiamento del territorio della Santa Sede. Allora, nell’estate del 1510, mentre fomentava un’insurrezione antifrancese a Genova e vi spediva un contingente via terra al comando di Marco Antonio Colonna, il Papa si volse definitivamente contro Alfonso d’Este, in quel momento impegnato in Veneto coi Francesi contro i Veneziani, e gli intimò di lasciare l’alleanza francese. L’interposizione diplomatica imperiale non servì a nulla e il 9 agosto 1510 Giulio II interdì Alfonso d’Este e lo dichiarò decaduto e privato del dominio di Ferrara e di quanto gli veniva dalla Chiesa, dopodiché mosse contro di lui l’esercito pontificio, sempre sotto l’autorità di Alidosi e il comando di Francesco Maria della Rovere. Mentre i Francesi si trovavano addosso gli Svizzeri in Lombardia, gli Estensi ferraresi cercarono di difendersi dall’esercito pontificio impadronitosi di Lugo, Bagnacavallo, Massa Lombarda ed altri centri minori, ma si trovarono praticamente accerchiati dalla resa di Modena, ottenuta dai Pontifici il 19 agosto mediante contatti segreti fra Alidosi e i conti Rangoni. Subito dopo il duca d’Urbino prese Carpi, San Felice e “il Finale”, cioè Finale Emilia, avvicinandosi pericolosamente a Ferrara. Il passo seguente non era semplice ed ebbe delle conseguenze assai dannose ai Pontifici. Si doveva pianificare la presa di Ferrara e ci fu un urto fra il duca d’Urbino, deciso a marciare direttamente sulla città, e il cardinal legato, che voleva prendere prima Mirandola. Il 22 settembre 1510 Giulio II in persona arrivò a Bologna per seguire le operazioni con cui intendeva portare il confine dello Stato Pontificio sul Po, impadronendosi di tutti i territori su cui la Chiesa vantava dei diritti feudali e levandoli ai rispettivi detentori. Tenne consiglio di guerra e i contrasti fra Alidosi e Francesco Maria della Rovere fin lì abbastanza contenuti, gli esplosero davanti. La discussione fu accesissima. Alla fine il Papa accolse il parere d’Alidosi e ordinò di prendere Mirandola. Francesco Maria obbedì allo zio, ma da quale momento divenne un nemico giurato del Come già accennato, Napoli era formalmente feudo della Chiesa dall’Alto Medioevo, quando i Normanni se n’erano impadroniti, e i suoi sovrani si riconoscevano vassalli di Roma pagando un tributo annuo, consistente in una somma di denaro e in una cavalcatura, detta “Chinea”, che dava il nome all’intero tributo, presentato al Papa da un ambasciatore del Re accompagnato da una solenne cavalcata di tutti i nobili romani titolari di feudi nel Regno di Napoli. 15
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cardinale, ripagato d’ugual moneta e con conseguenze che di lì a meno d’un anno si sarebbero rivelate assai gravi. Giulio II non lo capì, aveva altro per la testa. Grazie a lui, in quell’estate del 1510 i Francesi e i Ferraresi avevano dovuto lasciare il Veneto e, senza il loro aiuto, l’esercito imperiale era rimasto così indebolito da far ottenere dei buoni risultati alla controffensiva veneziana. Ci furono però degli insuccessi. L’operazione papale contro Genova fallì e quella degli Svizzeri contro Milano pure, disimpegnando la guarnigione francese in Lombardia, che si preparò ad aiutare il duca di Ferrara. Non poteva assalire Modena, perché il presidio papale là era troppo forte, ma profittando dei movimenti francesi e della concentrazione dei Pontifici verso Modena, Alfonso d’Este poté riprendere almeno Finale e Cento. Così facendo, si trovò subito addosso i Veneziani, ma riuscì a sconfiggerli il 28 settembre, con grosse loro perdite ad Adria e alla Polesella. Allora, protetti dai Ferraresi sul fianco sinistro e presa Carpi, i Francesi si avvicinarono a Bologna, spinti dagli esuli Bentivoglio. Il 17 ottobre 1510 conquistarono il castello di Spilamberto, poi Castelfranco e il 19 le loro pattuglie di cavalleria apparvero vicino alle mura di Bologna. La paura prese la corte pontificia e le autorità cittadine, ma dovettero esercitare delle pressioni fortissime sul Papa perché accettasse di trattare. Convintosi, molto a malincuore, mandò al campo avversario Gian Francesco Pico conte della Mirandola, più per prendere tempo che colla reale intenzione di negoziare; intanto chiamò rinforzi. Favorito dalle esagerate pretese francesi, Pico ebbe buon gioco a mandare le trattative tanto per le lunghe da dare ai rinforzi pontifici il tempo di raggiungere Bologna, dopodiché Giulio II mandò all’aria i negoziati e i Francesi, a corto di vettovaglie, si dovettero ritirare in fretta. La loro partenza facilitò al Papa la ripresa delle operazioni, benché la stagione fosse molto avanzata. Tacitò le proteste di Massimiliano d’Asburgo, promettendo di restituire Modena, come avrebbe fatto il 31 gennaio 1511, riconoscendola feudo dell’Impero e, unite alle sue truppe quelle spagnole appena giunte di rinforzo, decise d’assediare Ferrara. Il tempo però era peggiorato troppo per consentire una simile impresa, per cui il Papa instradò le sue forze su Concordia, presa il 19 dicembre, e poi su Mirandola, di cui diresse personalmente l’assedio fra neve e ghiaccio, fino alla capitolazione il 21 gennaio 1511. Giulio II si spostò allora a Ravenna, ma inviò 5.000 fanti sostenuti da aliquote di cavalleggeri e di uomini d’arme a prendere la fortezza della Bastia della Fossa Zaniola. Era detta la “Chiave del Ducato” di Ferrara, perché controllava il traffico fluviale sul Santerno, lo Zaniolo e il Po di Primaro, poi riunito al Reno quando nella seconda metà del Settecento si fecero dei complessi lavori di raddrizzamento e incanalamento per ridurre le inondazioni nel Ferrarese. Davanti a quella fortezza – un castello a pianta triangolare con una torre ad ogni angolo – le truppe pontificie si presentarono nel febbraio del 1511, sostenute sul fiume da 13 legni sottili veneziani. Prenderla significava tagliare i rifornimenti a Ferrara. Alfonso d’Este lo sapeva e il 28 febbraio colse di sorpresa gli assedianti e li sbaragliò con gravi perdite, poi si dedicò alle navi veneziane; ci mise un mese, ma il 25 marzo riuscì a mettere in fuga pure quelle. La vittoria estense portò a uno stallo e indusse i belligeranti ad incontrarsi a Bologna davanti al Papa. Non conclusero nulla e in primavera le operazioni ripresero. Tutti i progressi ottenuti dai Pontifici fino alla sconfitta della Fossa Zaniola non avevano fatto che accrescere le preoccupazioni e l’ostilità francese. Luigi XII aveva rinnovato il 17 dicembre 1510 l’alleanza coll’Imperatore, ma fin dal 3 settembre 1510 aveva convocato a Tours un concilio della Chiesa di Francia, al quale aveva domandato se fosse lecito difendere contro il Papa un principe feudatario dell’Impero. Le discussioni non erano state brevi. Alla fine era stata stabilita la liceità della disobbedienza religiosa al Pontefice in certi casi e si era predisposto un secondo concilio, stavolta un concilio generale, indicandone come sede in un primo tempo Pisa, poi Lione. L’argomento non era ufficialmente noto. C’era chi affermava dovesse trattare della riforma della Chiesa, chi della liceità di disobbedire al Papa, almeno a questo Papa; e chi sosteneva che dovesse deporre Giulio 44
II, il quale non aveva mantenuto le promesse di convocare un concilio fatte all’atto dell’elezione e si trovava col rischio di scisma da parte di cinque cardinali allontanatisi dalla Curia. Minacciato in campo spirituale, Giulio II lo fu pure in quello temporale. La ripresa delle operazioni vide infatti un esercito francese avvicinarsi a Bologna sotto gli ordini di Giangiacomo Trivulzio, più o meno contrastato dal duca d’Urbino; e adesso il dissidio apertosi fra questi e Alidosi nell’autunno dell’anno prima produsse i suoi risultati peggiori. Una prima avvisaglia c’era stata un mese dopo la discussione davanti al Papa. Quando, nell’ottobre del 1510, il Cardinale aveva raggiunto le truppe pontificie a Modena, Francesco Maria l’aveva fatto arrestare e tradurre a Bologna, accusandolo d’essersi accordato col nemico per far riavere agli Alidosi la signoria di Imola detenuta un tempo e che il Papa non voleva render loro. Giulio II non ci aveva creduto e aveva confermato il Cardinale al governo di Bologna, però aveva capito di non poterlo più impiegare insieme al duca d’Urbino. Adesso, sette mesi dopo, sotto la minaccia dei Francesi, il 14 maggio il Papa decise di spostarsi di nuovo a Ravenna, incoraggiando i Bolognesi a difendere la città, protetta dalle truppe di suo nipote e sempre governata da Alidosi. La reazione sembrò pronta e spontanea. Nobili, cittadini e popolo si armarono, ma quando Alidosi cercò di farli uscire a sostenere le truppe papali contro i Francesi, ormai al ponte sul Lavino, si rifiutarono. Temendo un assedio, Alidosi pensò di far entrare mille fanti pontifici in città, ma i Bolognesi non vollero ammetterli. Resosi conto che era una rivolta incipiente, il Cardinale non provò nemmeno ad avvertirne il duca d’Urbino per concertare un’azione e segretamente fuggì ad Imola. Saputo della sua partenza, nella notte dal 20 al 21 maggio 1511 i Bolognesi in festa aprirono le porte ai Bentivoglio. L’indomani Francesco Maria della Rovere fu colto di sorpresa dalla notizia. Resosi conto di rischiare l’accerchiamento, fece ripiegare in fretta verso la Romagna le truppe pontificie dalle posizioni sul Lavino. Non furono abbastanza veloci e, sfilando in prossimità delle mura di Bologna, vennero assalite dai cittadini, dalla gente del contado e addirittura dai montanari scesi a valle in cerca di saccheggio. Persero artiglierie, munizioni e gran parte dei carriaggi, per cui, quando, di lì a poco, piombò loro addosso la cavalleria francese, non seppero difendersi e ne restarono 3.000 sul terreno. L’indomani Trivulzio, lasciati un po’ di uomini ad assediare la cittadella di Bologna, che si arrese in cinque giorni, avanzò fino a Castel San Pietro e si fermò in attesa di istruzioni. Luigi XII gli mandò ordine di tornare indietro. Sperava di convincere il Papa a trattare, ma Giulio II non ci pensava affatto. More solito era furibondo, sia per la perdita dell’esercito e della città, sia per un insulto subito: i Bolognesi avevano abbattuto e trascinato per le vie la sua statua, colata in bronzo da Michelangelo per 5.000 scudi d’oro, facendola a pezzi, poi fusi in una colubrina enorme, battezzata “La Giulia”. Mentre nella corte papale si mormorava che in realtà i Francesi e i Bentivoglio fossero entrati a Bologna proprio grazie a un accordo segreto con Alidosi, questi arrivò a Ravenna e addossò ogni colpa al duca d’Urbino, dicendone cosa da far paura. Giunto a Ravenna e venuto a sapere quanto gli aveva detto dietro il Cardinale, Francesco Maria della Rovere si infuriò come mai prima. Rinnovò contro Alidosi tutte le accuse d’intelligenza col nemico e, visto che il Papa rifiutava d’ascoltarlo, non smentì il pessimo carattere di famiglia. Furibondo, il 24 maggio raggiunse il cardinale in una strada di Ravenna e lo uccise, lasciando poi l’esercito e rinchiudendosi a Urbino. Privo del legato e del generale, sotto l’incombente minaccia dei Francesi, Giulio si spostò a Rimini e da lì a Roma, dove dichiarò decaduto il nipote da ogni grado ed onore, disgrazia che durò cinque mesi scarsi. Nel frattempo Trivulzio aveva preso Concordia, massacrandone l’intero presidio e si era spinto sotto Mirandola. Gian Francesco Pico preferì capitolare ed avere via libera per ritirarsi in Toscana cogli averi e la famiglia, dopodiché i Francesi e i Ferraresi si mossero contro il Veneto e imperversarono per tutta 45
l’estate, mentre gli Imperiali occupavano il Friuli, venendo però battuti a Bassano dal nuovo comandante veneziano, Giampaolo Baglioni, e obbligati a ripiegare oltre le Alpi.
II) La guerra della Lega Santa In questa complessa situazione, Giulio II si ammalò, ma, benché indebolito, riuscì a reagire a livello ecclesiastico e temporale. Stabilì di levare di mezzo un primo ostacolo annunciando un concilio generale in Laterano per il 1512, e, visto che quello organizzato da Luigi XII si era ugualmente radunato a Pisa con quattro cardinali e diciotto fra vescovi e abati, procedé rapido ma con cautela, assicurandosi politicamente le spalle. Per prima cosa finì d’organizzare la Lega Santa, annunciata in Roma il 5 ottobre 1511, alla quale aderirono Venezia, l’Inghilterra, gli Svizzeri e la Spagna, per cacciare gli stranieri dall’Italia. Stabilita questa, sapendosi ormai forte, il 24 ottobre 1511 tornò alla questione del concilio, privò del cappello e di ogni altro beneficio i cardinali convenuti a Pisa e li scomunicò. Il primo risultato fu che i Pisani li vollero cacciare. Per la propria incolumità il concilio ottenne allora da Firenze il permesso d’una guardia di Francesi, la cui indisciplina portò a tante di quelle risse e scontri coi Pisani che il concilio si rifugiò a Milano, sotto la diretta protezione dei soldati di Luigi XII. Non era tutto, il concilio pisano, forse più dell’occupazione francese di Bologna, aveva fornito a Ferdinando il Cattolico la giustificazione ideale per abbandonare la Lega di Cambrai: doveva soccorrere il Papa! Lo stesso motivo suonò ottimo alle orecchie d’Enrico VIII d’Inghilterra per muoversi contro la Francia e, infatti, lo specifico trattato anglo-spagnolo, stipulato il 20 dicembre 1511, indicava l’alleanza fatta “pro suscipienda sanctae romanae Ecclesiae Matris nostrae defensione pernecessaria.” – per suscitare la più che necessaria difesa della santa Chiesa romana Madre nostra. Per sostenerla, Ferdinando ottenne sia le decime ecclesiastiche dei suoi territori, sia un finanziamento di 40.000 ducati d’oro al mese – metà dal Papa e metà da Venezia – in pagamento dei 1.200 uomini d’arme, 1.000 cavalleggeri e 10.000 fanti messi a disposizione dell’alleanza agli ordini di Raimondo de Cardona. Per Giulio II era un buon risultato e andava nella direzione giusta, perché come disse all’ambasciatore veneziano Giustiniani, “Noi vorressimo che li Italiani non fossero nè Francesi, nè Spagnuoli e che fossero tutti Italiani e loro stessero a casa sua e noi alla nostra.”XXI “Fuori i barbari!" lo riassunse la storiografia, asserendo che Giulio fece poi voto “che non voleva più rasar la barba per insino a tanto che non avesse scalzato d’Italia el Re Luigi de Franza.”XXII Ora, a parte il fatto che, essendo un frate minore conventuale, la barba lunga per lui sarebbe stata la regola, disgrazia voleva che non potesse scalzare il re Luigi senza l’aiuto di altri “barbari”, nel caso specifico Tedeschi e Spagnoli, visto che proprio la precedente politica della Santa Sede era riuscita a demolire o a distruggere gli Stati più forti d’Italia, cioè Firenze, Milano, Napoli e Venezia. Adesso il massimo che il Papa poteva fare era pagare truppe mercenarie e lo fece. Ramon de Cardona in novembre lasciò Napoli per il fronte dell'Alta Italia nominato comandante delle truppe della Lega Santa, ma il principio della guerra fu favorevole ai suoi nemici. Gaston de Foix, ventiduenne comandante supremo francese in Italia, aveva ricevuto da suo zio Luigi XII l’ordine d’attaccare con decisione. Si liberò dagli Svizzeri, pare corrompendone i comandanti, e si volse all’Emilia. Dispose le sue truppe a Mirandola, Carpi, Sasso e Finale Emilia e sbarrò la strada agli Spagnoli giunti a Forlì, che minacciavano Bologna insieme ai Pontifici del legato cardinale Giovanni de’Medici, secondogenito di Lorenzo il Magnifico, e comandati da Marco Antonio Colonna. Gli Ispano-Pontifici tennero consiglio di guerra per decidere se marciare contro Ferrara o Bologna. Data la stagione e il pessimo stato delle strade, Ferrara era difficile, perciò si decise per una via di mezzo: campo a Bologna e intanto assedio della Fossa Zaniola, dove fu mandato Pedro Navarro verso la fine di dicembre con 2.000 fanti e un treno d’artiglieria.
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L’assedio non fu semplice, richiese almeno tre giorni di bombardamento, l’apertura di due brecce e una mina, prima di poter dare l’assalto su due ponti attraverso i fossati. La fortezza cadde il 31 dicembre, col massacro di tutto il presidio. Alfonso d’Este con truppe e cannoni arrivò a soccorrerla troppo tardi, il 13 gennaio 1512. Trovò le brecce chiuse e la guarnigione ispano-pontificia ben arroccata, mise in posizione i pezzi e in poche ore distrusse le riparazioni delle brecce e riprese la Fossa, il cui presidio per rappresaglia fu ucciso tutto. Saputolo, Giulio II si infuriò talmente da far smuovere l’esercito alleato, che il 26 gennaio 1512 incominciò l’assedio di Bologna. Procedé con tanta energia dal lato orientale che in pochi giorni erano state diroccate cento braccia di mura e la breccia era quasi fatta. Si poteva tentare l’assalto, ma gli Spagnoli insisterono per attaccare dopo l’esplosione della mina che stavano preparando sotto il santuario della Madonna del Baraccano, cioè del barbacane, così chiamata perché addossata alle mura della città. La mina esplose “e mirabile cosa fu, che la cappella fu balzata in aria, e tornò a ricadere nel medesimo sito di prima, con restar delusa l’aspettazione dei Spagnoli, quivi pronti per l’assalto.”XXIII Gaston de Foix intanto aveva concentrato truppe a Finale Emilia, si era accordato con Alfonso d’Este e aveva staccato verso Bologna due colonne di soccorso, la prima di mille fanti, la seconda di 150 lance. Entrambe erano riuscite ad entrate in città e il loro arrivo aveva fatto credere agli assedianti che i FrancoFerraresi non intendessero fare altro. Invece il 5 febbraio Gaston de Foix entrò a Bologna da Porta San Felice senza che gli Ispano-Pontifici se ne accorgessero e decise di fare una sortita al più presto, lasciandosi prima un po’ di tempo per far riposare le truppe. Caso volle che il 6 gli Spagnoli prendessero un prigioniero, dal quale seppero quanto era accaduto e cosa stava per succedere, perciò l’intero esercito assediante nella notte dal 6 al 7 febbraio 1512 levò le tende e si ritirò precipitosamente verso Imola, inseguito con poco danno da alcune pattuglie di cavalleria francese. Il giorno seguente, 8 febbraio, Gaston de Foix ebbe la notizia della perdita di Brescia e Bergamo, perciò lasciò a Bologna un forte presidio e col resto marciò verso la Lombardia, per assicurare le proprie comunicazioni colla Francia neutralizzando Brescia, dove arrivò a metà mese con una marcia di soli nove giorni. I Veneziani della guarnigione tentarono di resistere e furono sopraffatti. Ne seguì fu un saccheggio senza pari per crudeltà e durata, tipico dei Francesi di allora e tale da far impallidire quelli della Guerra dei Trent’Anni, che pure sono ricordati come i peggiori. La notizia dei fatti di Brescia indusse Bergamo ad arrendersi e permise a Gaston de Foix di tornare in Emilia. Avuto da Luigi XII l’ordine di dare una battaglia risolutiva, col sostegno delle truppe estensi, de Foix in aprile si avvicinò a Ravenna, stabilì il campo alla confluenza del Ronco col Montone e si preparò allo scontro. Contro di lui mossero i soldati della Lega, circa 17.000 uomini, guidati da Cardona. Prima di esserne agganciato, de Foix si presentò sotto Ravenna, dov’erano rimasti i Pontifici, ma il 9, Venerdì Santo, Fabrizio Colonna guidò in una fortunata sortita e lo obbligò a rientrare nel campo.
III) La battaglia di Ravenna L’11 aprile 1512, domenica di Pasqua, le truppe francesi erano pronte al combattimento in campo aperto per quella che fu una delle più memorabili battaglie della storia occidentale e delle Guerre d’Italia. Incominciarono col fuoco di tutte le loro artiglierie. Quelle spagnole risposero con effetti rovinosi, colpendo gravemente la fanteria francese; ma entrarono in azione i cannoni estensi, abilmente diretti dal duca Alfonso, che colpirono di fianco e di rovescio le truppe e le linee avversarie. Fabrizio Colonna riordinò il più possibile le fanterie della Lega, che però non ressero a lungo e, in alcuni tratti del fronte, abbandonarono il campo, comunicando il panico alla cavalleria, che si dissolse. Nonostante questo, parecchi reparti di fanteria della Lega continuavano a resistere, per cui Gaston de Foix guidò personalmente la cavalleria francese in una carica in cui perse la vita ma vinse la battaglia. Restarono sul 47
terreno circa 20.000 morti delle due parti: 9.500 collegati e oltre 10.500 francesi. Il cardinale de’Medici era tra i prigionieri. Era stata una Pasqua sanguinosa e sarebbe stata ricordata come la prima volta in cui l’artiglieria da campagna era stata impiegata con reale efficacia. Dopo questo brillante risultato i Francesi, comandati adesso dal Signor de la Palisse e da Gian Giacomo Trivulzio, ebbero facilmente tutta la Romagna. Marco Antonio Colonna dapprincipio s’era chiuso nella cittadella di Ravenna, poi, constatata la mancanza di viveri, se n’era andato lasciando un presidio di cento uomini e consigliando alla città di capitolare. Una delegazione allora si era presentata a La Palisse ottenendone delle buone condizioni, ma, mentre trattava, i soldati francesi erano penetrati in città e ne avevano cominciato il saccheggio come a Brescia. La Palisse, intervenuto subito, ne aveva fatti impiccare 34 sul posto, emanando ordini severissimi. Il saccheggiò era stato interrotto, ma la notizia era bastata ad indurre tutte le città della Romagna a sottomettersi ai Francesi, per cui ai Pontifici erano rimaste le sole cittadelle di Faenza, Forlì, Imola, Cervia, Cesena e Rimini, più qualche castello isolato. Tutto sembrava andar bene ai Francesi, ma non durò. La prima notizia della sconfitta di Ravenna aveva generato uno scompiglio indescrivibile a Roma, dove i cardinali e la Curia avevano fatto di tutto per spingere il Papa alla pace; ma quando si seppero le perdite dei Francesi, Giulio II capì subito quanto fossero in difficoltà. Quando poi apprese l’imminenza dell’offensiva inglese e spagnola in Francia e che 20.000 svizzeri, pagati da Roma e Venezia e comandati dal cardinale Matteo Schiner, detto il cardinale di Sion, si apprestavano ad attaccare in Lombardia non ebbe più dubbi sulla solidità della sua posizione. Aveva ragione: in brevissimo tempo il Signor de la Palisse si trovò in gravi difficoltà e abbandonò la Lombardia. Milano e Genova insorsero. I collegati e i Pontifici avanzarono fino a conquistare Modena, Parma e Piacenza, mentre Massimiliano Sforza entrava a Milano alla testa d’un esercito composto da mercenari svizzeri. Al solito, cacciato uno straniero, si favoriva l'ingresso d’un altro. Infatti Massimiliano Sforza dové pagare l’aiuto svizzero concedendo alla Confederazione il Canton Ticino, 16 un'alleanza perpetua e parecchi privilegi commerciali, mentre il Papa cercava di assicurarsi Asti e i suoi messi provavano a convincere Parmensi e Piacentini a darsi alla Chiesa, scatenando le ire dello Sforza e degli Asburgo, il primo perché si vedeva defraudato di parte del Ducato, i secondi perché Parma e Piacenza dipendevano dall’Impero. Contemporaneamente, in maggio, Giulio II aveva rinforzato con 4.000 uomini l’esercito sopravvissuto a Ravenna, l’aveva messo agli ordini del duca d’Urbino e mandato in Romagna a riprendere i feudi pontifici, prima, e Bologna poi. Abbandonata dai Bentivoglio, la città capitolò il 10 giugno 1512, assistendo l’indomani all’entrata solenne del duca d’Urbino e del legato, cardinale Gonzaga. Mentre l’Emilia tornava sotto le chiavi di Pietro, il duca di Ferrara, alla fine d’un lungo lavorio diplomatico, con un salvacondotto sotto la garanzia dell’ambasciatore spagnolo e di Marco Antonio e Fabrizio Colonna, si recò a Roma, dove il 23 giugno fu assolto dalle censure ecclesiastiche e ammesso al bacio del piede del Papa. Sembrava tutto a posto, quando giunse la notizia che, all’insaputa di tutti, le truppe del duca d’Urbino avevano minacciato Modena ed erano entrate nel Ducato di Ferrara, impadronendosi di Cento, Pieve, della parte estense della Romagna e ancora di Carpi, Brescello, San Felice e Finale Emilia. Questo non era nei patti: che era successo? Tutto si chiarì quando Giulio II cominciò a parlare di cessione del Ducato alla Chiesa. Alfonso non accettò e chiese di poter tornare a Ferrara. Gli fu negato. Obiettò d’avere un salvacondotto pontificio: parole al vento. I Colonna e l’ambasciatore spagnolo andarono dal Papa ad intercedere per lui: ottennero solo ingiurie e minacce. Allora, poiché i Colonna mantenevano la parola data, passarono ai fatti. Radunarono le loro milizie, entrarono a Roma da Porta San Giovanni, sì Meno Campione che, in quanto feudo abbaziale milanese e non del Duca, rimase giurisdizionalmente e formalmente separato dal resto del Canton Ticino, indirettamente dipendente da Milano e passando, coll’incamerazione dei beni ecclesiastici, a far parte del Regno d’Italia. 16
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impadronirono del duca Alfonso e lo portarono nel loro castello di Marino, da dove, travestito, tre mesi dopo lo aiutarono a tornare a Ferrara. Nel frattempo il Papa aveva saldato un altro conto. Furioso con Firenze per l’ospitalità concessa al concilio abusivo tenuto a Pisa, ottenne che Cardona passasse in Toscana per ristabilire i Medici, visto che la Repubblica sembrava assai più ostile alla Chiesa di quanto non lo fossero mai stati loro Cardona si avvicinò a Firenze e iniziò a trattare colla Repubblica. Essendo a corto di vettovaglie, i suoi soldati ne profittarono per saccheggiare Prato il 30 agosto. Fu una devastazione orribile, peggio di quella di Brescia, da cui si salvarono solo quasi tutte le donne, rifugiatesi nella cattedrale che il cardinal de’Medici era riuscito a proteggere. I morti furono 5.000 e il gonfaloniere di Firenze, Pier Soderini, l’indomani lasciò la Repubblica. Adesso però Giulio II si cominciò a preoccupare della preponderanza spagnola e pensò di controbatterla coll’aiuto di Massimiliano d'Asburgo; ma poiché Massimiliano voleva qualcosa in cambio, necessariamente a spese di Venezia, nel novembre 1512 il Papa convocò i diplomatici a Roma e impose ai Veneziani d’accettare delle condizioni pesantissime: Verona e Vicenza all’Impero, un tributo annuo, sempre all’Impero, di 300 libbre d’oro di tasse per Padova e Treviso, più altre 2.500 per il correlato privilegio feudale; infine lui avrebbe arbitrato il possesso del Friuli. Venezia, tradita, rifiutò su tutta la linea. Il Papa sbraitò; la Repubblica si alleò alla Francia e ricominciò a combattere. Il primo risultato fu che nel maggio 1513 Massimiliano Sforza perse il Ducato di Milano, assalito simultaneamente dai Francesi e dai Veneziani che, guidati da Bartolomeo d’Alviano, presero Verona, Valeggio, Peschiera e Cremona. L’intervento svizzero colla vittoria di Novara eliminò però i Francesi dall’Italia, mentre gli Spagnoli entravano a Genova e piegavano poi a est, verso Venezia. I combattimenti continuarono a lungo nel corso dell’anno e lentamente la sproporzione di forze giocò sempre più a sfavore di Venezia. Poi, la notte dal 20 al 21 febbraio 1513, morì Giulio II e dal conclave di marzo uscì papa il trentasettenne cardinale Giovanni de’Medici, che assunse il nome di Leone X. Lo stile colto, umanistico e grandioso del Magnifico si rivelò subito nel figlio. Scelse a suoi segretari i monsignori Pietro Bembo e Jacopo Sadoleto, famosi letterati e futuri cardinali, e spese 100.000 ducati già solo per le feste della sua incoronazione. In politica papa Leone almeno dapprincipio si mosse con cautela. Le guerre di Giulio II avevano più o meno giovato al dominio temporale della Santa Sede, o almeno così sembrava. Il prezzo però era stato elevatissimo. L’Italia settentrionale era stata devastata in maniera orribile ed avrebbe continuato ad esserlo per almeno altri vent’anni. Le spese di guerra di tutti i contendenti erano state pagate dalla popolazione, taglieggiata e saccheggiata di continuo. I commerci erano interrotti, le campagne abbandonate per mancanza di braccia e per i danni inferti loro dalle soldatesche di passaggio. Il tesoro della Chiesa ne aveva risentito forse meno di quelli altrui, un po’ perché gli Stati Pontifici dalle Marche in giù non erano stati teatro bellico, un po’ perché alimentato dalle decime da altri Stati non toccati dalla guerra, Peraltro, se le entrate erano rimaste quasi stabili, le spese erano state forti non tanto in campo militare, quanto in quello artistico. Alessandro VI era stato un committente di opere d’arte, ma Giulio II l’aveva fatto sembrare un impacciato dilettante. Per limitarsi alle opere maggiori, basterà dire che papa della Rovere aveva commissionato a Bramante il rifacimento della Basilica di San Pietro e parecchi altri lavori urbanistici, a Michelangelo la decorazione della Cappella Sistina, a Raffaello quella delle Stanze e infine aveva creato i Musei Vaticani. L’attività artistica era stata parte integrante del suo programma politico: Roma doveva tornare possente, faro della Cristianità e della civiltà, manifestando il suo primato anche nell’aspetto. Era un progetto molto bello e molto costoso. Papa Giulio lo sapeva e, nonostante la guerra, era sempre riuscito a destreggiarsi bene col bilancio tanto da lasciare 300.000 ducati nel tesoro pontificio. Leone X era assai diverso e l’aveva provato dilapidando un terzo di quel tesoro per le feste dell’incoronazione. Proseguì nello stesso stile, facendo tante di quelle spese da dover impegnare alcuni 49
preziosi della Santa Sede; poi cercò ingenti prestiti, per cui alla sua morte l’erario sarebbe risultato esausto e gravato dal pagamento di 40.000 ducati d’oro all’anno solo d’interessi; ma non sarebbe stato certo quello il danno maggiore derivato dalle sue spese pazze. In politica Leone non si scostò molto dalle alleanze esistenti, pur diminuendo il coinvolgimento della Santa Sede. Il suo fine, come Alessandro VI, consisteva nell’aumentare il territorio pontificio e il potere e le ricchezze della famiglia. Nel settembre del 1513 i 2.000 fanti e le 200 lance costituenti il contingente papale operarono nel basso Veneto, distinguendosi quanto gli Spagnoli nella nobile arte del saccheggio e del massacro dei civili, ma tenendosi sempre abbastanza vicini al Po. C’era un motivo: il Papa mirava ad assicurarsi tutta l’Emilia e il Veneto non lo interessava. Lo si vide da quanto successe col duca di Ferrara. Alfonso d’Este era stato invitato alle feste dell’incoronazione in Roma, figurando al posto d’onore, e gli era stata promessa la restituzione di Reggio, ma non riusciva ad averla indietro. Il 15 giugno 1513 arrivò ad accettare di non far più sale a Comacchio, sperando d’indurre il Papa a mantenere la promessa; non servì. Reggio rimase presidiata dai Pontifici, però Leone mise una scadenza alla promessa: avrebbe reso la città entro cinque mesi. Era un passo avanti e lo sembrò per 48 ore, perché il 17 si seppe che il Papa aveva comperato Modena da Massimiliano d’Asburgo per 40.000 ducati, un’inezia pari alle rendite cittadine d’un solo anno. Modena era sempre stata feudo estense ed ora al Papa serviva per stabilire il collegamento fra la Legazione di Bologna e i territori di Reggio, Parma e Piacenza già in suo possesso. In una tal situazione come poteva credere Alfonso alla promessa di rendergli Reggio? Il 1515 si aprì colla morte di Luigi XII, proprio il giorno di capodanno. Non aveva avuto figli maschi, perciò salì al trono suo cugino e genero Francesco di Valois-Angoulême e, come il suo predecessore, decise di andare a darsi da fare in Italia. Confermò l’alleanza veneziana e preparò l’esercito per invadere il Ducato di Milano. Gli si oppose una lega comprendente il duca di Milano, Firenze, il Papa, la Spagna, gli Svizzeri e l’Imperatore, annunciata pubblicamente nell’agosto del 1515. Non era una sorpresa. Leone X aveva stipulato una lega coi Cantoni il 9 dicembre 1514 proprio per difendere Milano e adesso, nell’estate del ’15, mandò in Emilia suo fratello, Giuliano de’Medici, con 3.000 fanti e 3.000 cavalieri, staccando un’aliquota di 200 uomini d’arme a presidiare Verona. Bartolomeo d’Alviano guidò i Veneziani contro gli alleati con un certo successo, mentre Trivulzio conduceva l’esercito francese attraverso le Alpi e i contingenti spagnolo, fiorentino e pontificio si concentravano a Piacenza, con molti reciproci sospetti. Cardona non si fidava ad entrare in campagna senza avere le idee più chiare, perché aveva intercettato delle missive con cui Leone X diceva a Francesco I d’essere stato obbligato a muovergli contro in armi. Gli Svizzeri da parte loro erano impazienti e temevano d’essere lasciati soli davanti ai Francesi, perciò il cardinal Schiner arrivò a Piacenza per smuovere gli alleati e ottenne da Cardona 60.000 ducati e 500 lance. Contemporaneamente arrivarono al campo svizzero venti bandiere elvetiche di rinforzo e il 13 settembre 1515 gli Svizzeri andarono a cozzare contro i Francesi a Marignano. Dopo una giornata di scontri violentissimi, la lotta si riaccese l’indomani e durò fino all’arrivo della cavalleria leggera veneziana. Presi alle spalle e credendola l’intera armata veneta, gli Svizzeri crollarono e aprirono a Francesco I la via di Milano. Cogliendo l’occasione al volo, Leone X il 13 ottobre concluse subito una pace separata e, benché costretto a cedere le città padane al dominio francese; ne profittò per compensare i danni alla Chiesa con dei vantaggi per la sua famiglia. In dicembre il Papa e il Re si incontrarono a Bologna, confermarono l’alleanza e Leone si impegnò a rendere entro due mesi Modena e Reggio ad Alfonso d’Este dietro rimborso dei 40.000 ducati pagati all’Imperatore. Ovviamente Leone X non aveva alcuna intenzione di lasciare le due città e, anzi, stava già riflettendo a come prendersi pure Ferrara, però, finché i Francesi gli servivano, era meglio far finta di niente e dire di si. Passò il resto dell’inverno a Firenze e, date le incerte 50
prospettive sui ducati padani, pensò che al momento i suoi parenti potevano contentarsi di qualcosa di più piccolo, ad esempio Urbino. IV) La guerra d’Urbino del 1516-17 Nella primavera del 1516 di nuovo le truppe papali marciarono lungo l’Adriatico per prendere Urbino. Leone X aveva da un pezzo una gran voglia di levare il ducato ai della Rovere per darlo ai suoi parenti. Aveva pensato a suo fratello Giuliano, ma questi si era sempre rifiutato, memore dei molti favori fattigli dai della Rovere. Morto Giuliano senza figli il 17 marzo 1516, il ramo primogenito di Casa Medici era ridotto ormai a Lorenzo, figlio dell’altro fratello del Papa, Piero, detto “il fatuo”, quello che per non essersi saputo opporre a Carlo VIII aveva determinato la cacciata da Firenze dei Medici. Leone non ci pensò troppo e imbastì un processo contro Francesco Maria della Rovere, accusandolo di non aver voluto unirsi all’armata pontificia contro i Francesi nella campagna del ’15 e d’aver ucciso un cardinale di Santa Romana Chiesa – Alidosi – nonostante fosse stato poi graziato ed assolto da Giulio II. Francesco Maria non si sottomise facilmente. Dapprima si ritirò a Pesaro, poi a Mantova, lasciando dei presidii nelle fortezze di Pesaro, Senigallia, San Leo e Rocca di Maiolo, che furono tutte prese dai Pontifici di Lorenzo Orsini, meglio noto come Renzo da Ceri, e di Vitello Vitelli. Seguì la sentenza pontificia di decadimento di Francesco Maria e la nomina di Lorenzo de Medici a duca d’Urbino e signore di Pesaro e Senigallia, però il governo di Lorenzo risultò così malvisto dalla gente, che Francesco Maria Della Rovere, data l’abbondanza di mercenari lasciati liberi dalla conclusione della pace in Veneto e Lombardia, assoldò nel Mantovano 3.000 fanti italiani, 5.000 fanti spagnoli e tedeschi, 800 stradioti montati e altri 700 cavalieri e improvvisamente, rientrò nel Ducato, cacciandone i presidii fiorentini e papali.17 Prese Senigallia e San Leo, poi attaccò Faenza e Fano. Renzo da Ceri gli si oppose, mentre Lorenzo de Medici raccoglieva altri 2.500 tedeschi e 4.000 francesi, portando il suo esercito a mille uomini d’arme, mille cavalleggeri e 15.000 fanti, tutti al comando di Renzo da Ceri, Vitello Vitelli e del conte Rangoni. Per corruzione e tradimenti Lorenzo perse alcune posizioni chiave e fu costretto a ritirarsi dal suo quartiere di Orciano. Perduta l’occasione d’occupare le posizioni di Monte Baroccio e Tavernelle, permise che vi si installassero i nemici; poi finalmente sembrò svegliarsi. Prima prese San Costanzo, poi andò in giugno ad assediare Mondolfo, difeso da 200 spagnoli: ma ebbe parecchie perdite per aver piazzato le artiglierie allo scoperto. Si recò di persona ad ispezionarle e venne gravemente ferito alla testa da un’archibugiata nemica. Il comando passò allora a suo cugino il cardinale Giulio de Medici, ma di fatto al legato pontificio Bernardo Dovizi, noto come cardinal Bibbiena. Fra diserzioni e tradimenti, la guerra andò avanti anche peggio di prima. I Pontifici furono respinti in Umbria, mentre il nemico sulla costa saccheggiava Jesi e nell’interno s’avvicinava a Perugia e Città di Castello, però entrambe le parti erano a corto di denaro. “Ne penuriava anche papa Leone, ma seppe trovar maniera di ricavarne, con fare nel dì primo di luglio la promozione di trentuno cardinali,18 fra quali molti di gran merito pel
17 Fra gli ufficiali delle truppe pontificie, al comando d’una compagnia, era presente un altro nipote del Papa, Ludovico
de’Medici, coosciuto come Ludovico di Giovanni e poi noto come “Giovanni delle Bande nere”, comandante d’una compagnia di cavalleggeri e figlio di Giovanni “il Popolano” de’Medici e di quella Caterina Sforza che a Forlì aveva resistito a Cesare Borgia. 18 Da questa promozione ha origine la famosa frase: “fatto trenta, facciamo trentuno”, Leone X aveva compilato la lista dimenticando un nome che gli premeva. lo aggiunse e, ai cardinali, perplessi perché così andava oltre il numero tradizionalmente stabilito, avrebbe risposto: “chi ha fatto trenta può fare trentuno.“
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loro sapere o nobiltà. Dagli altri creati per altri motivi ricavò la somma di dugentomila ducati d’oro che mirabilmente servirono a terminar la guerra d’Urbino.”XXIV Francesco Maria non poteva ricorrere a simili mezzi e rimase in cattive acque. Bibbiena ne profittò. Intavolò una trattativa e la terminò con un gran pagamento: il Papa avrebbe versato 45.000 ducati d’oro ai mercenari spagnoli e 60.000 a quelli francesi; il duca Francesco Maria avrebbe avuto via libera per ritirarsi a Mantova con tutti i suoi uomini e tutti i suoi averi, inclusa la biblioteca creata da Federico da Montefeltro e avrebbe rinunciato ai suoi Stati. Otto mesi di guerra erano costati alla Santa Sede 800.000 ducati d’oro, benché una gran parte fosse stata pagata dai Fiorentini. Ad ogni modo Urbino adesso era dei Medici. Ma a questo successo fece eco una notizia, strana benché non insolita: il 31 ottobre 1517 un sacerdote, monaco agostiniano, dottore in teologia, professore all’università di Wittemberg, aveva affisso al portale della cattedrale di Wittemberg 95 tesi contro la vendita delle indulgenze in Germania e in altre parti d'Europa.
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Capitolo V Dalla Riforma al Sacco di Roma e allo Scisma d’Inghilterra
I) Lutero e la Riforma La questione delle indulgenze è complessa e non andrebbe spiegata qui, però va sottolineato che, al di là del peccato di simonia in cui cade chiunque faccia commercio di cose sacre o, peggio, di sacramenti, l’Indulgenza di per sé non comporta l’assoluzione, né la cancellazione dei peccati, ma solo la cancellazione delle loro conseguenze e solo se vi siano state prima la confessione e l’assoluzione. I peccati, infatti, sono cancellati, perdonati, dall’assoluzione avuta al termine della confessione, assoluzione che è veramente efficace solo se la confessione è accompagnata dal fermo e convinto proposito di non commettere più quel peccato. Se la convinzione manca, il peccato non è perdonato perché l’assoluzione non ha efficacia. Ammettendo che l’abbia, essa non basta comunque a ripristinare nella sua perfezione lo stato di grazia. L’anima, sporcata dal peccato e ripulita dalla confessione, è come un foglio un tempo nuovo, su cui il peccato abbia fatto dei segni che poi l’assoluzione ha cancellato; ma se il foglio non torna come nuovo, l’accesso al Paradiso non si può avere e l’anima è costretta a una sosta in Purgatorio per purificarsi. Ebbene: l’indulgenza plenaria è ciò che ripristina la purezza originaria dell’anima, però, non solo non si può né si deve comprarla, ma senza assoluzione non funziona. Ora, a dispetto di tutto ciò, in Germania si vendevano le indulgenze, in molte città con tanto di tariffario: si pagava e ci si riteneva assolti e purificati, senza sapere, o senza curarsi del fatto, che invece si era commesso da parte di chi vendeva e di chi comprava un ulteriore gravissimo peccato e si stava peggio di prima. Leone X aveva una parte di colpa. Voleva terminare la basilica di San Pietro, ma l’erario era esausto dalle spese di guerra di Alessandro VI e di Giulio II, per cui accettò l’offerta dell’arcivescovo Alberto di Hohenzollern, secondogenito dell’elettore di Brandeburgo, di 10.000 fiorini, prestatigli dai famosi banchieri Fugger. A dire il vero Alberto ne aveva presi dai Fugger 20.000, coi quali si era garantito il principato elettorale vescovile di Magonza, pagando le forti spese per la necessaria dispensa dal divieto di cumulo di cariche stabilito a Roma; infatti oltre che arcivescovo di Magdeburgo era pure amministratore apostolico di Halberstadt, cariche entrambe da lasciare se voleva Magonza senza dispensa. Ebbe Magonza ed ebbe pure il permesso di presiedere alla vendita delle indulgenze in Germania, concessogli con una bolla citatissima, che però, stranamente, nel Bullarium Romanum non c’è: la Sacrosanti Salvatoris ac Redemptoris nostri del 31 marzo 1515, con cui gli sarebbe stato consentito di trattenere per sé metà degli introiti. Questa della vendita delle indulgenze fu la causa scatenante, ma c’erano molti altri motivi. Uno era la convinzione di Lutero, e non solo sua, che per diffondere la Parola di Dio bisognasse passare dal Latino alle lingue locali. Nell’estate del 1513, durante i lavori del Concilio Lateranense V, la medesima proposta era stata fra quelle suggerite al Papa dai due camaldolesi e patrizi veneti Tommaso Giustiniani e Vincenzo Querini nel loro Libellus ad Leonem X, ma, in reazione alla riforma protestante iniziata di lì a poco, Roma avrebbe accantonato, l’idea, respingendola col Concilio di Trento ed accogliendola solo col Vaticano II, quattrocentocinquant’anni dopo. Un altro motivo era l’evidente contraddizione fra ciò che il clero cattolico faceva e quanto la dottrina prescriveva. La gerarchia ecclesiastica, ormai quasi ovunque monopolio delle famiglie nobili, cercava denaro e potere, cumulava cariche per godere di rendite sempre maggiori senza svolgere un vero ministero ecclesiastico ed era spesso, specie in Germania e nei territori superficialmente toccati dal Rinascimento, di una crassa ignoranza, di pessimo esempio e dei peggiori costumi e, quanto a questi ultimi, proprio l’arcivescovo Alberto di Hoenzollern era uno dei casi più evidenti e famosi.
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A tutto questo si sarebbe poi sommato il fattore determinante: i principi tedeschi avrebbero trovato nella Riforma la giustificazione morale sia all’arricchimento, grazie alla confisca dei beni ecclesiastici, sia alla ribellione all’Imperatore. Il domenicano cardinale de Vio, arcivescovo di Palermo, in quel momento in Germania per seguire l’elezione di Carlo d’Asburgo alla corona imperiale, tentò di ottenere una pubblica e completa ritrattazione da Lutero, il quale però non si considerava un eretico, per cui rifiutò e anzi invocò la protezione del Papa contro i calunniatori e i nemici. Del resto fino all’anno dopo, cioè fino al 1519 voleva solo riformare la Chiesa, riportandola alla purezza della missione assegnatale da Cristo. A dispetto di tutte le promesse fatte, De Vio non riuscì a imporre alle università tedesche la cessazione degli attacchi contro Lutero e dové comunque tornare in Italia nell’autunno del 1519. Contemporaneamente Lutero, che si cimentava spesso in discussioni pubbliche, si era cacciato in una strada senza ritorno o, quantomeno, dal ritorno assai difficile. Nel febbraio del 1519, a Lipsia, in una disputa pubblica col professor Johann Eck, aveva ammesso di condividere alcuni punti della dottrina di Jan Huss, che un secolo prima era stata giudicata eretica. Quasi un anno dopo, nel gennaio del 1520, si riunì a Roma il primo concistoro su di lui e il 15 giugno, visti vani tutti gli appelli, fu emanata la bolla Exsurge DomineXXV con cui gli si intimava di ritrattare ufficialmente le sue posizioni o di comparire a Roma per fare altrettanto, pena la scomunica. Non ci fu risposta e, il 3 gennaio 1521, trentanove mesi dopo l’affissione delle 95 tesi, Leone X scomunicò Martin Lutero per eresia hussita con la bolla Decet Romanum Pontificem.XXVI A differenza di quanto accaduto con tutte le eresie precedenti, stavolta l’unità della Respublica Christiana era rotta e si sarebbe spezzettata sempre di più. Coll’eccezione della Polonia e della Lituania, tutta l’Europa a nord di quello che era stato il limes dell’Impero Romano d’Occidente si gettò nel campo della Riforma, o con convinzione, come in Germania, o per rappresaglia contro l’Imperatore e alla ricerca dell’indipendenza, come specialmente in Olanda, o perché ingannata od obbligata dai propri sovrani come in Svezia e poi in Inghilterra. Dalla protesta vennero altre proteste, apparve il Calvinismo, la frammentazione aumentò e con essa l’insofferenza verso i sovrani. Alcuni saltarono il fosso e si schierarono coi Protestanti contro Roma e l’Impero, altri cercarono di sostenersi con maggiore o minore successo, con Roma e con le armi.
II) La breve pace Mentre in Germania si accendeva l’incendio della Riforma, in Italia, terminata la guerra d’Urbino, la pace mostrava la Penisola spartita in due sfere d'influenza, al nord francese e al sud spagnola. Sembrava che tutto sarebbe rimasto così quando, nel 1519, morto Massimiliano d’Asburgo, il nipote Carlo gli successe anche nella signoria dei territori austriaci, che vennero di fatto uniti a quelli spagnoli in Europa e nel mondo, creando un insieme politico-militare di potenza ed estensioni tali che mai più s’erano viste dopo l’apogeo dell’Impero Romano. L’artefice della politica imperiale non fu però Carlo, quanto piuttosto il suo gran cancelliere, l’italiano Mercurino Arborio di Gattinara. Fu il suo lavorio diplomatico a procurare all’ancora arciduca l’elezione a Re dei Romani e, in seguito, a imperatore; e fu lui a spingere per la guerra alla Francia, contrastando e battendo il partito pacifista della corte. Le truppe asburgiche si prepararono alla lotta stringendo coll’Inghilterra e col Papa un’alleanza che Leone X dové accettare per due ragioni, nonostante contravvenisse alle condizioni alle quali a suo tempo Ferdinando era stato investito del Regno di Napoli – cioè l’obbligo di non assumere mai il dominio diretto del Milanese o della Toscana. La prima ragione in ordine d’importanza oggettiva era che il principio della Riforma protestante rendeva necessaria alla Chiesa l’amicizia dell’Imperatore. La seconda, che per il Papa era la prima, consisteva nel recupero di Parma e Piacenza, nella conquista di Ferrara e, perché no, pure di Napoli, o almeno d’una parte. 54
Come al solito, Leone si era barcamenato fra le due parti in causa, Aveva iniziato consigliando a Francesco I una spedizione contro Napoli, sperando di cavarne qualcosa come un allargamento degli Stati Pontifici, però l’8 maggio 1521 strinse una lega a Milano coll’Imperatore, a condizione d’avere Parma e Piacenza, un aiuto per prendere Ferrara e la corona di Napoli assegnata ad Alessandro de’Medici, figlio di suo nipote Lorenzo, lo spodestato usurpatore d’Urbino, garantendo l’impegno pontificio pagando 150.000 ducati d’oro per assoldare 6.000 svizzeri. Tralasciando i vari maneggi che costellarono la primavera e l’estate del 1521, basterà dire che gli eserciti si ingrossarono abbastanza da render chiaro quali fossero le intenzioni delle due parti e come sarebbe andata a finire. I Veneziani armarono in tutta fretta. I Pontifici concentrarono truppe a Reggio. I Francesi mandarono oltre 4.000 uomini a Parma e in agosto se la videro assediare da un esercito ispano-pontificio, comandato da Prospero Colonna, appositamente richiamato dal servizio imperiale al pontificio per quell’impresa. Pesantemente cannoneggiati, i Francesi lasciarono la parte della città oltre il torrente, che fu occupata e saccheggiata secondo le migliori regole, e chiesero a gran voce al Signor de Lautrec che venisse a rinforzarli. Lautrec avanzò fino al Taro e si fermò. Colonna non se ne preoccupò più di tanto, finché non seppe che Alfonso d’Este s’era messo coi FrancoVeneziani ed era entrato nel Modenese, prendendo Finale e San Felice e arrivando fin sotto Modena, perciò spedì contro di lui il conte Rangone e, per non farsi prendere alle spalle, levò l’assedio e ripiegò a San Lazzaro. Saputo che il cardinal Schiner era in arrivo cogli Svizzeri assoldati dal Papa, Colonna evitò d’assalire Lautrec, come invece volevano gli Spagnoli del marchese di Pescara, ed ebbe ragione. Nel frattempo le truppe pontificie stavano mettendo molto a mal partito il duca di Ferrara, colpevole d’aver fatto fallire l’assedio di Parma. Finale e San Felice vennero riconquistati in breve tempo, Bondeno fu presa col massacro di tutto il presidio estense; in Romagna caddero Lugo, Bagnacavallo, Cento e la Pieve. Poi si mossero i Fiorentini e occuparono tutta la Garfagnana, colle sue novanta comunità, mentre cadeva pure Modena. “Ma neppure questo bastò a papa Leone. Pubblicò allora egli un fierissimo monitorio contra d’Alfonso, dichiarandolo ribello, colle frange d’altri titoli obbrobriosi, e mettendo l’interdetto alla città di Ferrara, per avergli egli occupato le terre del Finale e san Felice spettanti alla Chiesa romana,; quasichè avessero i pontefici acquistata indulgenza plenaria in ispogliar quel duca delle imperiali città di Modena e Reggio; e fosse poi enorme delitto, s’egli tentava di ripigliare il suo, cioè terre a lui indebitamente tolte, e delle quali era stato investito dagli imperadori.”XXVII Alfonso non si piegò. Rispose con un manifesto elencando tutti i torti subiti e, sapendo che, al di là delle belle parole, ne uccide più la spada che la penna, aumentò i suoi soldati italiani e ne arruolò quattromila tedeschi, preparandosi a vender cara la pelle. Non ce ne fu bisogno, la morte l’aiutò. III) Vaprio, Pavia e il ritorno del duca d’Urbino Mentre i Pontifici imperversavano nel Ferrarese e nei dominii estensi, arrivarono in bassa Lombardia gli Svizzeri del cardinal Schiner e si unirono alle truppe di Colonna. Allora, per aprirsi la via di Milano i collegati si assicurarono una testa di ponte a Vaprio, alla confluenza del Bremba nell’Adda, dandone il comando a Francesco Morone. Lautrec gli spedì contro il conte Ugo Pepoli con un forte contingente; e solo l’intervento di 200 cavalleggeri di Giovanni de’Medici salvò la situazione. La strada per Milano fu aperta e il velo di cavalleria albanese dei Veneziani che ancora restava a interporsi fra i collegati e la città non bastò. Così il 55
19 novembre 1521, preceduto da un’avanguardia di cavalleggeri di Giovanni de’Medici e di fanti spagnoli, Francesco Maria Sforza rientrava a Milano alla testa delle truppe svizzere pagate dal Papa. La notizia giunse a Roma la sera del 24 novembre. Leone X era nella villa di caccia pontificia della Magliana, lungo la via Portuense e stava recitando il breviario. Quando glielo dissero era al versetto di Luca “affinché liberi dalle mani dei nostri nemici, lo serviamo senza timore.”XXVIII Gli parve un segno del Cielo. Si fece raccontare tutto, s’informò minutamente delle condizioni dell’esercito e poi ordinò di avvertire la città. Il giubilo fu grande. Nel cortile della Magliana gli Svizzeri della guardia accesero fuochi di gioia e festeggiarono quella che per loro era la vendetta di Marignano. Leone rimase alla finestra a guardarli. Prese freddo, s’ammalò e una settimana dopo era morto. In segno di lutto, Ludovico di Giovanni de’Medici ordinò ai suoi di parare di nero le armi e le insegne, i cui colori erano stati fino a quel momento bianco e violetto, perciò da allora, per quel poco che ancora visse, fu noto come Giovanni delle Bande Nere A Leone successe per ventun mesi Adriano VI, fiammingo ed ex-maestro di Carlo V, eletto nel gennaio del 1522. Era un ulteriore vantaggio per l’Imperatore, la cui ascesa veniva sostenuta dai nuovi alleati che gli si accostavano: Venezia in luglio, poi le repubbliche di Lucca e Siena, il marchese di Mantova e i duchi di Milano, Toscana e Savoia. Per quanto riguardava gli affari della Santa Sede, la morte di papa Leone incoraggiò tutti a riprendersi la roba loro, profittando della Sede Vacante e dell’assenza del Papa, che era stato eletto “in absentia”, essendo in Spagna. Alfonso d’Este riconquistò Bondeno, Finale, San Felice, la Garfagnana e la montagna modenese, poi Lugo, Bagnacavallo e il resto della Romagna. L’unica cittadina che non poté riavere fu Cento, difesa dai Bolognesi. Francesco Maria della Rovere fece la stessa cosa. Messosi alla testa di 4.000 fanti e 2.000 cavalli insieme a Malatesta e Orazio Baglioni, entrò nel ducato d’Urbino e lo liberò in quattro giorni. Passò nel Pesarese, lo riprese, impose a Camerino come duca Sigismondo da Varano al posto del regnante Giovanni e proseguì fino a Perugia, iniziandone l’assedio ai primi del 1522. La difesa fu brevissima: Vitello Vitelli e Gentile Baglioni, mandati l’uno dai Fiorentini con 2.000 fanti e un po’ di cavalleria, e l’altro dal Papa, temendo un’insurrezione popolare abbandonarono la città con tutte le loro forze. L’esercito del duca d’Urbino allora effettuò una puntata nel Senese, poi rientrò nel Montefeltro e lo riconquistò tutto, coll’eccezione delle rocche di San Leo e di Maiuolo. Adriano VI arrivò a Roma il 29 agosto 1522. Inaugurò un pontificato assai diverso dal precedente. Ridusse drasticamente tutte le spese, mandò truppe in Romagna a riportare l’ordine e a recuperare Rimini, Imola e Ravenna, annullò ogni censura contro Alfonso d’Este, gli confermò il possesso di Ferrara, San Felice e Finale e gli promise la restituzione di Modena e Reggio, ma morì prima di farlo. Mentre si radunava di nuovo il conclave, la situazione italiana non migliorava e quella europea nemmeno. La guerra tra Francia e Impero, quest’ultimo ormai un tutt’uno colla Spagna, continuava in Italia e fuori. Francesco I era giunto ad allearsi ai Turchi contro Carlo V – e si disse che tale notizia avesse scosso tanto Adriano VI da portarlo alla tomba il 14 settembre 1523 – e Rodi era caduta nelle loro mani, non soccorsa da nessuna Potenza cristiana perché erano tutte prese a combattersi far di loro. La Riforma protestante impazzava in Germania, allargandosi sempre di più; e in Italia era evidente che tutti, ad eccezione della sola Venezia, erano più costretti che incoraggiati ad aderire alla Spagna. Sperando in una loro sollevazione a proprio favore, la Francia tentò nel 1524 di ricomparire in Italia, mandandovi un esercito di 18.000 uomini d’arme e 31.000 fanti, comandato da Baiard e Bonnivet. Ma Giovanni delle Bande Nere costrinse Baiard alla ritirata, sconfiggendolo a Robecco e battendo poi i 5.000 svizzeri in arrivo nel Bergamasco per unirsi ai Francesi. Prese poi Caravaggio e interdì ai nemici la linea del Ticino. Intanto il Connestabile di Borbone, al servizio di Carlo V, aveva affrontato Bonnivet e Baiard a Romagnano Sesia il 20 aprile. Vinto, l’esercito di Francesco I fu inseguito oltre le Alpi e fino a Marsiglia dagli Spagnoli, poi, il 26 ottobre 1524, fu il Re in persona a tornare nella Pianura Padana alla testa di circa 30.000 uomini. 56
Difesa da 6.000 spagnoli ed assediata da 20.000 francesi, Milano resisté dall’ottobre 1524 al gennaio 1525, quando apparvero 12.000 lanzichenecchi guidati dal Connestabile di Borbone, in rinforzo ai contingenti imperiali e napoletani. Vi furono parecchi scontri d’assaggio. Alla Bicocca gli Svizzeri vennero sconfitti e ripiegarono protetti dalla cavalleria leggera delle Bande Nere, poi 8.000 di loro disertarono il campo francese e, finalmente, Francesco Ferdinando d’Avalos, marchese di Pescara, uscì dal suo campo ordinandosi in battaglia. Il 24 febbraio 1525 i Francesi accettarono lo scontro a Pavia; ma nel giro d’un’ora la battaglia era finita, 700 imperiali e 8.000 francesi giacevano morti sul terreno 19 e Francesco I, come avrebbe scritto alla propria moglie l’indomani, aveva perso tutto fuorché “l'onore, e la salute che è molto buona.”XXIX. Ora finalmente gli Stati italiani cominciarono a rendersi conto di cosa s’erano trascinati in casa. Davanti all’irreparabile sconfitta dei Francesi, davanti all’Impero su cui non tramontava mai il sole, esteso dalle Americhe al confine della Polonia, i signori italiani capirono che rischiavano davvero di perdere tutto. I generali e i dignitari di Carlo V volevano l'Italia ridotta a terra di conquista. A loro si opponeva il Gran Cancelliere, ostinato nel suggerire la via degli accordi fra Carlo e i piccoli sovrani della penisola per evitare che la Francia potesse ancora trovare nel malcontento italiano un terreno fertile per la propria politica estera. E la Francia si mosse come mai prima. Taglieggiati dalle truppe spagnole e minacciati dalla preponderanza asburgica, gli Stati italiani tentarono di ricollegarsi per limitare i danni; e cominciarono i contatti diplomatici fra Venezia, Roma, Milano, Lucca, Siena e Genova. Era anche cambiato il Papa. Clemente VII, altro Medici, eletto il 19 novembre 1523, era più energico e deciso ad alleare il maggior numero possibile di Stati italiani alla Francia per eliminare la Spagna dalla penisola. Le trattative vennero condotte con la regina madre reggente, alla quale premeva soprattutto liberare Francesco I dalla prigionia, e stabilirono che la Francia avrebbe dato un contributo per la guerra e rinunciato ad ogni dominio in Italia in cambio di eterna amicizia ed alleanza. Tutto sembrava a posto, quando fu commesso un grave errore dal ministro milanese Girolamo Morone il quale, convinto che il marchese di Pescara, generale spagnolo ma italiano da un generazione, potesse staccarsi dalla Spagna in cambio di vantaggi personali, gli illustrò il piano. Il marchese ascoltò attentamente e svelò tutto all’Imperatore, suggerendogli di accordarsi colla Francia in modo d’aver mano libera per sottomettere completamente l’Italia, tesi a cui si oppose Mercurino di Gattinara, ribadendo che
Fra i morti, ma dopo la battaglia, ci fu il maresciallo de la Palisse e diede involontariamente origine al termine “lapalissiano”. Andò così. La Palisse, catturato da un capitano italiano, fu ucciso da un capitano spagnolo che ne pretendeva il riscatto. Recuperata la salma, i suoi soldati, secondo l’uso del tempo, composero in suo onore una canzone che diceva fra l’altro “Hélas! La Palice est mort/ Il est mort devant Pavie/ Hélas! S'il n'était pas mort/ Il ferait encore envie” cioè “Ahimé! La Palice è morto/ è morto davanti a Pavia/ Ahimé. se non fosse morto/ farebbe ancora invidia.” La vedova, Marie de Melun, adoperò quei versi come epitaffio e fece scrivere sulla tomba in Francia: “Ci-gît Monsieur de La Palice. Si il n'était pas mort, il ferait encore envie” – qui giace il signor de la Palice. Se egli non fosse morto, farebbe ancora invidia”. Poiché però la S e la F fino a tutto il Settecento venivano spesso incise – e stampate – nello stesso modo, la parola ferait – farebbe – poteva essere lette e fu letta come “serait” – sarebbe e “envie” invidia – fu divisa in due, divenendo “en vie”, che vuol dire tanto “in vita” quanto “in via”. La seconda dicitura non aveva molto senso, ma la prima, unita al cambio d’inziale in “ferait”, fece suonare l’epitaffio “Ci-gît Monsieur de La Palice. Si il n'était pas mort, il serait encore en vie”cioè “qui giace il signor de la Palice. Se egli non fosse morto, sarebbe ancora in vita” che di senso ne aveva forse un po’ di più ma era d’un’ovvietà totale e lentamente si diffuse. Poco meno di due secoli dopo, l’avvocato borgognone Bernard de la Monnoye, membro del Parlamento – cioè del Foro – di Digione e dell’accademia cittadina, in fama di buon letterato, scrisse fra le altre cose la Chanson de la Palisse che, riprendendo volutamente l’errore di lettura e sviluppandolo in un gran numero di ovvietà – una per ciascuna delle 52 strofe! – diceva alla quarantottesima, ricalcando l’epitaffio: “Monsieur d'La Palisse est mort/ Il est mort devant Pavie/ Un quart d'heure avant sa mort/ Il était encore en vie.” “Il signor de la Palisse è morto/ è morto davanti Pavia/ un quarto d’ora avanti la sua morte/ Egli era ancora in vita.” Questa canzoncina ebbe fortuna e da allora le verità evidenti quanto ovvie e banali furono defintivamente consacrate come “Lapalissiane.” 19
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bisognava invece eliminare gli eccessi delle truppe spagnole in Italia, aumentati dopo la scoperta della congiura, ed accordarsi coi sovrani italiani. Il 14 gennaio 1526 fu conclusa la pace di Madrid tra Francia e Spagna, in seguito alla quale fu liberato Francesco I; e la fiducia degli Italiani nella Francia scese a zero. Mercurino di Gattinara cercò di opporsi alla politica imperiale, sostenendo che si correva un rischio terribile e non ci si poteva fidare della Casa di Valois: liberare Francesco I equivaleva a doversi nuovamente armare per una guerra contro la Francia, alla quale gli Italiani si sarebbero prontamente riavvicinati. E infatti Guicciardini, al servizio della Corte Pontificia, rivestì un ruolo primario nell'attività diplomatica originata dalla nuova situazione internazionale. Questa era però resa assai complicata dalla scarsa fiducia nutrita ora dagli Italiani nella Francia, ragion per cui il doppio gioco risultò la prassi abituale in tutte le corti, rendendo impossibile capire cosa stesse succedendo, in un caleidoscopio di accordi, controaccordi, assicurazioni e reciproche garanzie, segrete o esplicite, che s’intersecavano nei modi più strani e complessi. IV) La guerra della Lega di Cognac, o “della seconda Lega Santa” del 1526 – 1529 Gattinara, ligio servitore dell’Imperatore, vedeva tutto questo con preoccupazione e, del resto, non era nulla di diverso da quanto aveva previsto. Carlo V, non sapendo come comportarsi e temendo di dover affrontare una nuova coalizione franco-italiana, gli prestò nuovamente ascolto, sentendosi dire che l’unica soluzione possibile consisteva nel riavvicinarsi al Papa, garantendogli appoggio assoluto e incondizionato, come anche al Duca di Milano e ad altri principi italiani. Ma era troppo tardi, perché il 22 maggio 1526 venne conclusa la Lega di Cognac tra Francia, Venezia, Firenze, Milano ed il Papa, consideratone il capo: 20.000 fanti ed altrettanti cavalieri l’avrebbero sostenuta. Ad essa poteva accedere anche Carlo V, il che significava lasciargli ancora una possibilità di trattativa. Ma se si fosse giunti alla guerra, la Francia avrebbe riavuto la contea d’Asti e il protettorato su Genova; e Napoli sarebbe stata consegnata al Papa. Ottenuta l’adesione dell’Inghilterra, il conflitto incominciò. Il piano prevedeva l’unione delle truppe venete e pontificie sul territorio milanese per far massa contro gli Imperiali; e l’inizio fu buono. Clemente VII aveva mandato a Piacenza il conte Rangone con 5.000 fanti e una buona cavalleria, sostenuti dalle Bande Nere e dai Fiorentini condotti da Vitelli. Lodi venne occupata da Malatesta Baglioni con 3.000 veneziani. Milano insorse contro gli Asburgo. Le truppe pontificie si unirono a quelle della Serenissima per marciare su Milano, dove i soldati tedeschi di Carlo V, prontamente accorsi, assediavano il Duca, chiuso nel castello. Ma il primo assalto delle truppe di soccorso, comandate dal duca d’Urbino, fallì. Si ritirarono a Melegnano senza ritentare; e la guarnigione del castello capitolò per fame. Né c’è da stupirsi troppo della lentezza delle operazioni, quando si pensi alla scarsa fiducia nutrita da ogni alleato nei confronti degli altri, sopratutto perché nessuno voleva rinunciare alle proprie mire di piccole acquisizioni territoriali. Venezia continuava a puntare alla Romagna pontificia, facendo temere a tutti gli altri che sarebbe uscita dalla guerra tanto forte da divenire la padrona indiscussa d’Italia. E qui venne commesso l’errore di valutazione definitivo, che chiuse la lunga serie compiuta da tutti negli ultimi trent’anni. Si ritenne l’eventuale signoria veneziana più pericolosa per l’Italia di quella francese o spagnola, perché, come disse il Papa, sbagliandosi in pieno, i secondi erano “uccelli che volano per l’Italia e non possono posarvi il piede stabilmente”XXX mentre i primi “stanno in Italia e intendono bene il modo di governare.”XXXI Non c’è quindi da stupirsi che con tali premesse nessun’altra impresa riuscisse. Fallì la conquista di Siena tentata dalle truppe fiorentine e pontificie, le quali ultime furono battute a Camollia. Fallì il blocco della costa ligure con una flotta franco-veneto-pontificia per tagliare la via dei rinforzi spagnoli destinati alla Pianura Padana. Armero, comandante dei 13 legni veneziani, ed Andrea Doria, comandante delle otto
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galere sotto bandiera papale, 20 s'impadronirono della Spezia e Portofino, mentre Navarro, con 24 navi francesi doveva prendere, e prese, Savona; ma Genova era stata rinforzata da 1.500 spagnoli e veniva vettovagliata da terra. Così tutto quel che si poté fare fu parare con 2.300 uomini l’attacco contro Portofino dei 6.000 usciti da Genova e sconfiggere colle navi francesi e papali nel Golfo la squadra imperiale di 22 legni. Fallì, infine, l’intercettazione e distruzione dei lanzichenecchi guidati da Georg von Frundsberg in Lombardia nel novembre 1526, ancora disorganizzati, non pagati e privi d’artiglierie. Qui occorre una parentesi. Per proteggersi dagli Spagnoli presenti nel Regno di Napoli, Clemente VII aveva conservato una buona parte delle sue truppe a Roma e alla fine della primavera del 1526 , per tener fede all’alleanza, aveva anche rifiutato alcune proposte di pace separata molto convenienti fattegli pervenire da Carlo V tramite don Ugo de Moncada, reggente di Napoli in assenza del viceré. Moncada allora aveva aggirato l’ostacolo ed aveva proposto una specie di pace separata fra la Santa Sede e il solo Regno di Napoli, sotto la garanzia di Vespasiano Colonna, di cui Clemente si fidava ciecamente. Il Papa aveva accettato, e ne era venuto l’accordo del 22 agosto 1526, in base al quale Clemente aveva licenziato quasi tutte le sue truppe. Un mese dopo, nella notte dal 19 al 20 settembre, Vespasiano ed Ascanio Colonna, insieme a Moncada, alla testa di 3.000 fanti e 800 cavalieri venendo dalla via Appia si erano impossessati di tre porte di Roma e, guidati dal cardinal Colonna, si erano diretti in Vaticano. Clemente, indifeso, era stato fatto riparare in Castel Sant’Angelo, mentre i Colonnesi e gli Spagnoli saccheggiavano il Vaticano, la basilica e il rione di Borgo. Poiché il castello non aveva viveri, Moncada aveva imposto una tregua condizionata al richiamo delle truppe papali dall’esercito alleato di Lombardia. Clemente aveva dovuto accettare e, benché fosse riuscito a lasciarle 4.000 dei suoi uomini al comando di Giovanni delle Bande Nere affermando che erano pagati dal Re di Francia, l’armata della Lega ne era rimasta indebolita e aveva perso l’iniziativa Le truppe imperiali, comandate ora dal connestabile Carlo di Borbone e forti di circa 30.000 uomini, avevano avuto quindi il tempo di riorganizzarsi, forzare il passaggio del Po – dove il 24 novembre 1526, a Borgoforte, venne mortalmente ferito Giovanni delle Bande Nere – e calare su Roma. Nel frattempo, partiti i colonnesi e Ugo de Moncada, Clemente VII aveva riarruolato truppe in tutta fretta, ne aveva dato il comando a Renzo da Ceri e le aveva lanciate contro i Colonna nel Lazio meridionale. Tornarono gli Spagnoli. Moncada marciò su Frosinone e l’assediò. Renzo da Ceri gli venne addosso e lo fece ritirare, poi piegò verso l’Abruzzo, prese Tagliacozzo, si avvicinò a Sora e la sua presenza incoraggiò gli Aquilani a insorgere contro la Spagna. Contemporaneamente, al principio di marzo, la flotta pontificia, sostenuta da una squadra veneta, apparve al largo della coste campane con a bordo il duca di Vaudémont, pretendente alla corona di Napoli per via del suo retaggio angioino. Castellamare di Stabia, Torre del Greco e Sorrento furono prese e saccheggiate, poi la flotta navigò verso Salerno e la conquistò quasi senza sforzi, saccheggiandola come le altre città. A tutte queste operazioni facevano da contraltare delle serrate continue trattative cogli emissari di Carlo V, però Clemente, specie perché non intendeva perdonare ai Colonna, non si sapeva risolvere né alla pace separata, né a una tregua. L’unica volte che ci andò vicino, ci ripensò appena seppe del successo di Renzo da Ceri davanti a Frosinone. A metà marzo, trovandosi colle casse vuote, Clemente si decise e il 25 marzo 1527 raggiunse un accordo col vallone Carlo di Lannois, principe di Sulmona e viceré di Napoli per Carlo V, stabilendo una tregua di otto mesi e la restituzione ai Colonna di tutti i loro feudi. Dopodiché, ritenendosi al sicuro, licenziò quante più truppe poté per ridurre le spese; e fu la sua rovina.
20 La squadra pontificia constava delle quattro galere di Andrea Doria, delle due di suo cugino Antonio Doria e d’un’ultima
coppia di galere papali, compresi 3.000 uomini imbarcati. Tutto era al comando d’Andrea, che percepiva 35.000 scudi all’anno per il mantenimento dell’intera squadra.
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V) Il sacco di Roma Il Connestabile di Borbone in Lombardia aveva unito ai suoi gli uomini di Frundsberg arrivando a circa 11.000 combattenti, abbastanza male in arnese, affamati e non pagati. Non sapeva come trovar denaro, aveva paura di loro e quella che seguì fu una delle più accidentali concatenazioni di cause ed effetti, tutti casuali, mai capitata nella storia d’Italia e fu dovuta ad una totale mancanza di organizzazione, pianificazione e coordinamento da entrambe le parti. Come ho detto, Carlo di Borbone non aveva né soldi né viveri e in sostanza, almeno questa è la versione ufficiale, andò sempre più avanti perché cercava il modo di far sopravvivere i suoi, temendo per la propria vita se non ci fosse riuscito. Non obbedì a nessuno, nemmeno al viceré di Napoli quando questi gli intimò di ritirarsi dagli Stati della Chiesa, perché non poteva farlo senza causare un ammutinamento generale, come aveva già rischiato solo comunicando quell’ordine ai suoi capitani. L’avrebbe potuto fermare il duca d’Urbino, ma non lo fece perché, essendo ora al servizio veneto, era stato richiamato dalla Repubblica a difendere la Terraferma proprio contro un’eventuale entrata degli uomini del Connestabile. Le truppe imperiali dunque marciarono a zig zag in Emilia, attraendo disertori e smobilitati da tutte le parti e dirigendosi dove pensavano di trovare viveri e saccheggio. Non immaginando che sarebbe successo, man mano che gli Imperiali si muovevano, i Pontifici si concentravano a protezione dell’obbiettivo più immediatamente in pericolo e infine si piazzarono intorno a Bologna. Erano tanti, costituivano un ostacolo serio, perciò gli Imperiali li evitarono, varcarono l’Appennino e passarono in Toscana. Chi era rimasto dietro di loro tirò un sospiro di sollievo, chi li vedeva arrivare era ansiosissimo di sbarazzarsene col minor danno possibile. L’avanzata disordinata e costellata di saccheggi, attraeva sempre più sbandati e gentaglia, incrementando il numero della masnada di disperati che il Connestabile più o meno guidava. Per questo i collegati si raggrupparono a protezione di Firenze, ma non si sentirono abbastanza forti da rischiare uno scontro per fermare gli Imperiali e assisterono colle armi al piede al saccheggio del contado fiorentino, ritenendolo un male minore rispetto a quello di Firenze. I Senesi, terrorizzati, si chiusero nelle mura e diedero viveri e denaro a quella torma di disperati criminali, che intanto, raccogliendo schiuma da tutte le parti, pare fossero ascesi a 30.000. Alla testa di questa gente, Carlo di Borbone, avendo capito di non poter entrare nella troppo ben difesa Firenze e considerando Siena altrettanto difficile da prendere, il 26 aprile avanzò verso Roma. Gli obiettivi erano due, uno politico e uno molto più banale. Quello banale era la ricerca di viveri e bottino; quello politico era più complesso, partiva caso mai da Carlo V e riguardava l’Inghilterra e le trattative col Papa. Queste ultime, come sappiamo, andavano avanti da tempo, ma senza risultato, per la ritrosia del Papa ad abbandonare la Lega da lui stesso organizzata. Carlo V non aveva desistito dai negoziati. Per lui una pace separata con Clemente VII sarebbe stata utilissima, forse risolutiva e metterlo colle spalle al muro, minacciandolo nella stessa Roma poteva essere una soluzione, ammesso e non concesso che i 30.000 disperati del Connestabile fossero ancora controllabili, cosa sempre meno certa man mano che passava il tempo. La questione inglese era più sfumata, meno immediata, ma tutt’altro che di poco conto. Enrico VIII d’Inghilterra nel 1509 aveva sposato Caterina d’Aragona, vedova di suo fratello. Per questo, essendo fra cognati, il matrimonio era stato celebrato con una dispensa speciale chiesta a papa Giulio II e adesso, volendolo far sciogliere perché non aveva avuto figli maschi, Enrico sosteneva che la dispensa da lui chiesta in passato non fosse stata valida per vizio di sostanza e che perciò il matrimonio fosse nullo. Per questo motivo nel 1527 aveva deciso di chiedere a Clemente VII d’annullare il matrimonio e nel frattempo aveva iniziato a tentare di convincere Caterina a ritirarsi in convento, andando incontro ad una serie di rifiuti da parte di lei e di pareri negativi da parte dei propri consiglieri ecclesiastici. La base legale dei dinieghi era che, secondo il diritto canonico, non si poteva procedere ad un annullamento a causa d’un 60
ostacolo canonico che in precedenza fosse stato tolto, perché il levarlo aveva reso il matrimonio valido a tutti gli effetti. Un tribunale di rota pragmatico e molto flessibile avrebbe forse potuto trovare una via d’uscita, ma, al di là del problema canonico, ne esisteva un altro politico che precludeva qualsiasi scioglimento. Caterina era zia di Carlo V d’Asburgo, sorella di sua madre Giovanna, e Carlo, appena eletto imperatore, non poteva permettersi né voleva tollerare che sua zia fosse ripudiata; né il Papa poteva permettersi di guastarsi con lui, sia per via della situazione in Germania, sia per l’appoggio imperiale appena concesso alla sua famiglia, sia, infine, perché non era una buona cosa alienarsi un sovrano cattolico in un periodo in cui le teste coronate facevano a gara per darsi alla Riforma usando le scuse più inverosimili, benché quest’ultima ragione valesse pure nei confronti della richiesta del Re d’Inghilterra. . Non c’è prova che il Sacco di Roma sia stato perpetrato come intimidazione nei confronti di papa Clemente, ma è certo che servì a perfezione a condizionare tanto l’assenso alla pace separata fra Impero e Santa Sede quanto il rifiuto all’annullamento del matrimonio d’Enrico e Caterina, dato all’arcivescovo Knight, appositamente mandato a Roma da Londra e giunto nel dicembre 1527, cioè mentre Clemente era ancora di fatto prigioniero di Carlo V, proprio in conseguenza del Sacco di Roma. In questo contesto del quale non si sa quanto fosse conscio, trovandosi aperta la strada da cui tutti si scansavano per evitare danni, il Connestabile di Borbone scese lungo la Cassia, entrò negli Stati Pontifici e cominciarono i disastri. I suoi uomini prima devastarono Acquapendente, subito oltre il confine, poi San Lorenzo alle Grotte, in seguito occuparono Viterbo, dove, vista la mala parata, la città aveva preparato per loro viveri in abbondanza per salvarsi dal saccheggio; infine devastarono Ronciglione, arrivando, il 5 maggio 1527, davanti a Roma. La città era stata colta di sorpresa. In conseguenza della tregua stipulata con Moncada, le milizie pontificie non erano sufficienti a presidiare tutta l’estensione delle mura cittadine, neanche raccogliendo ogni uomo disponibile. Renzo da Ceri era riuscito a precedere gli Imperiali con un contingente di circa 5.000 uomini. Una volta in città aveva dato un’arma ad ogni uomo valido, raggiungendo, si disse, una forza di 10.000 fanti e 500 cavalieri, ma, a parte la mancanza d’addestramento – aveva armato pure i servi e gli stallieri di nobili e cardinali – era comunque inferiore al nemico per 1 a 3 e aveva l’ulteriore svantaggio della mancanza d’iniziativa, perché non sapeva da che parte il Connestabile avrebbe attaccato. Per colmo di sventura, corse voce che 10.000 colonnesi, fra milizie e contadini avidi di bottino, si fossero ammassati fuori dell’Urbe. In quelle condizioni era esclusa un’uscita per tentare uno scontro in campo aperto; l’unica soluzione consisteva nel chiudersi entro le mura e questo Renzo fece. Il 6 maggio 1527 40.000 uomini21 iniziarono l’assalto alle mura del Borgo, la parte triangolare della città sulla destra del Tevere comprendente il Vaticano e Castel Sant’Angelo. Si concentrarono sulla valletta a sud, fra il colle del Gianicolo, alla loro destra, dominante la città e, a sinistra, il Vaticano, investendo la parte di mura da Porta Cavalleggeri al Tevere, dietro la quale erano alcuni palazzi nobiliari e l’Ospedale di Santo Spirito. Carlo di Borbone, fu tra i primi ad attaccare, ma, mentre saliva su una scala, fu colpito a morte da un’archibugiata che, nelle sue memorie, Benvenuto Cellini dichiarò d’aver tirato. 22 21 Di essi solo 14.000 erano lanzichenecchi luterani tedeschi, 6.000 erano spagnoli – che pare abbiano battuto tutti in ferocia e
avidità – e i restanti 20.000 erano francesi e italiani, fra i quali anche parecchi mercenari pontifici appena smobilitati. 22 In realtà Cellini non fu così esplicito, scrisse infatti d’essere stato portato alle mura da due amici, i quali, visto il combattimento, spaventati vollero andar via, al che lui si oppose dicendo: “Da poi che voi mi avete menato qui, gli è forza fare qualche atto da uomo”. E volto il mio archibuso dove io vedevo un gruppo di battaglia più folta e più serrata, posi la mira in nel mezzo appunto a uno che io vedevo sollevato dagli altri; per la qual cosa la nebbia non mi lasciava discernere se questo era a cavallo o a piè. Voltomi subito a Lessandro, e a Cecchino, dissi loro che sparassimo i loro archibugi, e insegnai loro il modo acciocché e’ non toccassino una archibusata da quei di fuora. Così fatto dua volte per uno, io mi affacciai alle mura destramente e veduto in fra di loro un tumulto straordinario, fu che da questi nostri colpi si ammazzò Borbone e fu quel primo che io vedevo rilevato dagli altri per quanto poi si intese. ”, cfr. CELLINI, Benvenuto, La vita di Benvenuto di M.° Giovanni Cellini fiorentino scritta per lui medesimo in Firenze, Roma, Cremonesi, s.d., pag. 78.
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Gli Imperiali trovarono nelle mura una finestra malamente nascosta che dava nella cantina del Palazzo Armellini, costruito a ridosso delle mura stesse. Da là sboccarono nel Palazzo Della Rovere e sfociarono nell’adiacente piazza Scossacavalli, a quattrocento metri dalla basilica di San Pietro. Mentre la Guardia Svizzera pontificia si faceva massacrare per proteggergli la fuga e impedire ai lanzi l’accesso alla basilica, Clemente fu fatto scappare attraverso il Passetto di Borgo, il cammino protetto e sopraelevato dal Vaticano a Castel Sant’Angelo. Insinuandosi fra le mura del Castello e il Tevere, verso mezzogiorno gli Imperiali arrivarono all’imboccatura del ponte Sant’Angelo e si buttarono sulla città. Il loro numero sopraffece le poche milizie di Renzo da Ceri e cominciarono i massacri, i saccheggi e gli stupri. Non si salvò una chiesa dal saccheggio, né un uomo dalle torture, né una donna dallo stupro, laica o religiosa. Furono devastati tutti i palazzi dei prelati e dei nobili, tranne quelli di parte imperiale. Benvenuto Cellini scrisse nelle sue memorie che le strade erano disseminate di cadaveri e percorse da bande di soldati ubriachi che si trascinavano dietro donne di ogni genere e roba saccheggiata. Intanto erano arrivati dei soccorsi, ma troppo tardi. Il conte Guido Rangoni, comandante un contingente di truppe pontificie non molto grande, si era spinto fino al ponte Salario con un’aliquota di cavalleria e archibugieri, ma, vista la situazione e la sua marcata inferiorità numerica, decise di ritirarsi per la via Flaminia verso l’Umbria, a Otricoli, per attendere il grosso in arrivo sotto il comando del duca d’Urbino. L’8 maggio entrarono a Roma i militi e i contadini dei feudi colonnesi, i quali si diedero al saccheggio anche loro. Il 10 arrivarono ufficialmente il cardinal Pompeo Colonna e don Ugo de Moncada, la cui autorità mise fine agli eccessi più atroci e ristabilì una parvenza, ma solo una parvenza, di disciplina. L’11 il principe d’Orange, eletto dai soldati al posto del morto Connestabile, ordinò la fine del saccheggio; ma non fu ubbidito e Roma continuò ad essere devastata finché vi rimase qualcosa da prendere, mentre le armi dei collegati restavano inerti a gran distanza dall’Urbe, incerte sul da farsi. Giunti ad Orvieto Francesco Maria della Rovere e il marchese di Saluzzo colle truppe della Lega, il conte Rangone ve li raggiunse e il 16 maggio partecipò al consiglio di guerra. Fece di tutto per convincere i collegati a marciare su Roma e distruggervi gli Imperiali, cogliendoli nel maggior disordine tanto erano presi dai saccheggi. Lo sostennero Federico Bozzolo, il marchese di Saluzzo e lo stesso legato veneto Luigi Pisani. ma il duca d’Urbino non volle saperne. A parole si diceva d’accordo, però sfoderava tante obiezioni e difficoltà da impedire qualsiasi iniziativa ed era appoggiato dal delegato fiorentino, secondo il quale non si poteva allontanare troppo l’esercito da Firenze senza causare una reazione dei Fiorentini contro i Medici. Benché quasi nessuno ne faccia cenno, viene da domandarsi quanto l’atteggiamento del duca d’Urbino risentisse delle prepotenze medicee che dieci anni prima gli erano costate il ducato, per il cui recupero aveva sudato sangue e speso una fortuna. E’ difficile pensare che gli dispiacesse davvero vedere i Medici suoi antichi nemici travolti come stava succedendo. Nel frattempo le truppe della Lega misero gli avamposti a Monterosi, sulla Cassia, a circa quaranta chilometri da Roma, e restarono ferme in attesa degli eventi. 23 Le obiezioni del delegato fiorentino non erano infondate, perché lo stesso 16 maggio Firenze insorse e cacciò Alessandro e Ippolito de’Medici, con tutte le autorità che governavano la città in nome del Papa e dei Medici. Contemporaneamente si ebbe un rovesciamento delle forze. L’esercito della Lega, privo di vettovaglie e in difficoltà a trovarne per la carestia di quell’anno, si indebolì a causa delle diserzioni. Quello imperiale invece, che a Roma aveva preso migliaia di cavalli, viveri, denaro ed armi in gran quantità, si era riequipaggiato da cima a fondo ed era più forte di prima. Questo aveva reso più facile al principe d’Orange riprenderne il controllo, perciò aveva concentrato le sue milizie in Borgo ed intrapreso il regolare assedio di Castel Sant’Angelo. Lo sapeva a corto di viveri e contava su una resa in tempi brevi. Ebbe ragione: il 6 giugno le ormai indebolite truppe della Lega, resesi conto di non poter più affrontare l’armata imperiale, si ritirarono verso Firenze. Lo stesso giorno Clemente VII capitolò e promise di 23 Le distanze da Roma si misurano dal Campidoglio.
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versare al principe d’Orange 400.000 ducati: 100.000 subito, 50.000 entro venti giorni e il resto entro due mesi, impegnandosi a consegnare pure Parma, Piacenza e Modena e a sostituire la sua guardia svizzera con una di lanzi tedeschi;24 poi, il 27 dicembre, dopo sei mesi sotto custodia da parte imperiale si poté ritirare a Orvieto. Carlo V gli mandò un’ambasciata per scusarsi del sacco di Roma. Clemente, riconoscendolo non responsabile, lo perdonò e, in seguito, alla fine del 1529, giunse con lui alla Pace di Barcellona, in base a cui si impegnava a incoronarlo imperatore, ottenendone in cambio la promessa della restaurazione dei Medici a Firenze. Mentre Clemente era ancora assediato in Castel Sant’Angelo, la Lega si era sfasciata. Parma e Piacenza si erano dichiarate libere dal vassallaggio alla Santa Sede. Sigismondo Malatesta aveva ripreso Rimini; i Bentivoglio Bologna, il duca Alfonso d’Este Reggio e Modena; Venezia Cervia e Ravenna. Firenze si era dichiarata nuovamente repubblica e Andrea Doria, davanti alle conseguenze del mancato impegno francese, cominciò a valutare l’opportunità di passare definitivamente nel campo spagnolo. Insomma. al momento della crisi ognuno pensò solo al suo immediato tornaconto e non a quali risultati potevano aversi in futuro. Né la Francia si comportò meglio, infatti aveva progettato d’invadere il Regno di Napoli, rinunciando solo per la superiorità militare spagnola.. Comunque Francesco I, molto lentamente perché aveva fatto anche lui il doppio gioco fra Italia e Spagna, scese in campo. Al suo fianco si schierarono Inghilterra, Firenze, Milano, Venezia e Alfonso d’Este in un conflitto che alla fine volse al peggio per la Francia, la quale, nel 1529 arrivò con la Spagna alla pace generale, detta “Delle Due Dame”. Gli Italiani rimasero soli ancora una volta, l’ultima: Veneziani, Fiorentini e Alfonso d’Este restarono a fronteggiare le forze e l’ira dell’Imperatore. Ma Carlo V venne in Italia in agosto, dichiarando di voler la pace per mettere la penisola in grado di resistere meglio alla pressione mussulmana. Convocò un congresso a Bologna e ad esso parteciparono Venezia, il Papa, i marchesi di Mantova e del Monferrato, il duca di Savoia e le Repubbliche di Siena, Lucca e Genova. Sola assente Firenze, non disposta a venire a patti a nessun costo, né col Papa, cioè coi Medici, né coll'Imperatore che li sosteneva. Il risultato del congresso fu il definitivo asservimento dell’Italia alla Spagna. L’Imperatore trattò benissimo il duca di Savoia perché voleva adoperarlo come primo sbarramento militare contro la Francia. Perdonò il duca di Milano, fece restituire da Venezia al Papa le città romagnole e si fece incoronare prima re d’Italia colla corona ferrea e poi imperatore con quella imperiale il 22 febbraio. Poiché Firenze continuava a non voler patteggiare e in base alla pace di Barcellona Carlo V si era impegnato a raggiungere una soluzione favorevole ai Medici, dal novembre 1529 inviò le sue truppe, comandate dal Principe d’Orange, a sottomettere la città, le cui difese erano state preparate su progetto e sotto la direzione di Michelangelo. La Repubblica resisté quanto e come poté ma alla fine dové cedere e si vide trasformata in ducato, dato da Carlo V ad Alessandro de’Medici, da alcuni ritenuto figlio naturale di Clemente VII e, alla di lui morte, al cugino Cosimo, il figlio di Giovanni delle Bande Nere.
24 La Guardia Svizzera considera il 22 gennaio 1506, giorno dell’entrata a Roma della compagnia capitanata da Kaspar von
Silenen, come la data di fondazione del Corpo. Questo è parzialmente vero, poiché, come ho scritto, fra le condizioni di tregua vi fu quella di sostituirla con una compagnia di Lanzichenecchi tedeschi. Il Papa ottenne almeno la possibilità dell’ammissione nella nuova guardia di tutti gli Svizzeri sopravvissuti, visto che 42 dei 189 effettivi l’avevano scortato attraverso il Passetto fino in Castello, ma solo dodici accettarono. Senza entrare in troppi particolari, occorsero 19 anni perché Paolo III Farnese licenziasse la sua guardia tedesca e richiamasse gli Svizzeri, per cui, se idealmente l’anzianità del Corpo risale al 1505, in realtà la continuità andrebbe dal 1505 al 1529, poi dal 1548 fino all’annessione di Roma da parte di Napoleone nel 1808 e ancora dal 1814 in poi, per cui è più pratico fissarla al 1505 e basta.
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Capitolo VI Il Concilio di Trento, il Ducato di Parma e l’assestamento dell’Italia
I) L’avvento di Paolo III Farnese, la rivolta di Perugia del 1539 e la guerra contro i Colonna Clemente VII morì nel 1534, dopo aver visto l’Italia assoggettata agli Spagnoli, Firenze ai Medici ed Enrico VIII portare l’Inghilterra allo scisma. Con un Conclave di 24 ore, salì al soglio pontificio Paolo III Farnese, conosciuto come filo spagnolo o, quantomeno, come non amico della Francia, il quale si trovò davanti a diversi problemi, il più importante dei quali era la Riforma Protestante, seguita a ruota dalla minaccia mussulmana. Nella scia dei suoi predecessori, Paolo III decise di consolidare ulteriormente gli Stati Pontifici, migliorare la posizione della sua famiglia e, infine, provvedere alle questioni della Chiesa e della Fede. Partì dalla famiglia. La materia c’era e Paolo la sfruttò. Riunì i feudi ecclesiastici di Nepi, Castro e Ronciglione in un ducato e ne investì il proprio figlio Pierluigi. I Farnese erano ricchi proprietari e feudatari dal Medioevo e, appartenendo a una famiglia ricca, potente e filoimperiale, con grandi proprietà nella Tuscia, cioè, negli Stati Papali, nell’area compresa fra le città di Tuscania, Civita Castellana, Rieti, Terni e Orvieto e, essendo già cardinale, approfittò dei disordini seguiti al Sacco di Roma e con la forza piegò la città di Castro a riconoscersi feudalmente soggetta alla sua famiglia, nonostante appartenesse alla Santa Sede. Una volta eletto papa, ovviamente confermò in maniera ufficiale tale dipendenza, poi ottenne dalla Repubblica di Venezia e da Carlo V vari titoli per il figlio Pierluigi e lo nominò Gonfaloniere ereditario e Capitano Generale di Santa Romana Chiesa. Sembrandogli ancora poco, approfittò della morte di Francesco Maria della Rovere nel 1538 per levare il ducato di Camerino a Guidobaldo II della Rovere, marito dell’ultima dei Varano, avocarlo a sé e poi donarlo a suo nipote Ottavio Farnese, prevenendo qualsiasi lamentela da parte di Guidobaldo con 12.000 tra fanti e cavalieri appositamente arruolati. Vistosi negare l’aiuto chiesto a Venezia, il nuovo duca d’Urbino si astenne dal reagire; e i Farnese si tennero Camerino. D’altra parte in quel momento l’appoggio papale era importantissimo tanto per il Doge quanto per l’Imperatore a causa della pressione turca, alla quale si poteva far fronte solo colle risorse finanziarie messe a disposizione dalla Chiesa mediante la proclamazione della Bolla della Crociata.25 Naturalmente tutto questo era costato parecchio denaro, sia in termini di minori entrate dovute alla deviazione di rendite ecclesiastiche nelle casse dei Farnese, sia in donativi e arruolamenti e, per tornare in attivo, la Santa Sede non ebbe idea migliore d’un inasprimento delle tariffe, specialmente su quel bene di larghissimo consumo che era il sale. Molte città degli Stati Pontifici protestarono, Ravenna tumultuò, Perugia insorse. 26 Chiese aiuto prima a Carlo V e poi a Cosimo de’ Medici, dicendosi pronta a sottomettersi a chi l’avesse sostenuta, ma ne ebbe solo rifiuti. Allora assunse Ridolfo Baglioni, capitano al servizio toscano, della famiglia che fino a Giulio II aveva signoreggiato Perugia e grandissimo avversario di Paolo III, il quale assoldò 2.000 uomini, unendoli ad altrettanti popolani perugini. Il Pontefice radunò a Spoleto 8.000 fanti italiani e 800 tedeschi. Ad essi ne aggiunse altri 3.000 avuti dal viceré di Napoli e, posta tutta l’armata agli ordini di Pierluigi Farnese, ma in realtà di Alessandro Vitelli, la fece avanzare contro la città ribelle. 25 La Bolla della Crociata era la lettera papale – come si sa la parola “bolla”, viene da latino “bulla”, perché la lettera era
bollata con un bollo di piombo – con cui il sovrano era autorizzato a prelevare dalle decime ecclesiastiche una certa somma, variabile a seconda dei casi, dei luoghi e delle epoche, da impiegare esclusivamente per la lotta agli infedeli. 26 Perché così facendo il Papa violava l’articolo 30 del patto del 1424, secondo il quale la città sarebbe stata perpetuamente libera da ogni vincolo fiscale.
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La prima resistenza fu opposta al castello di Torgiano, difeso da Ascanio della Cornia per alcuni giorni, prima d’ottenere per capitolazione di poterne uscire con tutta la guarnigione, a bandiere spiegate e tamburo rullante. Dopo la caduta di Torgiano, Perugia non poteva reggere e lo sapeva. Cercò una composizione extramilitare: le fu negata. Ottenne la mediazione medicea: non fu ascoltata. Il Papa voleva darle una lezione memorabile e farne un esempio per tutti. Prima la contrada circostante fu devastata orribilmente. Poi a fine maggio la città venne assediata e si arrese a discrezione il 2 giugno. Il 5 Pierluigi Farnese vi entrò con 1.500 fanti e 800 cavalieri e decretò la decapitazione di sei dei principali gentiluomini cittadini a capo della rivolta, il bando per altri dieci, l’aumento del prezzo del sale e il pagamento dei danni di guerra alla Reverenda Camera Apostolica. Visto il buon esito e il minimo danno riportato dal suo esercito, Paolo III pensò di avvalersene ancora e lo rivolse contro alcuni dei suoi più ostinati e pericolosi feudatari: i Colonna. Continuavano ad essere partigiani della Spagna, il che già era un pericolo; i loro castelli erano a poca distanza da Roma ed era un altro pericolo. Erano i più potenti e prepotenti dei suoi feudatari e la loro sconfitta avrebbe automaticamente messo in riga gli altri; e questo era un buon motivo per assalirli. Detto fatto: nel 1540 l’esercito pontificio, tornò a Roma e ne uscì diretto ai castelli dei Colonna; prima tappa: Rocca di Papa. La prese d’assalto e marciò su Paliano, al confine col Regno di Napoli. Due mesi d’assedio gli permisero di conquistarla. Cadute anche Ciciliano e Roviano, i Colonna si ritirarono a Rocca Guglielma, nel territorio napoletano ed attesero tempi migliori.
II) La guerra contro i Turchi del 1537-39 Il motivo per cui, a differenza del passato, la Spagna e Venezia lasciavano fare il Papa, la prima contro i Colonna, la seconda contro i della Rovere era nella guerra in atto coi Turchi. Dal precedente anno 1537 il fulcro dell’attenzione in Mediterraneo era nel basso Adriatico. Nella rada albanese di Valona in quell’anno Solimano il Magnifico, d’accordo con Francesco I impegnato in Piemonte, aveva concentrato grandissime forze navali e terrestri. senza però far capire contro chi le volesse dirigere. A Venezia e Napoli si stava col fiato sospeso, consci del pericolo, quando la Serenissima ricevé la notizia che la flotta ottomana in transito nello stretto di Corfù aveva reso il saluto per prima alla fortezza veneziana che lo custodiva, venendone contraccambiata regolarmente e che Solimano aveva decretato ai suoi sudditi di non molestare né danneggiare in alcun modo i Veneziani. Il Senato pensò di potersi fidare e ordinò al capitano generale Pesaro di non infastidire i movimenti dei Turchi, i quali volevano occupare l’Italia Meridionale con 10.000 fanti e 1.500 cavalieri imbarcati su 320 navi di vario tonnellaggio. Guidati dal famoso Barbarossa, presero terra di fronte ad Otranto, a Castro, feudo di Mercurino Arborio di Gattinara. L’occuparono, lo saccheggiarono uccidendo tutti gli inabili alle fatiche della schiavitù e vi si fortificarono, adoperandolo come base operativa per le scorrerie di cavalleria che cominciarono a lanciare in tutto il territorio circostante. Il locale governatore, Scipione di Somma, aveva pochi uomini ma molto coraggio. Incurante della sua inferiorità numerica, mandò a chiedere rinforzi e uscì in campagna per contrastare i nemici, ritardandone l'avanzata fino all’arrivo di truppe da Melfi e da Napoli: 30.000 spagnoli e italiani messi in campo e condotti dal viceré, ai quali Paolo III dichiarò di voler aggiungere le proprie truppe. Sembrava inevitabile la guerra in Italia quando il caso, l’orgoglio veneto ed il pessimo carattere di Solimano la deviarono sul mare contro i Veneziani. Così le milizie ottomane si riconcentrarono a Castro, si reimbarcarono e si diressero verso le basi veneziane di Corfù e di Butrinto, che, presa di sorpresa, capitolò subito. La notizia della caduta di Butrinto precedé di pochissimo l’arrivo a Corfù dei 25.000 turchi di Barbarossa e Lufti Bey, ma quel pochissimo bastò al comandante veneziano per distruggere ogni cosa utile al nemico fuori della cittadella, farne uscire tutti gli inabili alle armi e preparare la difesa. 66
Il Senato ricevé la notizia e decretò subito l'armamento generale, cercando appoggi in tutte le corti cristiane, in particolare a Roma e presso l’Imperatore, domandando la costituzione d’un’armata imperiale, pontificia e veneta di 30.000 uomini, l’invio d’altri 20.000 dalla Germania e l’unione alle oltre 100 galere veneziane della squadra imperiale di 80 galere e di 50 altri legni agli ordini d’Andrea Doria. Il Papa approvò, mandò la propria squadra, sollecitò l’invio di quella dell’Ordine di Malta a Brindisi e si adoperò con Carlo V perché sostenesse la lotta a fianco dei Veneziani. La cattiva stagione e la presenza delle flotte indussero Solimano a ordinare la ritirata a Butrinto, facendo portare via 7.000 corfioti destinati alla schiavitù. Vibrò un ultimo fallimentare colpo ai possedimenti veneziani ordinando l’assalto a Napoli di Malvasia e Napoli di Romania, 27 ultime delle tante basi che la Serenissima aveva posseduto in Grecia fino a poco prima, poi comunicò ai Veneziani d’essere disposto alla pace purché gli venissero rifusi i danni, minacciando, in caso di rifiuto, d’assalire Candia e il Friuli. Il Senato vide discussioni accesissime pro o contro la pace e, alla fine, nel febbraio 1538, decise per la continuazione della guerra alleandosi alla Spagna ed al Pontefice. Duecento galere 28 e cento navi di vario tipo sarebbero state riunite sotto il comando d’Andrea Doria. 20.000 fanti italiani, altrettanti tedeschi e 10.000 spagnoli più 4.500 cavalieri avrebbero costituito le forze cristiane di terra agli ordini del duca d’Urbino Francesco Maria. Un sesto delle spese sarebbero state a carico della Reverenda Camera Apostolica, due a carico del Senato e i restanti tre dell’Imperatore. L’accessione all’alleanza sarebbe stata consentita ai re di Francia, d’Ungheria e di Polonia ed a tutti i principi italiani. Nel frattempo Barbarossa devastava l’arcipelago. Tentò uno sbarco a Suda nell’isola di Creta, cioè Candia, e fu respinto. Poi a Cassano e di nuovo contro Napoli dà Romania. In Dalmazia continuavano gli scontri terrestri, anche se di piccola entità, e tutti erano in attesa del primo vero urto fra i Cristiani e i Mussulmani. Era il mese di settembre e le galere pontificie, condotte dal patriarca d’Aquileja Marco Grimani, intanto erano entrate nel Golfo d’Arta, contiguo a quello di Prevesa. Barbarossa vi si stava dirigendo per assalirle; e la squadra ispano-veneta ne era al corrente. Si tenne consiglio di guerra. Scartata l’ipotesi di sbarcare a Prevesa e guarnirne d’artiglierie il promontorio per bloccare gli Ottomani, Capello, Grimani e Doria convennero di prendere il largo con tutta la flotta ed andare a cercare il nemico alla fonda nel Golfo di Lepanto per costringerlo al combattimento. Se avesse rifiutato si sarebbe presa Lepanto e saccheggiato il litorale fino all’Istmo di Corinto per indurre Barbarossa allo scontro. Partirono con 130 galere, due galeazze e 63 altre navi fra trasporti e ausiliarie e veleggiarono verso Arta, alla cui imboccatura si presentarono il 25 settembre. Gli esploratori mussulmani segnalarono il loro avvicinamento e Barbarossa, che aveva 94 galere e 66 legni minori, rimase un po’ in dubbio, poi, ricordato l’ordine del sultano di combattere, decise di avanzare. Dopo un primo scontro d’avanguardia svoltosi il 26 fra sei galere cristiane e altrettante mussulmane, il 27 si ebbe un combattimento fra il naviglio minore alleato e la flotta ottomana intorno all’isola della Sessola. Al tramonto, senza che si fosse svolta una vera battaglia, Doria decise per la ritirata; e Barbarossa, che aveva affondato qualche nave minore cristiana, rimase padrone della zona, catturando una galera veneta, una pontificia e cinque navi spagnole. Fioccarono su Andrea Doria le accuse più dure: non aveva sostenuto l’avanguardia veneta comandata da Capello, aveva ordinato la ritirata quando lo scontro era ancora da decidere, se non quasi vinto, e nei giorni successivi aveva rifiutato d’assalire i nemici ancoratisi a Paxos. Venezia e Roma lo guardavano con sospetto, non capacitandosi di come un tale ammiraglio avesse potuto non vincere. Anche per questi motivi nel seguente mese d'ottobre Doria portò tutta la flotta all’attacco di Castelnuovo, espugnandola il 27 e mettendoci di guarnigione i 4.000 veterani spagnoli del generale Sarmiento. nonostante tutte le
27 Poi rispettivamente denominate Malvasia e Nauplia. 28 Di cui 36 del Papa e 82 a testa di Venezia e dell’Impero.
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proteste dei Veneziani, i quali ricordavano come i patti prevedessero di restituire alla Repubblica le conquiste fatte in Grecia. Così finalmente si chiarivano i motivi della condotta dell'ammiraglio genovese: voleva mantenere ridotta la potenza veneziana a diretto vantaggio di quella spagnola e, indiretto, di Genova e suo personale. L’inverno trascorse senza grandi novità. Ma in marzo Barbarossa si presentò con 90 galere e 50.000 uomini sotto Castelnuovo e la mise sotto assedio. La flotta cristiana era ancora allo sciverno 29 in Sicilia e non poteva intervenire, né, a dire il vero, si mosse con molta fretta, visto che Castelnuovo resse fino al 7 agosto, quando fu presa d’assalto. Nel frattempo era caduta in mani mussulmane anche Risano e le squadre navali del Sultano si erano presentate davanti a Napoli di Romania e di Malvasia. Ancora l'azione di Doria fu inconcludente e fiacca; e il Senato veneziano capì di non essersi sbagliato a sospettare che ciò fosse fatto in conseguenza dell'interesse politico della Spagna, teso a diminuire la potenza veneziana, l’unica che le si opponesse veramente in Italia. Non c’era altra via d’uscita di quella della pace: e vennero mandati ambasciatori straordinari a Costantinopoli, accettando, alla fine di pagare i danni di guerra per una somma di 200.000 ducati, aumentabili in caso di estrema necessità fino a 300.000 e di cedere Nauplia e Malvasia. Nel corso del 1541 si riaccese la lotta franco-spagnola. Paolo III rimase spettatore, ma con la segreta speranza che una sconfitta spagnola consentisse alla Santa Sede di ritrovare spazio di manovra. Accadde a Ceresole d’Alba, il 14 aprile 1544. Dopo cinque ore di lotta l’armata imperiale si sfasciò. Aveva perso 12.000 morti, 3.000 prigionieri, 14 cannoni, un equipaggio da ponte e tutte le salmerie, contro soli 2.000 caduti del nemico e, insieme alla battaglia, anche la capacità di proseguire il conflitto. “Ora sia ringraziato Dio, che potrò dormire questo resto della notte”XXXII esclamò felice il Papa quando ricevé la notizia in Vaticano. La guerra continuò con alterne vicende per altri cinque mesi, si allargò al territorio francese, vide il coinvolgimento dell’Inghilterra e giunse alla pace il 18 settembre 1544. Paolo III ne approfittò per nominare il figlio Pierluigi duca di Parma e di Piacenza, fermo restando il suo vassallaggio alla Santa Sede e dando inizio in tal modo, il 23 settembre 1545, al bisecolare dominio di Casa Farnese. Sistemati gli affari di famiglia, sapeva che era venuto il momento di pensare a quelli della Chiesa. Si era reso conto prima e più di molti altri della pericolosità del movimento luterano e, ora che le acque della politica europea si erano calmate, procedé con relativa rapidità. Visto che con le preghiere e le trattative non si concludeva nulla, era già da tre anni passato alle maniere forti e, accogliendo i suggerimenti del cardinal Carafa, con la bolla Licet ab initio,XXXIII il 21 luglio 1542 aveva istituito la Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, poi ridenominata Congregazione del Sant’Offizio, con giurisdizione su tutta la Cristianità. La Congregazione era stabile, presieduta dal cardinale Gian Pietro Carafa, il futuro papa Paolo IV, e includeva altri sei cardinali ai quali erano conferiti pieni e illimitati poteri per estirpare l’eresia, valendosi di inquisitori locali di loro nomina e del cosiddetto “braccio secolare”, cioè della magistratura civile e dei suoi mezzi di tortura. Nessun inquisito poteva vantare esenzioni, privilegi o titoli ecclesiastici, nessuno per nessun motivo poteva sottrarsi all’Inquisizione finché il processo non fosse terminato. Il colpo all’autorità diocesana era fortissimo. In precedenza l’azione penale canonica ed ecclesiastica era dei vescovi, che si facevano aiutare dagli inquisitori da loro delegati, ma adesso venivano messi da parte e tutto finiva nelle mani degli inquisitori generali nominati dal papa. Brandita la spada, Paolo III, intelligente, colto, di provata esperienza e di non illibati costumi, sapeva bene che al di là delle minacce occorreva un profondo riesame della situazione ecclesiastica e, con la 29 Termine con cui in
marina si definiva il periodo invernale sfavorevole alla navigazione, trascorso in porto dalle navi, particolarmente quelle a remi, corrispondente ai “quartieri d’inverno” degli eserciti terrestri.
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bolla Initio nostriXXXIV del 22 maggio 1542, convocò un concilio ecumenico, scegliendo Trento, perché era in Italia ma negli Stati dell’Imperatore. Sospeso per scarsa partecipazione e ripreso nel novembre del 1544, il Concilio avrebbe lavorato per quasi un ventennio e dato il via alla Controriforma, che avrebbe arginato ma non distrutto la Riforma. Carlo V si trovò davanti al rifiuto dei Protestanti di partecipare. Capì fin dove la religione sosteneva la rivolta e decise di dover usare le armi. Trovò alleati anche in campo protestante e si accordò col Papa: avrebbe sostenuto il Concilio e, in sovrappiù, riconosciuto l’elevazione dei ducati di Parma e Piacenza a Stati indipendenti retti da Pierluigi Farnese, ricevendo in cambio pieno sostegno morale, il mantenimento di 12.000 fanti e 500 cavalieri e un forte contributo alle spese per la guerra che si accingeva a fare in Germania e che prese il nome di Guerra Smalcaldica. I soldati pontifici furono inviati a Carlo V sotto il comando di Ottavio Farnese, nipote del papa che aveva fatto pratica militare nelle file veneziane. La guerra fu abbastanza rapida, almeno all’inizio. Carlo, il 24 aprile 1547, affrontò con circa 40.000 uomini i 15.000 protestanti dell’elettore di Sassonia a Muhlberg, perse 200 soldati, ne mise fuori combattimento 8.000 al nemico e vinse. I Protestanti riuscirono comunque ad ottenere un pareggio politico, perché nelle trattative Carlo dové ammettere l’esistenza del Protestantesimo e riconoscere il principio del predominio in uno Stato della confessione del suo sovrano. Nello stesso anno Pierluigi Famese provò ad approfittare della fallita congiura dei Fieschi, a Genova, occupando alcune loro terre contigue ai suoi Stati, ma la reazione imperiale lo fece desistere. Comunque gli restava poco da vivere. Pure contro di lui era stata organizzata una congiura e coll’appoggio del governatore di Milano. I suoi eccessi e le violenze inenarrabili di cui s’era macchiato non gli avevano lasciato nessun amico e, nel pomeriggio del 10 settembre 1547, fu aggredito e ucciso nel suo palazzo. Piacenza passò sotto il dominio imperiale e Ferrante Gonzaga, dato ordine d'ultimare la costruzione del castello iniziato da Pierluigi, alla testa di 3.000 fanti e 400 cavalieri s’apprestò a prendere anche Parma. Conquistò Borgo San Donnino, Borgo Val di Taro, Castelguelfo e Cortemaggiore, assediandone la rocca, e i borghi di Roccabianca e Fontanelle. Intanto il Papa, saputa la morte di Pierluigi, aveva ordinato al proprio nipote Ottavio e ad Alessandro Vitelli d'arruolare truppe in Romagna per riportare ordine nei due feudi, mandando inoltre un legato a Piacenza e uno a domandare a Carlo V il consenso alla trasmissione dei Ducati a Ottavio. Ignorava ancora la parte giocata dall’Impero nella congiura e, quando lo seppe, ovviamente si accostò alla Francia chiedendole un'alleanza antiasburgica. La cattiva stagione fece sospendere le ostilità nel Parmense e indusse i Farnese a riflettere che la miglior scelta strategica fosse il passaggio di Genova alla parte francese. In una sola mossa si sarebbe tagliata un’importante arteria di rifornimento delle truppe asburgiche, creata una contiguità territoriale tra le forze farnesiane e quelle francesi e indebolita la Spagna in Italia. Era né più né meno il vecchio progetto dei Fieschi e di Pierluigi Farnese e l’ostacolo maggiore era Andrea Doria. Bisognava ucciderlo. Chi poteva farlo? Ne venne fuori una situazione diplomatica complicatissima e irta di pericoli di guerra, davanti ai quali Carlo V stimò opportuno non continuare per il momento la conquista di Parma e aprì una trattativa coi Farnese e la Santa Sede. Nel mezzo degli intricati negoziati Paolo III morì, il 9 novembre 1549, e gli successe sulla Cattedra di San Pietro il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte, che prese il nome di Giulio III.
III) La guerra per Parma e Piacenza L’avvento del nuovo Pontefice destò notevoli speranze nei Farnese, poiché aveva avuto la porpora da Paolo III ed aveva promesso al cardinale Farnese di rendere al nipote Ottavio Parma e tutte le località occupate in quel momento dalle truppe Pontificie comandate da Camillo Orsini. La politica distensiva della Santa Sede proseguì restituendo ai Colonna i feudi da cui erano stati cacciati e a Ridolfo Baglioni i beni sottrattigli un tempo, a causa dei quali era diventato nemico del papato. Ma ben 69
presto Giulio III cominciò a scontentare quanti lo circondavano sia per la sua inattività politica e religiosa sia per la sua eccessiva sollecitudine nei confronti dei parenti, sollecitudine di cui facevano le spese le casse della Reverenda Camera Apostolica. Tanta inattività era ancor più inopportuna perché sarebbe stato bene far qualcosa per convincere il sospettoso Carlo V che il nuovo Papa non era filofrancese e quindi Milano non era in pericolo per un eventuale collegamento fra Parigi, Roma e Venezia. Nel frattempo Ferrante Gonzaga stava aspettando il crollo delle milizie d'Ottavio Farnese a Parma. Sapeva che, senza sparare, la scarsità di denaro per le paghe e le vettovaglie gli avrebbe fatto cadere in mano il Ducato. Anche Ottavio lo sapeva e si arrabattava come poteva, domandando e ricevendo forti somme dai parenti e dal Papa senza riuscire a rendere meno precaria la propria posizione. Non vedendo altra via d'uscita, i Farnese porsero orecchio alle offerte d’aiuto che venivano dai Valois e, alla fine, si allearono alla Francia. Giulio III indovinò quanto stava per accadere e scrisse sia a Carlo V, in un estremo tentativo di convincerlo a rinunciare almeno a Parma, e sia a Ottavio, intimandogli di non cercare sostegno altrove che a Roma: era o non era feudatario della Santa Sede? Obbedisse, o sarebbe stato trattato da ribelle e piegato colla forza delle armi. Niente da fare. L’Imperatore voleva la città e Ottavio pure. Entrambi erano decisi ad adoperare la famosa “ultima ratio regum” – la guerra – ed entrambi e il Papa stesso sembravano ignorare che Enrico I non attendeva altro che quell'occasione per aggredire l'Impero. Le sue truppe avrebbero assalito Milano dal Piemonte attirandovi l'attenzione di Carlo V, poi sarebbe stata la volta della Germania e delle Fiandre, partendo dalla Francia stessa e contando sull'appoggio dei principi protestanti e dei Turchi suoi alleati, le cui immense schiere avrebbero impegnato a Oriente gli Asburgici, distraendoli dal fronte occidentale e stringendoli in una tenaglia micidiale. Ma benché tutto questo non fosse difficile da intuire, non dissuadeva nessuno dai preparativi di guerra. Ferrante Gonzaga aveva già radunato 7.000 fanti e 700 cavalieri a Piacenza in attesa di ulteriori rinforzi tedeschi in arrivo dall’Alto Adige. Da parte loro i Pontifici allineavano altrettanti fanti e 200 cavalieri, concentrati a Bologna sotto il comando nominale di Giambattista del Monte, nipote del Papa, ed effettivo di Alessandro Vitelli e Camillo Orsini. Allora Enrico I intervenne direttamente, concedendo a Ottavio una compagnia di 200 cavalieri, una pensione di 4.000 lire all'anno e l’ordine di San Michele a condizione che rimanesse con lui finché l’Imperatore non gli avesse reso Piacenza e promettendo di aiutarlo in tutti i modi. Nella primavera del 1551 cominciarono le operazioni, ma si svolsero senza battaglie decisive. Pontifici e Imperiali entrarono nel Parmense da due lati e si unirono sotto la capitale, chiudendovi dentro Ottavio e Piero Strozzi, assediandola e andando vicinissimi a prenderla. Contemporaneamente scattarono i Francesi seguendo due diverse direttrici. Da Mirandola, vecchia loro base, fecero partire una grossa schiera mista di loro regolari e di popolani assoldati per l’occasione. Guidati da Orazio Farnese, fratello d’Ottavio, e dal signor de Lansac entrarono nel Bolognese e si diedero a saccheggiarlo. Il risultato fu quello atteso, perché il Papa richiamò le proprie truppe prima per coprire Bologna e in un secondo tempo per respingere gli attaccanti e assediare Mirandola stessa. La seconda direttrice d'attacco fu in Piemonte, dove il signor de Brissac prese Chieri e San Damiano, gran parte dell'Astigiano e del Monferrato e obbligò Ferrante Gonzaga ad abbandonare a sua volta Parma per coprire il Milanese, prima, e recuperare il terreno perduto in Piemonte, poi. Parma fu salva e i due confederati si accusarono vicendevolmente d'averne abbandonato l'assedio per un nonnulla e aver fatto fallire l'impresa. Indignato dall'atteggiamento di Ferrante Gonzaga, Giulio III riprese in esame l’idea di accostarsi alla Francia e nel 1552 si stipulò a Roma una tregua franco-pontificia di due anni, approvata dall'Imperatore, durante i quali Parma sarebbe restata in deposito a Ottavio. Subito dopo venne stabilita un’analoga sospensione dei combattimenti tra gli Imperiali e la Francia. 70
A tale conclusione avevano contribuito più fattori: il Papa s'era reso conto di quanto la discordia politica avrebbe danneggiato il Concilio di Trento, perché il Re di Francia minacciava di non inviarvi i propri vescovi e cardinali, asserendo di voler regolare le questioni religiose con un sinodo nazionale. Lo stesso Enrico si rendeva conto però di non essere tanto in grado di mandare ad effetto né la minaccia, né il sostegno militare promesso ai Farnese, perché gli tornava più utile impiegare le proprie forze in appoggio ai Protestanti tedeschi. Infine Carlo V aveva visto con preoccupazione riaccendersi una forte opposizione antimperiale in Germania e, quel che era peggio, pure da parte dei Cattolici. Prima che fosse trascorso l'anno, Enrico di Valois aveva stretto un’alleanza con parecchi Principi germanici, mettendo insieme un esercito di 25.000 fanti e 8.000 cavalieri tedeschi, finanziato dalla Francia con 80.000 scudi al mese e coadiuvato dall'offensiva di 50.000 francesi verso la Lorena. Verdun, Nancy e Metz caddero rapidamente, ponendo i prodromi delle rivendicazioni territoriali francesi e tedesche che avrebbero funestato i quattro secoli successivi. Carlo V fu colto da queste gravi notizie mentre si trovava a Innsbruck, diretto in Italia, dove ancora temeva di vedersi sviluppare la maggiore offensiva francese, e rischiò d'essere sorpreso e catturato dalle truppe protestanti guidate da Maurizio di Sassonia. Messosi al sicuro, diramò gli ordini di radunata per le sue soldatesche in tutto il vasto impero e diede il via alla lunga guerra che avrebbe insanguinato mezza Europa, l'Italia Centrosettentrionale e insulare con tre diversi fronti e sarebbe terminata di lì a sette anni a San Quintino.
IV) La guerra ispano-pontificia del 1556–1557 Intanto in Italia nel 1556 s’era aperta un’altra questione, stavolta fra Napoli e Roma. Giulio III era morto nella primavera del 1555; gli era succeduto per 22 giorni Marcello II, alla cui morte era stato eletto, il 23 maggio, Paolo IV. Questi, quando era ancora solo il cardinale napoletano Gian Pietro Carafa, aveva tentato di indurre il papa Paolo III a profittare della rivolta del 1547 per aiutare gli insorti napoletani a cacciare gli Spagnoli da Napoli; e ne aveva avuto in cambio l’inimicizia di Carlo V, che gli aveva fatto attendere a lungo la ratifica della nomina ad arcivescovo di Napoli; altri dissapori erano nati grazie alla libertà confessionale concessa agli eretici tedeschi dall’Imperatore mediante la pace di Augusta del settembre 1555, appena quattro mesi dopo l’intronizzazione di Paolo IV. Ma il tocco finale era venuto col desiderio del Papa di favorire la propria famiglia a danno di quella potentissima dei Colonna, donando al proprio nipote Giovanni il loro feudo di Paliano. 30 I Colonna protestarono, del resto sapevano di godere della protezione imperiale; ma i Carafa erano altrettanto protetti dai Francesi e il Papa tenne duro. Conclusa un’alleanza in base alla quale Enrico di Valois gli avrebbe fornito 6.000 fanti, 400 cavalieri e 1.200 cavalleggeri da sommare a 10.000 fanti italiani da arruolare da parte pontificia, il Papa superò la quota mobilitando un esercito di 13.000 uomini di cui affidò il comando a Guidobaldo II duca d'Urbino e organizzò la marina su quindici galere. 31 Più precisamente la Santa Sede disponeva dal principio del pontificato di Paolo IV d’un esercito di 8.000 uomini, ma ora, per la faccenda dei feudi colonnesi, ordinò l’iscrizione in appositi ruoli di tutti i Romani abili alle armi, assegnandoli poi a compagnie, componenti varie legioni, quattro delle quali furono impiegate per la difesa dell’Urbe, insieme a 4.000 fanti: 1.500 italiani su sei compagnie agli ordini di Paolo Giordano Orsini, altri 1.000 a quelli di monsignor Carafa, 1.000 guasconi sotto il signor de Lanzac e 500 francesi del Signor de Montluc. A Paliano fu posta una guarnigione di 2.000 uomini, una di 1.500 a Velletri e un’altra di 500 a Tivoli, distribuendo altri 1.000 soldati fra i presidi minori. 30 Paolo IV aveva dichiarato decaduto Marcantonio Colonna dalla titolarità del feudo di Paliano e, avendo lui accennato a
volerlo riconquistare colle armi muovendo dal Regno di Napoli, lo scomunicò e gli sottrasse anche Genazzano, Nettuno e varie terre minori 31 Cinque delle quali fornite dalla Francia.
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I vantaggi territoriali sarebbero consistiti nell’unione dell’Abruzzo ai territori della Santa Sede, nell’estensione del confine meridionale fino al Garigliano, nel passaggio del Ducato di Milano a uno dei figli cadetti del Re di Francia e, infine, nell’occupazione della Sicilia, da dare però ai Veneziani se avessero acceduto all’alleanza. Inaspettatamente tra il 25 ottobre 1555 ed il 17 gennaio 1556 Carlo V rinunciò a tutte le sue corone in favore dei propri due primi figli. Al più anziano – Filippo – lasciò quella di Spagna e le sue dipendenze. All’altro – Ferdinando, re dei Romani – l’Impero e l’Ungheria. A dire il vero la ripartizione non era stata fatta nel modo più esatto. Le Fiandre teoricamente sarebbero dovute toccare a Ferdinando, in quanto parte dell’Impero, così come Milano, di cui i Re di Spagna erano duchi feudatari dell’Imperatore. La cosa in quel momento non aveva importanza perché restava in famiglia, ma ne avrebbe avuta – e molta – di lì a 144 anni. Ad ogni modo, se era spezzata la compattezza territoriale dell’insieme asburgico non lo era quella politica; e ci si poteva aspettare una coalizione politico-militare fissa dei due rami della Casa d’Asburgo nei secoli a venire. Il primo atto di Filippo II consisté nello stipulare una tregua colla Francia, conclusa il 5 febbraio 1556 a Vaucelles con una sospensione delle ostilità di almeno cinque anni e il disarmo immediato. Questo non andava bene al Papa, perché sarebbe rimasto solo a fronteggiare la Spagna nell’ormai incipiente conflitto. Con accorte manovre diplomatiche seppe allora ottenere la conferma della protezione francese e instillare il sospetto nell’animo del già sospettosissimo Filippo, facendogli comprendere le proprie intenzioni bellicose in termini indiretti ma chiari. La situazione cominciò a farsi seria. Il nuovo viceré di Napoli, il famoso e temutissimo duca d’Alba, mobilitò le truppe del Regno, mentre la Francia costituiva un esercito destinato all’Italia e ne affidava il comando effettivo al duca Francesco di Guisa, dando a suo suocero Ercole II d'Este, duca di Ferrara, quello supremo a titolo onorifico. Il 27 luglio 1556 il Papa riunì un concistoro nel quale si decise la decadenza del re di Spagna dall'investitura del feudo ecclesiastico costituito dal Regno di Napoli. Filippo II agì in fretta. Da un lato alleggerì la posizione diplomatica spagnola in Italia ponendo fine a parecchi contenziosi: restituì Siena ai Medici, Piacenza ai Farnese ed ottenne la neutralità veneziana, nonostante la Serenissima si fosse vista offrire dal Papa il dominio sui porti pugliesi. Dall’altro mosse il duca d’Alba. Il viceré infatti entrò rapidamente in campagna con 4.000 fanti spagnoli, 8.000 italiani comandati da Vespasiano Gonzaga, 1.220 cavalieri italiani agli ordini del conte di Popoli, 600 lance di Marcantonio Colonna e 12 pezzi d’artiglieria. Così la contesa tra le due famiglie italiane riuscì a provocare la rottura del trattato di Vaucelles appena a qualche mese dalla stipulazione. Per prima cosa il duca d`Alba occupò Pontecorvo e mandò un legato al Pontefice chiedendo la pace. Ebbe un rifiuto, perciò proseguì verso nord e s'impadronì rapidamente di Terracina, Anagni, Ceprano, Ferentino, Frosinone, Veroli e Nettuno. In ottobre Giulio Orsini abbozzò una reazione, andando ad assalire Piglio con cinque compagnie di fanteria e tre cannoni credendolo facile da prendere. Mentre bombardava il castello venne però attaccato di sorpresa alle spalle da 300 fanti e 100 cavalieri dei Colonna, che lo volsero in fuga con forti perdite. Liberatosi di tutti gli ostacoli, l’esercito del Regno di Napoli attraversò la Campagna Romana e andò ad accamparsi ad Ostia32 difesa da Orazio dello Sbirro, in modo da ricevere facilmente rinforzi e rifornimenti via mare attraverso l’approdo di Fiumicino e prepararsi alla presa del porto di Civitavecchia, per poi interdire l'afflusso di rinforzi francesi a Roma.33
32 Che è l’attuale Ostia Antica, a circa tre chilometri dal mare. 33 Per l’assedio erano pronti 3.000 fanti toscani, ufficialmente mandati da Cosimo de’Medici a Port’Ercole per presidiare il
confine, e 6.000 spagnoli e tedeschi, che dovevano arrivare via mare dalla Spezia.
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Alla testa di 3.000 fanti e aliquote di cavalleria, Piero Strozzi uscì dall'Urbe e si attestò lungo il Tevere, alla Magliana, bloccando la via Portuense e staccando in avanti reparti per occupare l'Isola Sacra, alla foce del fiume, subito a valle di Ostia, che resisteva ancora e che lui sperava così di sostenere e sbloccare. Gli Ispano-Napoletani prepararono un ponte di barche e passarono pure loro sull’Isola Sacra, dando luogo a scaramucce continue. La loro superiorità era manifesta e, davanti al fallimento della penetrazione delle sue truppe in Abruzzo, fermate da quelle del marchese di Trevico, ed alla paura di un nuovo sacco di Roma, il Papa accettò una tregua di dieci giorni, prolungata poi di altri quaranta per mandare un legato pontificio a Filippo II. Entrambi i contendenti volevano solo guadagnar tempo per aumentare le proprie forze: Paolo IV perché sapeva dell’imminente venuta dei Francesi; 34 il duca d’Alba perché contava d’ottenere, come gli riuscì per un milione di scudi, un congruo finanziamento con cui aumentare gli effettivi. Difatti nell'inverno lievitarono a 30.000 fanti italiani, 12.000 tedeschi e 2.000 spagnoli, mentre la cavalleria saliva a 1.500 uomini. Ma l’inverno vide l’approssimarsi dei Francesi, davanti ai quali il Viceré ritenne opportuno ritirarsi entro i confini del Regno per difendervisi, nonostante la resa a discrezione di Ostia gli avesse di fatto spianata la strada di Roma. Lasciò a propria copertura Marcantonio Colonna con 7.000 uomini, disposti in parecchi presidii situati lungo un arco che andava dal mare – Ostia – attraverso i Castelli Romani – Grottaferrata, Marino e Frascati – fino a Tivoli, alle propaggini degli Appennini, bloccando la via d’accesso all’Abruzzo. Colonna però dovette mandare dei soccorsi ai suoi vassalli di Serrone, assaliti di sorpresa e sconfitti dal presidio pontificio di Paliano comandato da Giulio Orsini. Di tale indebolimento nella zona litoranea approfittò Piero Strozzi che, radunati i suoi 6.000 uomini e dotatosi d'artiglieria, riprese Ostia e riaprì la via fluviale di rifornimento di Roma. Marcantonio Colonna dové ritirarsi seguendo la costa e piegando poi in direzione di Grottaferrata. Piero intanto, manovrando per linee interne, passò nel retroterra. Riacquistò Vicovaro, Marino e Tivoli e costrinse Marcantonio alla ritirata verso Anzio e il Sud, infliggendogli complessivamente perdite per circa un terzo della sua forza iniziale. Guisa intanto, invece di venire a Roma scendeva lungo la costa adriatica. Occupò Campoli e Teramo ma fu fermato a Civitella del Tronto dalle truppe locali e dai rinforzi prima inviati dal Viceré. Era arrivato là con 13.000 uomini e una quindicine di cannoni in aprile e il 24 aveva cominciato l’assedio della città, presidiata dai 1.000 fanti di Carlo di Loffredo e del conte Sforza di Santa Fiora. Mentre era ancora distante dalla conclusione, il duca d’Alba arrivò a Giulianova con oltre 22.000 soldati. Temendo d’essere sopraffatto dalla forte sproporzione numerica, il 15 maggio Guisa si spostò nella zona d’Ascoli Sbloccata la pericolosa situazione e ricevuta una richiesta d’aiuto da Marcantonio Colonna, ridotto a circa 5.000 uomini, il duca d’Alba gliene mandò 3.000, consentendogli di riprendere l'offensiva. Riconquistate Paliano, Genzano e Palestrina, i Colonnesi si riaffacciarono sulla cresta dei Castelli Romani e vanificarono tutte le fatiche invernali di Piero Strozzi. In agosto Marcantonio continuò a manovrare nel basso Lazio, battendo le truppe pontificie nei pressi di Segni che poi assediò. Il 15 aprì la breccia nelle sue mura e ordinò l'assalto generale: il presidio fu massacrato, moltissimi abitanti uccisi e la cittadina saccheggiata. Poi Colonna mandò il barone di Felts coi suoi Tedeschi e tre cannoni ad assediare Giovanni Orsini entro Rocca Massima. Visto scomparso il pericolo per l’Abruzzo, poiché i Francesi sembravano voler restare nelle Marche, il Duca d'Alba rientrò nello Stato Pontificio ma, ligio agli ordini ricevuti da Madrid di non danneggiare troppo il Papa, si limitò a scorrere la Campagna Romana e a far effettuare il 26 agosto una puntata offensiva di 300 archibugieri contro Roma dal lato sud.
34 Stavano concentrando a Torino 18.000 fanti e 3.000 cavalieri destinati a Roma.
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Intanto la guerra d’Italia aveva provocato il riaccendersi di quella di Fiandra, dove il 10 agosto 1559 le truppe delle corone di Spagna, guidate dal duca Emanuele Filiberto di Savoia, avevano distrutto quelle francesi nella memorabile battaglia di San Quintino. Rimasto senza altre risorse, Enrico di Valois richiamò l'esercito dall’Italia. Paolo IV, indifeso, si salvò grazie alla mediazione veneziana e toscana e negoziò la fine del conflitto, che fu chiuso il 14 settembre 1557 nel castello di Cave. Il Papa avrebbe sciolto l'alleanza coi Francesi, sarebbero state restituite le terre e fortezze occupate e Paliano, fonte della discordia, avrebbe avuto le mura smantellate e sarebbe stata data a chiunque il Re di Spagna avesse voluto, purché fosse persona non sgradita alla Santa Sede. Questo escludeva Marcantonio Colonna, almeno finché c’era Paolo IV; ma quando nel 1559 fu eletto il cardinale milanese Michelangelo Medici di Marignano, che prese il nome di Pio IV, la pregiudiziale cadde e Marcantonio riebbe il suo feudo.
V) Le armi di Santa Chiesa da Pio IV in poi L’elezione di Pio IV segnò l’inizio di ottant’anni di pace entro i confini papali, durante i quali le forze di terra e di mare vennero impiegate solo per spedizioni all’estero. Pio IV aveva inaugurato il suo pontificato non rinnovando a Torquato Conti la carica di generale delle milizie, dicendogli che voleva che i suoi sudditi si occupassero d’agricoltura e non di guerra; ma già dopo un anno la situazione era cambiata e le sue idee pure. La disfatta spagnola a Gerba e i pericoli della diffusione dell’eresia luterana lo spingevano al riarmo e, sopratutto, più che impegnarsi in prima persona e con le proprie forze, lo inducevano a sostenere finanziariamente chi scendeva in guerra per la causa cattolica. Qualcuno ha parlato del profilarsi di “un nuovo orizzonte,” ritenendo che “deposte le ambizioni egemoniche che tra Quattro e Cinquecento i pontefici hanno condiviso con gli altri principi italiani, pur contando sul primato spirituale, il papato postridentino ha preso la strada di un “nuovo universalismo.”XXXV E’ possibile? Non sembrerebbe proprio. Che le risorse papali militari e finanziarie da Pio IV in poi siano state a disposizione dei combattenti per la Fede è vero, che le ambizioni egemoniche in Italia fossero scomparse, proprio no. Dirlo significa dimenticare, o non capire, o non voler dare importanza al progetto di Sisto V d’invadere il Regno di Napoli, all’acquisizione di Ferrara nel 1598 per la morte del duca senza eredi, a quella d’Urbino nel 1631 per l’estinzione di Casa della Rovere, alle due guerre di Castro del 1641 e del 1649, alla questione di Comacchio che si sarebbe trascinata fino alla prima metà del XVIII secolo e, infine, all’occupazione di San Marino nel 1739 per iniziativa del cardinale Alberoni, che fu sconfessata, ma che viene da domandarsi se lo sarebbe stata se non ci fossero state reazioni diplomatiche. Sette casi d’espansione riuscita, o almeno tentata, in poco più di centocinquant’anni, alla media d’un tentativo ogni vent’anni, per non parlare della spedizione in Irlanda, non sono semplici episodi, sono la dimostrazione della persistenza d’una politica espansionistica tenace, per quanto non appariscente, e negarla significa non averla capita. Caso mai, c’è l’impressione che la Santa Sede, lungi dal rinunciare ad ampliamenti territoriali, ma conscia della sua crescente debolezza, si sia orientata verso una politica degli spazi, pronta a costruire l’occasione, se poteva, ad afferrarla se e quando si fosse presentata, ma cercando sempre di più di evitare urti con le Potenze militarmente più forti, le quali, dal primo Settecento in poi, cominciarono a condizionarla sul piano spirituale, agitando apertamente lo spauracchio dello scisma. A metà del Cinquecento l’insieme degli Stati Pontifici aveva assunto la forma che avrebbe poi sostanzialmente mantenuto fino al 1860: quella d’una calza con la punta in basso, a destra di chi guarda. Il confine meridionale era più a nord di quello del Lazio postunitario: invece che sul Garigliano era a nord di Gaeta e lasciava al Regno di Napoli Cassino e Sora, cioè l’antico Latium adiectum. Dunque il Lazio meridionale pontificio, corrispondente al Latium vetus dei Latini, costituiva la punta della calza, del cui piede Roma era la media pianta e Viterbo il tallone; l’Umbria faceva da caviglia e le Marche e le 74
Legazioni padane ne erano il collo, col bordo della calza sul Po, da Ferrara al Delta. All’interno dei confini papali esistevano lo Stato farnesiano dei ducati di Castro e Ronciglione e la Repubblica di San Marino. All’esterno il Papa dominava sui due feudi di Pontecorvo e Benevento, incasellati nel Regno di Napoli, e su quello di Avignone e Contado Venassino nel Regno di Francia. Per presidiare i suoi confini di terra e di mare, nella seconda metà del Cinquecento la Santa Sede disponeva di pochissime forze stabili, comprensive della guardia del Papa e di quelle dei Legati di Avignone e dell’Emilia, guardie che non superavano i 300 fra Svizzeri, lance spezzate e cavalleggeri. Incluse queste, in linea di principio le forze pontificie ammontavano a circa 8.000 uomini, ma il numero dei sudditi in armi era superiore, perché tutte le principali famiglie feudali disponevano di proprie truppe, stanziate nei castelli al di fuori dell’Urbe. Era sia un’integrazione del sistema militare papale, sia una minaccia, perché, come nel caso della guerra contro i Colonna, non si sapeva mai se le milizie baronali sarebbero state amiche o nemiche della Santa Sede. Ciò obbligava a provvedere alle necessità belliche mediante arruolamenti ad hoc, tanto attingendo alla Milizia – la cui forza iscritta oscillava tra i 50.000 ed i 90.000 uomini – quanto reclutando all’estero. Come in passato, completavano l’apparato militare la squadra navale di mediamente sei galere e il sistema delle torri costiere. Ogni torre era in contatto visivo con la precedente e la successiva ed aveva da due a cinque torrieri, un cannone, raramente due, e delle altre bocche da fuoco più piccole, come archibugi da muro, spingardine e mortai;. Le sue funzioni erano d’avvistamento, allarme e resistenza di primo tempo contro gli sbarchi dei pirati mussulmani, ma nella pratica poteva benissimo accadere che i pirati predassero letteralmente sotto la torre senza che il piccolo presidio potesse o volesse impedirlo. La sicurezza delle strade era molto relativa, quella delle città pure. Ladri e assassini sapevano di restare impuniti se riuscivano a entrare anche solo nel sagrato di una chiesa, dal quale, in grazia del diritto d’asilo, nessuno si sognava di cacciarli e loro potevano impunemente beffarsi delle guardie di polizia che li avevano inseguiti o che attendevano che ne uscissero. A Roma le cose erano ulteriormente complicate dall’esenzione extraterritoriale garantita alla zone circostanti le ambasciate e, di fatto, ai palazzi i cui proprietari erano stati autorizzati ad innalzare gli stemmi dei sovrani esteri. Inoltre le guardie preposte al servizio di polizia dovevano stare attente, sempre a Roma, anche a non entrare nelle zone giurisdizionalmente sotto un’autorità pontificia, si, ma diversa da quella da cui dipendevano. Infine, tanto per semplificare tutto, si poteva contare sull’amnistia ogni volta che veniva eletto un nuovo papa, per cui non era raro il caso di rei e contumaci che si consegnassero alle autorità durante la sede vacante, per essere amnistiati e liberati dopo la fine del conclave. L’altra forza militare su cui all’occorrenza il Papa poteva contare era l’Ordine di San Giovanni, che, da quando era stato accolto da Carlo V a Malta, era noto come Ordine di Malta. L’Ordine si basava essenzialmente sulla squadra navale e sulle difese costiere, allineando un paio di migliaia di soldati a piedi e a cavallo, destinati sia alla difesa dell’Isola, sia, solo i primi, all’imbarco sulle mediamente sei galere della squadra, ognuna con un equipaggio di 30-40 uomini, sei cavalieri e una quindicina di serventi d’arme, oltre alla ciurma, mediamente di 250 rematori per ogni legno, come del resto sulle galere di tutti gli altri Stati italiani. In caso di richiesta, l’Ordine era obbligato ad aiutare il Papa con uomini e navi, aiuto che, ovviamente, era reciproco, come si vide nel 1565 al momento del grande assedio che i Cavalieri del Gran Maestro Jean de la Valette sostennero vittoriosamente contro le preponderanti forze turche sbarcate nell’Isola. Proprio in quell’anno Pio IV morì e nel gennaio del 1566 fu eletto papa il cardinale domenicano frà Michele Ghislieri, che assunse il nome di Pio V. Di nuovo sembrò che la Santa Sede disarmasse, perché il nuovo Papa iniziò sulla falsariga del suo predecessore. A Pompeo Giustini, presentatosi a chiedere il rinnovo della carica di generale dell’artiglieria e che gli aveva risposto che, no, le Scritture e la Teologia non le conosceva perché non erano la sua professione, disse che non lo trovava adatto, perché non era l’artiglieria l’arma con cui 75
combattere gli eretici. Il passo seguente, pochi giorni dopo, fu lo scioglimento dei cavalleggeri, perché costavano troppo. L’agiografia sottolineò questi due fatti come prova del pacifismo del Papa, poi fatto santo; ma pure qui viene più di qualche dubbio, perché Pio V poco dopo disse di voler stabilire un sistema di milizie che, attingendo a un bacino di 9.000 uomini, gliene facesse avere a rotazione 3.000 sempre in armi. In primavera parlò all’ambasciatore veneziano della sua idea di mandare due o tremila uomini a rinforzare Malta e poco dopo pubblicò il bando per arruolare truppe destinate a sostenere gli Asburgo in Ungheria. Di conseguenza viene da pensare che la ragione del licenziamento dei cavalleggeri fosse davvero nel loro eccessivo costo e che la dimissione di Giustini si dovesse a ragioni legate alla persona anziché a idee di pace e disarmo.
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Capitolo VII Le guerre per la religione da Pio IV a Paolo V
I) Le armi pontificie sotto Pio V, la guerra di Cipro e la gloria di Lepanto: 1570-1573 Nello stesso 1566, l’anno dopo l’assedio di Malta, Solimano il Magnifico morì e gli successe il figlio Selim. Subito ripresero i preparativi di guerra e, tanto per cambiare, contro gli Italiani. Una squadra ottomana si presentò sulla costa abruzzese e ai primi d’agosto Pio V arruolò truppe e ordinò a Paolo Giordano Orsini e a Vincenzo Vitelli di mettersi alla testa di varie compagnie che inviò sul litorale marchigiano. Nello stesso periodo si recò a ispezionare con un seguito ridotto e comprendente parecchi militari sia Ostia che Civitavecchia. L’anno seguente il Papa si accordò con la Spagna per sostenere i Cattolici e Carlo IX di Francia contro gli Ugonotti. Nel 1568 una tregua impedì la spedizione, ma la ripresa delle ostilità nel 1569 fece sì che truppe papali, al comando di Sforza Sforza conte di Santa Fiora35 fossero inviate a combattere gli Ugonotti in Francia, coll’esplicito ordine di passare, in caso di pace, ad appoggiare gli Spagnoli del duca d’Alba, impegnati in Olanda contro i Protestanti. Le operazioni in Francia andarono benissimo e nell’agosto 1570 portarono alla pace fra le due fazioni, pace che però il Papa disapprovò di per sé e ancor di più quando seppe che gli Ugonotti avevano assalito il contado Venassino e Avignone, arrivando vicini a impadronirsene Nel medesimo 1570 però l’attenzione di tutti si volse a Oriente: i Turchi stavano attaccando i Veneziani. Il sultano Selim soleva dire spesso “Questo vino ben tosto in Cipro berremo”XXXVI, tenendo in mano un bicchiere di vino di Cipro e contravvenendo ai precetti islamici d’astinenza dall’alcool. Era certo il miglior vino del Mediterraneo, ma era prodotto veneziano, come veneziana era l’Isola. Come al solito Costantinopoli ammassò pretesti su pretesti, tutti futili, per giustificare l’inasprimento e la rottura delle relazioni, ma Venezia li scansò, non perdendo d’occhio i movimenti mussulmani di navi da guerra e trasporti che incrementavano le truppe e i materiali nel Mediterraneo Orientale. Centocinquanta galere ottomane erano già pronte e migliaia di Spahis e Giannizzeri si concentravano ad Alessandria, Rodi e nel Golfo di Lajazzo; e il Senato sapeva di non poter contare altro che sulle proprie insufficienti forze, perché la Francia era amica dei Turchi e la Spagna era nemica di Venezia. L’annata era stata cattiva in Italia, mancavano le vettovaglie necessarie a sostenere un esercito in guerra e, come se non bastasse, la notte del 12 settembre 1569 andò a fuoco l’Arsenale. La riserva di polvere esplose con un fragore immane, atterrando le tre torri che la contenevano ed il muro di cinta volto ad oriente. I rottami caddero su tutta la città, uccidendo e storpiando molte persone e, quel che era peggio, lasciando sfornita di polvere ed armi la flotta. Le fiamme furono domate, il Senato ordinò di prendere materiali militari dovunque per ricostituire le scorte e spostò le riserve di polvere dall’Arsenale ricostruito alle isolette della Laguna, ma l’apparato logistico militare e navale ne uscì comunque indebolito. Intanto era incominciato il 1570 e nel Divano fervevano le discussioni. Bisognava attaccare Cipro o era meglio correre in aiuto dei correligionari residenti in Spagna contro i quali si era scagliato il Re Filippo? L’ultima parola spettava al Sultano e fu: Cipro. Del resto era troppo lontana la Spagna, troppo lunga la via per raggiungerla, passando davanti a Malta e all’Italia, mentre invece Cipro era vicina e poteva costituire una base di partenza per una spedizione contro la Siria e la Palestina cioè, come sognava il Papa, per una nuova Crociata. Il contingente pontificio comprendeva 900 cavalli su otto compagnie e 3.200 fanti divisi in 25 compagnie, cfr. ASR Soldatesche e Galere, miscellanea, busta 646, Soccorso in Francia in aiuto del Re Christianiβimo l’anno 1569 dalla Santa M.A. di Pio Papa V°. 35
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Così il Bailo alla Porta Ottomana Marcantonio Barbaro fu chiamato dal Visir il quale, con molti giri di parole e molti capziosi ragionamenti, gli comunicò l’intimazione del Sultano al Senato perché cedesse Cipro. Barbaro ottenne una sospensione finché non fosse stato mandato un ambasciatore turco a Venezia e scrisse subito al Senato perché si preparasse a combattere. La risposta fu data in Palazzo Ducale al Chiaus Cubat – ambasciatore straordinario del Gran Signore alla Serenissima – e fu negativa. La partenza di Cubat fu seguita da quella di 40 galere dirette a Corfù agli ordini del capitano generale Gerolamo Zane, mentre venivano rinforzati i presidi dalmati e albanesi, si conquistava il 10 giugno il castello di Sopotò e si domandava aiuto agli altri Stati cristiani. Risposero all’appello il Papa, la Spagna, i Duchi di Savoia, Toscana e Urbino, l’Ordine di Malta e, tutti insieme, misero in mare una flotta di 189 legni da guerra. 36 I Turchi intanto erano già in movimento. La loro armata di 150 galere e 106 trasporti di ogni dimensione sbarcò in luglio alle Saline, nell’isola di Cipro. Il 9 settembre diedero l’assalto generale e sfondarono. I 4.000 difensori rimasti caddero uno dopo l’altro per fermarli, ma inutilmente. Venticinquemila civili furono massacrati prima che il Serraschiere Mustafà pascià ordinasse di cessare le uccisioni. Pochissimi Italiani si salvarono perché erano considerati i nemici più pericolosi. I funzionari veneziani furono uccisi tutti dopo essere stati torturati. A Nicolò Dandolo, comandante della difesa, fu tagliata la testa. Mustafà se la portò dietro fin sotto le mura di Famagosta e la mostrò al locale comandante, il provveditore generale Marcantonio Bragadin, minacciandolo di fargli subire la stessa fine se non si fosse arreso subito. Quello gli rispose di preferire la morte all’infamia e si preparò a difendersi. E sapeva a quale sorte stava andando incontro. Faticosamente la flotta cristiana si mise in mare il 18 settembre ma, raggiunta dalla notizia della caduta di Nicosia, dietro pressione di Giannandrea Doria rientrò alle basi di partenza per trascorrervi lo sciverno. Questa inattività non piacque né al Papa né ai Veneziani e le loro insistenze portarono alla firma di un’alleanza antiturca colla Spagna nel maggio del 1571. I tre contraenti avrebbero mantenuto pronte 200 galere, 100 navi, 50.000 fanti, 4.500 cavalieri e sufficienti artiglierie e munizioni. Un terzo delle spese sarebbero state a carico della Repubblica, un sesto del Papa e metà le avrebbe sostenute il Re; gli acquisti territoriali sarebbero stati ripartiti secondo quanto stabilito nella Lega del 1537. Il comando supremo fu devoluto a don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V, dando il secondo posto a Marcantonio Colonna in qualità di comandante pontificio. Navi e uomini cominciarono a concentrarsi a Messina, raggiungendo il numero di 209 galere, sei galeazze, 26 vascelli e naviglio minore, con circa 20.000 fanti pronti e altri 4.000 in arrivo. 37 Il 24 agosto don Giovanni d’Austria raggiunse la flotta, tenne consiglio di guerra e decise di salpare verso Oriente. Ma almeno per Famagosta era troppo tardi. Vi erano stati ammassati intorno in maggio 150 legni e 200.000 nemici per mantenere gli effettivi degli assedianti sempre a 80.000 soldati e 40.000 zappatori nonostante le terribili perdite. Ad essi Bragadin aveva potuto opporre appena 8.400 uomini – una sproporzione di 1 a 25 a favore degli attaccanti – e la speranza nei soccorsi. La difesa era stata portata all’estremo. Sotto il fuoco dei 74 cannoni pesanti nemici, Italiani, Greci ed Albanesi avevano conteso ogni metro del terreno fra le fortificazioni più esterne ed il fossato, facendolo costare ai Turchi ben 30.000 morti. Al 1° agosto 1571 quattro attacchi generali e 150.000 cannonate avevano lasciato vivi solo 1.800 dei 4.000 fanti inizialmente disponibili; le munizioni scarseggiavano, il cibo era poco ed il morale era a terra. 36 Erano sei navi da guerra, un galeone, 11 galeazze e 171 galere. Di queste 50 appartenevano alle squadre del Re di Spagna –
Spagna, Sicilia, Napoli, Sardegna – e di Doria, che ne era il comandante, il Papa ne aveva fornite 12 al comando di Marcantonio Colonna, Emanuele Filiberto quattro sotto Andrea Provana di Leynì, altrettante Cosimo de’Medici dandole a Tommaso de’Medici, il resto erano veneziane. 37 Cioè 1.000 spagnoli ancora a Otranto e 3.000 italiani pagati metà da Venezia e metà dalla Spagna, in via d’arruolamento
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Così Bragadin accettò di capitolare, purché la guarnigione avesse passo libero per Candia con cinque cannoni, armi e bagagli e il Serraschiere garantisse la conservazione della vita e dei beni e il libero esercizio della religione ai Cristiani rimasti in città. Mustafà aveva considerato che rimaneva intatta la cittadella; e chissà cosa gli sarebbe costato prenderla se gli ci erano voluti due mesi e 50.000 morti per la sola cinta esterna, per questo aveva promesso e giurato sul Corano tutto ciò che poteva rassicurare Bragadin. Il 4 agosto 1571 Bragadin uscì dalla città e seppe cos’era dare fiducia a un Mussulmano. Appena fu in mezzo ai nemici, Mustafà l’accusò falsamente d’aver ucciso dei prigionieri turchi durante la tregua, lo fece incatenare, gli fece tagliare il naso e le orecchie e lo espose alle ingiurie dei suoi uomini. Poi gli promise salva la vita in cambio della conversione all’Islam. Il Veneziano rifiutò e lui ordinò di scorticarlo vivo, facendone poi riempire di paglia la pelle e mandandola a Costantinopoli, 38 insieme alle teste mozzate dei tre ufficiali veneziani di grado più elevato.39 Il 4 ottobre la notizia di Famagosta raggiunse la flotta cristiana in mare e don Giovanni decise di avanzare. Sapeva che le 282 navi 40 della flotta nemica erano nel Golfo di Lepanto, lungo 125 chilometri e largo 35, e, incurante dell’inferiorità numerica, contava di assalirle colle sue 244. 41 Le cercò per venti giorni: nulla, sembravano scomparse. Poi, la mattina del 7 ottobre 1571 le navi cristiane avvistarono quelle mussulmane e don Giovanni per la gioia “si mise a danzare la gagliarda con due cavalieri sul ponte d’armi della sua galera”XXXVII I Cristiani si schierarono su una lunga linea nettamente divisa in due ali, destra di 58 galere e sinistra di 57, e un centro di 63, coperto in avanti dalle sei galeazze e con 30 galere in riserva alle spalle. A largo in retroguardia le navi minori o a vela. Poi don Giovanni fece spiegare lo stendardo della Lega Santa sulla galera Reale di Spagna e, a quel segnale, soldati e marinai si inchinarono per ricevere l’assoluzione in articulo mortis dai cappellani militari. Poco prima di mezzogiorno la galera del capitan pascià Alì Muezzin-Sadì sparò un colpo di cannone, le rispose una scarica tremenda e la battaglia iniziò. L’ala sinistra, agli ordini di Agostino Barbarigo, attaccò a fondo le galere del pascià Mehmet Sciluc in una mischia terribile, scompigliandole e costringendole alla fine a buttarsi in costa, dove se ne sfasciarono 30. Mehmet si buttò in mare, fu ripescato dai Veneziani, riconosciuto e decapitato. Ma Barbarigo rimase mortalmente ferito e passò il comando L’ala destra, sotto Giannandrea Doria, si aprì per colpire meglio il nemico, il quale però approfittò del varco per incunearvisi e assalire di fianco il centro cristiano, mentre le galeazze veneziane in avanguardia, molto più protette ed armate di quanto i Turchi supponessero, facevano una strage nel centro avversario. 42 L’ammiraglia ottomana puntò dritta su quella cristiana in una collisione frontale terribile. Le due navi 38 E prima di arrivarvi la povera spoglia fu appesa all’albero d’una nave ottomana alla quale fu ordinato di compiere il giro dei
porti e delle coste del Mediterraneo Orientale per far vedere a tutti quell’orribile testimonianza della feroce vittoria del tradimento sulla fiducia. 39 Erano Luigi Martinengo, Andrea Bragadin e Giovanni Antonio Querini. 40 Secondo altre fonti erano 274. 41 La flotta allineava 208 galere, sei galeazze e 30 navi minori, che portavano 1.815 cannoni – contro i 750 dei Turchi – e 74.000 uomini fra soldati, marinai e ciurma, contro gli 88.000 del nemico. Veneziane erano tutte le galeazze e ben 109 galere, cinque appartenevano al Duca di Savoia, altrettante all’Ordine di Malta, 12 alla Toscana (ma noleggiate dal Papa), tre a Genova, 13 a privati genovesi – tra queste vi erano le galere dell’altra squadra privata al soldo di Spagna, quella del Sauli – il resto alla corona di Spagna, sia come spagnole – 14 – sia come squadre di Napoli, Sardegna, Sicilia e dei Doria – detta quest’ultima, come sappiamo, anche “del Duca di Tursi o de’particolari”. La flotta era quindi a tutti gli effetti una flotta italiana con un piccolo rinforzo spagnolo. 42 Alcune cronache del tempo giunsero ad attribuire loro la distruzione di ben 70 delle 80 galere ottomane arse o affondate nella battaglia. Al di là del numero esatto, impossibile da stabilire, resta il fatto che si rivelarono un’atroce sorpresa per i Turchi.
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divennero un campo di battaglia, mentre tutto il centro si tramutava in un caos di speronamenti, arrembaggi e scariche d’artiglieria a bruciapelo. Nonostante i continui soccorsi, don Giovanni si trovò a mal partito e ricorse all’espediente estremo: ordinò di liberare i forzati al remo, che sulla flotta cristiana erano 40.000. I Turchi lo copiarono dimenticandosi un particolare: i loro forzati non erano criminali o buonevoglie, ma prigionieri cristiani. Questi si unirono subito agli Italospagnoli nel combattimento e per gli Ottomani fu la fine. Alì Muezzin fu ucciso, la sua galera conquistata e sul pennone venne alzato lo stendardo della Santa Lega col Crocefisso. “Vittoria, Vittoria !” cominciarono a gridare abbracciandosi gli Italiani e gli Spagnoli vedendolo. Barbarigo, morente, alzò le mani al cielo, rese grazie a Dio della vittoria e spirò, mentre le galere turche si sbandavano e iniziavano a fuggire. Furono inseguite e raggiunte. Solo 43 legni riuscirono a salvarsi. Degli altri: 80 furono affondati, 140 galere e 17 galeotte vennero catturate, 15.000 schiavi cristiani liberati, 5.000 turchi fatti prigionieri. Altri 30.000, morti, erano nelle acque del golfo ingombre di rottami. La flotta cristiana aveva perso solo 15 galere e 8.000 uomini: un trionfo delle navi italiane. Erano le cinque della sera. Alla stessa ora a Roma Pio V si alzò improvvisamente dal tavolo al quale stava ricontrollando i conti insieme al Tesoriere, andò alla finestra, l’aprì e guardò a Est, a lungo. Poi si voltò col viso illuminato e disse ai presenti: “Non occupiamoci più d’affari ma andiamo a ringraziare il Signore: l’armata cristiana ha riportato ora la vittoria.”XXXVIII Stupefatti, mentre il Papa scendeva in cappella, i prelati si segnarono le parole e l’ora in cui erano state pronunciate e attesero le notizie della flotta, anche se molti non seppero tacere e raccontarono il fatto in giro. Intanto i venti ostacolavano il corriere mandato da don Giovanni al Papa e favorivano quello spedito a sua insaputa da Sebastiano Venier al Senato. Venezia impazzì dalla gioia e il Doge scrisse al Papa, felicitandosi e riferendogli tutto brevemente. Erano già trascorse circa due settimane dalla battaglia ed era notte fonda quando il corriere dogale arrivò a Roma, molto prima di quello di don Giovanni. Nonostante l’ora fu introdotto subito nella camera del pontefice. Riferendosi a don Giovanni d’Austria, “Fuit homo missus a Deo cui nomen erat Joannes”XXXIX esclamò Pio V quando udì la notizia. Poi si alzò e ordinò che ogni abitante del Vaticano fosse svegliato e lo seguisse in chiesa a rendere grazie a Dio, 43 mentre gli allibiti prelati si accorgevano che la lettera del Doge confermava l’illuminazione del Papa: il 7 ottobre alle cinque di sera. La guerra però non continuò come sarebbe stato auspicabile. Interesse della Spagna era evitare l’estensione della minaccia turca ma, se ad essa si accompagnava l’indebolimento di Venezia, tanto meglio. Dunque la soluzione migliore per Madrid consisteva nel fermarsi là dov’era. Cipro era turca e tale sarebbe rimasta. Se i Veneziani non erano d’accordo potevano continuare la guerra da soli. Per il momento, e finché fosse esistita, dovevano però obbedire al comandante della Lega, cioè don Giovanni d’Austria, e non fare nulla. Ci furono dunque alcuni piccoli scontri navali lungo le coste della Grecia, a Santa Maura, a Castelnuovo e a Navarino, ma non si fece la spedizione a Cipro o, addirittura, contro Costantinopoli, come i Veneziani e il Papa avrebbero voluto. Del resto il 1° maggio 1572 l’animatore della Lega, Pio V, passò a miglior vita. Colla sua morte si ebbe un santo in più in cielo e una Lega in meno in terra, perché l’alleanza si allentò. Il nuovo pontefice Gregorio XIII non seppe tenerla insieme e, davanti alla renitenza spagnola, Venezia pensò ai casi suoi e stabilì una tregua coi Turchi, firmando poi la pace il 7 marzo 1573. Pace gravosa e non vittoriosa: Cipro restava turca, si doveva restituire il castello di Sopotò, ripristinare lo statu quo ante in Epiro e Dalmazia e pagare alla Sublime Porta 300.000 ducati in tre rate annuali. 43 E infine, in ricordo della vittoria, decretò che al Rosario fosse aggiunta l’invocazione alla Madonna come “Auxilium
Christianorum.”
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Non c’era scelta. La prosecuzione della guerra privava la Serenissima delle fonti di guadagno derivate dal commercio nel Mediterraneo orientale, la indeboliva per terra e per mare e, in ultima analisi la metteva nelle mani dei Turchi e della Spagna. Molto meglio chiudere il conflitto tenendo quel che si aveva e puntando a rifarsi della cifra pagata riprendendo i traffici. Tanta saggezza non piacque al Papa e, sopratutto, alla Spagna, che vedeva sfuggire ancora una volta la possibilità di dominare tutta l’Italia neutralizzando Venezia.
II) La marina di papa Gregorio Il pontificato di Gregorio fu militarmente senza rilievo. Stabilita la “Squadra permanente delle galere”, forte di dieci navi, dipendente da un Generale delle Galere, la marina pontificia era passata nel 1592 agli ordini del Tesoriere Generale, che era anche Commissario del Mare, a cui facevano capo sia le navi, sia le fortezze e le torri del litorale del sistema difensivo voluto e realizzato nella sua interezza durante i pontificati di Pio IV e Pio V, che avevano coordinato le fortificazioni esistenti in un insieme un po’ più efficace che in passato. Base principale e quasi unica della marina pontificia era Civitavecchia e qui si concentravano, oltre alle galere, l’arsenale (che aveva gradualmente sostituito quello di Roma, sul Tevere) la guarnigione, l’ospedale, il forno ed il “bagno” dei forzati e degli schiavi, in maniera tale che, considerato pure l’indotto, la cittadina traeva la sua vita dalla squadra navale: una situazione che sarebbe durata fino alla fine del Settecento e che si sarebbe riproposta dopo la bufera napoleonica. All’amministrazione ed ai servizi provvedevano un auditore, un notaio, un medico, un fabbro (per le catene di schiavi e forzati), un armaiolo, un munizioniere, un provveditore e due scrivani. Partendo da Civitavecchia, le galere pattugliavano il Tirreno e assai spesso si spingevano più a Sud, verso Messina o Malta, per dirigersi nelle acque del Levante insieme alle navi degli altri Stati rivieraschi italiani, coi quali, a parte ripicche dovute a questioni di precedenza tipicamente seicentesche, c’era in genere una buona intesa; ottima era poi quella coi Cavalieri di Malta, diversi dei quali, sudditi pontifici, dopo aver fatto le “carovane” sulle galere dell’Ordine, passavano a servire su quelle papali, cosi come facevano a volte i marinai maltesi, mentre era assai frequente lo scambio di arsenalotti e di prodotti tra Civitavecchia e La Valletta. Avendo una marina piccola ma ben organizzata e, in ogni caso, non minore di quelle dei Regni di Napoli o di Sicilia, nell’ottobre del 1573 il Papa offrì alla Spagna navi e uomini per la spedizione contro Tunisi, ma il contingente pontificio non riuscì a trovare la flotta spagnola in mare. Nel maggio del ’74 Gregorio offrì a Carlo IX di Francia, un’altra volta alle prese cogli Ugonotti, l’invio di un nuovo corpo di spedizione
III) La spedizione in Irlanda Nel 1578, fidandosi dell’inglese Thomas Stukeley, raccomandato dagli Spagnoli, e dei suoi progetti di restaurazione cattolica in Irlanda, che ne prevedevano la corona per suo nipote Giacomo Boncompagni, Gregorio gli fornì 2.000 uomini, fra i quali, pare, molti fuorilegge arruolatisi in cambio del perdono, al comando di ufficiali professionisti. Compresi altri volontari, il corpo di spedizione sarebbe arrivato a comprendere ufficialmente circa 4.000 uomini, molti dei quali però disertarono prima dell’imbarco. In marzo Stukeley partì da Civitavecchia con un migliaio di uomini e in un mese arrivò a Cadice. Gli Spagnoli lo fecero proseguire per Lisbona, dove avrebbe dovuto incontrare altri fuorusciti irlandesi e reimbarcarsi per l’Irlanda. Ma, col pretesto che il re del Portogallo non aveva navi da dargli, accettò un comando nel corpo di spedizione portoghese che si preparava a sbarcare in Marocco e decise di farvi confluire tutti i suoi soldati, che, a quel punto, tra fughe, morti e diserzioni, erano ridotti a soli 600. Fu una pessima idea. Il 4 agosto 1578 i 24.000 uomini dell’esercito portoghese del re don Sebastiano furono 81
affrontati da forze nemiche che, a seconda delle fonti, andavano dal doppio al quadruplo. Dei Cristiani e dei loro alleati mori se ne salvarono pochissimi: si e no un centinaio raggiunsero la costa, dei pontifici nessuno.44 Due anni dopo venne fatto un nuovo tentativo. Il 10 settembre del 1580, 600 soldati pontifici, comandati dal capitano Sebastiano di San Giuseppe, noto come Sebastiano da Modena, sbarcarono nel porticciolo irlandese di Smerwick, l’odierna Ard na Caithne nel sudovest dell’Isola, per unirsi ai rivoltosi irlandesi in lotta contro Elisabetta I d’Inghilterra. Arrivarono le truppe inglesi del conte Grey e li accerchiarono, di conserva con la flotta, che bloccò la baia e le poche navi che li avevano trasportati I Pontifici si asserragliarono nel forte di Dún an Óir, tenuto dai ribelli. Un tentativo di ricognizione consentì agli Inglesi di prendere dei prigionieri e scoprire che avevano davanti 700 uomini con armamenti per 5.000 nel forte. Lord Grey passò a bloccarlo e poi ad assediarlo con forze preponderanti dall’8 novembre. Il 10 ottenne la resa, dopo aver promesso salva la vita a tutti. Mantenne la parola facendo trucidare tutti i prigionieri meno i comandanti, ai quali venne riservato un trattamento che ci si sarebbe potuto aspettare dai Turchi: ebbero la scelta fra l’abiura e la morte. Rifiutarono. A tutti furono spezzate braccia e gambe in tre punti e, dopo un intero giorno di sofferenze, furono impiccati. “La parola di Grey” sarebbe passata in proverbio in Irlanda come sinonimo di menzogna. 45 Gregorio XIII morì nel 1585 lasciando l’erario in cattive condizioni e la sicurezza pubblica in pessime. Il suo successore, Sisto V, si segnalò per un’improvvisa quanto efficacemente dura attività di polizia, che mise un limite ai reati che affliggevano gli Stati Pontifici. Alla sua morte, nell’agosto 1590, sarebbero stati eletti prima Gregorio XIV, che regnò soli dieci mesi, e poi Innocenzo IX, il cui papato durò anche meno, perché morì il 30 dicembre del 1591. Dal terzo conclave del biennio 1590-91 sarebbe uscito papa Clemente VIII Aldobrandini, sotto il quale sarebbe stata proseguita l’attività di polizia. Clemente infatti avrebbe ordinato la chiusura della frontiera con Napoli mandando truppe, guidate da Giovan Francesco Aldobrandini, a estirpare il brigantaggio negli Stati della Chiesa, il cui capo più pericoloso era Marco Sciarra. Braccato da Napoletani e Pontifici, si sarebbe salvato con 500 dei suoi, imbarcandosi su due galere venete, perché chiamato a Venezia per combattere contro gli Uscocchi: ma non sarebbe sfuggito al tradimento di 13 suoi compagni i quali, corrotti dall’Aldobrandini, l’avrebbero ucciso di lì a poco. Si sarebbe trattato comunque di una sorta di resipiscenza, succeduta alla morte di Sisto V, la cui energica e dura politica aveva in pratica fatto scomparire il banditismo dagli Stati Pontifici entro il 1587
IV) Le riforme di Sisto V Marchigiano duro, intelligente, astuto e alieno dai compromessi, Sisto V, appena eletto, aveva seccamente detto ai cardinali Bonelli e Rusticucci: “non vi pigliate alcuna briga, perché Noi ancora sappiamo commandare, bisognando.”XL
44 Secondo alcune voci, Stukely sarebbe stato ucciso da una cannonata all’inizio dello scontro; secondo altre, quando fu
evidente che la battaglia era persa e sarebbe finita in un massacro, sarebbe stato ucciso dai suoi soldati italiani, infuriati per la situazione in cui li aveva cacciati. Nessuna delle due versioni è confermata né confermabile. 45 Secondo alcuni cronisti, il massacro, fatto da uomini al comando di Walter Raleigh, prese due giorni, perché i prigionieri furono decapitati in un luogo poi chiamato Gort a Ghearradh (il Campo del taglio o della decapitazione). I corpi furono gettati in mare, le teste sepolte a parte, in un campo che da allora si chiamò Gort na gCeann (il Campo delle Teste). Dopo il ritorno dell’Irlanda all’Indipendenza vi fu eretto un monumento alla memoria “of the friends and allies of Ireland who died in the cause of helping the Irish resist English conquest” – degli amici e alleati d’Irlanda che morirono per la causa del soccorso agli Irlandesi a resistere alla conquista inglese. Ultima notazione: nel 1603, all’avvento degli Stuart, Raleigh fu arrestato e sottoposto a una serie di processi. Tra le varie imputazioni, ci fu quella del massacro dei prigionieri pontifici. Se ne difese dicendo che aveva solo obbedito a degli ordini, una linea di difesa poi seguita da moltissimi altri imputati, non ultimi quelli del processo di Norimberga. Raleigh fu condannato a morte e, nonostante una sospensione di due anni della sentenza per consentirgli di cercare l’Eldorado, fu decapitato nel 1618.
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Lo dimostrò in vari modi, fra i quali riorganizzando l’ordinamento pontificio in una maniera che sarebbe rimasta valida con minimi aggiustamenti per i seguenti cinquecento anni. Col breve Romanus Pontifex del 17 maggio 1586, dopo appena un anno dalla sua elezione, aveva già aggiunto a quelli esistenti un nuovo organo permanente per gli affari del clero regolare; ma fu la sua costituzione Immensa Aeterni Dei del 22 gennaio 1586 che diede vita a quindici congregazioni, tra cui alcune già esistenti che vennero riorganizzate, assegnando regole precise di funzionamento, “singulique certa negocia” – “e ad ognuna certi precisi affari.” Alcune dovevano occuparsi di materie ecclesiastiche, altre di affari temporali, civili, politici o militari che fossero. Le quindici congregazioni, tutte presiedute da un cardinale, furono quelle dell’Inquisizione; della Segnatura di grazia; dell’Erezione delle chiese e dei provvedimenti concistoriali; dell’Abbondanza dello Stato Ecclesiastico; dei Riti e delle Cerimonie; Navale; dell’Indice dei libri proibiti; del Concilio di Trento; per sollevare dagli aggravi lo Stato Ecclesiastico; dell’Università degli studi di Roma; dei Regolari, dei Vescovi e degli altri Prelati; delle strade; dei ponti e delle acque; della stamperia vaticana e, ultima, la Congregazione della Consulta di Stato. Tutte dovevano lavorare riferendo al Papa, sola, ultima e suprema istanza decisionale. La politica, estera e interna, religiosa e laica, sarebbe stata portata avanti da lui attraverso la Segreteria di Stato, alla quale era preposto un altro cardinale. La Reverenda Camera Apostolica avrebbe fornito il denaro, raccolto dalle imposte dirette e indirette. A latere, il Papa poteva creare delle cosiddette Congregazioni particolari, formate da almeno tre cardinali nominati di volta in volta e incaricate di studiare una questione di qualsiasi genere, religiosa, amministrativa, politica, economica, per sottoporgliene entro breve tempo le proposte di soluzione. Se ne fece largo uso, specie per le decisioni politiche e militari e soprattutto nel Settecento. Alcune congregazioni permanenti furono sciolte nei secoli seguenti, altre furono create, qualcuna cambiò nome. Quelle che ci interessano qui sono poche: la Congregazione navale, in primo luogo e poi, indirettamente per la loro valenza logistica, quelle dell’abbondanza dello Stato Ecclesiastico e delle strade, e dei ponti e delle acque. La Congregatio sexta pro classe paranda et servanda ad Status Ecclesiastici defensionem – sesta Congregazione per la preparazione ed il mantenimento della flotta militare per la difesa dello Stato Ecclesiastico – era composta da cinque cardinali ed era stata concepita come reazione alla pirateria, specialmente mussulmana, che imperversava contro le coste dello Stato Pontificio. Le più colpite erano le tirreniche, perché in Adriatico, vuoi per la presenza della Guardia in Golfo veneziana, vuoi per gli accordi esistenti fra Venezia e il Sultano, di pirati ce n’erano meno. Sisto V dispose l’armamento di dieci galere “ut littora quoque et orae maritimae ditionis nostrae superi inferique maris, a piratis ac praedonibus, quantum fieri potest, tutae sint”XLI – “affinché i litorali e le spiagge marittime di nostra appartenenza del mare superiore e inferiore dai pirati e dai predoni, per quanto si può fare, siano protette.” Oltre alla costruzione delle navi, la Congregazione doveva occuparsi della scelta e dell’arruolamento degli ufficiali, dei marinai e delle cariche di bordo – i medici, i cappellani, gli scrivani e i vari mastri bottai, falegnami e velai non erano militari – provvedendo alle loro necessità materiali e spirituali, perché ricordassero sempre d’essere veri cristiani e sudditi pontifici. Le spese per la flotta 46 erano fissate dalla costituzione In quantas, del 23 gennaio 1588, in 102.500 scudi romani all’anno,47 da prelevare grazie alle 46 Fino a quel momento le spese per la marina erano alimentate dalla “gabella per le galere” istituita da Innocenzo VIII nel
1486, cfr. ASR, Soldatesche e galere, miscellanea, busta 646. 47 Il Bullarium però riporta accanto al titolo Sexta Congregatio etc, una nota del curatore, Luigi Tomassetti, che, a piè di pagina, dice: “Subsidium annuum scutorum ducentum millium et quingentorum paravit et dedit hic pontifex pro manutentione paratae classis decem triremium sed eius bulla tamquam minus necessariam duxi praetermittendam” – un sussidio annuo di scudi duecentomila e cinquecento preparò e diede questo pontefice per il mantenimento della flotta preparata di dieci triremi ma la sua bolla giudicai di omettere in quanto meno necessaria; e infatti la bolla In quantas, del giorno seguente, nel Bullarium
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nuove imposte stabilite a carico di tutte le province e gravanti in particolare sul sale. Una parte delle attività militari marittime rientrava fra le competenze della Reverenda Camera Apostolica, la quale, occupandosi della gestione del denaro, sovrintendeva ai commissariati del mare e delle Armi. Da quest’ultimo dipendevano le forze di terra, che in futuro sarebbero confluite in una congregazione delle Armi e infine in un Ministero delle Armi. In realtà le forze di terra sarebbero state al comando del Capitano Generale di Santa Romana Chiesa, che veniva nominato in tempo di guerra, ma in tempo di pace erano talmente piccole – Sisto V le aveva ridotte a 500 uomini in totale – che in sostanza si limitavano alle guarnigioni dei castelli e delle 27 torri costiere.48 Oltre a queste, le forze terrestri esistenti erano quelle di polizia – dipendenti dal bargello in città e, fuori, dal bargello di campagna – e le milizie urbane, specie in Emilia. Come ulteriore complicazione, le truppe e le forze di polizia dipendevano dalle amministrazioni più varie, che andavano dal Prefetto dei Sacri Palazzi ai vari tribunali, al governatore di Castel Sant’Angelo. In caso di guerra, il sistema era quello solito del XVI secolo: si nominavano i capitani e si dava loro il compito di raccogliere le truppe e formare la compagnie. Sotto il profilo militare, la disgrazia degli Stati Pontifici in prospettiva fu proprio questa: di fatto, complice pure una crescente penuria di denaro, l’esercito papale restò sempre un esercito di contingenza, da arruolare quando se ne fosse presentato il caso. Se per la Guerra di Castro sostanzialmente funzionò non peggio di quelli nemici, lo si dové alla gran disponibilità di militari professionisti resi esperti dai combattimenti della Guerra dei Trent’Anni; ma quando, oltre sessant’anni dopo, nel 1708, il Papa si trovò in guerra coll’Imperatore, la mancanza d’esperienza rese le sue truppe incapaci di reggere l’urto di quelle imperiali, indurite da venticinque anni in guerra contro i Turchi e i Francesi. Lo stesso sarebbe accaduto novant’anni dopo, quando le truppe del Papa, raccolte alla meno peggio, si sarebbero dissolte davanti a quelle rivoluzionarie francesi, temprate da sette anni di guerra ininterrotta contro tutti gli eserciti d’Europa. Per il momento però il sistema funzionava – anche perché era quello usato da tutti – per cui non si vide alcuna necessità di innovazioni e, quando si andò di nuovo in guerra, le truppe papali non scapitarono troppo in confronto a quelle degli altri sovrani. Per quanto riguardava il servizio di polizia, Sisto lo fece dipendere prevalentemente dal governatore di Roma, la cui attività venne coadiuvata da una rete di 150 informatori nello Stato Ecclesiastico e non meno di altri cento nella sola Roma, sparsi in tutte le categorie e in tutte le classi, dalla nobiltà al popolino. Gli effetti non tardarono. Entro sei mesi dall’inizio del pontificato, l’Urbe era migliorata. Vennero ricontrollati tutti i processi degli ultimi cento anni e ci si rivalse sugli eredi dei rei. Le liste degli arrestati fioccavano sul tavolo di Sisto e si dice che egli esclamasse tutto soddisfatto: “O quante galere dovemo fare fabricare!”XLII cosa a cui peraltro non mancò di provvedere. Del resto non gli mancava il denaro. I suoi predecessori l’avevano lasciato con le casse vuote. Lui provvide a intimare il pagamento degli arretrati a tutti quelli che dovevano qualcosa all’erario. Entro due mesi dall’elezione aveva già ricevuto oltre 700.000 scudi romani. Alla fine del secondo anno di pontificato le uscite erano state ridotte a un terzo rispetto al passato, mentre le entrate medie erano salite a oltre 1.365.000 scudi romani, consentendogli di mettere un milione nella camera del tesoro in Castel Sant’Angelo, coll’espresso divieto di adoperarlo tranne in caso di crociata offensiva o difensiva, pestilenza, acquisizione di città, o per guerra in difesa dello Stato ecclesiastico. Nel terzo anno fece lo stesso. Su queste entrate la parte militare gravava poco. L’ammontare per le fortezze era al 14° posto nella lista in ordine di grandezza delle spese di tutto il bilancio pontificio; costavano fra tutte solo 4.826 scudi all’anno, più altri 3.000, calcolati però nella voce a parte “Per la provvisione delle Fortezze”, cioè complessivamente circa un terzo meno degli non c’è, per cui chi legge questa sola bolla non sa che l’importo per il mantenimento della flotta fissato dalla In quantas era di 100.500 scudi romani, poi elevati a 102.500, e non di 200.500 come erroneamente detto da Tomassetti. 48 Dipendevano dall’amministrazione pontificia 25 delle 27 torri, che nel secolo seguente sarebbero salite rispettivamente a 27 e 29. Per la lista cfr. infra, nota 53.
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11.600 scudi “Per il Governatore di Roma ed offiziali”, che erano al 13° posto, e circa il doppio della Cappella Pontificia, che ne assorbiva 3.340 ed occupava il 15° posto. L’ultima voce del bilancio in ordine di lista e non di grandezza, era quella “Per il Mantenimento delle Galere”, che costavano 48.500 scudi all’anno. Le truppe andavano sotto la voce “Per il Generalissimo”, secondo la prassi delle condotte rinascimentali, per cui al Generalissimo di Santa Romana Chiesa veniva pagata la somma complessiva di 9.000 scudi all’anno, con cui poi pensava al mantenimento delle truppe. La cifra era enorme, specie paragonandola al costo delle dotazioni delle fortezze o all’importo spettante al Papa, che non superava i 2.300 scudi all’anno; ma piuttosto bassa rispetto ad altre voci più ecclesiastiche del bilancio. In totale, a fronte di una spesa annua di circa 967.000 scudi romani, ai quali se ne potevano aggiungere altri 57.000 di spese straordinarie, per un totale di 1.024.000 scudi, la parte militare di terra e di mare non superava i 17.000, pari all’1,64% del bilancio: una cifra straordinariamente contenuta per l’epoca barocca. V) L’intervento pontificio in Francia e la guerra per il Marchesato di Saluzzo: 1589-1601 Vivente ancora Sisto V, le armi di Nostro Signore furono usate in Francia. Carlo Emanuele I di Savoia voleva proseguire la politica paterna d’espansione. Approfittando delle guerre tra Cattolici ed Ugonotti che in quel momento insanguinavano la Francia, decise di allargare i propri possedimenti d’oltralpe, riprendendo i feudi resisi autonomi e, magari, estendendosi in quello che un tempo era stato il Ducato di Borgogna. Nel 1582 fece un tentativo contro Ginevra, antico possedimento di Casa Savoia, ora autonoma per motivi religiosi, visto che là era la culla del Calvinismo. Le operazioni rallentarono, subirono alti e bassi e in definitiva sarebbero anche riuscite se Carlo Emanuele non avesse intravisto, o creduto d’intravedere, una possibilità d’espansione in Provenza appoggiandovi la fazione cattolica contro i Protestanti. Armato un secondo esercito nel maggio del 1588 lo fece marciare contro Saluzzo e oltralpe contro gli Ugonotti e in aiuto ai Cattolici, ma a detrimento sicuro dell’impresa di Ginevra. Il Marchesato fu preso tutto nel giro di due mesi e le operazioni in Francia andarono così bene che numerose ambasciate cominciarono a venire a Torino: da Marsiglia, dalla Provenza, dalla città d’Aix-en-Provence, tutte desiderose d’aiuto e tutte desiderose di darglisi in mano, almeno così dicevano. La faccenda cresceva. Già Carlo Emanuele non si contentava più della sola Provenza ed aspirava a prendersi pure il Delfinato; e l’impresa di Ginevra era sempre più dimenticata. Convinto di riuscire, il Duca s’impegnò a corpo morto nell’impresa e con parecchie truppe a sostegno della Lega Cattolica si diresse ad Aix, dove venne riconosciuto Capo delle Armi e del Governo civile della Provincia. Nel 1589 Enrico III di Francia morì e si riaprì la contesa per la corona. Tra i candidati era anche Carlo Emanuele I, ma il più favorito era il protestante re di Navarra Enrico di Borbone, contro la cui investitura la Spagna stava premendo diplomaticamente sul Papa. Infatti, se la Chiesa avesse continuato ad appoggiare la Lega Cattolica, la Francia sarebbe rimasta preda delle guerre civili e la Spagna avrebbe trionfato della sua ultima avversaria. Ma l’ambasciatore spagnolo commise l’errore di dire al Papa cosa dovesse fare; e il papa era ancora – e per l’ultimo anno – Sisto V, tanto duro “che non la perdonò nemmeno a Cristo” come dicevano di lui i Romani. Sisto s’irritò moltissimo per l’interferenza di Madrid negli affari della Chiesa; e se la prese ancora di più quando gli fu ricordato dall’ambasciatore che 1.500 spagnoli erano sul confine pontificio. La sua risposta fu netta: arruolò truppe e ordinò la stesura d’un breve di scomunica per il Re di Spagna. Allora Filippo tentò un’altra strada, quella dell’ortodossia. Come poteva il Santo Padre non combattere contro l’insediamento del protestante Enrico di Borbone sul trono della cattolica Francia? Non era più giusto allearsi al suo dilettissimo figlio il Re Cattolico di Spagna, mettere in campo un esercito di 45.000 fanti – 25.000 pontifici e 20.000 delle corone asburgiche – al quale la Spagna avrebbe aggiunto 3.000 85
cavalieri, porre il tutto al comando del Duca d’Urbino e andare a soccorrere i Cattolici francesi della Lega? Sisto tentennò e si consigliò coll’ambasciatore veneziano, il quale lo scongiurò di non aderire. Se crollava la Francia era la fine dell’indipendenza della Chiesa e di Venezia. La morte troncò le meditazioni di Sisto V e passò il problema ai suoi successori Urbano VII, che regnò solo dodici giorni, e Gregorio XIV, il quale ultimo era un acceso filospagnolo. Per questo decise di spedire in aiuto alla Lega un corpo di spedizione di 6.000 fanti svizzeri e 2.000 tra moschettieri e cavalleggeri italiani, comandato dal proprio nipote Ercole Sfondrato, appena fatto duca di Montemarciano. XLIII La notizia rallegrò anche Carlo Emanuele. Infatti nel Delfinato s’era trovato addosso tre eserciti nemici, che l’avevano impegnato duramente. Oltretutto i Francesi avevano eseguito alcune incursioni in Piemonte occupandovi qualche cittadina e quindi la notizia che i Pontifici avrebbero per prima cosa espulso i Francesi dal Piemonte non poteva che essergli gradita. Comunque Marsiglia era nelle sue mani e veniva retta da un suo console. Ora, nel corso del 1591, battuti i Ginevrini fattisi avanti dopo un anno di scaramucce e lasciato il comando in Francia al conte Martinengo Colleoni, Carlo Emanuele andò a Madrid a conferire personalmente col Re, prospettandogli le linee d’operazione che riteneva opportune e ottenendone altre truppe che portò con sé per mare verso la Provenza, dove intanto Martinengo aveva conquistato parecchie località ed aveva posto l’assedio a Berre senza riuscire a vincerla, cosa che accadde quando arrivò Carlo Emanuele con 15 compagnie di soldati spagnoli. E qui cominciarono i guai, perché il Duca aveva promesso di dare la città al signor de Crequì; e non mantenne la parola. Le popolazioni della zona di Marsiglia vennero fomentate contro di lui e, considerando i sospetti nutriti nei suoi confronti dalla Lega e dal re Enrico, la sua popolarità scese al minimo e da allora in poi condizionò pesantemente l’andamento delle operazioni. Enrico di Borbone ne approfittò per riallacciare i contatti coi signori della Lega nella Francia Meridionale con tanto successo da far scoppiare a Marsiglia una sommossa contro il Duca e gli Spagnoli. Contemporaneamente Martinengo fu battuto a Vinon e i Francesi assediarono e ripresero Grenoble, passando poi a sbloccare il forte di Monresteil. Costruito dai Francesi per controbilanciare la fortezza sabauda di Montmélian, era stato subito assediato da un contingente misto ducale e pontificio. Le operazioni procedevano bene, l’artiglieria lo batteva pesantemente ed il forte era sul punto di cadere quando arrivarono le truppe del signor de Lesdiguières e attaccarono gli assedianti fissandone il fronte. Mentre i Sabaudi tenevano la linea, un’aliquota di fanteria li prese sul dal lato delle montagne e, davanti all’assalto improvviso, lo schieramento dei sabaudo-pontifici cedé. Si ritirarono frettolosamente e si riordinarono nella retrostante pianura di Pontcharré, facendo fronte, ma la carica dei Francesi fu tanto impetuosa da scompigliarli di nuovo e metterli in fuga fino a Montmélian, facendo lasciar loro sul terreno 1.500 tra morti e feriti, 18 bandiere, due cornette di cavalleria e la maggior parte dei carriaggi. Subito dopo, a complicare maggiormente le cose, la Lega chiese alle truppe pontificie e spagnole di accorrere in Lorena per impedire l’afflusso dei rinforzi protestanti tedeschi in aiuto a Enrico di Borbone. Rimasti soli, i Sabaudi non poterono reggere e la guerra si spostò nella Savoia, La guerra intanto pendeva sempre più a favore di Enrico di Borbone su tutti i fronti e si avviò alla conclusione quando si raggiunse segretamente un accordo fra lui e il nuovo papa Clemente VIII per la sua conversione al Cattolicesimo, mentre i Francesi continuavano a combattere. “Parigi val bene una messa!” si dice abbia esclamato Enrico accettando la conversione, dimostrandosi ottimo politico e pessimo Cristiano, sia come riformato, sia come cattolico, e il 25 luglio 1593 domandò pubblicamente e solennemente all’Arcivescovo di Bourges d’essere ricevuto nella Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Fu accettato, ovviamente, anche se il Papa rimase in dubbio. Le forti pressioni della Spagna vennero però bilanciate dal fermo sostegno di Venezia e di Firenze e, il 16 settembre 1595 in San Pietro Clemente VIII accolse la richiesta del Re di Francia, assolvendolo da ogni precedente censura ecclesiastica ed accogliendolo nelle file della Chiesa militante. L’ostacolo principale al ristabilimento della pace e 86
dell’unità della Francia era stato rimosso e cominciava il cinquantennio che avrebbe marcato un declino della Spagna. Militarmente parlando, la spedizione in Francia era stata un pasticcio. Le truppe pontificie ne erano uscite con una fama assai scadente, date le non buone prove fornite. L’intera operazione era costata l’enorme cifra d’un milione di scudi e, per di più, non era servita a nulla. Enrico di Borbone infatti si era convertito non per paura delle armi del Papa, passate subito dopo l’elezione di Clemente VIII al comando prima di Appio Conti e poi, alla sua morte per mano d’un ufficiale tedesco nel 1593, a quello di Rodolfo Baglioni49 nello stesso anno, ma per estinguere l’opposizione interna, cingere la corona e compattare la Francia in vista di uno scontro con la Spagna. E poiché il Papa si era alleato militarmente proprio alla Spagna, dal punto di vista della politica ecclesiastica, la spedizione era stata quanto di più lesivo agli interessi della Chiesa si potesse fare e, se non era successo nulla, lo si doveva solo alla pragmaticità di Enrico IV, al complessivamente ridotto apporto bellico dato dalle truppe papali e alla posizione del Pontefice comunque considerata al di sopra delle due parti francese e spagnola. Per questo motivo le truppe della Santa Sede furono scelte per garantire la sicurezza degli Stati Generali di Francia del 1593. Cinque anni dopo, nel 1598, morì il duca di Ferrara Alfonso, lasciando il trono per testamento a Cesare d’Este, da lui stesso diseredato in precedenza. Il Papa impugnò il testamento e, per maggior sicurezza, anche la spada e la penna. Colla prima raccolse 25.000 uomini, spergiurando che ne avrebbe assoldati ancora altrettanti per prendere la città. Colla seconda scrisse una scomunica contro Cesare d’Este, lasciandogli quindici giorni di tempo per sgomberare. Minacciato di morte temporale e spirituale, Cesare si piegò all’accomodamento: Ferrara sarebbe passata direttamente al dominio pontificio e lui sarebbe divenuto duca di Modena e di Reggio, conservando tutti i beni allodiali della sua Casa negli Stati Ferraresi e Pontifici. Contemporaneamente si seppe che Spagna e Francia avevano convenuto a Vervins di fare la pace durante dei negoziati svolti sotto la supervisione del Legato pontificio. Il nodo che non si riusciva a sciogliere riguardava il possesso di Saluzzo, conteso fra Piemonte e Francia. Si decise per l’arbitrato pontificio, ma prima che il Papa potesse pronunciarsi, avendo saputo che l’avrebbe fatto in favore della Francia, Carlo Emanuele I scese in campo e scatenò un’altra guerra, alla fine della quale, colla mediazione pontificia, si arrivò a concludere la pace a Lione il 17 gennaio 1601, stabilendo l’acquisizione sabauda del Marchesato di Saluzzo contro la cessione alla Francia di Bresse, Gex e Bugey, portando il confine al Rodano, salvo il diritto di passaggio dei Piemontesi sul ponte di Grezin, cioè verso la spagnola Franca Contea, dietro pagamento d’un pedaggio di 100.000 scudi. Madrid esultava perché la Francia era stata esclusa dall’Italia e gli Italiani brontolavano perché si sentivano in preda alla Spagna. VI) La campagne d’Ungheria del 1595 al 1601 Intanto la pressione ottomana sugli Asburgo d’Austria aumentava continuamente per quella che fu poi nota come die Lange Turkenkrieg – la Lunga Guerra Turca – e l’Imperatore si rivolse ai Principi cristiani per aiuto. Il Papa non poteva esimersi dall’inviare truppe e denaro e, nel 1595, mandò dall’Italia un contingente di circa 14.000 tra fanti e cavalieri. Partirono cinque Terzi di fanteria, per un totale di 50 compagnie di 200 uomini l’una, tre compagnie di cavalleria albanesi di 101 uomini, cinque di archibugieri e una di lance di 61 effettivi. Nello Stato di Milano vennero arruolate ancora 15 compagnie di fanteria formanti un sesto Terzo e altre quattro si unirono al contingente come distaccamento autonomo. Lo Stato Maggiore e i servizi impiegavano altri 100 uomini. Impiegate subito in prima linea, le truppe pontificie si distinsero nelle prese di Strigonia e di Visegrad. Lo scadente e scarso vitto e le malattie costarono salute e vita a molti soldati e incoraggiarono le diserzioni, 49 Fu nominato luogotenente generale di Santa Chiesa con uno stipendio di 300 scudi d’oro al mese.
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cosicché nel corso dell’estate, tra morti di febbri50 o in battaglia e disertori, gli effettivi calarono paurosamente. In novembre erano rimasti sotto le bandiere papali solo 3.000 uomini, dei quali il 90% era ammalato. Nel gennaio del 1596 il contingente non era più impiegabile e fu stabilito il suo rientro in Italia. Vi giunse in febbraio, giusto in tempo per far guarire il comandante, Gianfrancesco Aldobrandini, nipote del Papa, caduto anch’egli malato. Era stato un costoso disastro, visto che l’intero ciclo operativo, durato solo sei mesi – dal 5 luglio 1595 all’8 gennaio 1596 – aveva gravato per 600.274 scudi romani sulla Reverenda Camera Apostolica. XLIV Ma la necessità di mostrar bandiera nella lotta contro gli Infedeli, tanto più impellente in quanto si trattava di quella del Vicario di Cristo, avrebbe portato a una seconda spedizione di lì a sei anni con un esito altrettanto disastroso. Alla fine della campagna del 1600 la situazione delle armi cristiane in Ungheria era talmente grave che Clemente VIII, ripetutamente sollecitato dall’Imperatore Rodolfo III d’Asburgo e temendo che i Turchi potessero raggiungere l’Italia nord-orientale, decise di soccorrere nuovamente gli Austriaci. Così, al principio del 1601, riaffidato il comando a Gian Francesco Aldobrandini, un secondo corpo di spedizione si apprestò a seguire le orme di quello partito sei anni prima verso l’Ungheria. I capitani si impegnarono ad avere le compagnie pronte per il 10 giugno e ricevettero in anticipo il denaro per le armi e le vesti dei soldati. La maggior parte della truppa fu arruolata nei dintorni d’Ancona, il resto prevalentemente intorno a Roma, perché il Papa voleva solo italiani, tanto che respinse 300 volontari francesi. L’esercito era molto indisciplinato. L’aliquota arruolata a Roma commise parecchi furti e danni ancor prima di partire per le Marche e vide giustiziare alcuni dei colpevoli. Fu accompagnata da parecchi convogli di muli che portavano le munizioni per tutta la campagna e, risalendo per la via Flaminia, arrivò ad Ancona, dove trovò il resto delle truppe. I circa 9.000 Pontifici51 seguirono due diversi itinerari: la quasi totalità s’imbarcò in Ancona alla volta di Fiume e da là proseguì per Zagabria, dove si congiunse a una piccola aliquota, condotta da Aldobrandini via terra per il Trentino e Graz. Il 4 di settembre 1601 incominciò l’assedio di Canissa e le malattie ripresero a colpire. Aldobrandini cadde infermo, fu sostituito dal tenente generale pontificio Flaminio Delfini, e il 21 settembre morì a Varadino. Al comando di Delfini, i Pontifici parteciparono all’assedio e al non vittorioso assalto del 28 ottobre, in cui si comportarono molto bene, ma lasciarono sul terreno 100 morti. Come nella precedente campagna, l’arrivo dell’autunno segnò l’inizio del freddo e delle malattie, che mieterono numerosissime vittime nel campo cristiano. Il contingente papale ne risentì pesantemente. Privo di tende, che aveva avuto in piccolo numero dagli Imperiali, cominciò ad avere parecchi morti per assideramento, toccando la punta peggiore nella notte del 14 novembre: alla mattina del 15 si contarono oltre 1.400 cadaveri dovuti al freddo. Gli Imperiali non stavano meglio. Tenuto consiglio di guerra nella seconda quindicina di novembre, 50 Le cronache e gli studi posteriori, fra i quali quello tutt’ora insuperato di Andrea DA MOSTO, Milizie dello Stato romano
1600-1797, parlano genericamente di febbri dovute all’aria e ai miasmi. Quasi sicuramente si trattò di malaria. Infatti all’epoca la pianura ungherese era traforata da sorgenti e solcata da moltissimi piccoli corsi d’acqua, la maggior parte dei quali creava paludi e marcite. Solo nel XIX secolo le bonifiche avrebbero migliorato la situazione. Colgo l’occasione per sottolineare che, se definisco insuperata l’opera di Andrea da Mosto è perché lui sapeva a cosa serviva e come si usava un esercito e non si perdeva in quelle fuorvianti quanto inutili divagazioni a carattere sociale a cui si sono dedicati alcuni autori nell’ultimo quarto del XX secolo e nel primo del XXI, i quali sembrano convinti che quella delle armi fosse una professione come tante altre e vada perciò studiata come lo potrebbe essere la carriera diplomatica o di corte, senza capire che la funzione principale dell’esercito era ed è di fare la guerra, quella dei militari di prepararsi a combatterla e vincerla e che questi soli sono i parametri di valutazione d’una forza armata che la storia militare deve seguire. Mancando questa comprensione, al lavoro manca qualsiasi validità e tutto ciò che si ottiene, come scrisse il maresciallo di Tessé delle proposte di Vittorio Amedeo II, sono “dei bei niente ben scritti”, che però distorcono la realtà così come emerge dai documenti del tempo. 51 Secondo la rassegna passata loro a Zagabria dal Commissario Generale Pontificio, erano 9.150 uomini, cioè: 8.906 fanti su 49 compagnie, 107 archibugieri a cavallo e 137 tra bombardieri, alabardieri, addetti ai comandi ed ai servizi.
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l’arciduca Ferdinando decise di levare l’assedio e ritirarsi nei quartieri d’inverno. La mancanza di quadrupedi e carriaggi obbligò gli Imperiali ad abbandonare le artiglierie, le tende e, cosa peggiore di tutte, ben 800 tra feriti ed ammalati. Ma la ritirata si trasformò in rotta perché i Turchi uscirono in forze all’inseguimento dei Cristiani, causando loro molte perdite e mettendo in fuga l’intera retroguardia. Nel disastro il commissario generale monsignor Giacomo Serra perse tutti i documenti e la cassa militare contenente 40.000 talleri L’arrivo ai quartieri d’inverno precedé di poco l’ordine di rientro a Roma, giunto alla fine dell’anno. Ancora una volta l’Ungheria aveva chiesto un tributo altissimo: il 75% degli effettivi papali. Poterono ritornare in Italia, in pessime condizioni, solo 2.000 uomini ed ancora meno a Roma.
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Capitolo VIII Le armi pontificie del Seicento
Le forze di terra pontificie risentirono parecchio delle spedizioni in Francia e in Ungheria, ma come, al solito, bisogna fare attenzione e distinguere fra truppe del Papa in senso stretto e milizie locali, perché le prime, pagate dalla Reverenda Camera Apostolica, 52 in linea di massima e fino alla metà del Seicento, più o meno sapevano il mestiere; le altre, che spesso si trovavano ad assolvere i compiti difensivi locali, invece no. Per altro, le prime erano regolarmente assottigliate dalle spedizioni, le seconde invece non uscivano dal contado o, al più, dal territorio d’origine. Quando, ad esempio, nel 1603 Mario Farnese venne nominato Generale dell’Armi di Ferrara, Bologna e Romagna, cioè di tutte le Legazioni, la prima cosa che fece fu una ripassata a tutti gli ufficiali – accolta assai bene dal Papa, che giudicava che la situazione ne abbisognasse – seguita dal congedo di tutti i soldati fisicamente inabili. Questi però erano i soldati del Papa, ma nelle città c’erano quelli di milizia. In particolare a Bologna ne esistevano una ventina di compagnie a piedi e tre a cavallo, comandate da ufficiali locali. Apparentemente le milizie erano in ordine, nella realtà spesso no. Quelle di Bologna, al tempo della nomina di Mario Farnese, sarebbero state le truppe da usare per rinforzare Ferrara in caso d’attacco e per fornire la massa di manovra a tutta l’Emilia pontificia; ma, come lo stesso Farnese avrebbe rilevato, le rassegne venivano fatte ogni tre o quattro anni, per cui i ruoli non erano aggiornati e non si sapeva quanti degli iscritti ci fossero veramente. Gli ufficiali erano inesperti, i militi pure, il valore complessivo della milizia assai scadente, i tempi di mobilitazione lunghissimi e basso il numero dei militi che rispondevano alla chiamata: fatta una prova, in dieci giorni se ne radunarono appena 400. Vista la situazione, Mario Farnese, che si era fatto le ossa sotto suo zio nell’esercito spagnolo in Fiandra, operò in fretta e con tale energia che in pochissimo tempo fu in grado di mobilitare 3.000 militi bolognesi in 24 ore in caso d’emergenza, anche se alla morte di papa Clemente, per paura di disordini, ne poté avere solo 1.500 in 36 ore. Per quanto riguardava la Marina Pontificia, nel 1611, con una squadra di cinque galere, erano in servizio nei mesi estivi cinque capitani con dieci servitori, dieci “nobili di poppa”, cinque cappellani, 62 tra ufficiali e sottufficiali di manovra, 44 timonieri, 11 bombardieri e 123 marinai di varie classi, per un totale di oltre 270 persone che, nel periodo del disarmo invernale delle galere, lo “sciverno”, si riducevano a 180, cui si dovevano, aggiungere circa 1.400 rematori tra buonevoglie, forzati e schiavi. C’era inoltre da tener presente che ogni anno si imbarcavano 340 soldati e il tutto, per le ridotte dimensioni della Civitavecchia d’allora, incrementava molto sia la popolazione, sia i consumi. 52 Premesso che uno Scudo pontificio si divideva in 10 Giuli, ognuno di 10 Bajocchi, (solitamente abbreviato in “baj.”)
e che gli stipendi si pagavano di solito il 20 del mese, nel 1618, mensilmente un Capitano di fanteria prendeva 50 scudi, il Capitano dei Bombardieri di Castel Sant’Angelo 26, un Alfiere o Luogotenente di fanteria 20, un Sergente di fanteria 10, un Armaiolo di Castel Sant’Angelo 7,50, un Bombardiere di Castel Sant’Angelo 7,00; un Caporale di fanteria 6, un tamburino 5, un moschettiere 4,20 (cioè 42 giulii), un archibugiere o un picchiere 3,80 (38 giulii), un portainsegne 3 scudi, come un paggio di un capitano, pure lui a 3 scudi. In caso d’imbarco sulle galere per la consueta campagna estiva contro i pirati, le paghe aumentavano di circa il 15% per tutti i gradi. Alcuni castellani, come quelli di Perugia e della Rocca Pia di Ascoli, percepivano una paga più alta di quella dei capitani, rispettivamente 1.788 scudi all’anno il primo, 300 il secondo, perché includeva quella dei soldati che erano obbligati a tenere, che nella Rocca Pia erano previsti al minimo in tre. Infine il bargello di Roma prendeva 655 scudi al mese, da cui defalcava le paghe dei birri, L’amministrazione militare passava i cannoni e le loro dotazioni, le armi personali, gli elmi e le corazze, la polvere, le munizioni, le fiaschette da polvere, le rastrelliere, i cappotti per le sentinelle, i tamburi, i letti – composti da banchi, tavole da letto, di solito due per ogni soldato e tre per ogni ufficiale – le coperte a due o a tre teli e i pagliericci. Il resto, a quanto si capisce, dovevano pagarselo i militari; cfr. GRILLO, Giulio Cesare, Relazione sulle fortificazioni litoranee dello Stato Ecclesiastico (1618-1624), (a cura di Fabrizio M. Apolloni Ghetti), Roma, Arti Grafiche Pedanesi, 1979, pagg. 90-94.
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L’attività restava quella solita di controllo delle coste e contrasto della pirateria, cosa non facile dato lo scarso numero di navi a diposizione e la lunghezza dei litorali. In questo la squadra sarebbe stata coadiuvata dalle torri costiere e dal loro piccolo presidio. Il condizionale è d’obbligo perché, vale la pena di ripeterlo, si verificarono casi di torrieri che lasciarono avvicinare e agire indisturbati i pirati in pieno giorno letteralmente fino sotto la torre, senza alcuna reazione. Ad ogni modo la costa tirrenica era ora presidiata da 29 torri,53 un forte – quello del Pesco Montano – e dalle sette fortezze di Terracina, Nettuno, Ostia, Palo, Santa Severa, Santa Marinella e Civitavecchia, mentre quella adriatica, grazie al pattugliamento veneziano che teneva lontani i pirati, praticamente non aveva torri ed era guardata dalle fortezze delle città portuali. Ogni torre aveva adesso un presidio d’un castellano e uno o due soldati, per un totale di non più di 75 torrieri con una quarantina di pezzi d’artiglieria e una media di 20 palle a pezzo, senza contare mortaretti, archibugi, moschetti e relative munizioni e dotazioni. Le fortezze non erano molto più guarnite, visto che Nettuno aveva otto uomini e il castellano. A Civitavecchia, base della squadra, le cose andavano un po’ meglio: 150 uomini fissi, rinforzabili da altri 60 in caso di bisogno, più una squadra di otto cavalieri battispiaggia, i quali prestavano servizio nel periodo non di sciverno, perciò dalla tarda primavera a metà autunno, prendendo sei scudi al mese, per un totale di 300 scudi all’anno, pagati dalle comunità54 del Patrimonio di San Pietro.XLV E’ chiaro che un simile dispositivo bastava solo ad evitare piccoli danni, difficilmente a respingere un’incursione, perciò l’unica attività di contrasto davvero efficace era quella navale. Il pattugliamento però dava pochi risultati, il maggiore dei quali fu lo scontro del 2 ottobre 1624, quando la squadra pontificia, unita a quelle di Napoli e di Toscana per un totale di 15 galere, attaccò il pirata Assan Agà, che da molto tempo scorreva il litorale tirrenico e vinse, al prezzo di 60 morti e 200 feriti. Nel corso del Secolo XVII le forze armate papali assunsero un assetto che mantennero nel secolo seguente e che cercarono di riprendere nell’Ottocento, dimostrando la refrattarietà della Santa Sede ad ogni cambiamento, non per reazione, ma perché si era sempre fatto così. Fino al 1692 al vertice dell’organizzazione militare continuò ad esserci il Capitano Generale, o Generale di Santa Chiesa, o anche Capitano Generale di Santa Chiesa. Quasi sempre un parente del Papa regnante, era nominato con un breve pontificio, come del resto gli altri generali ed era scelto fra i parenti sia per dotare la famiglia di potere ed entrate, sia per garantire al Pontefice il controllo delle forze armate. Gli spettava l’appellativo di Eccellentissimo, come pure al tenente generale, e nominava tutti gli ufficiali non generali. Aveva pieni poteri sui soldati, che, senza il suo permesso, non potevano essere incarcerati. Sotto di lui esistevano i gradi di tenente generale, mastro di campo generale e sergente maggiore generale di battaglia, molto approssimativamente corrispondenti a ciò che poi sarebbero stati il sottocapo di stato maggiore dell’esercito, il generale di divisione e il generale di brigata. Quando il grado di capitano generale fu soppresso, nel 1692, rimasero gli altri, tutti sottoposti amministrativamente ai monsignori di camera, commissari delle armi, commissari del mare o tesorieri, a seconda della forza d’appartenenza e dei periodi. 53 Da sud a nord erano le torri: dell’Epitaffio (così chiamata dall’Epitaffio sull’arco al confine fra Stato Pontificio e Regno di
Napoli, allora all’odierno km 109,500 della via Appia), di San Leonardo, Gregoriana o “del pesce”, di Badino, Olevola, Santa Felice (cioè San Felice Circeo), del Fico, Moresca, Falconara, Paola, di Fogliano, Cervia, Astura, borgo fortificato di Nettuno (distante dal castello “un tiro d’archibuso”), d’Anzio, Caldara o delle Caldare, di San Lorenzo, del Vaianico, del Paterno, di San Michele, di Fiumicino (che dovrebbe essere la Torre Nicolina o Torraccia dello Sbirro), di Maccarese, Perla o di Palidoro, Flavia, del Capo Lonaro, del Marangone, di Valdaliga, Bertalda o di Sant’Agostino, di Corneto. 54 Le comunità del Patrimonio di San Pietro tenute al pagamento erano Acquapendente, Bagnarea (poi Bagnorea e dal 1922 Bagnoregio), Bagnaia, Bassano, Bieda (dal 1952 Blera), Bolzeno (Bolsena), Corneto (dal 1922 Tarquinia), Civitavecchia, Civita Castellana, Capranica, Celleno, Lugnano, Montefiascone, Mognano (Mugnano in Teverina), Nepi, Sutri, Toscanella (dal 1911 Tuscania) , San Lorenzo (l’antico San Lorenzo alle Grotte, i cui abitanti nel 1779 furono spostati nell’appositamente costruito e più salubre San Lorenzo Nuovo), Tolfa, Vetralla e Viterbo.
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Al Capitano Generale spettava un gruppo di aiutanti di numero variabile e di grado non superiore a quello di capitano, uno o più medici, chirurghi e cappellani, un furiere, un portastendardo generale, vari corrieri, trombettieri, una compagnia di guardia comandata da un capitano e, a volte una di guide – cioè di esploratori – e piedi e a cavallo. Al disopra del generale di Santa Chiesa stava di solito un legato, almeno vescovo, spesso cardinale. L’abbiamo visto in particolare nelle guerre di Giulio II, l’ho menzionato in alcune delle successive. La sua funzione era in pratica di controllo politico, il che implicava sia l’approvazione o la definizione della strategia generale, possibilmente in accordo col generale di Santa Chiesa, sia le eventuali trattative cogli avversari sul posto, pur lasciando la decisione definitiva al Papa. L’esempio più evidente è quello del cardinale Alidosi, ma in certi casi, come quello di Francesco Borghese al tempo di Paolo V, il generale di Santa Chiesa era un cardinale, per cui di fatto assumeva i poteri del legato, lasciando la direzione delle operazioni al più capace luogotenente, come accadde, ad esempio, durante la guerra di Castro, quando Achille d’Etampes Valençay nominato luogotenente generale, condusse a meraviglia le operazioni che il cardinal Barberini s’era dimostrato incapace di fare ed ottenne per questo la porpora nel 1643. A latere, cioè a disposizione del generale di Santa Chiesa ma non alle sue dipendenze gerarchiche, stava un monsignore della Reverenda Camera Apostolica, colla qualifica di commissario generale e la direzione dell’Intendenza. A questa appartenevano un vicecommissario, il commissario ai viveri, quello delle armi e munizioni di guerra, il commissario dei foraggi, il collaterale, il pagatore, il rincontro o controllore dei conti, il computista e il provveditore. Nelle unità di base e minori esistevano solo collaterale e pagatore e a volte le due cariche erano riunite nella stessa persona. Il chierico di camera, il capitano generale, il tenente generale e altri due chierici di camera aggiunti formavano la Congregazione delle Armi. Quando nel 1692 la carica di capitano generale scomparve, Castel Sant’Angelo e le fortezze costiere vennero messe alle dipendenze di Monsignor Tesoriere o del Commissario del Mare – per cui divenne prassi corrente quella di passare i comandanti dalla flotta alla castellania di Castel Sant’Angelo, come accadde a Papirio Bussi – mentre i presidii di terra, tanto in città quanto nei forti e nei castelli, dipesero da monsignor Commissario delle Armi. L’esercito comprendeva fanteria, cavalleria, artiglieria, presidii e milizie. Benché esistessero i reggimenti, chiamati alla spagnola Terzi fino verso la fine del XVII Secolo, l’unità base fino alla fine del Seicento restò la compagnia, con un capitano comandante, un alfiere, alcuni sergenti, due o più tamburini, un cappellano e alcuni caporali capisquadra. I soldati di fanteria si dividevano in archibugieri, picchieri e moschettieri. Dopo il 1625 i primi sparirono; i secondi diminuirono progressivamente e gli altri diventarono tutti fucilieri. A partire dall’ultimo ventennio, apparvero i granatieri e con loro i tenenti, i quali, dapprima creati nelle sole compagnie di granatieri, passarono ad esistere pure nelle altre. La compagnia in guerra aveva una forza media di 200 uomini, che in pace scendevano tranquillamente alla metà. Dieci compagnie di fucilieri e due di granatieri formavano un reggimento. L’unità intermedia, il battaglione, c’era, ma solo di contingenza e in pratica era un gruppo tattico occasionale di più compagnie. Appariva e spariva, poteva essere comandato da un sergente generale come da un capitano, poteva avere una bandiera oppure no e solo al tempo della Rivoluzione Francese il battaglione sarebbe stato delineato sulla forza prestabilita di sei compagnie, formanti tre divisioni. Ogni reggimento in teoria era comandato da un mastro di campo, divenuto colonnello dopo la metà del XVII Secolo, mentre i presidii delle città fortificate dipendevano da un Governatore delle Armi – grado pari a quello di colonnello – che nelle fortezze e nei castelli era detto Castellano. L’unico fra tutti i castellani ad avere un grado equivalente a generale era quello di Castel Sant’Angelo. Come in tutti gli eserciti italiani del tempo, le compagnie venivano indicate secondo il grado del comandante, perciò compagnia colonnella, compagnia maggiora, e poi dal cognome del capitano comandante. 93
In ordine gerarchico sottostavano al colonnello il luogotenente colonnello – grado comparso piuttosto tardi – ed il capitano maggiore, o “maggiore”, comandanti titolari rispettivamente delle compagnie “luogotenente colonnella” e “maggiora”. Il colonnello aveva poi, direttamente alle proprie dipendenze, tutti i capitani, comandanti di compagnie – ognuno dei quali era coadiuvato da un luogotenente (o tenente), da un alfiere dai sergenti comandanti di plotone – ed uno Stato Maggiore, composto, oltre che da egli stesso, da un sergente maggiore, capo dei sergenti, un foriere maggiore, poi divenuto maresciallo d’alloggio e incaricato di provvedere agli alloggi ed all’approvvigionamento di viveri e materiali, un cappellano maggiore, un uditore, un bargello o prevosto, poi divenuto “profosso” nel corso del secolo seguente, incaricato di far eseguire dai propri aiutanti – gli sbirri – le punizioni inflitte ai soldati e di vigilare sul mantenimento dell’ordine e della disciplina in quartiere e al campo. C’erano ancora un chirurgo, poi chirurgo maggiore quando fu coadiuvato da un sotto-chirurgo, un tamburo maggiore, capo dei musicanti e un aiutante del sergente maggiore. Le truppe continuavano ad essere poco numerose. L’ambasciatore veneto Contarini riferiva nel 1635 che, compresa la guarnigione d’Avignone, le forze pontificie arrivavano a malapena a 3.500 uomini, di cui 3.050 fanti e 450 cavalieri, però, avvertiva, si trattava d’un caso eccezionale, dovuto alle tensioni internazionali del momento: in un periodo di pace probabilmente sarebbero stati la metà. La cavalleria pontificia rimase sempre piccola. Al principio del Seicento era articolata in compagnie indipendenti di Lance, Corazze e Archibugieri a Cavallo, alle quali eccezionalmente potevano aggiungersi delle compagnie miste di Lance e Archibugieri a Cavallo, o di “cavalleria rinforzata di carabine e pistole”, o di Carabini rinforzati. Gli ufficiali nelle compagnie di cavalleria erano sempre tre: capitano, tenente e alfiere, poi divenuto cornetta. Le compagnie di archibugieri avevano 50 uomini e raramente salivano fino a 100. Le altre invece si tenevano fra i 150 e i 100 e raramente si indebolivano fino a 50. La scomparsa degli archibugieri in cavalleria fu accompagnata dalla comparsa dei cavalleggeri armati di carabina e di piccoli reparti di dragoni, che erano fanteria montata su cavalli abituati pure al trasporto di carichi. In caso di guerra le compagnie di cavalleria erano raggruppate agli ordini d’un solo comandante superiore e potevano costituire dei reggimenti di contingenza, l’avevano fatto in Ungheria nel 1595 e in Valtellina nel 1626, l’avrebbero fatto nella Guerra di Castro, conflitto in cui, nel 1643, apparve il grado di tenente colonnello di cavalleria tra i dragoni esteri pontifici. Nei conti della Reverenda Camera Apostolica non erano elencati nell’esercito i corpi che oggi definiremmo di palazzo, del Papa quanto dei Legati, cioè gli Svizzeri, le lance spezzate e i cavalleggeri. Nel complesso si trattava di sei compagnie svizzere e cinque di cavalleggeri, più varie lance spezzate. Al Pontefice spettavano una compagnia svizzera e due di cavalleggeri, con da una mezza dozzina a una dozzina di lance spezzate, 55 tutte agli ordini d’un capitano generale e, in seguito, del cardinale Prefetto dei Sacri Palazzi. Le rimanenti cinque compagnie svizzere e tre di cavalleggeri fornivano la guardia ai legati di Avignone, Bologna, Romagna, Pesaro, Urbino e Ferrara. L’artiglieria, come ovunque e sempre in Italia in quel secolo, era composta da professionisti dapprincipio non inquadrati militarmente, i quali pian piano vennero raggruppati in compagnie, tutte però dipendenti dai presidii in cui servivano più che dall’esercito vero e proprio. 55 Le lance spezzate furono le antesignane della Guardia Nobile Pontificia. Se ne trova traccia almeno dal 1606. Forse all’inizio
non occorreva essere ascritti alla nobiltà romana per farne parte, ma da Clemente VIII in poi si e, in più, coll’obbligo d’essere pure “capitani riformati”, cioè capitani veterani dimessi dal servizio attivo. Sciolte nel 1724, furono ristabilite nel 1730 con 12 guardie effettive e una certa quantità di soprannumerarie, ridotte a sei nel 1738, per cui le lance risultarono non più di 18. Questo numero non fu mai oltrepassato – pur se ci furono diminuzioni – fino al 1798, quando a fronte di nove lance spezzate effettive se ne contarono otto soprannumerarie e 23 onorarie. Travolte dal marasma napoleonico, le lance spezzate scomparvero e solo sette entrarono a far parte della Guardia Nobile nel 1801.
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I cannoni avevano una notevole varietà di calibri e d’età, come dappertutto, erano trainati da equipaggi civili – per l’esercito in movimento da Roma erano di solito i carri dell’Ospedale di Santo Spirito, tirati da bufali – i quali erano comandati da un capitano, se andava bene, se no da un capo carraio civile. Organicamente, il vertice era occupato da un Governatore Generale dell’Artiglieria, dal 1646 surclassato da un generale dell’artiglieria, a lui superiore d’un grado. Venivano poi, in una specie di reparto comando dell’Arma, il luogotenente dell’artiglieria o luogotenente generale, in realtà un colonnello, il maggiordomo o pagatore, il capitano, i gentiluomini dell’artiglieria – di grado sostanzialmente pari al capitano – il foriere maggiore, il bargello, il trombetta, il cappellano maggiore quello ordinario, l’uditore, il notaro il medico, il cerusico e infine i vari aiutanti del generale dell’artiglieria, del luogotenente, del furiere maggiore e del cerusico. Presidii e Milizie erano un disordinato mondo a sé. I presidii, come si è accennato parlando delle torri costiere dipendevano dalla Reverenda Camera per le forniture di materiali da guerra e di casermaggio, ma per il resto erano qualcosa d’evanescente. Il comandante del presidio era pagato e aveva una cifra relativamente bassa con cui mantenere un certo numero di uomini, di solito abbastanza pochi e che in alcuni casi potevano addirittura non essere previsti. Se le torri costiere avevano un paio di militi, le fortezze non stavano molto meglio. Abbiamo visto che a Nettuno il castellano aveva otto uomini, ma in altri casi c’era solo lui, almeno sulla carta, per cui la fortezza da chi era guardata? Spettava al castellano provvedere. Come faceva? Coi soldi che aveva. Bastavano? La risposta è nella povertà del tempo. Nell’Europa pre-industriale, nella cosiddetta economia del bisogno, quando era già molto avere un tetto e da mangiare ogni giorno e gli abiti venivano fatti durare una vita o quasi, non era difficile trovare gente con cui popolare e all’occasione difendere le torri e le fortezze. Un pagliericcio in un camerone al riparo dalle intemperie, magari col fuoco per scaldarsi e cucinare una zuppa, o addirittura due, al giorno bastavano ad attirare una quantità di persone, ben contente di avere vitto e alloggio e un soldino ogni tanto in cambio di quella minima attività necessaria a garantire una parvenza di servizio di presidio. Delle milizie ho parlato, però non le ho citate tutte. Ne esistevano di due tipi: quelle cittadine o dei contadi alle dipendenze delle autorità e quelle feudali. Le prima sono quelle già menzionate, mobilitate su chiamata e di solito tenute a un non intenso addestramento periodico. Le altre meritano adesso qualche parola in più. Erano un coacervo incontrollabile e incontrollato. Dipendevano dai singoli feudatari e in linea di principio erano le forze che il feudatario, in quanto tale, doveva tenere a disposizione del Papa. La realtà era diversa. In buona sostanza, i militi feudali erano in tutto e per tutto i “bravi” manzoniani de I Promessi Sposi. Normalmente servivano a presidiare i castelli e le residenze, a controllare che la volontà del feudatario fosse rispettata e imposta quando necessario e in pratica erano la sua longa manus per qualsiasi soperchieria. Alloggiati, nutriti, armati, montati e più o meno vestiti a spese del nobile, non ne erano necessariamente retribuiti con regolarità e a volte non lo erano affatto. La condizione di militi feudali però bastava loro ad ottenere una gran quantità di vantaggi, a partire dalla protezione nei confronti della legge, dato che i feudatari godevano del diritto di bassa e talvolta di alta giustizia nelle loro terre. 56 Questo significava poter commettere sui popolani tutte le piccole prepotenze e malversazioni che volevano senza alcun rischio; bastava un minimo di cautela. La disciplina era la pura e semplice obbedienza assoluta al feudatario. Chi sbagliava poteva essere cacciato o ucciso. Se cacciato, poteva darsi al brigantaggio, arruolarsi fra i birri, o nelle truppe regolari e poi disertare alla prima occasione, o entrare al servizio d’un altro nobile. L’intercambiabilità fra briganti e militi feudali era normale: Ognuno di loro poteva essere oggi brigante e domani milite, oppure rivestire entrambi i ruoli contemporaneamente. La 56 Per dare un’idea di come fosse la bassa giustizia, basterà un esempio: nel torrione del paese di Anguillara Sabazia, in
provincia di Roma, c’è un’iscrizione graffita da un prigioniero, messo in segreta per aver colto una rosa nel giardino del signore del luogo. Scritte analoghe si trovano nelle prigioni e nel mastio del castello Caetani di Sermoneta e una in particolare riporta quattro nomi, il primo dei quali nel 1793 era stato condannato a dieci anni e cinque mesi.
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conseguenza era che in linea di massima i militi feudali, per quanto esperti nel maneggio delle armi, bravi a sparare e a montare, militarmente non servivano a nulla, perché l’unica cosa in cui riuscivano bene erano le prepotenze e i saccheggi. Si era visto durante il sacco di Roma, si vedeva nella vita quotidiana. Ogni volta che le cronache coeve menzionano un nobile seguito “dalle sue genti”, intendono i militi al suo servizio e, di solito, se ne parlano, non lo fanno mai bene. Infine esisteva un obbligo a cui nessun armato papale si poteva sottrarre: la frequenza alla Messa e ai sacramenti. Su questo le leggi erano durissime e i controlli severi e puntigliosi. Esercizi spirituali, vitto di magro nei giorni di vigilia, precetto pasquale con confessione obbligatoria e conseguente biglietto firmato dal confessore erano previsti per tutti e guai a chi non adempiva; e così sarebbe stato fino alla fine dell’esercito pontificio.
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Capitolo IX La Santa Sede, l’Italia e la Guerra dei Trent’Anni I) Premessa: l’Interdetto veneziano A terra, le truppe regolari pontificie aprirono il secolo XVII coll’attivazione per l’interdetto veneziano, una delle prime contese fra i poteri statale ed ecclesiastico in Italia dopo la Controriforma. In sostanza si trattò d’un tentativo della corte pontificia di prevaricare la Repubblica di Venezia, pretendendo che la magistratura civile rimettesse a quella ecclesiastica i colpevoli di delitti che, secondo le leggi venete, erano e restavano dominio riservato alla Repubblica tanto per l’inchiesta, quanto per l’eventuale condanna. In situazioni analoghe Genova e Lucca si erano adeguate a quanto Roma aveva intimato, ma il Senato veneziano era d’altra pasta e le sue forze maggiori di quelle delle altre due repubbliche, così, correndo l’anno di grazia 1605, la Serenissima decise di resistere affidando la propria difesa alla dotta penna di Paolo Sarpi ed alle nuove truppe organizzate sotto il provveditore generale in Terraferma Benedetto Moro Mentre Venezia andava spopolandosi dei religiosi, che per disciplina partivano eseguendo il decreto del Papa, si andava riempiendo di militari grazie alla chiamata alle armi di 2.000 fanti italiani, 400 stradisti e 600 corsi; all’aumento dei legni della flotta ed alla nomina di 30 provveditori di nave per comandarli. Il tutto in aggiunta al concentramento di 6.000 uomini nel Polesine al comando di Giacomo Zane. Roma ammassò truppe sul confine. A metà maggio la tensione era al massimo e ai primi di giugno furono chiamati alle armi i militi – i miliziotti, come erano detti – per proteggere Ferrara. Secondo i calcoli di monsignor Serra, in caso di ostilità sarebbero serviti 12.000 fanti e 3.000 cavalieri per l’esercito di campagna e 3.000 fanti e 500 cavalieri da unire alle milizie locali a presidio delle Romagne e delle Marche, per una spese mensile media di 122.600 ducati. Sotto il comando del Generale di Santa Chiesa cardinale Francesco Borghese, nipote del regnante Paolo V, coadiuvato da Mario Farnese in qualità di luogotenente del generale di Santa Chiesa si procedé agli arruolamenti, prevedendo un reggimento svizzero di 3.000 uomini, due reggimenti italiani comprendenti 4.000 piemontesi e milanesi, più 1.000 fanti genovesi, 500 corsi, 300 lucchesi e 6.200 sudditi del Papa. La cavalleria doveva allineare 1.000 archibugieri a cavallo, 400 corazze e 600 lance arruolate negli Stati pontifici e 300 corazze lorenesi. In realtà si sa con certezza che vennero mandati in giro gli arruolatori e che si formarono 20 compagnie di 200 fanti l’una, articolate in due Terzi di fanteria, una di 50 archibugieri, e 50 lance a cavallo e sei di 50 archibugieri a cavallo, per un totale sicuro di 4.400 uomini,. cioè assai meno del desiderato. Contemporaneamente il Re Cattolico mandò ordine al conte di Fuentes di adunare nel Ducato di Milano 30.000 uomini di fanteria e cavalleria per stare pronto a sostenere la causa pontificia, mentre il Papa aumentava a quattro o cinque i torrieri di ognuna delle 31 torri costiere fra Tarquinia – all’epoca Corneto – e il confine napoletano, mettendo 150 fanti a Civitavecchia, seguiti da un ulteriore rinforzo di 60 archibugieri raccolti nel Patrimonio di San Pietro e sei bombardieri, altri 39 fanti e 20 cavalieri a Ostia, 15 fanti soli a Nettuno e 60 a Terracina. L’aumento degli effettivi fece riflettere tutti gli interessati. Il Cattolico si rese conto che nuova guerra in Italia avrebbe offerto al Cristianissimo di Francia l’occasione per tornare nella Penisola da cui l’aveva appena escluso con tanta fatica e un secolo di guerra quasi continua. D’altra parte Enrico IV, pur volendo riaprire militarmente il confronto colla Spagna, non si sentiva ancora pronto a scendere in Italia. Resosi conto della titubanza spagnola e dello sfavorevole atteggiamento dell’Impero nei suoi confronti, il Papa decise di accettare una composizione, recedendo dalle sue posizioni, ma la questione dell’interdetto veneziano innescò una sequenza di fatti che influirono molto sullo scoppio di quella che fu poi nota come la Guerra dei Trent’Anni 98
II) Le cause del conflitto Tradizionalmente si pensa alla Guerra dei Trent’Anni come ad un conflitto localizzato in Germania e combattuto da tutti gli Europei continentali meno gli Italiani. Questa è una tesi contro cui si sono messi alcuni storici mentre altri l’hanno sostenuta. In realtà la visione germanocentrica vale quanto il definire europea la I Guerra Mondiale. E’ vero che il grosso delle operazioni fu in Germania, ma è pure vero che molte altre si svolsero in zone diverse e l’insieme delle vicende belliche e politiche svoltesi fra il 1618 ed il 1648 non solo interessò profondamente l’Italia ma, addirittura, senza l’intervento degli Italiani non sarebbe mai cominciato, o almeno non sarebbe mai cominciato così come fu. Le guerre non scoppiano mai accidentalmente né per una causa sola e sono il risultato dell’attrito di politiche opposte. In questo caso molti erano gli elementi che contribuivano a formare il quadro generale. C’era il desiderio spagnolo di risottomettere l’Olanda e di conquistare il territorio veneziano per congiungere via terra i propri domini a quelli austriaci, desiderio a cui si contrapponevano la consapevolezza che le Province Unite e la Serenissima avevano di quei pericoli e la loro determinazione ad evitarli od annullarli. C’era la debolezza del ramo austriaco della Casa d’Asburgo e la volontà dell’arciduca Ferdinando di Stiria di rinforzarlo, riacquistando l’antico potere. Ma i suoi sudditi protestanti sapevano che ciò non poteva riuscirgli se non abbattendo le autonomie locali e, in primo luogo, distruggendo la giustificazione morale su cui esse riposavano, cioè la confessione riformata, luterana, utraquista o calvinista che fosse. C’erano il desiderio della Francia di spezzare l’anello asburgico che la stringeva dai tempi di San Quintino, il timore del Papa di trovarsi stretto a nord e sud dai domini di una Spagna troppo forte per essere osteggiata e c’era, infine, l’ambizione del Duca di Savoia. Il pretesto della guerra fu certamente religioso; ma accanto alle questioni dottrinali e spesso nella loro ombra, ve ne erano di politiche e di economiche di grande rilevanza. Riassumendo molto grossolanamente: il motivo che portò alla crisi fu che i principi tedeschi volevano conservare l’autonomia politica e le proprietà ecclesiastiche di cui si erano impadroniti al tempo della Riforma. Il Protestantesimo era in realtà solo una giustificazione morale per la conservazione di quanto avevano ottenuto e, difendendo la fede riformata, difendevano le loro terre e la loro autonomia nei confronti dell’Imperatore. Come si sa, l’inizio della contesa risale alla sommossa praghese che culminò nella defenestrazione di due consiglieri imperiali cattolici, salvatisi grazie a un provvidenziale sottostante mucchio di rifiuti. L’atto di ribellione fu seguito dall’offerta della corona di Boemia, a quel tempo elettiva, a vari principi, ma la difficoltà era che nessuno di loro aveva denaro a sufficienza per sostenersi militarmente sul trono di San Venceslao, né i protestanti tedeschi, raccoltisi già da tempo nell’Unione Evangelica, erano abbastanza ricchi per levare un esercito. E qui gli Italiani cominciarono a giocare un ruolo determinante. Il quindicennio trascorso fra la fine della tensione legata all’Interdetto veneziano e l’inizio della sommossa ceca, aveva visto in Italia una complicata guerra. Nel nordovest Carlo Emanuele I di Savoia aveva ingaggiato uno scontro, detto Prima Guerra per la Successione di Mantova o Guerra del Monferrato. A nordest negli stessi anni Venezia si era trovata a combattere per terra e per mare contro gli Asburgo d’Austria un conflitto che, erroneamente a causa dei due fronti su cui si era sviluppato, sarebbe stato erroneamente considerato come due guerre, denominate Guerra degli Uscocchi e Guerra di Gradisca. Un’alleanza di fatto aveva unito la Repubblica al Duca, che coordinando le loro azioni avevano impedito agli Asburgo dei due rami di potersi aiutare. Nel 1617 Carlo Emanuele, che era uno dei principi del Sacro Romano Impero, perché i suoi Stati cisalpini rientravano nell’Italia imperiale, si era avvicinato all’Unione Evangelica in funzione antiasburgica e ne aveva ottenuto un generale di fama notevole, il conte von Mansfeld. A lui aveva versato il denaro necessario alla costituzione di un esercito di 4.000 uomini da arruolare in Germania; ma quando questo fu pronto le ostilità in Italia erano cessate e Carlo 99
Emanuele non ne aveva più bisogno. Era il 1618, la rivolta di Praga si era verificata proprio allora; ed i Cechi avevano offerto all’Elettore Palatino Federico V di farsi eleggere re di Boemia. L’Unione Evangelica propose dunque a Carlo Emanuele uno scambio: l’esercito pagato da lui e comandato da Mansfeld contro qualcosa di vago, che non si sapeva bene cosa fosse, ma poteva essere l’elezione al trono imperiale. Il Duca accettò immediatamente. Intanto dava fastidio agli Asburgo e ne limitava la potenza, poi si sarebbe visto; comunque c’era una mezza promessa e poteva diventare qualcosa di più. Il 30 agosto 1618 i Boemi accettarono formalmente l’aiuto militare suo e dell’elettore palatino Federico V e ripresero le operazioni. In ottobre fu chiaro che la situazione diplomatica e politica non si sbloccava e, per contro, quella militare, agli esperti occhi, del Duca nella primavera del 1619 proprio non sembrava volgere a favore dei Protestanti, ai quali per di più Venezia era assai restia a concedere aiuto, perché dopotutto si trattava d’eretici. L’imperatore Mattia morì nel marzo del 1619 e i combattimenti ripresero. In maggio arrivò a Torino un emissario della Lega Evangelica e strinse l’accordo definitivo: Carlo Emanuele si impegnava a mantenere l’esercito di Mansfeld alla forza stabilita, ad aiutare i Boemi, ad impedire a un Asburgo di diventare imperatore, agli Spagnoli di passare in Germania attraverso i suoi Stati e a premere su Venezia per contribuzioni in denaro ai Protestanti in cambio dell’appoggio della sua candidatura al trono di Boemia: era un principe dell’Impero e poteva essere legittimamente candidato tanto al trono boemo che a quello imperiale. Dei sette elettori dell’Impero tre erano cattolici, tre protestanti e l’ultimo, quello decisivo, era il re di Boemia. Se Carlo Emanuele otteneva il trono, o se lo otteneva Federico V e manteneva la parola e se con lui lo facevano i membri dell’Unione Evangelica l’elezione di Carlo Emanuele al soglio imperiale era sicura. Ma, sfortunatamente per lui, l’arciduca Ferdinando d’Asburgo riuscì a sfruttare le divisioni esistenti in campo riformato tra Calvinisti e Luterani, si accordò all’ultimo momento cogli elettori protestanti di Sassonia e del Brandeburgo e ottenne la sacra romana corona germanica. Contemporaneamente Federico V veniva eletto re di Boemia. Di nuovo gli Italiani si misero in mezzo; perché i primi Stati a riconoscerlo furono Svezia, Danimarca e Venezia. Secondo l’opinione corrente del tempo, la più potente ed importante di queste era la Serenissima; ed il suo appoggio era tanto più rilevante in quanto era l’unica a confinare direttamente cogli Asburgo e quindi a poter intervenire militarmente e subito. Il riconoscimento veneziano si doveva alla necessità di attirare l’attenzione e le risorse degli Asburgo d’Austria lontano dall’Italia, ma nei fatti ebbe risultati assai più devastanti, perché mise la Repubblica dalla parte dei Protestanti, con delle conseguenze inimmaginabili in quel momento. A dispetto dei riconoscimenti e dei sostegni avuti, Federico V perse tempo e lasciò che Ferdinando d’Asburgo si accordasse colla Lega Cattolica e trovasse aiuti. Le truppe furono fornite in gran parte dalla Germania, ma con forti contingenti italiani, mentre l’aiuto finanziario maggiore arrivò da Madrid e Roma. Per sostenere lo sforzo contro gli eretici, la Spagna prestò un milione di fiorini; mentre il Papa s’impegnò a versarne all’Imperatore 10.000 al mese, ottenendogli 100.000 scudi dalle varie congregazioni e permettendo, il 13 gennaio 1620, in tutta Italia l’imposizione di una decima che fruttò altri 250.000 scudi all’anno. Così sostenuto, il potente esercito della Lega Cattolica, forte di oltre 50.000 uomini, tra i quali moltissimi Italiani, marciò contro i Protestanti. Federico poteva opporgli solo circa 30.000 soldati che, alle porte di Praga, alla Montagna Bianca, l’8 novembre 1619 si comportarono come poterono su un terreno sfavorevolissimo e in un’ora furono battuti sanguinosamente. Quattromila protestanti boemi restarono sul terreno a fronte di poche centinaia di imperiali. Il panico si impadronì dello sfortunato Federico e lo indusse a fuggire senza tentar la minima resistenza. Contava sull’aiuto dei sovrani che l’avevano riconosciuto re e l’avevano aiutato; ma rimase deluso. Il duca di Savoia, disgustato per la mancata elezione imperiale e preoccupato dalla minacciosa presenza spagnola nel Milanese, non intervenne. L’Olanda combatteva colla Spagna. La Svezia era stata trascinata 100
in una guerra contro la Polonia; la diplomazia imperiale aveva neutralizzato la Danimarca; e i Veneziani non avevano la minima intenzione di farsi schiacciare tra Spagna, Austria e Papa per soccorrere un Re che non accennava nemmeno a difendersi da solo. La notizia della Montagna Bianca fu accolta a Roma con un giubilo inenarrabile.57 Il Papa decretò festeggiamenti e ringraziamenti, tra i quali la dedica alla Madonna della chiesa di Santa Maria della Vittoria, appunto in onore della vittoria dei Cattolici sui Protestanti, nella cui sacrestia vennero appesi quattro quadri a olio che illustravano con estrema precisione lo svolgimento della battaglia.58 La guerra però non rimase confinata alla Germania. Ai primi del secolo XVII era stato nominato governatore di Milano l’abile generale spagnolo don Pedro Enriquez de Azevedo conte de Fuentes, il quale aveva pensato subito a riorganizzare militarmente il Ducato, specie in considerazione della perenne ostilità asburgica nei confronti dei Veneziani e dalla presenza dei protestanti Grigioni, padroni della Valtellina. Le vicende di Roma durante il XVII secolo sono narrate specialmente dalle due cronache coeve, parzialmente sovrapponibili, di Giacinto Gigli e Carlo Cartari. Scritte entrambe da uomini di legge con cariche nell’amministrazione papale e con buone entrature in Curia, differiscono sia per l’arco cronologico che per i contenuti. Gigli scrive dal 1619 al 1656, Cartari dal 1642 al 1691. Quanto ai contenuti, Gigli si occupa quasi solo di quanto accade a Roma, per cui gli avvenimenti esteri vi appaiono esclusivamente per le ricadute sulla vita della città; Cartari invece si cura poco dell’Urbe e raccoglie tutte le notizie che può di quanto avviene all’estero. Di conseguenza, Gigli parla a malapena e di riflesso della Montagna Bianca e di Rocroy e riporta pochissimo della rivolta di Masaniello e della guerra di Candia, mentre Cartari si affanna a dirne tutto ciò che ha sentito, integrandolo con lettere di testimoni e relazioni a stampa inserite nel testo.. 58 La chiesa in origine era dedicata a San Paolo ed era stata costruita per i Carmelitani – che ancora la tengono – dall’architetto Carlo Maderno tra il 1608 e il 1620 e fu ridedicata dopo la vittoria della Montagna Bianca. La ragione fu raccontata così da Giacinto Gigli nel suo diario nel maggio del 1622: “Essendo li Heretici di molto maggiori forze et numero che non erano li Cattolici, et havendo tolto all’imperatore Praga gli havevano ridotto tutte le cose a malissimo termine, et quasi nell’ultima necessità. Quando essendo giunto nell’essercito Imperiale il Padre Fra Domenico di Giesù Ministro delli Frati Carmelitani Scalzi (della qual Religione fu Fondatrice Santa Teresa Vergine ultimamente canonizzata) questo Frate, dico, trovò nel mezzo della Strada gettata una Tavoletta, nella quale era dipinta l’Imagine della Madonna inginocchiata con il Bambino posatogli davanti sopra la veste, et Santo Giuseppe et due Pastori, alle quali figure tutte. eccetto il Bambino erano stati guasti gli occhi quasi con un puntarolo dalli Heretici, et poi l’haveano gettata nella strada- Allora fra Domenico sopradetto (il quale è homo santissimo, et per il cui mezzo ha operato il Signore molti miracoli) presa la detta Imagine, et nettatala et legatosela al collo cominciò ad animare li Capitani dell’esercito catholico, et essortati a sperare per mezzo di quella Santissima Imagine di dover conseguire vittoria segnalata delli Heretici maledetti. Stettero un pezzo li Capitani renitenti, non volendo attaccare la battaglia, per vedersi molto inferiori di numero, et di forze, et finalmente si risolsero di combattere, et si mossero a seguitare il frate, che innanzi a tutti con la detta Imagine correva contro l’esercito nemico, et fu cosa veramente miracolosa, che in poco tempo li sconfissero tutti e ricuperorno Praga, et finalmente ottennero una segnalata vittoria, la quale ben riconobbe lo Imperatore per miracolo operato da Dio per il mezzo di quella Immagine; onde la fece accomodare in una cassetta, o tabernacolo di argento, con un cristallo d’avanti con una cronice d’oro, et perle, et gioje preziosissime, et diede di più al detto Padre Domenico una bellissima Corona imperiale d’oro ornata di gioje et perle acciò li potesse fare maggior ornamento. Tornando poi il detto Fra Domenico a Roma portò seco la detta Imagine con i suoi ornamenti, et giunse appunto quando si finiva di fabbricare una Chiesa per li Frati della sua Religione alle Therme detta di S. Paolo. Onde fu giudicato bene di collocare la detta Imagine solennemente sopra l’Altar Maggiore di detta Chiesa. Papa Gregorio vi volse essere in persona a ricevere la detta Imagine…, quando, fu sopragiunto dalla febre in modo che si stimava, che sarebbe morto tra poco; ma essendo andato a visitarlo il detto Fra Domenico, dicesi che impetrò da Dio, che il Papa guarisse, et che egli ricevesse in se stesso la febre, et il male del Papa; et così fu fatto. Fu questo giorno alli 8. di Maggio.” Il nome completo del frate era Domenico di Gesù e Maria, carmelitano scalzo, al secolo Domenico Ruzzola, spagnolo, nato a Catalayud il 16 maggio 1559 e morto a Vienna il 16 febbraio 1630, venerabile della Chiesa Cattolica. La dedicazione alla Madonna Regina della Vittoria avvenne, secondo il Gigli, “dalla voce del Popolo”, che fu poi confermata da Innocenzo X con un breve. Nella chiesa furono deposte prima le 43 bandiere dell’esercito protestante prese alla Montagna Bianca e che avevano seguito l’immagine nella processione dell’8 maggio al termine della quale era stata collocata sull’altare maggiore, dove ancora si trova, poi altre bandiere protestanti, anch’esse prese alla Montagna Bianca e inviate in seguito dall’Imperatore, con le quali si addobbò la chiesa. Non sono esposte, non si sa che ne sia stato. Cfr. GIGLI , Giacinto, Diario romano, a cura di Giuseppe Ricciotti, Roma, Tumminelli, 1958, pagg. 64-66. 57
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Il motivo principale di contesa era la questione delle truppe veneziane. La Serenissima non poteva arruolare in Italia perché tutti gli Stati italiani – dietro pressione spagnola – proibivano formalmente ai loro sudditi di prendere servizio sotto le sue bandiere. Per questa ragione attingeva reclute in Germania e in particolare nel Ducato di Lorena. Dati i pessimi rapporti cogli Asburgo e per evitare che le impedissero il transito delle reclute arruolate, Venezia aveva stipulato nel 1602, all’epoca dell’interdetto pontificio, un accordo coi Grigioni per avere per le unità da lei arruolate il libero e perpetuo passo attraverso il loro territorio, che includeva la Valtellina. Quando l’aveva saputo, Fuentes s’era infuriato coi Grigioni e li aveva minacciati di sanzioni; ma quelli avevano tenuto duro, anche perché l’accordo oltre a rinforzare Venezia, indirettamente danneggiava la Spagna e quindi piaceva pure alla Francia. Il Conte allora aveva vietato loro il commercio col Milanese attraverso il lago di Como e, per interdire completamente il traffico, aveva costruito il forte di Fuentes, che doveva bloccare e controllare tutte le strade da e per la Valtellina e i Grigioni. Ma il sistema fortificato lombardo non si limitava a questo. Ultimato proprio negli anni ‘10 del XVII Secolo e comprendente 16 tra castelli e forti, doveva servire non solo a proteggere il Ducato, ma anche e sopratutto il cosiddetto “Cammino – o Via, o Strada – di Fiandra”, cioè il lungo percorso che consentiva di portare via terra truppe dalla Spagna e dall’Italia in Olanda o in Germania. Le principali fonti di reclutamento di Madrid erano infatti la stessa Spagna e il Regno di Napoli e le truppe dovevano poi essere instradate sull’itinerario Napoli – Orbetello – Genova o Finale (o Barcellona – Genova/Finale) – Milano – Lago di Como – Valtellina – sponda superiore del Lago di Costanza – Corso superiore del Reno – Renania – Alsazia – Strasburgo – Olanda (o, se andavano nella Germania centrale o orientale, Lago di Costanza, dove c’è lo spartiacque Reno Danubio, Corso superiore dell’Inn – Vienna – Boemia e Germania centro-orientale). A causa della separazione fra il Trentino e la Lombardia data del territorio della Repubblica di Venezia. e dalla non certa disponibilità del terminale fluviale di Mantova, quella era l’unica strada veramente sicura. Proprio Fuentes aveva completato la sicurezza del Cammino di Fiandra impadronendosi del Marchesato del Finale nel 1602 e, non appena il forte di Fuentes era stato ultimato, spedendo le proprie truppe ad occupare di sorpresa l’unico lembo di territorio genovese che si interponeva tra il Finale e la Lombardia spagnola. Il popolo genovese protestò, ma il Senato e l’aristocrazia avevano troppo interesse a tenersi in buoni rapporti colla Spagna e accettarono il fatto compiuto. In questo modo l’afflusso di rinforzi e rifornimenti da Barcellona o da Napoli si sarebbe svolto sempre e solo su territori della corona asburgica di Spagna e il Cammino di Fiandra non avrebbe corso rischi d’interruzione, almeno in Italia. Per quanto era in suo potere, Fuentes aveva fatto tutto il possibile - e non era poco - per migliorare l’operatività dell’apparato militare spagnolo. Ma ora, col conflitto appena scoppiato, diveniva fondamentale non solo garantire anche il tratto di percorso non controllato, cioè quello in territorio grigione, ma pure impedire che altri se ne potessero servire. La questione, come al solito, era assai intricata. Nel 1613 era spirato il primo trattato veneto-grigione, stipulato all’epoca dell’interdetto, nel 1603, e il Senato aveva deciso di farne un secondo. Ovviamente ciò dava fastidio all’Austria – e si sapeva, specie per via della questione degli Uscocchi – ma pure alla Francia, desiderosa di coprire colla propria influenza tutto il territorio elvetico, al quale i Grigioni erano associati. Dopo un lungo periodo di contrasti e di sotterranei lavorii diplomatici, l’agente veneziano Patavino riuscì a far leva sul sentimento religioso dei protestanti Grigioni – e del resto la Francia in quel momento opprimeva gli Ugonotti e l’Austria i Protestanti – e riuscì, nel 1618, a far pendere dalla parte della Serenissima gran parte dei riformati e l’esito del sinodo appositamente convocato a Borgogno per discutere la faccenda. A dire la verità il sinodo, come pare accadesse spesso a quelle riunioni nei Grigioni, degenerò in una mezza sommossa, che costrinse alla fuga l’ambasciatore francese, causò morti e feriti e, sopratutto, portò all’’arresto, al trasferimento a Coira, al processo e alla morte dopo due giorni di torture dell’arciprete Nicolò Rusca, di Sondrio, accusato falsamente di collusione colle autorità spagnole del 102
Ducato di Milano ai danni dei Grigioni. Ne seguirono fughe, esili e, ovviamente, una congiura per distruggere i Protestanti. Accordatisi col Duca di Feria, governatore di Milano, i congiurati ottennero larghe promesse di aiuti e 500 uomini dall’Imperatore. Raccolsero poi 300 fanti italiani nei territori svizzeri e si prepararono a vibrare il colpo. La notte dal 18 al 19 luglio, alle 6 d’Italia 59 si radunarono a Tirano e, vietati il saccheggio dei beni, gli stupri e l’uccisione di donne e bambini, all’alba del 19 bloccarono le strade, occuparono il castello di Piattamala per chiudere la valle e diedero inizio al massacro. A sera 350 protestanti erano stati complessivamente uccisi in tutta la Valtellina e i passi da cui potevano giungere truppe Grigione erano tutti saldamente in mano ai Cattolici, inclusa la zona di Bormio. I Grigioni si armarono e passarono al contrattacco; ma furono disfatti, mentre i Valtellinesi mandavano messaggeri a tutti i potentati cattolici – Cantoni svizzeri, governo di Milano, Savoia, Venezia e Papa – spiegando che desideravano il libero esercizio della religione Cattolica e domandavano amicizia e protezione. Torino e Venezia risposero di si, a condizione che non fossero ammesse in Valtellina truppe straniere; ma quel che contava era la risposta attesa da Milano. E arrivò, nella persona di don Girolamo Pimentel con 500 uomini, che conquistarono Riva e obbligarono i Grigioni ad abbandonare Chiavenna, Traona e Sondrio. Poi vennero il decreto del re Filippo con cui la Valtellina era posta sotto la sua protezione e altre truppe a presidio di Morbegno e Tirano. Arrivarono in tempo per affrontare il contingente protestante fornito da Berna e Zurigo che stava scendendo vero la Valtellina e distruggerlo davanti a Tirano il 17 settembre. Dallo scontro uscivano vincitrice la Spagna, che si assicurava il controllo dell’intero Cammino di Fiandra, e sconfitte la Francia e Venezia. La Serenissima non si perse d’animo e, benché gli ambasciatori francesi le fossero stati avversi specialmente nella questione dei Grigioni, intavolò subito dei colloqui a Parigi per convincere il Cristianissimo della necessità d’un’azione antispagnola in Svizzera e in Valtellina. Ci furono delle trattative. Si tornò alle armi e poi di nuovo alle trattative, alla fine delle quali, il 25 gennaio 1622, venne stipulata una nuova convenzione. Ma quattro mesi dopo i Grigioni insorsero e cacciarono tutte le guarnigioni imperiali, prendendo la città di Coira. Si accesero dei nuovi combattimenti, con una netta prevalenza austriaca, che indusse Savoia e Venezia a intensificare le pressioni sulla Francia, concludendo, nell’aprile del 1623, la Lega di Parigi tra Francia Savoia e Venezia, con facoltà d’accedere lasciata agli Svizzeri, agli altri Stati italiani, a quelli tedeschi e all’Inghilterra. All’ultimo momento si trovò una scappatoia decidendo di dare in deposito al Papa i forti della Valtellina.
III) I Pontifici e la Valtellina: 1623-1627 Roma non aveva sotto mano le truppe necessarie e dové ricorrere ad un arruolamento specifico e frettoloso per la Valtellina. Ne risultarono tre Terzi di Fanteria, per complessive 13 compagnie da 200 uomini ciascuna, senza contare ufficiali, sottufficiali, caporali e tamburi, agli ordini dei maestri di campo Pietro Grosso, Annibale Magarucci e Sforza Marescotti. La cavalleria constava di tre compagnie di 50 uomini l’una. C’erano poi otto bombardieri e un capo bombardiere. Il carreggio era, come sempre a quei
59A quel tempo le ore della giornata erano espresse in Ore d’Italia, un sistema caduto ufficialmente in disuso col periodo
napoleonico, quando entrarono in vigore le cosiddette Ore di Francia, che ancora adoperiamo. Le Ore di Francia erano e sono basate sul moto della terra; quelle d’Italia invece sulla durata delle ore di luce. Nel periodo di luglio in cui cominciò la rivolta (primo quarto del mese, dal 15 al 22), il mezzodì, le nostre 12, secondo le Ore di Francia era alle 12, come per noi adesso; ma in Ore d’Italia, pur essendo a quelle che per noi sono le 12, era alle 16,27, perché il sole sorgeva alle 8,52 d’Italia, le 4,27 nostre e di Francia (perché non esisteva l’ora legale), ed il giorno durava in tutto 15 ore e 8 minuti. Di conseguenza, stando all’anonimo estensore, la rivolta sarebbe scoppiata prestissimo, due ore prima dell’alba: tra le 2,30 e le 3 del mattino secondo il nostro modo di misurare il tempo.
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tempi in tutta Europa, fornito da un impresario civile e consisteva di un numero di carri a uno o due cavalli variabile da tre a cinque per compagnia Nel maggio 1623 circa 2.400 fanti e 150 cavalieri pontifici, alquanto indisciplinati, ufficialmente al comando del generale di Santa Chiesa duca Orazio Ludovisi, nipote del Papa, in realtà agli ordini del generale Nicolò dei conti Guidi di Bagno, marchese di Montebello, attraversarono il Ducato di Milano. In giugno furono passati in rassegna a Morbegno e a Sondrio, dando una forza presente di 2.536 uomini 60 e in settembre raggiunsero le piazzeforti valtellinesi, ricevendo per ultimi i forti di Chiavenna e di Riva il 13 di quel mese. La spedizione – che può essere considerata la prima operazione di pace, più precisamente d’interposizione, mai fatta da truppe italiane – costava 25.000 scudi al mese e implicò il prelevamento preliminare di ben 75.000 scudi dal tesoro custodito in Castel Sant’Angelo In luglio morì papa Gregorio e in agosto fu eletto Urbano VIII Barberini il quale, messosi subito all’opera, riuscì a concludere cogli ambasciatori di Spagna e Francia un accordo sulla Valtellina, che era praticamente la neutralizzazione della valle ma con la concessione del passaggio alle truppe spagnole, dopodiché dimezzò le spese, facendo rimpatriare sette compagnie di fanti e due di cavalieri ai primi del 1624. Delle rimanenti, due vennero messe a Chiavenna agli ordini del mastro di campo Margarucci, una a Sondrio, due a Tirano col conte di Bagno; una sesta fu divisa fra i forti di Bormio, Cassino e Toretta e l’ultima, quella di cavalleria, fu ripartita fra Morbegno e Chiavenna La Francia nel frattempo rifiutò la ratifica dell’accordo e minacciò la guerra. Madrid si armò; la Lega pure e, anzi, si ampliò. Infatti in ottobre si trovarono segretamente ad Avignone gli ambasciatori non solo di Francia, Savoia e Venezia, ma anche d’Inghilterra, Olanda, Danimarca e di alcuni principi protestanti. Del resto l’interruzione del Cammino di Fiandra era talmente importante per l’andamento della guerra in Germania che ben poco poteva esserle anteposto. Lo sforzo principale delle imminenti operazioni doveva essere esercitato dai Francesi attraverso la Svizzera, mentre un secondo e un terzo fronte sarebbero stati aperti in Italia dai Piemontesi e dai Veneziani, in modo da muovere a tenaglia sulla Lombardia da Ovest, da Est e da Nord. Sul finire dell’autunno le truppe francesi, condotte dal marchese de Coeuvres calarono in Valtellina. Le guarnigioni pontificie contavano un migliaio di uomini a difendere dodici posizioni diverse in sette centri su un fronte d’80 miglia italiane, cioè circa 150 chilometri, non c’era da aspettarsi nulla di buono. Il 2 dicembre 1624 Coeuvres mosse con tutte le sue forze da Poschiavo sul forte di Piattamala, guarnito da 150 pontifici, che ripiegarono a Tirano, perché i Francesi e i loro alleati avevano 6.000 fanti e 400 cavalieri e prevalevano per 6,5 a 1. Il 3 Coeuvres si presentò davanti a Tirano da dove tutti i soldati valtellinesi fuggirono, lasciando soli i Pontifici. Il 5 fece gittare un ponte sull’Adda, lo traversò e intimò la resa a Guidi di Bagno, che rispose di essere risoluto a morire spada alla mano. Con questo il cerimoniale dell’epoca era stato rispettato e l’artiglieria assediante aprì il fuoco, che durò tutta la notte e tutto il giorno seguente. Nella notte successiva, dal 6 al 7 dicembre, favoriti dai cittadini, gli assedianti riuscirono a praticare un varco nelle mura e a infilarvi 400 uomini, mentre il loro grosso con una finta attraeva l’attenzione dei Pontifici chiusi nel castello. Il paese cadde e il castello fu stretto d’assedio. Poi, il 9, arrivarono da Venezia sei cannoni pesanti con 100 colpi l’uno, accompagnati da 500 guastatori. Guidi si rese conto che non c’era da resistere per molto e capitolò con tutti gli onori militari. In definitiva i Pontifici opposero la resistenza che potevano opporre per quanto minima e simbolica potesse apparire e tutta la valle cadde in potere del Cristianissimo prima che i rinforzi austriaci e spagnoli potessero arrivarvi. Madrid e Vienna sospettarono che la riduzione del contingente indicasse una 60 A dispetto di altre fonti da ma viste in precedenza, in base alle quali le forze pontificie sarebbero state di 1.500 fanti e 500
cavalieri, i documenti dell’Archivio di Stato di Roma, fondo Soldatesche e Galere, Conti straordinari, busta 16, danno 2.354 fanti, 151 cavalieri, nove bombardieri, un uditore, un munizioniere, un direttore dell’ospedale, e 19 fra cappellani, medici, furieri e notai.
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collusione tra Roma e Parigi. La voce corse e a Roma, alla domanda di Marforio: “Il papa è forse cattolico?” rispose Pasquino:61 “Taci, taci, ch’egli è cristianissimo.”XLVI La valle venne saccheggiata e la confessione cattolica oppressa quanto e forse più della protestante in precedenza. Andò a finire che le guarnigioni pontificie vennero ritirate e subentrarono gli Spagnoli da Milano. La guerra si riaccese, ma non ebbe alcun vero risultato e la situazione entrò in stallo. I Francesi provarono allora a tagliare il Cammino di Fiandra nei punti di sbarco e, d’accordo coi Piemontesi, lanciarono una guerra contro Genova nel 1625. Mancarono di poco l’obiettivo e il conflitto infiammò tutta la Liguria e tutto il Piemonte meridionale, con un pesante intervento delle truppe spagnole. A Roma la cosa fu vista con preoccupazione, non tanto perché la guerra aveva impedito l’afflusso dei pellegrini per l’Anno Santo del 1625, quanto per paura che le operazioni nell’Italia del nord potessero estendersi a sud del Po e magari fino all’Urbe stessa. Perciò, “Fece intanto Papa Urbano provisione grandissima per la guerra, empiendo di numeroso esercito la Città di Roma, et tutto lo Stato della Chiesa, fortificando le mura, e tutti i lochi bisognosi, et sopra tutto facendo battere straordinaria quantità di denari in Castello di S. Angelo.”XLVII Per farlo – racconta Gigli – il Papa censì tutto l’argento che a Roma chiunque, inclusi i cardinali, possedesse oltre il valore di 100 scudi, lo sequestrò pagandone il controvalore con carta moneta, rappresentata dai “luoghi di Monte”, cioè le obbligazioni del prestito pubblico pontificio, e lo fuse in denaro per le spese di guerra. Acquistò una gran quantità di biscotto “fatto fare per molto tempo da tutti li fornari di Roma”, fece cingere da mura il palazzo e il giardino del Quirinale, tramutandoli in “fortezza comoda per l’essercito” e spianando senza preoccupazioni il vicino giardino dei Colonna, con tutte le antichità che vi erano state portate dalla Domus Aurea, infine fu “con effetto fortificato meravigliosamente Castello S. Angelo con bastioni e mura et tiratovi a torno il Tevere, che fu reso affatto inespugnabile.”XLVIII Nel 1626 il Papa spedì Torquato Conti in Valtellina con sette compagnie di cavalleria, corazze ed archibugieri a cavallo, poi, vista la carenza d’artiglierie a Roma, ordinò di prendere il bronzo più a portata di mano: “onde per havere metallo a bastanza per quest’effetto, fece smantellare il Portico della Chiesa di Santa Maria Rotonda, anticamente detta il Pantheon, il quale era meravigliosamente coperto di bronzo, con Architravi sopra le colonne di metallo bellissimi, et di una manifattura, et havendolo disfatto trovò che quel metallo era in gran parte mescolato di oro et argento, tal che non era tutto a proposito per l’artiglierie, ma il Popolo, che andava curiosamente a vedere disfare una tanta opera, non poteva far di meno di sentir dispiacere, et dolersi che una sì bella Antichità, che sola era rimasta intatta dalle offese de’Barberi, et poteva dirsi opera veramente eterna fosse hora disfatta.”XLIX
Per chi non lo sapesse Pasquino è il nome dato popolarmente una delle sei statue che a Roma “parlano”, mediante l’affissione di satire in prosa o in versi. Le altre sono Madama Lucrezia, il Babuino, il Facchino, l’Abate Luigi e Marforio. Pasquino è la più famosa ed è un torso ellenistico, probabilmente del III secolo a. C., ritrovato nel 1501 durante i lavori dell’allora Palazzo Orsini, poi divenuto Palazzo Braschi. L’abitudine di appendergli addosso o sul basamento delle satire iniziò quasi subito e non finì più. Col passar del tempo le altre statue parlarono sempre meno e l’unica che continuò a fargli vivacemente da controparte fu Marforio, una statua romana del I secolo d. C., trovata nel Foro d’Augusto nel XVI secolo e poi trasferita nei Musei Capitolini. I nomi delle due statue deriverebbero Pasquino dal nome non si sa se d’un insegnante, d’un oste o d’un sarto del rione Parione noto per le sue ironie; Marforio dall’iscrizione Mare in Foro che una cronaca riferisce essere esistita sul basamento della statua, o da una famiglia Marfuoli, proprietaria della zona in cui fu trovata. 61
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Davanti a un tale scempio, commentò Pasquino: “Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini” – quel che non fecero i barbari fecero i Barberini. La guerra però non scese a sud del Po fino al 1627, quando morì il duca di Mantova e si aprì la disputa sull’eredità. Il duca di Guastalla Ferrante Gonzaga la voleva per sé, nonostante dovesse andare al ramo dei Gonzaga-Nevers, trapiantato in Francia, perché era il più vicino a quello ora estintosi e perché il defunto aveva fatto sposare la sua ultima discendente Maria, al figlio di Carlo di Gonzaga-Nevers. Tutte queste belle ragioni legali avrebbero retto poco in una contesa tra privati, di conseguenza non valsero nulla in una lite internazionale e cominciarono gli armamenti. Teoricamente, essendo Mantova un feudo dell’Impero, sarebbe toccato all’Imperatore deciderne la successione; e infatti Ferdinando d’Asburgo aveva decretato la sua esclusiva competenza sull’argomento, ordinando al nuovo Duca di consegnargli il Ducato e avvisandolo che, in caso d’inadempienza, avrebbe proceduto contro di lui citandolo davanti alla Dieta dell’Impero. Se avesse resistito si sarebbe passati alle accuse formali, seguite dal bando imperiale e, infine, dal ricorso alle armi. Poiché Carlo si sapeva appoggiato da Parigi e Venezia, non ascoltò le minacce da Vienna. Spagna e Austria si consultarono: il problema stava assumendo una connotazione politica, oltre che strategica. La presenza d’una testa di ponte francese a Mantova avrebbe consentito agli Stati italiani, Venezia, Savoia e Papa specialmente, di sfuggire al controllo asburgico giovandosi dell’aiuto militare di Parigi. Quindi, sia per mantenere sicure le retrovie italiane del teatro di guerra germanico, sia per conservare l’assoluta preponderanza politica, occorreva avere Mantova o, non potendo, almeno Casale. Carlo Gonzaga, conscio del pericolo, aveva raccolto 8.000 fanti e 1.400 cavalieri, mettendone circa 4.000 dei primi e 1.000 dei secondi nella capitale e altri 4.000 e 400 nel Monferrato. Nel marzo del 1629 i Francesi trovarono finalmente il modo di scendere in Italia per aiutare i Gonzaga, proprio quando gli Asburgo stavano radunando le forze per colpirli. L’Imperatore aveva distolto forti contingenti di truppe dal fronte tedesco e li stava mandando in Italia agli ordini di uno di suoi migliori generali, il veneto Rambaldo di Collalto, coadiuvato dagli altrettanto noti Aldringer e Galasso, coll’ordine di prendere Mantova. Dal canto suo il re di Spagna aveva sostituito il proprio comandante in Lombardia, nominandovi il famosissimo marchese ligure Ambrogio Spinola, il vincitore di Breda, messo alla testa dell’esercito destinato al Monferrato: 16.000 fanti e 4.000 cavalieri tra Spagnoli, Tedeschi, Napoletani e Lombardi. Tali movimenti spaventarono Italiani e Francesi. Il Papa allarmato dal ritorno armato degli Imperatori in Italia cercò d’ottenere da Ferdinando d’Asburgo la revoca degli ordini contro Mantova. Ma da Madrid Filippo IV, e più di lui il conte duca d’Olivares, tempestavano per il mantenimento degli impegni. Ferdinando era in dubbio e, nel dubbio, l’interesse dinastico prevalse e gli fece confermare gli ordini impartiti: Mantova andava presa. Trentasettemila imperiali si misero in marcia verso sud, portando rovina, distruzione e la peste che avrebbe devastato l’Italia settentrionale l’anno seguente. Davanti alla loro avanzata il Papa s’indignò e assunse una posizione ostile all’Impero e agli Asburgo spedendo al confine padano il proprio fratello Carlo Barberini,62 generale di Santa Romana Chiesa, alla testa di circa 20.000 fanti e 2.000 cavalieri, coll’ordine di impedire a qualsiasi costo l’eventuale ingresso dei Tedeschi nello Stato Ecclesiastico. Ma più di questa mossa, minima nel contesto militare generale e in definitiva volta solo al mantenimento della sicurezza dei propri Stati, l’improvviso inasprimento dei rapporti fra Roma e gli Asburgo segnò profondamente il conflitto. “La crisi di Mantova, insignificante in sè, costituì l’evento determinante della Guerra dei Trent’Anni, perché provocò la separazione definitiva della Chiesa Cattolica, allontanò il 62 Morì a Bologna il 25 febbraio 1630 e il suo corpo fu traslato nella cappella Barberini della chiesa romana di Sant’Andrea
della Valle.
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pontefice dalla dinastia asburgica e rese moralmente possibile, per riequilibrare la situazione, l’alleanza fra Potenze protestanti e cattoliche ”L A Roma non si diceva più “I nostri” parlando degli Imperiali e degli Spagnoli come al tempo della Montagna Bianca, quando ci si sentiva accomunati dalla difesa della Fede cattolica; ma, come ora faceva il Papa, si stava sul chi vive e si parlava a bassa voce a causa delle spie spagnole in Vaticano. La Santa Sede armava e, per mantenere il suo esercito, impose tasse su tasse ai propri sudditi. Nel febbraio 1630 “… fu molte volte chiamato il Popolo Romano in Campidoglio a Consiglio, dove si propose che il Papa voleva per agiuto da potersi mantener i Soldati e le difese di Roma, una contribuzione universale da tutto il popolo, che volontariam.te dovesse dare quanto ciascuno poteva conforme alle sue forze.”LI Non ci fu verso di convincere i Romani. Le posizioni si indurirono e, quando il fiscale del Campidoglio passò a minacciare i rappresentanti del popolo, “sentì in risposta, che gli fu data pubblicamente, che se non abbadava a sé, havrebbe provato quanto erano alte le finestre del Palazzo di Campidoglio.”LII Il 24 febbraio i Conservatori di Roma emanarono un editto, il primo di molti che si sarebbero susseguiti nell’arco di quindici anni, con cui obbligavano a un contributo ad libitum chi godeva d’un entrata di 100 scudi all’anno. Cominciarono da sé stessi, imponendosi contributi piuttosto forti e la tassazione procedé; ma, nonostante le minacce, vi fu chi non pagò senza che gli succedesse niente. In novembre comunque sarebbe arrivata la tassa sulla carta e poi altre ancora, sul pane, sul vino, sulla farina. In luglio Mantova cadde in mano agli asburgici prima che qualsiasi soccorso francese potesse raggiungerla e, per quanto riguardava gli Stati Pontifici, la questione finì lì. Ma col trattato di Ratisbona il cardinale de Richelieu ottenne la permanenza di Carlo di Gonzaga-Nevers sul trono mantovano, assicurandosi così il possesso indiretto di Casale, e, mediante clausole segrete e il successivo trattato di Cherasco, s’impadronì direttamente di Pinerolo e della Valle di Perosa, dando al Duca Vittorio Amedeo Alba, Trino e le 72 terre del Monferrato appartenute fino allora ai Gonzaga. In questo modo la Francia aveva ristabilito la sua presenza in Italia, osteggiandovi quella asburgica. Formalmente era ribadita la dipendenza feudale di Mantova dall’Impero, ma in realtà il Ducato, amico e praticamente vassallo di Parigi, avrebbe chiuso agli Austriaci la possibilità di scendere via fiume nella Pianura Padana ed avrebbe alleggerito la pressione politica e militare degli Asburgo su Venezia. La Valle di Perosa e Pinerolo avrebbero consentito il transito immediato e sicuro alle truppe francesi ogni volta che fosse stato necessario contrastare la Spagna in Italia e, soprattutto, la guerra in Germania sarebbe stata influenzata molto meglio ora che da Pinerolo il Cammino di Fiandra era minacciato da vicino e poteva essere tagliato facilmente. In definitiva Richelieu era riuscito a spezzare la parte italiana dell’anello asburgico che circondava la Francia dai tempi di Carlo V. L’influenza francese era ristabilita nella Penisola e vi sarebbe cresciuta fino al pomeriggio del 7 settembre 1706. Per il Papa non era una pessima situazione, perché la presenza francese aiutava a controbilanciare la preponderanza spagnola in Italia e in particolare il pontefice regnante, Urbano VIII Barberini, preferiva che così fosse per conservare una certa libertà di manovra.
IV) Urbano VIII Barberini e la riorganizzazione della frontiera padana Come ho detto, uno degli obbiettivi della Santa Sede consisteva nell’ampliamento del territorio, sia come forma di difesa della propria autonomia politica, sia come mezzo d’arricchimento della famiglia del Papa regnante. 107
Poiché già prima dell’occupazione spagnola il Regno di Napoli presentava una struttura troppo compatta per dare qualche speranza di successo, l’unica direttrice d’espansione papale era stata a nord-est, verso la costa adriatica e la Pianura Padana. Là esistevano buone possibilità, dovute alla frammentazione politico territoriale e là i Papi avevano colpito. L’acquisizione di Ferrara nel 1598 aveva portato le bandiere di Santa Romana Chiesa ad affacciarsi definitivamente sul Po e messo Roma davanti alla scelta fra la prosecuzione dell’espansione e il puro e semplice mantenimento del posseduto. Venne momentaneamente preferita quest’ultima soluzione, perché oltre il Po sarebbero stati inevitabili gli urti colla Spagna, padrona del Milanese, e colla Repubblica di Venezia, entrambe avversarie troppo forti per batterle con una rapida guerra locale e senza pesanti conseguenze sul piano politico e religioso. Poiché però si era già arrivati alla guerra con la Spagna per Parma e Piacenza e a pesanti attriti con Venezia per la Riviera Romagnola, Roma decise di costruire un sistema fortificato che coprisse la sua frontiera settentrionale. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, specie parlando di frontiera padana, non si trattava di coprire una linea retta, lungo il Po, ma un arco da ovest, per nord a est, che garantisse le Legazioni da qualunque offesa proveniente da Modena, a ovest, dal Milanese, a nord e dall’Adriatico, a est. Dal Medioevo esistevano castelli e torri più o meno in tutti i centri abitati dell’Emilia Romagna, ma la rivoluzione tecnologica generata dal crescente e più duttile impiego dell’artiglieria nel Cinquecento li aveva resi obsoleti ed ora la cessazione dell’espansione pontificia e l’inizio dell’assestamento portarono alla necessità di riorganizzare l’apparato militare, riducendolo in tempo di pace alla forza minima necessaria a proteggere i due punti strategici fondamentali di confine – Bologna e Ferrara – che alla fine del Cinquecento erano entrambe senza fortificazioni adatte. Si provvide in pochi anni e, al principio del XVII secolo, la frontiera pontificia si presentava articolata sui due citati punti di forza e su una serie di centri minori di resistenza, tanto minori da essere a malapena capaci di una difesa di primo tempo, mentre sulla costa adriatica si lasciava tutto come stava, affidando la protezione del litorale alle fortificazioni delle città portuali e ad un insieme di torri costiere – assai meno fitte che sulle altre coste italiane per l’assenza di pirati barbareschi in Adriatico – a volte sostenute da un fortino e guardate dalla solita coppia o, se andava bene, terzetto di torrieri. Diverso il discorso per la frontiera terrestre. Ferrara, sul ramo del Po oggi detto Po di Volano, costituente la base operativa avanzata per eventuali azioni contro la Terraferma Veneziana, vide le proprie strutture murarie migliorate ed ebbe 15 bastioni, tre dei quali appartenenti alla cittadella. Questa era situata al margine nordorientale della cinta difensiva, sul fiume, e aveva una pianta pentagonale e stellata, i cui rimanenti due bastioni erano rivolti all’interno, a dominare la città, secondo il classico schema adottato fra gli altri dal conte marchigiano Francesco Paciotti fra il 1564 e il 1568 per la cittadella di Torino. A maggior copertura, sull’opposta riva del fiume, la città era protetta da un’opera fortificata, a semicerchio appena accennato, con tre bastioni. Scendendo ad arco da nord a sud – da Ferrara a Bologna - passando per ovest, la frontiera con Modena era guardata da Bondeno, sul Panaro, e dalla sua frazione della Stellata, poi da Cento, Secco, Crevalcore, Piumazzo, Bazzano e Castel San Giovanni, cioè San Giovanni in Persiceto. Procedendo ancora un po’ verso sud s’incontrava – e s’incontra – Bologna. Come tutte le città, Bologna avrebbe dovuto avere come punto difensivo di forza una cittadella. La Santa Sede però aveva ritenuto opportuno qualcosa di più e di diverso, facendo erigere ad ovest dell’abitato l’imponente Forte Urbano. Situato a circa 25 chilometri dal centro urbano, a ovest, nelle vicinanze di Castelfranco Emilia, aveva una pianta rettangolare, era potentemente bastionato e le sue opere murarie in versione definitiva si dovevano all’intervento di Giulio Buratti nel 1633. La strana posizione di Forte Urbano rispetto alla città che doveva proteggere nasceva sia da una ricerca di sicurezza, sia da un ritorno della politica pontificia alle mire espansionistiche del secolo precedente. 108
La sicurezza era apparsa minacciata una prima volta dalla recente crisi di Mantova del 1629 e, quando terminò, a Roma si erano tratte delle conclusioni più o meno fondate. Erano chiari alcuni fatti, o almeno questa era l’impressione: il progressivo indebolimento della Spagna, impegnata nella Guerra dei Trent’Anni, le poche forze presenti nei Ducati padani e l’apparente tranquillità di Venezia nel loro insieme erano fattori destabilizzanti, ma anche destabilizzabili. Se l’indebolimento degli apparati militari dei confinanti poteva rendere la regione insicura, come era accaduto per Mantova, e preda del primo venuto, purché sufficientemente armato, era pure vero che se quel primo venuto fosse stato il Papa, ne avrebbe potuto cavare notevoli vantaggi. La Curia si orientò allora verso una ripresa dell’espansione; Urbano VIII invece, che era un tipo pacifico, preferiva interessarsi alla difesa. L’unico punto su cui le due diverse concezioni convergevano era nel ritenere scoperta la frontiera nordoccidentale; e Forte Urbano – dal nome del Papa – costituì la soluzione di compromesso fra la politica difensiva del Pontefice e quella offensiva della Curia, Per come era situato, aveva infatti il grosso vantaggio di servire a un tempo come base di concentrazione dell’esercito di campagna; base di partenza dell’attacco contro Modena e l’ovest in generale, base logistica e magazzino avanzato principale per le truppe operanti nell’intera Pianura e, infine, copertura delle città di Bologna e Ferrara. La prima veniva protetta direttamente e frontalmente dagli attacchi da ovest e indirettamente contro qualsiasi altra minaccia, perché non la si poteva assediare se non si neutralizzava il forte, il quale a sua volta non poteva essere assediato se non si neutralizzava la città. Ferrara da parte sua era protetta da attacchi contro le sue linee di comunicazione con Bologna, che era poi lo snodo terminale d’una lunga arteria logistica che nasceva a Roma. Forte Urbano rappresentava quindi un’ottimizzazione di risorse senza precedenti e una notevole innovazione concettuale in un periodo in cui si era ancora molto lontani – sarebbero occorsi non meno di due secoli per arrivarci – dalla protezione lontana dei centri strategici. La sua importanza fu afferrata subito dai sovrani confinanti e fu considerato pericolosissimo in particolare dagli Este, i quali risposero erigendo una cittadella a protezione di Modena. I Veneziani invece concentrarono la loro attenzione sul corso principale del Po, dove costruirono il forte di Pontelagoscuro esattamente di fronte a Ferrara, presidiandolo in media con 40 cavalieri e 400 fanti. Visto lo scalpore suscitato, anche Roma ritenne Forte Urbano sufficiente alla copertura delle Legazioni. Per questo motivo non si preoccupò troppo degli altri centri emiliani e li lasciò colle protezioni fisse che già avevano, effettuando solo qualche intervento sulle strutture murarie, parzialmente adattate al crescente impiego di armi da fuoco di vario calibro. Insomma, con Forte Urbano quello pontificio sembrava un sistema difensivo molto ben congegnato: i centri minori avrebbero spezzato la violenza del primo attacco nemico e dato l’allarme ai due punti di forza. Questi avrebbero avuto il tempo di prepararsi a reagire o, in caso di marcata inferiorità, di predisporre le proprie difese, reggendo senza difficoltà fino all’arrivo dei rinforzi. Ma proprio qui era il tallone d’Achille del sistema: non poteva proteggere il territorio senza un esercito di campagna che, in un periodo in cui tutti gli eserciti erano formati da professionisti, risultava troppo costoso e dunque non esisteva altro che in tempo di guerra e nemmeno da subito. Il Papa, come la maggior parte dei principi italiani, continuava a tenere in armi forze minime. Roma aveva una guarnigione stabile comprendente una compagnia a cavallo e dieci a piedi, alle quali andavano aggiunti la mezza compagnia dei soldati di gendarmeria del Battaglione de’Corsi e il presidio di Castel Sant’Angelo, composto da altre due compagnie e vari militari di castello. Ferrara aveva un presidio di circa 800 uomini, formato da una “Compagnia de’ cavalleggeri” di circa 50 uomini e sette compagnie con circa 750 fanti. A questi si aggiungevano la decina di ufficiali e i circa 350 soldati delle tre compagnie del Forte Urbano, i circa 50 uomini della “compagnia di Guardie de’Cavalleggieri dell’Eminentissimo Legato” di Bologna e, contando gli Svizzeri a disposizione dei Legati come guardie, i militari regolari dei presidi minori, i 150 soldati di gendarmeria della “Compagnia 109
de’ Cacciabanditi a Cavallo o de’Carabini rinforzati” si arrivava a un complesso di circa 1.500 regolari stanziati in tutta l’Emilia. A questo debole apparato in caso di guerra veniva fornito un tardivo sostegno dalle truppe regolari, arruolate a Roma in gran numero e chiamate anche da Avignone, e uno più immediato dalla Milizia cittadina e forese, che nelle Legazioni aveva una forza minima di una compagnia in ogni città di dimensioni almeno medie e raggiungeva il massimo colle 22 compagnie di milizia di fanteria e tre compagnie di Cavalli della Città di Bologna.63 Qual’era il valore militare della Milizia? Non lo sappiamo dire con certezza, perché nell’arco del secolo solo due volte le truppe pontificie furono chiamate alle armi, nelle due Guerre di Castro, la prima nel 1640-44, la seconda nel 1649. Studiando questi due casi, la sola certezza che si ricava e che non si può avere alcuna certezza. Mentre le numerose truppe regolari furono impiegate nel presidio delle due fortezze maggiori e composero la totalità dell’esercito di campagna, le milizie vennero collocate nelle fortezze minori, che caddero come castelli di carte, ma non è facile stabilire se ciò avvenne per la debolezza delle fortificazioni, per l’inefficienza dei miliziotti, per la loro inferiorità numerica o per le tre ragioni insieme. Ad esempio: Bondeno aveva un presidio di guerra di 100 miliziotti e fu presa dal duca di Parma in poche ore il 26 maggio del 1643. Della Stellata, difesa da tre ufficiali e 150 miliziotti con alcuni pezzi d’artiglieria e una torre che dominava il borgo, sappiamo che resse due ore; Crevalcore sopportò cinque ore d’assedio; Bazzano idem, con un presidio di 60 dragoni e 150 miliziotti pontifici, che avevano contro ben 4.000 uomini e che si arresero quando per le perdite subite rimasero ridotti a soli 80 miliziotti. San Giovanni in Persiceto, circondato da strane fortificazioni, dette terragli perché costituite da un largo terrapieno erboso, non venne neanche preso sul serio dal nemico. In definitiva dall’esame delle operazioni risulta che gli unici casi in cui i centri fortificati ressero bene furono quelli che videro un diretto sostegno da parte dell’esercito di campagna, per cui si potrebbe concludere che il problema consistesse nell’inferiorità numerica delle guarnigioni rispetto al nemico. La conclusione sarebbe però pericolosa, perché nelle guerre dell’Età Barocca si hanno moltissimi esempi di piccoli presidii capaci di resistere anche per mesi; di conseguenza resta il dubbio sui motivi che, caso per caso, determinarono la resa dei vari centri di resistenza. In linea di massima pare però possibile affermare che questa intrinseca debolezza fosse la conseguenza di due fattori. Il primo era la preferenza per una politica tendenzialmente aggressiva, dunque più attenta a predisporre basi di preparazione dell’attacco che sistemi difensivi realmente efficaci. Il secondo era la scelta di Roma come punto di maggior concentrazione delle risorse. Non si volevano trascurare le Legazioni, ma esisteva il problema degli alti costi necessari a mantenervi un apparato militare sufficiente. Per aggirare l’ostacolo si era preferita una soluzione pericolosa: l’arretramento dei depositi e l’alimentazione del fronte solo se e quando si fosse resa necessaria. In caso di guerra, da Roma, base logistica maggiore, uomini e materiali risalivano o la via Cassia fino a Viterbo, base intermedia di concentrazione delle risorse genericamente destinate al nord attraverso Orvieto, od Orte, e l’Umbria, oppure marciavano lungo la via Flaminia. In questo secondo caso le si instradava lungo la valle del Tevere, per Narni, Terni e Perugia, facendo loro varcare l’Appennino grossomodo all’altezza di Bagni di Romagna o al Passo del Furlo. Da là potevano puntare indifferentemente verso Cesena e il mare o verso Forlì e la pianura. In questo secondo caso, protette dalle
63 A quanto si apprende dal Fondo “Congregazioni particolari deputate 1600 - 1760”, Tomo 37, fascicolo 5: “Congregazione
sulle armi del 1705” dell’Archivio di Stato di Roma, le tre “compagnie de Cavalli” di Bologna: “ erano la decana, cioè quella del Sig. Capitano Orsi (nobile Orsi dei Quaranta, patrizio e senatore di Bologna) vestita con le casacche azzurre, quella del Sig. Capitano Bovi (conte Bovi dei Quaranta, patrizio e senatore di Bologna) con casacche gialle, quella del marchese Cospi, vestita in rosso”.
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fortificazioni di Forlì, Faenza, Castel San Pietro e Imola, seguivano la via Emilia fino a Bologna, per poi essere distribuite lungo la frontiera. 64 La pericolosità dell’operazione stava nella lunghezza del tragitto e nella strettezza del corridoio da percorrere in Umbria. Se fosse stato tagliato, tutto il dispositivo militare pontificio nella Pianura Padana si sarebbe sgonfiato come un palloncino per mancanza di rifornimenti e ripianamenti; e fu quello che rischiò di capitare durante la prima Guerra di Castro, quando l’intervento toscano interruppe le strade fino a Perugia e costrinse i Pontifici a farvi accorrere migliaia di uomini dal nord. Nel resto del secolo le crisi dovute al lento assestamento seguito in Italia alla Guerra dei Trent’Anni non avrebbero toccato i territori del Papa. Il conflitto francospagnolo che coinvolse Modena, Parma, il Piemonte e la Lombardia fino al 1656 fu tenuto lontano proprio grazie a Ferrara e a Forte Urbano, confermando apparentemente la validità della loro funzione strategica di dissuasione, funzione che sarebbe sembrata di nuovo ben assolta nel primo quinquennio della Guerra di Successione Spagnola. Ma già nel 1708 si sarebbero nuovamente visti i limiti di un apparato statico, concettualmente buono ma troppo ridotto come numero e forza dei punti d’appoggio e dei centri di resistenza; e quindi inefficace senza una buona massa di manovra. In definitiva, dunque, l’assetto della frontiera settentrionale pontificia fu la manifestazione più concreta della politica papale, mirante a grandi risultati ma incapace di perseguirli con la necessaria costanza; capace di approntare con grandi spese i mezzi “una tantum”, come nel 1708, nel 1798 e, definitivamente, nel 1861, ma incapace, per indifferenza e cecità politica, di programmare una seria politica difensiva e, per questo, sempre condannata a costosi fallimenti e, da ultimo, alla scomparsa del suo potere temporale. Per il momento, però, nel 1640, la Santa Sede era ancora, o poteva facilmente essere, un’avversaria temibile, come si sarebbe visto di lì a pochissimo nella Guerra di Castro.
64 Gli itinerari da Roma a Bologna erano diversi e non necessariamente per la via più breve. A rigore la Flaminia era la più
diretta dall’Urbe a Perugia, ma la strada postale più seguita usciva da Roma per la Cassia, all’altezza di Monterosi svoltava a est per Nepi, traversava Civita Castellana e là prendeva la Flaminia, passando per i due cateti anziché per l’ipotenusa. Una volta a Terni, la via più rapida per Bologna sarebbe stata la valle del Tevere, traversando l’Appennino a Bagni di Romagna, ma poiché da San Sepolcro al valico quella era Toscana, ci si poteva passare solo col permesso del Granduca, se no bisognava seguire la Flaminia verso le Marche, varcando l’Appennino al passo del Furlo. Molti però preferivano un altro itinerario: la via Lauretana – in seguito divenuta la statale 77 della Val Chienti – da Foligno su per la Val Nerina a Macerata e poi costeggiando l’Adriatico fino a Loreto, Ancona e in Romagna, cioè, di nuovo, percorrendo i due cateti anziché l’ipotenusa.
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Capitolo X De bello inter ecclesiasticos et Ducem Parmae – La prima Guerra di Castro65
I) Le premesse La Guerra di Castro fu l’ultima vera guerra affrontata dalla Santa Sede. Nei duecentotrent’anni seguenti le truppe pontificie si trovarono a combattere contro gli Ottomani, gli Imperiali, i Francesi e gli Italiani, ma sempre piuttosto all’improvviso e per periodi brevissimi, mai più di tre mesi. Di conseguenza Roma non ebbe mai più modo di coordinare e organizzare le proprie risorse per uno sforzo di lunga durata e forse anche per questo il risultato fu sempre una sconfitta. Non sarà quindi eccessivo narrare quanto più in dettaglio possibile l’ultimo vero conflitto delle armi pontificie. La premessa fu di politica dinastica. Odoardo Farnese, duca di Parma e Piacenza, era feudatario del Papa, gonfaloniere ereditario di Santa Romana Chiesa e molto ambizioso. Nella contesa francospagnola in corso in Italia in margine alla Guerra dei Trent’Anni, aveva sperato d’impadronirsi del Ducato di Milano coll’appoggio francese, ma, osteggiato dai parenti del Papa, Urbano VIII Barberini, li aveva catalogati fra i suoi nemici. Che i Barberini avessero grandi mire non era un mistero per nessuno; ma pure Odoardo ne aveva e, infatti, appena tramontata l’idea di Milano, aveva architettato un piano per impadronirsi del Regno di Napoli, stavolta d’accordo con papa Urbano. L’indiscrezione di un monaco agostiniano consentì agli Spagnoli di sventare la macchinazione; e il Duca di Parma evitò guai maggiori addossando ogni colpa ai Barberini. Benché cattivi nella sostanza, formalmente i rapporti fra Parma e Roma continuavano ad essere buoni, perché il Duca, senza denaro, aveva avuto il permesso pontificio di lanciare due prestiti sul mercato finanziario capitolino, garantendoli colle rendite di due feudi di Casa Farnese nel Patrimonio di San Pietro: Castro e Ronciglione. I primi urti si verificarono alla fine del 1639, quando Odoardo andò a Roma in visita al Papa e non perse nessuna occasione per far capire ai Barberini di ritenerli di rango infinitamente inferiore. Da gente concreta, i nipoti del Papa mirarono alla sostanza, non si curarono degli sgarbi e si offrirono di comperare il feudo di Castro, che Odoardo rifiutò di vendere. Poi, sospettando di loro, sulla via del ritorno a Parma, nel gennaio 1640, si fermò a Castro ed ordinò di metterlo, come anche Ronciglione, in stato di difesa. La cosa fu riferita al Papa, ma non esistevano pretesti per impedirla e tutto rimase apparentemente tranquillo fino a quando i creditori romani del Duca non chiesero di essere soddisfatti. Il debito farnesiano ammontava ormai ad un milione e mezzo di scudi romani quando il Pontefice, dopo molte incertezze ed altrettante pressioni da parte della Curia, si decise ad intimarne al Duca il pagamento, aggiungendoci il disarmo del relativamente imponente presidio di Castro e Ronciglione. Odoardo rispose ordinando di rinforzare le guarnigioni con altri 500 uomini. Urbano ribatté vietandogli la contrazione di ulteriori prestiti, la libera esportazione del grano da Castro nello Stato Pontificio e, infine, revocando la concessione di Paolo III per cui il traffico commerciale da Roma alla Toscana giunto a Monterosi dovesse passare per Ronciglione anziché, come in precedenza, per Sutri, seguendo la Cassia.
65 Per quanto riguarda la Guerra di Castro, le cronache di Giacinto Gigli e Carlo Cartari sono assai diverse. Cartari si diffonde
su quanto accade nel teatro d’operazioni, citando di sfuggita gli avvenimenti romani, mentre Gigli si occupa quasi solo di questi e cita sommariamente e di rado quelli di fuori Roma, il che rende le due cronache complementari benché non perfettamente sinottiche.
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Finanziariamente per Odoardo, che aveva una redditizia dogana poco oltre Monterosi, fu un colpo terribile, al quale il Papa ne aggiunse un secondo col monitorio del 20 agosto, con cui gli intimava di demolire le fortificazioni e congedare i soldati entro il 24 settembre, prorogato poi al 26. Ben sapendo che a Roma si arruolavano truppe, Odoardo intensificò i preparativi bellici. Il Papa lo seppe e convocò una Congregazione particolare, a cui chiese un parere, soffermandosi in particolare sui debiti e sull’armamento dei feudi. Ufficialmente Urbano avrebbe voluto impadronirsi dei feudi acquistando l’ipoteca su di essi, ma la Congregazione – non si sa quanto influenzata da lui stesso e dai Barberini – decise di suggerire per la guerra; e non con solo un corpo di 800 corsi come si era pensato in un primo tempo; ma dando a Taddeo Barberini 12.000 fanti, 66 3.000 cavalieri, un parco di cinque pezzi d’artiglieria e un convoglio di 40 carri, che furono concentrati a Viterbo agli ordini del marchese Giuseppe Mattei.67 I Feudi erano relativamente ben armati, ma non avrebbero certo potuto reggere il confronto. A Roma si sapeva che vi si trovavano 300 moschetti,68 distribuiti tra Castro e Montalto, migliaia di libbre di piombo, sia grezzo che lavorato, circa 260 soldati 69 e che il Duca stava incrementando l’artiglieria presidiaria ed ammassando provviste e foraggi: “frumento, ordeo (orzo), vino, caseo (formaggio), carne salsa (salata).”LIII Era chiaro che si attendeva l’attacco, poiché aveva anche ordinato ai soldati di non dormire fuori dalle loro abitazioni per nessun motivo, pena la morte e la confisca dei beni, e di essere sempre pronti con armi, cavalli e vestiario. II) Le prime operazioni: l’occupazione dei feudi e l’esercito pontificio Scaduti i termini, la preponderante armata di Nostro Signore avanzò contro la baronia di Montalto. I 50 militari ducali che lo presidiavano scapparono a Castro con la loro roba, lasciando soli i sette commilitoni della Torre di Montalto, detta anche Torre della Marina. Questi ultimi, rifiutata la resa alla prima intimazione, l’accettarono alla seconda, consegnando la torre con tutta l’artiglieria, grande e piccola, che vi si trovava. Il 29 settembre a Ponte dell’Abbadia i Pontifici avanzanti incontrarono una lieve resistenza a fuoco da parte di circa 40 fanti ducali e qualche cavaliere che, colpiti dal tiro di quattro grossi cannoni, si ritirarono lasciando un morto sul terreno. L’indomani arrivò a Roma la notizia della presa di Montalto e di altre terre del Ducato. In realtà per tutta quella settimana i paesini e le piccole fortezze farnesiane si arresero e sottomisero man mano che le truppe pontificie vi si presentavano, mentre le guarnigioni si concentravano a Castro, dove pare fossero stati riuniti 400 fanti regolari e 1.000 militi locali, al comando di Delfino Angellieri. Poi, il 6 ottobre, i ducali tesero un agguato alla cavalleria papale, causandole un morto e quattro feriti impiegando artiglieria leggera. Due giorni dopo vi fu un duello d’artiglieria a Cava, fuori Castro e fu lo scontro maggiore di tutta la campagna: i Pontifici ne uscirono indenni e costrinsero i Ducali a ritirarsi lasciando nove morti sul terreno. 66 In un primo tempo era stata ordinata la mobilitazione di 20.000 fanti delle milizie locali. Comunque sia, la rassegna passata
il 15 settembre 1641 dal tenente generale marchese Luigi Mattei e dal generale della cavalleria Cornelio Malvasia, diede un insieme di 6.000 fanti ed 800 cavalieri. 67 Il 10 settembre la città di Roma si offrì – o meglio, i vertici dell’amministrazione della città di Roma offrirono a nome della città – al Papa di pagare un terzo di fanteria forte di 3.000 uomini per tutta la durata della guerra. 68 Queste informazioni, come tutte le seguenti relative alle forze, alle armi ed allo svolgimento delle operazioni, sono tratte tutte e soltanto dalla pagine 4 e 5 della Sentenza del 13 gennaio 1642 (vedasi nota LVI), ragion per cui non vi saranno ulteriori note per indicare la fonte delle varie notizie e dati 69 Le notizie relative all’armamento pontificio e farnesiano, inclusa questa, riportate dal Da Mosto sono talvolta in apparente contraddizione con quanto emerge da alcuni documenti del tempo. In particolare, per quanto riguarda la guarnigione dei feudi farnesiani, non è chiaro se ammontasse a 260 unità per la sola città di Castro o per tutto il Feudo. Dato però che le guarnigioni erano parecchie, è probabile che 260 fossero i soldati stanziati nel capoluogo e un altro mezzo migliaio fosse spezzettato nei presidi minori.
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Dal 10 a tutto il 13 l’Esercito Santissimo continuò a sottomettere i villaggi intorno al capoluogo del Feudo e il 14 ottobre 1641, messe le artiglierie in posizione dominante, intimata la resa minacciando in la distruzione della città, prese anche Castro, la cui capitolazione, valida pure per le poche truppe ducali non presenti, lasciò in mano a Mattei circa 680 prigionieri. Così a Roma si sentenziò che le terre di Castro “eidem Reverendae Camerae Apostolicae applicamus, & incorporamus, & pro applicatis, & incorporatis, haberi volumus & mandamus;”LIV Questo non indusse il duca di Parma a più miti consigli. Il 26 novembre gli furono sequestrati tutti i beni, mobili ed immobili, negli Stati Romani e furono messi all’asta. “D’ordine dell’Eminentissimo, e Reverendissimo Sig. Cardinale Antonio Barberini della S. Romana Chiesa Camerlengo di voto dell’Illustrissime Congregationi de Monti, e Baroni Giudici Comissarij, Si subhastano gl’infrascritti Città di Castro, castelli, luoghi & altri beni70 spettanti al serenissimo Odoardo Farnese Duca di Parma, e Piacenza, de’ quali è stato preso il possesso ad instanza della Reverenda Camera Apostolica, e suo Commissario generale à commodo delli Montisti del Monte Farnese Prima Erettione al quale si è poi aderito dal medemo Commissario per commodo delli Montisti del detto Monte.....”LV Infine gli fu intentato un processo: Odoardo Farnese fu chiamato in causa dalla Reverenda Camera Apostolica che, nella persona del proprio procuratore fiscale generale (attore e promotore) Fausto Gallucci, lo citò per inadempienze nei confronti propri e dei montisti – cioè i creditori – del Monte Farnese e di quello del Piano dell’Abbadia. Il procedimento terminò il 13 gennaio 1642 e il Duca: “Christi Nomine Invocato. Pro tribunali, sedentes, & solum Deum prae oculis habentes. Per hanc nostram sententiam quam de Iuris peritorum consilio ferimus in his scriptis in causa, & causis nobis à Sanctissimo D. N. Papa commissis...”LVI fu giudicato colpevole, comminandogli la scomunica e la decadenza da tutti i diritti feudali. Se Roma si fosse fermata qui avrebbe vinto la partita; ma poiché il cardinal Francesco Barberini aveva un grande esercito e moriva dalla voglia di adoperarlo, convinse sia il Papa che la Congregazione a muovere contro Parma stessa, sicuro che nessuno Stato italiano sarebbe intervenuto. Di conseguenza, già nell’ottobre del ’41, circa due terzi delle truppe pontificie da Castro si avviarono direttamente a Ferrara e Bologna e il resto rientrò a prendere i quartieri d’inverno a Roma con alla testa il generale di Santa Chiesa principe don Taddeo Barberini. Che truppe erano? Scadenti, verrebbe da dire; ma in realtà erano nella media del tempo, in tutto e per tutto. Sappiamo che mancavano di disciplina, ma pure che mancavano spesso della paga. Il comportamento di quelle accantonate a Roma è abbastanza indicativo e l’adoprerò come esempio, anche se non può essere preso con sicurezza come rappresentativo di tutto l’esercito. Le truppe reduci da Castro arrivarono a Roma il 25 ottobre, impiegando dodici giorni di marcia per coprire circa 110 chilometri. La tappa media fu di poco più di nove chilometri al giorno, il che era nella norma dell’epoca, specie in un periodo di pace, quando non c’era alcun motivo di marciare in fretta. I fanti furono accantonati a Capo le Case, che sarebbe poi divenuta piazza Barberini; i cavalieri, prevalentemente corazze, fuori Porta Cavalleggeri, cioè a quattro chilometri di distanza e dall’altra parte del Tevere, tra le falde del Gianicolo e le mura fiancheggianti il lato sud della Basilica di San Pietro, alla base della salita di Sant’Onofrio, coi cavalli nelle stalle dell’Ospedale di Santo Spirito; e né gli uni né gli altri si comportarono un granché bene. 70 L’elenco dei beni e riportato su due colonne sulla medesima facciata. In quella di sinistra, per chi legge, sono riportate le
terre componenti il feudo di Castro e in quella di destra quelle di Ronciglione; in fondo a questa seconda colonna sono elencati tutti i beni immobiliari farnesiani esistenti in Roma.
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Negli eserciti del ‘600 la disciplina non era richiesta nei confronti dei civili. Una dozzina d’anni prima aveva fatto notizia che l’esercito francese, entrando alla Rochelle, non avesse torto un capello agli abitanti, ma perché c’era stato un chiarissimo ordine di Richelieu. Adesso, a Roma, ordini draconiani non ve ne furono, perciò non c’è da stupirsi se: “In questo tempo, essendo in Roma molti Soldati, fecero alle volte delle insolenze, onde ne furno alcuni fatti morire.”LVII La giustizia però non bastava, tant’è vero che, con la prosecuzione della guerra, i crimini commessi da soldati aumentarono in gravità e quantità. Nella primavera del 1643 i militari avrebbero rapinato a mano armata numerosi cittadini, specie di notte, ferendone molti, nonostante parecchi dei responsabili fossero poi stati identificati e condannati a morte. Nel gennaio del 1644 i furti commessi da militari sarebbero aumentati e sarebbe stato pericoloso andare in giro la notte, perché si sarebbe stati letteralmente spogliati e lasciati quasi con la sola camicia. Sarebbero allora fioccate le impiccagioni dei colpevoli, “ma tutti pubblicamente dicevano, che loro rubavano, perché non havevano la paga già per quattro Mesi, et che si morivano di fame.”LVIII Le zuffe erano frequenti. Una, avvenuta il 4 giugno del 1643 nell’accantonamento nell’ospedale di San Giacomo degli Incurabili, lasciò sul terreno due morti e sette feriti, cessò solo per un improvviso acquazzone, riprese tre giorni dopo e causò la morte di altri quattro soldati e il ferimento di molti. Il peggior caso d’indisciplina in assoluto si era però avuto un anno prima, il 21 aprile 1642, quando alcune corazze, dopo aver assistito allo spettacolo d’un giocoliere capace di mangiare da quindici a venti pagnotte, cercarono d’obbligarlo a bere. Quello si rifiutò. Alcuni soldati corsi, reparto impiegato come gendarmeria e stanziato a Trastevere in piazza di ponte Sisto, dissero alle corazze di lasciar stare. Ne nacque una lite, degenerò in zuffa e un luogotenente dei Corsi fu ucciso dalle corazze, quasi tutte bolognesi, mentre un altro fu ferito mortalmente. La zuffa si allargò e solo l’intervento del cardinale camerlengo Antonio Barberini impedì il peggio, solo per quel giorno però. Infatti il 2 maggio, partendo dai loro due accantonamenti di Trastevere e di piazza Fiammetta, nel cuore della città, i Corsi all’imbrunire assalirono le corazze dovunque le trovassero. Uno di loro inseguì e uccise a coltellate una corazza mentre, indebolita per le ferite, in ginocchio si stava confessando a un frate in mezzo alla strada. La sommossa si allargò al presidio di Castel Sant’Angelo, che aveva tentato d’impedire ai Corsi provenienti da piazza Fiammetta di passare il fiume per sfociare in Borgo e prendere alle spalle le corazze accantonate al Santo Spirito. Il cardinale Barberini intervenne più in fretta che poté con parecchi soldati, ma riuscì a domare la sommossa a fatica e a prezzo di diversi morti. Parecchi Corsi fuggirono dalla città. Molti altri, quasi tutti provenienti da piazza Fiammetta, furono circondati e arrestati. L’indomani ne furono condannati a morte otto, mentre agli altri vennero tolte le armi e dato il congedo; invece le corazze il 14 maggio furono spedite a Castro, perché, si diceva a Roma, il duca di Parma aveva armato 20.000 uomini ed era ridisceso in guerra, Nel frattempo, in quello stesso 1642, il Papa era riuscito ad alienarsi un altro vicino. Morta la duchessa d’Urbino, il granduca di Toscana ne aveva ereditato alcuni castelli. Li voleva anche il Papa e gli intimò con un monitorio di rendere noti i propri diritti, che sarebbero stati giudicati però da monsignor Rapaccioli, chierico di Camera. Non era certo il modo migliore per convincere il Granduca dell’obbiettività del giudizio e non fu una buona mossa, anzi. Già allarmati dalle precedenti acquisizioni territoriali sul Po, quando seppero che l’esercito pontificio si stava concentrando verso Nord, gli Stati italiani reagirono. Dapprima versarono aiuti finanziari al Duca di Parma – 40.000 scudi Venezia, 30.000 Firenze e, addirittura, 30.000 al mese il cardinal de Richelieu – poi, spaventati dalla richiesta di passaggio presentata al Duca di Modena da Taddeo Barberini, al cui comando stavano circa 7.000 fanti, 500 guastatori, 1.500 cavalieri e 18 cannoni, strinsero una lega difensiva. Il 31 agosto 1642 la Serenissima Repubblica di Venezia, il Serenissimo Duca di Modena ed il Serenissimo Granduca di Toscana firmarono l’alleanza alla quale, com’era espressamente stabilito, poteva accedere anche il Serenissimo Odoardo Farnese duca di Parma. I contraenti volevano che in Italia 116
si mantenesse la pace e che Papa e Parma si accordassero; infine si impegnavano a costituire un esercito di almeno 12.000 fanti e 1.800 cavalieri, metà forniti da Venezia, un terzo da Firenze ed un sesto da Modena. Per Roma cominciavano i guai. III) La reazione farnesiana e la prima campagna dell’Emilia e dell’Umbria Il Duca di Parma vendé tutto quello che poté, inclusi i gioielli della consorte, ed armò un esercito di 400 fanti e 4.000 cavalieri muovendolo il 10 settembre 1642 contro il territorio della Chiesa, incurante di essere inferiore di forze per 1 a 3. “Il forte Urbano non lo trattenne, i 18.000 uomini delle truppe papali si dispersero come pula; invano i comandanti in sottordine a Taddeo Barberini, i marchesi Mattei e Malvasia, cercarono colle spade sguainate di costringere i fuggenti a fermarsi.”LIX Prese e saccheggiate Piumazzo e Bazzano, il 13 Odoardo era davanti a Bologna e spiegava al Cardinal Legato ed al Senato che faceva la guerra ai Barberini, non al Papa o alla Chiesa. Non gli si diede molta retta. Le porte vennero murate tutte, meno quelle di San Felice e Maggiore, e guardate dalla milizia, dai gentiluomini e da cittadini armati. L’artiglieria fu portata sulle mura e cominciò a sparare per tener lontani i Parmensi, poiché i fossati della città erano senz’acqua. L’arrivo di 600 corazze guidate dal marchese Mattei e l’invio di un convoglio di 20 carri di munizioni da Forte Urbano fecero temere al Duca di poter essere preso tra due fuochi, perciò lasciò Bologna girandole attorno per andare a Imola il giorno dopo. Marciando si trovò un reparto di fanteria e 200 cavalieri pontifici sulla sinistra all’improvviso; ma bastò la carica della sua cavalleria per disperderli e catturarne una decina. Il 18 giunse a Roma la notizia che Odoardo Farnese aveva preso e bruciato due abbazie del cardinal Barberini nel Bolognese e “Il Papa quando seppe questa nuova andò molto in collera con il Cardinal Barberino, il quale gli haveva detto, che in quei luoghi erano molte migliaja di Soldati e non era vero.”LX Temendo il saccheggio, Imola aprì le porte e, cosa rarissima, il passaggio dei Ducali avvenne nell’ordine più assoluto. Lo stesso capitò a Castel San Pietro. Anche i Faentini, dopo un accenno di resistenza, si lasciarono convincere dall’esempio di Imola; e Forlì, guarnita da soli 300 cavalieri, cedette non appena si sentì minacciare d’incendio. Qui però le cose iniziarono a cambiare, più per iniziativa della gente che dei capi. “Il Duca di Parma, non havendo trovato alcuna resistenza nel Bolognese, et altri luoghi, entrò in Forlì la quale è una Città forte di mura et di fosse, et havendola presa pensò di far venire le artiglierie per difendersi bisognando, et per dare ordine a ciò, se ne uscì fuori, et andò nella Città del Sole.71 Quando fu uscito li Forlivesi mandorno al Principe Prefetto D. Taddeo Barberino a farli sapere quel che passava, et che se lui voleva venire contro il Duca che loro haveriano serrato le porte, et havendo il Prefetto risposto che sarebbe venuto, li Forlivesi tagliorno un ponte, acciocché il duca non potesse tornare a Forlì, et serrorno le porte della Città, et fecero prigioni tutte le Genti che il Duca vi haveva lasciato, venne D. Taddeo et combatté con il duca, ma non si può affermare di certo che vi morissero cinquecento Soldati, come si disse. Il Duca fu costretto di ritornare alla Città del Sole.”LXI
71 Terra del Sole, la città fortificata creata dai Medici nel 1564
sul lato emiliano dell’Appennino e guardata da un forte presidio
toscano, allora chiamata Città del Sole.
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Dopo un giorno di sosta il piccolo esercito parmense valicò l’Appennino, ebbe l’ufficioso permesso del Granduca di traversare la Toscana, passò per la zona d’Arezzo e alla fine di settembre sfociò nuovamente negli Stati Pontifici, sul Trasimeno. Occupate Castiglion del Lago e Città della Pieve marciò su Castro. A Roma adesso regnava il panico. L’esercito era tutto al nord e la Capitale, dove il Papa aveva ordinato di completare in fretta le mura, era pressoché indifesa. Ai primi del mese erano arrivate a Roma 2.500 fanti e 500 cavalieri, ma erano stati avviati verso l’Emilia, cosicché bisognò mobilitare in fretta e furia la milizia cittadina72 e requisire, però pagandoli il giusto prezzo, 400 cavalli delle carrozze private per montare un minimo di cavalleria. Il 14 settembre il cardinale Antonio Barberini andò a Castro, rientrò il 16 e partì il 17, seguito da parecchi alti ufficiali e diverse centinaia di corazze verso Civita Castellana, cioè verso l’Umbria lungo la Flaminia. Il 18 settembre il Campidoglio decise d’iscrivere nella milizia tutti gli artigiani di Roma, inquadrati da un capitano per rione e comandati da alcuni colonnelli sottoposti a un generale. Il risultato non fu un granché perché: “…per la maggior parte non erano avvezzi all’Arme, et non solo non sapevano che cosa fusse moschetto, o picca, ma ne anco sapevano maneggiar la spada, et molti di loro si fecero scrivere, et comparsero di mala voglia, et quasi per forza.”LXII In cavalleria non andava meglio, anzi: “Facevansi di continuo molte Compagnie di Soldati a Cavallo sotto il comando di molti gentiluomini Romani, oltre a quelli detti di sopra, li quali cavalli si pigliavano senza cercar altro, come si fussero, et si levavano a quelli, che tenevano carrozza o buoni, o cattivi, et i Soldati erano huomini inesperti, che molti non sapevano ne anco tenere le briglie in mano, et quando erano armati di ferro, non si potevano muovere, né sapevano far andare il cavallo, et pericolavano da i cavalli, se non havevano presto ajuto, et molti cadendo si ruppero le gambe, et andavano così mesti et afflitti, che movevano a compassione chi li vedeva, poiché andavano manifestamente alla morte, et diceva ciascuno, se tali sono i Soldati del Papa, come saranno difese le terre della Chiesa et Roma istessa?”LXIII Con simili truppe, per di più addestrate solo nei giorni di festa, ovviamente la paura a Roma cresceva. I lavori di fortificazione ripresero a pieno ritmo dietro a Castel Sant’Angelo e fino sul Monte Mario, per dominare la vasta pianura compresa fra la fine delle Vie Cassia e Flaminia, il Tevere e il Vaticano, dove il nemico sarebbe giunto venendo dall’Umbria. Furono abbattute case e divelte vigne per sgomberare il campo di tiro ai cannoni lungo tutto il circuito cittadino, specialmente a nord. Si riempirono di vettovaglie i magazzini del Castello e fu costruita una torretta di legno sulla collina del monte Testaccio, al margine
72 La “Milizia urbana del popolo Romano”, come si chiamò dal XVIII secolo, dipendeva formalmente e amministrativamente
dal Campidoglio. La truppa era fornita dagli artigiani, inquadrati dagli appartenenti alla classe media e ad una parte della nobiltà. Esisteva dal XVI secolo, era divisa per rioni e nota come “Milizia dei Connestabili e dei Capotori” o semplicemente “i Capotori”. Fu sciolta dopo l’annessione francese del 1809. Le ultime patenti furono rilasciate nel 1805; cfr. Archivio Storico Capitolino, Roma, Camera Capitolina, n. 34/3, Elenco delle lettere patenti della Milizia dei Connestabili e Capotori 17571805. Dopo la Restaurazione del 1814 i suoi appartenenti vennero ascritti in parte alla neo costituita Guardia Civica come graduati. Va notato che spesso nella milizia urbana sono stati inclusi i Caporioni, ma non è del tutto esatto. In origine i Caporioni erano i capi di ogni singolo rione – “Capo rione”, da cui “caporione” – ed avevano mansioni amministrative di basso livello, giurisdizionale di bassa giustizia di primo grado, cioè più o meno di conciliazione e di contravvenzione e, ovviamente, in quanto capi dei rioni, in certi periodi anche di comando della milizia urbana del loro rione. Al tempo della Restaurazione e pressappoco fino a Pio IX, la carica di Capo rione era già divenuta una sinecura ben retribuita e sempre data a rampolli di famiglie nobili o importanti.
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sud della città, sul lato sinistro del Tevere, da cui si scorgeva il mare, perché correva voce che stessero per arrivare non meglio identificati vascelli nemici. 73 Nonostante la mancanza d’addestramento, gli arruolamenti continuarono e le compagnie di fanteria74 e cavalleria erano avviate verso Civita Castellana man mano che venivano formate. Altre arrivarono a Roma dalla provincia e furono acquartierate nel Palazzo del Laterano, mentre il Papa condonava ai Romani sia la tassa sul vino romanesco, sia il pagamento del Terzo di fanteria promesso per la durata della guerra; però era furibondo coi suoi nipoti che accusava di tradimento: Taddeo aveva avuto ordini e soldi per arruolare 30.000 uomini e non ne aveva 10.000 e il cardinal nipote non aveva detto nulla “per non dar disgusto al Papa.” Per di più, diceva Urbano, era stato commesso un errore gravissimo: “perché tutte le Città erano state spogliate delle loro Militie, et Soldati perpetui, li quali erano stati mandati a Roma, o in altre parti, et il Duca di Parma havendo trovato il passo libero senza haver chi gli facesse incontro era entrato in Bologna, et D. Taddeo non haveva avuto ardire di farsi vedere, sì che quello faceva scorrerie per il Bolognese et per la Romagna.” LXIV Per cercare gente pratica di guerra che riparasse i pasticci fatti dal nipote, il 28 settembre il Papa liberò Mario Frangipane, che da due anni era incarcerato in Castello coll’accusa d’aver fatto uccidere un vassallo, lo fece pregare di voler accettare la nomina a Consigliere Maggiore di Guerra e lo spedì subito dal cardinale Barberini che era coll’esercito a Civita Castellana. Poi fu condonato il confino ad Avignone al duca di Ceri, arrestato ed esiliato due anni prima per aver fatto sparare sugli sbirri incaricati d’eseguire una sentenza in un suo possedimento. In terzo luogo fu mandato il cardinale Spada ad aprire trattative col Duca di Parma. Infine, il 25 settembre Urbano VIII lasciò il Quirinale per il Vaticano. Il popolo lo considerò un segnale di pericolo. Il Vaticano era una fortezza da cui il Papa poteva rifugiarsi in Castel Sant’Angelo attraverso il Passetto di Borgo. Era successo al tempo dell’assedio del 1527, succedeva ora. Il panico esplose. Chi poteva fuggì da Roma “et non si vedeva se non gente che sgomberavano le case di giorno, et di notte, et ciascuno si ingegnava di nascondere la Robba, et cose di pregio, et le Monache trattavano di uscire dai Monasterii et farsi trasportare in luoghi sicuri.”LXV Adesso si poteva solo aspettare. Con un esercito così raccogliticcio, Antonio Barberini certamente non avrebbe osato uno scontro in campo aperto e infatti se ne restò a Civita Castellana, giovandosi della posizione difensiva datagli dall’alto e impervio blocco tufaceo su cui era costruita la città e dalla maestosa fortezza edificata dal Sangallo. L’iniziativa era quindi d’Odoardo, ma che avrebbe fatto? Avrebbe puntato su Castro o su Roma? Aveva solo 3.000 cavalieri e 400 fanti e la scelta non era facile. Per raggiungere 73 Gigli scrisse: “Ai dì 26 Settembre uscì uno editto, che tutti quelli che hanno le Vigne fuor delle Porte dovessero portar
dentro Roma ogni sorte di ferramenti per tutto il giorno seguente, et così fu fatto. Fu rimurata Porta Latina. Si diede principio a fare una grandissima fortificatione dietro a Castello S. Angelo e furno per ciò guaste molte Vigne, et spianate case fuor di Porta Angelica sino a Monte Mario. Et in altre parti furono distrutte molte vigne et giardini di diverse persone, perché erano congiunte alle mura di Roma, o per farne piazze, fra le quali quella del Card. Lanti Decano sotto S. Honofrio, delle monache di S. Cosmato, delli Frati di S. Gregorio sotto il Monte Celio, dove a canto alle Scale della d.a Chiesa fu fatta una gran piazza, guastando anche il giardino del Collegio Germanico che gli era incontro, et in altre parti. Fu portata provisione grandissima in Castello di ogni sorta di Vittovaglia, grano, farina, biscotti, Vino, oglio, Salami, ecc. Fu edificata una casa di legno sopra il Monte Testaccio per scoprire da lontano la Marina, perché si dice che sono Vascelli per mare”, op. cit., pagg. 214-215. 74 I soldati coscritti nei rioni di Regola e Sant’Eustachio andarono a prendere i moschetti in Campidoglio il 24 settembre, quelli degli altri rioni lo fecero nei giorni seguenti.
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Roma, come gli suggeriva l’ambasciatore francese marchese di Coeuvres, l’antico invasore della Valtellina, doveva passare per Civita Castellana. Poteva affrontarne l’assedio e poteva svicolare per la campagna lungo la valle del Tevere, o riprendendo la via Flaminia un po’ più a sud. Certo, avrebbe avuto alle spalle la minaccia dell’esercito pontificio, che, per quanto raccogliticcio, era sempre un’entità non trascurabile e numericamente superiore, ma forse poteva rischiare. Per raggiungere Castro doveva invece risalire verso nordovest e l’unico baluardo che gli si opponeva era Orvieto: scelse Orvieto. Il 3 ottobre arrivò sotto quell’imponente e minacciosa città, arroccata su un ripidissimo massiccio tufaceo e procedé secondo il solito schema: “Dirà Enrigo Anglè, Trombetta di S. A. al Governatore e Deputati della Città d’Orvieto, che volendo l’Altezza Sua passare per detta Città si prega ad aprirgli le porte, e lasciarlo liberamente passare, come hanno fatto tutte le altre Città dello Stato Ecclesiastico, riconoscendolo come Ministro della S. Sede, 75e divotissimo servitore di Sua Santità, senza ricercar da loro altro, che i semplici viveri per il suo passaggio, che in tal caso l’Altezza sua li trattarà come amici buoni, e fedeli. Ma se detti Sig.ri di Orvieto gli negaranno le provisioni, li trattarà come adherenti a suoi nemici, et infedeli alla S. Sede, et a N. Sig.re. e però li dichiara S. A. di abbrugiare, e dare il guasto a tutta la campagna, villaggi e Casine, tanto di detto territorio, quanto anche di quelli delle militie, e soldati, che sono dentro detta Città. Farà istanza il Trombetta d’esser spedito subito. E risolvendo li detti Sig.ri di compiacer S. A. mandaranno con detto Trombetta dui Deputati de principali d’Orvieto per aggiustare il tutto.”LXVI Ma stavolta il trucco non funzionò. Orvieto rispose ironicamente: “Sua Altezza è troppo gran soldato per non conoscere che Piazza sia questa d’Orvieto, et è troppo informata, per non sapere, che genti, e munitioni vi siano dentro per servitio della Città e della Campagna. Si che basta risponderli che faremo il debito nostro sino alla morte, se tanto bisognarà.”LXVII Era un bel guaio per il Duca. Cent’anni prima Orvieto aveva resistito a Carlo V, che aveva molte più forze e artiglierie, l’inverno si avvicinava, mancavano le vettovaglie e c’era sempre il rischio che una sosta prolungata indebolisse il piccolo esercito parmense. Intanto il cardinal Antonio Barberini aveva dato il comando delle truppe, ora concentrate a Viterbo – 12.000 fanti, 3.000 cavalli e 22 cannoni – al commendatore di Malta Achille d’Etampes-Valençay, il quale avanzò e costrinse i Farnesiani a ripiegare rapidamente. 76 75 I Farnese detenevano ereditariamente la carica di Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa. 76 Nato a Tours nel 1593, cavaliere di Malta dal 1606, Valençay aveva servito nell’esercito francese, preso parte all’assedio di
Montalbano nel 1621, sventato la congiura di Chalais contro la vita di Richelieu nel 1626, partecipato alla difesa dell’isola di Ré, durante l’assedio de la Rochelle nel 1627, comandato, durante il medesimo assedio, la flotta francese col grado di viceammiraglio nel 1628 e si era distinto nel 1629 alla battaglia di Susa. Purtropo per lui dall’anno seguente, in quanto capitano delle guardie della regina madre si era trovato nel campo opposto a Richelieu e la vittoria politica del cardinale nella famosa Journée des dupes del 1631 aveva causato il suo allontanamento dalla Francia. Era passato allora a Malta, ma nel giro d’una decina d’anni si era trovato in urto coi vertici dell’Ordine, per cui, tramite suo nipote, all’inizio della Guerra di Castro, complice la carenza di militari esperti, era riuscito a farsi prendere al servizio pontificio, alla testa d’un reggimento di 2000 francesi col grado di mastro di campo generale. Dati i suoi risultati sul campo, Urbano VIII il 13 luglio del 1643 l’avrebbe ritenuto in pectore come cardinale diacono, nominandolo luogotenente generale il 5 settembre e annunciandone la porpora col titol di Sant’Adriano al Foro il 14 dicembre 1643. Valençay, assente da Roma per le operazioni, avrebbe materialmente ricevuto il cappello solo nell’aprile del 1644. Morto Urbano VIII, tentò di tornare in Francia nel gennaio del 1645, ma da Mazzarino gli fu imposto di lasciare immediatamente Parigi, da cui partì ai primi di febbraio. Mori a Roma nel luglio del 1646.
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Odoardo si diresse ad Acquapendente. Il 9 ottobre vi entrò e ordinò di saccheggiarla per impedire al nemico d’approvvigionarvisi; ma era in ritardo. Per disposizione dei generali pontifici, la città era stata abbandonata da tutti i suoi abitanti. Avevano asportato tutto quello che potevano ed incendiato pagliai e fienili, per cui la presa d’Accquapendente non risolse la situazione d’Odoardo. Anzi, i Pontifici gli vennero addosso per assediarcelo, per cui dovette riprendere la via di Parma, inseguito da 2.000 fanti e 600 cavalieri comandati dal generale Cesare degli Oddi.77 Passato in Toscana, per Pontecentino, Montepulciano, Pistoia e Castagnano raggiunse il 31 ottobre il territorio modenese con l’ombra dell’esercito che aveva avuto in luglio: al passaggio dell’Arno aveva ancora circa 2.100 uomini, quasi tutti cavalieri; all’arrivo a Modena, il 9 novembre, si erano ridotti ad appena 1.156, con scheletriche compagnie di otto o dieci soldati. A Roma tirarono un sospiro di sollievo, perché: “…se egli havesse ascoltato il Marchese di Coure, il quale lo consigliava a venire a Roma, l’haverebbe presa facilmente, perché non vi era chi gli potesse fare ostacolo, et erano con raggione tutti pieni di timore, perché vi era gran pericolo.”LXVIII Il Papa smobilitò tutti i soldati ammogliati, per consentire loro d’andare alla semina in campagna, e mandò gli altri verso Bologna. Era il momento giusto per i negoziati; e infatti in ottobre Odoardo sembrò aderire ad un accomodamento diplomatico secondo il quale avrebbe depositato Castro e Ronciglione in mano al duca di Modena fino alla soddisfazione dei creditori. Per di più in dicembre arrivò la notizia della morte di Richelieu, che l’aveva sostenuto con grossi finanziamenti “et si dice, che il Duca, quando seppe questa nova rimase molto mesto, et per tre giorni non si lasciò vedere.”LXIX La depressione fu di breve durata, Odoardo riprese energia e fece finire le trattative quando s’impuntò nell’esigere che il Papa gli rimborsasse le spese di guerra sostenute fin’allora. Urbano, pur avendo smobilitato, aveva proseguito i lavori di fortificazione di Roma, concentrandoli sul Gianicolo e lungo il margine di Trastevere,78 “con una perpetua cortina, et baluardi, da Porta de’Cavai leggeri sino a S. Pancratio, et di là sino a Porta Portese, tagliando Monti, atterrando vigne, et giardini, et case, con una spesa grandissima lavorandovi continuamente molte migliaja di persone.”LXX Inoltre il Pontefice coll’introito delle gabelle appena messe sul sale, la carne e l’olio, manteneva un ragguardevole esercito di non meno di 10.000 uomini, di cui circa 3.000 a cavallo, a presidio della costa tra Roma e la Toscana e dei feudi occupati. Non aveva torto, perché in febbraio il duca di Parma decise di provare a riprenderli arrivandoci per mare. Fatte improvvisamente passare le Apuane a circa 3.000 fanti, li imbarcò a Sarzana su una decina di tartane per andare verso Montalto di Castro. Ma una tempesta sbandò il convoglio, che si rifugiò in parte 77 L’abilità con cui Odoardo riuscì a sganciarsi senza perdite, o la lentezza dei Pontifici che gli permise di farlo, vennero
giustificate a Roma dicendo che “non però si venne mai alle mani, perché si dice che il Papa habbia ordinato, che per quanto sarà possibile non vol che si sparga sangue”, come scrisse GIGLI in, op. cit., Ottobre 1642, pag. 221 78 Il progetto originario, fatto dal cardinale Vincenzo Maculani, noto e abile ingegnere militare, prevedeva la distruzione del monastero di San Cosimato in Trastevere, eretto al tempo di San Francesco d’Assisi. Le circa 80 suore accettarono il trasferimento, ma non la divisione in gruppi di dieci in otto differenti monastri, perciò radunarono i loro parenti e amici e piantarono una grana colossale. Si pensò di spostarle in un altro monastero o convento, spostandone gli occupanti, ma le polemiche si allargarono e interessarono i cardinali protettori o membri dei vari ordini. Alla fine si preferì cambiare il progetto e allargare il circuito delle mura, includendovi il monastero di San Cosimato, nonché la chiesa e il convento dei Francescani di Trastevere.
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a Genova, in parte a Portovenere e solo in minima parte raggiunse l’alto Lazio, da dove gli sbarcati però ripiegarono subito nella maremma senese. In definitiva non ci furono perdite; ma i soldati si erano talmente spaventati che si ammutinarono, chiedendo di non essere più fatti salire su una nave e si sbandarono. Solo 800 rientrarono a Parma. Allo sbarco nel Lazio avrebbe dovuto fare eco un attacco sul Po con 1.680 fanti e 1.150 cavalieri e sei cannoni; ma, fallito il primo, il secondo non ebbe luogo. Né si poté tentare di nuovo, perché Firenze non lo permise. Il tentativo allarmò il Papa. Ricominciarono gli arruolamenti e, per pagarli, fu aumentata la gabella sul sale, che passò da nove a 15 quattrini alla libbra. L’aumento fu la garanzia d’un prestito obbligazionario quinquennale, detto Luogo di Monte del Sale, dall’importo astronomico di 53 milioni di scudi, all’interesse del 7,54%. La sottoscrizione però non ebbe successo, perché dopo l’insolvenza dei Monti Farnesiani la gente aveva poca voglia di rischiare nei prestiti. IV) L’allargamento del conflitto e la campagna del 1643 in Emilia L’atteggiamento neutrale del Granduca cambiò presto, perché le trattative si erano arenate. Si parlava infatti del prossimo sbarco a Genova d’un esercito francese di 3.000 fanti e 800 cavalli a sostegno del duca di Parma e, soprattutto, i Barberini stavano armando. A fine febbraio Odoardo mise insieme 4.000 fanti e 2.000 cavalieri per recuperare Castro. A Roma lo seppero e cominciarono a muoversi. In aprile l’esercito ecclesiastico schierava, tra Roma e le Legazioni quasi 24.000 uomini,79 incoraggiati dalla notizia che i rinforzi Francesi – veri o presunti – erano stati squassati da una tempesta nei pressi di Genova. Dunque ci si armò e, visto che il conflitto ormai si stava allargando, si richiamarono dai fronti tedeschi i migliori uomini d’arme sudditi di questo o quel belligerante; così, mentre a Firenze rientrava il principe Mattias de’Medici, il 17 aprile Modena accoglieva trionfalmente il Sergente Generale di battaglia dell’esercito imperiale conte Raimondo Montecuccoli, tornato per difendere il suo Duca come Mastro di campo dell’esercito estense.80 Il 18 aprile il cardinal Barberini rientrò a Roma a riferire al Papa e il 20 ripartì per Ferrara. Il 10 giugno 1643, mercoledì, il duca Federico Savelli fu nominato Generalissimo di Santa Chiesa per la guerra in corso; ma si seppe pure che Venezia, Modena e la Toscana si erano mosse contro il Papa per impedire l’eventuale espugnazione di Parma e Piacenza, concentrando al confine delle Legazioni un esercito di oltre 8.000 fanti e 2.000 cavalieri,81 dietro i quali stavano altri 13.000 fanti e 1.650 cavalieri veneziani.82 Quello che a Roma non si sapeva era l’intenzione alleata di agire contemporaneamente lungo due diverse e distanti direttrici d’attacco: la prima, spettante a Veneti, Toscani, Parmensi e Modenesi, da nord verso il Ferrarese e le Legazioni per fissarvi i Pontifici; la seconda, dei soli Toscani, contro l’Umbria, la Tuscia e il Patrimonio di San Pietro, cioè l’attuale Lazio Settentrionale, per tagliare le comunicazioni e l’afflusso dei rinforzi dalla Capitale al fronte padano. Se il piano fosse riuscito, le truppe papali sul Po sarebbero rimaste senza rifornimenti e rimpiazzi e avrebbero perso la guerra.
79 17.473 fanti,
4.552 cavalieri, 32 bombardieri e 1.749 miliziotti.
80 Nell’esercito estense il colonnello commendator Panzetti comandava i dragoni, il colonnello Sittoni la cavalleria, 81 In particolare i Veneziani avevano messo a disposizione dell’alleanza il cavalier Angelo Correr alla testa di 2.938 fanti e 314
cavalieri, ai quali si erano aggiunti sul Panaro 2.000 fanti e 200 cavalieri toscani e 3.200 fanti e 1.422 cavalieri modenesi. 82 Ai primi di maggio le forze veneziane assommavano a 15.695 fanti (italiani, greci, oltremarini, corsi, olandesi, oltremontani e francesi) 1.964 cavalieri tra corazze, cappelletti e cavalleggeri, e 12 pezzi d’artiglieria. Di questi: 11.624 fanti e 1.530 cavalieri erano nel Veneto Dominio di Terraferma, 2.662 fanti e 327 cavalieri a Modena e 1.409 fanti e 107 cavalieri a Mantova.
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Per fortuna del Papa, il duca di Parma non accettò di far parte della Lega né di coordinare le proprie forze a quelle alleate e costrinse i Tosco-Veneto-Modenesi ad agire separatamente sul basso corso del Po, mentre lui entrava in azione da solo. Così, mentre ai primi d’aprile si era avuto un primo scontro a Comacchio che aveva visto i Pontifici sconfitti dai Veneziani con la perdita di 600 uomini e due cannoni, il 30 maggio si seppe a Roma che: “Hisce diebus deferens nuncius ad Urbem Odoardum Farnesium peditum equitumque numero non exiguo iterum contra Summum Pontificem, Dominium ecclesiae occupandi proelium sumpsisse; Bondeni, et appellatae loca in ferrariensis Legatione occupasse: Antonium Cardinale Barberini, et Achillem de Estanges (Monsù de Valensé nuncupatum) in illum arma admovisse, certaminaque nonnulla inter ipsos gesta fuisse felici Ecclesiasticorum eventu.”LXXI [In questi giorni un nunzio riporta all’Urbe che Odoardo Farnese con un numero non esiguo di fanti e di cavalieri di nuovo contro il sommo Pontefice muovesse a battaglia per occupare il dominio della chiesa; che avesse occupato il luogo chiamato Bondeno nella Legazione ferrarese, che Antonio cardinale Barberini e Achille de Estanges (chiamato Monsù de Valensé) avessero mosso le armi contro di lui e che nessun combattimento fra di loro avesse avuto esito fortunato agli ecclesiastici.] Infatti il 22 maggio Odoardo si era mosso verso il confine con 900 fanti, 700 dragoni, 1.200 cavalieri e due cannoni, aveva gittato un ponte di barche sulla Secchia il 25 alla Concordia e raggiunto il Ferrarese, mentre lo stesso giorno il provveditore generale veneziano Giovanni Pesaro aveva occupato le rive del Canal Bianco e, nella notte, vi aveva gittato un ponte, stabilendo una testa di ponte sulla riva opposta. Nella notte dal 25 al 26 Valençay con parecchie forze era uscito da Ferrara per sbarrare il passo ai Parmensi. La sera seguente, il 26, il duca di Parma aveva assalito e preso Bondeno, catturandovi 100 miliziotti.83 Il 27 una decina di suoi cavalieri in ricognizione aveva preso contatto alla Schiavona con un corpo di cavalleria pontificio di circa 1.000 uomini. Prontamente avvertito, il Duca aveva spedito contro di loro 500 dei suoi, la cui carica era stata così veemente da respingere i papali fino al loro campo, prendendone 80. Valençay era scampato a stento alla cattura. Sfruttando il successo, Odoardo aveva mandato il giorno dopo 300 fanti e 150 corazzieri a conquistare la Stellata. Difesa da tre ufficiali e 150 miliziotti con alcuni pezzi d’artiglieria, la torre che dominava quel borgo era stata presa in due ore e i difensori erano stati disarmati e mandati a casa. Contemporaneamente un distaccamento di 300 cavalieri papali era stato assalito e battuto da una sezione di cavalleria parmense e da un’aliquota di Croati veneti. Con questo erano state aperte ai Collegati le vie di Ferrara e Bologna e chiuse ai Pontifici quelle di Modena e Parma. Veneti e Modenesi ne avevano approfittato per avanzare e collegarsi ai loro distaccamenti presenti nel Polesine, circa 7.000 uomini tra fanteria e cavalleria,84 mentre il Granduca, visto il buon andamento delle operazioni, preferiva richiamare i suoi Toscani, al comando del generale Ugolini, per reimpiegarli contro l’Umbria. Contemporaneamente Pesaro aveva ricevuto dal Senato l’ordine d’attaccare e aveva spedito il cavalier de la Valette a prendere Figarolo, il colonnello Caruzzi a Mellara e il conte Porto a Lagoscuro. Saldamente attestatosi sulla riva destra del Po, coadiuvato dalla flotta del capitano in golfo Francesco Giustinian e dall’azione del provveditore ai confini Niccolò Dolfin nelle Valli di Comacchio, Pesaro proseguì fino al 3 giugno occupando Trecenta e spostando il grosso a Figarolo, mentre lasciava quattro
83 Che vennero spogliati di tutto e rimandati ai Pontifici nudi e a due per volta. 84 3.000 fanti, 400 dragoni
500 cavalieri modenesi, 2.600 fanti e 300 cavalieri veneziani e un migliaio di fanti e circa 300
cavalieri parmensi.
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compagnie di fanteria italiana a guardia del ponte e del parco d’artiglieria e mandava avanti la cavalleria del conte Porto. Ma sulla sua destra i Collegati si trovavano davanti il cardinal Antonio Barberini, con 12.000 fanti e 3 o 4.000 cavalieri, raccolti a Cento, non lontanissimo da Bologna, fra il 20 maggio ed il 5 giugno. Non ritennero opportuno passare il Panaro senza ponti ed in faccia ad un nemico tanto forte e si limitarono a mandare in avanscoperta piccoli reparti di cavalleria che si impegnarono in scaramucce. Il duca di Modena sollecitò l’invio di maggiori forze veneziane; ed il Senato ordinò a Pesaro di distaccarvi le sue, cosicché il cavalier de la Valette fu fatto avanzare dal Po verso il Modenese con 6.000 fanti, 1.000 cavalieri, artiglieria, salmerie e guastatori, mentre nella zona di Figarolo rimanevano appena 3.800 fanti e 500 cavalieri veneti. Fortunatamente per loro, i Veneziani poterono adoperare la flotta per impegnare il nemico effettuando puntate e incursioni a Rimini e su tutta la costa fino ad Ancona. Il 6 giugno il conte Montecuccoli fu spedito dal duca di Modena in ricognizione verso il campo pontificio con 500 cavalieri e ne tornò dopo un breve e fortunato scontro con qualche prigioniero. Il giorno dopo il Provveditore Correr mandò avanti il cavalier de la Valette che, seguito da 3.000 uomini, si presentò a Cento assalendovi i pontifici. La cavalleria papale uscì in massa per affrontarlo, sostenuta da 1.500 moschettieri. Lo scontro fu violento. De la Valette avanzò fino al campo nemico respingendone la cavalleria; ma questa si riorganizzò e lo caricò mentre era sotto il tiro dei fanti e dei dragoni appostati lungo le siepi e nei fossi. Riuscì a disimpegnarsi grazie all’intervento di 200 moschettieri veneziani e poté ritirarsi senza ulteriori perdite. In totale ci furono circa 200 morti e parecchi prigionieri e, si disse a Roma, i Collegati vennero respinti e un ponte crollò sotto la loro cavalleria in ritirata (giusta punizione divina) aumentando lo scompiglio e le perdite.85 Ma sei giorni dopo i Collegati riprovarono. Nella notte fra il 13 ed il 14 passarono il fiume, che non erano riusciti a varcare in quella fra l’11 e il 12, e occuparono Secco, a circa sei chilometri da Cento, prevenendo il marchese Mattei che stava marciando contro di loro con 2.500 fanti e 2.000 cavalieri. Il Cavalier della Valletta, o che avesse avuto meno perdite di quanto si supponeva, o che fosse un testardo, marciò con 2.000 fanti, 1.000 cavalieri 86 e due cannoni per scorrere il territorio fino a Bologna,87 saccheggiando le campagne per far uscire il nemico dal campo di Cento e, in mancanza di meglio, espugnare Crevalcore. Posto l’assedio alla cittadina, dopo cinque ore di combattimento gli arrivò addosso una forte colonna di truppe.88 Dal Duca di Modena, immobile coi suoi davanti al proprio campo, La Valette ricevé, invece degli attesi aiuti, l’ordine scritto di ritirarsi, cosa che fece abbandonando armi e bagagli, un cannone, 70 morti e 200 prigionieri. Coi soldati demoralizzati che disertavano – e Correr per dare un esempio fece impiccare tre disertori davanti alle truppe – e amareggiati dallo scaricabarile della responsabilità della sconfitta, i Collegati si 85 Ovviamente i dati divergono anche in questo caso. Secondo Da Mosto, Correr scrisse che i Pontifici avevano avuto 30 morti
e dieci prigionieri mentre i Veneziani avevano perso solo un ufficiale e tre o quattro soldati feriti. Ma dalla cronaca Cartari risultano invece almeno 200 morti di ambo le parti e un imprecisato numero di feriti e prigionieri. Data l’entità – 3.000 cavalieri per parte e un totale di 1.700 fanti – e la durata dello scontro, sembra molto più verosimile che abbia ragione Cartari, anche perché scriveva sulla base delle informazioni dei pontifici che, essendo rimasti padroni del terreno, avevano avuto il tempo di contare i morti. 86 Secondo Da Mosto erano invece 1.000 fanti e 3.000 cavalieri. 87 Montecuccoli aveva proposto di far saltare le chiuse di Casalecchio, levando così l’acqua a Bologna ed obbligando i Pontifici a sgombrarne il territorio; ma la consulta di guerra non aveva accettato il piano. Da parte loro i Bolognesi, preoccupatissimi, avevano mandato un’ambasceria al Papa per implorarlo di fare la pace; ma si erano sentiti rispondere solo che “Il signor duca (di Modena) giuoca un poco più gagliardo degli altri, ma rimanderemo la palla. Stiano, i bolognesi, come Noi allegramente, e non dubitino.” 88 Cartari dice che si sarebbero mossi addirittura il cardinal Barberini e Valençay; questo coinciderebbe con quanto Correr sostenne, cioè che la colonna sarebbe stata forte di 12.000 uomini; mentre Brusoni la limitava a 800 cavalieri e 3.000 fanti comandati dal colonnello Radetti.
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ritirarono il 15 giugno a Bomporto in un’ottima posizione, chiesero ai Parmensi di unirsi a loro e spedirono aliquote di cavalleria in perlustrazione, ingaggiando qualche scaramuccia. Ma intanto il marchese Mattei era entrato nel Ducato di Modena, assalendo e saccheggiando Spilamberto, Vignola e Santa Caterina. Le truppe estensi persero oltre 100 morti e vennero respinte fino alla capitale. Il Duca allora si mosse da Bomporto con 800 fanti e 500 cavalieri suoi e 2.000 fanti veneti, raggiunse Castelnuovo il 23 e si preparò a ricevere battaglia. Ma non la ebbe, perché Mattei fu costretto a rientrare ed anzi ad accorrere verso Sud, quando seppe che, contemporaneamente, erano entrati in campagna i Toscani i quali, al comando del colonnello Miniati, avevano assediata e presa Città della Pieve. Restava però in campo il cardinal Antonio Barberini, che già prima aveva occupato Castelfranco con 10.000 fanti e 2.000 cavalieri, distaccando Mattei a Bazzano con 4.000 fanti e 1.500 cavalieri, mandando consistenti aliquote di miliziotti a perlustrare le montagne del bolognese e lasciando ben presidiate Cento, Crevalcore e Castel San Giovanni. Ora, dopo la partenza di Mattei per l’Umbria, il Cardinale aveva rallentato le operazioni – vi furono solo un’imboscata ai danni di due compagnie di cavalleria pontificia il 25 giugno nei pressi di Nonantola, ad opera di 50 corazze e parecchi moschettieri veneziani e qualche scaramuccia fra Veneti e Pontifici nella zona di Lagoscuro – ma non era intenzionato a starsene tranquillo troppo a lungo. Infatti tra il 29 giugno ed il 1° luglio l’attività militare non si era mai arrestata. Il barone Luigi Mattei aveva rinforzato le difese di Ferrara con una Spianata Reale, facendovi lavorare 700 prigionieri di guerra parmensi nell’arco di otto giorni; ma l’attenzione dei Pontifici si era spostata sulla costa, dove il 5 giugno Giustinian aveva preso la torre di Primiero – cioè di Primaro – ed aveva interrotto le comunicazioni via fiume con Ferrara, che non poteva più essere rifornita. Così il 24 i Papali si fecero sotto e riconquistarono la torre e la bruciarono. Giustinian levò le ancore e compì un’incursione a Cesenatico, dove all’alba del 26 fece sbarcare 180 cappelletti sostenuti dai pezzi delle galere. Il presidio ecclesiastico di 700 uomini fu sbaragliato ed ebbe 100 morti, contro soli due veneti. La cittadina venne saccheggiata risparmiando solo le chiese, in cui si era rifugiata la popolazione in preda al panico, e, sopratutto, vennero incendiate tutte le barche di rifornimenti pronte per essere mandate a Ferrara e tutte le torri verso terra. Poi Giustinian volse le prore a nord e il 2 luglio con un’azione anfibia riprese Torre di Primaro. I Romani stavano preparando la controffensiva nel Ferrarese e per loro era fondamentale l’afflusso dei rifornimenti a Ferrara, quindi mandarono verso Torre di Primaro ben 3.000 fanti e 300 cavalieri per riprenderla. Preparato un campo trincerato a due chilometri e mezzo dall’obiettivo, il 4 fecero perlustrare la zona alle pattuglie di cavalleria e il 5 attaccarono. Le artiglierie navali venete aprirono immediatamente il fuoco contro di loro e col loro appoggio i fanti veneziani respinsero facilmente i Pontifici fino al campo, che non presero solo perché troppo inferiori di forze. Nel frattempo il 4 il Provveditore Dolfin aveva attaccato di sorpresa Codigoro con due cannoni e un migliaio tra fanti, cavalieri e guastatori, distruggendo la guarnigione di 1.400 pontifici e il paese. Ma presto si sparse la voce di movimenti romani verso il Finale; e già il 27 Correr ritenne opportuno spedirvi un primo contingente di 1.000 fanti, seguito da lui stesso con un’altra colonna il 6 luglio e spostando truppe in soccorso dei duchi di Modena e Parma.. Agli occhi del nemico si trattava di una ritirata, quindi di debolezza, dunque era il caso di avanzare ed attaccare sia Vignola e Modena, sia il medesimo campo veneziano. Poiché le cose non stavano come i Papali pensavano, i risultati furono cattivi in entrambi i casi Valençay attaccò il campo veneto alle prime luci dell’8 luglio con 3 o 4.000 fanti e 1.000 cavalieri; ma, nonostante l’accuratezza dei preparativi, non si era calcolato bene il tempo per guadare il fiume. I Veneziani erano all’erta e accolsero il nemico con lunghe e nutrite scariche della fanteria. La cavalleria ecclesiastica venne fatta avanzare, prima per sostenere, subito dopo per proteggere la fanteria, che a sua volta cominciò a ritirarsi. Quando le truppe montate pontificie cominciarono a ripiegare, la cavalleria veneta attaccò, le scompigliò e le inseguì fino a Crevalcore, infliggendo loro perdite tollerabilmente basse. 125
Non era andata meglio a Vignola, perché gli Estensi, guidati dal conte Montecuccoli, avevano attaccato per primi e respinto le colonne papali avanzanti. Se sul campo i Pontifici avevano perso, i risultati furono proprio quelli da loro cercati, perché Correr, giudicandosi in cattiva posizione a Camposanto, fece spostare indietro i suoi e si stabilì nel Finale il 10 luglio. I Veneziani furono costretti ad abbandonare Cesena e tutto il resto della Romagna che occupavano dopo averla devastata e saccheggiata, mentre il conte di Castrovillano faceva una puntata in territorio toscano fino a San Casciano, prendendo prigionieri e razziando il bestiame. Questo non impedì al duca di Parma di avanzare l’11 contro San Pietro in Casale con 400 corazzieri e 150 dragoni, cacciandone le otto compagnie di cavalleria e i 200 fanti pontifici del presidio e scontrandosi ancora col nemico il 13. 89 Fu seguito dal principe Farnese, comandante generale della cavalleria parmense, con 1.000 uomini, mentre Montecuccoli faceva una scorreria fino a San Cesareo. Valençay fu assalito dal nemico “in loco dicto de Lambertini”, che dovrebbe essere l’omonima frazione di Crespellano, ma riuscì a cavarsela senza troppe perdite, reingaggiando e battendo il nemico a Crevalcore, catturandovi molti prigionieri. Poi avanzarono 1.200 cavalieri modenesi con molta fanteria in direzione di Forte Urbano, ma il pronto intervento del barone Mattei e del cardinal Antonio Barberini li mise in ritirata e, secondo i Pontifici, vi furono molti disertori della Lega che chiesero d’arruolarsi fra le truppe papali. Toccava ai Pontifici attaccare. Approfittando della partenza della squadra veneta da Primaro e dell’arrivo di altre loro truppe, il 16 poterono impadronirsi della contesissima torre; anche perché le navi del provveditore straordinario d’armata Antonio Cappello, pur arrivate in fretta, avevano solo 300 fanti da sbarco, insufficienti a tenere la posizione, che fu distrutta prima d’essere abbandonata. Lo stesso giorno i Pontifici saccheggiarono il territorio di Bomporto; e la notte seguente i Veneziani li ricambiarono devastando quello di Crevalcore. Si trattava però solo di piccole azioni, perché Valençay stava per muovere con più di 4.000 fanti e due cannoni contro Nonantola, difesa da 600 fanti veneziani al comando del venturiere francese Saint-Martin. V) L’assedio e la battaglia di Nonantola Sostenuti a distanza da un distaccamento comandato dal barone Mattei, il 20 luglio i Pontifici attaccarono e presero Ravarino, terra dei marchesi Rangoni, catturando il feudatario, 160 buoi, vario bestiame e 50 carri di frumento. Poi si presentarono sotto Nonantola, chiave strategica della regione e cardine della difesa di Modena intimandole la resa. Subito si mossero contro di loro il duca di Modena e Raimondo Montecuccoli per impedirne la caduta, mentre i Veneziani erano costretti ad abbandonare la torre di Primaro, sul Po. Valençay aveva sistemato due avamposti a copertura lontana dell’assedio: il primo a Fossalta; il secondo, forte di quattro compagnie di cavalleria al comando di Cesare degli Oddi, al ponte sul fiume Navicello per interdire l’accesso a Nonantola ad eventuali soccorsi estensi. Fidando nella sorpresa, Montecuccoli mandò il comandante dei dragoni estensi, colonnello Panzetti con una sola compagnia di dragoni ad attaccare le quattro di degli Oddi, mentre lui con altre cinque tra corazze e dragoni assaliva il contingente nemico di Fossalta. Battutolo, accorse a sostenere Panzetti, che all’alba del 21 luglio 1643 aveva sconfitto i nemici e lo stava attendendo al ponte. Appoggiato da alcuni piccoli pezzi d’artiglieria e seguito a distanza dal duca Francesco col grosso e l’artiglieria pesante, Montecuccoli avanzò rapidamente contro Valençay, intento a bombardare la piazza, e lo costrinse a 89 Le truppe parmensi erano composte in gran parte da Francesi, Svizzeri e Tedeschi che non andavano per il sottile nei
rapporti colla popolazione. Erano tanto odiati che gli Emiliani non perdevano occasione per ripagarli con pari ferocia se riuscivano a catturarne: si ha infatti notizia di militari parmensi crocifissi, scannati, o mandati giù per i corsi d’acqua legati a tronchi d’albero dopo aver avuto le orecchie e il naso tagliati e gli occhi cavati.
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ritirarsi nel campo di Castelfranco. Subito ne uscì il grosso dei Pontifici, 7.000 uomini guidati dal marchese Mattei e dall’eminentissimo Antonio Barberini che tentarono di accerchiare la retroguardia modenese al Navicello. La proporzione era adesso di 5 a 1 a sfavore degli Estensi; ma i loro dragoni batterono la cavalleria avversaria, mentre la fanteria pontificia finiva sotto il tiro dei cannoni modenesi. Barberini fu respinto e, anzi, volto in rotta il contingente ecclesiastico, mentre i soldati scappavano disseminando la campagna di armi ed equipaggiamenti, fu costretto a fuggire e sopravvisse a stento a una pericolosa caduta dentro un fosso con tutto il cavallo. Nonantola fu sbloccata al prezzo di soli 25 caduti modenesi; i Pontifici invece lasciarono sul terreno ben 800 morti – fra i quali il mastro di campo Vincenzo Gonzaga ed il sergente maggiore Frenfanelli – 200 prigionieri ed ebbero numerosi feriti, compreso il commissario generale della cavalleria Cesare degli Oddi: un vero disastro. Riunitisi il 23 a Spilamberto, i Collegati decisero che l’occasione era troppo buona per lasciarsela sfuggire e marciarono verso Bologna perché, scrisse Montecuccoli: “Si è risoluto hoggi d’operare unitamente e senza perder minuto di tempo, d’andare ad accamparsi rispetto al nemico per stringerlo a battaglia, o togliendoli i viveri dalla parte di Bologna forzarlo a levare il campo et aprirci qualche buona congiuntura per batterlo.....e ... far vedere a’ Preti che non si convien loro il far guerra.”LXXII Il 25 le avanguardie entrarono a Piumazzo, la fortificarono e spinsero punte di cavalleria veneta a riconoscere Bazzano il 27. Visto il perdurare della situazione favorevole, il 29 il grosso dell’esercito della Lega si concentrò a Piumazzo e per poi investire Bazzano ed aprirsi completamente la via di Bologna in modo da non correre neanche il minimo rischio d’intercettazione dei rifornimenti. I Veneziani del colonnello Ornano si presentarono sotto Bazzano il 31 con due cannoni. Non appena li misero in batteria i 300 miliziotti scelti di Bologna che costituivano il presidio si arresero. 90 Bologna non dormiva. Le autorità avevano chiamato a presidiarla un reggimento di fanteria romagnolo e mobilitato 7.000 cittadini; e l’impresa non si presentava tanto facile. Parallelamente la Santa Sede incrementò il numero di effettivi al fronte; e il 24 luglio il cavalier Griglioni lasciò l’Urbe alla testa di parecchi veterani, ai quali erano stati aggregati dei nobili, giunti da Avignone a Roma il 18 luglio per partecipare alla guerra.
VI) Le operazioni per Pontelagoscuro Intanto i Veneti erano in difficoltà perché, dopo una ricognizione fatta dal conte Rossetti, nella notte fra il 30 e il 31 Valençay aveva passato il Po a Pontelagoscuro con 6.000 fanti e 16 compagnie di cavalleria e si era impadronito del locale forte veneziano, catturandovi 40 cavalieri nemici e mettendo in fuga gli altri 400 fanti del presidio e le tre compagnie di cappelletti che stavano accorrendo in loro rinforzo. Pesaro aveva reagito mandando subito altri 500 fanti corsi e tutta la cavalleria al comando di Marcantonio Brancaccio; ma i Pontifici avevano avanzato di circa cinque chilometri ed erano più forti per cui, dopo due ore di combattimento alla Chiavega, i Veneti avevano dovuto ripiegare. La situazione era andata peggiorando di momento in momento. Pesaro aveva lasciato il commissario Mocenigo con 500 fanti e sette cannoni a Figarolo e si era mosso con tutte le altre truppe contro il nemico avanzante; ma aveva rischiato d’essere accerchiato e aveva dovuto fermarsi sulla Chiavega. Staccata una compagnia di corazze e 200 fanti a tenergli sgombre le spalle alla Canda, aveva ordinato di presidiare 90 Ebbero buoni patti di resa; ma, poiché il luogotenente che li comandava cercò d’impadronirsi di alcune valigie di polvere da
sparo, furono fatti uscire colle micce spente, le armi a ruota senza pietra focaia, le spade legate nei foderi, l’insegna arrotolata e privi di munizioni.
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Rovigo con 1.000 uomini della Cernide e chiamato rinforzi da tutte le parti. Cosicché inaspettatamente Correr dovette interrompere l’avanzata su Bologna per aiutare Mocenigo, mentre anche i Veneziani presenti nel Finale, a Mantova e a Legnago accorrevano.91 Lasciato solo, il duca di Modena non poteva continuare l’attacco a Bologna e preferì tornare indietro ed arroccarsi nei suoi Stati, ormai non più sostenuto da due contingenti veneziani, uno di 500 fanti, a sua diretta disposizione, e l’altro di 1.200 nel Finale. Non solo, Pesaro chiese aiuto anche a lui, ma non poté averne, perché gli Estensi erano stati battuti dai Pontifici perdendo 200 morti. Il duca di Modena infatti, dopo aver abbandonato Piumazzo perché la ritirata veneziana l’aveva lasciato scoperto sulla sinistra, si era trovato pressato dal marchese Giuseppe Mattei che, con 4.000 fanti e 500 cavalieri, aveva preso San Cesareo e si era avvicinato a Modena stessa. Pesaro allora chiese soccorso anche al duca di Parma; ma il barone Luigi Mattei si volse contro i rinforzi farnesiani in arrivo a Pontelagoscuro in aiuto ai Veneziani e li sconfisse, catturandone una cinquantina ed uccidendone altrettanti. Come se non bastasse, le popolazioni pontificie delle zone ancora occupate cominciarono a ribellarsi ai Veneziani, le cui truppe diedero segno di demoralizzazione e indisciplina crescenti. Pesaro, perseguitato dalla sfortuna, perse molti materiali in un incendio sviluppatosi nel campo e decise di ricorrere alle maniere forti: fece fucilare quattro albanesi come esempio e destinò nove compagnie di corazze e 120 moschettieri al mantenimento dell’ordine pubblico. Considerando che aveva altri 3.300 fanti e quattro compagnie di cavalleria, ma che le necessità dei presidi e le malattie gli avevano ridotto la massa di manovra della fanteria a soli 1.800 uomini, mentre Valençay ne aveva 3.000 a piedi e 1.500 a cavallo, fu per lui un vero colpo di fortuna non essere assalito prima dell’arrivo dei rinforzi. Questi affluivano rapidamente, ma non in quantità tale da indurlo a muoversi, anche perché nel frattempo pure Valençay ne aveva ricevuti in gran numero, tanto che a fronteggiare i Modenesi era rimasto il solo barone Mattei con 4.000 fanti e 2.000 cavalieri. Finalmente Pesaro, raggiunto da Correr, ritenne di essere abbastanza forte e, scartata l’idea del Duca di Parma di entrare nel Ferrarese, decise di attaccare il nemico per costringerlo a ripassare il Po, batterlo e tornare sulla riva destra. Per un giorno o due sembrò che Valençay lo anticipasse, poiché si sparse la voce d’un’offensiva papale, ma tutto rimase tranquillo e, all’alba dell’8 agosto, 7.000 fanti, nove cannoni e circa 900 cavalieri veneziani avanzarono articolati su tre colonne. Passarono il canale della Chiavega e il 9, controllati a distanza da un migliaio di cavalieri nemici, raggiunsero la zona di Poazzo e vi si accamparono. Pontelagoscuro distava un paio di chilometri ed era stato fortificato bene, ragion per cui Pesaro decise di attendere l’arrivo dell’artiglieria pesante – quattro pezzi da 50 libbre e altrettanti da 20 – e limitarsi ad una ricognizione in forze, effettuata il 10 agosto. I risultati furono poco incoraggianti: era difficile immaginare un pronto recupero di Pontelagoscuro, anche perché nei giorni precedenti vi erano arrivati 2.000 fanti e 600 cavalieri papali e fervevano i lavori di fortificazione. Vi erano addetti 3.000 operai sotto la supervisione di Valençay e Griglioni. La fortificazione consisteva: “in dui baluardi reali, e dui mezi baluardi, con dui denti, altrettante meze lune più la fossa attorno, l’habitationi, che vi si facevano di tavole per mille persone e 36 cannoni, che vi si conducevano, trovandovisi da dodici mila combattenti ecc(lesiasti)ci da avanzarsi in quella parte del paese nemico che fosse giudicato meglio. All’incontro li Veneti per rimediare, havevano tagliato il Canale bianco per inondare il paese; e volevano smantellare la Massa, e dui altri luochi per molestia, e gelosia, che dalli habitanti armati venivali data.”LXXIII
91 Da Mantova partirono 300 fanti e due compagnie di carabine, altri 200 fanti da Legnago.
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Le truppe romane intanto aumentavano, perché il marchese Mattei, fatta una finta verso Cento con un migliaio di fanti e sei compagnie di cavalleria, era venuto a rinforzare la testa di ponte; e Pesaro non ebbe il coraggio di attaccare, limitandosi a far eseguire un costante servizio d’avanscoperta e pattugliamento alla cavalleria. La sua inattività infuriò il Senato, che lo sostituì col Procuratore Marco Giustinian a partire dal 21 agosto. Il 29 Giustinian lasciò la sola Cernide a guardia del campo e attaccò articolando su due colonne le 200 compagnie di fanteria e cavalleria e i 19 cannoni a sua disposizione. Sotto una pioggia battente, i Veneziani impiegarono due giorni a impadronirsi di tutte le postazioni e le opere esterne al forte di Pontelagoscuro, in un incessante scambio di colpi di moschetto e di cannone col nemico. La notte dal 30 al 31 vide l’apertura delle trincee e l’impianto delle batterie, contro le quali i Pontifici traghettarono 300 moschettieri. I Veneti reagirono bene e respinsero l’attacco, catturando 80 prigionieri e proseguendo i lavori d’assedio. Il 31 agosto il fuoco s’intensificò da entrambe le parti; e il 1° settembre si tramutò in un vero e proprio duello d’artiglieria, con almeno 500 colpi – ma pochi danni – sparati dagli ecclesiastici. Giustinian ribatté colpo su colpo e fece compiere a suoi una fruttuosa incursione sulla riva opposta del fiume, ma le cose non andavano bene. I lavori non procedevano per il tempo cattivo e la diserzione dei guastatori, i viveri scarseggiavano per le difficoltà dell’approvvigionamento via fiume, disturbato e spesso impedito dalle continue sparatorie e scorrerie di barche armate delle due parti, Inoltre l’artiglieria nemica era più importuna del previsto, tanto da dover chiedere a Verona altri sei cannoni grossi per rispondere efficacemente sia a quelli del forte che alle batterie nemiche piazzate sulla riva destra. Se i Veneti piangevano i Romani non ridevano e anzi, danneggiati dal continuo bombardamento, decisero di sbarazzarsene con un’azione di sorpresa. Nella notte fra il 2 e il 3 settembre fecero traversare il Po a 1.600 fanti e 360 cavalieri92 e la mattina li lanciarono contro le posizioni avversarie. Presero i primi trinceramenti, ma invece d’inseguire il nemico si dispersero a bottinare, furono contrattaccati, battuti e respinti e persero parecchi morti ed un’ottantina di prigionieri. Un centinaio di Veneziani restarono sul terreno. Nessuno dei due contendenti riusciva a prevalere. I Pontifici stavano per abbandonare il forte, si diceva; erano invece i Veneti in procinto di lasciare l’assedio, si ribatteva. Nella ridda delle voci e per la crescente scarsità di viveri, il consiglio di guerra veneziano scartò l’assalto generale ed optò per la ritirata. I Papali non si mossero – al nemico che fugge ponti d’oro – e prima annunciarono a Roma d’aver vinto uccidendo 3.000 Veneziani, poi rimasero tranquillamente a guardare. Quando anche l’ultimo soldato nemico fu scomparso, si rimisero all’opera intorno alla fortezza e, visto che erano in tanti – 11.000 fanti e oltre 2.000 cavalieri – cominciarono invece a progettare un’invasione del Veneto meridionale. Non sarebbe stata un’impresa difficile. Il massimo disordine regnava nell’esercito della Repubblica, sia fra i capi sempre in contrasto che fra i soldati, tanto da indurre Giustinian a scrivere al Senato che per rimettere ordine avrebbe dovuto far impiccare per indisciplina e insubordinazione metà della truppa. In più le febbri impazzavano, favorite dalla pioggia e dall’umidità del terreno, e bisognava mandare di nuovo soccorsi al duca di Modena, timoroso d’un’invasione nemica. Alla prima difficoltà si provvide trasferendo il campo prima a Fiesso, il 15 settembre, e infine alla Pincara; alla seconda, come al solito, mandando il cavalier de la Valette con 2.500 fanti e 300 cavalieri al Duca e il provveditore Sebastiano Venier con 500 fanti, 100 cavalieri e quattro cannoni a presidiare il Finale; così l’esercito veneto era ridotto a due terzi e non poteva più agire offensivamente. Il risultato? Di lì a poco i Pontifici entrarono nel Polesine, saccheggiarono Fratta e Polesella e giunsero fino a Rovigo. E di nuovo, secondo i Papali, numerosi disertori della Lega chiesero d’arruolarsi nell’Esercito Santissimo. Contemporaneamente il cardinal Bichi, richiamato dalla nunziatura in Francia, 92 Secondo alcune fonti sarebbero stati 2.000 fanti e 500 carabinieri.
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lasciò Roma diretto a Bologna per cominciare i contatti diplomatici colla Lega. Ma i collegati non sembravano intenzionati a posare le armi. Odoardo lo ricevé ma non lo volle ascoltare e, visto che il Cardinale lo chiamava Vostra Altezza, tagliò corto dicendo: “Vostra Eminenza mi vuol burlare, perché io sono un povero Soldato privato di tutto il mio Stato da Papa Urbano, ne sono più Duca di Parma, et però non accade trattare meco di Pace, o di accordo, ma bisogna trattare con la Signoria di Venetia.”LXXIV
VII) La campagna dei Toscani in Umbria: giugno - settembre 1643 Tra la fine di maggio ed i primi di giugno del 1643 le truppe toscane si concentrarono alle Chiane. Al comando del principe Mattias de’Medici, ma di fatto sotto gli ordini dell’abilissimo marchese Alessandro dal Borro. Erano poco più di 7.000 uomini, con un parco d’artiglieria di 30 pezzi 93 e 144 carri,94 ai quali si doveva aggiungere un contingente veneto in arrivo di 1.600 uomini: 1.000 cavalieri, due compagnie di corazze, tre di cappelletti ed alcune compagnie di fanti francesi pagati da Venezia, tutti agli ordini del provveditore Bertucci Valier. Contro di loro la Santa Sede poteva schierare 6.000 fanti, 12 cannoni e poco più di 1.500 cavalieri, dragoni inclusi, sotto il comando nominale di Taddeo Barberini ed effettivo del duca Federico Savelli e del tenente generale della cavalleria Cornelio Malvasia. Lasciata Firenze e varcato il passo di Butteronna sotto una forte pioggia, i Toscani traversarono la zona d’Arezzo, entrarono in Umbria e si presentarono davanti a Città della Pieve, presidiata da 500 pontifici senza artiglieria. Persero – si disse a Roma – 200 cavalieri caduti in un’imboscata tesa dal presidio, ma ciò non impedì loro di iniziare l’assedio, piazzare i cannoni ed intimare la resa, che ebbero il 19 giugno dopo pochi colpi di cannone e per capitolazione: il presidio ebbe salve la vita e le proprietà, uscì, anche perché non sapeva che il duca Savelli stava marciando verso nord con 5.000 uomini, circa 1.800 cavalieri e quattro cannoni, e si spostò verso Orvieto. Intanto Dal Borro andò in ricognizione proprio sotto Orvieto con 2.000 fanti e 800 cavalieri e ci arrivò prima del nemico – sia delle truppe in ritirata da Città della Pieve sia della colonna di Savelli e Malvasia – che giunse il 20. Ne seguì una breve scaramuccia fra una compagnia di cavalleria toscana e i papali; poi i Granducali il 22 puntarono su Monteleone per chiedervi contribuzioni in viveri e foraggi. Avutone un rifiuto, vi mandarono 500 soldati, che furono respinti dalla piccola guarnigione, senza che Malvasia, accampato a Monterubiaglio muovesse ad aiutarla. La mattina del 23 giugno si fecero nuovamente avanti con due cannoni fatti venire la notte ed ottennero la resa, impadronendosi di vino, grano e foraggio in gran quantità e mettendo una compagnia di cavalleria e due di fanteria a presidiare il castello. I Granducali puntarono su Castiglion del Lago per bombardarla, mentre il duca Federico Savelli tentava di coprirla. Non ci riuscì. I Toscani aprirono la trincea e prepararono rapidamente le batterie cominciando subito a bombardarla. Quando gli approcci giunsero a tiro di moschetto dalle mura e Dal Borro iniziò a predisporre l’assalto generale, i 2.400 uomini e 12 cannoni del duca Fulvio della Cornia si arresero. Lo stesso giorno, troppo tardi, comparve l’avanguardia dei 6.000 fanti e 1.000 cavalieri di Savelli che, non essendo molto allenati, non avevano potuto marciare più in fretta. A Roma si gridò al tradimento e si
93 I pezzi di calibro maggiore erano trainati da 24 paia di buoi; quelli minori da cavalli. 94 Dei quali: quattro per il trasporto di petardi; 100 per materiali vari, il cui contenuto era indicato dal colore del telone; 20 per
le barche da ponte; 20 per le tende, più 200 muli, metà carichi di 400 barili di polvere e metà con micce ed altro materiale leggero d’artiglieria.
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montò un processo contro Flavio della Cornia, che fu citato a comparire in tribunale, senza curarsi del fatto che fosse stato portato prigioniero in Toscana. 95 La caduta di Castiglion del Lago indusse Matteo Barberini a marciare da Bologna verso l’Umbria. Intanto i Pontifici si accamparono in vista del nemico; e il principe Mattias cercò in tutti i modi di indurli alla battaglia, senza riuscirvi. Savelli non voleva rischiare lo scontro in campo aperto perché era conscio dell’impreparazione e della scarsa affidabilità dei suoi uomini, parecchi dei quali già stavano disertando Mattias spinse le sue provocazioni fino ad assalire e prendere Passignano, mettendoci poi un presidio di 200 fanti; ma non ottenne nulla e decise di allontanarsi verso Perugia. Non appena lo ebbe fatto, Savelli assalì Passignano e vi catturò tutti i nemici che non uccise. Mattias spedì indietro i dragoni; ma non giunsero in tempo; e la presenza granducale sul Trasimeno rimase affidata alle barche armate. Il 20 luglio i Pontifici compirono un’incursione verso le trincee toscane e s’impadronirono di buoi, muli e cavalli del treno d’artiglieria, perdendo una dozzina d’uomini contro la ventina degli avversari. Federico Savelli si era ammalato ed era stato trasferito dal campo a Perugia per essere curato. Nonostante la sua assenza, il 23 Malvasia avanzò verso Città della Pieve per riprenderla, portandosi dietro 1.000 moschettieri, 200 dragoni, 150 cavalieri, quattro petardi, cioè delle cariche da distruzione da applicare alle porte dei castelli, e due petardieri. Ad un chilometro e mezzo dall’obbiettivo mandò avanti 100 cavalieri ed altrettanti dragoni per tagliare la strada ad eventuali rinforzi nemici, poi ordinò alla fanteria di attaccare la città da tre parti; ma la sorpresa fallì, lui perse una cinquantina di soldati e dové rientrare al campo di partenza. Tentò di riprendere Monteleone, ma non gli riuscì neanche quello. A loro volta i Toscani si erano fatti sotto per occupare Pacciano, preso e saccheggiato, Fabro, Citerna e Castro ma erano stati respinti. Il 12 agosto Savelli era tornato al campo ma, mentre Malvasia il 31 compiva una puntata, prendendo Montecchio, riportandone 60 capi di bestiame, facendone ritirare i 300 uomini del presidio ed aprendosi la via della Toscana al costo di mezza dozzina di dragoni morti, i Granducali ampliavano la zona occupata nei pressi di Perugia, prendendo Passignano dopo un duro bombardamento, Magione e Monte Colognolo, la cui guarnigione di 500 uomini si arrese rapidamente, ma non riuscendo ad impadronirsi di Citerna, salvata dall’intervento del Marchese Pallavicini. Vi si erano presentati 3.000 fanti e 300 cavalieri del Granduca, i quali avevano bombardato la cittadina per sette giorni, inducendola alla capitolazione se non avesse ricevuto rinforzi entro le 13 del 12 agosto. Ma alle 9 dell’11 arrivò da Tiferno il marchese Tobia Pallavicini, alla testa di 1.200 fanti e 300 cavalieri, 96 cogliendo di sorpresa i Toscani e serrandoli fra due fuochi. I Granducali persero due cannoni, tutti i carriaggi, 300 morti, parecchi prigionieri e si dovettero ritirare. Tentarono poi di prendere Trevi, ma fallirono, mentre il nemico gli assaliva e saccheggiava San Casciano. Riuscirono infine a impadronirsi del castello di Carniola, o Carnaiolo, 97 il 22 e, anche se lo tennero per poco tempo, ne ebbero abbastanza per devastarne le fortificazioni e rompere il muro di scarico delle acque delle Chiane dell’Arno che serviva ad impedire l’eventuale eccessivo ingrossamento del Tevere ai danni della Campagna Romana e dell’Urbe stessa. Poi presero San Giustino, vicino a Perugia, senza opposizione da parte del numericamente inferiore contingente pontificio di 1.000 fanti e 260 cavalieri di milizia di Pallavicini. Contemporaneamente mandarono di nuovo le loro galere sul litorale romano, obbligando il Papa a spedire sulla costa un certo numero di fanti e cavalieri. Ma, perso un brigantino ed un bastimento carico di materiale militare, Urbano dové chiedere aiuto navale all’Ordine di Malta, dal quale nella prima decade di settembre ebbe sei galere ben armate, Questo provocò l’ira dei Collegati e li indusse a sequestrare all’Ordine tutte le commende esistenti nei loro territori, trattenendone gli introiti. 95 Il 26 giugno 1643 il cardinale Barberini partì precipitosamente da Roma per Santa Marinella con tutti i cavalleggeri del Papa
perché era giunta la notizia che le galere del Granduca la stavano bombardando e si temeva uno sbarco. 96 Secondo Da Mosto, Pallavicini disponeva di 1.341 tra fanti e cavalieri. 97 Poi ribattezzata Fabro Scalo.
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VIII) La battaglia di Mongiovino Davanti a questi sfavorevoli risultati Savelli uscì da Perugia diretto a Bagnoregio e, per rendere del tutto sicura la strada da Roma a Perugia, ordinò a Malvasia di riprendere Monteleone, cosa che permise ai Pontifici di catturare 192 prigionieri. Adesso sarebbe toccato a Città della Pieve e, vi si diressero da Corciano 2.000 fanti, quattro cannoni e 500 cavalieri romani agli ordini del napoletano Vincenzo della Marra e di Cornelio Malvasia, il quale aveva ordine di arrivare intanto a Mongiovino, vicino a Tavernelle, ed attendervi Taddeo Barberini col grosso. Ma i Granducali furono più veloci e il 4 settembre lo assalirono. Cominciarono disperdendogli una compagnia di cavalleria coll’avanguardia e, non appena Della Marra ebbe occupato la zona, comparve il loro grosso guidato da Mattias e Dal Borro. Della Marra prese posizione su un colle situato tra il paese e l’osteria retrostante la chiesa della Madonna, piazzò i cannoni e aprì il fuoco, sperando di poter reggere fino all’arrivo di Taddeo Barberini. Dal Borro a sua volta schierò due reggimenti di fanteria, metà della cavalleria e buona parte dei cannoni sul colle opposto, rispondendo al fuoco con efficacia tale da scompigliare le linee pontificie. Poi articolò 1.200 fanti e 200 cavalieri su due colonne e li mandò all’attacco. Della Marra ordinò a Malvasia di assalirli di fianco colla cavalleria; ma questi non eseguì l’ordine, perciò i fanti papali vennero respinti dalla loro linea dopo una breve resistenza e ripiegarono verso la cima, davanti ai loro cannoni, riordinandovisi; ma furono nuovamente assaliti e, battuti, fuggirono abbandonando i pezzi, mentre Malvasia abbandonava il campo con 200 cavalieri e Della Marra si chiudeva con 200 uomini nel castello di Mongiovino, dove fu costretto ad arrendersi poche ore dopo. I Pontifici persero da 200 a oltre 1.000 prigionieri, a seconda delle fonti, non meno di 1.500 morti, 500 feriti, almeno due cannoni98 e tutte le salmerie, contro appena una ventina di morti dei Toscani, che poi riconquistarono Monteleone, Panicale, Piegaro e Pacciano, tentarono nuovamente di impadronirsi di Citerna e infine avanzarono su Perugia, dove apparvero il 12 ottobre. IX) La diplomazia all’opera Il colpo era grave per la Santa Sede, la cui politica aveva seguito molto da vicino l’andamento delle operazioni. Quando le cose erano sembrate volgere al meglio, il 20 giugno 1644 era stato affisso in Roma il breve di scomunica di Odoardo Farnese: “S. Mi. D. N. D. Urbani Divina Providentia papae VIII. Declaratio. Quod Odoardus Farnesius olim Dux Parmae, et Placentiae, alijque ei auxilium & c. praestantes incurrerint in Excommunicatione maiorem aliasque censuras, & poenas, cum appositione interdicti;”LXXV ma già in luglio, di fronte all’ingresso dei Toscani in Umbria, alla non favorevolissima situazione in Emilia e alle difficoltà finanziarie, 99 fallito il tentativo di trattative tra il cardinal Bichi e Odoardo Farnese, si era capito che occorreva tentare a Firenze e Venezia. 98 La relazione Cartari parla di due cannoni e tutte le salmerie. Considerando che senza salmerie e traini, tutti presi dai Toscani,
i cannoni non potevano essere portati via, se ne dovrebbe dedurre che Della Marra a Mongiovino avesse solo due dei quattro pezzi con cui era partito da Corciano. E’ invece Gigli che parla di perdite pontificie per più di 1.500 morti, 500 feriti e oltre mille prigionieri, compresi 18 alti ufficiali. Fra i morti elenca il giovane marchese Prospero Santacroce, capitano dei cavalli, tra i prigionieri Carlo Caraffa, Lodovico Baldeschi, Carlo Pio e Virgilio Cenci, tra i feriti Geronimo e Tiberio Astalli. 99 La Santa Sede il 12 maggio 1643 aveva nuovamente ordinato la consegna delle argenterie, stavolta a chi ne avesse per un valore superiore a 100 scudi ed entro 15 giorni. Come in passato, dovevano essere consegnate in Castel Sant’Angelo dietro pagamento – ovviamente cartaceo e in Luoghi di Monte del Sale – del prezzo imposto di dieci scudi e 40 soldi la libbra. I Luoghi di monte del Sale avevano avuto così poco successo che il prezzo reale era di 105 scudi per 108 nominali, fermo
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Il 26 agosto Bichi era arrivato a Firenze ed aveva incominciato i colloqui col Granduca, l’avversario più vicino e più pericoloso. A settembre era rientrato a Roma a riferire al Papa; ma in ottobre non si vedeva ancora nessuna concreta possibilità. La situazione bellica era di sostanziale pareggio fra Pontifici e Lega, quindi non permetteva di concludere la guerra e risultava estremamente costosa, specie per Roma. Per questo il Papa non voleva abbandonare l’idea della trattativa; ma non poteva neanche cessare le ostilità. Si pensò allora ad una pressione militare sul Granduca, per renderlo più malleabile e far pendere la bilancia dei negoziati dalla parte di Roma, pressione tanto più necessaria perché non solo correva voce che Perugia, per evitare i danni della guerra, meditasse di arrendersi al Granduca, ma il malcontento contro Urbano VIII aumentava ogni giorno nella stessa Roma. Ai primi d’ottobre Valençay era uscito da Bologna con 3.000 fanti e 1.000 cavalieri diretto al passo della Porretta per calare su Pistoia e costringere il Granduca a richiamare le truppe dall’Umbria a coprire Firenze. Ma i Pontifici vennero avvistati in tempo per consentire al senatore Capponi, comandante della Piazza, di mobilitare la milizia, armare i cittadini, raccogliere viveri e chiedere aiuto a Firenze. Il Granduca cominciò a chiamare a raccolta i suoi uomini. Mise insieme 4.000 fanti, 700 cavalieri e 400 bande di ordinanze, richiamò il principe Mattias – ma non le truppe – dall’Umbria e intanto spedì subito a Pistoia un treno d’artiglieria di 12 pezzi, quattro dei quali furono però catturati dai Papali. Valençay arrivò sotto la città e l’assalì durante la notte. Riuscì a far saltare una porta, ma dopo due ore di combattimento si rese conto che la resistenza era troppo dura per sopraffarla prima dell’arrivo dei rinforzi nemici e, dopo aver fatto devastare le campagne dalla sua cavalleria, preferì ritirarsi alla Porretta. Ma anche quella non era una posizione sicura perché troppo vicina a Modena e le truppe estensi gli stavano restando l’interesse del 7,54% – cioè di 8 scudi – sui 108 nominali, che implicava un interesse reale del 7,61%, pari a un maggior aggravio per l’erario pontificio di 37.000 scudi. La truffa ai danni dei cittadini consisteva nel fatto che il prezzo imposto all’argento valeva per il solo argento e non per i metalli eventualmente in lega, perciò, defalcato dallo Stato acquirente il valore del calo e quello degli eventuali metalli di lega e considerando che l’argento era comperato come argento vecchio, cioè non valutandone il valore aggiunto dalla lavorazione, in media ogni Luogo di Monte veniva fatto pagare al cittadino 117 scudi contro i 105 del valore di mercato, cioè l’11, 4% in più, il che faceva scendere l’interesse reale sui Luoghi di Monte al 6,83%, permettendo all’erario un risparmio dello 0,71%, pari a 376.300 scudi. Mentre l’argento veniva adoperato per il conio, i Luoghi di Monte del Sale erano usati per pagare gli interessi degli altri prestiti, perciò chi andava a riscuotere le proprie cedole, invece di vedersi pagare in argento o in oro, si vedeva consegnare i Luoghi di Monte del Sale. Il 25 agosto 1643 uscì un secondo editto che ordinava la consegna delle argenterie entro otto giorni per chi ne avesse di valore eccedente i 50 scudi, altrimenti si sarebbero perquisite le case. Il 2 settembre ne apparve un terzo, che imponeva di denunciare entro otto giorni “l’argenteria istoriata”, fino a quel momento esente da consegna, specificando che non vi sarebbe stato obbligo di consegnarla perché la perdita sarebbe stata troppo forte. In compenso l’11 settembre un quarto editto impose di nuovo la consegna dell’argenteria di valore da 50 scudi in su e avvisò che a partire da quel momento si sarebbe proceduto alle perquisizioni. Il malcontento si fece sentire: gli argentieri protestarono lasciando le botteghe senza argento e limitandosi a lavorare il rame, il popolo mormorava che l’inizio delle perquisizioni equivaleva al saccheggio e, alla fine, non vi furono provvedimenti di sorta contro quelli che non obbedirono e non consegnarono nulla. Il 13 settembre una bolla papale ordinò alle Comunità degli Stati Ecclesiastici di sostenere la Santa Sede con 3.600.000 scudi all’anno a partire dal 1° gennaio 1644. Il 26 novembre 1643 i Conservatori di Roma fecero sapere al Popolo che il Papa voleva ancora, per tutta la durata della guerra, tre milioni all’anno da tutto lo Stato Ecclesiastico e 600.000 scudi da Roma in particolare. Come conseguenza, il 2 dicembre 1643 fu aumentata la gabella sul macinato, che passò da tre a quindici giulii per rubbio. l’indomani, 3 dicembre, fu aumentato il prezzo del pane, col semplice espediente di tenerlo fermo al solito bajocco, ma calando il peso della pagnotta da otto a sei once e mezzo. La “Gabella della macina” doveva dare 150.000 scudi all’anno e fu appaltata all’imprenditore Francesco Ravenna per 143.000 all’anno per nove anni. Venne inoltre adoperata per garantire un nuovo prestito, detto Monte della Farina, dell’importo di 600.000 scudi, con cedole – luoghi di monte – da cento scudi l’una all’interesse dell’8%. Nel gennaio del 1644 venne fatto un censimento degli abitanti di tutte le parrocchie dei 14 rioni di Roma, in seguito al quale 14 prelati espressamente incaricati di questo cominciarono le visite casa per casa per convincere chi poteva a comperare almeno un luogo di monte del sale o della farina da cento scudi. Chi non poteva o non voleva, veniva tassato in denaro per una cifra abbastanza forte. In seguito alla violenta reazione dei popolani del rione Regola, che presero le armi, i prelati rifiutarono di continuare, dimodoché fu inventata una nuova tassa da applicarsi alle famiglie in proporzione al numero dei componenti e senza riguardo alle entrate di cui potevano disporre, ordinando ai parroci di distribuire le ingiunzioni di pagamento del primo terzo della tassa entro tre giorni dal ricevimento dell’ingiunzione. Ai parroci che si rifiutarono fu minacciato il carcere.
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già venendo addosso. Lasciò allora 300 uomini nel castello di Sambuco, che venne espugnato dal nemico pochi giorni dopo, e si ritirò ulteriormente, inseguito dalle truppe toscane e modenesi riunite sotto gli ordini di Montecuccoli.
X) La battaglia di Perugia La manovra su Pistoia aveva reso ancor più evidente quel che già si sapeva, cioè che per realizzare il piano strategico della Lega – il taglio delle comunicazioni tra Roma e le Legazioni in Umbria – occorreva la distruzione almeno dell’esercito ecclesiastico in Umbria. Per riuscirci Dal Borro aveva bisogno di una battaglia campale, in cui era probabile che il poco addestramento e la scarsa disciplina dei Pontifici avrebbero determinato il loro collasso. Non riusciva però ad attirarli fuori dai loro campi trincerati e, non avendo altre soluzioni, decise d’attaccare il loro principale accampamento, spostato da Corciano sotto Perugia: “Onde lasciato il suo posto della Spina s’avanzò velocemente verso S. Soste Castello due miglia distante dalla Città verso Occidente, e quivi piantate due Batterie contro il nostro Campo, di là non più lontano d’un quarto di miglio; il sig. Cardinale Padrone, & il Sig. Principe, per esser questo di sito, e di numero, inferiore, con molta prudenza giudicarono ritirarlo un’altro quarto di miglio verso la Città à Monte Morcino.LXXVI La mattina del 13 ottobre Dal Borro decise d’ampliare lo schieramento ad alcune alture dominanti la valle del Tevere per avere miglior visuale: “E sotto il favore di una Batteria di 12 Cannoni, piantata in uno dei colli del suddetto luogo, fece avanzare una parte de’suoi, li quali attaccati da’ Nostri, che per ordine del Sig. Cardinale Padrone e del Sig. Principe li prevennero furono necessitati ritirarsi danneggiati anche dal nostro Cannone, fatto colà avanzare con molta velocità dal Sig. Commendatore di Valensè Generale dell’Artiglieria. La notte giti i Nostri à riconoscere l’Inimico, li uccisero due Sentinelle. Et la mattina seguente dopo alcuni tiri di Cannone avanzatisi da più bande, combattuto coraggiosamente per tre hore continue à viva forza lo necessitarono à cedere, e salvarsi sotto la difesa d’una Batteria, ritirandosi poi a S. Enea, Castello tre miglia lontano di S. Fortunato, fin dove fù da questi per due miglia incalzato” LXXVII dal terzo del mastro di campo Gabrielli, da due compagnie di fanteria Corsa e una di Monferrini, spalleggiati da un’aliquota di cavalleria. Le perdite toscane furono dai Pontifici dichiarate consistenti: “Il numero preciso de’nemici morti non può avvisarsi per hora, perché tuttavia si scopre maggiore ritrovandosene in diversi luoghi sepolti.”LXXVIII Subito Matteo Barberini mandò avanti una colonna di 1.500 fanti e 200 cavalieri verso San Giustino, che fu preso il 15 ottobre facendovi 71 prigionieri; e il giorno seguente la colonna s’impadronì di Colle, catturandovi altri 304 nemici. La sera del 17 giunse il marchese Mattei; e “Seguì alli 18. una picciola fattione ne i controni di S. Martino in Campo Castello vicino al tevere, dove i Nostri, sotto la condotta del Commissario Generale della Cavalleria Masi, furono tirati da un’Aviso giunto all’Armata, che i Villani, benche in poco numero, postisi alla difesa del Castello, havevano dalla muraglia ucciso alcuni Nemici colà in molte truppe concorsi, come fù in effetto. S’incontrarono là giù con essi e dopo una scaramuccia fatta dalla Cavalleria, sino all’uso dell’arme bianca, ritirandosi i Nostri per la inferiorità del numero e delle armi, che i Nemici havevano difensive di petto, e schiena, sopraggiunsero 134
per ordine del Generale Malvagia, che assisteva con somma diligenza, alcuni Moschettieri dell’imboscate, da’ quali furono quelli posti in fuga, con la morte d’alcuni altri. De’ Nostri doi soli ne restorono morti, & alcuni altri pochi feriti.”LXXIX Non sentendosi in grado di reggere ancora, pure a causa della presenza di colonne nemiche in Toscana, Dal Borro ordinò un’ulteriore ritirata del contingente principale dalle vicinanze di Perugia verso il confine, infatti: “..l’Inimico si ritirò dal posto di S. Enea, all’antico suo della Spina, e S. Biagio, di dove hoggi (20 ottobre) s’intende che marciava alla volta del Lago.” perdendo, grazie all’attività partigiana dei contadini in armi “50. carriaggi di viveri che venivano per servitio del suo Campo. Et ogni giorno si fà da’ Villani qualche altro bottino, giungono prigioni catturati da essi, & in buon numero vengono i fuggiti”LXXX XI) L’assedio di Monterchi e l’assedio e la battaglia di Pitigliano Seguendo Dal Borro in ritirata, i Romani penetrarono nell’Aretino e presero Monterchi: “Per relatione di chi viene dal Campo nostro, che si trova à danni del territorio del borgo, s’intende la resa seguita di Monterchio, Piazza stimata da nostri di molta consideratione, per le fortificationi nuovamente aggiunte da Nemici, e per la natural fortezza di essa; Che il Commandante del luogo si sia difeso coraggiosamente quattro giorni con soli 200. Soldati, e gli habitatori; che i patti della resa siano stati la libertà della vita à Soldati, e la sicurezza delle vite, facoltà & honore à Paesani. Che puntualmente siano stati questi osservati; Che il Sig. Tobia Pallavicino à cui è commesso il commando di quell’Armi, operando, con il solito valore e vigilanza, dopo detta espugnatione habbia scacciato l’Inimico da un posto vicino Anghiari, che haveva occupato, e dopo si sia accampato in un luogo tra la detta Piazza d’Anghiari, e l’altra; E che si sia demolito un borgo di Case fuori di Monterchio, affine di renderne all’Inimico più difficile la ricuperatione.”LXXXI Intanto anche un altro contingente di 4.000 fanti, sei cannoni e 800 cavalieri pontifici era entrato in Toscana: “Da Viterbo s’avvisa che il Sig. Cesare degli Oddi Perugino, avanzatosi sotto Pittigliano à tiro di Pistola lo batta con sei Cannoni, 100sperandone ogni giorno la caduta, e che ha fin’hora preso S. Giovanni, e Castel Lottieri.”LXXXII. La città si difese coraggiosamente, attendendo fiduciosa la colonna di soccorso di 2.000 fanti e 700 cavalieri comandata dal sergente generale di battaglia Strozzi, che arrivò il 22 ottobre. Strozzi decise di costringere i nemici a ritirarsi tagliando l’afflusso dei loro rifornimenti e, il 23, s’impadronì del palazzetto chiamato “il Casone” situato sulla strada che andava da Pitigliano a Valentano, prendendovi prigionieri 150 pontifici. Tale mossa costrinse degli Oddi a mandarvi 200 moschettieri che ripresero la posizione quella stessa notte; ma ciò non impedì ai Toscani di catturare una compagnia di dragoni papali ed un convoglio viveri il giorno dopo.
100 In sedici giorni d’assedio vennero sparate dai Pontifici poco meno di 3.000 cannonate a palla normale e a bomba.
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Vista ancora valida la minaccia alle proprie retrovie, al sedicesimo giorno d’assedio degli Oddi cercò la soluzione campale. Schierò al centro la cavalleria e due cannoni, un reggimento di fanteria su entrambe le ali e lasciò il resto della fanteria e gli altri quattro pezzi a coprirgli le spalle. Strozzi concentrò la fanteria in seconda linea e in prima la cavalleria, facendola caricare e cogliendo una bella vittoria. Caddero 400 pontifici e 680 vennero catturati, insieme a tutta la loro artiglieria,101 bandiere, salmerie, munizioni e 500 animali da traino e da sella. Subito dopo, il 25 ottobre, i Toscani avanzarono verso Todi. Disturbati dalla cavalleria di Malvasia e sorvegliati a distanza dal grosso pontificio posto a San Fortunato, si fermarono a Tavernelle il 27, mentre il nemico si accampava a Montecorno.
XII) Le operazioni tardoautunnali Nel frattempo il duca di Modena aveva fatto proseguire l’azione incominciata contro Valençay 102 sull’Appennino intorno a Porretta. Eliminati i Pontifici dalle montagne, i Collegati erano scesi a valle per riprendere le posizioni perdute in precedenza. Già prima Raimondo Montecuccoli si era avvicinato a Pontelagoscuro con 600 cavalieri; ma era stato respinto dalle preponderanti forze nemiche fino a Bondeno, perdendo 200 uomini. Ora gli Estensi, ricevuti i rinforzi il 21 ottobre si presentarono con 3.000 fanti, alcuni cannoni e 1.000 cavalieri sotto il castello di Bazzano. I 60 dragoni e 150 miliziotti pontifici che lo presidiavano ressero per cinque ore, poi, ferito il capitano comandante, morti tutti i dragoni e rimasti solo un’ottantina di miliziotti in grado di combattere, il presidio alzò bandiera bianca. Mentre in novembre la guerra proseguiva stancamente nell’Italia Centrale con piccole e non risolutive azioni, peraltro tutte fallite, come la puntata toscana su Fratta, soccorsa prontamente da Malvasia con 480 fanti e 370 cavalieri; o gli inutili tentativi pontifici contro Sorano, Figini, Montecolognolo, San Martino e Pitigliano, nella pianura padana tutto rimaneva fermo. Solo il 7 dicembre il colonnello Panzetti occupò e saccheggiò Crevalcore con 300 fanti e 200 cavalieri, poi ne uscì con parecchi uomini per scorrere le campagne ma non dispose nessun servizio d’avamposti. Il risultato fu che i Pontifici di Coudré gli arrivarono addosso all’improvviso e recuperarono la cittadina, facendo parecchi prigionieri sia là che fra le squadre nelle campagne. Negli stessi giorni i Veneziani eseguirono qualche ricognizione sull’opposta sponda del Po, riportandone bottino e prigionieri; ma il 9 dicembre si stabilirono definitivamente nei quartieri d’inverno. 103
XIII) La breve campagna del 1644 e la pace L’inverno passò in relativa tranquillità. Venne progettata per il 5 gennaio un’azione anfibia combinata fra Giustinian e Venier per occupare le posizioni nemiche di Francolino e della Zocca ed il forte sulla riva destra del Po, in modo da distruggere i mulini e bloccare i rifornimenti per Ferrara; ma non riuscì. Mentre la notte del 13 i Pontifici sorprendevano un posto di dodici dragoni veneziani a Fiesso, prendendo nove prigionieri e dodici cavalli, Giustinian reimpostava per il 28 l’azione fallita il 5; ma andò male di nuovo. L’11 febbraio i Veneziani, tenaci, decisero di riprovarci, almeno contro Zocca, con 150
101 Comprendente sei cannoni, tre petardi ed una petriera da bombe. Come si è accennato prima, i petardi erano degli apparati
esplosivi per far saltare porte, soprattutto, e mura. Sostanzialmente erano costituiti da un grosso guscio di ferro pieno di polvere da sparo, che veniva applicato alla superficie da far saltare, come il guscio di una lumaca a una foglia. Era tenuto fermo da robuste sbarre di ferro. Poi si accendeva la miccia e l’esplosione scardinava la porta. 102 Achille d’Etampes Valençay fu creato cardinale da Urbano VIII il 14 dicembre 1643, ma, a causa dei suoi impegni militari, poté ricevere formalmente il cappello solo nel concistoro del 18 aprile 1644. 103 Furono disseminati a Trecenta, Poazzo, Fiesso, Frassinella, Crespino, Canalnovo, Polesella, Castelguglielmo, Bagnolo, Caselle, Selara e Figarola.
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moschettieri e 50 cavalieri; e le due compagnie papali, una di dragoni e l’altra di carabine di milizia, persero 15 morti, dieci prigionieri e la postazione Poi più niente fino a metà marzo quando, ricevuti copiosi rinforzi, i Pontifici mandarono 100 cavalieri e 200 moschettieri ad impossessarsi della posizione veneta della Stienta. Giustinian ribatté il 17 facendo passare il Po a metà delle sue forze, comandate dal sergente generale di battaglia Gil d’Has. Questi sloggiò i 200 fanti e 200 cavalieri che presidiavano la Zocca, ed occupò Francolino, volgendo in fuga due reggimenti papali, che si sbandarono rapidamente e gli lasciarono 50 prigionieri in mano, altrettanti morti sul terreno e via libera fino a Ferrara, nei cui pressi poterono giungere senza difficoltà le pattuglie della cavalleria veneta. Giustinian si tenne sull’altra riva, ma seguì Gil d’Has fino alla Paviola. Contemporaneamente Contarini eseguì un’incursione con 500 fanti oltremarini e 70 cavalieri verso Copparo e Coccanile; e Gradenigo e de la Valette marciarono dal Modenese contro Pontelagoscuro e prepararono un’imboscata al nemico. Ebbero successo e poterono uccidere 200 e catturare 150 dei 400 pontifici che erano venuti loro addosso, prendendo il vice-legato monsignor Caraffa e mancando di pochissimo la cattura del cardinale Antonio Barberini, che dové la salvezza alla velocità del suo cavallo. L’operazione veneziana sul Po era stata spontanea; per cui non erano stati approntati rifornimenti sufficienti per combattimenti prolungati e i magazzini erano già semiesauriti dalla lunga stasi invernale. Fu quindi necessario limitarsi ai pochi obiettivi raggiunti e, per mancanza di viveri e foraggi, rientrare nel Finale ed alla Polesella. Nel frattempo, fin da dicembre, il cardinal Bichi era giunto a Venezia ed aveva portato avanti i negoziati di pace. Il 15 di febbraio 1644 era rientrato a Roma per riferire. Urbano VIII era ammalato e non sarebbe guarito. Sapeva d’essere grave e forse questo contribuì al raggiungimento della pace. Bichi ripartì il 25 per Ferrara e Venezia Dopo molte ostinate discussioni, il 31 marzo si arrivò alla firma del trattato di pace a Ferrara. Il Papa perdonò il duca Odoardo Farnese e gli restituì Castro, dopo averne distrutte le fortificazioni. I belligeranti si impegnarono a ristabilire lo statu quo ante, smantellando le opere difensive e restituendo i territori occupati, le artiglierie prese e, nel caso dei collegati, le rendite e le commende sequestrate all’Ordine di Malta.
XIV) Le forze in campo, le perdite e il nuovo atteggiamento Voltaire nel suo Secolo di Luigi XIV parlò sprezzantemente della Guerra di Castro come di “celle des Barberins” sminuendola in mezza riga quasi fosse stata una guerricciola da nulla di cui non valeva la pena parlare per effetti e per dimensioni degli eserciti in campo. Aveva torto? Erano davvero così pochi i combattenti delle due parti, o siamo di fronte al solito altezzoso commento alla francese, brillante e incisivo quanto affrettato e sbagliato? Non è facile avere un’idea chiara delle forze complessivamente in campo per vari motivi. In primo luogo per l’abitudine dei capitani di gonfiare i ruoli per ricevere più denaro di quanto sarebbe loro effettivamente spettato per pagare le rispettive compagnie; in secondo luogo per il frequente ricorso alle milizie locali, specie da parte pontificia e toscana, quando non addirittura all’armamento dei cittadini, come a Bologna e Pistoia. Premesso questo, si può notare che le forze pontificie siano quasi sempre state almeno pari a quelle nemiche sul terreno, andando da un minimo di 10.000 uomini nell’inverno 1642 – 43, ad un massimo di circa 29.000 – di cui 23.806 in Emilia e almeno altri 2.000 sparsi nelle guarnigioni umbre e marchigiane e 5.000 circa tra Roma e Lazio – nell’estate 1643. Le truppe della Lega, includendovi Parma, non sono mai scese al di sotto di 15.000 uomini (gennaio 1643, dopo il fallimento del tentativo farnesiano di riprendere Castro via mare) e dovrebbero aver superato i 30.000 nell’estate del 1643. 137
I Parmensi rimasero in media sui 4.000, andando da un minimo di un paio di migliaia nel settembre 1642 ad un massimo di 5.800 nel gennaio 1643. I Modenesi si tennero fra un minimo di 2.000 e un massimo di poco superiore ai 3.000 uomini. I Veneziani tra i 6.900 dell’agosto 1642 e i 13.800 - 14.000 della primavera e dell’estate 1643. Più complesso il discorso per i Toscani, la cui forza può però essere valutata su una media di 5.500 uomini, con un massimo mobilitato di oltre 11.000 nell’autunno 1643. Erano tanti o erano pochi? Ovviamente vanno presi in considerazione i parametri dell’epoca e, in base ad essi, si può affermare che erano tanti, specialmente perché messi in campo da Stati piuttosto piccoli. Il termine di paragone non può essere che uno: la Guerra dei Trent’Anni, che in quel periodo stava volgendo al termine. E se si pensa che a Rocroy, nel 1642, La Francia aveva potuto dare al Gran Condè 22.000 uomini contro circa 28.000 spagnoli, che a Nordlingen nel 1635 gli eserciti asburgici congiunti di Spagna e d’Austria sommavano 33.000 uomini, ai quali si opponevano i 25.000 protestanti degli eserciti riuniti, si può tranquillamente affermare che rispetto a quelli dei maggiori Stati Europei – Impero, Spagna, Francia – e della coalizione protestante gli eserciti della Lega e del Papa fossero pari a quelli maggiori per equipaggiamento, di pochissimo inferiori quanto a dimensioni e decisamente meno addestrati a combattere I costi erano stati alti e, per molti aspetti, equiparabili a quelli delle campagne della guerra dei Trent’Anni. Basti pensare che la sola Santa Sede nei ventitré mesi dal settembre 1642 al 31 luglio del 1644 aveva sborsato ben 6.105.517 scudi per le spese militari. Non meno impressionante è l’entità delle perdite per una guerra che sulla scia di Voltaire è sempre stata definita piccola e poco cruenta. I morti in combattimento sicuramente accertati delle due parti furono come minimo 8.557 e non meno di 4.000 i prigionieri presi nell’arco di meno di 19 mesi di guerra dal settembre 1642 al marzo 1644. Ma le cifre peccano molto per difetto. Infatti le relazioni della quasi totalità degli scontri si limitano a dire che vi furono molti morti, feriti e prigionieri, senza specificare ulteriormente, oppure danno uno sbrigativo totale di morti e prigionieri insieme, per di più arrotondato al centinaio. Poi bisogna considerare le perdite dovute agli scontri di pattuglie, alle conseguenze delle ferite ed alla guerriglia contadina in Emilia e Umbria, che di solito colpiva uomini isolati e piccoli reparti. Né è possibile ricostruire la situazione dalle carte d’amministrazione, per le già citate alterazioni contabili apportate dai comandanti. Infine occorre ricordare che le malattie fecero strage negli opposti accampamenti, in alcuni casi con medie fino a 50 o 60 morti al giorno. In linea di massima si può quindi tranquillamente supporre che le perdite di ogni belligerante siano arrivate al doppio di quanto sicuramente accertato, il che significa oltre 16.000 morti delle due parti. Se poi si considera che il periodo in cui si svolsero le operazioni fu di due mesi – settembre e ottobre – nel 1642, sette scarsi da fine maggio a inizio dicembre del 1643 e, a voler essere larghi, altri tre nel 1644, si hanno dodici mesi di guerra guerreggiata su ventitré di conflitto, con una media sicuramente accertata di 713 morti al mese, ed una media probabile di almeno 1.400. Prendendo per buona la prima cifra, 8.557, si avrebbe una perdita pari al 14,5% delle forze al massimo assoluto dei loro effettivi (quello dell’estate del 1643) e corrispondente a circa il 18,2% delle forze mediamente in campo, media che è già alta. Se poi si prende per buona la cifra ipotetica di circa 16.000 morti, la proporzione sale a uno spaventoso 29% della forza massima, pari a circa il 34% di quella media: un prezzo altissimo per una guerra di sempre considerata di pochi spari e pochi morti. Questa fu l’ultima vera guerra combattuta dalle armi papali. Tutti i conflitti che affrontarono da sole nei duecent’anni seguenti furono brevissimi, non durarono mai più di tre mesi e dunque non richiesero lo sforzo prolungato tipico d’una guerra autentica. Di conseguenza dopo la Guerra di Castro l’esercito pontificio tornò alle piccole dimensioni del passato e non se ne scostò più, salvo in poche occasioni. Uno dei motivi fu senza dubbio il nuovo assetto del mondo cattolico originato dalla Guerra dei Trent’Anni. 138
Occorre riprendere la citazione di Cecily Wegdwood a proposito della crisi di Mantova come punto di svolta nell’atteggiamento pontificio e nella Cattolicità. Che fino a quel momento i Francesi avessero appoggiato i Protestanti era il segreto di Pulcinella: tutti lo sapevano, nessuno l’ammetteva e, soprattutto, nessuno ne traeva la legittima conclusione, cioè che il fronte cattolico era spaccato in funzione antiasburgica.LXXXIII Mantova mise tutti davanti ai fatti nudi e crudi e fra quei tutti c’era la Santa Sede. Dal 1629 il Papa comprese che appoggiare a priori la Potenza cattolica predominante – in quel momento gli Asburgo – poteva nuocere all’autonomia della Chiesa, creando un potere tanto forte da essere incontrastabile. Un nuovo cesaropapismo avrebbe fatalmente sottomesso i dogmi di Fede alla convenienza dello Stato e, poiché i dogmi, in quanto tali, sono e devono rimanere immutabili, mentre la convenienza di chi governa cambia dall’oggi al domani, il contrasto era ed è evidente e insanabile. Non c’era scelta, per salvare l’autonomia della Chiesa e preservare i dogmi, occorreva indebolire la Potenza principale e l’unico sistema consisteva nell’appoggiare copertamente i suoi nemici, chiunque fossero, in certi casi pure rinunciando a salvaguardare il Cattolicesimo. Per questo la Santa Sede nella prima metà del Seicento si appoggiò alla Francia contro la Spagna e continuò finché, dopo la morte di Mazzarino, Luigi XIV non divenne troppo potente ed esigente, facendo sentire la sua pesante mano fino a Roma. Allora di nuovo la politica ecclesiastica avrebbe cambiato atteggiamento, per cui non soltanto sarebbe stato approvato il candidato antifrancese sul trono di Colonia, ma addirittura nel 1688 sarebbe stato appoggiato il protestante Guglielmo d’Orange contro Giacomo II Stuart, cattolico, si, ma succube di Luigi XIV e dunque, in caso di vittoria, pronto a schierare l’Inghilterra al servizio della Francia. In questo delicatissimo gioco politico, schierarsi militarmente era impossibile e controproducente. Era impossibile perché gli eserciti erano ormai così grandi e costosi da non consentire alla Santa Sede altro che la neutralità o la bancarotta in un anno. Era controproducente perché la parola d’un nunzio, o del Papa stesso, se pronunciata fra quattro mura, poteva essere ammorbidita, modificata, sconfessata o ritirata senza grave perdita pubblica di prestigio, mentre un esercito in campo era una manifestazione di volontà e di scelta di parte così evidente da non poter essere smentita. Politicamente, nulla era definitivamente compromesso in diplomazia, tutto lo era sul campo di battaglia, dove la comparsa delle truppe papali a sostegno d’una parte rendeva loro e la Santa Sede nemiche dell’altra. Dopo la Riforma, o meglio, da quando la Riforma era stata accettata con la pace di Augusta e si era rafforzata con quella di Vestfalia, l’inimicizia concretamente dimostrata da Roma con una guerra contro una potenza cattolica poteva portare a uno scisma, e questo andava evitato a qualsiasi costo. Infine l’asse degli attriti politici internazionali si era spostato sul Reno, perciò in Italia le occasioni di conflitto diretto diminuirono, soffocate sul nascere dalla preponderanza spagnola. Questa stabilità locale contribuì a togliere alla Santa Sede qualsiasi ulteriore preoccupazione di mantenere efficiente lo strumento militare: non c’era occasione d’usarlo, né si prevedeva di farlo in tempi più o meno brevi, allora perché preoccuparsene, visto che costava e non serviva né contro le offese, né per imporre una volontà politica? Non occorreva un esercito efficiente e numeroso, ne bastava uno in grado di controllare il territorio e, all’occorrenza, partecipare a qualche impresa in nome della Fede o nell’interesse pontificio a livello locale; e questo il Papa fece. XV) La fine della Guerra dei Trent’Anni Nel 1636, dopo 18 anni di conflitto più o meno continuo, il nunzio Ginetti aveva avanzato a Colonia le prime proposte di pace per ordine del Papa. I colloqui, incominciati anni dopo a Münster vennero seguiti anche dai ministri di Savoia, Toscana e Mantova, ma il ruolo maggiore fu rivestito dall’ambasciatore veneziano Contarini e dal nunzio pontificio Flavio Chigi, ai quali era stata affidata la mediazione fra Cattolici e Protestanti. E’ vero che la loro attività fu poi sorpassata dai contatti diretti e personali presi fra gli ambasciatori più importanti, specialmente dopo l’arrivo di quello imperiale, ma la mediazione di tutta la prima parte del congresso fu nelle loro 139
mani, finché non rimase in quelle del solo Contarini, non perché Venezia avesse voluto eliminare Roma, ma perché proprio Roma si eliminò da sé. Monsignor Chigi, poi eletto papa nel 1655 assumendo il nome di Alessandro VII, si oppose fin dall’inizio al principio del “cujus regio, ejus religio” e ad altre questioni che ritenne delle eccessive concessioni ai Protestanti, dalla libertà di culto alla permanenza in mani eretiche delle signorie ecclesiastiche tedesche. Questo s’intersecò coll’opposizione svedese a priori a una mediazione così dichiaratamente di parte come quella della Santa Sede e isolò Roma. La Francia, dal canto suo, facendo fronte coi Protestanti, non insisté affatto sulla mediazione pontificia, la cui cancellazione, divenuta una condicio sine qua non, lasciò tutto nelle mani di Contarini, ben accetto per quanto Venezia era stata filo-protestante fin dal 1618. Roma rifiutò i trattati di Münster e di Osnabruck e li impugnò col breve Zelo domus Dei, emanato da Innocenzo X il 26 novembre 1648, si e no un mese dopo che erano stati firmati. Non servì a nulla, perché Vienna, Parigi e Madrid li accettarono, come pure li accettarono tutte le Potenze cattoliche minori. La Chiesa ne uscì male. In termini materiali nella sola Germania perse sedici sedi fra arcivescovili e vescovili, molte delle quali furono trasformate in signorie civili, e migliaia di chiese e conventi colle relative proprietà fondiarie e interessi finanziari. In termini spirituali la frattura causata dalla Riforma era ormai sancita in maniera definitiva. In termini diplomatici era il primo passo della Santa Sede verso un lungo declino che avrebbe proceduto di pari passo con quello del Potere Temporale e sarebbe terminato solo con la fine di esso e del Concilio Vaticano I. Relativamente all’Italia i Trattati di Vestfalia apparentemente vi confermavano lo statu quo, ma la cessione alla Francia di Pinerolo, chiave del passaggio delle Alpi, e la conferma di Mantova al duca di Nevers costituivano due grandi novità per le quali l’influenza francese ricompariva in Italia. Avrebbe continuato ad aumentarvi fino alla guerra della Grande Alleanza e sarebbe scomparsa solo colla battaglia di Torino del 1706. Richelieu aveva avuto come obbiettivo la frantumazione della compattezza territoriale, e quindi politica, della Casa d’Asburgo. Colpendo là dove erano presenti le situazioni più complesse, derivate dai contrasti d’interessi fra i tanti piccoli principi semiautonomi dei quali aveva fomentato il desiderio d’indipendenza, come in Italia e, sopratutto,in Germania, il Cardinale aveva ottenuto il risultato di costringere gli Asburgo ad occuparsi d’una serie pressoché infinita di problemi entro i confini dell’Impero, distogliendoli dall’osservare la Francia e dall’interferire nelle sue vicende interne. L’intervento francese a favore dei Protestanti contro i Cattolici durante la Guerra dei Trent’Anni era stato dovuto esclusivamente a questo: il rafforzamento dei Protestanti aveva provocato l’indebolimento dei cattolici Asburgo, cioè degli acerrimi nemici della Francia. Questa, a sua volta, sarebbe stata pronta a riempire il vuoto di potere lasciato dall’Imperatore in Germania ed in Italia, insediandosi in posizioni strategiche tali da permetterle sia d’influire in modo consistente sulle politiche italiana e tedesca, sia di stroncare, lontano dai propri confini, eventuali attacchi degli eserciti asburgici.
XVI) La Seconda Guerra di Castro del 1649 Nel 1646 Odoardo Farnese morì e lasciò il trono a suo figlio Ranuccio II, il quale si appoggiò al ministro Jacopo Gaufridi – in realtà il provenzale Jacques Godefroi – da suo padre fatto marchese di Castelguelfo e mantenne buoni rapporti con Roma fino a quando non gli venne chiesto di saldare i vecchi debiti paterni o almeno di pagarne gli interessi; e successe quanto era capitato con papa Urbano di beata memoria: o i soldi o la guerra. Lo svolgersi degli avvenimenti seguì fedelmente il vecchio copione. Ranuccio – o meglio il marchese di Castelguelfo – ordinò di fortificare Castro e, in più, osò pretendere la sottoposizione alla sua approvazione delle nomine dei vescovi dei suoi Stati; in particolare quello di Castro. 140
Quando la contesa da finanziaria diventò giurisdizionale, il Papa s’infuriò e nel febbraio del 1649 le truppe pontificie tornarono ad invadere il Ducato. Il sergente di battaglia barone David Widman mosse le unità concentrate a Viterbo e Toscanella 104 contro i 1.300 soldati farnesiani sparsi nelle varie fortezze, scortando il commissario incaricato dell’esecuzione giudiziaria dei crediti dei montisti. Le guarnigioni non si opposero alla lenta marcia dei Pontifici verso Castro e forse tutto si sarebbe accomodato se il nuovo vescovo di Castro non fosse stato mortalmente ferito da un colpo d’archibugio sparatogli lungo la strada mentre il 13 marzo andava ad insediarsi. Allora, l’ira di papa Innocenzo X non conobbe più limiti e prima scomunicò gli assassini e i mandanti, poi passò la questione all’esercito santissimo, coll’ordine di prendere Castro e annetterla insieme a Ronciglione agli Stati della Chiesa. Widman alla testa di 2.000 fanti e 600 cavalieri superò un tentativo di resistenza a Canino, distribuì dei presidii abbastanza consistenti in tutti i castelli e i paesi già occupati e infine marciò verso Castro. Il governatore, Sansone Asinelli, reagì con una prima sortita e prese una decina di prigionieri, poi il 19 giugno Widman cominciò l’investimento della fortezza, chiudendola in modo da impedire altre sortite. In luglio si avvicinò un po’ di più, ma Asinelli lo respinse a cannonate, consentendo a un convoglio di viveri di 70 cavalli di entrare in città. A fine luglio Widman riuscì a impadronirsi delle sorgenti che rifornivano Castro e ai primi d’agosto, ricevuta l’artiglieria105 poté piazzare le batterie e iniziare il bombardamento, che però ebbe pochi risultati. Come suo padre in passato, il duca Ranuccio decise di soccorrere la sua piazzaforte con una colonna di cavalleria. Ne organizzò una di 3.000 cavalleggeri che il 7 agosto uscì da Parma al comando del marchese di Castelguelfo, passò da Ponte d’Enza e mosse verso Mirandola. Le truppe papali in Emilia assommavano a 8.000 fanti e 1.500 cavalieri al comando del veterano barone Mattei. Questi con una colonna di 4.000 tra fanti e cavalieri e quattro cannoni si mise subito in movimento da Castelfranco e arrivò a Cento la sera del 10 per tentare d’intercettare il nemico. Lo scontro si verificò il 13 a San Piero in Casale e fu vinto dal fuoco dell’artiglieria pontificia. I Parmensi persero un terzo delle loro forze, perché restarono sul terreno una cinquantina di morti, furono raccolti tre carri di feriti, e presi un moltissimi prigionieri e grandi quantità di munizioni, oltre a 300 cavalli. Fallita la manovra di soccorso, il 2 settembre 1649 Castro capitolò aprendo le porte al barone Widman e col permesso di uscire a tamburo battente, coi carri bagaglio al seguito, e con via libera fino a Montalto, per imbarcarsi alla volta di Massa, nonché una razione di due libbre di formaggio e un boccale di vino al giorno ad ogni soldato per ogni giorno di viaggio e per i primi quattro di soggiorno a Massa e Carrara. Ranuccio andò alla trattativa, eliminando prima l’ostacolo maggiore, perciò il marchese di Casteguelfo fu condannato a morte e decapitato nel gennaio 1650. Dopodiché si raggiunse un accordo: Ranuccio avrebbe avuto Castro entro otto anni se nel frattempo avesse pagato i debiti ai montisti e 1.800.000 scudi di spese di guerra al Papa. Poiché si sapeva che Parma non sarebbe mai riuscita a pagare né gli uni né le altre, di fatto la questione fu risolta in modo definitivo. Castro fu rasa al suolo da 800 guastatori, completamente, e sul luogo dove un tempo era sorta si disse che fosse stata innalzata una colonna di marmo su cui era scritto “Qui fu Castro”, ma le ricerche fatte in seguito non ne trovarono alcuna traccia, né fra i ruderi, né fra le carte degli archivi.
104 Tuscania. 105 Ebbe dieci cannoni mandatigli da Castel Sant’Angelo, sei da Civitavecchia e poi ancora altri sei.
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Capitolo XI I Pontifici e la Guerra di Candia: 1645-1669
I) Il principio. Abbiamo visto come dopo Lepanto le ostilità navali, più o meno irregolari, fossero ricominciate col loro solito andamento da guerriglia marittima; e si procedé così fino al 1644, quando i Turchi decisero di prendere ai Veneziani l’isola di Creta, per privarli di un importante scalo commerciale, l’ultimo rimasto loro, sulle rotte del Levante. Costantinopoli accusò Venezia d`aver consentito lo sbarco a Creta di sudditi Turchi presi prigionieri dai Cavalieri di Malta sulla caravana di Alessandria. Il Bailo della Porta Ottomana dimostrò la falsità dell’accusa e credette d’essere riuscito a sventare la minaccia quando si sentì dire che, allora, la flotta turca sarebbe partita per combattere solo contro i Cavalieri, senza arrecare alcun danno ai Veneziani. Ma la potente squadra, ufficialmente salpata per Malta, si fermò in realtà a Creta, sbarcandovi un grosso corpo di spedizione. Colti completamente di sorpresa, i Veneziani si chiusero nella piazzaforte di Candia, dove avrebbero resistito per ben 25 anni, e nelle altre fortezze minori dell’isola, che sarebbero state progressivamente assediate ed espugnate. La notizia, unita a quella della ripresa dell’avanzata ottomana per terra verso l’Austria, giunse come un lampo nel mondo cristiano e provocò una reazione che i Turchi non si aspettavano: il Papa bandì la Crociata. Non si trattava certo più di andare a liberare i Luoghi Santi in Palestina, ma di salvare la Cristianità dall’attacco degli infedeli; e la reazione fu vivissima e spontanea in tutta Europa. Decine di migliaia di volontari accorsero a combattere sotto le bandiere dell’Imperatore per terra e sotto quelle di San Marco per mare. Gli Stati italiani risposero alla chiamata e inviarono contingenti terrestri e navali in soccorso dei Veneziani. Il teatro principale della guerra, per quanto riguardava i Turchi e gli Italiani, era Candia. Le truppe, assedianti e assediate, che vi si trovavano dovevano essere rifornite di tutto via mare, dunque lo sforzo principale doveva essere compiuto dalle flotte e l’aiuto più prezioso era quello navale. A partire dal 1645, quasi ogni primavera la squadra toscana, salpava. A Civitavecchia le si univano le galere pontificie e poi, man mano che si circumnavigava l’Italia, procedendo verso il Levante, navi napoletane, talvolta spagnole, siciliane e, sempre, maltesi si aggregavano. A Corfù avveniva l’unione alla flotta veneta; poi tutti insieme andavano a combattere contro i Turchi nel Mediterraneo Orientale. Fino al 1848 sarebbe restato l`unico esempio di totale cooperazione delle forze militari italiane dei diversi Stati. Ma l’inizio della guerra fu alquanto lento, almeno per quanto riguardava i Veneziani, ai quali occorsero circa due anni prima di poter cominciare ad agire efficacemente. La priorità dei Turchi era nelle operazioni terrestri sull’isola, che doveva prima essere conquistata e poi utilizzata come base logistica per rifornire le truppe che ne assediavano la capitale. Avevano quindi interesse a sbarcare quanti più uomini e materiali potevano nel minor tempo possibile. Per questo era necessario far viaggiare i convogli fra Costantinopoli e Creta senza farli avvistare dal nemico, sfuggire lo scontro a qualsiasi costo e rientrare nel Bosforo al più presto. Per riuscirci, la Porta disseminò tutte le isole dell’Arcipelago e le coste elleniche di spie ed informatori, che la tenessero informata e che, all’occasione, diffondessero notizie false sui suoi movimenti per trarre in inganno i Veneziani. Ovviamente il modo migliore per contrastare gli Ottomani consisteva nell’impedire ai loro convogli di arrivare a Creta. Ma, a parte il fatto che non era facile avere notizie che permettessero d’intercettarli, e non era detto che le condizioni atmosferiche consentissero di raggiungerli, i numeri dimostrano come, nell’arco dei venticinque anni di guerra, quasi mai la flotta veneziana, anche se rinforzata dalle squadre
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italiane,106 sia riuscita a raggiungere i due terzi di quella turca, attestandosi quasi sempre intorno alla metà. In queste condizioni era difficile riuscire a bloccare la navigazione intorno all’isola, lo diventava ancora di più se si teneva conto dei giorni in cui il vento eccessivo, o la sua assoluta mancanza, rallentavano o impedivano i movimenti delle navi, a vela o a remi, se si pensava che al massimo ogni sette giorni le galere andavano rifornite di acqua dolce, operazione che solo raramente poteva essere compiuta in mare da altri legni adoperati come rifornitori di squadra se, infine, si ricordava che, nei momenti più impensati, poteva scoppiare un’epidemia che distruggeva gli equipaggi e immobilizzava le navi.
II) Le operazioni. E’ difficile riassumere bene e in poco spazio un quarto di secolo di combattimenti per mare e per terra. Bisogna comunque tener presente che si trattò di una guerra anomala, perché mentre il punto focale era a terra, la gran massa dei combattimenti decisivi avvenne per mare. Fu in sostanza uno scontro più di organizzazione logistica e di capacità di rifornimento che di bravura militare. Infatti vinse quello dei due contendenti cui le illimitate risorse consentirono un vantaggio enorme rispetto all’altro. In linea di massima si deve tener presente che i teatri operativi furono tre: l’isola di Creta, con particolare attenzione alla città e fortezza di Candia, il Mediterraneo Orientale, dai Dardanelli a Corfù, e la Dalmazia, dove i Turchi cominciarono a muoversi per attrarvi le forze veneziane quando si accorsero che la partita sotto Candia non si sarebbe chiusa né in un anno né in due. Avvenuto lo sbarco turco, il Senato, che aveva a Candia 23 galere, ne armò altre dieci e due galeazze e ordinò di noleggiare quante più navi a vela fosse possibile, in tutti i porti d’Italia e d’Europa. In Olanda prese 12 vascelli; chiese aiuto al Papa – che diede cinque galere, 100.000 scudi e il permesso di arruolare truppe negli Stati Pontifici – ed ai monarchi cristiani, ottenendone cinque galere da Napoli e sei da Malta, 600 uomini e la squadra delle cinque galere dell’Ordine di Santo Stefano dalla Toscana, 2.000 soldati da Parma, il permesso di arruolare sul territorio della Repubblica di Lucca e l’aiuto personale del duca di Modena. Mentre i Turchi progredivano nell’isola, la flotta cristiana si era concentrata a Suda, 107 e, visti gli scarsi risultati delle crociere, aveva deciso di mettere sotto sorveglianza i Dardanelli, per intercettare i rifornimenti all’origine. Così nel marzo 1646 il capitano delle navi Tommaso Morosini vi si recò con 24 vascelli e sbarcò truppe a Tenedo impadronendosene, solo che, mentre lo faceva, i Turchi fecero uscire un convoglio di 55 galere dai Dardanelli. Morosini manovrò verso gli stretti per tagliar loro la ritirata; ma quelli sbarcarono a Tenedo e la riconquistarono. Improvvisamente, l’11 luglio, si seppe che, approfittando della sosta che Morosini era stato costretto a fare a Imbro per rifornirsi d’acqua, altre 76 galere erano uscite dai Dardanelli e a poco era valso il combattimento ingaggiato contro di loro da due vascelli veneziani. I Turchi erano arrivati a Scio e, anche se avevano dovuto disarmare dieci galere e una galeazza per i danni subiti, si erano uniti a 50 galere delle Reggenze e 200 saiche con 20.000 soldati a bordo, dirigendo poi su Creta, senza che la flotta veneziana, pur avendolo tentato, fosse riuscita a intercettarli. Le crociere successive non servirono a nulla e non impedirono che i Turchi assediassero e prendessero Retimo, investita il 20 ottobre e arresasi il 3 novembre.
106 Le squadre erano quelle maltese, pontificia, siciliana, spagnola, napoletana e toscana. Ma uno solo fu l’anno in cui tutte
furono presenti contemporaneamente. I più assidui furono i Maltesi, seguiti a ruota dai Pontifici e dai Toscani; Una sola volta comparvero dei legni genovesi; e ci furono alcune campagne che videro i Veneziani totalmente soli. 107 Risultando composta da 101 legni da guerra - 61 galere, quattro galeazze e 36 vascelli - e qualche unità minore.
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Nell’invernata 1646-47 le cose cominciarono lentamente a cambiare per i primi successi veneti e perché da Costantinopoli si ordinò d’incominciare a combattere in Dalmazia per indebolire i Veneziani. Seguirono alcuni scontri navali minori, tutti risolti col successo veneziano, a Milo e, il giorno dopo, a Negroponte, dove però morì Tommaso Morosini, mentre invece a Creta i Turchi progredivano in quelli terrestri, occupando l’isola fino a Hierapetra, nonostante la resistenza delle truppe venete. Mosse e contromosse dovute ai venti più o meno favorevoli consentirono ai Turchi di sbarcare a Candia altri due convogli di rinforzi prima dell’inverno. Intanto fervevano i combattimenti terrestri in Dalmazia. Il Papa vi aveva spedito un reggimento di fanteria di sette compagnie. Alla partenza da Roma era di 928 uomini, comandati dal sergente marchese Federico Mirolli, ma all’arrivo era ridotto a 752 grazie alle diserzioni avvenute già prima d’imbarcarsi ad Ancona. Arrivato in Dalmazia nel giugno del 1647, era stata considerato dal Provveditore Generale Leonardo Foscolo come male istruito: inesperti gli ufficiali, troppe le reclute. Accasermato alla meglio a Zara, in luglio il reggimento fu trasferito a Sebenico e, alla rassegna passata in quel mese, risultò ulteriormente diminuito a 650 uomini. LXXXIV Per quanto male istruito e indebolito, il reggimento pontificio partecipò alla vittoriosa difesa di Sebenico, in cui il marchese Mirolli rimase ferito a una gamba. Foscolo in seguito contrattaccò verso l’interno, conquistando parecchie cittadine, tra cui Zemonico, e tentando, senza successo, di prendere Novigrad. Il 4 febbraio 1648 Mirolli rimpatriò con quattro compagnie. Le rimanenti tre, forti complessivamente di 500 o 600 uomini, rimasero al fronte al comando del sergente maggiore Tomaso Serughi. Verso la fine dell’inverno, spronato anche dalle voci di una richiesta dei Turchi avanzata all’Imperatore di consentir loro il passaggio per attaccare da terra il Friuli veneto, Foscolo intensificò la sua attività e riuscì, il 19 marzo 1648, a prendere la piazzaforte di Clissa, nonostante la durissima resistenza avversaria. In aprile le truppe venete causarono alcuni disordini, per cui i Pontifici vennero mandati a prenderne il posto a Spalato, dove parteciparono ai lavori di fortificazione. In mare la flotta veneta aveva passato l’inverno del 1648-49 imponendo tributi alle località suddite ottomane e occupando Mirabello. Poi ai primi di marzo partì verso i Dardanelli, per intercettarvi i Turchi appena ne fossero usciti, ma nella notte del 17 vicino a Psara incappò in una terribile tempesta, che distrusse 18 galere delle 24 e nove vascelli dei 27 che, con cinque galeazze avevano in origine composto la squadra. L’impresa sembrava compromessa, quando arrivò il convoglio dei rinforzi da Venezia, con cui si poté riprendere parzialmente il piano originario, mandando ai Dardanelli almeno i vascelli e le galeazze. A Costantinopoli si era appreso con soddisfazione il naufragio di Psara; perciò la notizia che la flotta veneta era alla fonda fuori degli stretti cadde sul Divano come un fulmine a ciel sereno. Vennero spediti 5.000 uomini a guarnire i forti dei Dardanelli e armate subito 40 galere, colle quali il Capitan pascià doveva uscire in mare aperto. Ma al primo tentativo gli piombò addosso Bernardo Morosini con una furia tale che decise di rientrare, decisione che gli costò il posto, dato ad Achmet Pascià, e la testa. Il bloccò cessò quando la flotta veneta, comandata ora da Alvise Leonardo Mocenigo, dovette concentrarsi in rada a Candia per difenderla dalle nuove e grandiose operazioni d’assedio cominciate dai Turchi, che sarebbero costate loro la bellezza di 10.000 uomini senza nessun risultato apprezzabile. Ma se Venezia ne uscì ancora padrona della città lo si dovette solo al continuo apporto della flotta, i cui uomini salvarono la situazione a terra in varie occasioni. Non ci fu quindi verso di muovere le navi di là e tutto quello che si poté fare, dopo il consueto arrivo delle galere pontificie e maltesi, consisté nel pattugliamento a largo raggio nell’Arcipelago con scarsi risultati. Ma per fortuna nell’agosto si verificò a Costantinopoli un colpo di Stato, che detronizzò il sultano Ibrahim a vantaggio del decenne Maometto IV. E’ vero che la linea politica non cambiò; ma almeno la confusione impedì alla flotta ottomana di uscire dai Dardanelli, a tutto vantaggio dei Veneti in crisi a Candia. 145
In Dalmazia il 1650 vide pochi avvenimenti per i Pontifici. Una delle loro tre compagnie fu soppressa, usandone il personale per rimpinguare le altre due, per cui al 24 gennaio allineavano 417 uomini, passati il 6 marzo agli ordini del colonnello Giacinto Sgamba. In mare quell’anno Mocenigo decise d’agire d’anticipo e inviò 19 legni davanti agli stretti perché vi attendessero la classica uscita primaverile dei nemici. Il capitan pascià riuscì a profittare dell’assenza della maggior parte della squadra veneta, andata a rifornirsi d’acqua, e del vento a lui favorevole per passare gli stretti. Unitosi alle galere inviate dalle Reggenze Barbaresche, che lo aspettavano fuori dei Dardanelli, si trovò con 72 galere, dieci galeazze e 11 vascelli. Ma fu inseguito da Da Riva, che lo raggiunse a Focea e, incurante della propria inferiorità di quasi uno a cinque, lo attaccò, gli distrusse parzialmente il forte che guardava la rada, parecchi legni minori e 15 da guerra, catturandone altri tre e liberando circa 500 schiavi cristiani. L’ammiraglio turco aiutato dai bey di Alessandria, Smirne, Tunisi, Tripoli e Algeri poté riprendersi in fretta e, dopo neanche un mese, uscì da Focea e arrivò davanti a Tino con 83 galere, 64 vascelli e una gran quantità di naviglio minore. Presi di sorpresa i Veneziani, che non si aspettavano una così pronta ripresa dopo il disastro di Focea, il capitan pascià sbarcò 7.000 uomini a Paleocastro per rinforzare l’esercito, poi risalì verso La Canea e si diresse a Suda con 40 galere, deciso ad occuparla. Ma l’attacco fu respinto dal procuratore Pietro Diedo; e lo stesso ammiraglio turco vi trovò la morte. La flotta si ritirò allora verso Costantinopoli per i raddobbi invernali; mentre i Veneziani continuavano a pattugliare le acque cretesi colla squadra sottile e disponevano nuovamente 18 vascelli davanti agli stretti. Fu allora che, davanti all’insuccesso avuto fino a quel momento per terra, il comandante turco sotto Candia, Hussein, decise di cambiare tattica passando a un regolare assedio con lo scavo di gallerie di mina. Il 5 maggio 1650 il nuovo capitan pascià, Haidar Oldì, si avvicinò ai Dardanelli; ma vi trovò i Veneziani. Allora sbarcò, marciò fino a Cesmè, si reimbarcò sulle navi delle Reggenze che, come tutti gli anni attendevano la squadra ottomana fuori degli stretti, e riuscì a portare a Creta le paghe per l’armata assediante e 3.000 soldati di rinforzo. Nel frattempo la squadra leggera veneziana imperversava in tutto l’Arcipelago, interrompendo parzialmente il traffico logistico-militare e quasi totalmente quello mercantile nemico, imponendo tributi e scacciando dall’Egeo gli ausiliari barbareschi dei Turchi. Il nuovo capitan pascià Alì Mazzamamma108 uscì dai Dardanelli il 21 giugno 1651 con 114 legni da guerra – 53 galere, sei maone e 55 vascelli – e molte saiche, arrivò a Scio e si unì ai 16 vascelli barbareschi che lo attendevano, deciso ad entrare in Adriatico. Mocenigo se lo aspettava e stazionava appositamente nei pressi di Cerigo, ma era molto più debole, visto che disponeva solo di 57 legni, cioè 24 galere, sei galeazze e 27 vascelli: la metà esatta del nemico. Nonostante questo, non appena seppe dell’uscita dei Turchi mosse contro di loro, avvistandoli il 7 luglio mentre puntavano su Santorino. Raggiuntili, piombò loro addosso il 22 agosto e, in una furibonda battaglia, li sconfisse duramente senza rimetterci nemmeno una nave. Il nemico perse diciassette vascelli un brulotto e una maona e fu costretto a ritirarsi prima a Stanchiò,109 l’odierna Coo e poi a Rodi. Mazzamamma tentò di rifarsi puntando con 46 galere verso La Canea, dove però riuscì a sbarcare solo il denaro per le paghe dell’esercito assediante, mentre l’appena nominato capitano generale Leonardo Foscolo, riceveva i rinforzi alleati: quattro galere pontificie e altrettante maltesi. Le campagne seguenti cominciarono tardi e furono inconcludenti per entrambe le parti belligeranti. Solo dal 1654 le operazioni tornarono ad essere di rilievo in terra e in mare. Così soprannominato in lingua franca mediterranea - cioè sostanzialmente in Italiano - perché sua madre era morta partorendolo. 109 Cos in greco, o Coo in Italiano, era nota ai Veneziani come Stanchiò o Stangio, traslitterazione del nome medievale, mantenuta nel turco İstanköy. 108
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In Dalmazia i Pontifici parteciparono al fallito tentativo contro Canina, dove persero tra morti, feriti e prigionieri 220 dei 300 uomini impegnati, per cui, nonostante i Veneziani avessero respinto l’attacco turco su Perasto e concluso il ciclo operativo con la conquista di gran parte del territorio circostante, il Papa decise di richiamare il Reggimento, ormai ridotto a una scarna compagnia e che nel complesso aveva deluso i Veneziani per la scarsa disciplina e il poco valore in battaglia. In mare i Veneziani cominciarono la campagna del 1654 col solito forzamento dell’uscita dei Dardanelli compiuto il 17 maggio dalla preponderante flotta turca che, dopo una dura e confusissima battaglia navale riuscì ad arrivare al Mediterraneo perdendo un migliaio di morti, circa 2.000 feriti, un vascello e una galera. La trentina di legni veneziani assalitori perse due galere e tre vascelli. Il capitan pascià Amurad però, pur cantando vittoria, dovette restare un mese fermo a Metelino per le riparazioni, radiando ben dieci galere troppo danneggiate per poter servire ancora. Finalmente, terminati i lavori, poté salpare da Metelino con 164 legni da guerra – 64 galere, sei maone, 44 vascelli e 50 galeotte – puntando su Tino per occuparla. Non gli riuscì. Fu intercettato dalla flotta cristiana, comandata dal capitano generale Alvise Mocenigo, inferiore alla sua per uno a quattro. Nonostante avesse solo 42 legni - quattro vascelli, sei galeazze e 32 galere, di cui cinque pontificie e sei maltesi, Mocenigo attaccò; ma non riuscì ad impedire al nemico di proseguire per Creta, sbarcarvi i viveri per l’esercito assediante e rientrare nei Dardanelli. Mocenigo ne morì di crepacuore; e il comando passò interinalmente a uno dei migliori ammiragli che Venezia abbia mai avuto: il provveditore generale Francesco Morosini. Per prima cosa attaccò Egina, dove i Turchi avevano una grossa base logistica e navale: ne lasciò i rottami, prelevandone artiglierie e numerosi prigionieri. Poi andò a Volo e si ripeté. Per la campagna del 1655 Venezia aveva fatto le cose in grande. Erano pronti 55 legni, a fronte di appena 138 dei soli Turchi. In fondo la proporzione era soltanto di 1 a 2 ½, e non maggiore di 1 a 2,8 se ci si aggiungevano i soliti navigli delle Reggenze: un grosso salto di quantità, specie in confronto all’anno precedente. Morosini ricevé delle informazioni, tutte false, secondo le quali era improbabile che i nemici quell’anno uscissero dai Dardanelli. Siccome era vecchio del mestiere non ci credé più di tanto, ma gli arrivarono anche altre notizie sull’avvicinamento delle 18 galere barbaresche, dirette all’appuntamento colle navi ottomane. Tenuta la Consulta di Guerra, decise di lasciare davanti ai Dardanelli il suo miglior comandante, Lazzaro Mocenigo, con tutti i 25 vascelli della flotta, quattro galeazze e sei galere, mentre lui, alla testa delle rimanenti due galeazze e 18 galere sarebbe andato a cercare la squadra delle Reggenze, l’avrebbe battuta e, in seguito, si sarebbe diretto a Malvasia per distruggervi il convoglio di rifornimenti per Creta che i Turchi stavano cominciando a concentrarvi con navi dall’Asia e dall’Egitto. Ma prima che potesse farlo, il nemico si mosse. Il 21 giugno 1655 il capitan pascià Zurnassan decise di uscire dagli stretti, sapendo che fuori lo attendeva la squadra delle Reggenze. Aveva 117 legni, con a bordo 17.000 soldati destinati in parte a Candia ed in parte a sbarchi in altre località. Mocenigo gli sbarrò la strada e, sfruttando al meglio le correnti, incurante della sproporzione di forze, attaccò, mandando in costa parecchie navi nemiche e catturandone tre. Le correnti però alla fine giocarono a sfavore della flotta veneta, perché la trascinarono verso Tenedo, consentendo ai Turchi di uscire dagli stretti colle galere durante la notte. Non potendoglielo impedire, Mocenigo impegnò i suoi a incendiare sei delle navi nemiche in secca, conservandone solo le altre tre per portarsele via. La mattina seguente catturò parecchie piccole imbarcazioni e, a conti fatti, si trovò ad aver preso prigionieri 5.000 turchi e ad averne uccisi il doppio in combattimento, perdendo solo circa 200 uomini ed un vascello autoaffondatosi per non farsi catturare. Intanto Zurnassan si era rifugiato a Focea e vi rimase fino all’inverno, quando poté spedire 12 galere a sbarcare rifornimenti a Creta e poi rientrare negli stretti. 147
L’inverno vide l’arrivo del nuovo capitano generale da mar Lorenzo Marcello, al quale Morosini, nominato Provveditore Generale di Candia, lasciò il comando. In marzo Marcello uscì da Standia con 24 galere, sette galeazze e 25 vascelli. Ad Imbro si congiunse alla squadra di Malta, di sette galere, e proseguì diretto verso i Dardanelli. Il nuovo capitan pascià Sinau aveva a disposizione 60 galere, otto maone e 28 vascelli ed aveva disposto nuove fortificazioni e guarnigioni a guardia degli stretti. Marcello ci arrivò il 23 maggio e si preparò alla battaglia. Ci restò più di un mese, perché solo a mezzogiorno del 26 giugno 1656, dopo un fallito tentativo di trattativa, Sinau ordinò alle sue navi di levare le ancore. Fu il più grave disastro mussulmano da Lepanto in poi; la stessa vittoria veneziana di Focea scompariva al confronto. Dopo un intero pomeriggio di combattimenti, della flotta turca rimasero solo le 14 galere con cui Sinau riuscì a rifugiarsi dentro i Castelli; il resto si fracassò sulla costa o si arrese. Dei legni che la mattina avevano salpato, furono distrutti 22 vascelli, 33 galere e tre maone. I Veneziani catturarono 13 galere, sei vascelli, cinque maone e 400 prigionieri; liberarono 5.000 schiavi cristiani ed uccisero 10.000 turchi, perdendo soltanto 300 morti, tra i quali però Lorenzo Marcello, e tre navi.. Il terrore scese su Costantinopoli. Ci si attendeva di veder comparire la flotta veneta da un momento all’altro, nonostante le poderose difese terrestri disseminate lungo gli stretti. Il Sultano, furioso come non mai, fece uccidere tutti i Turchi superstiti della battaglia; poi ordinò l’immediata costruzione di un’immensa flotta di 100 galere, altrettanti vascelli e 200 maone, alla quale dovevano lavorare tutti gli artigiani di Costantinopoli, obbligandoli a lasciar chiuse le loro botteghe finché le navi non fossero state pronte. Invece la notizia della vittoria fu accolta a Venezia con onori trionfali; e Lazzaro Mocenigo venne nominato Capitano Generale da Mar. La morte di Marcello aveva però recato un grave danno ai Veneziani. La sua prima conseguenza fu lo sganciamento delle navi dell’Ordine di Malta, il cui comandante affermava d’aver ordine di sottostare soltanto al Capitano Generale da Mar, ragion per cui, essendo morto, doveva rientrare a Malta. Poi ci furono grosse discussioni su cosa fare e, invece di seguire la linea d’azione che Marcello aveva concordato con Morosini a Candia e col Senato a Venezia, cioè puntare su Creta e distruggervi l’esercito turco per piegare il sultano alla pace, si preferì conquistare Tenedo e Lemno, per servirsene come basi d’appoggio nei Dardanelli. Nell’inverno i Turchi tentarono, con 30 galere, di riprendere Tenedo, ma fallirono. Nello stesso periodo papa Alessandro VII ordinò la formazione d’un nuovo reggimento di fanteria da destinare in Dalmazia. Organizzato su cinque compagnie, forte di 1.000 uomini, si riunì ad Orte, passò ad imbarcarsi ad Ancona e sbarcò in Dalmazia agli ordini del conte Marzio de’Baschi. Giunto a Zara ai primi di maggio del ‘57, fu spostato a Sebenico di presidio. Di nuovo, specie a causa dell’inesperienza del giovanissimo colonnello, l’indisciplina raggiunse livelli mai visti e costrinse i Veneziani a reimbarcare i Pontifici per Zara. I disordini non cessarono, le diserzioni aumentarono e si ebbe un miglioramento solo dopo l’arrivo del nuovo comandante, il sergente maggiore Agostino Molinari, giunto nel marzo del 1659. Da quel momento invece di diserzioni fioccarono i congedi, per cui a settembre il Reggimento era ridotto a 400 uomini, non veniva impegnato in scontri e man mano veniva rinsanguato arruolando soldati veneziani, attratti dalla paga maggiore. Non mi dilungo su quanto accadde al Reggimento negli anni seguenti e fino alla fine della guerra, perché, salvo mandare un distaccamento 110 a Candia nel 1667, non fece nulla, si comportò malissimo e lasciò un pessimo ricordo. Ebbe ordine di rimpatrio il 6 settembre 1669, ma l’imbarco per Ancona avvenne solo nel marzo del 1670, portando in 110 I 500 uomini del distaccamento furono sostituiti da 497 altri fanti pontifici, giunti da Ancona divisi in tre compagnie e agli
ordini del sergente maggiore Orazio Orlandini nell’ottobre del 1667. Poco meno d’un terzo vennero arruolati lungo la strada da Roma ad Ancona e le compagnie furono scortate da una ventina di corazze per impedire le diserzioni.
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Italia appena 350 uomini di due compagnie. Una fu passata in rassegna a sciolta a Macerata il 19 maggio, l’altra ad Ancona l’indomani. Tornando al 1657, Mocenigo raggiunse la flotta alle Sdille il 26 febbraio e dopo sei mesi di crociere e un paio di scontri a lui favorevoli, era pronto a conquistare Scio, ma fu informato che i Turchi stavano concentrando un 50.000 uomini e molte saiche da trasporto sulla costa asiatica per riprendere Tenedo. Puntò quindi sulle Spalmadori, dove gli si unirono sette galere maltesi e cinque pontificie, e da là mosse verso gli stretti, arrivandoci il 1° luglio. Il suo piano era semplice: entrare, distruggere la flotta nemica, penetrare fino a Costantinopoli e imporre la pace al Sultano sotto la minaccia dei cannoni veneziani. Seguirono quindici giorni d’apparente inattività, durante i quali le due flotte si scrutarono da lontano. La mussulmana attendeva il momento buono per sgusciare in Mediterraneo; la cristiana, che aveva inalberato lo Stendardo di Santa Romana Chiesa, la controllava e, al tempo stesso, doveva provvedere ai rifornimenti, specie d’acqua dolce, ed alla sorveglianza lontana dei movimenti dei Barbareschi nell’Arcipelago. Poiché le condizioni atmosferiche impedivano alle galere, allontanatesi per l’acquata, di rientrare alla flotta, il capitan pascià Topal pensò che la loro assenza gli avrebbe permesso di navigare sotto costa verso il Mediterraneo senza ostacoli da parte dei vascelli veneziani ed ordinò l’imbarco delle truppe. Bembo, che li controllava, se ne accorse ed avvertì Mocenigo, chiedendo anche urgenti rifornimenti d’acqua, completamente esaurita. Questi mandò avanti tre galere, cariche all’inverosimile di botti d’acqua dolce, come rifornitori di squadra ed ordinò alle rimanenti di accorrere. Ma il vento, fortissimo, impedì loro di avanzare e si dovettero fermare ed ancorare a Capo Hellas. Questo fu la causa della battaglia. Infatti Topal, scortele da lontano, credé che fossero le navi barbaresche da lui attese, alle quali aveva mandato ordine di venirgli incontro fin là, e il 17 luglio, diede l’ordine di salpare. In conseguenza del disastro dell’anno precedente e dei distacchi già effettuati, la sua flotta era piuttosto piccola – 30 galere, 10 galeazze e 18 vascelli – e doveva per di più scortare un gran numero di trasporti, di tutte le dimensioni, su cui avevano preso posto i 50.000 uomini destinati agli sbarchi. In avanguardia mise tutti i vascelli e otto galeazze e, appena presero contatto colle navi venete, uscì col resto, puntando verso le galere nemiche, che continuava a ritenere amiche. Lo scontro delle avanguardie terminò male per i Turchi, che persero cinque vascelli e altrettante galeazze, mentre i Veneziani ne uscirono senza danni. Intanto Mocenigo aveva ordinato di forzare sui remi per vincere il vento contrario e con 14 galere aveva cominciato ad avvicinarsi al teatro dello scontro. Ma questo fece comprendere al capitan pascià che erano cristiane, non barbaresche, ed ordinò ai suoi di arretrare; solo che così il vento diventava contrario anche per loro e non potevano rientrare nei castelli. Lo scontro tra le galere per quel giorno fu minimo. La notte scese e portò la Consulta di Guerra, nella quale gli alleati stabilirono il da farsi: distruggere tutte le galere nemiche per impedire alla flotta mussulmana di operare durante l’estate, rinforzare i presidi di Tenedo e Lemno, passare a distruggere le galere avversarie nell’Arcipelago e piegare poi su Candia per attaccarvi i Turchi. La mattina seguente attaccarono un primo gruppo di cinque galere avversarie, costringendone quattro a sfasciarsi e catturando la quinta. Poi si accordarono nei dettagli del proseguimento dell’azione e attaccarono le 22 galere rimaste, divise in due gruppi, uno di 15 e l’altro, più lontano, di sette. Mocenigo si riservò il secondo ma, mentre gli si avvicinava, cadde nel raggio d’azione delle artiglierie costiere. Il bombardamento danneggiò gravemente due galere, poi colpì il deposito delle polveri della generalizia, il cui albero, spezzandosi, lo colpì uccidendolo all’istante. La sua morte fu un vero disastro. L’azione si fermò e con essa la battaglia. La flotta si demoralizzò; e gli alleati se ne andarono il 24 luglio. Invece i Turchi, saputo che anche il comandante interinale era morto di malattia, approfittarono dell’inesperienza del suo successore e riuscirono a riprendere Tenedo il 24 agosto. La flotta veneta allora si ritirò a Lemno, ma vi sbarcarono 3.000 nemici che, dopo due mesi d’assedio, conquistarono l’isola, obbligando le navi a ritirarsi a Candia. 149
Al Senato era rimasta un’ultima nomina da giocare per tentare di salvare la situazione; e Francesco Morosini fu il nuovo Capitano Generale da Mar. Le campagne del 1658 e del 1659 furono inconcludenti per entrambe le parti e prive di scontri di rilievo. Si possono solo registrare due incursioni. La prima è quella compiuta contro Santa Maura nell’agosto del ‘58 dalle 16 navi della squadra cristiana – quattro veneziane, sette maltesi e cinque pontificie – che sbarcarono 800 fanti, devastarono l’isola e interruppero il ponte colla terraferma, senza poter fare nulla contro la fortezza per mancanza di artiglierie adatte. La seconda fu condotta l’anno seguente da Morosini contro Castelrosso. L’isola fu bombardata e conquistata dalla flotta veneziana, dopodiché, contrariamente al parere di Morosini, che avrebbe voluto farne una base fortificata, il Consiglio di Guerra decise di smantellarne il castello e abbandonarla. La campagna del ‘60 vide invece prevalere le attività terrestri a Creta, dove erano giunte truppe francesi e piemontesi, mentre sul mare erano comparse navi toscane e francesi, oltre alle solite pontificie e maltesi. Ma non si riuscì ad ottenere risultati, anche a causa della scarsa disciplina dei reparti di terra. Intanto anche l’imperatore era sceso in campo, promettendo l’invio di 2.000 fanti; ma i Turchi lo attaccarono per terra e lo sconfissero a Varadino. Dal 1661 le operazioni navali diminuirono molto e i Veneziani si concentrarono progressivamente intorno a Candia. I Turchi profittarono dell’assenza delle navi venete davanti agli stretti e ne entravano ed uscivano a piacimento, mentre si rivelava fallimentare la tattica del Capitano Generale da Mar Andrea Cornaro, che aveva suddiviso la flotta in piccole squadre sperando di migliorare la sorveglianza intorno a Creta. Davanti alla nullità dei risultati, in settembre Cornaro diede le dimissioni; e il Senato rinominò al suo posto Francesco Morosini. In ottobre sbarcò a Candia il gran visir Achmed Coprolu con 4.000 uomini, che elevarono a 40.000 soldati e 8.000 guastatori l’esercito assediante: Costantinopoli si preparava a vibrare il colpo finale. La guarnigione di Candia aveva solo 6.000 uomini e 400 cannoni, perciò Morosini si concentrò sulla caccia ai rifornimenti nemici. I suoi vascelli intercettarono un convoglio di rifornimenti, catturarono quasi tutte le 20 navi che lo componevano e dai prigionieri seppero dell’imminente arrivo d’un secondo convoglio di 23 vascelli con 2.000 soldati. Fu intercettato che era quasi a destinazione e distrutto sotto gli occhi del Gran Visir, che seguì la lotta dalla costa senza poter far nulla. Nel frattempo gli attacchi terrestri si erano susseguiti, ma senza risultati apprezzabili. In primavera Morosini lasciò Candia per l’Arcipelago con 25 galere e sei galeazze. Ma il Capitan Pascià, lasciati a Scio 30 vascelli e alcune galere, riuscì a sfuggirgli con altre 46, sbarcando velocemente a La Canea rinforzi e rifornimenti prima di ritirarsi. Con questi in maggio il Gran Visir incominciò una serie ininterrotta di poderosi attacchi alle difese di Candia che preoccuparono molto Morosini. Rinforzò i 9.000 uomini della guarnigione mettendo a terra 2.000 tra marinai e ciurma. Poi, raggiunto da sei galere pontificie, altrettante maltesi, quattro napoletane e quattro siciliane le lasciò, insieme a dieci venete e cinque vascelli ad impedire l’arrivo di altri rinforzi nemici, mentre lui dirigeva in alto mare. Ma, come al solito, i Turchi non vi si fecero vedere. Piuttosto, non appena seppero che gli Alleati si erano ritirati per l’avanzarsi dell’inverno, ne approfittarono e fecero giungere a La Canea un convoglio di 54 galere di rifornimenti, con cui poterono ripianare le pesanti perdite subite fino allora. Verso la fine del 1667 il nuovo Papa, Clemente IX diede a Venezia 100.000 libbre di polvere da sparo, 700 uomini oltre quelli già impegnati in mare, 50.000 scudi e ancora una volta la squadra delle galere, che giunse in Levante nella successiva primavera insieme a quelle napoletana, siciliana e maltese. Le truppe pontificie consisterono in una nucleo di 500 uomini del Reggimento presente in Dalmazia, imbarcati e diretti in un primo tempo a Zante. da là, su un piccolo convoglio passarono a Standia e, finalmente, ai
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primi del 1668, arrivarono a Candia. Comandati dal sergente generale di battaglia Muzio Matthei, o Mattei,111 vennero da Morosini destinati alla difesa d’uno dei punti più esposti. I Veneziani arruolarono altre truppe e si rinforzarono, ottenendo anche contingenti dal Duca di Lorena e dall’Imperatore. Il Granduca di Toscana spostò il reggimento che teneva nell’esercito veneto dalla Dalmazia a Candia, Lucca diede 50.000 libbre di polvere, altrettante Modena, 60.000 l’arcivescovo di Salisburgo; ed alcuni Stati tedeschi fornirono in abbondanza denaro e provviste di polvere da sparo. 112 Nonostante un consistente aumento dell’attività navale veneta, i Turchi riuscirono a far funzionare un nuovo punto d’approdo a Santa Pelagia sbarcandovi ben 5.000 uomini portativi da una flotta di 53 galere e installarono nell’isola una fonderia di cannoni e di palle d’artiglieria. Per di più vennero nelle loro mani i dispacci in cui da Candia si comunicava a Venezia la gravità della situazione, dimodoché si resero conto che la vittoria era ormai vicina. La piazza infatti, nonostante i continui rinforzi, aveva visto la propria guarnigione decrescere a 5.000 unità. Le perdite erano in assoluto minori di quelle nemiche, ma, mentre i rimpiazzi turchi, con meno strada da fare dalle basi principali, bastavano ampiamente, quelli veneziani giungevano più lentamente e in numero ridotto. Il Senato ordinò a Morosini di cessare il pattugliamento a largo raggio e concentrare gli sforzi nelle acque dell’isola, giovandosi delle cinque galere pontificie e delle sette maltesi arrivate anche quell’anno, ma ciò non impedì alle 52 galere del Capitan Pascià di sbarcare i rinforzi nel sud dell’isola. Fallite le trattative diplomatiche, si cercarono disperatamente aiuti in tutta Europa. Se ne ebbero dalla Svezia e, sopratutto, si ottenne l’assenso di Luigi XIV: la Francia avrebbe mandato la bellezza di 12 reggimenti di fanteria con un adeguato sostegno di cavalleria. Per il momento arrivavano: un reggimento mandato dal duca di Lorena; 600 volontari francesi, 60 cavalieri di Malta con 300 fanti dell’Ordine e 125.000 libbre di polvere, condotti dal commendator della Torre, più un piccolo rinforzo e il nuovo comandante pontificio, colonnello Leonardo Massimiliano Cleuter.113 Cleuter comandò benissimo il reggimento, che nel frattempo era divenuto più flessibile aumentando a sei le compagnie e riducendo a 80 il numero degli effettivi, seguendo l’esempio veneziano come stabilito un anno prima da Rospigliosi. Agli ordini del nuovo comandante, i Pontifici ottennero degli ottimi risultati locali, infliggendo parecchie perdite al nemico e subendone di tanto gravi da minacciare Cleuter d’una pistolettata nella schiena se non la smetteva di esporli. Non smise altro che dopo esser stato gravemente ferito dal nemico l’11 agosto in una scaramuccia nei pressi del bastione Sabbionera da lui tenuto. Il 29 agosto, dopo una partecipazione disastrosa, il contingente francese partì. Lentamente lo seguirono i contingenti germanici, quello navale pontificio, i maltesi e i volontari europei. Restavano a Candia solo 3.600 uomini validi, di cui 330 fanti pontifici assolutamente insufficienti a difendere le disastrate e semidistrutte mura della città. Morosini dovette piegarsi e inviò dei parlamentari al Gran Visir per discutere la resa. Il 6 settembre le trattative erano concluse: la guarnigione aveva dodici giorni di tempo buono e mare calmo, quindi anche non consecutivi, per sgomberare l’abitato e le fortificazioni, imbarcarsi con quanti avessero voluto andarsene, cogli oggetti sacri e coi materiali d’armamento che poteva asportare. Ai Veneziani sarebbero rimasti, sulla base dell’ Uti possidetis, Clissa, occupata da Foscolo in Dalmazia quasi vent’anni prima, e i tre isolotti cretesi di Suda, Spinalonga e Grabusa, che i Turchi non erano riusciti a prendere e che sarebbero caduti in loro potere solo nella seconda guerra di Morea.
111 Colpito dalle schegge d’un palo di legno distrutto da una palla di cannone nei pressi del rivellino Panigrà il 5 marzo 1668,
Mattei morì il 23 marzo e fu sostituito solo in luglio dal generale delle galere pontificie, frà Vincenzo Rospigliosi, dell’Ordine di Malta, il quale seppe riorganizzare il Reggimento, portandolo ai 952 uomini registrati nella rassegna del 1° settembre, rendendolo finalmente un reparto degno di fiducia e uno dei migliori presenti a Candia. 112 Per dare un termine di paragone, si pensi che il consumo annuo di polvere nel 1668 fu di 3 milioni di libbre, pari a oltre 1.200 tonnellate del sistema metrico decimale. 113 Cleuter trovò il reggimento piuttosto assottigliato, perché al 1° marzo allineava 462 uomini.
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Il 25 partirono i Pontifici e il 26 lo sgombero era terminato. Morosini se ne andava lasciando 212 cannoni, portandosene via 328, con 12 mortai e sette petardi. Con lui partivano per Venezia tutto il clero con ogni cosa asportabile dalle chiese e dai conventi, molti Cristiani che non desideravano vivere sotto il dominio mussulmano, 3.754 soldati validi, circa 4.000 ammalati o feriti e 400 cavalli. Il 4 ottobre il Gran Visir fece la sua entrata solenne in una città ridotta a un cumulo di macerie: non c’era nemmeno un edificio risparmiato dalle bombe. Contrariamente a quanto previsto nella capitolazione, quattro chiese vennero ridotte a moschee, le altre furono demolite e sulle loro fondamenta furono costruite le stalle della cavalleria. La guerra era finita. Venezia ne uscì stremata, e danneggiatissima dalla perdita del suo migliore, e ultimo, scalo commerciale in Levante. La guerra aveva avuto dei costi altissimi, in uomini e denari. Dei primi, solo a Candia, erano caduti 30.985 veneziani e 118.754 mussulmani. I secondi erano valutati in almeno 126 milioni di ducati, in media più di cinque all’anno, comportanti all’erario pubblico un disavanzo finale di 64. Di questi solo 25 milioni avevano coperto le spese strettamente militari, gli altri quelle - molto maggiori - indirettamente connesse al conflitto. Da quel momento, nonostante la gloriosissima fiammata della prima guerra di Morea, che doveva accendersi quindici anni dopo e che avrebbe visto un susseguirsi di vittorie come mai si era avuto in precedenza, la Repubblica cominciava a declinare.
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Capitolo XII La fine del Seicento I) Due faccende spinose: “L’affare dei Corsi” di Roma e la questione dei privilegi degli ambasciatori, 1662 – 1688. Come accennato parlando della Guerra di Castro, per l’ordine pubblico la Roma pontificia si valeva delle Compagnie de’Corsi, reparti che oggi definiremmo di gendarmeria, preposti al servizio di polizia extraurbano ed al sostegno agli sbirri nell’esecuzione degli atti di polizia in città. Esistevano dal 1603 e, a differenza degli sbirri, che di solito si distinguevano solo per delle placche metalliche portate addosso, erano dei militari a tutti gli effetti, dotati di uniforme, inquadrati regolarmente da ufficiali, sottufficiali e graduati di truppa, regolarmente vestiti, armati, mantenuti e pagati dalla Reverenda Camera Apostolica e forniti di una loro bandiera. Ora, nel 1662, “Dei soldati Corsi, ...ebbero una lite con due o tre Francesi del seguito dell’Ambasciatore”LXXXV Il perché, prudentemente lasciato in sospeso dallo storiografo ufficiale di Luigi XIV, veniva rivelato anni dopo da Voltaire, che scriveva: “Il duca de Créqui, ambasciatore presso il papa, aveva irritato i Romani per la sua alterezza: la gente della sua casa, tipi che spingono sempre all’estremo i difetti del loro padrone, commettevano in Roma i medesimi disordini della indisciplinata gioventù di Parigi, che si faceva allora un onore d’attaccare, tutte le notti, il picchetto che veglia a guardia della città. Qualche lacchè del duca de Créqui pensò d’assalire, spada alla mano, una squadra di Corsi”LXXXVI uno dei quali rimase ferito. “I Corsi, i quali non cercavano che una vendetta cieca e irragionevole, diedero al medesimo tempo l’allarme a tutte le loro Compagnie composte da 400 uomini, le quali, radunatesi, marciarono in armi verso il palazzo del nostro Ambasciatore coi loro Ufficiali, le loro bandiere e a tamburo battente.”LXXXVII “Tirarono sulla carrozza dell’ambasciatrice, che rientrava allora nel suo palazzo; le uccisero un paggio e ferirono parecchi domestici.”LXXXVIII Ne venne fuori un incidente diplomatico tremendo fra Roma e Parigi. L’ambasciatore assunse armati e pretese di tutto. Il Papa sulle prime cercò una soluzione, sciolse la compagnia del capitano Alfonso Franchi, la responsabile di tutto, ma poi, visto che l’ambasciatore non smetteva gli atti intimidatori, cominciò anche lui ad armare, arrivando a capitolare truppe italiane e tedesche per un costosissimo insieme di 20.000 fanti e 3.600 cavalieri, per i quali si preventivava una spesa di 173.000 scudi al mese montanti a un totale di circa un milione e mezzo, da coprire con due prestiti sul mercato romano. Era però e restava militarmente troppo debole. Davanti alla insurrezione e dedizione alla Francia di Avignone e alla minaccia di Luigi XIV di spedire in Italia un esercito di 26.000 fanti, 7.000 cavalieri e 16 cannoni, per assediare Roma coll’appoggio di Modena e Parma, cui ancora bruciavano le questioni di Comacchio e di Castro, dovette accettare le condizioni impostegli e chiedere scusa alla Francia. La vertenza fu chiusa nel febbraio del 1664. Avignone fu restituita al Papa. I Corsi furono sciolti e, per continuare ad avere chi svolgesse le mansioni di gendarmeria, furono creati i “Soldati in luogo de’Corsi”, poi “Battaglione in luogo de’Corsi” detto anche “de’Bianchi”, dal colore della loro uniforme. L’umiliazione era stata pesante e il Papa e la Curia non avrebbero dimenticato. Lo si sarebbe visto al tempo della successione all’Elettorato di Colonia. Il secondo atto di prepotenza nei confronti del Papa fu il più pesante e più gravido di conseguenze. 154
Innocenzo XI, salito alla cattedra di Pietro nel 1676, aveva stabilito di privare gli ambasciatori esteri dei privilegi di cui godevano – in particolare la franchigia e la giurisdizione su alcune zone della città adiacenti le ambasciate – stabilendo che sarebbero cessati colla fine della missione dei diplomatici in quel momento accreditati presso la Santa Sede. Tutti protestarono. La Spagna lasciò l’ambasciata scoperta, Venezia richiamò il proprio rappresentante, la Francia pensò d’aggirare il divieto prolungando a vita il mandato del signor d’Estrées. Ma quando questi morì, il Papa non accettò il sotterfugio provato da Versailles di trasferire l’incarico al di lui fratello cardinale e, colla bolla Cum alias del 12 maggio 1687,LXXXIX rifiutò di accettarne le credenziali se non fosse stato soddisfatto almeno eliminando la zona di rispetto adiacente l’ambasciata di Francia. In mancanza di altri dissapori, la questione probabilmente sarebbe stata risolta presto e bene, ma ce n’erano in quantità. Nel 1682 era stata proclamata la limitazione dell’autorità della Santa Sede da parte della Chiesa di Francia, colle quattro proposizioni della Chiesa Gallicana sostenute da un editto reale. Nel medesimo anno era sorta una controversia relativa alle investiture vescovili, indicate dal Re e non confermate da Roma perché i prelati scelti erano gallicani, poi c’era stata la questione delle rendite dei vescovadi.... Insomma, quando il nuovo ambasciatore Lavardin arrivò a Roma, di lavoro da svolgere ne aveva abbastanza per tutto il mandato. Purtroppo però Luigi gli prescrisse di entrare solennemente, preceduto da 400 ufficiali riformati, e armati, e seguito da un’imponente scorta di ufficiali e soldati del Reggimento dei Vascelli e delle Guardie Francesi. Davanti a tanta ostentazione di forza il Papa non gli concesse udienza, proibì a tutto il Sacro Collegio d’aver rapporti con lui e lo scomunicò, secondo quanto aveva stabilito nella bolla del 1687. La tensione salì rapidamente. Luigi minacciò una spedizione navale contro il Lazio per recuperare Castro ai Farnese: Innocenzo non si spaventò. Luigi fece occupare dalle sue truppe Avignone cacciandone il Legato Pontificio; il Papa non si scompose e tenne duro. Davanti a tanta costanza ed alla scomunica, alla fine il Re Sole accondiscese a trattare in forma ufficiosa, ma non ne cavò nulla, nemmeno dopo aver ordinato a Lavardin di lasciare Roma col medesimo apparato militare con cui vi era entrato e aver restituito Avignone al Papa. La potenza di Francia non aveva prevalso e, anzi, aveva allungato il conto aperto colla questione dei Corsi. Da allora erano trascorsi ventisei anni; era il 1688, il Principe Elettore di Colonia era morto ed i tamburi stavano cominciando a battere, colla sua, la marcia funebre del primato francese. II) I Pontifici e la Prima Guerra di Morea o “della Sacra Lega”, 1684-1699 Nel 1683 una nuova fiammata d’entusiasmo antimussulmano percorse l’Italia e l’Europa. Dopo anni di guerre terrestri i Turchi erano finalmente arrivati ad assediare Vienna; ma il loro trionfo era stato dissolto da quello maggiore dei Polacchi di Jan Sobieski e degli Imperiali di Luigi di Baden, che li avevano distrutti nella giornata del 12 settembre 1683 sotto le mura della città. Di nuovo migliaia di nobili europei corsero a combattere il secolare nemico, il Turco, sotto le bandiere del Sacro Romano Impero in difesa dell’Europa e della Cristianità. Di nuovo fu bandita la Crociata, di nuovo gli Italiani presero le armi. Nell’aprile 1684 fu conclusa la Lega Austro-Veneto-Polacco-Pontificia, alla quale avrebbero aderito poi anche la Russia, Malta e il Granducato di Toscana. Secondo il trattato, firmato il 19 gennaio 1684, la Serenissima s’impegnava ad allestire una forte flotta destinata all’Arcipelago e ad avanzare con un esercito in Bosnia. Vennero armati 12 vascelli, acquistandone altri due a Villafranca, 28 galere e sei galeazze e alla loro testa fu posto Francesco Morosini come capitano generale da mar, al quale il Senato diede la più completa libertà d’azione. Il 10 giugno Morosini lasciò Venezia per Corfù, dove trovò cinque galere pontificie, sette maltesi e quattro e un vascello del Granduca di Toscana. La squadra papale portava a bordo un battaglione di circa 500 uomini, su tre compagnie, al comando del colonnello Cleuter, veterano della Guerra di Candia, da tempo comandante d’una compagnia delle Guardie di Nostro Signore. 155
L’obbiettivo strategico dei Veneziani consisteva nell’eliminazione, o almeno nella riduzione, della presenza turca in Levante e nel recupero di Candia Visto l’andamento della guerra precedente, era chiara la necessità d’interrompere la linea dei rifornimenti tra Costantinopoli e Creta prima di tentarne il recupero. Dunque bisognava impadronirsi innanzitutto della Grecia, da Ovest a Est della Morea, dell’Attica e dell’Eubea, dove erano situate le basi navali ottomane d’appoggio – Nauplia e Malvasia in primo luogo – poi si sarebbe potuto pensare a Creta ed alle isole dell’Egeo. Stabilito di assalire per prima l’isola di Santa Maura, gli alleati vi arrivarono il 20 luglio, dopo aver mandato i vascelli al comando del capitano straordinario delle navi Alessandro Molin ad impedire l’uscita della flotta nemica dai Dardanelli. Sbarcati ben 20.000 uomini al comando del conte di Strassoldo a tre miglia dalla fortezza, la investirono e la fecero capitolare il 3 agosto. Lasciatovi un presidio di circa 1.000 uomini, assalirono e conquistarono le fortezze sulla costa di fronte all’isola, cioè Vonizza, Xeronero e Missolungi. Poi fu la volta di Prevesa, il 29 settembre. Poiché nel frattempo Molin non era riuscito ad evitare l’uscita del capitan pascià con 30 galere e la sua riunione ai legni barbareschi per rinforzare i presidi della Morea, Tino fu aggredita; ma respinse l’attacco. Poi i Turchi, che riuscirono sempre ad evitare il contatto coi legni veneziani, rientrarono per evitare di passare la brutta stagione in mare. In Dalmazia i Veneti si accordarono colle popolazioni morlacche ed ampliarono il territorio in loro possesso dalla guerra precedente, allargandolo dai monti bosniaci a quelli albanesi, senza però che vi fossero grossi scontri. La ripresa delle operazioni vide l’invio da Venezia di rinforzi in uomini e navi. Rifornite appena possibile le fortezze cretesi di Suda, Grabusa e Spinalonga, la squadra dei vascelli, forte di 12 unità, si diresse ad incrociare tra Rodi e Candia. All’altra, forte di 15 vascelli e tre brulotti, Morosini ordinò di recarsi nell’Alto Arcipelago, per intercettare la flotta nemica se avesse voluto attaccarlo mentre assaliva gli obiettivi stabiliti per quella campagna: il Basso Jonio e la Morea. Giunte in maggio a Santa Maura le flotte ausiliarie coi rinforzi di truppe, il 25 giugno 1685 i Cristiani arrivarono davanti a Corone, con 76 navi, tra venete, toscane, maltesi e pontificie, ed un corpo da sbarco di 10.000 uomini agli ordini del conte di Saint-Paul, nel quale era presente n battaglione pontificio di 486 uomini comandati dal conte Giuseppe Orselli di Forlì. I Pontifici parteciparono anche al respingimento, alla fine di luglio, del tentativo di soccorso turco mandato dal pascià della Morea alla fortezza assediata. Dopo 47 giorni d’assedio Corone cadde e gli alleati si spostarono a Calamata, occupandone la regione e le due fortezze che la presidiavano, a Calamata stessa ed a Zernata. Di nuovo le opposte armate di terra e di mare passarono ai porti per lo sciverno, anche se quella veneta ci rimase poco, perché fu costretta ad intervenire con successo a sostegno della guarnigione di Chiefalà, che un poderoso esercito turco aveva assalita da terra. L’inverno passò e il 25 maggio 1686 gli ausiliari tornarono a Santa Maura. Di nuovo fu presente un battaglione pontificio di circa 500 uomini, sempre al comando del conte Orselli, che però morì per malattia di lì a poco e fu sostituito in comando dal capitano Montevecchi. Spediti 14 vascelli e due brulotti nell’Alto Arcipelago, si stabilì di allargare la conquista della Morea, occupando Navarino. Fatta una finta a Patrasso, le truppe terrestri alleate sbarcarono a Navarino senza contrasti, ne assediarono la fortezza e se ne impadronirono in poco tempo. Poi puntarono su Modone e, dopo averla espugnata, passarono a Nauplia, sbarcandovi le truppe, inclusi i Pontifici, il 30 luglio. Due giorni dopo giunsero i Turchi. Poterono mettersi in osservazione ad Argo, ma non avvicinarsi né riuscire ad impedire la caduta della fortezza. La campagna terminò con questa vittoria e senza nessuno scontro navale, mentre in Dalmazia le truppe veneziane occupavano Signa. La campagna seguente cominciò tardi, anche perché quell’anno gli ausiliari si erano mossi in modo diverso. I Toscani, a causa dei diverbi avuti in precedenza coi Pontifici e i Maltesi, avevano preferito 156
mandare le proprie navi ad aggredire le Reggenze in Nord Africa, mentre le cinque galere del Papa, le otto dell’Ordine di Malta e le due genovesi si erano dirette in Dalmazia, recando 1.500 fanti loro, fra cui un battaglione pontificio comandato dal Montevecchi, ai quali era stato poi unito un battaglione toscano. Così solo il 20 luglio 1687 la flotta a remi veneta partì da Climinò diretta a Patrasso per sbarcarvi le truppe destinate ad assediarla, mentre Morosini inviava sette galere ad occupare il Golfo di Corinto, per impedirne l’uscita di rinforzi nemici stanziati nel Castello di Morea. Prese sia Patrasso che il Castello di Morea, i Cristiani avanzarono con tutta la squadra sottile nel Golfo di Corinto, occuparono il Castello di Romelia e poi Corinto, arrivandoci mentre il nemico sgomberava tutto il Peloponneso. Immediatamente dopo, in un crescendo di operazioni sbalorditivo, specie per il nemico, Morosini assalì Malvasia e Mistrà, riuscendo quasi a completare la conquista della Morea. La Consulta di Guerra da lui convocata rimase in dubbio fra l’attacco a Negroponte, in Eubea, e quello ad Atene, in Attica. Visto che si era già in settembre si optò per la seconda soluzione; e le navi cristiane si presentarono davanti al Pireo. Le truppe sbarcarono senza contrasti, mentre i Turchi, concentrandovi le artiglierie e sistemando le munizioni nel Partenone, si ritiravano nell’Acropoli, che, respinta l’intimazione di resa, fu cannoneggiata per preparare l’attacco delle fanterie. Il tiro, assai preciso, colpì anche il Partenone, facendone saltare le polveri e riducendolo a come è adesso, con grande dolore e sdegno di tutta Europa, ma anche dei Turchi che, privi di munizioni, dopo sei giorni si dovettero arrendere. Sotto il comando del provveditore generale Cornaro e soverchiando una dura resistenza, le truppe cristiane in Dalmazia avevano intanto assalito e conquistato la fortezza di Castelnuovo, presso Cattaro. Le sconfitte ottomane portarono alla deposizione di Maometto IV ed all’intronizzazione di Solimano III, che sperava di poter riconquistare qualcosa nell’imminente campagna. Mentre in Europa incominciava la guerra della Lega di Augusta, il 27 marzo 1688 a Venezia morì il doge Giustiniani ed al suo posto venne eletto Francesco Morosini, colla facoltà di rimanere anche Capitano Generale da Mar. Il nuovo Doge, fatta una ricognizione su Candia con 22 galere, decise di attaccare l’Eubea, cioè Negroponte, in modo da togliere al nemico il primo punto d’appoggio uscendo dai Dardanelli. I Cristiani vi si presentarono nella prima decina di luglio. L’impresa non era semplice, perché la città fortificata sorgeva in mezzo al canale omonimo ed era collegata alla terraferma, ed alla fortezza di Carababà, da un ponte al cui centro sorgeva un’imponente torre. La prima cosa che i Cristiani fecero fu impadronirsi della torre, poi misero a terra i reparti di truppa, fra i quali 1.000 soldati dell’Ordine di Malta e dieci battaglioni toscani. Avrebbero poi voluto investire Carababà, ma la Consulta, formata prevalentemente da ammiragli, non fu d’accordo e decise d’assalire immediatamente la fortezza di Negroponte, che era presidiata dai 6.000 uomini del serraschiere Ibrahim. Aperte le trincee e disposte le batterie, il 30 luglio incominciò l’assedio e con esso le difficoltà. La zona era paludosa e malsana; e le truppe vi si ammalavano. I Turchi si difendevano bravamente, con numerose sortite, ed avevano sistemato parecchie artiglierie che dal Carababà sparavano sugli alleati. Il 20 settembre i Toscani abbandonarono l’impresa e rientrarono in Occidente per i quartieri d’inverno, seguiti dopo pochi giorni dai Cavalieri di Malta. Il 4 ottobre Morosini fece dare un assalto generale, ma fallì e dovette rientrare a Nauplia per svernarvi. Meglio era andata invece in Dalmazia, dove 8.000 Veneziani, sbarcati a Scardona, dopo otto giorni di marcia avevano preso la piazzaforte di Canina, poi ribattezzata Knin, a 60 chilometri da Zara, nell’entroterra, occupando poi anche le fortezze di Verbecca, Zuonigrad e Obrassaz. Durante l’inverno si aprirono trattative diplomatiche fra Venezia e Costantinopoli ma, un po’ perché giudicava le richieste venete eccessive ed un po’ perché sollecitato a continuare a combattere da Luigi XIV, che aveva bisogno di tenere impegnati gli Imperiali in Europa orientale per non trovarseli contro in Germania, il Divano respinse tutte le proposte. La campagna del 1689 si aprì col rinforzo della guarnigione turca di Negroponte, riportata a 6.000 uomini, e coll’arrivo verso l’istmo di Corinto di altri 15.000 coi quali il Serraschiere voleva tentare di 157
rientrare in Morea. Come se non bastasse, Morosini era ammalato e gli alleati, preoccupati dall’andamento della guerra in Occidente, non erano venuti in Levante. Deciso a completare la conquista della Morea per poterla meglio difendere, il Doge investì Malvasia bloccandola da terra e dal mare. Fattosi poi sostituire da Cornaro nel comando in Grecia, ancora ammalato rientrò a Venezia; e la sua partenza provocò un rilassamento delle operazioni. Nel 1690 ricomparvero gli alleati, col cui apporto continuò vigorosamente l’assedio di Malvasia, caduta il 12 agosto 1690. Il nuovo papa, Alessandro VIII Ottoboni, veneziano, contribuì con cinque galere e oltre 1.400 soldati imbarcati,114 tutti agli ordini del colonnello Cleuter, articolati su due battaglioni, uno al comando del Montevecchio, l’altro del conte Guido Bonaventura 115 Poiché a malapena la metà dei soldati impegnati poteva trovare posto sulle galere, furono noleggiati pure quattro vascelli e quattro tartane.116 La Consulta di Guerra decise di tralasciare i proposti tentativi contro Cipro e Candia, troppo munite, e di muoversi invece verso Valona e la costa albanese. Per ottenere un buon risultato, Cornaro mandò il capitano delle navi Daniele Dolfin ai Dardanelli per intercettarvi la flotta nemica ed impedirle d’uscire. Dolfin la trovò già a Egina e, nonostante avesse un quarto delle navi del nemico – solo 12 vascelli e due brulotti contro 32 vascelli e 26 galere – attaccò e vinse, costringendo la squadra avversaria a rientrare nei castelli e spaventandone tanto il comandante da indurlo a non tentare più d’uscire in Mediterraneo per tutto il resto della campagna. La flotta di Cornaro intanto era arrivata a destinazione ed aveva sbarcato le truppe, compreso il reggimento di formazione pontificio, reduce da scontri a Malvasia, le quali avevano preso Valona e Canina il 18 agosto. Si decise allora di assalire Durazzo; ma la morte di Cornaro interruppe i preparativi e l’arrivo dell’inverno indebolì la compagine alleata colla solita partenza dei Maltesi e dei Pontifici. Al posto del defunto venne nominato Domenico Mocenigo, ma il suo arrivo coincise coll’assedio che i Turchi misero a Valona e Canina per riprenderle. Visto che non erano difendibili, Mocenigo ordinò di distruggerne le difese e fece reimbarcare le guarnigioni nel marzo del 1691. La campagna di quell’anno fu però sotto tono e i Pontifici non parteciparono a causa della morte del Papa il 1° febbraio 1691 e del conclave, finito il 12 luglio coll’elezione di Innocenzo XII. I Turchi in quell’anno non si mossero in mare perché il nuovo capitan pascià, Hassan Mezzomorto, aveva preferito sottoporre gli equipaggi ad un intenso addestramento, anche perché la marina turca, a differenza delle italiane, si stava orientando sempre più verso i vascelli come nerbo della sua forza. In terra non successe quasi nulla, a parte la perdita di Grabusa. L’anno seguente il Senato chiese a Mocenigo di assalire Creta, cominciando magari dalla Canea; e, il 17 luglio, la flotta cristiana vi si presentò, sbarcando le truppe, tra cui un battaglione pontificio di 445 fanti al comando del marchese Monaldi, che incominciarono l’assedio. Ma al quarantesimo giorno si seppe che stavano arrivando numerosi rinforzi nemici e che il Serraschiere voleva assalire la Morea con grandi forze. Nonostante i comandanti veneti, maltese e pontificio propendessero per la continuazione dell’assedio, Mocenigo decise di abbandonarlo e di rientrare a Nauplia, ignorando che il provveditore generale Vendramin aveva già costretto il Serraschiere a ritirarsi da Corinto e Lepanto, prime piazze attaccate in Morea. Dopo quest’ultima prova insoddisfacente, il Senato decise di sostituire Mocenigo e, a sorpresa, dalle urne spuntò nuovamente fuori il nome di Francesco Morosini. Il 24 maggio 1693 il Doge e Capitano Generale da Mar tra grandiose manifestazioni di saluto salpò da Venezia per Malvasia. Tenutavi in giugno la Consulta, insieme ai comandanti dei contingenti maltese e pontificio,117 decise di rimandare la conquista di Negroponte all’anno seguente, lasciando lungo l’istmo di 114 Di solito il contingente imbarcato era composto da uomini del presidio di Civitavecchia e delle Guardie di Nostro Signore.
in questo caso, essendo due i battaglioni, furono impiegate pure truppe della guarnigione di Ferrara. 115 Gi altri contingenti erano due galere genovesi e otto galere, un vascello e tre tartane dell’Ordine di Malta. 116 Tutti gli autori concordano nel fissare ad otto il numero dei legni noleggiati, ma alcuni parlano di tre vascelli e cinque tartane, altri di quattro e quattro, specificando che dei vascelli due erano stati noleggiati in Inghilterra e due a Genova. 117 Le galere imbarcavano un contingente di forza più o meno pari al precedente, sempre agli ordini del marchese Monaldi.
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Corinto 10.000 uomini, sostenuti in mare da una squadra di sette vascelli e quattro galere, basata nel Golfo di Egina, e di concentrare le forze nell’intercettazione della flotta nemica prossima ad uscire dai Dardanelli. Morosini navigò dunque a quella volta, ma perse tempo per tre giorni di vento contrario vicino ad Andro, cosa che permise ai Turchi di conoscere i suoi movimenti, rifornire in gran fretta le guarnigioni di Scio, Metelino e Tenedo e rientrare negli stretti. Visto l’accaduto, il Doge decise di piegare verso la Morea, dove i nemici si stavano rifacendo avanti. Bastò che apprendessero che muoveva verso di loro perché abbandonassero subito l’impresa che avevano progettata contro l’istmo di Corinto. Lui allora ne approfittò per occupare e fortificare le isole di Egina, Idra, Spezia e Thermia, poi rientrò a Nauplia, dove però, ammalatosi, morì il 6 gennaio 1694. Il Senato nominò al suo posto Antonio Zeno il quale, convocata la Consulta di Guerra, decise di occupare Scio, per tagliare ai nemici le comunicazioni marittime coll’Egitto. Giunte le solite cinque galere pontificie118 e sette maltesi, Zeno rinforzò la Morea e ne partì al principio d’agosto con 34 galere, sei galeazze, 21 vascelli ed un corpo di spedizione di 10.000 uomini. Il poco vento gli permise di arrivare a Scio solo il 16 settembre, ma l’assedio subito intrapreso si concluse in soli otto giorni, lasciando in mano ai Veneziani tre galere, 27 mercantili, 5.000 prigionieri e 212 cannoni. Subito dopo venne avvistata la flotta del capitan pascià Hassan Mezzomorto, composta da 20 vascelli e 17 galere. Zeno uscì colle sue da Scio; ma per due giorni le navi delle opposte squadre si fronteggiarono senza combattersi finché Hassan non si ritirò verso Smirne. Zeno non lo inseguì, ma rientrò prima a Scio e poi in Morea, appena in tempo per contrastare il Serraschiere che ne stava saggiando le difese con delle scorrerie. Da Costantinopoli intanto era venuto al capitan pascià l’ordine di riprendere Scio; ed egli vi si presentò nel novembre del 1694 con 20 vascelli, 24 galere e la minaccia del Sultano ai comandanti di vincere o essere decapitati. Seguirono una serie di pasticci ed incertezze da parte di Zeno, che permise all’armata turca di fuggire e non la inseguì come si sarebbe dovuto. Pur potendolo, non l’aggredì nel porto dove si era rifugiata cogli equipaggi in preda al panico e perse l’occasione di distruggerla. Passarono i mesi e Mezzomorto, in febbraio, si rifece avanti. Di nuovo Zeno gli lasciò l’iniziativa, ordinò ai suoi comandanti di non muoversi e, quando si venne ad un primo contatto l’8 di quel mese, aveva contro sia il vento che la corrente, per cui solo sei vascelli veneziani riuscirono a mettersi in linea e quattro andarono perduti. Il giorno seguente di nuovo Mezzomorto sfuggì al contatto; e così per dieci giorni, durante i quali Zeno non andò neanche a cercarlo. Quando poi sembrò venuto il momento di combattere, i Turchi si ritirarono ancora; ma Zeno completò la misura dei danni che aveva combinato ordinando l’abbandono di Scio, durante il quale, oltretutto, perse un altro vascello che si sfasciò sulla costa per un errore di manovra. Al Senato la rabbia per quest’incredibile condotta fu tale che venne tolto il comando a lui, a Pietro Querini, provveditore d’armata e suo consigliere, all’altro provveditore Carlo Pisani, ad un governatore di nave ed a ben dieci sopracomiti di galera. Tutti furono imprigionati, processati e condannati; e la carica di Capitano Generale venne data ad Alessandro Molin, che arrivò a Nauplia nel maggio 1695, giusto in tempo per respingere un nuovo tentativo del Serraschiere d’invadere la Morea da terra. Fatto questo, decise di andare a cercare i nemici per mare, con una flotta che comprendeva 67 legni, fra cui sei pontifici: cinque galere ed un vascello da 40, agli ordini del cavalier Papirio Bussi. Direttisi prima a Samo per rifornirsi d’acqua, gli Alleati puntarono poi su Scio per attaccarvi Mezzomorto. Il capitan pascià uscì dalle Spalmadori intorno a mezzogiorno del 15 settembre coi vascelli ottomani, e delle Reggenze, lasciando le galere e le galeotte, ma il vento sfavorevole – scirocco – ostacolò entrambe le flotte e limitò i danni a quattro vascelli danneggiati per parte. 118 Il battaglione imbarcato quell’anno era al comando di Francesco Maria Crispolti, capitano della compagnia delle Corazze di
Guardia al Papa.
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Il 18 ci fu un nuovo scontro nel canale di Metelino, con perdite tutto sommato bilanciate, che segnò la fine del ciclo operativo. Il giorno dopo il capitano delle navi Contarini offrì battaglia, allineando sia l’Armata Grossa che quella Leggera, ma Mezzomorto non si mosse e preferì restare a riparare i danni fino al 18 settembre, quando levò le ancore ed uscì dal Canal di Scio verso le Spalmadori, imboccando quello di Metelino. Sei vascelli turchi furono staccati ad assalire le galere cristiane, lente perché stavano trainando le galeazze; ma Contarini interpose i suoi vascelli ed annullò la mossa nemica. Lo scontro si protrasse a lungo e terminò a notte col disimpegno della squadra mussulmana. Di nuovo le perdite furono abbastanza bilanciate. I Veneziani per colpa di un incendio videro saltare in aria uno dei loro vascelli, i cui rottami, ricadendo, propagarono il fuoco su altri due; i Turchi ne ebbero cinque gravemente danneggiati. A sera Mezzomorto si ritirò lasciando Molin e Contarini padroni delle acque. I Veneti provvidero subito alle riparazioni per potersi rimettere in caccia del nemico; ma non appena furono pronti, lo scirocco che li aveva tanto infastiditi il giorno della prima battaglia rinforzò fino a sfociare in una violenta tempesta che disperse la flotta. Molin chiuse il suo rapporto sul ciclo operativo dichiarando che, a suo parere, non era più possibile che il Capitano Generale dirigesse la flotta da un’imbarcazione a remi com’era stato fino allora, ma era necessario che passasse su un vascello, poiché l’esperienza dell’ultima campagna aveva dimostrato come fosse difficile mantenere in conserva i due tipi di nave e quanto le galeazze fossero d’impaccio in combattimento, dovendo sempre essere rimorchiate dalle galere. A Venezia si rispose aumentando il numero dei vascelli in allestimento, ma per il resto non si cambiò nulla. Verso la fine dell’inverno, nei primi mesi del 1696, lasciarono Venezia quattro nuovi vascelli e ben cinque convogli di rifornimenti diretti in Levante per la campagna che stava aprendosi. Giunti gli Alleati nel corso dell’estate, la Consulta stabilì di presidiare l’istmo di Corinto e di far stazionare ad Andros i 26 vascelli cristiani per attaccare il nemico alla prima occasione. Il 9 agosto le ricognizioni informarono Contarini che era stata avvistata a Capo d’Oro, poco a sud di Negroponte, una squadra ottomana di 36 vascelli, due brulotti e 25 galeotte. Avvisato immediatamente, Molin salpò dalla Morea con sei galeazze, 34 galere e un po’ di naviglio minore. Ostacolato dalla tramontana, riuscì ad arrivare ad Andros appena in tempo, il 21 agosto. Mezzomorto era già là; e Contarini gli era andato incontro. Ma come al solito il Capitan Pascià rifiutò il combattimento. Il giorno seguente fu di bonaccia; e ciò limitò gli effetti dello scontro a pochi danni ai vascelli. Fu l’unico della campagna, perché il nemico, dopo aver tentato di prendere Tino senza riuscirci, preferì tornare negli stretti per l’inverno. Da Venezia vennero parecchie recriminazioni ed ordini severi d’impegnare a qualsiasi costo la flotta avversaria. Per questo motivo Contarini partì molto presto dalla Morea e si diresse ai Dardanelli con 25 vascelli e due brulotti. Attese a Schiro l’arrivo delle 20 galere e sei galeazze condotte da Molin e insieme giunsero davanti agli stretti ai primi di luglio. Avvistato Mezzomorto il 5, la flotta veneta lo assalì; ma a parte il solito atteggiamento sfuggente del capitan pascià, tra il vento contrario, il gioco delle correnti e l’ingombro delle galeazze, i danni inflitti al nemico furono pochi e si persero una galera, 63 morti e 224 feriti. Stufo, Molin decise di rispedire le galeazze a Nauplia per disarmarle e riutilizzarne il personale - circa 2.000 uomini - nel rafforzamento delle difese terrestri. Poiché, anzi, temeva un attacco in grande stile, vi si trasferì personalmente coll’intera squadra sottile, lasciando il capitano delle navi alla caccia dei Turchi. Mezzomorto ritenne allora di potersi fare avanti il 1° settembre, supponendo di poter mettere i Veneziani in difficoltà costringendoli tra l’isola di Andros, le scogliere ed il vento contrario; ma Contarini conosceva un passaggio tra gli scogli che il nemico ignorava, ci fece transitare i vascelli e piombò sui Turchi col vento in proprio favore e la squadra su tre colonne. Gli Ottomani ebbero grossissimi danni; e Mezzomorto fece onore al suo nome uscendone ferito e, novità assoluta per lui, sganciandosi durante la notte ed eclissandosi. 160
Contarini riuscì a saperne qualcosa soltanto il 19 settembre, quando apprese che era stato avvistato nelle acque di Negroponte intenzionato a far sbarcare truppe di rinforzo per il Serraschiere. Si mosse subito e gli arrivò addosso il giorno dopo con tutta la Squadra grossa, seguito poi, molto tardi, da Molin con quella sottile proveniente da Thermia. Perdite non fortissime da entrambe le parti segnarono quel combattimento, terminato al tramonto col disimpegno della flotta turca. I Veneziani persero 191 morti e 516 feriti, più qualche albero di nave. Gli Ottomani ne uscirono un po’ peggio, ma non di molto. Finita così la campagna, ci si preparò a quella del 1698, che si prevedeva di dover combattere nonostante la mediazione anglo-olandese. Molin lasciò l’incarico per decorrenza dei termini e fu sostituito da Giacomo Cornaro che, all’inizio della primavera, grazie ai rinforzi ed agli arruolamenti disposti dalla Repubblica, poteva contare in terra su 12.000 fanti e 2.000 cavalieri regolari, disposti a guardia dell’istmo di Corinto e sostenuti da alcune migliaia di volontari irregolari greci, e in mare su 24 vascelli (quattro dei quali sussidiari: uno ospedale e tre magazzino di squadra), tre brulotti, 20 galere, sei galeazze ed un adeguato numero di navi minori. Il nuovo capitano delle navi, Daniele Dolfin, esordì sbarcando truppe a Lemno ed ordinando loro d’incendiare tutto, supponendo, giustamente, che il capitan pascià sarebbe venuto a vedere che succedeva. Mezzomorto infatti arrivò con 30 vascelli e si ancorò nel Canale di Tenedo. Subito dopo giunse là anche Cornaro colla Squadra Sottile; e tra lui e il capitano delle navi bloccarono per un mese l’entrata dei Dardanelli, paralizzando il traffico commerciale ed impadronendosi d’ogni imbarcazione nemica che provava ad avvicinarsi. E per un mese Mezzomorto se ne rimase fermo coi Cristiani fra sé e gli stretti, in attesa di cogliere la buona occasione per rientrarvi. Casualmente la sera del 21 settembre il vento cambiò mentre Dolfin manovrava e gli permise di portarsi nelle migliori condizioni verso la squadra nemica, che tentava di approfittare dello stesso vento per guadagnare gli stretti. Vistosi arrivare addosso i Veneziani, il Capitan Pascià invertì la rotta per disimpegnarsi; ma fu raggiunto e agganciato nelle acque di Metelino. Fu l’ultima battaglia della guerra. Mezzomorto si disimpegnò col favore delle tenebre e si ritirò dividendo le navi tra Smirne e Focea. Dolfin rimase ad attenderlo davanti ai Dardanelli ma, visto che non si faceva avanti e l’inverno si avvicinava, passò a imporre contribuzioni alle isole dell’Arcipelago in mano ai Turchi e si ritirò in Morea. La Pace di Carlowitz venne conclusa di lì a poco; e non fu molto vantaggiosa per Venezia, che dovette restituire il Castello di Romania, Lepanto e Prevesa, anche se coll’obbligo di demolirne le mura. Le rimaneva tutta la Morea, Santa Maura, parte dell’Arcipelago e, in Dalmazia, le piazze di Castelnuovo, Citclut, Canina, Risano e Signa. Nessuno sapeva che era per soli quindici anni e che poi i Turchi sarebbero tornati.
III) La questione della Grande Alleanza 1690-1696 Nel 1648 il lungo duello che aveva opposto la Francia agli Asburgo dai tempi di Carlo V e Francesco I era terminato col trionfo della prima, sancito dalla Pace di Vestfalia e ribadito da quella dei Pirenei nel 1659. La compattezza territoriale, e quindi politica, della Casa d'Asburgo era stata frantumata dal cardinale de Richelieu, la cui politica era stata così sapientemente proseguita dal successore che si era scelto, il cardinale Mazzarino, da consentire al nuovo Re Luigi XIV di espandere inarrestabilmente il proprio potere e i confini del Regno, specie verso e, possibilmente, oltre il Reno. Il gioco era stato facile finché era stato praticato contro avversari deboli e scollegati. Uscito vittorioso dalla guerra di Devoluzione del 1667-1668, che gli aveva dato ampie porzioni delle Fiandre Spagnole il Re Sole aveva sconfitto la coalizione di Spagna, Austria, Danimarca, Provincie Unite e Principi tedeschi oppostaglisi quando aveva assalito l’Olanda nel 1672, costringendola alla pace di Nimega del 1678. 161
L’Imperatore Leopoldo non offriva una gran resistenza perché la sua attenzione era interamente rivolta ai confini orientali, dove premeva minacciosamente l'avanzata ottomana, fomentata proprio da Versailles. Né l’Inghilterra si opponeva, grazie all'amicizia fra Carlo II Stuart e i Borboni. L'obiettivo principale di Luigi XIV consisteva nell'ingerirsi sempre più pesantemente negli affari dell'Impero, possibilmente estromettendone gli Asburgo a proprio vantaggio. Poiché il titolo imperiale era elettivo, la Francia poteva anche riuscire a farlo assegnare ad un suo candidato. Naturalmente occorreva far sì che i Principi Elettori seguissero le indicazioni di Versailles; e il sistema più sicuro consisteva nel collocare propri uomini alla testa degli Elettorati. La cosa non era impossibile, visto che gli Elettorati erano pochi, che tre di essi erano i vescovati di Magonza, Treviri e Colonia, alla cui dignità poteva teoricamente essere innalzato chiunque e che il trono dell'Elettore Palatino stava per rimanere vacante. Dunque con un po’ d’abilità, fortuna e prepotenza si poteva formare una solida compagine filofrancese capace di eleggere un Imperatore che lo fosse altrettanto. Ma alla morte dell'Elettore Palatino i Principi tedeschi, soprattutto quelli protestanti, consci di cosa si preparava, stipularono nel luglio del 1686 ad Augusta una Lega difensiva in funzione antifrancese e riuscirono ad impedire l'insediamento di un candidato di Luigi XIV, che poi era suo fratello Filippo d’Orléans, al posto del defunto. Lo scontro era però solo rinviato. Nel 1688, mentre a Est era in corso la Guerra della Sacra Lega a cui la Francia non partecipava, morì il principe-vescovo di Colonia, uno dei tre elettori ecclesiastici, e si riaprì la contesa. I candidati erano Clemente di Wittelsbach, nipote del deceduto, per la Lega e il cardinale Fürstemberg per Versailles. Ma nessuno dei due riusciva a prevalere; e le parti deferirono la decisione al papa. Per la Francia fu una mossa sbagliata. Innocenzo XI si ricordò di tutti i dissapori intercorsi tra Versailles e Roma dall'affare dei Corsi in poi e non ebbe esitazioni. Constatati i maggiori diritti e titoli del candidato della Lega, decise in suo favore. La situazione diplomatica da tesa che era divenne incandescente. Forse anche per alleggerire i Turchi dalla crescente pressione che stavano subendo in Morea, le truppe francesi entrarono in campagna tanto in fretta da essere al di sotto degli effettivi di guerra previsti, coll’ordine d’occupare Avignone, come rappresaglia contro il Papa, Colonia, Worms, Spira, Philippsburg e tutto il Palatinato come intimidazione verso l’Impero. La mossa provocò l'immediata reazione della Lega e la guerra divampò furiosamente. Il Reno fu attraversato dai Francesi e Magonza, Spira, Worms e il Palatinato furono messe a ferro e fuoco con una violenza e una crudeltà inaudite. Si mossero allora gli eserciti coalizzati di Spagna, Olanda, Svezia, Danimarca, degli Elettorati di Brandeburgo, Baviera e Palatinato e dell’Imperatore. Poi, nel 1689, deposto il re Giacomo II Stuart colla Gloriosa Rivoluzione dell'anno precedente, anche il nuovo sovrano d’Inghilterra, Guglielmo III d’Orange, scese in guerra contro la Francia. La Lega si tramutò nella Grande Alleanza e il fulcro delle operazioni si spostò dalla Germania alle Fiandre, sia perché i Collegati si erano organizzati e avevano battuto e messo in ritirata il nemico fino a riaffacciarsi sulla sinistra del Reno, sia perché ai Francesi premeva di più contrastare gli Anglo-Olandesi. Questi infatti appoggiandosi alle fortezze delle Fiandre e giovandosi delle loro grandi disponibilità finanziarie, erano molto più pericolosi delle truppe imperiali in Germania. A questa guerra il Papa non partecipò, sia perché nessuno glielo chiese, sia perché sarebbe stato quantomeno imbarazzante scegliere fra due fazioni che comprendevano le maggiori corone cattoliche. Per di più la Santa Sede, spaventata dalla crescente preponderanza francese, era arrivata all’assurdo di sostenere, abbastanza copertamente ma non meno efficacemente, Guglielmo III contro Giacomo II, perché quest’ultimo era appoggiato dalla Francia. In compenso lo Stato Ecclesiastico durante la Guerra della Grande Alleanza rivestì un ruolo notevole in campo diplomatico a livello italiano, segno che come Stato andava perdendo sempre di più la sua internazionalità a favore d’una collocazione e d’una posizione strettamente peninsulare. 162
Il primo intervento lo fece il nunzio a Torino presso il maresciallo francese Catinat, in appoggio ai disperati tentativi con cui Vittorio Amedeo II di Savoia alla fine riuscì ad evitare la rovina del suo Stato. Roma aveva guardato ai Savoia in funzione italiana e antistraniera fin dal tempo in cui Carlo Emanuele I, ottant’anni prima, aveva impegnato a fondo gli Spagnoli nella Guerra del Monferrato, arrivando a un passo dalla vittoria. Adesso il nunzio non smentiva quella propensione, come appariva dal tenore dei suoi rapporti mandati a Roma. Grazie a questo favorevole atteggiamento e al fatto che la diplomazia pontificia era la più autorevole fra le neutrali che prestassero orecchio ai Savoia e a Luigi XIV, dopo il 1694 si poterono intavolare delle trattative riservatissime, sfociate in una pace separata fra Savoia e Francia, conclusa durante il pellegrinaggio di Vittorio Amedeo a Loreto nel 1696. La pace franco-sabauda bloccò il fronte italiano con una “neutralizzazione dell’Italia” e di fatto obbligò gli altri contendenti a trovare un accordo generale. A Rijswijk, in Olanda, si riunirono i plenipotenziari di tutti sovrani coinvolti o interessati in qualche modo, incluso il Papa, che mandò un suo emissario. Fino al 1814 sarebbe stata l’ultima volta che la Santa Sede avrebbe partecipato ufficialmente a un congresso in cui si decideva l’assetto politico internazionale. Dopo discussioni non lunghissime, il 20 settembre del 1697 ci si accordò sulle condizioni di pace. La Savoia ne uscì rafforzata e senza l’ingombrante presenza francese che aveva dovuto subire dalla Guerra dei Trent’Anni in poi e l’aveva di fatto resa uno stato satellite della Francia. La Francia perse poco, ma dové accettare di riconoscere Guglielmo III d’Orange legittimo re d’Inghilterra, al posto del deposto Giacomo Stuart. Roma ottenne, grazie a Luigi XIV, con la cosiddetta clausola di Rijswijk, cioè con una clausola all’articolo 4° del trattato del 30 ottobre 1697 tra Francia e Impero, il mantenimento della fede cattolica in tutte le terre rese ai Protestanti, fra le quali il Palatinato. Ma non c’era da guardare troppo ai particolari perché era già nell’aria una gravissima questione, che da sola aveva costituito un enorme incentivo al raggiungimento della fine delle ostilità. Le Potenze europee dovevano decidere cosa fare per la successione al trono di Spagna.
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Capitolo XIII La Successione Spagnola.
I) La successione, la Santa Sede e gli Stati italiani: 1701–1703 La successione al trono di Spagna apertasi nel novembre del 1700 decise l’assetto dell’Europa e di conseguenza del mondo per i successivi due secoli e mezzo. Al di là delle questioni spagnole, i problemi in cui si trovò Roma iniziarono quando Guglielmo III d’Inghilterra ottenne per la Casa d’Hannover il nono elettorato del Sacro Romano Impero. Il rapporto di forza tra Protestanti e Cattolici scese dal precedente e rassicurante tre a cinque a favore dei Cattolici a un pericoloso quattro a cinque. Papa Innocenzo la considerò una minaccia alla Fede nell’Impero e protestò coll’Imperatore. L’Imperatore Leopoldo II, che già con tale concessione aveva dimostrato al Pontefice d’essere cattolicamente inaffidabile e dipendente dal denaro inglese e olandese, cioè dal denaro protestante, ne combinò un’altra, stavolta temporale. Il 9 giugno 1697 pubblicò un decreto, datato 29 aprile, col quale, dietro suggerimento dell’ambasciatore a Roma conte von Martinitz, ordinava che ogni feudatario imperiale in Italia fornisse entro tre mesi le prove documentali della regolarità delle proprie investiture, con pagamento della conferma o delle sanatorie necessarie, pena la perdita dei feudi. Poiché parecchi sudditi pontifici erano feudatari anche dell’Impero e poiché la prima conseguenza di quell’ordine sarebbe stata un impoverimento dell’Italia, ma la seconda il passaggio di fatto alla dipendenza diretta dall’Impero di tanti nobili e terre in quel momento soggetti ad altri signori, tra cui il Papa, la mossa era destabilizzante al massimo grado. La reazione fu rapida: il 17 giugno 1697 la Santa Sede cassò e rese ufficialmente nullo il decreto imperiale, con gran soddisfazione di tutti i Principi italiani e col dichiarato appoggio della Francia. L’Imperatore capì d’aver fatto un grosso errore, proprio durante le trattative di pace a Rijswijch, perciò chiese scusa e la pretesa fu accantonata; ma lasciò tracce, che riapparvero nell’estate del 1700. In quell’estate Carlo II d’Asburgo, re delle Spagne fu indotto dal progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute e dalla mancanza di figli a creare una commissione di consultori per scegliergli un successore. Gli esperti, presieduti dal primate cardinal Portocarrero, si radunarono e conclusero in favore d’un erede francese, Filippo di Borbone duca d’Angiò, nipote di Luigi XIV. Benché fosse un suo parente, Filippo non era un Asburgo, perciò Carlo, stupito e dubbioso, radunò tutte le carte e le spedì in gran segreto a Roma con una lettera in cui chiedeva consiglio al Papa. Ricevutala dall’ambasciatore speciale duca d’Uzeda, Innocenzo XII convocò i cardinali Fabrizio Spada, Giovan Battista Spinola e Giovan Francesco Albani in una commissione particolare deputata, incaricata della risposta. I cardinali sapevano che l’unione dei territori austriaci e spagnoli in Italia e in Europa avrebbe riesposto la Chiesa a delle pressioni imperiali pari a quelle sofferte in passato. L’imposizione di contributi di guerra ai Principi italiani nel 1696, la pericolosa mossa giurisdizionale del 1697 sulla verifica dei titoli e la concessione del nono elettorato a un protestante erano abbastanza per far guardare con timore alla Casa d’Asburgo. Di conseguenza la congregazione, verificata la correttezza procedurale e legale seguita dagli esperti spagnoli, confermò la scelta del duca d’Angiò. Questo il Papa scrisse, lasciando al suo successore una pesante eredità, e questo Carlo fece, provocando un terremoto le cui conseguenze dirette avrebbero determinato i successivi duecentocinquant’anni. Innocenzo XII morì il 27 settembre 1700. Carlo lo seguì il 1° novembre; Luigi XIV ordinò al proprio nipote di accettarne l’eredità; e ben presto le Potenze europee si resero conto che la Spagna stava concedendo alla Francia basi e privilegi e si correva il rischio di un’unione delle due Corone. 165
All’Imperatore, furioso per essere stato defraudato di quanto gli spettava come Asburgo, si affiancarono rapidamente Inghilterra e Olanda e il Principe Elettore di Brandeburgo, allettato dalla promessa imperiale di vedersi riconoscere il rango di re. Per quanto riguardava gli Stati italiani, si profilava l’intervento in guerra di almeno uno di essi, cioè il Ducato di Savoia. Vittorio Amedeo II non aveva scelta. L’ascesa d’un Borbone al trono di Madrid lo aveva nuovamente imprigionato tra la Francia, ad ovest, la Lombardia spagnola, e quindi ora alleata dei Francesi, ad est e Genova, tradizionalmente filospagnola, a sud. Per il momento però non poteva far altro che schierarsi coi Borboni nella guerra che stava iniziando. Perciò s’impegnò a fornire un contingente da unire all’esercito franco-spagnolo che teneva la Lombardia, in attesa di scontrarsi coi 30.000 imperiali che Eugenio di Savoia stava guidando verso l’Italia. Leopoldo infatti anteponeva la rivendicazione di Milano a qualunque altra, perché era un feudo dell’Impero rimasto vacante per la morte senza eredi del feudatario, cioè il Re di Spagna, e affermava che perciò dovesse tornare a disposizione dell’Imperatore. Per impedire all’armata asburgica di sboccare nella Pianura Padana, l’esercito franco-spagnolo avanzò nella Lombardia veneta. Venezia preferì la neutralità. Il suo esempio fu più o meno seguito dagli altri Stati italiani prossimi al teatro delle operazioni, cioè i ducati di Parma, Modena e Mantova e lo Stato Ecclesiastico. Considerando la situazione generale, era in quel momento piuttosto improbabile, per non dire assurda, una vittoria delle armi imperiali. Comunque, per evitar guai, il duca di Parma, Francesco Farnese, si ricordò d’essere vassallo del Papa, nel cui nome arruolò quante più truppe poté e di cui accolse nella propria capitale una guarnigione di 1.500 uomini comandata dal generale Paolucci, distaccata dal presidio di Ferrara. Allo stesso tempo si mostrò amico dei Francesi e spedì al loro comandante un proprio agente, l’abate Giulio Alberoni, grazie al quale riuscì a salvare dai saccheggi e dalle contribuzioni Parma, Piacenza e Guastalla. A Modena, Rinaldo d’Este ebbe qualche difficoltà, ma poté uscirne con danni relativamente ridotti. Chi non si salvò fu il duca di Mantova, perché aderì al fronte borbonico e questo di lì a otto anni gli sarebbe costato lo Stato. Restava la Santa Sede, ma poiché era a ridosso del fronte, per il momento non era direttamente coinvolta e del resto nessuna delle due parti in causa era disposta ad alienarsene l’appoggio al principio della guerra. Roma dunque rimase a guardare i vari contendenti, sperando che non entrassero nei suoi Stati, speranza che svanì quando il 7 settembre 1706 sotto Torino l’esercito franco-spagnolo fu distrutto, chiudendo di fatto la guerra in Italia e aprendo la Penisola al dominio austriaco per i prossimi 150 anni.. II) L’Imperatore, il Papa e Comacchio: 1708 L’evacuazione dei Francesi dall’Italia nel 1707 consentì all’Imperatore di riaprire la questione della sua autorità sull’Italia settentrionale e lo fece nel modo più pesante: chiese soldi. Finché si fosse trattato di Modena o della Toscana, al Papa non sarebbe importato troppo, ma quando il nuovo imperatore Giuseppe I impose al duca di Parma – in quanto vassallo dell’Impero – un contributo di 90.000 doppie, Clemente XI protestò, specie perché il denaro fu trovato liquidando le manomorte ecclesiastiche. Poi Vienna concesse a Modena il feudo di Comacchio, considerato da Roma propria pertinenza; e il Pontefice scagliò l’anatema contro l’Impero. Nel marzo 1708 Giuseppe I ampliò la questione dichiarando la supremazia imperiale su tutta l’Italia del nord e sulla Toscana, il che implicava sottrarre alla Chiesa la signoria feudale su Modena, Parma e Mantova. Poi intimò ai presidii pontifici di lasciare Parma e Piacenza. Clemente, privo di un vero esercito, dové accondiscendere; ma si vendicò rifiutando agli Asburgo l’investitura del Regno di Napoli, dipendente dal Papa fin dal tempo dei Normanni. A questo punto intervenne Luigi XIV, che, come poi riassunse Montesquieu: 166
“… voleva un’alleanza, in base alla quale avrebbe inviato 12.000 soldati e 3.000 cavalieri privi di cavalcatura; il tutto a spese del Papa. Il duca di Toscana aveva detto: “Signore, io sono una canna che si piega dove si vuole. Fatemi piegare.” Il Papa d’altra parte arruolava 25.000 soldati; e certamente sarebbe stato facile riavere Napoli e Milano..... Il Re aveva promesso al Papa 15.000 armi a pagamento.”XC Le cose in realtà non andarono così all’improvvisata. Il Papa aveva cominciato a prendere in esame i propri affari militari dal 1701, quando monsignor d’Aste gli aveva presentato una relazione dalla quale si evinceva una forza di 3.760 fanti, 110 cavalieri e 96 fra bombardieri e aiutanti, come al solito tutti presidiari e senza l’ombra d’un esercito di campagna.119 Poi, nel febbraio 1702 Clemente aveva ordinato un’ispezione alle fortezze della costa adriatica. XCI A Roma però non ci si era preoccupati troppo e ci si era concentrati più su aspetti amministrativi che altro.XCII Nel 1705 una Congregazione deputata particolare aveva discusso la situazione militare e redatto un preventivo di spesa, XCIII ma il problema militare era sempre subordinato a quello religioso: come bilanciarsi fra le due grandi dinastie cattoliche senza rischiare uno scisma? Dopo la battaglia di Torino la posizione imperiale apparve più preoccupante, ma la questione religiosa continuò a frenare qualsiasi iniziativa. XCIV Ai primi di maggio del 1707 il problema da teorico diventò concreto, perché il cardinal Grimani chiese il libero passaggio per le truppe imperiali dirette alla conquista di Napoli. Glielo si poteva consentire? E a quali condizioni?XCV Come al solito se ne occupò una congregazione particolare deputata e optò per il si, a certe condizioni.XCVI Fu trovato un accordo e il corpo di spedizione austriaco passò, ma lo si considerò un rischio. Era partito da Finale Emilia, nel Ducato di Modena. Il 13 maggio 1707 era entrato nello Stato Ecclesiastico. il 15 aveva chiesto viveri, legna e foraggi al Legato di Bologna. Il 18 aveva traversato la città sotto il controllo delle truppe pontificie. La Guardia Svizzera, i Cavalleggeri, i bombardieri e 200 volontari erano stati messi a guardia delle porte e dei palazzi più importanti; tre compagnie di fanteria di milizia, tre di cavalleria di milizia e una di fanteria regolare, rinforzate da altri volontari e dai birri avevano pattugliato la città e tenuto chiusi negli opifici gli operai, temendo che manifestassero per l’Imperatore. Giunto a Faenza, il conte Daun aveva spedito il generale Wetzel a Roma a concertare l’itinerario fino alla frontiera napoletana. Seguendo il consiglio di Grimani, aveva lasciato la costa adriatica, traversato l’Umbria e il 16 giugno s’era accampato a Monterotondo. Il Papa aveva fatto chiudere otto porte dell’Urbe e, come a Bologna, le truppe pontificie avevano controllato la città e pattugliato le strade per prevenire qualsiasi manifestazione filo-austriaca. Il 19 giugno 1707 Daun aveva lasciato l’armata per venire a “baciare il sacro piede” al Papa. L’indomani le sue truppe s’erano rimesse in marcia e, passando fuori della città, s’erano dirette verso il confine, varcandolo a Ceprano il 26. 119 L’elenco è riportato dal DA MOSTO nella nota 2 a pagina 211 del suo Milizie dello Stato Romano; include tutto e ne risulta
che, tolte le 1.300 Guardie di Nostro Signore, o Reggimento de’Rossi, dal colore dell’uniforme, e i 442 Soldati in luogo de’Corsi, non esistevano reggimenti né esercito di campagna, ma solo i presidii di Castel Sant’Angelo, della Città e della Fortezza di Ferrara, del forte Urbano, della Città e della Fortezza di Civitavecchia, di Nettuno, Terracina, Perugia, del Rivellino e della Fortezza d’Ancona, di Senigallia, Pesaro, Ascoli e San Leo. La cavalleria constava di due sole compagnie – a Roma le Corazze, a Ferrara le Carabine – e i bombardieri erano unicamente nei presidii di Castel Sant’Angelo, della Fortezza di Ferrara, del forte Urbano, della Città e della Fortezza di Civitavecchia, di Nettuno, della Città e della Fortezza d’Ancona, di Rimini e di San Leo. Il presidio più grosso era quello di Ferrara: 500 uomini, che coi 460 della fortezza, le 50 carabine di cavalleria e i sei bombardieri e aiutanti, arrivava a ben 1.016 uomini; i più piccoli erano quelli di Rimini e Terracina: due uomini ciascuno. Rocche importanti come Viterbo, Civita Castellana, Ravenna, Cesena, Imola, Forlì, Arquata, Acquapendente e Orvieto avevano il castellano ma nemmeno un uomo di presidio, quantomeno pagato dalla Reverenda Camera.
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Adesso, meno d’un anno dopo, la questione era giunta al punto di rottura. Il 28 aprile 1708 una Congregazione particolare si riunì e discusse sul da farsi quanto a Ferrara e Comacchio, ma in pochi giorni la situazione peggiorò e a Roma si dové decidere per la guerra o la pace. XCVII Un’altra congregazione, il 25 maggio, esaminò più a fondo la situazione. XCVIII Una terza congregazione si riunì il 20 giugno e, decisa ormai la guerra, cercò di stabilire le misure per farla.XCIX Come al solito, ci si rifece ai precedenti. I più recenti erano quelli della Guerra di Castro. Se ne seguì la falsariga e il 2 luglio si riesumarono i provvedimenti urbaniani. Il primo fu l’aumento delle tasse, seguendo lo schema della bolla del 13 settembre 1643, che aveva imposto alle Comunità di versare alla Santa Sede 3.600.000 scudi romani all’anno per tutta la durata della guerra. L’altro si rifece alla bolla del 12 aprile 1630 per il reperimento dei fondi per le truppe. I cardinali sapevano fin dalla congregazione del 1705 che, già solo per cominciare, sarebbe servito un milione di scudi.C Se ne prelevarono 300.000 dal tesoro in Castel Sant’Angelo, in cui, tra prelievi e ripianamenti, restava ancora una metà di quanto vi aveva messo Sisto V centovent’anni prima.CI Fu ordinata la leva di “uomini scelti” da parte delle ComunitàCII e si richiamarono tutti i sudditi pontifici che militavano all’estero per inquadrare l’esercito, però ancora senza artiglieria da campagna. CIII Venne emanato un nuovo regolamento militare, CIV furono regolate le pagheCV e accresciuta la cavalleriaCVI e si prepararono dei piani. Dapprima in estate i cardinali avevano calcolato il fabbisogno finanziario per una forza di 20.000 uomini “Supponendo che (come si dice) N.S.120 sia in risoluzione non d’invadere lo stato di Milano e il regno di Napoli, ma solo di porsi in condizione di difendere lo Stato Ecclesiastico.”CVII Quando si passò alla messa in atto, saltarono fuori le difficoltà. Se si potevano reperire le armi, non c’erano però abbastanza letti121 per le truppe.CVIII I reggimenti erano un problema: costavano molto, perciò alcune delle principali famiglie ne arruolarono a loro spese, come fecero gli Albani – la famiglia del Papa – e i Ruspoli a Roma e i Malvezzi a Bologna.CIX L’esercito fu posto agli ordini del generale conte Marsigli, bolognese, già lungamente al servizio austriaco, che stanziò 12.000 uomini nelle Legazioni, 4.000 a Faenza, che era lo snodo strategico delle operazioni in Emilia, e 3.000 nell’Urbe, coprendo infine il confine napoletano con 2.000 cavalieri. In settembre Marsigli disponeva di 9.000 regolari e 1.800 miliziani concentrati intorno a Ferrara e sapeva di poter stare al sicuro finché avesse tenuto le fortezze della Stellata e di Pontelagoscuro. Il 7 con un corpo franco aprì le ostilità assalendo Argenta e Ostellato. Il 27 si spinse fino a Comacchio con 1.800 uomini, ma non se la sentì d’attaccare e si ritirò. A Roma si facevano altri grandi preparativi per un ulteriore corpo d’armata di 12.000 uomini, sostenuto da 16 cannoni da campagna da sei libbre, ognuno dei quali andava trainato da tre cavalli, con un quarto di riserva, per un totale di 64 cavalli per l’artiglieria e altri 82 e 496 buoi – 248 coppie – per il convoglio dei rifornimenti, che doveva comporsi di 145 carri.CX Rimase tutto nel limbo delle buone intenzioni. Gli Austriaci, giunti frattanto ad allineare nella prima decade d’ottobre sei reggimenti di cavalleria e 16 di fanteria agli ordini di Daun, il 16 attaccarono. Ostellato fu presa e saccheggiata perché il presidio regolare fuggì, lasciando i miliziani a tentare la difesa: ne furono massacrati 200. Subito dopo caddero Goro e Panfilio; e Marsigli si ritirò frazionando ulteriormente le sue forze. 120 “N.S”. ovviamente significa Nostro Signore, cioè il Papa. 121 La fornitura di letti ed effetti letterecci fu oggetto d’una gara d’appalto. La Comunità Ebraica di Roma l’ebbe nel 1708 e
come già dal 1641 al 1655, quando però ne era uscita con forti danni, a causa del pessimo stato in cui le erano stati restituiti i letti. Il servizio era in seguito sempre stato – e lo sarebbe rimasto fino a Pio IX – appaltato a privati, molti dei quali continuarono a rimetterci, sia perché la gara era sulla base dell’offerta più bassa, sia per le pessime condizioni in cui venivano loro resi i beni appaltati.
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Il 27 ottobre Daun prese Bondeno. 122 A quel punto Marsigli, preso tra la cattiva situazione militare e le pressioni politiche fatte dal Legato, che non voleva turbare le trattative appena incominciate a Roma fra l’ambasciatore imperiale e la Santa Sede, si trovò bloccato. Il Legato patteggiò con Daun l’evacuazione di Pontelagoscuro; la Stellata si arrese il 3 novembre e Marsigli non poté far altro che ripiegare. Mise 5.000 uomini dentro Ferrara, 3.000 nel Forte Urbano, si chiuse con 1.400 in Ancona e rimandò a Roma i restanti 4.000.CXI Il 12 l’inattività imposta dal Legato fu premiata come meritava: gli Austriaci, che avevano solo 9.000 uomini tra fanteria e cavalleria, bloccarono tanto Ferrara quanto il Forte Urbano e si diedero a saccheggiare le campagne perché erano a corto di vettovaglie. Interruppero i convogli diretti a Ferrara e decisero di distribuire il grosso delle forze in Romagna per i quartieri invernali. CXII A metà dicembre si mossero le forze imperiali stanziate nel regno di Napoli, varcarono il Garigliano e si accamparono nello Stato Pontificio, in modo da passarvi l’inverno, mentre Daun occupava Fano e Senigallia. Il Papa tentennava e sperava ancora nell’aiuto francese; ma le cose nelle Fiandre andavano malissimo e i Francesi avevano guai più gravi a cui pensare. Il 22 dicembre l’Imperatore gli mandò a Roma un ultimatum: o entro mezzanotte del 15 gennaio accettava di ritirare l’anatema, ridurre l’esercito a 5.000 uomini e consentire alle truppe asburgiche il libero passaggio per tutta la durata della guerra, o l’offensiva sarebbe stata portata fino in fondo. Clemente ordinò di restaurare le fortificazioni dell’Urbe, vi concentrò nove reggimenti di fanteria e tre di cavalleria, ordinò un’ottava di penitenza e digiuno e attese il miracolo; intanto Daun era arrivato a occupare Jesi. Il miracolo non si verificò e, un’ora prima della scadenza, Papa Clemente si piegò a firmare: Comacchio sarebbe tornata alla Santa Sede solo di lì a vent’anni, quando Benedetto XIV avrebbe creato cardinale monsignor Zinzendorf.
III) La pace di Utrecht Il crollo pontificio segnò la fine di ogni combattimento in Italia. Il fulcro delle operazioni si era già spostato in Fiandra dal 1708 e là proseguirono le più importanti fino al 1712, mentre continuavano i combattimenti in Spagna con esito tutt’altro che risolutivo. La morte improvvisa di Giuseppe I, che lasciò erede del trono imperiale suo fratello Carlo, il pretendente al trono di Spagna, presentò un problema gravissimo: gli Alleati stavano combattendo per evitare che la saldatura dinastica fra Spagna e Francia costituisse un’entità imbattibile; ma adesso l’ascesa al trono imperiale del pretendente a quello di Spagna significava in prospettiva qualcosa di peggio. I troni di Francia e Spagna, che in quel momento erano uno del nonno e l’altro del nipote, potevano, nella peggiore delle ipotesi e nell’immediato futuro, alla morte di Luigi XIV appartenere a due fratelli, il delfino di Francia Luigi e Filippo V, suo fratello minore, ma sempre separati sarebbero stati. Carlo d’Asburgo sul trono imperiale come Carlo VI e su quello spagnolo come Carlo III significava invece ripiombare nella situazione europea scomparsa coll’abdicazione di Carlo V; e questo non piaceva a nessuno, né a Londra, né a Versailles, né a Torino, Berlino, Amsterdam e Roma. L’avvento al potere in Inghilterra dei Tories, avversi alla guerra, permise di trovare una base negoziale fra Londra e Versailles e neutralizzò le truppe inglesi, che non spararono più un colpo. Gli Olandesi accedettero ai negoziati per paura d’esserne tagliati fuori e questo spinse tutti gli Alleati ad aderire per non restare soli contro la Francia, per cui gli ambasciatori di Portogallo, Prussia e Savoia fecero sapere che pure i loro sovrani erano disposti a fare la pace. Si aprirono le trattative ma, benché tutti gli Stati italiani avessero mandato dei plenipotenziari, solo 122 Dopo tre giorni la guarnigione aveva finito le munizioni e, quando ne aveva chieste a Ferrara, il Legato aveva risposto
suggerendo di arrendersi.
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il Ducato di Savoia ebbe voce in capitolo; il Papa no. In qualche modo l’aveva ancora avuta a Rijswijk pochi anni prima, stavolta fu escluso. La Santa Sede, nonostante il suo impegno in guerra, non era più considerata un’interlocutrice diplomatica rilevante. La mano passava a Londra e il meglio che si poteva sperare, con tutte le incognite del caso, era che ora qualche Potenza cattolica sostenesse gli interessi di Roma, il che non accadde. Non solo, quando si ventilò l’idea di mandare in Olanda il cardinale Annibale Albani, nipote del Papa, facendolo passare prima da Vienna, si trovò da parte imperiale un’accoglienza così gelida già in Austria che si preferì farlo tornare a Roma La corte pontificia allora si piegò ad usare l’abate laico Domenico Passionei, futuro cardinale. Era già in Olanda dal 1708 per motivi personali e, noto da tempo nel mondo culturale europeo, aveva saputo inserirsi molto bene pure nell’ambiente diplomatico via via radunatosi fra Amsterdam e l’Aja, dove si svolgevano dei negoziati più o meno concreti e dove tutti gli Stati, belligeranti o coinvolti, mantenevano una delegazione. Mi soffermo sulle vicende di Passionei perché sono esemplificative di quelle pontificie nella nuova Europa che stava sorgendo dalla Successione di Spagna. Passionei a Roma faceva parte del “Circolo del tamburo”, un gruppo di letterati raccoltosi intorno a monsignor Giusto Fontanini e al quale appartenevano parecchi giovani che poi avrebbero fatto delle carriere notevoli, come gli abati de Tencin e Lambertini, ascesi il primo, come Passionei, alla porpora, il secondo alla tiara col nome di Benedetto XIV, mentre Fontanini sarebbe divenuto arcivescovo. Una caratteristica del Circolo del tamburo era d’essere filo francese e antiaustriaco, in origine per motivi di simpatia culturale, ma alla fine la cultura tracimò nella politica. Fontanini, l’anima del gruppo, era stato l’autore del manifesto pontificio contro l’Impero per la questione di Comacchio. Passionei avrebbe mantenuto sempre un atteggiamento più incline alla Francia che all’Impero. Lambertini si sarebbe tenuto abbastanza equidistante, ma, come arcivescovo di Bologna avrebbe sperimentato di persona fra il 1733 e il 1736 cosa poteva aspettarsi quantomeno dagli Austriaci e dai Borboni di Spagna, mentre, come Papa, avrebbe visto lo Stato devastato, sempre dagli Austriaci, in Emilia e nel medio Lazio. Passionei era arrivato in Olanda non da Vienna, ma da Parigi e Versailles, preceduto da una solida fama d’intellettuale e accolto da parecchie persone con cui da tempo era in rapporti epistolari. In Olanda, grazie anche al fatto d’essere un laico – si sarebbe fatto ordinare solo nel 1721 – riuscì ad inserirsi assai bene e, come conte Passionei, seguì attentamente il congresso, trattandovi gli affari d’interesse della Chiesa per quanto poté. Quanto poté non fu molto. In sostanza riuscì a mantenere le posizioni ottenute alla meno peggio alla fine della Guerra dei Trent’Anni e confermate dopo quella della Lega d’Augusta, ma niente di più e toccò con mano quale fosse l’isolamento della Santa Sede, che doveva ormai cominciare a guardarsi non solo dai Protestanti, ma soprattutto dal crescente giurisdizionalismo delle corone cattoliche e la cui conseguenza sarebbe stata una diminuzione del potere ecclesiastico là dove fino allora era stato preponderante se non totale. Cercò di spiegarlo, ma a Roma non capirono. Arroccati com’erano in un mondo chiuso, in cui ci si riteneva ancora ubbiditi, riveriti e potenti a Versailles, Madrid, Lisbona e Bruxelles, a Vienna, Varsavia e Monaco di Baviera, come a Torino, Firenze, Genova, Parma, Lucca, Modena e Venezia, per non parlare di Treviri, Colonia e Magonza, alcuni considerarono le trattative da lui condotte insoddisfacenti e poco meditate. Man mano che i negoziati fra le potenze maggiori procedevano, a Roma si cominciò a comprendere qualcosa di quanto Passionei aveva già capito. Le trattative erano ristrette a quattro Stati: Francia, Gran Bretagna, Province Unite e Savoia. L’Austria si autoescludeva per le sue pretese eccessive; la Spagna era considerata un’appendice diplomatica della Francia; gli altri Stati tedeschi e italiani semplicemente non esistevano. La condizione di Roma e degli interessi ecclesiastici era dunque man mano più debole e dipendeva sempre più dall’abilità e dalle relazioni personali di Passionei; sarebbe stato lo stesso cent’anni dopo a Vienna col cardinal Consalvi. Nel febbraio del 1713 Vienna inviò a Londra delle proposte per un accordo globale, ma la Francia dichiarò di non poter accettare quanto prevedevano per la Baviera. I diplomatici del Cristianissimo 170
credettero di poter giocare sul sicuro, alzarono il tiro e si fecero paladini pure dei piccoli Principi italiani, cosa in cui a Roma si sperava molto, del resto lo stesso Passionei era in ottimi contatti col ministro degli esteri francese Torcy. Quella del sostegno ai piccoli Stati era una questione spinosa. Nelle loro istruzioni originali – a cui non ubbidirono – i delegati francesi se lo erano sentiti esplicitamente vietare, perché quanti adesso se la passavano male lo dovevano esclusivamente a quella che Versailles arrogantemente definiva la loro vigliaccheria. Il 22 marzo Vienna comunicò di poter accedere all’accordo generale a condizione che la Francia facesse cadere le sue ultime richieste, proprio quelle relative ai piccoli Stati tedeschi e italiani. Questo mise i diplomatici francesi in serio imbarazzo. Non potevano recedere dalle posizioni prese, specie considerando che tutti i Principi italiani avevano a Utrecht i loro inviati, e del resto erano certi di spuntarla, per cui dissero di no. Per l’Austria era una faccenda tutt’altro che trascurabile, significava perdere la faccia davanti ai membri dell’Impero e farvi riavere voce in capitolo alla Francia più che dopo il 1648; perciò Vienna tenne duro: nessuna concessione né per l’Italia né per la Baviera. L’Inghilterra non se ne curò: la questione non la interessava e tirò dritto, portandosi dietro Olanda, Savoia, Prussia e Portogallo. L’11 aprile 1713, dopo aver offerto un’ultima volta all’Austria di aderire, venne messa fine al conflitto che da oltre dodici anni insanguinava il mondo. Alle due del pomeriggio furono sottoscritti i trattati di pace e di commercio tra la Francia e la Gran Bretagna. Subito dopo firmò la Savoia, poi, alle otto di sera, il Portogallo; alle undici la Prussia e, a causa della lunga collazione di tutti i trattati e documenti necessari, solo due ore dopo mezzanotte i plenipotenziari olandesi apposero i loro sigilli. L’Austria non aveva sottoscritto la pace di Utrecht, quindi si trovò a dover fronteggiare da sola i Francesi e, dopo un anno scarso di combattimenti, si convinse che la via dei negoziati era più conveniente di quella delle armi. Le due delegazioni si incontrarono nel castello di Rastadt. I temi principali erano due: l’Italia e la Catalogna. Di nuovo l’accordo fu trovato senza tenere il minimo conto delle speranze degli Stati italiani e tedeschi e della Spagna stessa, i cui plenipotenziari erano presenti in città ma non ammessi alle trattative. L’Imperatore conservò le sue conquiste italiane e riuscì a far passare sotto silenzio le sue pretese riguardo alla suprema signoria feudale su Parma e Piacenza, che invece la Chiesa sperava di vedere annullate dall’operato della delegazione francese. A Roma ciò dispiacque; a Parma creò invece uno spavento, le cui conseguenze si sarebbero viste entro pochissimi anni. Venne rimandato il congresso definitivo al giugno del 1714, fissandolo nella città svizzera di Baden, in Argovia. Il 18 giugno infatti i plenipotenziari francese e imperiale vi si presentarono a fronteggiare una folla inferocita di ambasciatori dei piccoli Stati tedeschi e italiani e della Spagna. I memoriali piovvero in gran quantità ma non servirono a nulla. Sia la Francia che l’Austria avevano altro per la testa. Si arrivò alla rapida firma del trattato di Baden il 7 settembre. Carlo VI lo ratificò il 15 ottobre: la Successione di Spagna era finalmente chiusa; ora cominciavano gli strascichi.
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Capitolo XIV Vent’anni di lotte giurisdizionali 1713–1733.
I) La svolta dopo Utrecht La pace di Utrecht marcò una svolta: lo Stato Pontificio non era più un protagonista degli affari internazionali. La cosa più grave però era il motivo. Non lo si doveva alla preponderanza raggiunta dalle due Potenze Marittime, entrambe protestanti, ma alle Potenze cattoliche. Né la Francia, né la Spagna, né l’Impero, né, a un livello d’importanza militare inferiore, il Portogallo o la Savoia – ora Sicilia, presto Sardegna – erano disposte a sostenere o ad accettare la presenza della Santa Sede al tavolo dei negoziati. Questa era una conseguenza del crescente giurisdizionalismo, coi sovrani in progressiva contrapposizione alla Chiesa per motivi che, in ultima analisi, erano più finanziari che giurisdizionali e comunque per nulla religiosi. A un sovrano poteva dare un po’ fastidio che alcuni sudditi sfuggissero alla sua autorità giudiziaria perché soggetti al foro ecclesiastico separato, ma gliene dava certamente di più il vedersi sottrarre delle cospicue entrate a vantaggio della Chiesa. La Spagna in questo era esemplare. Filippo V di Borbone aveva ottenuto dal clero spagnolo la cessione temporanea delle rendite ecclesiastiche per finanziare le Guerra di Successione. Dopo la fine avrebbe preferito continuare a incassarle, ma la Chiesa s’era opposta e si era andati, per questo e per altri motivi, a uno scontro tanto duro da arrivare all’espulsione del nunzio da Madrid. Se queste erano le relazioni col Re che si definiva Cattolico, che ci si poteva aspettare dagli altri? Lo stesso. Negli anni fra il 1710 e il 1740 Roma si trovò ad affrontare una crescente opposizione in tutte le capitali cattoliche, dovuta non tanto alle idee illuministe, ancora ben poco condivise da chi governava, quanto alla volontà dell’autorità laica di riappropriarsi dei poteri e diritti che le spettavano. I primi quattro papi del secolo XVIII – Clemente XI, Innocenzo XIII, Benedetto XIII e Clemente XII – erano delle persone intelligenti e abbastanza pragmatiche, ma finirono spesso in situazioni senza margine di manovra, non per colpa loro, quanto per iniziative del clero periferico che loro non potevano disconoscere, né evitare di sostenere. La questione del Tribunale della Monarchia di Sicilia è un esempio. Senza considerarne i particolari, ciò che importa è che Roma si trovò davanti a una rigida presa di posizione di alcuni vescovi siciliani che andarono allo scontro con la corona, furono espulsi e crearono una situazione in cui restavano alla Santa Sede due sole possibilità: sostenerli fino in fondo o disconoscerli. Disconoscerli sarebbe stato un segnale di debolezza e un precedente pericoloso, perciò, davanti al fatto compiuto, Roma poté solo sostenerli, per sbagliato che fosse. L’elezione di Prospero Lambertini nel 1740 cambiò le cose. Come papa, Benedetto XIV iniziò a concedere quanto le corone avrebbero comunque preteso. Fu criticato apertamente – “magnus in folio, parvus in solio”, alludendo ai tanti libri scritti e ai pochi risultati politici ottenuti – ma evitò gli scontri e fece sì che la Santa Sede uscisse dalla posizione passiva, in cui era costantemente aggredita e sconfitta, per divenire una controparte negoziale tanto attiva, benché debole, da rendere meno dure le contese, cedendo meno e più lentamente di quanto avrebbe perso con un’opposizione rigida. Ad ogni modo questo cambiamento iniziò dopo l’elezione di papa Benedetto, cioè dopo l’agosto del 1740. Prima ci furono molti bocconi amari e due guerre: una a cui partecipare, una da subire .
II) La Guerra di Morea Ratificata la Pace di Carlowitz del 1699, la Sublime Porta aveva approfittato dell’impegno europeo nella guerra di Successione Spagnola per ricostruire la flotta distrutta nel quindicennio di operazioni contro i Veneziani e poi riconquistare tutto quello che aveva perso per terra e per mare. 173
Mentre il Senato di Venezia cominciava a preoccuparsi e tentava senza successo di mettere in piedi un’alleanza con Papa, Toscana, Malta e Portogallo, la situazione precipitò di colpo. La Repubblica in tutta la Morea aveva solo 7.000 uomini, tra Italiani, Alemanni e Schiavoni, distribuiti fra le sei piazze più importanti, che erano Nauplia, Modone, Corinto, Malvasia, Navarino e il Castello di Morea. Né stava meglio sul mare, poiché la squadra di Levante allineava otto vascelli e undici galere. Dispose allora l’arruolamento di 18.000 uomini e chiese aiuto a tutte le Potenze cattoliche e agli Svizzeri. Come in passato si presentarono i Pontifici, con quattro galere al comando del Priore di Malta Ferretti; l’Ordine di Malta con due ed i Toscani, che l’11 luglio 1715 si unirono alla flotta veneziana a Patrasso. Altri rinforzi arrivavano lentamente; ma intanto per terra le cose andavano malissimo. Aggredita da forze schiaccianti, la Morea venne persa entro novembre, senza che la flotta veneta si muovesse. Alla fine di luglio allineava 22 vascelli, 33 galere, due galeazze e dieci galeotte, tra venete ed alleate. Non era molto, ma altri in passato avevano fatto tanto anche con forze così scarse, per cui viene da pensare che le navi non siano state impegnate perché la loro perdita avrebbe pregiudicato definitivamente la guerra, mentre la loro conservazione avrebbe permesso in seguito di recuperare quanto era stato perso, il che non era sbagliato. L’anno dopo le operazioni navali andarono un po’ meglio. Il Senato nominò Andrea Pisani al comando della flotta, che allineava 26 vascelli, due brulotti, 18 galere, 12 galeotte e due galeazze. I Pontifici fecero parte dei rinforzi destinati a Corfù assediata dai Turchi. Il 18 agosto 1716 giunsero nell’Isola i 1.100 uomini e le tre galere e quattro vascelli dell’Ordine di Malta; il 31 le quattro galere e sette vascelli papali, insieme a due galere genovesi. Nei giorni seguenti giunsero ancora cinque galere spagnole e tre toscane. Il commendatore Belle-Fontaine comandava la squadra di Malta, il priore Ferretti quella pontificia, il marchese Guidi la toscana. L’inverno 1716 – 1717 passò senza novità. I Veneziani si rimisero in mare l’11 maggio 1717 da Corfù per i Dardanelli. Le altre squadre, fra cui la pontificia, lasciarono i propri porti coll’ordine di concentrarsi a Corfù e poi seguire le disposizioni date dai Veneziani. Lasciata Corfù il 22 giugno, la squadra alleata, comprendente quattro galere e quattro vascelli papali, sette vascelli portoghesi, tre galere toscane, cinque maltesi e due genovesi, si spostò verso la Sapienza per unirsi ai Veneziani. Dopo alcuni piccoli scontri, rifornita e rimessa a nuovo, la flotta cristiana seppe che quella nemica era stata richiamata da Corone a Costantinopoli in conseguenza delle vittorie imperiali nei Balcani. Si decise allora di passare alle operazioni anfibie, occupando Prevesa – il 18 ottobre – e Vonitza, catturandovi otto galeotte. Poi venne presa Cattaro e si assediò Antivari Nel frattempo, scesa in guerra l’Austria, in un solo anno e mezzo il principe Eugenio di Savoia fece quanto a nessuno era mai riuscito neanche in un secolo: Valacchia, Serbia settentrionale e Temesvar diventarono austriache; Belgrado fu riconquistata ed anche i Turchi, che avevano perso tre eserciti e quasi mezzo milione di soldati in 18 mesi, uscirono irreversibilmente dal numero delle Grandi Potenze. Più nulla ostacolava la marcia degli Imperiali verso sud. Dal canto suo l’esercito veneziano aveva respinto un attacco nemico contro Signa e avanzava dalla Dalmazia in Erzegovina facendo cadere Imoschi e raggiungendo Mostar e la Narenta. Temendo la congiunzione dei Veneziani cogli Imperiali in Bosnia, il Gran Signore prestò orecchio alla mediazione offertagli dalle Potenze Marittime e attraverso di loro avanzò proposte di pace. Le trattative andarono per le lunghe e la squadra veneta riprese il mare nel maggio del 1718 con 75 legni, tra i quali quattro galere pontificie. Il 20 e il 21 luglio prese contatto coi Turchi di nuovo nelle acque di Pagania; ma non fu una battaglia decisiva. I Turchi ebbero una decina di navi danneggiate più o meno gravemente; i Veneziani – come in precedenza – solo perdite tra gli equipaggi e la fanteria imbarcata Nel frattempo era stato deciso d’occupare quel noto covo di pirati che era Dulcigno e il 23 luglio vi erano sbarcati dalla Squadra Sottile ben 10.000 uomini per assediarla. I Turchi vi diressero una colonna di soccorso, la cui cavalleria arrivò il 29 e aggredì la fanteria veneta, costringendola a ritirarsi fino alla 174
spiaggia. Là però finì nel raggio d’azione delle galere. Le capitane di Roma, Toscana e Malta spararono con tutti i pezzi, seguite dal resto della squadra e la volsero in ritirata. Pur attaccando e cercando di raggiungere le sortite degli assediati, nei due giorni seguenti i Turchi della colonna di soccorso non riuscirono a rompere l’anello degli assedianti. Poi il 1° agosto i Veneziani furono colpiti da un fuoco abbastanza intenso. Risposero bombardando la città con tutti i pezzi e, dopo quattro ore, la videro alzare bandiera bianca. Sfortuna volle che Pisani insistesse per la resa incondizionata e che i negoziati portassero via le poche ore che permisero alla notizia della pace di arrivare. Il 19 luglio i plenipotenziari alleati l’avevano firmata coi Turchi a Passarowitz sulla base dell’Uti possidetis; Dulcigno ottomana era all’arrivo dei corrieri e tale restava. La Repubblica non era stata contenta delle condizioni di pace; ma le Potenze Marittime e, sopratutto, l’Impero avevano voluto concludere. La Spagna aveva lanciato le sue navi contro la Sardegna e la Sicilia e l’Europa era in subbuglio. Per di più le forze armate veneziane stavano cominciando a vincere troppo. Dal punto di vista austriaco era meglio impedire che la Serenissima riprendesse terre e forze; dunque meglio chiudere subito, nel momento in cui Venezia non aveva ancora ripreso ciò che aveva perso e l’Austria si era allargata nei Balcani fino oltre Belgrado.
III) Due dispute e una guerra Mentre partecipava alla Guerra di Morea, Roma si era trovata invischiata in due complicate dispute che non potevano essere risolti militarmente e provavano, una volta di più, quale opposizione la Chiesa incontrasse verso le sue pretese giurisdizionali temporali, come Passionei aveva sperimentato a Utrecht: la questione del Tribunale della Monarchia di Sicilia e il concordato spagnolo. In seguito alla pace di Utrecht la Sicilia era passata ai Savoia e con essa era loro passato il Tribunale della regia monarchia ed apostolica legazia, istituito dalla bolla con cui Urbano II, il 5 luglio 1098, aveva concesso al conte Ruggero ed ai suoi successori il privilegio di legato a latere del papa in Sicilia. In altre parole: in Sicilia il Re rappresentava il Papa. I vescovi dovevano sottostare alla sua autorità e rimettersi alle sue decisioni, pronunciate sia in appello sia sui ricorsi contro le loro sentenze. Era vero che il Re non esercitava direttamente l’incarico e lo delegava a degli ecclesiastici da lui nominati, ma era pure vero che dal 1571 il giudice della regia monarchia era divenuto un magistrato ordinario nonostante tutte le opposizioni di Roma. Non è il caso di entrare nei particolari della famosa faccenda dei sacchi di lenticchie che originò lo scontro fra corona e vescovi ai primi del Settecento. Qui basterà dire che, quando fu incoronato re di Sicilia, Vittorio Amedeo II di Savoia si trovò per le mani un bel pasticcio iniziato sotto il regime precedente e, agendo esattamente secondo le leggi del Regno, andò a scontrarsi con Roma, che invece sosteneva a spada tratta i vescovi in una materia che di ecclesiastico non aveva proprio nulla. Contestualmente si aprì la questione del concordato spagnolo, che, a causa della spedizione alberoniana contro la Sardegna e poi la Sicilia, venne a innestarsi nella Guerra di Morea e nello scontro giurisdizionale coi Savoia. Essendo questa una storia militare e non essendo nessuno dei due scontri diplomatici una causa di guerra della Santa Sede contro un’altra Potenza, li cito solo perché dimostrarono alla Curia di Roma quanto l’aria divenisse sempre meno favorevole agli ordini impartiti alle corti estere e quanto la Santa Sede fosse sempre più lontana dalla realtà e chiusa in un comportamento ormai in ritardo di cent’anni. La Chiesa cominciò a rendersene conto relativamente in fretta. Capì che doveva assumere un atteggiamento meno intransigente sulle questioni giurisdizionali se voleva evitare complicazioni che si estendessero negativamente alla sfera religiosa e iniziò a cercare delle composizioni. Grazie ad Alberoni – per questo motivo fatto cardinale – già nel 1717 firmò il concordato con la Spagna. Nel 1724 ottenne indietro Comacchio. Nel 1728 chiuse la disputa del Tribunale della regia monarchia e negli anni seguenti 175
riuscì a tenersi fuori dai guai politici abbastanza da evitare inframmettenze e rappresaglie in campo spirituale Più o meno sistemate le dispute, iniziarono però i dissidi di cui la Santa Sede non era colpevole ma in cui veniva coinvolta. Il primo fu quello della successione di Parma. I Farnese si estinsero senza discendenti maschi diretti e con una commedia ereditaria al centro della quale c’era una falsa gravidanza e alla fine della quale, indipendentemente da chi avesse la corona di Parma, Roma aveva definitivamente perso qualsiasi signoria feudale che potesse aver vantato in precedenza. L’altro fu quello della Guerra di Successione Polacca, che comportò un nuovo conflitto pure in Italia. Da un lato scesero in campo Carlo Emanuele III di Sardegna, la Spagna e i Francesi, dall’altro gli Imperiali, che proprio da Carlo Emanuele III furono immediatamente eliminati dalla Lombardia. Nel frattempo, già nella primavera del 1733, 27.000 spagnoli sbarcarono a Livorno, si unirono ai reparti di don Carlo di Borbone provenienti da Parma e marciarono verso sud, alla conquista dei regni di Napoli e Sicilia, ottenendo il passaggio attraverso gli Stati Pontifici, il che scatenò le ire dell’Imperatore e mise Roma in imbarazzo ancora una volta. Nel maggio del ’34 ripresero i movimenti degli eserciti nella Pianura Padana. Fino a tutto giugno restarono confinati al Ducato di Parma. Poco dopo, però, Carlo Emanuele III, diffidando del duca di Modena e ritenendolo un po’ troppo ben disposto verso l’Impero, stabilì di occuparne il Ducato A dir la verità Rinaldo d’Este, avvicinatosi all’Austria perché sperava di rimettere le mani su Comacchio aveva già sborsato una grossa cifra ai Franco-Sardi per "l’indulto di godere le prerogative di una intera neutralità”CXIII e quando seppe che cosa stava per accadergli, fuggì a Bologna. Il Papa non ebbe difficoltà ad accoglierlo e restò assai soddisfatto della scomparsa del pericolo estense su Comacchio. Ci furono poi alcuni sconfinamenti di truppe austriache nelle Legazioni, intorno a Ferrara e a Bologna, ma la questione venne risolta amichevolmente, come pure quella relativa al tentativo fatto da una parte della guarnigione dello Stato dei Presidii verso i feudi di Castro e Ronciglione. Nel frattempo gli Spagnoli avevano preso il Regno di Napoli, insediato Carlo di Borbone sul trono come Carlo VII, anche se poi sarebbe stato ricordato come Carlo III, e stavano accingendosi a sbarcare in Sicilia e a mandare un corpo di spedizione a nord, attraverso gli Stati del Papa, per unirlo ai Franco-Sardi. Non si affrettarono molto, preferendo prima prendere lo Stato dei Presidii. Il 22 aprile la partita laggiù era chiusa e puntarono sulla Lombardia. Di nuovo fu loro consentito il passaggio e, quando la guerra finì, Roma ne uscì senza altri danni che quelli, relativamente contenuti e limitati a viveri e foraggi, sofferti dalla popolazione dell’Emilia durante la permanenza austriaca e il transito degli Spagnoli e quelli, assai più rilevanti, dovuti alle mancate entrate e alle forti spese sostenute. Ad ogni modo la conquista di Napoli implicò un ulteriore dissidio tra Madrid e Vienna da risolvere a Roma riguardo all’investitura del Regno di Napoli: a chi sarebbe stata concessa? La questione si sarebbe trascinata a lungo.
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Capitolo XV Dalla Successione Polacca alla Rivoluzione Francese 1733–1793.
I) La riforma delle forze pontificie del 1734 L’intervento franco-sardo nella Pianura Padana durante la Guerra di Successione Polacca e la conquista borbonica di Napoli indussero il governo pontificio a prendere qualche provvedimento militare, per non doversi trovare del tutto impreparato davanti ad un eventuale allargamento del conflitto. Il 18 dicembre 1733, a guerra appena scoppiata, la Santa Sede decise di “riconoscere tutte le spese che si fanno dalla Rev.a Camera, tanto in Roma, che nello Stato Eccl.io”CXIV e per questo motivo nel gennaio 1734 venne tenuta una Congregazione particolare, interrotta e ripresa poi in febbraio, per cercare di ridurre le spese militari o, almeno, di far sì che il denaro fosse impiegato nella maniera migliore. La Congregazione esaminò i dati, raccolti con una certa cura, anche se, dato l’argomento all’ordine del giorno, limitati alle cifre delle paghe, pro-capite e complessive, giornaliere, mensili ed annuali. Se ne ricava un quadro completo del soldo dei militari pontifici, che può essere interessante riportare almeno a grandi linee, perché, nonostante il gran numero di riforme abbozzate, intraprese e lasciate a mezzo, o ultimate di cui la Curia romana costellò il resto del Secolo XVIII, quanto venne descritto nel 1734 nella sostanza non cambiò mai ed era né più né meno il mantenimento dello statu quo ante, a costi ridotti. Roma, i soldati del cui presidio percepivano una paga mensile di quattro scudi e 55 baiocchi, aveva dieci compagnie a piedi123 e una a cavallo, quella delle Corazze di Nostro Signore. La truppa delle compagnie a piedi costava poco più di 500 scudi al mese, il che faceva pressappoco 6.000 all’anno, coll’eccezione della Compagnia Molara, pesantemente sotto organico, e di quella degli Avignonesi, abbondantemente al disopra della forza media. Gli ufficiali, i cui stipendi erano calcolati a parte, costavano altri 1.025 scudi, 16 baiocchi e 33 soldi al mese, cioè 12.303,19 e 1/5 all’anno. L’importo complessivo annuo era quindi di 74.325 scudi e 99 baiocchi e un quinto, cioè due soldi. Ma non era tutto, perché c’era Castel Sant’Angelo, che faceva sempre presidio a sé, come del resto accadeva col Forte Urbano. In Castello c’erano due compagnie: la prima, che aveva un capitano riformato e un alfiere, costava 473 scudi e 18 al mese, la seconda, con un capitano ed un aiutante, incideva per 418,40 al mese. Bombardieri, musicanti e altri militari costavano ancora 156,75 mensili, mentre gli ufficiali del presidio faceva spendere ulteriori 185 scudi e 60. In totale, all’anno, il Castello abbisognava di 14.811 scudi solo per le paghe. Dipendevano dal Governatorato delle Armi una dozzina di sergenti maggiori ed altrettanti minori, il capitano delle Bande di Spoleto e il Governatore Generale delle Armi di Nettuno, che percepivano rispettivamente 33,33, 16,66 e 20,15 scudi al mese, per una somma annua di 1.019 scudi e 98. Poi c’era la forza di gendarmeria a piedi, cioè le “Compagnie in luogo de’Corsi”, sparse su tutto il territorio italiano della Santa Sede, incluse Benevento e Pontecorvo ma escluse le Legazioni, i cui 460 tra ufficiali, sottufficiali e truppa costavano la bellezza di 28.420 scudi e 97 all’anno. A questo punto si entrava nel dettaglio delle piazze. Anzio aveva un castellano, un sergente, tre caporali, due bombardieri, pagati quattro scudi al mese, una “piazza morta” e vari ufficiali, che poi erano quelli della milizia, e costava 1.536 e 80 all’anno. Civitavecchia, aveva un presidio di 260 uomini (a 4,40 a testa al mese) comandato da un maggiore, un alfiere un primo ed un secondo aiutante e vari altri ufficiali e una guarnigione del forte ammontante a 66 123 Compagnia delle Guardie di Nostro Signore (detta compagnia de’Rossi e che alcuni in passato han creduto così chiamata
dal nome del comandante) e compagnie Molara, Ripa Grande, Palombara, Frangipane, Soderini, Massimi, Falconieri, Ruspoli, Avignonesi.
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soldati ed un imprecisato numero di ufficiali. Poi venivano Perugia, con un castellano, 20 soldati (tre scudi al mese) e vari ufficiali; Ancona con un castellano per sé ed uno per il Rivellino, due ufficiali (un maggiore e un tenente), un sergente, due bombardieri, tre caporali, un tamburo e 34 soldati, mentre il Rivellino aveva solo un tenente, un bombardiere, due caporali, un tamburo e sei soldati. Seguiva Rimini – un castellano, un capo dei bombardieri, un aiutante del capo dei bombardieri, un armaiolo e un Capitano delle Bande d’Imola – e finalmente si arrivava alla guarnigione che per importanza e dimensioni era seconda solo a quella di Roma: Ferrara. Ferrara aveva un presidio di una Compagnia de’ cavalleggeri, con cinque ufficiali e 43 fra sottufficiali e truppa, cioè “un foriere, due trombetti, un manascalco tre caporali e 36 soldati”, e sette compagnie di fanteria con un totale di 21 ufficiali e 735 uomini. A questi si aggiungevano la decina di ufficiali e i 341 soldati, delle tre compagnie del Forte Urbano, per un complesso di circa 35 ufficiali e 1.460 soldati, che costavano all’erario meno dei commilitoni stanziati a Roma perché, a seconda delle compagnie, percepivano da un massimo di 3 scudi e 11 a un minimo di 2,96 e 2. In complesso tutte le truppe regolari pontificie costavano all’erario 224.202 scudi, 29 baiocchi e 1/5 con una forza che non eccedeva i 3.300 uomini. Era tanto, era poco o era giusto? Era troppo; e la Congregazione prese alcuni provvedimenti. Per prima cosa abolì le “Piazze morte” di terra e di mare e soppresse le Lance Spezzate presenti a Ferrara. Poi tutte le compagnie, Corsi inclusi, furono ridotte a “2 soli ufficiali, levato il Tenente”,CXV ma ebbero ripristinata la carica di Aiutante. Naturalmente vennero riviste le paghe, anche se non tutte. Venne diminuita quella mensile sia dei soldati in luogo de’Corsi – da 4 scudi e 55 a 3 scudi e 55 – sia del presidio di Castel Sant’Angelo, scesa a 3 e 20, sia dei sergenti maggiori del Governatorato delle Armi che di tutti i soldati appartenenti a presidi o fortezze lasciando intatta solo la paga dei militari delle compagnie. Poi, esaminato l’insieme delle piazze, si decise di sopprimere quella di San Leo col relativo presidio, perché il castello era ormai solo una prigione e tanto valeva che tale fosse considerato anche amministrativamente, il Governatorato di Nettuno e le cariche di Capitano delle Bande, sia d’Imola, che di Spoleto che di “eventuali altri luoghi”, riducendo quindi di molto il bilancio del Governatorato delle Armi, al quale rimanevano solo i sergenti maggiori e minori. Infine si considerò il vestiario, il cui rinnovo importava sempre una spesa non indifferente. L’esercito pontificio provvedeva a ciò, per tutti i suoi soldati, ogni due anni. La Congregazione decise di allungare i tempi, passando da due a tre anni e stabilendo per il momento “che quanto all’Abito che presentemente portano i suddetti soldati debba regolarsene proporzionalmente a detto tempo il pagamento, o retenzione.”CXVI Non venne indicato l’ammontare della riduzione di spesa che ci si attendeva da questi provvedimenti, ma, da quanto ho trovato scritto, si può supporre che la si valutasse intorno ai 25.000 scudi annui, 11.000 circa dei quali ottenuti dalle contrazioni delle paghe e dalle soppressioni di cariche e presidii. E’ difficile stabilire coll’ottica attuale se i soldati del papa fossero pagati tanto o poco. In termini di potere d’acquisto e di benefici indotti dallo status di militare (vestiario, alloggio e nutrimento gratis) stavano decisamente meglio del popolo; ed è certo che all’epoca erano considerati ben pagati per non fare nulla. Lo pensava pure Benedetto XIV, papa dal 1740 al 1758, che, quando il suo maestro di camera, al ritorno da una lunga passeggiata, gli disse “Vostra Santità sarà molto stanca” rispose secco “Ohibò! sono forse un soldato del Papa io?”CXVII Nel 1729, Montesquieu aveva segnato, ironicamente scandalizzato, nel suo diario: “Un soldato del Papa, all’Opera, spiegava al mio servitore (ed io lo sentivo) le pene del suo stato: come fosse costretto a comportarsi all’Opera, che facesse caldo o freddo; come fosse costretto a mangiare tre pani ed a bere un fiasco di vino tutti i giorni. Hanno 18 soldi al giorno. Si era buscato una pleurite a far rinculare le carrozze.”CXVIII 179
E il presidente De Brosses, sei anni dopo la riforma, nel 1740, avrebbe scritto: “Le truppe sono ben vestite e di buon aspetto; ma esse stesse sarebbero assai imbarazzate qualora dovessero parlarvi delle loro virtù guerriere, perchè in tutta la loro vita non hanno visto altri fuochi che quelli di San Giovanni; il sole e la pioggia sono i nemici normali davanti ai quali essi scappano a gambe levate. Appena si mostra uno di questi due, via tutti dal proprio posto, di corsa ad ammassarsi sotto un corpo di guardia coperto. La loro campagna più faticosa è quella di montar di guardia alla porta dell’Opera. Del resto gli ufficiali hanno una buona paga; quindi il loro mestiere vale bene quello dei canonici, dato che non comporta la lettura del breviario.”CXIX Si vede che, nonostante le riduzioni decise dalla Congregazione del 1734, erano ancora ben stipendiati. I provvedimenti del 1734 andarono in vigore quasi subito, ma l’esercito pontificio non ebbe bisogno d’entrare in campagna, né d’armarsi, poiché la Guerra di Successione Polacca finì rapidamente e, una volta tanto, senza troppi danni per i neutrali. II) Le forze militari di polizia a piedi: il Battaglione in Luogo de’ Corsi Accanto ai birri e alle forze a disposizioni dei bargelli di città e di campagna, lo Stato Ecclesiastico aveva anche dei corpi militari di polizia. Il più noto era quello, già più volte menzionato, delle “Compagnie in luogo de’Corsi”, dette anche “de’Bianchi”, dal colore prevalente nella loro uniforme. Vale la pena di ripetere che erano dei reparti militari di polizia. che oggi definiremmo di gendarmeria, preposti al servizio di polizia extraurbano e a fornire sostegno agli sbirri in città. Erano militari a tutti gli effetti, dotati di uniforme, d’una loro bandiera, inquadrati regolarmente da ufficiali, sottufficiali e graduati di truppa, armati, mantenuti e pagati dalla Reverenda Camera Apostolica. Il loro insolito nome risaliva dopo l’incidente del 1662 coll’ambasciatore di Francia, quando il corpo dei Corsi era stato sciolto e, per continuare ad avere chi svolgesse le mansioni di gendarmeria, si erano creati al suo posto i “Soldati in luogo de’Corsi”, poi divenuti “Battaglione in luogo de’Corsi”. La loro uniforme, prescindendo dalle varianti di taglio che si susseguirono fino alla Rivoluzione Francese, rimase immutata nei colori fino alla fine del Secolo.124 La stessa Congregazione particolare del gennaio 1734 che si occupò delle truppe, esaminò attentamente pure la posizione dei Corsi. Dalle carte pervenuteci, i militari delle “compagnie in luogo de’ Corsi” erano 460: quattro ufficiali, due sottufficiali e 454 fra graduati e truppa, che risultavano dispersi capillarmente su tutto il territorio sottoposto al Papa in Italia meno l’Emilia. La 1ª compagnia, comandata dal capitano Domenico d’Aste, aveva giurisdizione sul Patrimonio di San Pietro, Marittima e Campagna, cioè su tutto l’attuale Lazio meno parte della provincia di Rieti e di Frosinone, sull’Umbria, sulla Marca d’Ancona e sui feudi di Benevento e Pontecorvo nel Regno di Napoli. Al 1° febbraio 1734 risultava forte di due sergenti, dieci caporali e 296 uomini, mentre la 2ª comandata dal colonnello marchese Gentili, coadiuvato da un tenente ed un alfiere, era responsabile del resto delle Marche e della costa romagnola ed allineava otto caporali e 142 uomini, pur dovendo avere una forza teorica di circa 200 teste. I reparti erano suddivisi in presidii di forza variabile dai quattro uomini di Ceprano, ai 57, otto caporali e due sergenti di Roma, fino ai sei caporali e 100 uomini d’Ancona. CXX La Congregazione, ricordando che si sarebbe dovuta avere una forza teorica di 200 uomini per ogni compagnia con una paga di quattro scudi a testa, calcolò una spesa effettiva di 1.298 scudi e 50 al mese, 124 Come già accennato, quello prevalente era il bianco: abito e pantaloni bianchi, come le ghette, mostre e panciotto rossi,
cravatta nera e bottoni argentei. Le buffetterie erano in cuoio naturale. Il tricorno era nero, bordato d’argento, colla coccarda papale bianca e rossa.
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pari a 15.582 scudi annui, per la “compagnia Roma” e 878 scudi e 50, cioè 10.542 scudi l’anno per la “compagnia detta d’Ascoli”, con una spesa annua di 2.296 scudi e 97 per le paghe degli ufficiali. Evidentemente secondo i reverendissimi congregati la spesa, o almeno “quella” spesa, non valeva l’impresa. Pertanto presero alcune decisioni, non tutte piacevoli, riguardo all’esercito in generale ed ai Corsi in particolare. Intanto si stabilì, come già sappiamo, che gli ufficiali venissero ridotti a due oltre al tenente in tutte le compagnie, incluse quelle dei Corsi, male di poco perché, come abbiamo visto, nella 1ª oltre al comandante non ce n’erano e nella seconda erano esattamente come la Congregazione stava decidendo. Poi si ordinò, sempre per tutte le compagnie, che venisse ripristinata la carica di Aiutante e, come abbiamo visto, che il vestiario venisse rinnovato ogni tre anni e la paga ridotta a 3 scudi e 55. La cifra era sempre maggiore di quanto percepivano i militari di alcuni reparti, ad esempio i fanti del presidio di Ferrara, ai quali venivano dati 3,11 o, addirittura, 2,96; ma era una magra consolazione, visto che le truppe di Roma restavano a 4,55. III) Le forze militari di polizia a cavallo: la “Compagnia dei Carabini Rinforzati”, o “dei Cacciabanditi a cavallo.”CXXI Ai primi del Settecento le Legazioni dello Stato Pontificio avevano, come ho detto prima, 22 compagnie di milizia di fanteria, tre compagnie di Cavalli della Città di Bologna ed una “compagnia di Guardie de’Cavalleggieri dell’Eminentissimo Legato”, ai quali si aggiungevano altri armati di vario genere, tra i quali la “Compagnia dei Carabini Rinforzati”, o “dei Cacciabanditi a cavallo”, meglio e più sbrigativamente conosciuta dal popolo come “La compagnia di Manino”. Di essa si sa piuttosto poco, come del resto si sa pochissimo o nulla delle analoghe unità esistenti negli antichi Stati italiani prima della Rivoluzione francese; ma vale la pena di spenderci parecchio tempo ed entrare nei dettagli.125 In sostanza la storia della compagnia è questa. Era stata creata nel 1605 dal cardinal legato di Bologna come forza di polizia, sottratta a qualunque giurisdizione e bargello. Gli appartenenti alla compagnia, non potevano essere perseguitati né arrestati dagli sbirri e godevano del titolo di “soldato” e di tutti i privilegi ad esso solitamente legati, incluso quello di portare le armi in qualunque momento e luogo, di notte o di giorno. In caso di necessità potevano sequestrare cavalli per proprio uso in tutte le Legazioni. Dovevano dare la caccia ai banditi. Per questo motivo la compagnia era stata chiamata “dei Carabini Rinforzati” o “dei Cacciabanditi a Cavallo”. La forza prevista nel 1605 era di 120 uomini e tre ufficiali, divisi in dieci squadre composte ognuna da un caporale ed undici soldati; gli ufficiali erano “i soliti”, cioè un capitano, un tenente ed un alfiere. Esistevano sicuramente anche un cancelliere, un sottocancelliere, un depositario, due trombettieri, almeno dal 1648 un numero indeterminato di lance spezzate (probabilmente da una mezza dozzina a una decina, visto che costituivano una fila dietro il capitano quando la compagnia sfilava in parata) ed un paggio del capitano. Nel 1640 però il Legato aveva rilasciato al capitano Sarti la facoltà di arruolare fino a 150 uomini; e tanti sembra che fossero nel 1705 gli effettivi, tutti reclutati fra piccoli artigiani, contadini e gente di basso livello sociale, anche se pare che tra le lance spezzate vi fossero pure nomi della buona borghesia e “cittadini” di Bologna. A tutti gli effetti era un reparto militare, 125 Le notizie che si presentano qui, sono tratte da un memoriale riassuntivo della storia della compagnia, presentato per
difendere il diritto – prettamente militare – della compagnia stessa ad avere una bandiera e depositato nel fondo Congregazioni Particolari regolate dell’Archivio di Stato di Roma. La contesa che diede origine al memoriale risale all’anno 1700, quando i capitani delle 22 compagnie di milizia di fanteria e delle tre compagnie di Cavalli della Città di Bologna ed il colonnello comandante le guardie del Legato protestarono contro la Compagnia dei Carabini Rinforzati, accusandola d’aver abusivamente innalzato una propria bandiera, di aver altrettanto abusivamente un alfiere e di spacciarsi per compagnia di soldati, quando i suoi uomini non avevano uniforme e non passavano rassegne. Contro questa accusa insorse il comandante della compagnia, capitano Luca Mengarelli, e presentò un memoriale difensivo, contenente dodici testimonianze in favore della compagnia, delle quali si riportano le più interessanti, quelle che permettono di capire cosa fosse, cosa facesse e come fosse nata la Compagnia dei Carabini rinforzati.
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dal momento che i suoi uomini erano “soldati” ma con mansioni di polizia giudiziaria. Aveva inoltre una notevole autonomia. Nel 1627 il Legato aveva dato facoltà al capitano Sarti d’arruolare e congedare la truppa a piacimento e senza dipendenza da alcuna altra autorità militare. Di solito i caratteri militari distintivi di un reparto sono due, il primo necessario, il secondo sufficiente e cioè la bandiera e l’uniforme. Di questi, il carattere necessario, la bandiera, checché ne dicessero i comandanti delle altre compagnie, esisteva e, per di più, rispondeva alle caratteristiche delle insegne delle truppe pontificie. Sappiamo che era sicuramente una cornetta, 126 anche se talvolta viene chiamata bandiera o stendardo. Col che erano soddisfatte le due caratteristiche delle bandiere pontificie e cioè la presenza di una sacra immagine sul recto e quella delle armi dell’autorità politica dominante – il Legato – sull’altro. Se il reparto non fosse stato militare, avrebbe potuto avere l’immagine sacra e inalberare le insegne del capitano, ma mai e poi mai avrebbe avuto il permesso di mostrare le armi del Cardinal Legato e ancor meno quelle del Papa, onore riservato solo ai reparti militari dipendenti dall’autorità pontificia. D’altra parte, nell’affermare che pure i Corsi avevano ricevuto la bandiera al tempo di Clemente X – e aggiungendo di sfuggita che erano deputati agli stessi compiti della sua compagnia – il capitano Mengarelli nel 1705 dichiarava che la compagnia aveva anche “due trombettieri colle bandierole (drappelle) alle trombe e Casacche a livrea, Paggio con valigie e Cavallo bardato innanzi a vuoto. L’asta dello stendardo è nobile, intagliata e dorata”; e pure queste erano caratteristiche, tipiche dei reparti militari, che non si potevano avere di propria iniziativa, ma solo per concessione delle autorità. E secondo un’altra testimonianza, nel 1648 i soldati inalberavano la loro cornetta, che aveva “L’arme di Papa Urbano e del Legato del tempo e la stessa asta ancora in uso.” Dalle testimonianze rese si deduce che la cornetta, col fondo verde e bordata d’oro, recasse sul recto la Madonna detta di San Luca (mezzo busto di fronte, che regge col braccio sinistro Gesù Bambino) e sul verso: in alto a destra lo stemma del Papa, a sinistra quello del Legato e sotto, come vertice di un triangolo rovesciato, quello del capitano e che pure le drappelle fossero presumibilmente a fondo verde e bordate d’oro.127
126 La cornetta era l’insegna dei reparti di Dragoni e, per estensione, dei reparti impiegabili come quelli dei Dragoni, cioè sia a
piedi sia a cavallo. Si chiamava così perché era invece di essere rettangolare o quadrata, terminava a coda di rondine, cioè con due “cornette”. Secondo la descrizione data dal capitano Mengarelli, estensore del memoriale del 1705, quella dei Carabini aveva “L’effigie da una parte della Madonna Santissima dipinta da S. Luca Tutelare della Città di Bologna, dall’altra l’Armi di N. Signore, dell’Eminentissimo Legato e Vice Legato, e propria dell’Oratore” (cioè dello stesso Mengarelli). 127 A questo si aggiungeva la questione dell’Alfiere. Poiché i capitani delle 22 compagnie a piedi e delle quattro a cavallo della milizia della città di Bologna sostenevano che la presenza dell’alfiere nella compagnia dei Carabini fosse un abuso e sottintendesse una manovra nascosta per arrivare ad avere una bandiera di qualche genere, il capitano Mengarelli ribatté che, prescindendo dal buon diritto del suo reparto di innalzare una cornetta od uno stendardo, il grado d’Alfiere non comportava di per sé l’esistenza di un’insegna. A questo proposito esibì una lettera del conte Francesco Poro, capitano delle Guardie del Governatore dello Stato di Milano, il quale in data 14 luglio 1702 gli scriveva che: “La p.ma compagnia delle Guardie del Sig. Principe (de Vaudemont), chiamata delle Lancie, che è questa che io ho l’onore di coprire, ha d’Officiali subalterni un Cap.no Tenente, un Tenente, e un Alfiere, e questo porta (parola illeggibile) porta il stendardo à chi sona li timballi; nella 2^ comp.a chiamata di Carabini, oltre il Cap.no vi sono li med.mi subalterni, con la differenza che quell’Alfiere non porta stendardo nè vi sono timballi.” Però in seguito sempre il Mengarelli, probabilmente dopo aver trovato gli estremi delle Patenti, avrebbe fatto presente come la Compagnia avesse ricevuto in organico un alfiere fin dal 1625, dimostrando, regolamentazione generale alla mano, che l’alfiere si concedeva solo se c’era la bandiera, ragion per cui, se era stato concesso l’alfiere all’organico, la Compagnia aveva la bandiera. Mengarelli citava, a pag. 3 del Memoriale a stampa, “Quinuz Duca Imperiale Sanese al trattato della Disciplina Militare vecchia, e moderna lib.3. fol. 477. fino al fol. 484. tit dell’elettione dell’Alfiere, e suo officio Theatr. Milit. Del Capit. Flaminio della Croce cap. 14. disc. I. §. E perché meglio in fine, & §. al fine poi per tutta la pag. 73. Dialogos dell’Arte Militare di Bernardino Escalante, Dialogo tersero fol. 64., e 66., Bartolomeo Pelliciaro Modenese negl’avvertimenti Militari del Colonnello per tutto il cap. 4. pag. 49.”
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Un po’ più difficile il discorso per quanto riguarda i comandanti. Mentre non si sa nulla delle carriere e capacità militari dei vari capitani che lo precedettero, 128 di Mengarelli conosciamo il curriculum e possiamo dire che fosse di un certo rilievo. 129 Le armi della Compagnia erano quelle previste per le truppe a cavallo, ossia carabina ed armi da taglio per i soldati; per gli ufficiali spada e pistole.130 Le uniformi erano esistite, ma almeno dall’ultimo quarto del XVII secolo non si usavano mai o quasi. Nel memoriale Mengarelli non vengono mai descritte;131 ma la documentazione iconografica posteriore conservata nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna CXXII 128 Il primo a capitanare la Compagnia sembra essere stato il proprietario dell’ “osteria di Manino”, in un luogo non ancora
identificato posto lungo “la strada di Toscana”, cioè tra Bologna ed il passo della Futa. Costui avrebbe avuto la patente di capitano ed avrebbe arruolato la compagnia, col compito di rendere sicura e controllare la strada della Futa. La cosa è in effetti abbastanza insolita per un reparto militare di uno Stato Preunitario, dal momento che mai e poi mai venivano concesse patenti di ufficiale di reparti militari a chi non fosse nobile, ragion per cui si dovrebbe supporre o che la Compagnia, almeno agli inizi, venisse considerata di Milizia o che, per i compiti di giustizia – ritenuti indegni di un gentiluomo – non la si fosse potuta affidare ad altri che a un borghese; e nemmeno di alta condizione sociale come poteva essere un ascritto alla cittadinanza. Poiché nelle carte dell’Archivio di Stato di Bologna non si è ancora riusciti a trovare nulla in merito, per il momento la cosa resta in sospeso, come in sospeso resta il modo in cui veniva scelto il comandante. Infatti dopo l’oste Manino, o di Manino, di cui Mengarelli non ci ha tramandato il nome, la Compagnia sembra essere passata direttamente al capitano Piero Giorgini nel 1627. Nel 1640 assunse il comando Cornelio Sarti, poi toccò ad Andrea Morelli, nominato intorno al 1650. A questi successero Francesco Maria Costa e, nel 1701, con patente rilasciata dal Cardinal Legato Ferdinando d’Adda, Luca Mengarelli. 129 Aveva esordito nel 1676 come alfiere del Reggimento francese di fanteria Royal Italien, comandato dal Colonnello Magalotti; era passato come tenente nel reggimento, pure francese, dei dragoni Pinzonel, stanziato nel Palatinato. Poi era entrato nell’esercito veneziano, come capitano del Reggimento di fanteria del colonnello Giorgio Estense Tassoni e, collo stesso grado, era stato trasferito nel reggimento comandato dal colonnello Antonio Coi. Volontario in Ungheria col marchese di Parella, era stato tenente nel reggimento del Conte d’Arco in Baviera e, infine, Gentiluomo di Poppa sulle navi pontificie. 130 Le pistole potevano essere due o tre, da sella e da saccoccia, sia da 18 once, per concessione compresa nella patente del capitano Piero Giorgini nel 1627, che da 13 once, a partire dal 1640, con la patente del capitano Cornelio Sarti. 131 Si dice solo che i soldati “portavano le loro Casacche guarnite e quasi nella forma solita portarsi dai Cavalli Leggieri, salvo che avevano una guarniggione (guarnizione) più piccola”. Pietro Maria da Costa aggiunse nella sua testimonianza che aveva visto la compagnia schierata per servizio al tempo del Cardinal Legato Castaldi “.....e vi erano alcuni soldati, che avevano le loro Casacche, che si vedeva che erano antiche”, il che potrebbe voler dire che il taglio non era “alla francese”, ma risaliva al periodo della Guerra dei Trent’Anni. Poco di più si sa dei trombettieri e quasi nulla del paggio. Dei primi, oltre a quanto affermato da Mengarelli che avevano “Casacche a livrea”, si rileva dalla testimonianza di Diomede de Nigris, prima Sotto cancelliere e poi Depositario della compagnia, che al tempo del capitano Morelli, cioè dopo il 1654, avevano vestiti “a livrea con casacche e maniche cascanti”; ma se la livrea avesse i colori della Compagnia, o, com’è più probabile dato l’uso del tempo, del Capitano comandante, non lo sappiamo. Da Costa, figlio del capitano Francesco Maria, affermava comunque di aver in casa propria un ritratto del padre in cui si vedeva sullo sfondo anche tutta la compagnia, schierata e montata, in uniforme e colla cornetta, e diceva che, pur essendo il quadro in cattive condizioni (stava cadendo a pezzi), si riusciva a vederne tutti i particolari senza troppa fatica, incluso lui stesso bambino ed un cagnolino. Concludeva affermando che aveva avuto in casa anche un paio di vecchie uniformi, ma che il logorio del tempo le aveva ormai distrutte. E’ comunque singolare che nessuno abbia mai detto di che colore fossero, specie considerando che gli avversari, cioè i comandanti delle altre compagnie, sostenevano con forza che i Carabini non avevano mai avuto alcuna divisa. Le testimonianze raccolte da loro sono infatti concordi nell’affermare che non si era mai vista la compagnia montare di servizio in città con un’uniforme e che solo un volta aveva innalzato una cornetta, cosa che aveva provocato l’intervento del colonnello comandante i Cavalleggeri guardie, il quale gliel’aveva fatta abbassare subito ed aveva poi protestato col Legato per l’impertinenza dimostrata. Di tutte le testimonianze avverse l’unica originale ed interessante è quella rilasciata dal marchese Ferdinando Cospi (patrizio e senatore di Bologna), il quale nel 1683 aveva dichiarato che, all’arrivo a Bologna del cardinale Antonio Barberini nel 1629, don Carlo Barberini gli era andato incontro a Castelsampiero “con le tre compagnie de Cavalli” di Bologna: “La decana, cioè quella del Sig. Capitano Orsi (nobile Orsi dei Quaranta, patrizio e senatore di Bologna) vestita con le casacche azzurre, quella del Sig. Capitano Bovi (conte Bovi dei Quaranta, patrizio e senatore di Bologna) con casacche gialle, la mia rossa, livrea solita di queste compagnie”. Nell’andare a Camposampiero, le compagnie avevano incontrato quella dei Carabini Rinforzati, i cui membri erano privi di qualsiasi uniforme, e Sua Eccellenza Orsi li aveva obbligati a lasciare il passo sulla strada ai propri cavalieri e a quelli delle altre due compagnie, facendo andare i Cacciabanditi a cavallo nei campi adiacenti.
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e risalente al 1796, ci mostra che i colori dell’uniforme della Compagnia a fine secolo erano blu e scarlatto: giubba e pantaloni blu con panciotto, mostre e coccarde scarlatte. Cosa facessero i Carabini dal memoriale manoscritto non traspare, mentre se ne parla in modo abbastanza diffuso nella versione a stampaCXXIII pubblicata nel 1702, in un punto in cui però si discute contro la “Pretesa viltà” cioè la pretesa bassa condizione sociale della Compagnia. Scrive Mengarelli: “…essere questa Compagnia destinata per servizio del Sig. Cardinale Legato, Monsignore Vicelegato, e non d’altri, come spiega la Patente dell’Alfiere del 1625…..quali si vagliono della medema nell’esecutioni ardue, il che si prattica da tutte l’altre Compagnie di Soldati, tanto à piedi, quanto à Cavallo in tutti li Governi, specialmente in Roma, dove si è fra l’altre veduta la residenza de’Corsi acquartierati nella Piazza di San Salvatore in Lauro, quali, benché non obedissero, che agl’ordini della Sacra Consulta nell’essecutioni ardue della Giustizia, nondimeno questi Soldati in tempo della Santa Memoria di Clemente X, hanno montato la Guardia à Monte Cavallo, 132….L’esser dunque questa nostra Compagnia soggetta solo all’Eminentissimo Legato, e Vicelegato, e dalli medemi destinata all’essecutione della Giustizia nelli casi più ardui, come si pratica con tutte l’altre Compagnie, dove non è sufficiente la possa degli Esecutori, non porta ignominia…..tanto più che restano à carico della medema molti altri pesi honorevoli, come d’ovviare alli tumulti, frenare prepotenze, guardar la Piazza in tempo d’affollamento di Popolo, custodir le Porte della Città in tempo di Carnevale, uscire in Campagna per scacciar Banditi, accompagnar ogni mese al Forte Urbano la Cassa del denaro per la paga di quel Presidio, incontrare personaggi, ed esser pronta ad ogn’altra occorrenza del Principe, come hà dimostrato ne’ tempi andati, che da se stessa ricuperò il Castello di Crevalcuore, occupato da Nemici nel Territorio di Bologna, 133 e nella sollevazione Popolare che seguì nel tempo, che vi era Legato la sa.me.134 d’Innocenzo XII. servì di maggior terrore à sedarla, prestando tutti questi servigi senz’altro stipendio, che delli detti Privileggi, & Honori militari, come sopra concessigli. S’aggiunge per ultimo all’EE.VV., che la detta Compagnia è di molto vantaggio all’Illustrissimo Reggimento di detta Città, quale, benché non habbia alcuna autorità sopra di essa, servendo questa per servitio dell’Eminentisismo Legato e Monsignor Vicelegato, conforme si è detto, nondimeno in questa restasse in stato vile, e di non poter prestare tanti serviggi al Governo di Bologna, sarebbe il medemo Reggimento astretto tener maggior numero di Sbirri, con li quali nell’esecutioni ardue gl’Eminentissimi Legati potessero dare essecutione alla giustizia.”CXXIV Traendo le conclusioni: i Carabini rinforzati si chiamavano così perché erano armati di carabina; operavano a piedi ed a cavallo, svolgendo mansioni di ordine pubblico, polizia giudiziaria (da soli o in supporto ai birri, cioè alla polizia civile vera e propria), scorta armata e d’onore, servizi di guardia e, all’occorrenza, venivano impiegati in guerra. Avevano una loro bandiera coi simboli dello Stato ed una loro uniforme, dipendevano dall’autorità politica centrale e non da quella locale, avevano la qualifica di 132 Al palazzo del Quirinale. 133 Crevalcore come abbiamo visto era stata al centro di numerose azioni durante i ventitré mesi della Prima Guerra di Castro.
C’è però un solo caso in cui la cittadina fu presa dal nemico – nel caso specifico i Modenesi – e ripresa subito dai Pontifici ed è, come sappiamo, lo scontro del 7 dicembre 1643, quando il colonnello Panzetti l’occupò e saccheggiò con 300 fanti e 200 cavalieri, poi ne uscì con parecchi uomini per scorrere le campagne ma non dispose nessun servizio d’avamposti. Il risultato fu che i Pontifici di Coudré gli arrivarono addosso all’improvviso e recuperarono la cittadina, facendo parecchi prigionieri sia là che fra le squadre nelle campagne. 134 Santa Memoria.
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soldato: erano dei militari impiegati nel controllo del territorio, nello Stato Pontificio del XVII e del XVIII secolo. Questo è degno di nota perché è la prova concreta e documentalmente dimostrata dell’esistenza di quella che è a tutti gli effetti un’unità antesignana dei Carabinieri Reali, prima sardi e poi italiani, come pure di quelli pontifici: era un corpo di militari, armati di carabine e da queste definiti Carabini, cioè Carabinieri, impiegati tanto come polizia giudiziaria quanto come truppa. Ce n’è più che abbastanza per dimostrare che, lungi dal prendere esempio dalla Gendarmeria napoleonica, in Italia esistesse già da almeno due secoli almeno uno e forse più d’un corpo militare di polizia, cui il Piemonte poteva essersi rifatto negli anni ‘90 del Settecento per la creazione del suo Corps de la Police che, dopo la Restaurazione, sarebbe stato alla base della creazione dei Carabinieri Reali, così come viene spontaneo pensare che gli stessi Carabinieri Pontifici del 1814, poi divenuti Gendarmeria, più che una copia di quelli piemontesi, siano stati una normale evoluzione dei Carabini rinforzati e dei Corsi, dei quali avevano le mansioni e il carattere militare e che, quando avvenne la Restaurazione del 1814, erano scomparsi da diciassette anni.
IV) Alberoni a San Marino: 1739 L’ultima azione militare delle truppe pontificie prima della Rivoluzione Francese fu contro la Repubblica di San Marino e per iniziativa del cardinale Alberoni. Giulio Alberoni, cardinale dal 1717, una volta tornato in Italia e assolto da ogni colpa riguardo alla guerra del 1717-18 in Sardegna e Sicilia, nel 1735, per la sua nota energia, degna di un Sisto V, era stato nominato Legato in Romagna. Durante il suo mandato si verificarono nella Repubblica di San Marino delle tensioni tali da indurre alcuni Sanmarinesi a presentargli, nel 1739, un supplica perché li sollevasse dall’oppressione della parte politica avversa. La supplica in questione era solo l’ultima di molte già presentate al Papa il quale, sentiti vari pareri (la faccenda andava avanti da un pezzo; San Marino era un ricettacolo di contrabbandieri su cui la Reverenda Camera Apostolica avrebbe volentieri messo le mani; e per di più in quell’agosto si era diffusa la notizia che forse la Repubblica sarebbe finita in mano al Granduca di Toscana, cioè all’Austria),135 trasmise ad Alberoni le istruzioni e plenipotenze per ricevere l’Atto di Soggezione della Repubblica se il popolo avesse persistito nel volersi sottomettere al potere pontificio. Il 17 ottobre 1739 il Cardinale partì da Rimini con tre carrozze senza scorta, si presentò a Serravalle – uno dei cinque villaggi, poi castelli, della Repubblica – e vi fu accolto con dimostrazioni di giubilo, organizzate immediatamente dal parroco, che fece richiesta pubblica, per sé e per il popolo, di diventare suddito della Santa Sede. Vista la buona accoglienza, proseguì per San Marino e, quando due Deputati della Reggenza ricevendolo gli domandarono in cosa potevano essergli utili, rispose che l’avrebbero saputo a suo tempo. Durante la notte i cittadini filoalberoniani assalirono la guardia della Ripa e fecero entrare in città un reparto di 200 miliziani pontifici di Verucchio. Il Cardinale ne pose 140 a guardia delle porte rilevando gli otto soldati della Repubblica che le presidiavano ma, saputo che tra i Sanmarinesi e i Verucchiesi
135 Estintasi Casa Medici, la Toscana sarebbe toccata a Carlo di Borbone in quanto erede dei dominii farnesiani, ma il trattato
di pace della Successione Polacca gli aveva confermato Napoli e la Sicilia a condizione che il duca di Lorena – il cui Stato passava allo spodestato re di Polonia – ricevesse la Toscana in compensazione. Poiché il duca Francesco Stefano di Lorena aveva sposato Maria Teresa d’Asburgo, erede dell’imperatore Carlo VI in forza della Pragmatica Sanzione Carolina, e risiedeva a Vienna, la Toscana era retta da un governatore e di fatto veniva a cadere in mano all’Austria. Alla morte di Francesco Stefano, Maria Teresa associò alla corona imperiale il primogenito Giuseppe e nominò il secondo maschio, Pietro Leopoldo, granduca di Toscana. Quando, al tempo della Rivoluzione Francese, Giuseppe morì senza eredi, Pietro Leopoldo divenne l’imperatore Leopoldo II e passò a Vienna insieme al primogenito Francesco – il futuro imperatore Francesco I d’Austria– e lasciò la corona toscana al secondo maschio, Ferdinando, che diventò granduca col nome di Ferdinando III.
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tradizionalmente non correva buon sangue, sostituì il grosso dei miliziani136 con altri 200 chiamati da Rimini e accompagnati dal bargello di Ravenna e da una decina di sbirri, che giunsero la mattina del 18, portando a 262 la forza delle truppe pontificie in città. A questo punto la situazione precipitò: la popolazione venne spaventata da voci secondo le quali l’abitato sarebbe stato incendiato se non si fosse sottomessa; e molti fuggirono nei villaggi vicini, dai quali giungevano intanto sia unanimi rifiuti di perdere l’indipendenza, sia delegazioni che dichiaravano l’altrettanto unanime volontà di divenire sudditi della Santa Sede. Il 19 si sottomisero gli abitanti di Faetano, il 20 quelli di Acquaviva, il 23 quelli di Monte Giardino ed il 24 quelli di Chiesanuova.CXXV Ne nacque una gran confusione. Alcuni cittadini spedirono una lettera per far sapere al Pontefice cosa era successo. La lettera ebbe effetto, anche perché l’impresa aveva scatenato una tempesta diplomatica: bene o male si trattava sempre d’Alberoni, pure se occupava solo San Marino e non la Sardegna o la Sicilia come nel 1717-18, perciò Clemente XII dichiarò di disapprovarne l’operato. Aprì un’inchiesta, ritirò le truppe e, quando 56 deputati sanmarinesi su 60 si dichiararono per il mantenimento della Repubblica, la questione fu risolta e San Marino conservò la sua indipendenza.
V) La Successione Austriaca: 1740-48. Un anno dopo la faccenda di San Marino, il 20 ottobre 1740, morì Carlo VI d’Asburgo e si aprì la questione della successione austriaca, che causò uno dei conflitti più devastanti del Secolo e afflisse pesantemente gli Stati Pontifici, rendendoli teatro di battaglie e passaggi di truppe. Poiché la Santa Sede riuscì a non farsi coinvolgere, i suoi reparti si limitarono a far da spettatori alle ostilità,137 il che però non evitò danni alle città minori e alle campagne. L’esordio si ebbe nel 1741, quando, sbarcati alla Spezia e nello Stato dei Presidi, 12.000 fanti e 1.300 cavalieri spagnoli attraversarono la neutrale Toscana ed entrarono nello Stato Ecclesiastico per unirsi alle truppe napoletane in arrivo dall’Abruzzo verso la Romagna per invadere la Lombardia austriaca. La loro vicinanza alla Pianura Padana fece entrare in guerra a fianco dell’Austria il Piemonte, che invase il Ducato di Modena, mentre nel Ferrarese – dunque nello Stato Ecclesiastico – avevano messo il campo gli Ispano-Napoletani. Questi però, fiaccati dalle diserzioni, si ritirarono a Rimini e poi, tallonati dai Sardi, furono costretti a ripiegare ancora fino a Foligno, battuti senza aver sparato un colpo in tre mesi, a parte alcuni piccoli scontri di retroguardia. Il 13 agosto 1742 il contingente sardo era sulla riviera Romagnola, nei dintorni di Rimini, quando ricevé l’ordine di spostarsi al più presto sulle Alpi per contrastare un tentativo di penetrazione spagnola in Piemonte. Questo liberò gli Stati Pontifici dai malanni della guerra combattuta, ma per poco, perché nel febbraio 1743 gli Spagnoli tentarono un’offensiva, avanzando in Emilia; e gli Austro-Sardi li sconfissero a Camposanto sul Panaro, sempre negli Stati del Papa. Uno dei motivi della disfatta spagnola era stato lo sganciamento delle truppe venute da Napoli. La squadra inglese del Mediterraneo, sui cui si sapevano imbarcati 7.000 fanti di marina, si era presentata davanti a Napoli. L’ammiraglio comandante aveva intimato a re Carlo di ritirare le truppe dall’Emilia o 136 Trattenne come propria guardia d’onore il comandante, 50 fanti e i dodici cavalieri della compagnia di cavalleria del
capitano Rinaldo Felice Cappello 137 Come quarant’anni prima, l’esercito non aveva reggimenti tolto quello delle Guardie di Nostro Signore e i Corsi, rispettivamente di 1.346 e 447 uomini, ma soltanto presidii fissi. A Roma, compresa le 117 corazze e il presidio di Castel Sant’Angelo, ma senza contare i Corsi, c’erano 1.853 militari, che potevano salire a 1.900 includendo i Corsi. C’erano 1.036 uomini a Ferrara, 431 nel Forte Urbano, 317 a Civitavecchia, 219 ad Ancona, 31 a Perugia, cinque a Rimini, 28 a Senigallia, 29 ad Anzio e 27 ad Ascoli. Sulla carta c’erano in armi 4.370 uomini, che costavano 276.352 scudi e 57 bajocchi all’anno, ma il calcolo era errato per difetto in quanto non considerava né il personale dipendente dalla Marina – per piccola che fosse era pur sempre di cinque galere – né quello delle milizia urbane e baronali, di poco valore militare, ma numericamente tutt’altro che trascurabili, come si è visto nel caso di San Marino. In più, né gli Svizzeri, né le Lance Spezzate, né i Cavalleggeri tanto del Pontefice quanto dei Legati rientravano nel conto e fra tutti ammontavano ad almeno un altro mezzo migliaio di uomini.
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affrontare il bombardamento e lo sbarco. La guarnigione di Napoli tra fanteria e cavalleria, non raggiungeva i 5.000 uomini e le artiglierie costiere erano insufficienti, perciò l’ultimatum era stato accolto, le truppe napoletane avevano lasciato l’Emilia e gli Spagnoli erano stati battuti. Questo però aveva innescato una catena di eventi che avrebbero afflitto gli Stati del Papa. In primo luogo gli Spagnoli avevano ripiegato attraverso il territorio pontificio fino al confine tra lo Stato della Chiesa ed il Regno di Napoli, sul Tronto. Là erano rimasti a svernare, sperando che Carlo di Borbone consentisse loro l’ingresso in Abruzzo, salvandoli dall'attacco distruttivo austriaco, prevedibile alla ripresa delle operazioni nella primavera del '44. Carlo ci pensò e, a partire dal dicembre ‘43, decise di armarsi, per cui mandò agli Spagnoli il permesso di entrare in Abruzzo, marciando loro incontro. L'Austria protestò, come del resto era previsto, e Maria Teresa d’Asburgo mandò in Italia il principe di Lobkowitz coll’ordine d'invadere il Regno di Napoli. Lui ovviamente scelse la via di Roma, più lunga ma più facile e sicura: si avanzava su strade comode, attraverso zone non toccate dalle requisizioni di guerra, e si arrivava, procedendo su territorio neutrale, dunque relativamente sicuro, a ridosso del Regno di Napoli, lasciandosi alle spalle il valico degli Appennini ed avendo come unico ostacolo la fortezza di Gaeta. C’erano inoltre maggiori facilitazioni per lo sbarco di rinforzi e rifornimenti, che la squadra inglese poteva lasciare subito a Fiumicino, agendo con più celerità che se le operazioni si fossero svolte lungo l’Adriatico. Resosi conto d'aver davanti in Abruzzo solo dei distaccamenti nemici, Carlo di Borbone fece precipitosamente convergere a sinistra le proprie truppe, portandole nel Lazio meridionale per intercettare il nemico più a nord che fosse possibile. L'ideale sarebbe stato fermarlo sul Tevere, più o meno a Roma; ma quando le truppe leggere napoletane arrivarono verso Monterotondo, si trovarono addosso gli ussari ungheresi di Lobkowitz e ripiegarono, per ricongiungersi al grosso, ancora molto più a sud. Persa la possibilità di Roma e poi quella dei Castelli Romani, Carlo decise di fermarsi a Velletri. La zona era tatticamente forte e strategicamente rilevante. Gli consentiva di sbarrare la via di Napoli con facilità e di controllare la pianura fino al mare. Le posizioni erano naturalmente salde e, se pure le avesse perse, avrebbe potuto ritirarsi appoggiandosi ad una serie di linee difensive successive fino a quella GariglianoGaeta. Infine, alle spalle aveva terreni fertili e le basi logistiche dei porti di Anzio e Gaeta e, poiché il suo intento non consisteva nel distruggere l’esercito austriaco, ma solo nell'impedirgli d’invadere il Regno, poteva attendere a lungo. Però gli Austriaci non potevano aspettare: dovevano attaccare e vincere al più presto; e ogni giorno di ritardo peggiorava la loro situazione. Quindi, mossisi da Roma, arrivarono ad accamparsi il 1° giugno 1744 di fronte a Velletri, dove restarono fino alla fine d’ottobre. Dopo il fallito tentativo austriaco dell’11 agosto, noto coma “la” battaglia di Velletri per eccellenza, entrambi gli eserciti rimasero paralizzati. I Napoletani dovevano rimontare la cavalleria; gli Austriaci erano costretti a riorganizzarsi totalmente, ma sapevano d’aver perso la campagna e di dover tornare in Lombardia. Il 1° novembre 1744 abbandonarono i campi di Genzano e Nemi per andare a Roma. Inseguiti dai Napoletani, il giorno dopo girarono intorno alla città e su ponte Milvio e su un ponte di barche predisposto nei giorni precedenti passarono il Tevere. I Borbonici lo traversarono il 5 e, tolto un distaccamento di 5.000 napoletani, che rientravano in Patria col Re, proseguirono il 6 risalendo fino a Viterbo e inoltrandosi poi in Umbria. Agganciate le salmerie austriache a Nocera Umbra e assalita e saccheggiata la città, non proseguirono oltre e presero i quartieri d’inverno nell’alto Viterbese, intorno al Lago di Bolsena, mentre gli Austriaci si accantonavano nelle Legazioni. L’entrata di Genova in guerra dal lato borbonico nel 1745 spostò il fulcro delle operazioni nell’Italia nordoccidentale e liberò gli Stati Pontifici dai militari stranieri, la cui presenza era stata a dir poco disastrosa. Commentava Benedetto XIV scrivendo al suo vecchio amico cardinal de Tencin a proposito della visita resagli da Carlo di Borbone a Roma: 187
“Ecco quanto è succeduto, e la moralità che si può ricavare si è, che sua Maestà Napoletana ci ha in poche ore consumato quanto avevamo sparagnato in tre villeggiature di Castello138 tralasciate, e quanto avressimo speso in tre altre susseguenti”CXXVI Se questo era stato il costo d’una pacifica visita di alcune ore, si può immaginare quello dei mesi e mesi di soggiorno di soldataglia straniera in territorio indifeso. VI) La prima Guerra Fredda: 1748-1789 e l’apparato militare pontificio La pace di Aquisgrana mise fine alla Guerra di Successione Austriaca e segnò il principio di un periodo di stabilità territoriale, relativa in Europa e totale in Italia 139 fino al 1797 e d’una concatenazione di avvenimenti che portò al crollo della monarchia francese ed alla conferma del dominio britannico sul mondo. Rafforzato il proprio monopolio commerciale in America Latina, gli Inglesi cominciarono ad espandersi in India ed aumentarono l’attività in America Settentrionale; e in entrambi i casi l’avversario da battere era la Francia. La loro penetrazione in India, eliminati i Francesi, si risolse in breve tempo. Nel Nord America la situazione era più complessa ma, colla guerra dei Sette Anni, Versailles perse anche il Canada; e al termine del conflitto si accentuò la crisi francese, sia economica che politica. Ma la Francia non riteneva di dover demordere e, finita la guerra, pensò subito a quella successiva. Stavolta però lo scontro non sarebbe stato caldo, cioè armato, ma freddo, economico e politico e, fin dove possibile, senza ricorrere alla guerra tradizionale. Versailles si diede quindi a rinsaldare i legami dinastici, economici e politici di cui disponeva, stringendone di nuovi ad ogni occasione e cercando d’isolare l’Inghilterra. Delle potenze maggiori, la Spagna era governata dalla medesima Casa di Borbone ed aveva interessi antiinglesi collimanti, in linea di massima, con quelli francesi. Quanto all’Austria, dal 1755 era alleata – in funzione antiprussiana, poi divenuta praticamente anche anti-inglese durante la guerra – e dal quel lato non c’era più nulla da temere. L’alleanza austriaca neutralizzava l’Italia ma non a sufficienza. Napoli era uno Stato satellite, sia in quanto governato dai Borboni, sia perché nel 1759 Carlo VII l’aveva abbandonato per salire al trono di Spagna come Carlo III. Ma questo ne aveva accentuato la dipendenza da Madrid, perché le corone delle Due Sicilie erano andate al suo terzogenito, il piccolo Ferdinando IV, sostituito fino alla maggiore età da un consiglio di reggenza la cui anima era Bernardo Tanucci, in corrispondenza col re Carlo e attento a conservare il Regno nella scia spagnola. Lo stesso discorso valeva per Parma, in mano alla dinastia dei Borbone-Parma, iniziata da don Filippo, fratello minore di Carlo. Nel resto della Penisola cominciò una lenta penetrazione economica e politica, per espellerne l’influenza accumulata dall’Inghilterra fin dal principio del secolo. Gli effetti non tardarono. Londra non era riuscita a convincere le potenze italiane a scendere in campo al proprio fianco nel 1756, ma aveva mantenuto un minimo influsso sia tramite il commercio sia, e questo era più importante, attraverso i propri ufficiali di Marina e dell’Esercito chiamati a servire gli Stati Italiani. La marina dei Savoia, quella toscana e l’esercito veneziano ne erano altrettante prove; e là si concentrò lo sforzo borbonico. Così, entro la fine
138 Castel Gandolfo. 139 Gli unici elementi di rilevanza militare, a parte la quotidiana attività antipirata delle varie marine, furono la controversia
sorta fra Stato Pontifico e Granducato di Toscana a proposito dei feudi di Carpegna e Scavolino, per i quali si giunse da entrambe le parti alla mobilitazione ma non oltre; e la questione fu risolta per via negoziale.
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del 1767, gli Inglesi diedero le dimissioni, o furono cortesemente congedati, e l’influsso britannico sul frammentato apparato militare italiano scomparve. La Rivoluzione Americana fu semplicemente un episodio di questa Guerra Fredda, la prima che la storia moderna ricordi, e non fu un riuscito tentativo di dare l’indipendenza agli Stati Uniti, ma un conflitto durante il quale Francia, Spagna e Olanda alleate batterono militarmente la Gran Bretagna portandola sull’orlo della catastrofe. Né a Versailles né a Madrid interessava nulla dell’indipendenza americana in sé per sé. Era un fattore marginale divenuto importante solo come pretesto strategico per rimettere piede nel continente nordamericano ed espellerne gli Inglesi. Entrambe le monarchie si erano preparate con un serio programma di riarmo navale, che avrebbe portato le loro flotte unite a superare numericamente – fatto unico nella storia – la marina britannica. Fu lo strumento navale francese a dare il colpo di grazia all’esercito britannico in America, impedendo alle navi inglesi di approvvigionare e salvare dal disastro le truppe britanniche assediate a Yorktown; e fu solo per un soffio che la flotta inglese riuscì in seguito a battere quelle coalizzate, riportando la situazione in pari ed aggiudicandosi, con alcuni abili colpi, il possesso delle maggiori fonti di ricchezza commerciale nemiche in Estremo Oriente. Grazie ad esse, nel giro di neanche cinque anni dalla fine del conflitto americano, la Gran Bretagna riuscì a mettere economicamente in ginocchio l’Olanda – la tradizionale fonte d’approvvigionamento bancario e finanziario della Francia – e ovviamente la Francia stessa, portandola quindi alla catastrofe causa della Rivoluzione. Nel frattempo, per quanto la riguardava, la Chiesa si trovò sempre più sotto attacco. Gli Illuministi atei – Voltaire per primo – e la sempre più diffusa Massoneria diedero sempre più armi al crescente giurisdizionalismo. Finché visse papa Benedetto XIV parecchie questioni poterono essere evitate o almeno trattate con relativa calma. Dopo la sua morte, il 3l maggio del 1758, i nodi vennero al pettine e lo scontro si fece sempre più duro. L’aspetto più evidente ruotò intorno alla soppressione dei Gesuiti, ma accanto ad essa c’erano molte altre questioni, tutte sostanzialmente nate dal giurisdizionalismo e tutte risolvibili solo mediante la separazione della Chiesa dallo Stato. Poiché questo avrebbe significato una fortissima perdita di potere, a Roma non se ne voleva nemmeno sentir parlare. Il risultato di tale chiusura fu disastroso. Senza la flessibilità e lo spirito evangelico di papa Benedetto, la Chiesa non ebbe più spazio di manovra in politica e le sue controparti, vistesi osteggiate, irrigidirono le loro posizioni e prestarono sempre maggior attenzione alle idee degli Illuministi, i quali fornivano loro i migliori mezzi culturali e propagandistici per combattere contro la Santa Sede. C’era un equivoco di fondo. Gli Illuministi e i sovrani in realtà non avevano lo stesso obbiettivo. I sovrani volevano eliminare ogni interferenza ecclesiastica nella vita civile, per riassumere la pienezza del potere politico, da sempre limitato dalla Chiesa, ora col foro separato, ora col diritto d’asilo, ora coi feudi ecclesiastici e la manomorta, ora mediante le decime; ma lì intendevano fermarsi. Il fine degli Illuministi francesi e inglesi era la distruzione delle monarchie assolute e possibilmente di tutte le monarchie e l’eliminazione della Religione Cristiana, il che implicava l’eliminazione della Chiesa in quanto manifestazione concreta e custode della tradizione della “ecclesia”, la comunità cristiana universale, cioè cattolica. Di conseguenza l’indebolimento della Chiesa cattolica, che per gli Illuministi era solo il primo passo su una lunga strada verso un’idealistica repubblica mondiale atea, per i sovrani era invece il primo e l’ultimo, era l’unico passo da fare. Poiché però nelle corti nessuno se ne rese conto o se ne volle render conto, specie là dove i re o i loro ministri si dichiaravano illuminati – una maniera elegante per continuare a regnare in modo assoluto senza ammetterlo e venendo anzi applauditi e additati ad esempio d’apertura mentale e tolleranza – come nella Berlino di Federico il Grande, nella Vienna di Giuseppe II e nella San Pietroburgo di Caterina II, gli Illuministi francesi ebbero buon gioco nello spingere i sovrani nella direzione voluta. 189
La prima mossa consisteva nell’eliminare il baluardo culturale e intellettuale a protezione della Chiesa, i Gesuiti, “i granatieri della chiesa” come li definì Voltaire. Quando le corti borboniche di Versailles, Madrid, Napoli e Parma ne pretesero l’abolizione, seguendo quanto già fatto da quella di Lisbona, papa Clemente XIV non ebbe modo di reagire, perché il ricatto era sempre lo stesso: così, o lo scisma mediante l’istituzione d’una chiesa nazionale. Il breve apostolico Dominus ac Redemptor del 21 luglio 1773 soppresse la Compagnia, ma non attenuò le tensioni fra Roma e le altre corti, perché rimasero in discussione tutte le richieste d’ordine giurisdizionale. Le corti continuarono ad appoggiarsi alle idee degli Illuministi e a sostenerle, benché non le avallassero, perché in quel momento le trovavano convenienti, visto che sottomettevano le chiese – tutte – allo Stato. La Santa Sede dal canto suo non fu capace di separare i suoi due nemici facendo comprendere alle corti a cosa veramente miravano gli Illuministi per indurle a far fronte comune con essa contro di loro. Forse ci sarebbe riuscita se avesse immediatamente abbandonato la sfera temporale al di fuori degli Stati Pontifici, ma non lo fece, né, in quel momento e con quella mentalità, avrebbe mai potuto farlo. Sul piano della discussione i suoi autori non seppero combattere gli Illuministi con la vivacità e la scioltezza di stile di Voltaire e dei suoi amici, che erano divertenti, interessanti, innovativi ed ammalianti, quanto gli autori di parte cattolica erano noiosi, pesanti, scontati e pedanti. Lo scontro andò a finire come era da aspettarsi: diventò una lunga lotta di retroguardia dall’esito scontato, che nell’arco dei cent’anni seguenti avrebbe fatto lentamente perdere alla Santa Sede terreno, sia in senso politico, sia nel senso di tutto il terreno del suo Stato, e consenso popolare, con un parallelo calo della pratica religiosa e delle entrate. Disgrazia volle che nessuno in Curia e nelle corti si rendesse conto di cosa c’era veramente in ballo. L’una e le altre si concentrarono sugli aspetti temporali e sui privilegi ecclesiastici, senza accorgersi del vero nemico e della minaccia montante, che sarebbe esplosa con la Rivoluzione Francese, avrebbe cancellato le monarchie assolute entro il terzo quarto del secolo XIX e messo la Chiesa di Roma all’angolo entro il primo quarto del XXI. Traendo le logiche conclusioni, avrebbe commentato amaramente e profeticamente l’arcivescovo Salzano a metà Ottocento: “Così radicossi in Francia quella setta d’insolenti filosofi, i quali distrussero le religiose credenze e le antiche istituzioni, stolti perché chiamando gl’intelletti a porre a disamina le verità più astruse e ritraendoli dal credere alle soprannaturali cose, spogliarono i popoli dell’antica religione, e tolsero ogni possibilità di fondarne una nuova, né si vede che cosa avrebber potuto sostituire all’antica se non quella di Maometto.”CXXVII Per il momento, nella seconda metà del Secolo XVIII, nessuno prevedeva il futuro e tutti si occupavano di questioni più immediate e assai meno importanti. La neutralizzazione in cui l’Italia era caduta in seguito all’alleanza franco-austriaca bloccò tutti gli Stati italiani, per cui la Prima Guerra Fredda incise relativamente sull’Italia e sullo Stato Ecclesiastico a livello economico, poco a livello politico limitandosi ad accentuarne la dipendenza dal patto austrofrancese e quasi per nulla a livello militare.
VII) Le armi del Papa e la vita quotidiana dei militari pontifici A parte Napoli e Torino, nella seconda metà del Settecento tutti gli Stati italiani erano restati ad un’organizzazione militare poggiante non su Grandi Unità ma su un agglomerato di reparti delle varie armi, come nel secolo precedente e nella prima metà del corrente. Per quanto riguardava Roma, la forza armata di cui ci si preoccupava di più era la marina. Infatti, visti il quadro politico europeo ed il non brillante stato delle finanze papali, dopo la Successione Austriaca ci si 190
era concentrati, con mezzi abbastanza limitati, sulla difesa del traffico e delle coste dai pirati barbareschi provenienti da Tripoli, Tunisi, Algeri e Salé. I Barbareschi stavano allora affiancando, o meglio, stavano sostituendo le galere con navi a vele quadre, magari di non grandi dimensioni, ma in grado di navigare tutto l’anno e di portarsi all’agguato sotto costa. Come le altre marine italiane anche quella pontificia fu assai lenta ad adeguarsi a questa minaccia e, come le altre marine italiane, si adeguò solo parzialmente, continuando a far navigare le galere insieme alle navi di nuovo modello. Soltanto nel 1775, infatti, vennero acquistate in Inghilterra due fregate, battezzate San Pietro e San Paolo. Però l’attività della Marina ne risultò tanto migliorata da far scendere dal 125% del 1745 all’1% del 1775 il premio di assicurazione per viaggi di navi da e per gli scali pontifici. Ma le fregate furono ritenute troppo costose, per cui una fu demolita, l’altra venduta ed entrambe sostituite solo cinque anni dopo, nel 1780, da due corvette, la San Pio e la San Giovanni, le prime navi a vele quadre costruite a Civitavecchia, che furono messe agli ordini di due cavalieri provenzali dell’Ordine di Malta. La marina pontificia contava allora, oltre alle corvette, quattro galere, una delle quali tenuta di riserva. Sulle galere erano imbarcati allora quattro capitani, quattro tenenti ed altrettanti alfieri (nel 1743 erano stati aboliti i “gentiluomini di poppa” e all’ufficialità di poppa erano state attribuite nuove denominazioni di grado), tre cappellani, quattro chirurghi, 44 tra ufficiali e sottufficiali di manovra, 12 timonieri, otto tra capi e bombardieri, 148 marinai di varie classi e 144 tra sottufficiali e soldati imbarcati, senza contare i rematori. Sulle due fregate navigavano, invece, due capitani, due primi tenenti, due alfieri, un cappellano, quattro chirurghi, 49 tra ufficiali e sottufficiali di manovra, otto timonieri, 26 capi e cannonieri, 130 marinai e 90 tra sottufficiali e soldati. Come accennato, le fregate vennero sostituite da due corvette guardacoste, ognuna con un equipaggio formato da 95 uomini e nove cannonieri, oltre agli ufficiali ed ai 29 soldati imbarcati. Le crociere e le incursioni dei Barbareschi si andavano rarefacendo ed assumevano più l’aspetto di grosse rapine a mano armata che di operazioni belliche cosicché, a causa della maggior sicurezza dei mari, si sviluppò un fenomeno sino allora quasi sconosciuto: quello del contrabbando marittimo, per combattere il quale venne creata, nel 1786, una Marina di Dogana, dotata di quattro piccole feluche battispiaggia e il cui colore distintivo, come poi per le Guardie di Finanza italiane, era il verde, che, come sappiamo, era il colore non della sola Finanza, ma di tutte le polizie italiane dell’epoca. Quanto si dava al mare, si levava alla terra, perciò l’esercito santissimo vivacchiava. Continuava a dipendere da una congerie di autorità diverse tale da rendere difficile la vita a chiunque e quasi impossibili le normali attività militari. Forte di circa 5.000 uomini, cominciò ad assumere un aspetto un po’ meno clientelare e provvisorio soltanto verso la fine del secolo, restando però diviso tra le città e le fortezze, dipendendo dai comandi più diversi e godendo sempre la fama di essere il meglio pagato e meno preparato d’Europa. Sappiamo qualcosa della vita quotidiana dei militari pontifici dell’epoca dalle memorie del piemontese Francesco Bal, che entrò nell’esercito papale a Civitavecchia nell’autunno del 1790 e prestò poi servizio pure in Ancona. Capitato a Civitavecchia per caso e rimasto senza un soldo, Bal fu riconosciuto da un suo amico piemontese, di nome Solei, che lo convinse ad arruolarsi dicendogli: “Credi a me, la vita del soldato del papa ha niente del crudo: noi abbiamo una libra pane fresco del più bello al giorno e 10 bajochi: 3 le lasciamo per il rancio o sia pranzo, e ce ne resta 7 per il vino, bianchisaggio &. 140 Siamo vestiti, non facciamo che 10 guardie al mese Bianchisaggio è un piemontesismo dal francese “blanquissage”, sbiancamento, cioè lavanderia. Per il resto occorre ricordare che il sistema monetario pontificio era decimale: uno scudo si divideva in dieci baiocchi e un baiocco in dieci 140
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ed ogni guardia sole 6 ore di sentinella, e quando non siamo di sentinella portiamo i nostri abiti, andiamo dove vogliamo. Non vi è ore fisse per ritirarsi alla sera e se vogliamo stare di guardia tutt’i giorni per altri, abbiamo 15 bajochi al giorno oltre i dieci. Nei corpi di guardia caduno ha il suo materazino, si giuoca e si sta bene. Vi è ancora un’altra risorsa: quando i galeotti entrano in città a fare i loro affari, noi le accompagnamo. Essi vanno sempre all’osteria e ci fanno servire a tavola separata meglio di loro; e se gli accordiamo qualche ora di più dell’assegnatagli, vi sono quelli che mi hanno dato persino uno scudo di mancia. Nelle galere vi sono dei forti negozianti, uomini di lettere, ogni sorta di talenti. Quando sono di guardia alle galere, le ore mi passano che non mi accorgo… Il presidio è composto di 500 soldati, fra’ quali 490 sono tutti piemontesi. L’esercizio si fa nella primavera, il commando è il tamburro, l’uffizialità è tutta romana, gli abitanti escono tutti dalle galere. Il pericolo solo che vi è, si è di dover andare in agosto in corso sulle galere contro i turchi; e nel tempo della leva nessuno soldato puol più andare fuori di porta, per timore che disertino; ed ordinariamente non prendono quei soldati che hanno 3 anni di servizio. In quest’estate spetta a me; ma io in questa primavera me ne parto – dovessi stare tutto l’inverno di guardia per fare qualche soldo e poter rimpatriarmi… 141 & io ti consiglio a passare qui l’inverno e questa prima[vera] ci penseremo.”CXXVIII Bal passò tre giorni a visitare la città e il porto, accompagnato da due soldati, Solei e Bonafede, un ex capitano dell’artiglieria piemontese. Rovinatosi al gioco, era stato costretto a lasciare grado e Paese e, giunto a Roma, non era riuscito ad arruolarvisi, perciò era venuto a farlo a Civitavecchia, dove era stato accettato. Il quarto giorno Bal si arruolò. “Dopo i 3 giorni Bonafide e Solei mi presentarono dal comandante del pressidio, il quale mi fa inscrivere nel ruolo de volontari, o sia fazionieri. Mi si diede un fugile bajonetta, il porta cartuccie e niente più, perché non ero ancor soldato; per esserlo vi voleva una gran prova di onestà o un’assicuranza di 30 scudi per l’uniforme. La prima guardia che feci fu al baloardo di S. Francesco: i fazionieri le mettevano di sentinella nei posti remoti, affinché non si vedessero dal pubblico. Non dormj tutta la notte, sebbene avessi il matterassino di Solej, ed appena smontata la guardia andai a coricarmi. Insomma, in un mese ho fatto quindici guardie e mi ero così accostumato che stavo 6 giorni consecutivi e risparmiavo 3 o 4 paoli la settimana. In novembre fui dal commandante arruolato fra i soldati con paga e vestimenta.”CXXIX Dal resto delle memorie si ricava che la libera uscita fosse consentita in borghese col rientro alle dieci di sera, salvo permessi; che le punizioni andavano da 50 bastonate agli arresti, varianti da pochi giorni di prigione a fino almeno un mese, da scontare tanto in carcere quanto in quartiere.
quattrini. Il potere d’acquisto era abbastanza elevato. Intorno al 1790 con 5 baiocchi, o 50 quattrini, a Roma si potevano avere 100 uova, o tre libbre di carne, o poco meno di due litri di vino. 141 Aggiungeva Bal, op. cit., pag. 120, che Solei, che aveva già fatto un turno sulle galere, gli aveva detto alcuni mesi dopo: “che bisogna vivere e dormire coi galeoti; essere sempre pieni di vermine, patire fame e sete, veglia continua; sano o malato, bisogna stare all’istesso luogo al pieno sole; e che più desiderarono d’incontrare i turchi che li conducessero in Barbaria.” Per quanto riguarda i “vermine”, non erano vermi, ma cimici, pulci e pidocchi di cui erano piene le galere. Quanto al numero di soldati imbarcati, la San Pietro, galera capitana del Papa, ne poteva portare 150, oltre, ovviamente, all’equipaggio e alla ciurma dei galeotti.
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Avendo saputo d’essere in lista per l’imbarco sulle galere, in primavera Bal e Bonafede ottennero una licenza, andarono a Roma e, motivandolo colla malaria, chiesero il trasferimento a monsignor Depretis, “generalissimo delle armate di sua Santità”, che offrì loro Ferrara o Bologna. Respinsero la prima per via della malaria, peggiore che a Civitavecchia, e la seconda perché la guarnigione era “di truppa regolata”, però alla fine ottennero Ancona. Ad Ancona scoprirono da un soldato piemontese incontrato all’osteria che “qui vi vogliono gran protezioni per essere soldati,” Rispose Bonafede: “faremo fassioni”. E quello: “non si admettono fassionieri e non vi sono piazze vaccanti, e quando ve ne sono, cento sono i postulanti e la maggior parte vengono tuti raccomandati da Roma.”CXXX Lui, ad esempio, era stato raccomandato da un cardinale. Queste le premesse per arruolarsi come soldato semplice in un presidio di tre compagnie, formate da Italiani e stranieri. Avendo una lettera di raccomandazione d’un padre generale dell’ordine francescano, zio di Bonafede, i due ottennero dal comandante della guarnigione, marchese Miletti, l’arruolamento immediato e nella medesima compagnia, la 2ª. Le differenze con Civitavecchia apparvero subito. Là era consentita la libera uscita in borghese, qui, per alcune risse accadute in passato, si stava sempre in uniforme, bianca coi risvolti rossi e che veniva consegnata subito al soldato. La paga era di 15 baiocchi al giorno, contro i 10 di Civitavecchia, e ci si poteva far sostituire nel servizio di guardia pagando 15 baiocchi. La caserma era più brutta di quella di Civitavecchia, con un soldato di guardia in ogni camerata e si poteva mangiare là o fuori, a scelta, ma sempre pagando. Il servizio, come a Civitavecchia, era quasi solo di guardia: alla Lanterna, alla caserma, ai teatri, in servizio d’onore e al Lazzaretto, sempre di sei ore su 24. Infine, se a Civitavecchia i soldati ammalati erano ricoverati nell’ospedale civile retto dai frati di San Giovanni di Dio, ad Ancona lo erano nei 30 letti dell’ala militare del Lazzaretto, amministrato dallo Stato. Insomma, nello stesso anno, in due guarnigioni dello stesso esercito, non c’era altro che una parvenza d’uniformità, il servizio era una sinecura e l’arruolamento in certi casi un fatto di raccomandazioni: un esercito decisamente “sui generis”. Possiamo considerare quello di Bal un caso atipico? No; ce lo conferma indirettamente Giuseppe Gioachino Belli, che, nel suo Li sordati d’una vorta, “dice che sott’a Papa Ganganelli e puro sott’a un po’ de Papa Braschi, chi a sto paese aveva fiji maschi sapeva quer che fa pe mantenelli.”CXXXI perché le truppe “ortr’a un monno de ricaschi” cioè oltre a una gran quantità di vantaggi ed entrate aggiuntive in natura o in denaro, “montaveno la guardia co l’ombrelli”, esattamente come aveva scritto de Brosses nel 1740, chiaro segno che, a distanza di quarant’anni – essendo stato Clemente XIV Ganganelli papa dal 1769 e Pio VI Braschi, suo successore, dal 1775 al 1799 – lo stile non era cambiato. Questo fu un errore tremendo, pur se all’epoca forse non ci se ne rese conto. Data la sempre minore efficacia delle armi spirituali, Roma già dopo il 1708 avrebbe dovuto capire che una sua presa di posizione valeva tanto quanto poteva essere sostenuta anche colle armi materiali, perciò un esercito serio era sempre più utile, se non indispensabile. La questione però era complessa. Un primo aspetto era che il tipo di contrasto in cui la Santa Sede si trovava sempre più invischiata non era risolvibile coi mezzi militari. La minaccia d’uno scisma poteva essere combattuta con azioni diplomatiche, ma non colle armi, a meno che non si intendessero muovere contro le maggiori potenze del tempo delle guerre impossibili da finanziare e dunque da vincere; e già al tempo dell’interdetto veneziano si era visto quanto costasse e a quanto poco servisse un tentativo militare di risolvere una contesa giurisdizionale.
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Un secondo aspetto era la difficoltà nata dall’essersi trovati sempre fra le due maggiori Potenze cattoliche nemiche fra loro, difficoltà che però non aveva impedito ai Papi dal 1494 al 1530 di fare i propri comodi, alleandosi all’una contro l’altra e cambiando parte assai disinvoltamente quando era loro parso opportuno. D’altra parte dalla mancanza d’uno strumento militare efficace erano venute parecchie conseguenze sgradevoli. Nel 1707 la presenza dei 20.000 uomini in armi, che erano stati pianificati all’ultimo istante ma non arruolati per mancanza di tempo, avrebbe certamente dissuaso gli Imperiali dallo scendere a Napoli. Questo avrebbe evitato la breve guerra e la costosa sconfitta dell’anno seguente e probabilmente rimandato la conquista austriaca del Regno tanto a lungo da permettere alla Santa Sede di partecipare ai negoziati in Olanda in quanto detentrice della signoria feudale su una corona, quella di Napoli, che invece dal 1707 era di fatto già assegnata. La presenza d’un numeroso corpo di truppa stabile avrebbe infine evitato di diventare il campo di battaglia e stazionamento degli opposti eserciti nelle due guerre di successione polacca ed austriaca. Certo, sarebbe stato dispendioso. Dai documenti d’archivio appare evidente che 10.000 uomini sarebbero costati un po’ meno di tre quarti di milione all’anno, cifra alta ma non impossibile da pagare e rimasta più o meno stabile dal 1702 al 1734. Con un’ossatura stabile di 9 o 10.000 uomini e un po’ d’attenzione all’addestramento della milizia, in caso di necessità l’esercito del Papa avrebbe potuto raddoppiare le sue forze in fretta, mettendosi subito alla pari dell’eventuale nemico o, almeno, a un livello tale da farlo preoccupare. I Papi del Medioevo e del Rinascimento lo sapevano e si erano appoggiati a strumenti militari non inferiori a quelli altrui, in grado di costituire almeno un grosso ostacolo, se non una reale minaccia. Però già dopo la Guerra di Castro quella lezione sembrò essere stata dimenticata, né fu mai ripresa in considerazione. I costi, ma pure la mentalità della gente di Curia e l’abitudine a mettere in primo luogo lo spirituale coi suoi dispendiosi annessi e connessi erano alla radice del male, per cui si preferiva alimentare conventi e abbazie piuttosto che reggimenti; peccato che in caso di bisogno le preghiere non servissero a nulla e i frati nemmeno. Nelle condizioni in cui veniva lasciato, l’esercito serviva solo a presidiare il territorio, garantendo un ordine interno giudicato dai vertici accettabile. D’altra parte, nella seconda metà del Settecento, in una Penisola sostanzialmente neutrale e soggetta all’Imperatore, guardata a nord ovest dal ben armato Piemonte, uno Stato come quello Pontificio, confinante con una congerie di sovrani neutrali come Venezia e i Ducati Padani, o in corso di disarmo, come la Toscana, perché avrebbe dovuto preoccuparsi di mantenere un costoso apparato militare se non gli occorreva, né si prevedeva che potesse occorrere a breve o a media scadenza? Si pensava, evidentemente, che nessuno avrebbe mai tentato d’imporre la sua volontà al Papa colle armi e che, comunque, ci sarebbe sempre stato qualche altro cui appoggiarsi, il che presto si sarebbe rivelato sbagliato. Soltanto la minaccia della Rivoluzione avrebbe convinto la Santa Sede a cercare di riorganizzare il suo esercito, ma sarebbe stato troppo tardi.
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Capitolo XVI La Rivoluzione: 1792–1798.
I) Il 1792 Quando, presa la Bastiglia, il conflitto fra la borghesia francese ed i detentori del potere si risolse a favore della prima, i nuovi governanti si accorsero di non esser capaci più di quanto lo fossero stati i vecchi di risanare le finanze nazionali, devastate dall’ininterrotto guerreggiare incominciato nel 1690 e affondate del tutto dalla partecipazione alla Rivoluzione Americana. Il governo, formato allora dai Girondini, decise allora che il miglior modo per attenuare gli attriti interni di ogni ordine e natura fosse quello, tante volte adoperato in tanti Paesi, di lanciarsi in una guerra. Il problema consisteva nel trovare un avversario, facile da battere a tanto ricco da poter pagare dei grossi danni di guerra. Non era semplice poiché con nessuno Stato esistevano contrasti tali da scatenare un conflitto, ma alla fine la Francia, nella persona del re Luigi XVI, lo trovò e intimò al Principe vescovo Elettore di Treviri di espellere dal suo territorio tutti i nobili emigrativi dopo la presa della Bastiglia e che, uniti al fratello del Re, il conte d’Artois, il futuro Carlo X, brigavano per il ritorno al regime assoluto. L’Elettore respinse l’ultimatum e fu la guerra; non tanto contro di lui, quanto piuttosto contro l’Austria e la Prussia, i cui Sovrani avevano dichiarato, fin dall’agosto del precedente anno 1791, che sarebbero scesi in guerra solo se i Francesi avessero violato il confine del Sacro Romano Impero Germanico. Dopo un crescendo di vittorie dall’aprile in poi, il 20 settembre 1792 gli Alleati furono sconfitti a Valmy e dovettero ripiegare. In breve, a causa delle pessime condizioni atmosferiche, la ritirata si tramutò in un disastro; e le truppe austro-prussiane furono obbligate a tornare oltre frontiera. Intanto i Francesi avevano aperto trattative pure con Vittorio Amedeo III di Sardegna per indurlo a non aiutare l’Austria, promettendogli territori e appoggi; ma la reazione del Sovrano era stata di chiusura tanto netta e brusca da giungere alla rottura. Perciò l’autunno del 1792 portò la guerra anche all’Italia, coll’occupazione della Savoia e di Nizza. La Convenzione Nazionale dichiarò che le frontiere naturali della Francia erano le Alpi e il Reno e, conseguentemente, ordinò pure l’invasione dell’Olanda. La prospettiva d’un’estensione territoriale francese lungo la costa continentale della Manica fece muovere la diplomazia inglese che, al principio del 1793, riuscì a formare una coalizione europea, la prima delle sette che si sarebbero succedute nell’arco di ventidue anni: Gran Bretagna, Impero, Prussia, Russia, Spagna, Sardegna, Napoli, il Papa e la Toscana. Ma mentre l’Inghilterra si muoveva con una certa freddezza di giudizio, le dinastie d’Austria, Toscana, Napoli e Sardegna erano personalmente coinvolte, e inferocite, per le esecuzioni capitali dei Reali di Francia coi quali erano strettamente imparentate. Per questo Ferdinando IV verso la fine del 1792 aveva rifiutato di ricevere le credenziali del nuovo ambasciatore francese Makau; e il 16 dicembre la squadra francese dell’ammiraglio Latouche-Treville si era presentata a Napoli a domandarne ragione. Nonostante l’apparato difensivo fosse stato preparato fin da maggio, si era avuta una riedizione (stavolta non giustificata altro che dalla paura della regina Maria Carolina e dal suo ascendente sul marito) di quanto era capitato a re Carlo cogli Inglesi cinquant’anni prima; e l’ambasciatore era stato accettato; ma si era trattato d’una finta. L’esercito borbonico, ascendente a 36.000 uomini, e la marina, forte di 102 legni e 8.600 marinai, stavano ricevendo gli ultimi ritocchi prima di entrare in azione. Caso mai il vero danno la squadra di Latouche-Treville lo causò colla propaganda fatta dai suoi ufficiali tra i Napoletani “illuminati”, militari e civili, diffondendo le idee giacobine e gettando negli animi il seme della disfatta del 1798 e della successiva effimera Repubblica. Per quanto riguardava il Papa, l’abolizione del regime feudale stabilita in Francia il 4 agosto 1789 aveva implicato la perdita delle decime ecclesiastiche. Non era materia di Fede e, sebbene a denti stretti, Roma ci era passata sopra, specie perché i rappresentanti del clero francese l’avevano votata all’unanimità. 196
La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del successivo 26 agosto andava già meno bene, in quanto alcune sue proposizioni avevano indotto il Papa a condannarla, segretamente però. Poi, il 2 novembre 1789, era venuta la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici e lo stipendio statale ai parroci; e già qui l’unanimità d’agosto all’Assemblea Nazionale aveva ceduto il passo a uno scarso cinque a tre: 510 membri dell’Assemblea avevano votato si, 346 no. Ad aprile del 1790 la discussione si era accesa sulla parità coi Cattolici chiesta dai Protestanti, poi sfociata in una semplice tolleranza, e sulla richiesta dei dipartimenti meridionali di riconoscere il Cattolicesimo come religione di Stato, che invece fu respinta. Il guaio serio arrivò a luglio del 1790, quando fu approvata la Costituzione Civile del Clero. Dei suoi quattro punti principali, due – lo stipendio statale ai membri del clero, e l’obbligo di residenza in sede pena la perdita di esso – potevano anche andare; il terzo, cioè il riordinamento delle diocesi in base ai dipartimenti con la soppressione di 52 sedi vescovili e la diminuzione delle parrocchie, era un colpo basso, ma poteva essere oggetto d’un accordo. Il quarto invece era assolutamente inaccettabile, perché prevedeva l’elezione di vescovi e parroci dalle assemblee dipartimentali, cioè da organi politici civili e questo era fuori discussione. Pio VI si trovò in difficoltà. Luigi XVI gli aveva fatto chiedere un assenso formale e il Papa esitava. Da un lato non voleva accettare, dall’altro si rendeva conto dei rischi per Luigi XVI in caso di rifiuto. Nel dubbio, ricorse al solito mezzo della congregazione particolare deputata. Quella nominata, preoccupata sia dall’elezione dei vescovi che dall’eventuale perdita d’Avignone, discusse a lungo, tanto a lungo che a Parigi persero la pazienza e l’Assemblea Nazionale stabilì che il 4 gennaio 1791 tutti gli ecclesiastici diocesani di Francia avrebbero dovuto giurare fedeltà come i funzionari civili, pena la perdita dell’incarico e dello stipendio. Inaspettatamente, 128 vescovi su 135, due terzi dei deputati del clero all’Assemblea e la metà del clero parrocchiale di Francia rifiutarono di giurare; per di più parecchi degli altri ritrattarono il giuramento dopo averlo prestato. L’Assemblea ordinò di sostituirli con preti che avessero giurato e chiese ai sette vescovi aderenti di consacrare dei nuovi vescovi “costituzionali.”142 Davanti a questo, il 10 marzo 1791 Pio VI emanò il breve Quod aliquantum con cui condannava la Costituzione Civile del Clero e il giuramento di fedeltà, sospendeva “a divinis” gli ecclesiastici costituzionali e dichiarava sacrilega la consacrazione di nuovi vescovi, i consacratori e i consacrati. La cosa sarebbe stata sistemata solo nel 1801 col concordato napoleonico, ma, per il momento, le conseguenze sarebbero state tremende e sanguinose: la ghigliottina per i refrattari durante il Terrore, l’insurrezione della Vandea e la partecipazione, almeno finanziaria, dello Stato Pontificio alla guerra contro la Francia
II) Il riarmo pontificio del 1792 Lo scoppio della Rivoluzione francese aveva trovato la Santità di Nostro Signore coi soliti 5.000 uomini nei presidii più vari, alcune decine di migliaia registrati nelle milizie e una marina di due galere operative, due corvette e quattro feluche. Con questo non imponente apparato lo Stato Pontificio dové accettare l’occupazione di Avignone e, una volta proclamata in Francia la Repubblica, lo scontro totale con essa. La Costituzione Civile del Clero implicò l’asilo agli ecclesiastici che riuscivano a sfuggire al carcere e a tutti i Francesi che preferivano l’esilio. A Roma l’ambasciatore di Francia cardinale de Bernis continuò a inalberare fieramente le armi coi gigli sul suo palazzo al Corso anche dopo l’imprigionamento del Re e la proclamazione della Repubblica e vi accolse con fasto regale le due sorelle di Luigi XVI profughe. L’inimicizia con Parigi era ormai più che palpabile e la Santa Sede si preoccupò che potesse succedere pure a Roma qualcosa di simile alla spedizione di Latouche-Treville a Napoli. Era vero che dalla costa a Roma c’erano oltre quaranta tortuosi chilometri di fiume pressoché impossibile da risalire, ma un minimo di protezione delle coste andava preparato, quantomeno in caso di sbarco. Sul mare coi mezzi esistenti era 142 Dei sette, solo due, Talleyrand e Gobel, accettarono e furono entrambi scomunicati.
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possibile fare poco e si riuscì soltanto ad armare due lancioni e nove barche cannoniere per la difesa ravvicinata di Civitavecchia. Qualcosa di più lo si fece a terra, potenziando le difese, rafforzando i reparti già esistenti e formandone uno nuovo per la difesa del litorale meridionale dalle Paludi Pontine a Terracina. Era allora responsabile della marina pontificia dal 14 febbraio 1785 monsignor Fabrizio Ruffo, il futuro cardinale e capo dei Sanfedisti nel 1799, il quale nel novembre del 1792 pose un corpo di 528 fanti, 120 cavalieri, 77 artiglieri e 19 pezzi a difesa della costa fra Terracina e Caprolace, guarnì tutte le piazzeforti litoranee tirreniche ed adriatiche e ordinò alla Marina di armare ogni legno disponibile. Così, nell’aprile 1793, la Marina Pontificia risultò composta da cinque galere, due barche guardacoste, quattro lancioni, otto barche cannoniere e una barca fornella bombardiera. Con le spese correnti, non si poteva fare di più. Si contava comunque sia sul fatto che, davanti a una coalizione vasta come quella appena costituita e coll’opposizione del Piemonte e dell’Austria, la Francia non sarebbe riuscita a portare la guerra oltre le Alpi e, se pure ci fosse riuscita, ben difficilmente avrebbe potuto fare più che nella Guerra di Successione Spagnola. Ad ogni buon conto, Roma il 30 maggio 1792 iniziò pure il riarmo terrestre per arrivare a 10.000 effettivi, ma con un tale aggravio della spesa che già nell’aprile 1793 si suggerì al Papa di ridurre attività e arruolamenti per mancanza di denaro. Pio VI non fu d’accordo e anzi ordinò la creazione di un corpo delle tre armi da inviare a presidiare le Romagne. Mettendo insieme truppe dei presidi di Ferrara, Forte Urbano, Bologna e Castel Sant’Angelo, si dislocarono tra Faenza e Imola 752 fanti, 150 dragoni, varie Guardie di Finanza e 40 artiglieri con sei pezzi. Il guaio era che il denaro speso in armi e materiali non poteva sopperire alle deficienze umane; e l’esercito santissimo, oltre che piccolo, era privo d’esperienza bellica dalla lontana figuraccia del 1709; tutti lo sapevano, nessuno però si aspettava il disastro che si verificò. Nel febbraio 1794 monsignor Girolamo della Porta subentrò a monsignor Ruffo alla testa della Marina; e fu lui a trovarsi davanti l’imprevista invasione francese e la Repubblica giacobina che ne seguì. III) I Francesi, il Papa e la guerra del ‘97 Il crollo del Piemonte nella primavera del 1796 e la conseguente invasione della Lombardia e dei Ducati padani spostarono il punto d’attrito fra vecchio e nuovo regime dalle Alpi alle frontiere settentrionali del Granduca di Toscana e di Santa Romana Chiesa. Ferdinando III d’Asburgo-Lorena aveva concluso una pace separata nel 1795 e poi mantenuto una rigida neutralità, che comunque gli avrebbe preservato lo Stato solo per un altro paio d’anni. Roma invece aveva preso una posizione assai più netta e Bonaparte, quando sfociò nella Pianura Padana, si ricordò che a Roma era stato ucciso Bassville143 e decise di vendicarlo, o meglio, decise di servirsene come pretesto per invadere le ricche terre delle Legazioni e saccheggiarle a dovere. Detto fatto, Augerau con poco meno di 5.000 uomini da Modena passò a Mirandola, varcò il Panaro a Camposanto, e occupò Bologna senza resistenza il 18 giugno 1796. E’ vero che c’era sulla destra la minaccia di Forte Urbano, con le opere in perfetto ordine, guarnite da 50 cannoni, 5.000 fucili nelle armerie e viveri per 600 uomini per due mesi ma, come già nel 1708, di nuovo le inframmettenze dei legati impedirono qualsiasi resistenza. Infatti per ordine del Legato, il 20 il comandante di Forte Urbano, cavalier Rondinelli, si arrese a discrezione con tutto il presidio all’aiutante generale di Napoleone, Vignolle, accompagnato da ben sei dragoni e un trombettiere. Ferrara abbozzò 143 Nicolas Jean Hugon de Basseville era un ex-prete, divenuto giornalista, che la Convenzione aveva avuto la delicatezza di
scegliere come ambasciatore a Roma, dove coi suoi atteggiemtni pesantemente provocatori aveva fatto di tutto per farsi detestare, riuscendoci I poco tempo e così bene da farsi aggredire, lapidare e tagliare la gola a rasoiate da una folla di popolani inferociti in via del Corso il 13 gennaio del 1793. Ovviamente fu considerate un martire dell’Idea. Appresa la notizia, la Convenzione Nazionale nel gennaio del 1793 proclamò come rappresaglia di voler fare una “Vengeance éclatante.”.
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una resistenza, del tutto inutile dopo la resa di Forte Urbano. Tutte le altre città delle Legazioni si arresero in massa senza combattere, colla sola eccezione di Lugo, che reagì ma, troppo debole, fu sottomessa rapidamente. In quattro giorni Napoleone, con soli 5.000 uomini, aveva preso le Legazioni, e con esse centinaia di prigionieri e di cannoni, mentre il corpo pontificio delle Romagne, assottigliato dalle diserzioni, si ritirava nelle Marche inseguito da 700 Francesi con due cannoni. Il 23 giugno Pio VI concluse a Bologna un armistizio, impegnandosi a pagare 21 milioni di lire, consegnare 500 manoscritti e 100 opere d’arte a scelta di una commissione nemica, liberare i prigionieri politici, lasciare le Legazioni, meno Faenza, alla Francia, chiudere i porti al naviglio ostile alla Repubblica e concedere passo libero all’Armée d’Italie, conservando la cittadella d’Ancona, città in cui però fu eretta una municipalità controllata dai Francesi e chiamata Repubblica Anconitana.. L’armistizio non piacque a nessuno e stavolta non ci fu bisogno di bandi o arruolamenti: la risposta fu spontanea. Da ogni parte degli Stati Pontifici vennero offerte in denaro, preziosi, materiali, armi e soldati. Lo sforzo logistico fu enorme: furono ammassate oltre 417.000 libbre di polvere, circa 238.500 cartucce, 50.000 uniformi ed ordinato l’arruolamento di 7.000 uomini, da aggiungere ai 10.000 già alle armi. Ma, come novant’anni prima, la grandiosità dello sforzo era minata dalla deficienza del materiale umano. La truppa era male addestrata e dedita più agli esercizi spirituali che a quelli militari; gli ufficiali impreparati, o del tutto digiuni in materia militare. Lo sappiamo da Monaldo Leopardi, che nella sua autobiografia scrisse d’essere andato a Roma e, il 3 novembre: “Colà offerii all’erario del Principe trecento scudi all’anno durante la guerra, e offerii di equipaggiare e mantenere a mie spese il fratello e un altro volontario in un corpo di cavalleria, che doveva chiamarsi distinta, e comporsi di persone di qualche rango, e venne effettivamente formata di cavalcanti e facchini. Pagai li scudi 300 anticipatamente, providdi due buoni cavalli, armai, equipaggiai, e mantenni il fratello e il volontario, e in premio di mille scudi almeno che questa ragazzata mi costò, venni descritto nella nota degli oblatori. In Roma due ragazzi senza guida e senza rapporti dovevano capitar male ma le cose andarono passabilmente. Mi presentai al conte Pietro Gaddi tenente generale e comandante allora di tutte le armi pontificie, e gli raccomandai il fratello che voleva assumere il servizio come soldato comune, per dovere gli avvanzamenti suoi al merito solamente. Il mio eroismo e la mia filosofia infantile mi dipingevano come un assurdo chiedere o accettare un grado distinto prima di averlo meritato. Gaddi era uomo amabilissimo, non so se tanto da comandare in capo un’armata in campagna, ma certo cavaliere ornatissimo e onoratissimo. Concepì subito un’amicizia particolare per me, o forse ebbe compassione di due bambocci che andavano a sagrificarsi senza giudizio, e senza peccato. Si offerì di esser padre al mio fratello, ci condusse al segretario di Stato e ci usò attenzioni e cortesie molte. Mio fratello entrò nel corpo 144come semplice volontario, ma dopo quattro giorni ebbe un brevetto di secondo tenente, e dopo altri quattro giorni ebbe un altro brevetto di tenente in primo, e se egli ed io avessimo chiesto diventava maresciallo in cinque settimane. Tutto ciò si intende avendo egli 17 anni e 6 mesi, e non conoscendo un punto solo di quanto ci vuole per essere uffiziale o soldato.”CXXXII A capo dell’esercito venne nominato il generale Colli, che aveva appena terminato di combattere nelle file austriache dopo aver comandato l’Armata Sarda. Giunse il 12 gennaio 1797 e notò subito le pecche dell’organizzazione, ma il tempo per rimediare era insufficiente.
144 Il Corpo Volontario Distinto di Cavalleria, formato nell’autunno 1796.
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Napoleone sapeva dei contatti tra Roma e Vienna e il 1° febbraio 1797 ruppe l’armistizio, ordinando al generale Berthier di avanzare contro il Papa con 10.000 uomini del corpo del generale Victor, fra i quali gli Italiani della neocostituita Legione Lombarda del capo brigata Lahoz. La sera del medesimo 1° febbraio i 3.000 fanti, 150 cavalieri e dieci cannoni pontifici stanziati a Faenza si misero in movimento verso il Senio, 145 seguiti dalle bande armate e da cittadini pure armati. Il comandante della colonna, colonnello barone Carlo Ancajani, appresa la preponderanza nemica, rimase in dubbio tra la resistenza e la ritirata. Convocò un consiglio di guerra, che decise per il combattimento, ingaggiato il quale, il giorno dopo, i Pontifici crollarono miseramente. I Francesi li inseguirono fino a Faenza dove, trovate le porte chiuse, entrarono aprendosi la strada con poche cannonate e perdendo complessivamente 40 uomini. Uccisero 30 nemici e ne catturarono 1.000, con 8 bandiere e 14 cannoni. Questo inglorioso episodio fu il primo di una serie vergognosa. Il secondo si verificò ad Ancona, dove il generale Bartolini aveva radunato 2.000 regolari e 3.000 miliziotti. Erano tutti inesperti e si trovarono davanti a talmente tante contrarietà che difficilmente se la sarebbero potuta cavare. Intanto dovevano combattere contro veterani che avevano fatto fino a sei dure campagne, poi furono abbandonati a se stessi in una città i cui cannoni erano tutti inservibili meno tre. In più il locale governo civile fece di tutto per indurli a non combattere, in modo da salvare gli averi dei cittadini da un eventuale saccheggio, e riuscì a convincere il generale Bartolini ad andarsene l’8 febbraio; ma questo non poteva giustificare la resa immediata della posizione del Montagnolo e l’abbandono di Porta Pia, la cui guardia depose le armi davanti a un ufficiale e quattro dragoni nemici. In tutta la città le uniche resistenze furono quelle di tre miliziotti sulle mura e di un quarto di sentinella alla punta di San Primiano, i quali morirono combattendo, dopo aver ucciso complessivamente una decina di avversari. Il resto dei miliziotti si sbandò per le campagne. Furono presi 1.200 soldati pontifici, 3.000 fucili nuovi e 120 cannoni. I cittadini avevano dimostrato di volersi opporre ai Francesi, ma i governanti non erano disposti a rischiare di perdere i propri averi per difendere l’onore di Santa Romana Chiesa. Intanto Colli, appena appresa la notizia delle ostilità, aveva lasciato Roma il 6 febbraio e stava avvicinandosi ad Ancona, seguito a tre giornate di marcia da 1.300 fucilieri e tre treni d’artiglieria. A Loreto, dove giunse la sera della resa d’Ancona, incontrò le truppe che ne fuggivano e retrocedé su Recanati. Qui il capitano Nobili radunò 400 fuggitivi e li pose con quattro cannoni fuori Porta Marina.. Due ore dopo il tramonto arrivò Colli. Cercò di fermare i fuggiaschi spaventati che continuavano ad arrivare da Ancona e, dopo aver ordinato al locale comandante della Milizia, il colonnello marchese Carlo 145 In quel momento l’esercito pontificio, tolte le guarnigioni fisse di Roma e Civitavecchia, aveva 10.000 combattenti, con
238.000 cartucce e 10.478 cariche d'artiglieria. Ma, come ho scritto, a Faenza ce n’erano appena 3.000, con dieci cannoni, 75 cariche per cannone e 20 cartucce per ciascun fuciliere. Erano il 1° Reggimento di Romagna comandato dallo stesso Ancajani forte di 1.691 uomini; il Battaglione forlivese di 900 fucilieri; 100 cacciatori maceratesi reclutati dal conte Pacifico Carradori: 150 dragoni dello squadrone Reali; 112 del 1° squadrone del Corpo Volontari Distinti di Cavalleria 100 artiglieri con dieci cannoni moderni da quattro e otto libbre e sei carri da munizione con 270 cariche a palla e 480 a mitraglia. Fonti diplomatiche napoletane accennano inoltre ad un reparto di cavalleria pontificia comandato da un certo maggiore Bracci, che avrebbe teso un'imboscata alle truppe franco-cispadane. In quei giorni altri 1.000 soldati pontifici convergevano su Forlì, 2.000 presidiavano le piazzeforti marchigiane e 4.000 erano in partenza da Roma. A Cesena c’era il Battaglione della Marca con un treno d'artiglieria di otto cannoni e 60.000 cariche di fucile, pronto a muovere su Forlì; a Forlì si trovavano due cannoni e tre compagnie del Battaglione Borosini; a Ravenna tre compagnie del medesimo Battaglione Borosini in procinto di spostarsi anch’esse a Forlì. A San Leo, Loreto e Ascoli c’erano complessivamente tre compagnie distaccate dal Battaglione di Ancona, il cui grosso era appunto in Ancona, insieme a 3.000 miliziotti. Foligno, Perugia, Fratta, Città di Castello e Città della Pieve erano presidiate dai soldati di una sola compagnia guastatori e da tredici compagnie di reclute umbre. Da Roma stava partendo per Spoleto una brigata con 4.000 fanti dei Reggimenti Guardie di Nostro Signore, e Granatieri e dei battaglioni Castello, in luogo de’Corsi e Colonna, accompagnati da 120 dragoni, 120 volontari a cavallo e un treno di 14 cannoni da otto e da quattro libbre. Il II battaglione delle Guardie di Nostro Signore era partito il 28 gennaio, il battaglione in luogo de’ Corsi e i dragoni seguirono il 1° febbraio, gli altri battaglioni ad un giorno d’ intervallo l’uno dall’altro fino al 7 febbraio.
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Antici,146 di suonare le campane a martello e battere la generale, risalì in carrozza e scomparve. Antici si accinse ad eseguire gli ordini, ma Monaldo Leopardi, che nonostante fosse solo diciottenne era nell’amministrazione comunale il responsabile delle faccende militari, lo bloccò, dicendogli: “amico cosa pensate? Gli ordini del generale son belli e buoni, ma egli si salva e lascia noi nelle piste. Quale difesa può farsi nella città nostra aperta in ogni parte e sproveduta di tutto, e qual dovere ci impone di sagrificarci perché egli possa fuggire più liberamente? Alle corte, se i Francesi non sono in Loreto ogni preparativo è vano, e se ci stanno li avremo qui fra dieci minuti, e il suono della campana, e il sollevamento del popolo ci esporranno al saccheggio, all’incendio, alla strage senza ragione e senza giovamento. Antici si arrese a questi detti, e le campane e il tamburo vennero lasciati in pace.” CXXXIII Poi Leopardi trovò il capitano Nobili, e lo persuase a lasciare Recanati con tutti i suoi uomini dandogli un ordine scritto. Successivamente arrivò Ancajani colle truppe in ritirata. anche lui fu convinto a proseguire, ma poté almeno passare la notte a Recanati, lasciando una buona guardia fuori Porta Marina e ripartendo l’indomani con tutti i suoi, senza fretta e senza che si fosse visto un solo Francese. Davanti a tali prove di volontà di resistere da parte delle autorità locali, non c’è da stupirsi se Colli preferì trincerarsi addirittura a Foligno con tutti gli uomini che poté radunare, deciso a sbarrare la via di Roma al nemico in arrivo. Ma Napoleone non aveva l’intenzione, né la forza, di spingersi troppo a sud, perciò si limitò alla pace di Tolentino, conclusa il 19 febbraio 1797, con cui impegnava il Papa a pagare 30 milioni di lire tornesi alla Francia come indennità di guerra, 300.000 alla famiglia Bassville, dare le opere d’arte promesse, 800 cavalli da sella, altrettanti da tiro e carne in piedi, cedere la piazza d’Ancona, almeno fino alla pace definitiva, e per sempre Avignone, il Contado Venassino e le Legazioni. Era una svolta epocale. Per la prima volta da quando esisteva la Santa Sede, il Papa violava l’inalienabilità dei diritti temporali della Chiesa, base dell’intangibilità dello Stato ecclesiastico e del Potere Temporale. Lì per lì non sembrò avere altre conseguenze di quelle, già gravi, dettate dal trattato, però ebbe un’eco nella Corte Borbonica, la quale cominciò a prendere in considerazione l’idea di annettersi una parte dello Stato Pontificio alla prima occasione. Cessate le ostilità, il Direttorio mandò Giuseppe Bonaparte a Roma come ambasciatore e pretese anche la sconfessione di tutto quel che Pio VI aveva scritto e detto contro la Rivoluzione negli ultimi sette anni. Poiché questo implicava, fra l’altro, un grave problema religioso come quello del riconoscimento della Costituzione civile del Clero, che il Papa non poteva ammettere, le trattative di pace intavolate a Parigi dal conte Pieracchi fallirono. Pio VI dichiarò ai suoi sudditi che sospendeva l’esecuzione dei patti d’armistizio e che, in caso d’invasione, avrebbe reagito colle armi. La situazione era molto tesa quando il 28 dicembre 1797 a Roma fu ucciso il generale francese Duphot. Napoleone lo stimava tanto da averlo spedito nell’Urbe a novembre per sposarvi Désirée Clary, che era stata sua fidanzata a Marsiglia prima di Giuseppina de Beauharnais ed era adesso la cognata di suo fratello Giuseppe, ma pure per dare una mano nell’organizzare qualche tafferuglio, pretesto per un intervento francese e il definitivo crollo dello Stato Pontificio. Giuseppe Bonaparte era andato a mettere l’ambasciata a Palazzo Corsini, fuori dal centro della città e, sul lato destro del Tevere – quello del Vaticano, per intenderci – e abbastanza isolato dalle mura di Trastevere da permettere andirivieni più o meno loschi. Delle due versioni dei fatti, seguirò adesso quella dei Pontifici, sia perché parlo di loro, sia perché una lunga esperienza m’ha insegnato che le versioni dei rivoluzionari, specie quelli francesi dell’epoca, tutto sono meno che veritiere. I repubblicani degli Stati Romani avevano provocato una sommossa a Tarquinia, l’allora Corneto, il che 146 Zio di Giacomo Leopardi.
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aveva implicato l’intervento d’un colonna mobile pontificia da Civitavecchia. La repressione consentì a Giuseppe Bonaparte di intimare e ottenere la liberazione di tutti i detenuti politici e la concessione di salvacondotti per il rientro dei fuorusciti, che ovviamente vennero tutti a Roma. Con loro arrivò pure una gran quantità di “patrioti” mobilitati dalle rappresentanze francesi in Italia e Duphot. Come ho detto, doveva sposare la cognata di Giuseppe ed ex-fidanzata di Napoleone, ma, visti i suoi recentissimi precedenti a Genova, è probabile che dovesse dirigere il colpo di stato previsto per la notte di Natale. Si trattava di catturare il papa durante la messa nella Cappella Sistina, ma Pio VI, fosse vero o per finta, si ammalò e non se ne poté fare nulla. Dico questo perché il segretario di stato, cardinale Busca, era stato avvertito dalla polizia pontificia e aveva ordinato al comandante della piazza, generale Giorgio Gandini, d’aumentare la sorveglianza. Gandini richiamò in servizio la Guardia Civica, mise in allarme i regolari e piazzò il colonnello Ancajani con un battaglione delle Guardie alla Pilotta e tre pattuglioni misti di cento fucilieri e dragoni l’uno al Vaticano, al Quirinale e all’Arco della Regina. Il 27 dicembre i capi della congiura si trovarono a Palazzo Corsini. Il 28 si riunirono sotto l’ambasciata alcune centinaia di manifestanti armati, guidati dallo scultore Ceracchi e dal notaio Allegretti, inneggiando alla libertà, alla Repubblica francese e a Napoleone. Poi cercarono di raggiungere ponte Sisto per unirsi a un corteo più numeroso in arrivo dal lato sinistro del fiume. Bloccati e respinti da una pattuglia di cavalleria accorsa da ponte Fabricio e attraverso l’Isola Tiberina, non riuscirono ad impadronirsi delle armi in un magazzino là vicino. Tornarono indietro e tentarono di sollevare i Trasteverini, i quali però risposero inneggiando al Papa e alla religione. Nel frattempo era in allarme pure la truppa della vicina caserma delle Guardie a ponte Sisto e il tenente conte Girolamo Montani aveva stabilito dei posti di blocco. I manifestanti, sempre più agitati e seguiti dai Trasteverini a loro sempre più ostili, si spostarono a Porta Settimiana dove si trovavano il tenente Montani e un posto di blocco, i cui militari si interposero fra i loro e i Trasteverini che li minacciavano. Porta Settimiana separa Trastevere da via della Lungara, la strada su cui sorge Palazzo Corsini. Via della Lungara, alle falde del Gianicolo, corre dritta, risalendo il fiume fino alle mura del Vaticano e lungo di essa i militari non avanzavano perché, essendo quella su cui si affacciava l’ambasciata, secondo la prassi, specie romana, del tempo, sarebbe stata zona extraterritoriale e giurisdizione francese. Giuseppe Bonaparte arrivò al posto di blocco scortato a spada sguainata dai generali Sherlock e Duphot e dai capitani Arrighi ed Eugenio de Beauharnais, il figliastro di Napoleone, esigendo grazie alla sua immunità diplomatica di forzare la posizione per far passare i dimostranti. Duphot estrasse la sciabola e gridò ai suoi colleghi d’avanzare, iniziando a colpire intorno a lui. Montani, gli urlò di fermarsi o sarebbe stato costretto a far sparare e lo stesso urlarono i soldati. Duphot continuò ad avanzare sciabolando a destra e manca e colpì anche loro. Ebbe ciò che si poteva attendere: partì una scarica e il caporale Marinelli lo stese a terra con una fucilata. Oltre a lui, mortalmente ferito, sul terreno restarono altre cinque persone, dopodiché fu il caos. La linea di soldati si frantumò sotto la pressione dei Trasteverini che inseguirono Giacobini e Francesi. Eugenio de Beauharnais si salvò a stento. Giuseppe Bonaparte rientrò scavalcando il cancello dell’ambasciata, dalla cui ferrata del pianterreno qualcuno fece poi fuoco sulla folla, ferendo leggermente il capitano della civica Costaguti e mortalmente il tenente Durani..Da parte loro i soldati ebbero un bel daffare a contenere la folla e dovettero staccare una grossa pattuglia alla chiesa di Santa Maria della Scala per proteggere l’ambasciatrice, là per le sue devozioni. 147 Poco dopo arrivarono a palazzo Corsini gli ambasciatori spagnolo e toscano, davanti ai quali Giuseppe accusò gli Inglesi e i Pontifici: i primi d’aver provocato gli incidenti tramite agenti côrsi; i secondi di non aver fatto intervenire apposta la truppa. Intanto altri disordini minori erano scoppiati in vari punti della Giulia Clary, moglie di Giuseppe e sorella di Désirée; quest’ultima, al ritorno a Parigi, avrebbe sposato il generale Bernadotte e sarebbe poi salita con lui al trono di Svezia. 147
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città e un dimostrante repubblicano era stato ucciso davanti alla caserma del Monte di Pietà. La sera stessa Giuseppe Bonaparte chiese i passaporti e partì per Firenze e il nord, minacciando rappresaglie assai gravi.148 La reazione francese fu velocissima. Prima arrestarono il marchese Massimo, ministro del Papa a Milano, poi Berthier ebbe ordine di marciare dalle Marche su Roma. Giunto a Narni, accolse i plenipotenziari del Papa, asserendo, in base agli ordini avuti, di non voler “democratizzare” il Governo pontificio ma solo imporgli una “vengeance éclatante” – una vendetta clamorosa.149 Subito dopo arrivò Gioacchino Murat con nuovi ordini da Parigi: occupare Roma. Come già i Sardi nel ’96 e i Veneziani nel ‘97, i Pontifici non capirono il trucco e la credettero solo una misura temporanea, visto che non era stata dichiarata alcuna guerra; dunque non ci fu nessuna opposizione da parte delle disorientate e poche truppe papali quando le forze francesi scesero per la Flaminia e la Cassia, comparvero nelle prime ore del mattino del 6 febbraio 1798 sulle colline a nord di Roma e una loro staffetta intimò la cessione di Castel Sant’Angelo entro quattro ore. Sempre paurose di creare difficoltà tali da inasprire le cose, le autorità papali cedettero il castello, in cui a mezzogiorno s’installarono i Francesi, mentre il presidio pontificio traversava il fiume per andare al convento di Sant’Agostino. Poi una colonna francese fu mandata in Sabina e un’altra verso Civitavecchia, mentre si veniva a sapere che il popolo sovrano – qualunque cosa fosse – il 4 febbraio aveva proclamato in Umbria la Repubblica Tiberina, con capitale a Perugia e tricolore francese.
148 Subito dopo il cardinale Doria incaricò il colonnello Ancajani di far fuggire il caporale Marinelli con un passaporto falso e
un sussidio di 50 scudi. 149 Questa era la famosa “Vengeance éclatante” stabilita dalla Convenzione Nazionale nel gennaio del 1793 per la morte di Bassville; senza Napoleone, nel 1793 nemmeno immaginato, c’è da chiedersi quando mai sarebbe stata ottenuta.
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Capitolo XVII “La Repubblica per ridere” in cui non ci fu niente da ridere
I) La Repubblica Romana L’11 febbraio 1798, domenica, i Francesi entrarono formalmente a Roma, occuparono Piazza del Popolo, il Quirinale, il Campidoglio – che continuò ad essere custodito dalla Guardia Civica – e il convento dell’Ara Coeli, che trasformarono in caserma. Ordinarono d’innalzare gli alberi della Libertà, ma, accortisi che il popolo o non li accettava, o era ostile, Berthier stesso ordinò di toglierli. La prassi giacobina li richiedeva come prima manifestazione del risveglio del popolo, a cui doveva seguire la richiesta spontanea, popolare e democratica di costituirsi in repubblica, sotto l’egida e coll’aiuto della Repubblica Francese, madre apportatrice del verbo rivoluzionario, democratico e libertario e sorella amorevolmente soccorritrice. Berthier scoprì presto che non funzionava: nessuno a Roma voleva sentirne parlare. La Repubblica non si poteva fare, o, almeno, non secondo la solita prassi. Non c’erano nemmeno quelle poche centinaia di sostenitori rumorosi visti in Lombardia o in altre parti d’Italia, scarsi ma sufficienti a creare una giustificazione, per labile che fosse. Bisognò agire d’autorità. Si cominciò collo sciogliere l’esercito pontificio. Non fu difficile, in pratica si sciolse da sé e il Reggimento dei Dragoni, fatto uscire da Porta del Popolo per venire ispezionato da Berthier, giunto a Villa Giulia, prese il galoppo al completo, traversò il Tevere a ponte Milvio e riparò in Toscana. Berthier lasciò al Papa una guardia di 500 uomini e congedò tutti gli altri. Sciolse il reggimento i cui soldati avevano ucciso Duphot e ne fece radere al suolo la caserma. Poi chiese e ottenne dodici ostaggi e li diede in custodia alla polizia d’occupazione, messa agli ordini del generale Leclerc, marito di Paolina Bonaparte, la quale in seguito avrebbe sposato proprio uno degli ostaggi, don Camillo Borghese. La “vengeance” proseguì coll’intimazione del pagamento di sei milioni e d’un grosso risarcimento alla famiglia Duphot, seguiti dall’invio a Parigi d’un’altra quantità di opere d’arte e d’una delegazione per chiedere perdono alla Repubblica, mentre a Roma si dovevano erigere due monumenti funebri alla memoria di Bassville e Duphot, corredati dalle solite altisonanti iscrizioni contro la tirannia e il dispotismo. Subito dopo, il 15 febbraio 1798, i Francesi instaurarono a Roma una Repubblica, la Repubblica Romana. Distinta dal tricolore nero, bianco e rosso, aveva un nome riecheggiante le più classiche figure della virtù repubblicana, da Cincinnato a Bruto, alle quali la Rivoluzione dichiarava di rifarsi, ma fu soprannominata dai Romani “La Repubblica per ridere” e vide le sue cerimonie regolarmente fischiate. Intanto però Massena, appena succeduto a Berthier, il 20 febbraio faceva arrestare Pio VI, inviandolo in Toscana, dove fu alloggiato a Siena. Da là, una volta invaso il Granducato nel marzo del ’99, le autorità francesi l’avrebbero spostato a Bologna, contando sulla reazione popolare d’una città considerata anticlericale. Non funzionò. Appena fu mostrato in pubblico, i Bolognesi acclamarono tanto il Papa da indurre il Direttorio a spostarlo di gran carriera in Francia e nel più profondo segreto. Vista la calda accoglienza avuta a Grenoble benché ce l’avessero fatto arrivare apposta in piena notte, lo confinarono a Valence, dove morì il 29 agosto 1799. A quella data la Repubblica Romana in pratica era già scomparsa. Assorbite in marzo le repubbliche Tiberina ed Anconitana e meno effimera di quella Napoletana solo perché riuscì a vivere per un anno abbondante, a partire dal febbraio del ‘98 la Repubblica Romana si dotò d’un proprio esercito. Era necessario perché, dieci giorni dopo la proclamazione della Repubblica, i Trasteverini erano insorti. Al grido “Viva Maria e viva il Papa!” avevano assalito i soldati francesi, preso Palazzo Santa Croce e, colle armi trovateci, avevano incominciato a combattere per le strade, prendendo e fucilando i Giacobini più noti. Il comandante francese di Roma, generale Vial, aveva represso facilmente 205
quel moto disorganizzato, riuscendo a catturare oltre duecento sollevati e facendone fucilare ventidue in piazza del Popolo. Però i Francesi non potevano distogliere truppe a guardia dell’ordine interno e perciò, come tutti gli eserciti d’occupazione in uno Sato fantoccio, misero in piedi una Legione Romana, due reggimenti di Gendarmeria e un corpo di cannonieri guardacoste, appartenente però alla Marina, organizzando altri reparti a livello di battaglione nei dipartimenti del resto dell’ex-dominio papale.150 Queste truppe, che non superarono mai i 5.000 uomini, se pure ci arrivarono, sarebbero state prevalentemente adoperate in funzione anti-insorgenza, oggi diremmo antipartigiana, nel Lazio e, al momento dell’arrivo dei Napoletani, tramutati i gendarmi in cavalleria, avrebbero cercato di contrastarne l’avanzata, affiancando i Francesi senza alcun successo. II) La guerra napoletana del ‘98. A Napoli Ferdinando IV e, soprattutto, Maria Carolina, non erano per niente disposti a darsi per vinti. I preparativi militari continuavano, anche se meno frettolosamente, il che però non significava fare le cose meglio. L’esercito napoletano ascendeva ormai a 50.000 uomini e si preparava a marciare contro i Francesi. Leoben e specialmente Campoformido raffreddarono le smanie belliciste della Regina. Se l’Austria abbassava le armi, non si poteva scendere in campo da soli. Per il momento era meglio aspettare. Da parte sua la Francia non faceva nulla per farsi ben volere, però l’Austria stava preparando 60.000 uomini, ai quali la Russia ne avrebbe aggiunti 20.000; l’Inghilterra avrebbe pensato alla flotta ed ai rifornimenti in armi, denaro ed equipaggiamenti: bastava attendere un po’; ma siccome Maria Carolina non poteva né voleva aspettare, le cose presero un altro andamento. Il 2 settembre 1798 fu ordinata una leva, poco riuscita, di 40.000 uomini per completare l’organico dei corpi e, bene o male, in ottobre 50.000 soldati napoletani erano alle frontiere settentrionali del Regno, pronti a entrare nel Lazio. Davanti avevano circa 15.000 tra Francesi, Cisalpini e Romani: sulla carta la partita era vinta. Il 22 novembre re Ferdinando (Dio guardi) pubblicò un manifesto in cui ricordava tutti i mali causati dalla Rivoluzione Francese, non ultimi l’occupazione di Malta, la fuga del Papa e la minaccia continua contro la Religione Cattolica, e affermava di doversi porre alla testa dell’esercito per entrare negli Stati Romani e rimettere il Pontefice sul trono. Non dichiarava guerra a nessuno, ma esortava le truppe straniere a non ostacolare le sue, che non avevano intenzione di avanzare più dello stretto necessario a riportare l’ordine e la pace. Contemporaneamente il Ministero degli Esteri di Napoli spedì lettere a quelli di tutti gli Stati italiani esortandoli a entrare in guerra. Scartando ogni regola militare, anche perché il piano era stato preparato a Vienna e quindi era buono per definizione, il comandante supremo napoletano, Mack, austriaco, ebbe l’inopportuna idea di dividere l’esercito in cinque parti, tre principali e due distaccamenti, affidando ad ognuna una diversa direttrice di marcia e d’attacco. Non era una buona mossa perché così gli inesperti soldati napoletani perdevano il vantaggio della superiorità numerica sui più addestrati francesi. Questi ultimi erano in pessime acque. Rendendosi conto di quanto rischiavano, avevano incrementato le loro forze nel Lazio a circa 23.000 uomini, tra i quali gli Italiani della 2ª e 7ª Legione Cisalpina e dell’appena costituita Legione Romana, ma avevano mediamente 15 cartucce per soldato, poca artiglieria e meno salmerie, comunque inutili visto che i loro magazzini erano vuoti. In queste condizioni il generale Championnet avrebbe avuto l’abilità di profittare di ogni errore dell’avversario per cambiare una sicura disfatta in un’inattesa vittoria. 150 Non si sa però se sia stata eseguita la disposizione in tutti i dipartimenti. Per certo in Umbria vennero costituiti i battaglioni
dipartimentali a Perugia e Spoleto, fuori dell’Umbria a Loreto e nel resto delle Marche.
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Il centro napoletano, con Mack e il Re, passò il confine il 23 novembre sotto una pioggia scrosciante e marciò verso nord su due colonne, passando per la Ciociaria. Ad Albano si ricongiunse alla sinistra e insieme marciarono su Roma. Championnet, ricevuta l’intimazione di resa, mise un presidio in Castel Sant’Angelo e si ritirò a Civita Castellana. La mattina del 25 novembre 1798 un colpo di cannone seguito dal rullo della “generale” nelle strade svegliò i Romani: il nemico era alle porte. L’Armata del Re (Dio sempre feliciti) stava arrivando e, mentre il governo repubblicano partiva per Perugia, i Romani erano chiamati da Championnet a mostrarsi degni della Libertà e della Repubblica. Un altro proclama, emanato dal generale Piranesi, comandante la Guardia Nazionale, incitava i cittadini a battersi con coraggio e ordinava a tutti i parroci di render conto ogni sei ore di quanto accadeva nelle loro parrocchie e di legare le campane delle chiese perché erano abolite tutte le cerimonie religiose. Tutti i cittadini dovevano inalberare la coccarda tricolore sugli abiti o sul cappello pena l’arresto; poi era fatto obbligo ai frati di restare in convento e si minacciava il giudizio militare sommario ai delinquenti; infine tutti i Romani erano chiamati alle armi per salvare la Patria in pericolo: se ne presentarono 500. Alle tre del pomeriggio l’armata napoletana entrò tranquillamente in città accolta dalla folla esultante e dalle campane a stormo. Roma Giacobina era temporaneamente finita, cominciava la liberazione. Il primo atto della liberazione fu la caccia ai Giacobini da parte dell’appena giunta polizia napoletana e della risorta polizia pontificia. Il secondo atto fu l’assedio di Castel Sant’Angelo. Il presidio francese reagì a cannonate, poi, vista la mala parata, si arrese anch’esso. Nel frattempo la destra napoletana aveva lasciato il Regno puntando alla costa marchigiana e le navi inglesi avevano imbarcato a Napoli la divisione del generale Naselli, forte di 4.500 uomini destinati a prendere terra a Livorno per tagliare la ritirata a Championnet. Avanzando quasi alla cieca e senza coordinamento, le colonne napoletane vennero tutte battute, a Fermo, a Terni e a Civita Castellana,151 costringendo Mack a ripiegare e ad abbandonare Roma. Era il 10 dicembre 1798. Era però rimasto staccato dal grosso fra Roma e Viterbo il corpo del generale Damas. La sera del 13 dicembre lo raggiunse un ordine di Mack, datato 10, che gli intimava di trovarsi la mattina del 12 sulle alture di Velletri, cioè: secondo il suo superiore, il giorno prima lui sarebbe dovuto essere circa 80 chilometri a sud di dov’era in quel momento. Si mise in moto ed arrivò a Roma dove trovò i Francesi. Invertì la rotta e con una marcia brillantissima riuscì ad evitare d’essere accerchiato dal nemico, battendolo più volte e rifugiandosi a Orbetello il 20 dicembre. Concluse poi una capitolazione molto onorevole e poté imbarcarsi con tutti i suoi per Napoli. La campagna del 1798 per lui era finita. Nel frattempo Mack era rientrato nel Regno coll’esercito a pezzi e tallonato dai Francesi; e le cose continuarono così male che Ferdinando lasciò Napoli per Palermo e i suoi plenipotenziari conclusero coi Francesi un armistizio a Sparanise il 12 gennaio 1799, il che consentì la creazione della Repubblica Napoletana e il principio della guerra partigiana e della reazione borbonica. Nel frattempo i Francesi,, rientrati a Roma si comportavano come tutti gli eserciti d’occupazione: consegna entro due ore di tutte le armi; requisizione di tutti i mezzi di trasporto, necessari al proseguimento dell’offensiva verso sud; obbligo ai legionari romani che non avevano seguito la ritirata di novembre di presentarsi in Castello entro 24 ore, condanna a morte dei sediziosi, alla prigione a vita per gli allarmisti; obbligo agli esercenti di riferire alla polizia quanto sentivano dai loro clienti e di denunciare quelli che parlavano contro il regime repubblicano.
151 Dove coi Francesi combatterono circa 2.000 uomini della Legione Romana..
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III) La resistenza della Tuscia Il 19 dicembre 1798 i Francesi autorizzarono il ritorno del governo romano da Perugia. Il 20 la Guardia Nazionale fu armata con 6.000 fucili ex-napoletani preda di guerra, fu riorganizzata sulla carta in tre battaglioni attivi e il 23 sfilò con banda e bandiera da piazza Venezia a piazza del Popolo per accogliere il ritorno dei consoli da Perugia, ma, siccome erano in ritardo, bisognò ripetere la cerimonia il giorno dopo. Il 24 dicembre l’aiutante generale Piranesi cedette il comando dei sedentari romani al maggiore Lasagni e il 29 fu notificata la loro chiamata in servizio attivo. Il 31 dicembre venne organizzata una commissione d’epurazione per valutare il comportamento dei dipendenti pubblici durante l’occupazione napoletana. Intanto Civitavecchia, Orvieto e varie zone della Tuscia, cioè l’ampia zona a nord di Roma che si identifica coll’antica Etruria Meridionale erano insorte contro la Repubblica, le cui truppe, agli ordini del polacco Giorgio Grabowski, furono spedite a rastrellare la Val Tiberina e la Val Nerina con cinque battaglioni, il 1° legionario e i quattro di reclute del Trasimeno, Clitunno, Cimino e Tevere. A Orvieto il 9 dicembre i dragoni romani erano stati respinti a fucilate dal posto di blocco di insorti e sbandati napoletani al ponte sotto la rupe. Vista l’inaccessibilità della città e la robustezza delle sue mura. i Romani si erano limitati a bloccarla. Il 14 dicembre era giunto loro un piccolissimo rinforzo di 36 fucilieri della 30ª Mezza Brigata francese e di 100 patrioti romani, così indisciplinati e inefficienti che due giorni dopo furono rispediti a casa. Poi arrivò Grabowski col grosso e respinse una sortita dei difensori. Servì a poco. Due giorni dopo gli assedianti furono circondati dagli insorti dei paesi vicini e costretti a fucilate a fuggire verso il lago di Bolsena. Arrivato a Montefiascone, Grabowski attaccò Celleno disperdendo altre bande d’insorti e, per garantirsi la ritirata su Roma, staccò il battaglione del Trasimeno lungo la Cassia verso sud, oltre Viterbo, su Ronciglione. Poi, il 7 gennaio 1799, i Repubblicani espugnarono a cannonate Nepi, col solito seguito di stragi, saccheggi e stupri di cui è costellata la cronaca delle liberazioni repubblicane di quel tempo.152 Bloccata di nuovo, Orvieto negoziò la resa il 10 gennaio 1799, ma l’8 marzo, la popolazione, esasperata dalle vessazioni, espulse le autorità repubblicane e il presidio francese. Stavolta si preferì lasciar perdere le armi e il 18 si venne a un accordo, che vietava tra l’altro lo stanziamento in città di truppe estere. Intanto si era ribellata Ciciliano, trucidando 17 sedentari tiburtini. Il 18 marzo vi fu mandato in ricognizione il capitano Borgia, reduce dall’aver appena devastato Nepi e il 21 arrivarono a riconquistare Ciciliano 150 legionari e 18 civici romani. Dopo un paio di scontri abbastanza cruenti nei giorni successivi, i Repubblicani riuscirono a riprendere il controllo del paese, lasciandoci un presidio di 60 uomini. Dimostratosi un fedele ed efficiente repressore, Borgia poi venne spedito al Vivaro, saccheggiando strada facendo Vallinfreda. Ne seguirono scontri e fucilazioni in tutta la Sabina, a Oricola, Arsoli, Subiaco e Roviano. Verso il mare le truppe francesi e romane si dovettero occupare di Civitavecchia. Sgomberata dai Napoletani di Damas il 15 dicembre 1798, la città si era rivolta agli Inglesi e aveva respinto l’accordo proposto da Roma, perciò il 1° febbraio 1799 arrivò dall’Urbe il generale francese Merlin con 2.400 uomini, metà francesi e metà guardie nazionali romane, sostenuti da un reparto di dragoni. Civitavecchia mise 700 uomini sulle mura e aprì i magazzini di polvere e palle. Il 2 febbraio si cominciò a sparare e fu assediata da terra la città, che, grazie ai depositi della flotta pontificia aveva tante di quelle armi e munizioni da far apparire l’impresa se non disperata almeno lunghissima. Si cercò di far qualcosa dal mare, ma i Civitavecchiesi reagirono con successo anche là. A fine febbraio si ebbe una mezza trattativa che non portò a nulla. Dopo un lungo quanto quasi innocuo bombardamento della città, la notte dal 3 al 4 marzo Merlin tentò un attacco con 2.500 uomini, ma il tiro 152 Massimo d’Azeglio riferì nelle sue memorie che, circa 25 anni dopo, il parroco di Castel Sant’Elia, due chilometri fuori
Nepi, gli raccontò d’essere stato l’unico sopravvissuto alla fucilazione di massa di tutti gli uomini del borgo nel 1799, perché la scarica non lo uccise e, una volta partiti i Giacobini, poté trascinarsi fuori dal mucchio dei cadaveri e trovare un rifugio.
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incrociato dei cannoni e dei fucili lo respinse facilmente. Si tornò a trattare e il 6 marzo la città accettò di capitolare a condizioni abbastanza buone. Il passo seguente fu contro Tolfa e Allumiere, due paesini sulle alte colline – i Monti della Tolfa – fra il mare e la via Cassia. Furono distrutti il 14 marzo da 1.500 francesi. Allumiere, di strada per arrivare a Tolfa, fu assalita e devastata per prima. A Tolfa la gente si arroccò nel vecchio castello. I Francesi attaccarono portando delle torce accese e incendiando tutto ciò che incontravano, ma i difensori continuavano a sparare dai tetti finché non precipitavano inghiottiti nei roghi sottostanti. Il castello sparò sino a mezzanotte. All’alba offerse la resa, ponendo condizioni che i Francesi giudicarono ridicole, perciò le respinsero, saccheggiarono e bruciarono quanto era rimasto, poi attirarono tutti i difensori alla segheria con la promessa di salvar loro la vita se consegnavano le armi e, davanti alla chiesa della Madonna del Sughero, li fucilarono a gruppi, tutti meno quelli che ritennero adatti ad un’esecuzione più plateale a Roma, per dare un esempio. Si contarono 145 caduti e fucilati contro 33 morti (incluso un capitano) e feriti francesi. Il 16 marzo un proclama agli abitanti del Cimino contrappose la clemenza usata a Civitavecchia al rigore contro Tolfa, lodando Corneto – Tarquinia – Monteromano, Bracciano, Santa Severa, Toscanella – cioè Tuscania – e Vetralla per essersi arrese. Il 26 aprile 500 legionari romani sostituirono il presidio francese di Civitavecchia. In giugno le cronache locali già li bollavano come “altrettanti ladri.”
IV) Le insorgenze Come si vede e come continueremo a vedere, non solo al sud ci si ribellò ai Francesi e ai loro collaboratori. La Santa Fede meridionale fu il caso più clamoroso, ma non il solo, di sollevazione popolare armata contro gli invasori. Non è troppo difficile chiarire quanto avvenne, perché le sollevazioni di allora, chiamate di solito “insorgenze”, ebbero un unico fine comune: cacciare e distruggere lo straniero invasore, ladro, ateo e spregiatore della religione. Trattandosi di moti popolari scattati in zone appartenenti a Stati diversi, è chiaro che all’inizio mancò il coordinamento geografico, operativo e temporale; ed è chiaro quindi che, senza un appoggio esterno come poi si ebbe nel 1799, non poteva avere successo quella che fu a tutti gli effetti una lotta partigiana, la prima Resistenza di tutta l’Italia contro un invasore straniero, per molti versi assai simile a quella fatta dai Russi nel 1812 e a quella italiana del 1943-45. Le insorgenze furono bollate per lungo tempo come rigurgiti oscurantisti e lasciate il più possibile nel dimenticatoio. Occorreva rimuoverle dalla memoria nazionale, perché ciò che era accaduto in Italia tra il 1796 ed il 1815 era ben diverso da quanto si è fatto credere per due secoli. Tradizionalmente si sostiene che l’arrivo dei Francesi abbia portato nella Penisola dei netti miglioramenti in ogni campo della vita civile, limitando l’invadenza clericale, liberando le coscienze, aprendo la via alla libertà religiosa e politica e razionalizzando ed umanizzando la condotta degli affari pubblici. In realtà, durante tutto l’arco del XVIII secolo, l’Italia era già stata una fucina di riorganizzazione della pubblica amministrazione secondo i criteri più moderni ed avanzati. Solo che nessuno se ne accorse perché non vi furono Illuministi che la propagandassero come in Francia e perché la Penisola, frazionata com’era, non poteva presentare un panorama univoco e compatto, ma appariva come un frastagliato insieme, con luci ed ombre, in cui l’ombra maggiore, data dal potere pontificio a Roma, sarebbe stata poi sistematicamente presa a pretesto per definire l’Italia terra d’oscurantismo e dominio dei preti. Questa definizione però non solo non si può applicare al Settecento italiano, ma non era nemmeno nelle menti di chi in quel secolo visse, dentro e fuori d’Italia. La cultura italiana, in tutti i suoi aspetti, e specialmente in quelli di riforma politica, veniva valutata, e dalle massime autorità in questo campo, dagli stessi Enciclopedisti, come un insostituibile punto di riferimento. Basti pensare all’eco che opere come 209
Dei delitti e delle pene di Beccaria o Le osservazioni sulla tortura di Verri ebbero in tutta Europa e al fatto che però produssero effetti concreti quasi solo in Italia. Per i canoni dell’epoca, l’Italia del Settecento era la terra della tolleranza, specialmente in materia religiosa; magari spesso era noncuranza, ma il risultato era lo stesso. Se è vero che i Protestanti potevano raggiungere i massimi gradi militari in quasi tutti gli Stati italiani, che gli Ebrei vi erano trattati in modo non uniforme, andando dalla non ammissibilità nel Regno delle Due Sicilie, attraverso il confino nel Ghetto di Roma, fino alla totale libertà di cui godevano a Livorno, sappiamo pure che accadevano cose straordinarie, almeno agli occhi degli altri Europei. Già nel 1714, il domenicano padre Labat, parlando dei galeotti turchi della flotta pontificia aveva scritto: “...per quanto riguarda la religione non sono affatto molestati”CXXXIV e a questa considerazione faceva eco ottant’anni dopo un’altra, del presidente Du Paty che, scrivendo a proposito dei galeotti turchi della squadra genovese nel 1790, avrebbe osservato come ad essi la Repubblica aveva consentito addirittura l’erezione di una moschea in Genova, mentre, rimarcava, nello stesso periodo i Protestanti in Francia non avevano nemmeno un tempio. Sempre padre Labat, a proposito della scoperta d’un caso di falsa conversione alla fede cristiana da parte di un galeotto turco della squadra pontificia, aveva scritto che il reo in Spagna o in Portogallo sarebbe stato messo al rogo, mentre negli Stati del Papa ci si era contentati di dargli un sacco di legnate e rimetterlo in catene; il che, dati i tempi e il luogo, era considerabile come il massimo della tolleranza. Tutto questo naturalmente non significa che l’Italia fosse all’avanguardia in tutto e dappertutto; non lo era, ma in Francia non si stava meglio, anzi, certamente peggio; e se le opinioni su questo non concordano, vuol dire che a distanza di secoli la macchina propagandistica della Rivoluzione riesce ancora a funzionare, facendo prevalere la propaganda sui fatti. Allora, la Rivoluzione cosa portò? Lumi no, perché già ce n’erano, anche se nessuno li chiamava così. E allora cosa? La Rivoluzione impose l’ateismo, inoltre portò, a chi non l’aveva – nobiltà non dominante e borghesia – la possibilità d’impadronirsi del potere politico, almeno in prospettiva. Niente di più niente di meno. E il popolo? Il popolo non ritenne di guadagnarci nulla, proprio nulla; anzi, ebbe solo tasse e coscrizione obbligatoria. Non gradì la presenza dei Francesi e lo dimostrò reagendo violentemente, sollevandosi e combattendo appena ne ebbe la possibilità. In tutta l’Italia una sola città aveva accolto i Francesi con applausi scroscianti: Milano. Nel resto della Penisola Napoleone e i suoi uomini furono visti e accolti come invasori, ladri e antireligiosi. Ne fanno fede le sollevazioni che si verificarono fin dalla primavera del 1796. Pavia e parte della Bassa lombarda si ribellarono in maggio per l’esosità delle imposizioni; e furono saccheggiate. Il Veneto si oppose – si pensi alle Pasque Veronesi – ai ladri atei, più perché irrispettosi della religione che per la loro rapacità. La rivolta della Valsabbia nel Bresciano, i “Viva Maria” in Toscana, le bande armate in Piemonte nel 1799, i volontari marchigiani che chiedevano l’arruolamento nell’esercito pontificio nel 1798, le insurrezioni negli Stati Papali contro l’occupante francese, la resistenza armata di Napoli contro le truppe di Championnet, la guerriglia antifrancese che avrebbe devastato a più riprese l’intera Italia Meridionale fra il 1799 e il 1808, la vittoria dei Sanfedisti, la rivolta della Calabria furono i segni tangibili dell’insofferenza della popolazione italiana nei confronti degli occupanti Francesi e dei loro seguaci. Ora, se erano nemici dei Francesi tanto la classe dominante – sovrani ed aristocrazia – quanto il popolo, chi erano i partigiani dei Francesi? E perché lo erano? E’ esemplare il caso di Brescia, dove nobili e popolo si unirono per far cadere il potere veneto ed erigere la Repubblica; ma quali nobili e quale popolo erano? I primi erano gli aristocratici locali, i nobili di Terraferma che, in quanto non patrizi veneziani, erano completamente esclusi dalle maggiori cariche pubbliche della Serenissima, cioè dall’esercizio effettivo del potere politico. I secondi non erano la plebe, il “popolo basso”, ma i borghesi, gli artigiani danarosi, i commercianti, gli avvocati e i medici dotati di influenza e beni; gli intellettuali istruiti, ma spesso senza cultura ed idee proprie, benché con molte opinioni prese in prestito, privi del potere come della possibilità di ottenerlo in futuro. E nel momento in 210
cui andò in crisi la rigida struttura politica che fino allora non aveva consentito loro di afferrare neanche una piccola parte di potere, eccoli schierarsi coi Francesi perché, alleandosi ai vincitori, potevano ottenere quello che cercavano. E’ vero che Napoleone avrebbe popolato la Penisola di stati-fantoccio, la cui indipendenza non esisteva al pari della loro volontà, ma è anche vero che, per i borghesi e i nobili precedentemente esclusi dal potere, avere un minimo di voce in capitolo era meglio che non averne affatto. Non importava chi fosse il padrone, importava dominare, anche poco, purché si dominasse. L’avvento dei Francesi fu fondamentale perché aprì la prima fessura nel rigido corpo del potere politico regio e papale; e fu la fessura attraverso la quale si intravedeva ciò a cui si tendeva, perciò andava allargata con ogni mezzo. La borghesia del 1796 comprese rapidamente che il proprio potere, da non spartire con nessuno, specialmente colla troppo mutevole, incolta e influenzabile plebe, doveva essere difeso dagli strumenti più idonei; e il più efficace in assoluto era quello militare. L’esercito cisalpino/cispadano e poi Italico, come quello napoletano di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, fu a un tempo un’ottima strada per far carriera, la garanzia della continuità del regime e lo scotto da pagare all’Impero francese perché il regime fosse protetto contro i più potenti nemici esterni: l’Austria in primo luogo e le monarchie sabauda, borbonica e pontificia dietro ad essa, pronte a privare del potere la nuova classe politica. E il popolo? Beh, non era d’accordo e lo dimostrò a cominciare dall’estate del 1796. I primi moti contro i Francesi si verificarono già durante le operazioni intorno a Lodi. Pavia e il suo circondario, vittime di taglieggiamenti esosi si ribellarono in maggio. Napoleone impartì ordini severissimi. Nonostante la sicurezza mostrata, era sul filo del rasoio e non poteva permettersi interruzioni né del flusso dei rifornimenti di viveri e denaro, né degli oltre 17.000 uomini di rinforzo in arrivo dalla Francia. La repressione fu durissima; tutti i centri abitati refrattari furono occupati e saccheggiati. Ma era stato dato il via: le parti della popolazione che non guadagnavano nulla dall’avvento del nuovo ordine non erano disposte a pagare e basta. Tacitata la Lombardia toccò al Veneto. L’occupazione era stata strisciante e ipocrita. La gente comune aveva capito benissimo cosa stava accadendo ed era stata tenuta a freno a fatica, esplodendo alla fine nella rivolta delle Pasque Veronesi, dando ai Francesi il pretesto che ancora mancava per annientare la Repubblica di San Marco. Diverse le cause della rivolta della Valsabbia e della Val Trompia nel Bresciano. Qua il problema era accompagnato e inasprito da questioni di potere locale. Chi l’aveva detenuto fino all’arrivo dei Giacobini non accettava di vederlo in mano a gente che il giorno prima gli era politicamente inferiore. Lo spunto religioso ci fu e giocò un ruolo di primo piano, ma sarebbe fuorviante affermare che la questione fosse dovuta solo all’affetto per il defunto governo della Serenissima o all’avversione ai rivoluzionari atei. Sempre religioso, maculato qua e là di campanilismo, fu il motivo dei “Viva Maria” in Toscana. Agli Aretini nel 1799 non sarebbero piaciuti i Francesi e avrebbero preso le armi, collegandosi poi cogli Austro-Russi in arrivo. Si tacciò il movimento di antiebraismo, ma non era vero: il nemico non erano gli Ebrei in quanto tali, ma i Francesi e i loro sostenitori, dunque pure e solo quegli Ebrei che avevano sostenuto i Francesi. Le bande armate in Piemonte nel 1799 si formarono spontaneamente. Anche qui i contadini non apprezzavano i Giacobini. Nel corso della cosiddetta Guerra Sardica del ’98 fra il Piemonte e le repubbliche Ligure e Cisalpina si vide che parte dei borghesi erano a favore del nuovo, mentre i contadini e il popolo no. Se questi ultimi potevano limitarsi a fiancheggiare le truppe regie, finché ce ne furono, la partenza del Re e le requisizioni di viveri e bestie li inferocirono e li spinsero a rivoltarsi. Le insurrezioni negli Stati Papali contro l’occupante giacobino cominciarono presto. Intanto un chiaro sintomo d’avversione ai Francesi era stato dato dai numerosissimi volontari accorsi ad arruolarsi nelle truppe pontificie per la guerra del ’98; ma dopo la vittoria e l’occupazione le cose non migliorarono certo per i Francesi. 211
Rivolte sanguinose si accesero dovunque, ad esempio a Vignanello, feudo dei principi Ruspoli, da cui i Repubblicani furono in un primo tempo ricacciati, o ad Albano, dove si combatté duramente. Nel Lazio settentrionale fu incaricato il generale Kellerman di domare le resistenze di Ronciglione, sottomessa col ferro e col fuoco, e di Viterbo, durata a lungo e abbandonata dai Francesi per la necessità d’intercettare la divisione napoletana di Damas in marcia per Orbetello. Soltanto gli eventi del 1799 avrebbero riportato un po’ di calma, ripristinando il potere temporale del Papa fino al 1808. Di tutte le insorgenze, che furono una vera e propria resistenza armata nel senso novecentesco del termine, quella del Reame di Napoli fu la più dura e lunga. I Francesi erano riusciti a prendere Napoli, ma non a tenerla. Napoleone, sbarcato in Egitto, vi era stato inchiodato dalla flotta inglese con la vittoria di Abukir. Questo aveva indotto i coalizzati d’un tempo a scendere di nuovo in campo. L’Austria aveva armato e l’Inghilterra aveva organizzato un’alleanza comprendente i Borboni di Palermo, la Russia, la Prussia e la Turchia. Il piano strategico era semplice: la Francia sarebbe stata assalita su tutti i fronti. In Italia sarebbero arrivati un esercito austrorusso dal Trentino, uno russoturco dalla costa adriatica dopo aver preso Corfù e le isole Jonie ex-veneziane; uno anglonapoletano dalla Sicilia. Tutti si sarebbero riuniti in Alta Italia e, insieme, avrebbero varcato le Alpi e portato la guerra in Francia. Per quanto riguardava il Regno di Napoli l’impresa non sarebbe stata troppo difficile, perché al di fuori della capitale e di poche altre città, i Francesi non controllavano nulla. Forse tutto sarebbe potuto rimanere in bilico se a Palermo, insieme alle pressioni inglesi e alle notizie della reazione popolare infuriante dall’Abruzzo alla Calabria, non si fosse trovato anche un uomo disposto a rischiare in prima persona: Fabrizio Ruffo dei duchi di Bagnara, della Santa Romana Chiesa cardinale diacono del titolo di Sant’Angelo in Pescheria.153 Reso pratico di questioni militari dal suo passato incarico di responsabile della Marina Pontificia e “poiché tra’ consiglieri mostravasi ardente per la guerra.... il re gli diede incarico di andare in Calabria.... e, secondo i casi, avanzarsi nel Regno o tornare in Sicilia.”CXXXV Andò, comprese perfettamente la debolezza della Repubblica e dei Francesi e diede principio a una delle più violente e spettacolari guerre di popolo che l’Italia abbia mai visto. Sbarcato nel feudo di famiglia, a Bagnara Calabra, nel febbraio 1799, col prestigio del casato e della carica in brevissimo tempo radunò un numero così alto di armati – ex-soldati, banditi, popolani, contadini – che, pubblicato il decreto con cui Ferdinando IV lo nominava proprio vicario del Regno, decise di potersi dirigere a nord. Ebbe così successo che alla fine del medesimo febbraio del ‘99 le navi inglesi e siciliane sbarcavano a ritmo serrato agenti, ufficiali, uomini, armi e munizioni per allargare sempre di più la rivolta; 3.000 inglesi erano a Messina e Ferdinando di Borbone aveva rimesso in piedi in Sicilia un esercito di 18.000 uomini. Infine nello Stato Pontificio era scoppiata l’insurrezione armata contro i Francesi, obbligandoli a concentrare là i loro sforzi, nel timore di vedere tagliate le linee di comunicazione del loro corpo d’occupazione a Napoli, mentre l’Austria ammassava truppe in Trentino. A nord la campagna degli Austrorussi iniziò nei primi giorni di primavera e procedé in fretta e tanto bene che a fine aprile avevano preso Milano. Le ripercussioni sulla Repubblica Romana furono pesantissime.
V) La guerriglia in Emilia, Marche e Umbria: aprile Senza il controllo della Lombardia, Napoli era intenibile e i Francesi l’avevano imparato al tempo di Carlo VIII. Sapevano che, una volta entrati gli Austro-Russi in Lombardia, avrebbero dovuto abbandonare Napoli. Come? Poiché in mare dominava la flotta inglese, l’unica via di fuga era quella di terra; di conseguenza il 153 Ebbe il titolo di Sant’Angelo in Pescheria dal 1794, anno dell’elevazione alla porpora, al 1800; poi passò al titolo di Santa
Maria in Cosmedin fino al 1821, quando, da cardinale protodiacono, assunse quello di Santa Maria in via Lata, che tenne fino alla morte nel 1827.
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problema del generale Macdonald consisteva nel tenersi aperte le comunicazioni col nord, che da Napoli passavano necessariamente per Roma e poi, lungo la Flaminia, per l’Umbria e le Marche fino in Romagna, o, se fosse stato troppo tardi, per la Toscana. Dunque la presenza francese a Napoli dipendeva direttamente dal controllo dell’Appia, della Flaminia e della Cassia. Tutto stava a vedere quanto le si sarebbe riusciti a tenere. Alla fine di gennaio del 1799 la situazione in Umbria era già di per sé molto difficile. I Francesi e i loro sostenitori controllavano le città, ma i paesi erano tutti insorti e i partigiani minacciavano i centri maggiori, Il 1° febbraio 1799 una colonna di 250 francesi, cisalpini e spoletini mandata a soccorrere la guarnigione di Norcia fu minacciata dagli insorti ascolani, scesi su Arquata, mentre Terni veniva accerchiata dagli insorti della Valnerina che l’11 erano a Sant’Anatolia di Narco. Rinforzata Norcia, il generale Grabowski risalì il Nera con la colonna di Terni, espugnando e saccheggiando Papigno e Arnone e congiungendosi a Montefranco coi legionari e coi coscritti del Clitunno, giunti da Spoleto attraverso il passo della Somma. Un’altra colonna repubblicana, sempre da Spoleto, passò per la valle di Narco fino a Scheggino e Caselli, scese per la Valnerina incontro agli uomini di Grabowski, saccheggiò e incendiò il castello di Colleponte che aveva provato a non sottomettersi e impose una taglia di 600 scudi a Ferentillo, dove si congiunse con le altre due colonne. Poi furono attaccate due roccaforti dei partigiani: i castelli di Monteleone e di Stroncone, non lontani da Terni. I Francesi che si occuparono di Monteleone marciando da Norcia per Cascia, alla Ferriera trovarono il tempo di squartare i tre contadini che avevano dato l’allarme al castello. Poi proseguirono tranquillamente verso il Terminillo, sbloccando Rieti dagli insorti del Cicolano, bruciando il villaggio di Santa Rufina e raggiungendo Cittaducale. Stroncone resse a lungo, diciassette giorni. Mentre le forze repubblicane vi si accanivano, gli insorti in un solo giorno assalirono e distrussero tutti e undici i posti di collegamento con Roma tenuti dai dragoni romani, di cui ne uccisero un’ottantina. Mentre nella zona della bassa Sabina, fra Passo Corese e Tivoli, gli scontri investivano paesi piccoli e grandi, in Umbria i combattimenti aumentavano. Più a nord, in Emilia, la situazione dei Francesi cominciava a farsi sempre più grave. Il 6 aprile 1799 gli Austriaci avevano passato il Po tra Crespino e Cologna e di nuovo l’8 verso la foce; e l’insurrezione antifrancese dilagava nelle Legazioni. Iniziata con manifestazione di malcontento a Ferrara per la mancanza di pane, si ere estesa a tutti i centri medi e piccoli. Inizialmente i Franco-Cisalpini reagirono, ma ci riuscirono sempre meno man mano che l’insorgenza si allargava. A metà aprile gli insorgenti avevano Francolino e Pontelagoscuro, si erano impadroniti di tre cannoniere e 24 mercantili originariamente diretti a Venezia e avevano preso l’arsenale francese, contenente 170 cannoni, 10.000 fucili e 300 barili di polvere. Poi avevano passato il Reno, mettendo un avamposto a Malalbergo e tagliando la strada per Bologna, mentre il controllo delle coste passava agli Austriaci. Le bande insorte agivano lungo la linea del Reno e del Po di Primaro. Erano efficaci e pericolose e, come al sud, a volte non si capiva bene dove finisse l’interesse delinquenziale e dove cominciasse quello patriottico. Ad ogni modo il 19 aprile 4.000 insorgenti del conte Gardani e del maggiore Poli e 1.300 croati imperiali bloccarono Ferrara. Il presidio franco-cisalpino di meno di 2.700 uomini si sarebbe arreso il 24 maggio. Contemporaneamente gli insorti premevano sul Bolognese e sulla Romagna. Il 29 aprile a Cento intercettarono e respinsero una colonna francese che con 4.000 uomini da Bologna cercava di sbloccare e rifornire Ferrara. Un’altra colonna francese riuscì nell’intento, ma durò poco.
VI) La guerriglia in Emilia, Marche e Umbria: maggio Mentre Suvorov entrava a Milano, il 1° maggio gli Austriaci liberavano Reggio Emilia e il presidio francese di Romagna ripiegava su Bologna, lasciando piccole guarnigioni a Imola, Ferrara, Lugo, Faenza, 213
Rimini e Ravenna e nel Forte Urbano, destinate a cadere una dopo l’altra sotto la pressione terrestre delle bande e marittima delle flottiglia organizzata dagli Austriaci. Nel frattempo, il 5 maggio 1799, era insorta Arezzo dove si era formata l’”Inclita Armata Aretina”, che avrebbe avuto un ruolo di tutto rispetto nei successivi avvenimenti dell’Italia Centrale. Quando la ricevé a Napoli, questa notizia non fece che confermare Macdonald nella risoluzione già presa: andarsene. Preoccupato dall’andamento delle operazioni nel Nord Italia, già a fine aprile aveva rifiutato di staccare truppe in soccorso della Repubblica Napoletana e le aveva radunate a Caserta. Da là il 7 maggio cominciò la ritirata al nord, lasciando qualche guarnigione nelle fortezze maggiori e alla Repubblica Partenopea cinque settimane scarse di vita. Sapeva di dover fare in fretta perché i territori ex-pontifici a nord erano teatro di insurrezioni e scontri feroci e aumentava il rischio di vedersi chiudere la Cassia e la Flaminia davanti agli occhi. Due giorni dopo, il 9 maggio, gli Aretini a sud-ovest erano sulla linea da Radicofani a Montepulciano, a nord passavano la Consuma e si avvicinavano a Firenze e ad est facevano fuggire a Perugia i presidi francesi di Città di Castello e Cortona. Lo stesso giorno a Ravenna, il barone Giovanni Domenico de’ Jacobi, “incaricato e sovrintendente direttore delle buone popolazioni armate e da armarsi nello stato pontificio”, emanava un proclama incitandole ad armarsi e insorgere “a difesa, e a favore della religione e dell’augustissimo nostro sovrano”, per poi mettersi a disposizione del comando militare imperiale. Intanto Macdonald aveva traversato il Lazio e stava marciando verso nord più in fretta che poteva, ma il 13 e il 14 maggio i 4.000 uomini della sua avanguardia urtarono contro gli Aretini e furono respinti, per cui fu obbligato a lasciare la Flaminia prima di Perugia e a fare un complicato giro per raggiungere Firenze. Il 22 maggio Bologna, ancora occupata, era ormai circondata da bande partigiane a San Giovanni in Persiceto, Cento e Tossignano. I Repubblicani bolognesi continuavano a compiere rastrellamenti all’esterno, con arresti, uccisioni ed esecuzioni sommarie, ma con energia sempre minore. In Umbria, informato del prossimo arrivo degli insorti, tra il 21 e il 26 maggio il municipio repubblicano di Spoleto chiamò alle armi i “difensori della patria”, formò una colonna mobile per proteggere il trasporto in città del grano requisito nelle campagne e riparò alla meglio la Rocca Albornoziana e le Mura Urbaniane armandole con tutto quello che trovò, comprese le più vecchie spingarde. Contemporaneamente si era riaccesa la rivolta nella Valnerina, Norcia era nuovamente minacciata e le poche truppe repubblicane e francesi disponibili erano sparse fra Terni, Cascia e il Reatino e non potevano far nulla. In Romagna Ravenna fu liberata il 27 maggio; Forlì il 28, Rimini con uno sbarco, mentre gli insorti marchigiani cominciavano a chiudere Ancona, prendendo Camerino, Tolentino, Caldarola e Fabriano e calando da Rimini, Urbino e Fossombrone. Nell’ultima settimana di maggio Macdonald decise di spostarsi da Firenze verso il Po per cercare di contribuire a frenare gli Austriaci. Il 30 maggio intanto una colonna dell’Inclita Armata Aretina entrò nel Montefeltro e liberò Sestino, Pennabilli, Sant’Angelo in Vado e Belforte all’Isaurico. Il 2 giugno, più a sud, Città di Castello chiese segretamente di aderire alla nuova lega militare aretina, imitata da Gubbio e dai comuni feretrani, primi aderenti ad un’entità che alla fine delle operazioni avrebbe compreso 98 comunità, sia del Granducato che dello Stato Pontificio
VII) La guerriglia nel Lazio e la ritirata francese vero nord Mentre ardevano i combattimenti in Umbria, Marche, Romagna ed Emilia, l’area abruzzese e laziale per i Francesi non era meno pericolosa. Il 2 maggio una loro colonna in transito dall’Aquila a Rieti venne massacrata nelle gole di Antrodoco, mentre la Colonna Mobile della Sabina attaccava un campo di 600 insorti sul monte di Santa Scolastica, sopra Filettino, ma falliva e rientrava alla base per i piani di Arcinazzo. 214
Dalla fine di aprile gli insorti controllavano la via Tiburtina con un forte caposaldo nella zona del Vivaro. I Francesi lo assediarono e il 7 maggio annunciarono d’averlo distrutto, mentre in realtà l’avevano si e no neutralizzato, visto che i 50 uomini e due cannoncini di legno del presidio avrebbero resistito per mesi, prima di lasciare la fortezza indisturbati. A metà maggio la Colonna Mobile della Sabina, forte di 379 uomini sparsi tra Subiaco, Riofreddo e Vicovaro, vistasi circondata dalle masse partigiane sui Monti Ernici e Simbruini, prima lasciò Riofreddo senza averne avuto l’ordine e poi, il 18, rientrò a Roma. Intanto entrava in Ciociaria la “Massa Carolina” del marchese Rodio, “commissario straordinario di guerra e comandante generale dell’Armata Cristiana” con la consulenza del generale Clari, romano, unendosi alle bande del capomassa di Sora, il sanguinario Mammone, che aveva sulla coscienza la piccolezza di 340 omicidi. Il 21 Rodio entrò a Ceccano. Il 22 e 23 maggio il generale francese Garnier spedì al Vivaro altri 500 civici e legionari romani, la maggior parte dei quali disertò strada facendo, mentre la Repubblica riusciva ancora più o meno a riprendere Subiaco Veroli, insorta ai primi di maggio, era stata ripresa dai Repubblicani quando, il 14 maggio, fu imposto ai duecento più ricchi cittadini di Roma d’equipaggiare e mantenere in servizio un “patriota a cavallo” o “ussaro civico” per pattugliare di notte la città. Si ordinò poi la mobilitazione della Civica e, coll’ordine del 2 giugno 1799, si stabilì di riunire le compagnie in quattro mezze brigate, articolate su un insieme di dodici battaglioni, ciascuno di 100 granatieri e 800 fucilieri. La popolazione si spaventò – nessuno voleva combattere per una Repubblica collaborazionista i cui giorni erano contati – e il governo dové ribadire che le funzioni della Civica sarebbero rimaste limitate al servizio urbano. così facendo, però, non potendo usare i civici all’esterno, fu necessario cercare volontari, per le colonne mobili, promettendo sempre di più: il 6 giugno il governo garantiva viveri, soldo e vestiario; il 18 giugno le promesse arrivavano a includere pure le scarpe, la camicia e un premio d’ingaggio di sei scudi, più altri nove per ogni mese di servizio a Spoleto. Se queste erano le promesse, c’è da supporre che le truppe repubblicane romane mancassero del tutto o quasi dell’equipaggiamento di base e si capisce perché si dessero ai saccheggi.
VIII) La guerriglia in Emilia, Marche e Umbria: giugno Il 3 giugno 1799, per coprire la marcia di Macdonald da Firenze verso la pianura padana, il presidio francese di Bologna fece un’incursione lungo la via Emilia, taglieggiò Imola, cacciò da Faenza gli insorti, ma non si azzardò ad attaccare Forlì, messa in stato di difesa e presidiata dalla milizia pontificia, richiamata in servizio in gran fretta con tutti i suoi ufficiali e le uniformi papali. Il 7 giugno i Francesi sgombrarono Faenza, mentre 6.000 insorti romagnoli e marchigiani sostenuti dalle flotte alleate occupavano Pesaro e iniziavano a premere su Ancona, ributtando due controffensive francesi. Sei giorni dopo, il 13 giugno 1799, il cardinale Ruffo entrò a Napoli alla testa dei Sanfedisti e delle poche truppe regolari napoletane, russe e inglesi che li accompagnavano. Contro le intenzioni di Ruffo, la reazione antigiacobina fu spietata quanto lo erano stati i Giacobini e i Francesi verso la popolazione del Sud, specie in Puglia e in Calabria. Lasciate delle aliquote ad assediare i castelli di Napoli, arresisi il 22 giugno, le truppe della Santa Fede si volsero a nord e marciarono su Roma. Nel frattempo in Umbria la municipalità di Perugia si preoccupava. Il 12 giugno aveva costituito un battaglione di 600 volontari del Trasimeno e il 15 nominò una commissione per riattare le fortificazioni. Alla fine il presidio di Perugia, rinforzato da quelli ripiegati da Fratta e Città di Castello, arrivò ad avere alcuni pezzi d’artiglieria e 1.200 tra francesi, volontari, gendarmi, birri del corpo franco e guardia civica. A Spoleto era ancora tutto calmo, nonostante un primo allarme il 1° giugno. Gli insorgenti vi arrivarono solo il 15 giugno, bloccando la città da lontano. Gli scontri furono minimi e i Repubblicani ne profittarono per un rastrellamento a lungo raggio, saccheggiando Pissignano, San Gioacchino, Triponzo, Otricoli, Todi e Stroncone, con scontri armati a Campello, Trevi e Foligno. 215
Nelle Marche, l’11 giugno, si erano radunate a Pugliano le masse del Montefeltro da Pennabilli, Sasso, Monte Tasso, Monte Cerignone e, col rinforzo degli insorti romagnoli, il 15 bloccarono San Leo, tenuto da una guarnigione mista franco-cisalpina di oltre 200 uomini e 16 cannoni. Quattro giorni dopo, il 19 giugno, arrivarono sotto la fortezza il barone de Jacobi e i primi Aretini, seguiti da due cannoni pesanti, tre leggeri e alcune spingarde per proseguire l’assedio.
IX) La guerriglia nel Lazio in giugno e luglio A Roma intanto la situazione peggiorava di giorno in giorno. Insorta la zona litoranea del Monte Circeo, vi si mandò dall’Umbria il Battaglione del Trasimeno, ma metà dei suoi 400 uomini disertò prima d’arrivare a Roma e, una volta nell’Urbe, gli ufficiali reclamarono le paghe arretrate minacciando di assaltare il Campidoglio. Il Governo aveva intanto annunciato l’arrivo della squadra francese a Civitavecchia. E invece il 13 giugno vi comparvero le navi russe e turche, che bloccarono il porto. Per fronteggiare l’insurrezione del Circeo, il 16 giugno si fecero partire da Roma i sedentari, seguiti il 23 da truppe cisalpine e dalla Gendarmeria del Trasimeno, poi, l’indomani, 24 giugno, il governo della Repubblica venne assunto da un nuovo Comitato, che il 27 approvò una legge per accrescere le forze nazionali a 6.000 uomini. A sud intanto aumentava la guerriglia fra i Repubblicani e le Masse della Santa Fede, che si spingevano sempre più a nord risalendo per le vie Appia, prossima al Circeo, e Casilina, più vicina all’Appennino. Lungo quest’ultima le masse raggiunsero Anagni, bloccandola il 2 luglio, mentre il grosso sanfedista proseguiva subito e prendeva il paese seguente, Paliano. I Repubblicani e i Francesi fecero di tutto per riconquistarla e ci riuscirono il 3 luglio, ma ormai serviva si e no a rallentare l’avanzata dei Napoletani. Il 9 luglio i “patrioti volontari” che tenevano Ferentino, sulla Casilina a sud di Anagni furono travolti dagli insorgenti. L’indomani, 10 luglio, al capo opposto della Regione, sapendo prossimi gli Aretini, insorsero nuovamente Viterbo, Orvieto e tutto il Patrimonio di San Pietro. Davanti a questa ferale notizia, l’indomani, 11, il generale Garnier proclamò lo stato d’assedio in tutti i dipartimenti, sospendendo consolato, tribunato e corpi legislativi e assumendo tutti i poteri di governo, affiancato da un Comitato di Guerra e Finanza Il 14 luglio, respinti sempre più verso Roma lungo la Casilina, i Repubblicani dovettero evacuare Affile e si concentrarono nella difesa di Palestrina, già semicircondata. Gli scontri durarono fino ai primi d’agosto e richiesero tutto il fondo del barile che la Repubblica e i Francesi potevano raschiare: 200 uomini raccattati da tutti i reparti possibili. Intanto il generale Valterre era uscito da Roma con 500 uomini e otto cannoni diretto a Viterbo, ma il 27 luglio venne fermato dal capomassa Martinelli lungo la Cassia, vicino a Bassano di Sutri,154 non lontano da Sutri stessa. Respinti, i Francesi saccheggiarono e incendiarono il paese, accanendosi pure contro la non lontana Monterano L’uscita di Valterre aveva indebolito la guarnigione di Roma tanto da obbligare il governo a creare una milizia di riserva di 500 patrioti, in borghese e con bracciale tricolore, ai quali il 24 fu affidata la guardia delle porte. Ribattezzati 1° Battaglione Volontari, furono aumentati coll’arruolamento obbligatorio degli impiegati pubblici con meno di 45 anni di età, mentre a quelli più anziani fu imposta una tassa sostitutiva d’esenzione. Il 28 luglio, mentre a sud Rodio espugnava Alatri e raggiungeva poi Sora con 4.000 uomini, a nord Valterre, sempre avanzando lungo la Cassia, attaccò Ronciglione. Insorti e abitanti si difesero ad oltranza, combattendo casa per casa, ma furono presi alle spalle dai Giacobini locali usciti dai loro nascondigli. 154 Dal 1964 Bassano Romano.
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Seguirono tre giorni di saccheggio, in cui vennero dati alle fiamme 177 edifici.
X) La guerriglia in Umbria e Lazio: luglio e agosto Mentre in Emilia i presidii francesi si sganciavano in tutta fretta sotto la pressione degli Alleati, il 9 luglio Forte Urbano si arrese con 600 uomini e il 12 luglio capitolò San Leo, A metà luglio tutta la campagna e i centri minori dell’Umbria erano in mano agli insorti locali e all’Inclita Armata Aretina e i repubblicani avevano in pratica solo Perugia e Spoleto. Il 16 luglio, durante una ricognizione verso Magione, il comandante della guarnigione di Perugia, colonnello Breissand, cadde in un’imboscata al ponte della Caina ed ebbe ucciso il cavallo. Altre due sortite francesi, il 18 verso Foligno e il 21 verso Pian di Massiano, non furono portate a termine per la preponderanza delle forze insorte. Il 22 luglio, appresa la propria nomina a generale, Breissand, con 300 dei suoi 500 francesi, lasciò Perugia appena in tempo per non restarci chiuso dentro. Stavano infatti arrivando ben 12.000 fra Aretini, Castiglionesi, Cortonesi e veterani piemontesi immessi a forza nell’esercito francese nel 1798 e volontariamente passati in blocco – in 1.500 – al servizio toscano. Perugia fu bloccata e le si intimò la resa, fu respinta. Il 24 luglio il comandante francese di Perugia respinse la seconda intimazione di resa. Gli assedianti se la presero comoda e aspettarono fino al 28 per aprire il fuoco. La guarnigione non osò tentare sortite e, dopo altri scontri, nel pomeriggio del 3 agosto i Francesi lasciarono la città libera di accogliere gli Aretini e si chiusero assieme ai repubblicani più compromessi nella Rocca Paolina, che fu prontamente assediata da 6.000 uomini. A Spoleto ai Francesi non andò meglio. Difesa da 200 volontari locali e 100 soldati, con armi scadenti, era agli ordini del generale polacco Turski, che il 20 luglio ne uscì con una colonna, lasciando il comando della civica, della piazza e della rocca al colonnello barone Ancajani, lo sconfitto del Senio. Mentre Turski era fuori, le autorità cittadine decretarono la leva in massa il 5 agosto, ma vistesi deboli, nonostante il rientro di Turski il 7, il 9 decisero la resa e il 10 agosto ammisero in città gli Aretini e le masse della Valnerina e del Norcino Nel Lazio ai primi d’agosto le truppe sanfediste avevano preso Anagni, Palestrina e Zagarolo, battuto la retroguardia francese a Valmontone e il passo seguente lungo la Casilina sarebbe stato direttamente su Roma. La morsa si stava stringendo pure da nord. Garnier in persona il 4 agosto aveva condotto una colonna contro i 5.000 insorti viterbesi guidati dal capitano pontificio Bartolomeo Especo, ma si era dovuto ritirare. Era infatti giunta una colonna austro-aretina da Perugia che, entrata a Viterbo e lasciatoci un presidio, era scesa cogli insorti lungo la Cassia ed aveva colto in imboscata le truppe di Valterre, infliggendo loro perdite gravissime e obbligandole a rientrare a Roma il 6 agosto, per cui Garnier aveva potuto a malapena coprire la loro ritirata Nel frattempo Viterbesi e Aretini, giunti a Monterosi, avevano staccato un contingente a sinistra verso Civita Castellana e il 25 agosto ne ebbero la resa. La Flaminia e il collegamento francese con quanto restava in Umbria alla Repubblica Romana erano tagliati, Garnier adesso cercava disperatamente di guadagnare tempo. Mandò ad Albano la colonna comandata dal generale cisalpino Teulié, incaricandolo però di parlamentare col nemico in arrivo dalla via Appia. Intanto ne preparò un’altra composta da ussari civici, volontari e dal nuovo “Reggimento Indipendente” (detto anche “dei ladri” dai Romani, perché reclutato nelle carceri) forte di 200 cacciatori, per valersene come riserva tattica. Il 9 agosto i Sanfedisti provenienti dalla via Appia arrivarono ai Castelli Romani ed occuparono Frascati, dove il marchese Rodio e il capomassa Antonio Capraro rimasero in attesa della massa sanfedista del duca di Roccaromana, spiccando intanto dei distaccamenti verso Albano e Marino. Il 10 Garnier e il generale Santacroce uscirono da Porta San Giovanni con due compagnie francesi e tutte le residue truppe romane, marciando verso Albano; raggiunsero Teulié e lo inviarono a compiere una 217
manovra aggirante, ma l’artiglieria napoletana li obbligò a sospendere l’attacco e a ripiegare in disordine. Dieci giorni dopo Garnier fece un ultimo tentativo contro Albano con 3.000 francesi e romani. Ebbe fortuna e costrinse i Sanfedisti alla ritirata, prendendo loro tutta l’artiglieria, due bandiere e alcuni prigionieri, che furono regolarmente fucilati a Roma per aver osato combattere contro le forze del Progresso e della Libertà. Tre giorni dopo, il 23 agosto, gli insorgenti presero Rieti e si avvicinarono a Roma da est, lungo la Salaria. Si estesero alla propria sinistra, occuparono Monterotondo e il 9 settembre erano a Mentana. Accorso, Teulié riuscì a riprendere Monterotondo il 12, ma, non potendo tenerla, se ne andò senza dimenticarsi di saccheggiarla a fondo. L’indomani a Perugia vennero intavolati dei negoziati per la cessione della Rocca Paolina. Si protrassero per due giorni e, falliti il 15 agosto, i cannoni ripresero a sparare, mentre giungeva sotto la città il generale austriaco Klenau. La resistenza della Rocca durò fino al 29 agosto, quando la guarnigione capitolò cogli onori militari e la promessa dell’imbarco per la Francia. I 221 Francesi superstiti uscirono il 31, diretti a Modena. Nel frattempo nel Lazio settentrionale una colonna mobile francese saccheggiava il castello e il borgo di Bracciano prima di rientrare a Roma, inseguita e decimata dagli ussari ungheresi provenienti da Viterbo.
XI) Finale L’inquietudine del Senato fiorentino riguardo alle intenzioni dell’Inclita Armata Aretina portò a scioglierla per ordine del Granduca e a sostituirla cogli Austriaci. Pertanto in Umbria gli Aretini lasciarono Perugia il 5 settembre e vi furono sostituiti dagli Imperiali il 6. Davanti a Roma furono rilevati dagli ussari ungheresi quando le loro avanguardie erano ormai a ponte Milvio, mentre il 9 settembre, sul fronte sud, i Sanfedisti occupavano Velletri e il 15 rientravano ad Albano, subito saccheggiata, minacciando Marino, ultimo caposaldo repubblicano fuori di Roma. Ai Repubblicani non restava che il massacro o la resa. Ovviamente Garnier la stava già trattando cogli Inglesi, ma intanto assicurava i Giacobini romani con la massima serietà ed ipocrisia che la Repubblica Francese non avrebbe mai abbandonato l’Urbe e la sua Repubblica. Il 29 settembre 1799 la capitolazione venne firmata e, a differenza di Napoli, fu sostanzialmente rispettata. L’ingresso dei Napoletani a Roma avvenne l’indomani. Il maresciallo borbonico de Bourkhardt era decisissimo a non far entrare le masse per impedire qualsiasi saccheggio, per cui prima mise ad ogni porta cittadina dei forti reparti di truppa regolare, poi, il 30 settembre, entrò da Porta San Giovanni. Come avrebbero fatto la sera del 20 settembre del 1870 i Pontifici, dal 29 settembre Francesi e Giacobini si erano concentrati a piazza San Pietro, coi legionari romani a Sant’Andrea a Campo Vaccino. Il 2 ottobre i reparti francesi uscirono da Porta Cavalleggeri a bandiere spiegate e tamburo battente e andarono a imbarcarsi a Civitavecchia diretti a Marsiglia, insieme a parecchi Giacobini romani. Il primo atto dei Napoletani a Roma consisté nel riorganizzare la vecchia truppa civica, che il 3 ottobre rilevò la Sedentaria repubblicana, mentre la guardia della città veniva affidata dal generale Naselli, capo del governo provvisorio, a 450 granatieri russi aggregati all’Armata Cristiana, rinforzati l’11 ottobre da 1.200 uomini del Reggimento Real Alemanno chiamato da Palermo. Ovviamente i Napoletani arrestarono tutti i Giacobini sui cui riuscirono a mettere le mani, mentre le masse sanfediste venivano sciolte e le truppe regolari proseguivano attraverso l’Umbria e le Marche fino a congiungersi agli Austro-Russi. Dopodiché l’unica attività degna di nota svolta da loro consisté nel far ala e scorta al viaggio del nuovo papa Pio VII, appena eletto a Venezia e diretto a Roma. In realtà il ritorno del Papa non era in cima ai desideri dei Napoletani. Le autorità borboniche intendevano tramutare l’occupazione in annessione e non era un’idea tanto astratta. Ferdinando IV sapeva dell’esistenza di correnti di pensiero risalenti a un buon decennio prima della Rivoluzione, auspicanti 218
un’unificazione italiana. Grazie a chi e sotto chi non era stato detto; allora perché non sotto la Casa di Borbone-Napoli? Forse il progetto napoletano avrebbe funzionato se l’Austria non avesse avuto un piano simile, iniziato coll’occupazione delle Marche, dove, nel gennaio del 1800, cominciarono ad apparire manifesti in cui si nominava l’imperatore come “Principe”, nella cui vece agivano i generali austriaci, ai quali era pertanto dovuta totale obbedienza. CXXXVI D’altra parte il segretario di Stato cardinal Consalvi era stato già avvertito che l’Austria voleva le tre legazioni delle Marche; però un tentativo d’evitarlo ottenendo l’appoggio inglese non aveva portato a nulla, perché il plenipotenziario britannico, Erskine, aveva consigliato a Consalvi di subire il sopruso senza ratificarlo, così da poterlo impugnare in seguito. A questa invadenza austriaca si sommavano la presenza nelle Marche dei Russi e dei Turchi, dai quali Ferdinando sperava d’avere appoggio, ed un sommovimento rivoluzionario repubblicano contro tutti e a favore dei Francesi, tanto più forte quanto più concreta diveniva la possibilità d’un ritorno offensivo di Napoleone.
XII) Dopo Marengo L’inverno del 1799-1800 vide gli Austro-Russi padroni dell’Italia settentrionale e, in quanto tali, tentare di darle un assetto militare a loro favorevole: in Italia c’erano 140.000 austriaci, ai quali i Francesi, inclusi i depositi e le guarnigioni di Genova e della Provenza, potevano opporre solo 25.000 uomini. Poi Napoleone rientrò dall’Egitto, creò il Consolato e tornò in Italia. Il 14 maggio 1800 affrontò e batté gli Austriaci a Marengo, obbligandoli ai preliminari di Parigi del 28 luglio e alla pace di Lunéville del 19 febbraio 1801. Contemporaneamente aveva incaricato il generale Dupont della sicurezza del suo fianco destro, contro il quale gravitavano circa 40.000 uomini e cioè 15.000 austriaci del generale Sommariva, dislocati tra Ancona, Ferrara e Firenze, 12.000 toscani arruolati in fretta dal generale granducale Spannocchi, le migliaia di combattenti delle bande armate, specie aretine, e i lontani contingenti napoletani l’uno di Damas e l’altro presente come rincalzo in Abruzzo. Dupont avanzò su tre colonne direttamente in Emilia e in Toscana. La prima, comandata da lui stesso, batté le bande aretine e romagnole tra Lugo e Faenza, disperdendo le seconde, costringendo le prime a ritirarsi e a fortificarsi sull’Appennino tra l’Emilia ed Arezzo e delegando alla loro distruzione la seconda colonna, comandata da Mounier. Mentre questi assaliva e conquistava Arezzo, Dupont affrontava e sconfiggeva i regolari di Spannocchi a Barberino, entrando a Firenze il 15 ottobre 1800. La terza colonna, infine, puntò dalla Pianura Padana direttamente su Livorno per impedire agli Inglesi di rifornire gli alleati. Agli Austriaci non rimase altro che concentrarsi intorno ad Ancona prima di ripiegare verso nord, mentre i Napoletani, di nuovo fuori tempo, entravano in guerra facendo uscire da Roma i 10.000 uomini di Damas il 14 gennaio 1801, quando gli Austriaci si erano piegati alla sottoscrizione dell’armistizio. L’avanzata di Damas arrivò fino a Monte Riggioni, vicino a Siena. Là, fu assalito e sconfitto e fu chiaro che di guerra non era più il caso di parlare. I Napoletani tornarono a Roma, mentre Spannocchi si ritirava e le bande aretine scomparivano di nuovo. Napoleone, furioso, ordinò a Murat di accorrere in Italia e prendere Napoli. Mentre era ancora in marcia attraverso gli Stati Pontifici, Murat fu raggiunto a Foligno dal contrordine del Primo Console. L’interposizione diplomatica russa domandata da Maria Carolina aveva avuto successo e ci si doveva limitare a trovare un accordo pacifico coi Borboni, i cui soldati in quel momento erano ancora a Roma, benché il governo provvisorio d’occupazione fosse formalmente terminato il 30 settembre 1800, a un anno esatto dalla loro entrata in città. Le condizioni imposte da Bonaparte inclusero l’abbandono completo dei territori pontifici da parte dei Napoletani e degli Austriaci. I secondi se n’erano già andati; i primi lo fecero subito. La guerra era proprio finita con una piena vittoria francese. La Francia si circondava di Stati cuscinetto, ripristinando le repubbliche Ligure e Cisalpina, accresciuta di Mantova, e inglobava il Piemonte e il 219
Ducato di Parma. Per non lasciare il Duca senza un trono, gli si dava quello del nuovo Regno d’Etruria, costituito dal Granducato di Toscana e dalla sua porzione dell’isola d’Elba. Il Granduca Ferdinando, invece, in quanto Asburgo, era costretto a restare a Vienna, mentre l’Austria, a compensazione della Toscana, manteneva tutto il Veneto, l’Istria e la Dalmazia. Il trattato di Firenze del 28 marzo 1801 entrava in maggiori particolari, stabilendo la pace tra la Francia e il Regno di Napoli e assicurava a Parigi il controllo di tutta l’Italia, lasciando in vita, degli antichi Stati, solo il Pontificio, San Marino, le Due Sicilie e, ridotto alla sola Sardegna, quello dei Savoia. Paradossalmente, Napoleone aveva salvato lo Stato al Papa.
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Capitolo XVIII Pio VII e Napoleone Coll’arrivo di Pio VII, eletto il 12 marzo 1800 a Venezia155 e messosi subito in viaggio per Roma, la Santa Sede sembrò essersi in qualche modo riassestata. La sconfitta di Marengo aveva però inciso su quanto era stato restaurato a sud del Po, perciò il Papa riacquisì la piena sovranità solo su una parte dei suoi territori. Perse le Legazioni di Romagna, di Bologna e di Ferrara e, rimase solo con Marche, Umbria e Lazio, che avrebbe conservato dal 1802 al 1809, quando i Francesi avrebbero assorbito la parte tirrenica dello Stato nell’Impero, passando l’adriatica al Regno Italico. Per il momento, nel 1802, la situazione era quella che era e la Santa Sede cercò di rimettere le cose in ordine, accorgendosi ben presto di non poterlo fare per mancanza di denaro e per l’esistenza di problemi nuovi e inauditi. Il breve dominio francese del ’98 – ‘99 aveva portato novità come l’affrancamento degli Ebrei, visto ed accolto malissimo dalla plebe romana, un abbozzo di coscrizione obbligatoria, vista altrettanto male, e una generale spoliazione delle casse dello Stato e del patrimonio artistico. Sotto il profilo sociale, la situazione ritornò ben presto quella di prima. Gli Ebrei rientrarono nel Ghetto, le cui mura sarebbe state demolite soltanto di lì a circa quarant’anni e non senza contrasti da parte del popolo. La plebe accolse trionfalmente il Papa, parlò male dei Giacobini e si riadagiò nelle precedenti sicurezze. La spoliazione del patrimonio artistico era stata grave e sarebbe stata sanata solo dopo il 1814, ma per il momento ebbe una conseguenza inaspettata, perché Pio VII con una mossa d’orgoglio ordinò ai suoi archeologi d’organizzare un nuovo museo, per far vedere ai Francesi che, qualunque cosa portassero via, a Roma ne rimaneva sempre abbastanza da riempirne gallerie e gallerie. Gli archeologi scavarono e in pochissimo tempo portarono alla luce nel Foro talmente tante statue da poterne riempire un nuovo Museo, detto Pio Clementino, poi incluso in un’ala dei Musei Vaticani. Gli altri problemi da risolvere non erano pochi e riguardavano sia la difesa del territorio che la manutenzione delle infrastrutture, entrambe assai difficili da fare dopo il salasso del 1798-99, che aveva ulteriormente impoverito una popolazione e uno Stato il cui scarso circolante era già stato ridotto dalle spese di guerra straordinarie degli anni 1792-98. Non poté essere proseguita la bonifica delle Paludi Pontine iniziata da Pio VI, che avrebbe diminuito, se non eliminato, la presenza della malaria, che mieteva vittime fino alle porte di Roma, lasciando le campagne deserte e quindi incoltivate e improduttive. Un altro problema grave era quello dell’incontrollabilità delle coste. La nuova situazione politica italiana aveva dei risvolti strategici non indifferenti e del tutto inaspettati. Come un memoriale del 12 settembre 1805 sottolineava alla Congregazione Militare, la Repubblica di Venezia scomparendo aveva fatto decadere il trattato stipulato colle Reggenze Barbaresche, in forza del quale i pirati non entravano in Adriatico. Siccome l’Imperatore, impadronitosi di Venezia, non s’era curato di rinnovarlo, i pirati avevano cominciato a fare scorrerie pure sulla costa marchigiana, fino a pochi anni prima del tutto sicura. Inoltre le Nazioni europee avevano ormai stipulato tutte dei trattati colle Reggenze, le quali concentravano quindi le loro forze unicamente nella caccia ai legni pontifici e napoletani.
155 L’annuncio dell’elezione papale del cinquantottenne cardinale cesenate Gregorio Barnaba Chiaramonti fu ritardato al 14
marzo a causa del lutto per la morte del patriarca di Venezia.
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Scartata dopo una breve discussione l’idea che Pio VII potesse cercare un accordo cogli Infedeli, non in quanto capo della Chiesa ma solo come sovrano di uno Stato, perché le due qualità erano in lui inscindibili, non rimaneva altro da fare che armare una squadra navale. Era un problema grave, perché i Francesi avevano sequestrato tutti i legni utili alla spedizione in Egitto – due galere, otto barche cannoniere e due dei quattro lancioni esistenti – e nessuno era mai rientrato a Civitavecchia. Così, quando, a partire dal 1802, il governo papale cercò di riorganizzare una parvenza di Marina militare, decise di ripartire dal vecchio Piano di Marina. Approvato da Pio VI nel 1797 su proposta della Congregazione Militare, il Piano di Marina aveva riunito sotto un solo comando le forze di terra e di mare; ma ora, nonostante la buona volontà, la situazione, già poco allegra, era resa peggiore dal triste stato delle finanze papali. Mentre si creava la Guardia Nobile, si ricostituiva quella Svizzera e si organizzavano una coppia di reggimenti di fanteria, due compagnie d’artiglieria e tre squadroni di cavalleria, per un totale di 4.500 uomini delle forze di terra, sul mare si riuscì a rimettere in piedi solo una piccolissima marina di non più di 230 uomini. Poiché adesso ai pirati si sommavano i contrabbandieri, specialmente di sale, contro i quali la mancanza di denaro rendeva impotente lo Stato, i titolari dell’appalto del sale per le Marche chiesero e ottennero il permesso di armare in corsa un paio di trabaccoli. I due legni entrarono in campagna con una certa rapidità ed efficacia, almeno date le loro dimensioni. Riuscirono a sventare qualche incursione, a liberare delle paranze pescherecce minacciate ed a recuperarne due che erano state prese dai pirati. Quel poco di Marina che esisteva nel Tirreno costava poco, ma era sempre troppo per le finanze pontificie, il cui bilancio navale del 1804 prevedeva 25.750 scudi, mentre altri 25.480 Scudi nel 1804 e 22.623 nel 1805 andavano all’Esercito, composto sempre e solo dai due reggimenti di fanteria, da due e non più tre squadroni di cavalleria, un reparto d’artiglieria e dai militi delle Torri litoranee. CXXXVII Ai guai del dopoguerra si sommarono presto quelli della nuova guerra quando, liquidate Austria e Russia ad Austerlitz, l’ira di Napoleone si scatenò contro Ferdinando IV di Napoli e un’armata franco-italiana di 37.000 uomini si concentrò fra Bologna e Rimini nel gennaio 1806, mettendosi in moto verso la Campania. Colla scusa del passaggio attraverso gli Stati Pontifici, i Francesi arrivarono e si fermarono, demandando al generale Miollis il controllo su quanto vi accadeva, in modo da evitare sorprese. Così al peso finanziario eccessivo per le esauste casse pontificie si aggiunse un controllo francese sempre più capillare, pesante e paralizzante. Non era possibile attuare neanche il più piccolo provvedimento d’ordinaria amministrazione senza che passasse per le mani e la firma di Miollis. Questa era la risposta francese alla Chiesa che cercava di riassestare la propria autorità in Francia. Infatti il problema principale della politica degli Stati Romani non consisteva nella riorganizzazione degli affari interni, ma nella difesa della religione cattolica all’esterno, soprattutto in Francia. Quella era la questione principale ed a quella il Papa dedicava tutte le sue attenzioni ed energie. Già all’indomani di Marengo Napoleone aveva offerto di stipulare un concordato. I delegati pontifici – l’arcivescovo Spina e il servita padre Caselli – erano andati a Parigi, vi erano stati raggiunti dal cardinal Consalvi e, il 15 luglio del 1801, aveva firmato il concordato, ratificato a Roma il 14 agosto seguente con la bolla Ecclesia Christi. Adesso il Papa poteva illudersi che le cose sarebbero tornate come prima. Ancor più si illuse quando la domenica di Pasqua del 1802 Napoleone si recò in Nôtre Dame cogli altri due consoli ed annunciò ufficialmente il ripristino della religione cattolica in Francia. Ma Pio VII sbagliava, perché l’agnostico Napoleone vedeva la religione solo come un mezzo per tenere tranquillo il popolo ed attribuiva al Papa una potestà puramente simbolica, tant’è vero che l’aveva dichiarata “religione della maggior parte dei Francesi” rendendone libero il culto, ma equiparandola, nei fatti, a tutte le altre religioni, i cui culti erano ugualmente consentiti, nello stile del miglior sincretismo massonico. 223
Pio VII se ne accorse quando apparvero a Parigi i cosiddetti “articoli organici” al concordato, che di fatto sottomettevano la Chiesa di Francia allo Stato. La sua reazione fu lenta, ma non per questo meno decisa. Se ne dolse pubblicamente con un’allocuzione ai cardinali, dicendo che ne avrebbe chiesto la ritrattazione o l’annullamento. Quando Napoleone gli chiese di venire a incoronarlo imperatore a Parigi in cambio della modifica degli articoli organici, Pio rimase perplesso e alla fine accettò, sperando che la sua disponibilità sarebbe andata a vantaggio della Chiesa. Non fu così. Napoleone aveva bisogno del palese avallo ed appoggio pontificio per fare presa sulla massa del popolo francese, cattolico da sempre, al quale non erano bastati dodici anni di rivoluzione e di ateismo imposto dall’alto per abbandonare la fede; ma certo non si sognava di ridare al Papa il potere che la Rivoluzione gli aveva tolto così a fatica. Perciò, ottenuta la presenza del Pontefice in Francia e l’incoronazione il 2 dicembre 1804, il nuovo imperatore ritenne chiusa la questione e superato il problema. Le successiva vittorie lo convinsero di non aver nulla da temere e, davanti alla perseveranza papale nel difendere l’autonomia ecclesiastica, inasprì le sue pressioni. La situazione, già tesa per la promulgazione del Codice Civile, che introduceva nel Regno Italico il divorzio, divenne difficilissima quando il Papa richiamò all’ordine l’Imperatore con una lettera abbastanza pesante. Le truppe francesi ebbero ordine di occupare i due principati di Pontecorvo e Benevento, che Napoleone diede rispettivamente al maresciallo Bernadotte ed al ministro degli esteri Talleyrand. Il passo seguente fu l’ordine di impadronirsi d’Ancona e della cosa adriatica pontificia, per premere sul Papa, ma pure per dare alla Marina Italica una più ampia base di partenza e favorire il disegno strategico francese di penetrazione vero il Levante e l’Oriente. E’ questo un elemento che non va dimenticato, perché giocò un ruolo importante negli avvenimenti della generazione successiva. La Francia vedeva il controllo della linea strategica dalle Alpi attraverso la Pianura Padana fino ad Ancona come la strada più breve per sostenere i propri interessi commerciali e strategici in Levante e da lì in Oriente. Avere una base navale ad Ancona significava accorciare e rendere meno costoso un qualsiasi viaggio per mare rispetto ai porti metropolitani francesi del Mediterraneo. Solo la diffusione del vapore negli Anni ’30 e l’apertura del canale di Suez nel 1867 avrebbero messo fine a questo interesse. Per il momento, nel 1805, se ne era assai lontani e Ancona restava importantissima agli occhi dei Francesi, i quali iniziarono una lenta, graduale e silenziosa occupazione degli Stati Romani. Dapprima fu un semplice passaggio di truppe dirette al Sud, poi cominciarono a fermarsi sempre più a lungo, dopodiché impiantarono delle guarnigioni stabili in territorio papale, alle quali, ovviamente, venivano impartiti degli ordini, ordini che però investivano pure le truppe pontificie fino ad arrivare alla pratica esautorazione del potere papale. Il trucco adoperato dai Francesi – ad Ancona nel 1805, a Civitavecchia nel 1806 e a Roma nel febbraio 1809 – consisté sempre nell’entrare in una città fingendo di doverla attraversare e nell’impossessarsene di sorpresa. Così, nel febbraio 1808, il Pontefice fu costretto a sciogliere la Congregazione Militare, attribuendo le competenze per la Marina alla Tesoreria, mentre le sue truppe vennero concentrate nelle Marche per essere poi incorporate in quelle del Regno Italico o dell’Impero. Il 1° Reggimento di Linea, di sei sole compagnie, rimase in servizio fino al 25 febbraio 1808 sotto il comando del colonnello piemontese Angelo di Paola Colli e fu poi assorbito nei vari reggimenti imperiali d’occupazione nell’Italia centrale, tolti alcuni ufficiali che rifiutarono l’incorporazione e furono internati nella fortezza di Mantova. Parecchi militari di truppa del 1° Reggimento furono incorporati nella 30ème Division Militaire de l’Armée e nei due battaglioni stanziati a Roma del Reggimento dell’Isembourg, unità francese formata da disertori e prigionieri tedeschi, con cui si formò poi, nel 1810, il 4° Battaglione Straniero dell’Armée. Parecchi dall’aprile del 1809 finirono nel 7° Reggimento di Linea dell’Esercito Italico, combatterono in Polonia e, dopo la disfatta in Russia del 1812 e la sconfitta napoleonica in Germania nel 1813, rientrarono alla meno peggio nelle Marche, dove furono incorporati d’autorità nell’11° Reggimento di Fanteria napoletano, poi impiegato nella campagna murattiana del 1815. Altri 224
militari invece riuscirono a passare nei corpi di polizia o nella Guardia Nazionale, Dipartimentale o Municipale. Alle prevaricazioni materiali Pio VII non reagì altro che ordinando di cambiare la coccarda delle truppe dalla tradizionale giallo-rossa, rimasta a quanti erano di fatto controllati dai Francesi, alla nuova bianca e gialla. Alle prevaricazioni spirituali rispose con un altro breve. Restò inevaso, ma ebbe un effetto perniciosissimo: il 1° maggio 1809 Napoleone ribatté, pubblicando a Vienna un decreto in cui, proclamandosene successore, rilevava che Carlo Magno “non avea fatto dono di alcune contrade al vescovo di Roma se non a titolo di feudo e senza che Roma cessasse di far parte dell’impero.”CXXXVIII Dopo aver aggiunto che l’unione dei due Stati era una fonte di continue discordie e che tutti i suoi tentativi di accordo erano stati inutili, emanava un decreto con cui riuniva gli Stati della Chiesa all’Impero e nominava il generale Miollis governatore e presidente di Roma, mettendolo a capo di una consulta composta da Francesi e Romani. Pio VII prima protestò, poi, il 10 giugno 1809, emanò la scomunica contro Napoleone, che si irritò moltissimo. La scomunica lo privava di qualsiasi legittimazione davanti ai cattolici francesi, anche se la sua gendarmeria li avrebbe tenuti tranquilli, di conseguenza ordinò d’arrestare e deportare il Papa, a meno che non avesse ritirato la scomunica ed accettato una pensione. Pio VII tenne duro e, nella notte del 6 luglio 1809, il generale Radet forzò con le sue truppe l’ingresso del Quirinale e gli comunicò l’ultimatum: revoca della scomunica e pensione, o la prigione. Pio VII “rispose non poter tradire i giuramenti dati, non voler revocare la scomunica, essere a tutto parato, anziché cedere i suoi sacri diritti”CXXXIX il tutto poi riassunto col celebre “Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo.” Fu preso in parola e portato in prigionia di gran carriera, traversando velocemente l’Italia per timore che la notizia destasse rivolte. Sarebbe tornato solo cinque anni dopo, al crollo di Napoleone; intanto i suoi Stati diventavano dipartimenti dell’Impero. La situazione però non era tranquilla. I vescovi e il clero rifiutarono in massima parte il giuramento di fedeltà. Il popolo, abituato a seguire quanto facevano i suoi pastori, li vide arrestare e deportare e non si mostrò favorevole ai Francesi, tanto più che era stato sottoposto alla coscrizione obbligatoria.156 Nel Lazio non ci furono reazioni armate, anche se è difficile dire quanto ciò che veniva definito brigantaggio dalle autorità fosse davvero tale, quanto fosse una continuazione della vecchia guerriglia antifrancese e quanto, infine, l’una mascherasse l’altro. In Emilia le cose andarono un po’ diversamente. Era in quel periodo in atto la Guerra della V Coalizione. Le truppe francesi e italiche, impegnate a fondo contro gli Austro-Russi, si trovavano in Austria e in Ungheria quando in vari dipartimenti padani del Regno Italico si verificarono delle violente insurrezioni. Nei territori ex-pontifici dell’Emilia il primo caso sembra essere stato quello verificatosi il 2 luglio 1809, quando un gruppo di 18 uomini occupò il municipio – la Mairie, alla francese – di Ca’ de’Fabbri per impadronirsi delle armi della locale Guardia Nazionale. Il 4 luglio un gruppo di 25 contadini guidato da Prospero Baschieri, un ventottenne già renitente alla leva nel 1803, entrò a Budrio. Ne uscirono e l’indomani entrarono a Minerbio, mentre la rivolta si allargava a macchia d’olio. Il 7 gli insorti, ormai numerosissimi, si avvicinarono a Bologna. Privi di cannoni e non abbastanza organizzati da prendere una città, furono respinti e, passando per San Giovanni in Persiceto, andarono ad assediare Ferrara, che si trovò bloccata da alcune migliaia di insorti emiliani e veneti. Il Comune di Bologna raccolse quanto aveva sotto mano di truppa francese, la fece sostenere dalle Guardie Nazionali, dai Gendarmi e dalle Guardie di Finanza e compose una colonna di cui diede il comando al generale Grabinski, appena ritiratosi dal servizio napoleonico per ragioni di salute. Grabinski marciò su Ferrara e il 16 luglio ne ruppe il blocco, sconfiggendo gli insorti, che però si sparpagliarono per il territorio e continuarono le loro azioni, senza dimenticare un attacco per rappresaglia il 2 settembre
156 A Roma la visita di leva ai coscritti si faceva per sorteggio nel Palazzo della Cancelleria.
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proprio alla tenuta di campagna di Grabinski, il quale vi si difese a lungo ma rimase ferito e subì parecchi danni L’insorgenza cominciò a spegnersi colla notizia del tracollo austriaco dopo Wagram. Baschieri fu accerchiato e ucciso dai Francesi il 13 marzo 1810 e con la sua morte la calma tornò negli Stati exPontifici. L’Italia peninsulare era ora divisa sostanzialmente in tre zone. La fascia occidentale, dalle Alpi a Terracina e dalla costa tirrenica all’Appennino era parte integrante dell’Impero, poiché proprio allora vi era stata incorporata anche la Toscana, prima Regno d’Etruria, poi Granducato retto da Elisa Buonaparte e da suo marito Felice Baciocchi. Il sud della Penisola era un regno adesso in mano a Murat, cognato di Napoleone. L’Emilia, la Lombardia e il Triveneto costituivano il Regno d’Italia. La Sardegna e la Sicilia continuavano testardamente a resistere. Poi vennero la Russia e Lipsia, la Restaurazione e l’Elba, i Cento Giorni e Waterloo.
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Capitolo XIX La Restaurazione
I) La Restaurazione Pontificia vista dal clero La Restaurazione pontificia non fu facile. In Europa la Chiesa lamentò la sparizione dei tre principati vescovili di Magonza, Treviri e Colonia, il passaggio dei cattolicissimi Paesi Bassi austriaci sotto la protestante Olanda e la perdita definitiva di Avignone e del Contado Venassino. Se quanto accadeva in Germania era conseguenza della scomparsa del Sacro Romano Impero e della nascita della Confederazione Germanica, la perdita d’Avignone a vantaggio della Francia, cioè la perdita di territorio d’un vincitore a vantaggio dello sconfitto, dimostrava una volta per tutte che ormai il peso politico internazionale della Santa Sede era azzerato. Dal punto di vista temporale, lo Stato Pontificio poteva esistere a condizione di non pretendere nulla, di limitarsi al minimo livello di Potenza locale italiana e d’evitare qualsiasi contrasto con una delle cinque Potenze maggiori: Austria, Francia, Russia, Prussia e Gran Bretagna, dichiaratesi del Primo Ordine al Congresso di Vienna e riservatesi il diritto di mettere mano in tutti gli affari internazionali, informandone le Potenze del Secondo Ordine solo se e quando fossero state direttamente coinvolte. Paradossalmente, man mano che la forza politica tradizionale e istituzionale della Santa Sede scemava, cresceva quella morale. L’indipendenza dell’America Latina stava sottraendo un intero continente agli antichi padroni coloniali, ma non all’autorità di Roma. L’indebolimento della Sublime Porta stava consentendo di stabilire contatti e intese col Sultano così da essere presenti senza disturbo in tutto l’Impero Ottomano. L’occupazione della Polonia da parte russa implicava la necessità per San Pietroburgo di venire a patti con Roma, come sarebbe avvenuto con la visita dello Zar al Papa. La Santa Sede allargava i suoi orizzonti. I suoi vertici avrebbero dovuto agire di conseguenza, ma si verificò un’evidente dicotomia: tanto i preti erano flessibili e capaci d’ottenere risultati all’estero e specialmente fuori d’Europa, tanto apparivano rigidi ed incapaci di cambiare in Europa e soprattutto in certe parti d’Italia. In realtà non c’era nulla di nuovo. All’estero la gerarchia ecclesiastica era composta da persone del luogo, o che conoscevano così bene uomini e cose del posto da saper ottenere ottimi risultati, a meno che, in missione, non ci rimettessero la vita. Ogni vescovo nello spirituale era un sovrano assoluto della sua diocesi e rispondeva solo e direttamente al Papa; dunque la gerarchia periferica continuava a rispondere a Roma, ma era del tutto autonoma e, purché non vi fossero inosservanze dottrinali o aperte disubbidienze, non subiva, anzi, quasi nemmeno sentiva la presenza della Curia romana. Fuori dello Stato Pontificio ci si concentrava sempre di più sulla sfera spirituale e non ci si preoccupava delle questioni politiche, cui doveva provvedere l’autorità laica, tranne quando avessero toccato la libertà del culto cattolico. La separazione fra il potere politico laico e quello religioso divenne così marcata, che nel 1831 Gregorio XVI, colla Sollicitudo Ecclesiarum del 5 agosto,157 avrebbe dichiarato: “che nella pendenza di liti o di guerre in fatto di successi o di altro, i pontefici, nel mandar che fanno i vescovi, e nel provvedere alle necessità delle chiese, non intendono entrare a parte delle temporali quistioni, ovvero ad una parte inclinare piuttosto che ad un’altra.”CXL
157 Cito la data perché esistono pure la Sollicitudo omnium Ecclesiarum del 1814, con cui Pio VII ricostituiva la Compagnia di
Gesù ed un breve apostolico Sollicitudo omnium Ecclesiarum del 1969, in cui Paolo VI trattava dei nunzi apostolici.
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Questo, ripeto, valeva fuori dello Stato Pontificio, dove l’autorità ecclesiastica era separata da quella politica, ma non valeva dentro i santissimi confini, dove tanto l’autorità ecclesiastica quanto quella politica, per quanto formalmente separate, erano in mano a religiosi, i quali oggi potevano esercitare l’una come vescovo, domani l’altra come legato e dopodomani entrambe come Papa. Sarebbe stato già problematico in condizioni di piena tranquillità; per come stavano le cose risultò politicamente disastroso. Il recupero di tutte le parti del dominio papale non era inizialmente scontato e lo si dové all’abilità del cardinal Consalvi e ad un insieme di circostanze da lui sfruttate, di cui le principali furono l’instabilità dell’Italia e la relativa debolezza dell’Austria. Consalvi e Metternich si erano trovati d’accordo su un punto: a Parigi non c’era più Napoleone, ma i rivoluzionari si; e la rivoluzione non era finita, anzi, era viva quasi quanto prima. Una conseguenza era la nuova idea che stava circolando in Italia, riassunta da Consalvi nella lettera del 17 agosto 1814 da Londra al suo vice, il pro-segretario di Stato cardinal Pacca. Non era da temersi Napoleone confinato all’Elba, benché andasse tenuto d’occhio, ma: “… più di lui sono da temersi le manovre di quelli che vogliono un regno unico in Italia nella persona di un vero italiano, essendo essi ugualmente contrari a Gioacchino, a Napoleone, all’Austria, al Papa e così discorrendo. Questo è il piano a cui ora si lavora dagli occulti meneurs, ma potrebbe poi benissimo in atto pratico accadere, che si rivolgano a Gioacchino, a Napoleone, se ne avran bisogno per sostenersi. Di primo slancio però credo di poter dire con fondamento che non vogliano né l’uno né l’altro dei suddetti due; onde il pericolo più imminente è quello che ho accennato. …Il gran progetto della insurrezione italica per lo stabilimento di un regno unico ed affatto indipendente è più che certo. Questo progetto è ugualmente diretto contro l’Austria, contro Gioacchino, contro il Papa, contro il Re di Sardegna, ed ogni altro Stato d’Italia, volendosi tutto riunire sotto un solo governo italiano, sebbene non si sia ancora pienamente d’accordo sulla sua natura e denominazione, volendosi da alcuni un Re d’Italia, da alcuni un Impero Romano, da alcuni una Repubblica Romana. Questo progetto ha in tutte le città d’Italia, specialmente in Milano, Venezia, Torino, Genova, Roma, ed anche in Napoli, le fila più estese. I malcontenti di diverse classi (e per questo suggerisco che non se ne accresca il numero in Roma con misure d’un rigore non necessario, ed in qualche senso anche talora soggette a non giuste querele), gli empi, gli increduli, gli ambiziosi, dirò anche di più molti non cattivi, ma riscaldati da quanto vedono e sentono da 25 anni in qua, e che sdegnano il giogo, specialmente dei preti: tutti questi, dico, sono implicati in questo gran piano, che nella esaltazione delle idee correnti e delle passioni è divenuto in Italia un piano nazionale. Il centro delle loro operazioni è in Londra, dove hanno ampi e potenti appoggi, non già dal governo, il quale ha tutt’altre viste e direzioni di questa, ma dal partito d’opposizione e da quelle sette che hanno siffatti principi. …Questo piano voleva farsi scoppiare al principio di ottobre. Le scoperte fatte dalla Corte di Vienna dovrebbero avere almeno sconcertate le misure dei meneurs, e prolungata se non isventata affatto la loro esecuzione.”CXLI Proprio per sventare quei tentativi, aveva detto Metternich a Consalvi, l’Austria, invece di tenere la frontiera al Mincio, assai più difendibile, si era dovuta riprendere Milano. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, però: “si è trovata forzata a prenderla per la sola ragione (mi servirò della sua stessa espressione) di “tuer à Milan le Jacobinisme italien, et le Royaume unique d’Italie” 229
essendo quella città il centro di questi due grandi piani tendenti a far dell’Italia un solo Stato e richiamarla alla qualità di Nazione.”CXLII Al di là delle questioni di confine, del fatto che si volessero “dare” e non “rendere” al Papa le Legazioni e le Marche, nell’autunno del 1814 l’Austria era così indebolita dal dover tenere 250.000 uomini in armi in Polonia contro un’eventuale iniziativa dello zar, da non poter intervenire in caso di sollevazione in Italia e per questo preferiva reinstallare il potere pontificio sulla destra del Po e mantenere lo statu quo ante, evitando strane sorprese. Bisognava conservare quanto si era riavuto. Come? Metternich accennò ad un’eventuale Lega italica per tenere le cose al loro posto, con “una specie di polizia centrale” e “si parlò della necessità di comprimere con mano vigorosa ogni nuova macchina e cospirazione, ma al tempo stesso di non accrescere il numero dei malcontenti alla ricerca delle cose passate, sul qual proposito venne a parlarsi dei rigori di Roma.”CXLIII Seguirono il ritorno di Napoleone dall’Elba e l’intervento murattiano nell’Italia centrosettentrionale. Un mese prima di Waterloo Metternich e Consalvi discussero di nuovo dello Stato Pontificio, “cioè del sistema di governo da stabilire nelle Legazioni. Egli partì dal principio che queste tre Province, avvezze da circa 25 anni in qua ad un sistema di governo diversissimo dal Pontificio e piene di teste calde, ed avverse al tornare sotto i preti, è impossibile di rimetterle nell’antico sistema, nonché in quello delle altre Provincie papaline. Disse che interessava la quiete di tutta l’Italia l’impedire i torbidi di quei paesi, che sono nel centro e che sono al contatto con la Lombardia e coi Stati Veneti. Aggiunse che le Potenze sono d’accordo unanime su questo articolo e che indispensabilmente bisogna pensare ad un diverso stabilimento di governo, ed a concertarci però su questo punto. Senza riferire a V.E. il lungo discorso che si fece …nel rispondergli stabilii prima di tutto un principio inconcusso, e fu che quello che il S.P. farebbe nelle tre Legazioni per una necessità assolutamente indeclinabile, dovrà farlo poi anche in tutto il resto del suo stato, giacché è impossibile che, vedendosi per esempio che in Ravenna si fa questo e questo, Ancona Macerata, Perugia e molto più Roma stessa non pretendano di essere trattate del pari, specialmente nel presente modo di pensare dei popoli... il Sr. Principe rimase persuaso di questa verità evidente. Dopo di ciò passai a dire che mi pareva necessario di fissare bene cosa s’intende nel parlare dei cambiamenti da farsi nel governo e su tale proposito dissi che mi pareva che la cosa si riducesse a due punti sostanziali. Uno è quello di stabilire in poche parole un governo Costituzionale. Senza estendermi nelle ragioni intrinseche, ne rilevai una sola estrinseca, sufficientissima per la esclusione di una tale idea. Io feci riflettere, che quando si mettesse una specie di Costituzione nelle Legazioni (e per conseguenza anche nel resto dello Stato, come ho detto di sopra), Napoli, la Toscana, la Lombardia, il Veneto, il Piemonte dovranno per necessità fare lo stesso e questo non mi pareva che fosse nell’interesse dell’Imperatore e degli altri Sovrani. Egli ne convenne, e così questa cosa fu esclusa. L’altro punto è quello dell’impiegare nel governo anche i secolari. In questo punto, a cui dagli Alleati si tiene moltissimo, io dissi che dentro a certi limiti del mio privato sentimento non sconvenivo, e che se lo avevo creduto indispensabile (atteso l’attuale modo di pensare) fin dalla prima ripristinazione del governo pontificio al cessare della repubblica Romana, molto più lo credo adesso, dopo i nuovi avvenimenti e il maggior stabilimento di certe idee e principi ad oggetto di tener quieti e soddisfatti (almeno in 230
parte) i cittadini. E certo io non posso e non debbo dissimulare, che se si pretende di riassoggettare le Legazioni alla stessa forma di governo, a cui erano soggette prima, tutta diversa da quella a cui sono state soggette da 25 anni in qua, questo è impossibile; e un po’ prima un po’ dopo la S. Sede ne vedrebbe le conseguenze..”CXLIV E Consalvi ribadiva un mese dopo: “… se è stato (lo sa il Cielo) tanto difficile il riavere quello che si è avuto, più difficile, lo dico francamente, è il conservarlo… se non si prende la giusta via, se si fanno dei sbagli fatali, i paesi che si sono ricuperati non si conservano per sei mesi… Bisogna persuadersi, che in quei paesi, comprese anche le Marche, benché siano perdute da 8 anni e non da 20 come le Legazioni, il modo di pensare è cambiato affatto. Le abitudini, gli usi, le idee, tutto è cambiato in quei luoghi. I giovani quasi non hanno idea del governo del Papa, o se l’hanno, l’hanno corrottissima e pessima. Si vergognano persino d’essere sudditi dei Preti; non isperando avvanzamento sotto un governo ecclesiastico, non possono tornare con piacere sotto il Papa. Non dico che i vecchi e parte della plebe pensi così, ma non è questa quella parte della nazione che preso o tardi finisce per dar la legge… Aggiungasi a tali riflessi delle abitudini tutte cambiate di quelle Provincie, ed alli interessi particolari, la corruzione delle massime e la depravazione dei costumi, le idee rivoluzionarie, la febbre del tempo, cioè la voglia di un Governo costituzionale, che disgraziatamente guadagna terreno ogni giorno di più e si sparge da per tutto, e si vedrà se il mio timore è fondato. Queste idee purtroppo si fanno largo da sé, ad onta di tutti gli sforzi per reprimerle. Ma che dico sforzi? Non vede V.E., che quelli stessi che avrebbero un interesse di deprimerle, le sostengono e se ne fanno i difensori? Non vede che si arriva a mettere per patto il sostenerle? … io ne concludo dunque, che se si ha la intenzione di rimettere, comprese le Marche, le cose come erano prima, è un pretendere l’impossibile, e non le conserveremo, lo ripeto, 6 mesi…. Noi avremo contro di noi anche il cambiamento morale, che è assai più significante. La maggior parte di quelli con cui avremo da fare, non pensano come noi e sono di cuore contrari a noi. Eppure con questi si avrà da fare, e non vi è rimedio. Io dico dunque due cose, una delle quali entra nell’altra. Dico che un governo stabile simile a quello di prima, è impossibile di ripristinarvelo, dico in secondo luogo che un Governo provvisorio è indispensabile, per non avere uno stacco violento da quello che colà si è fatto fin’ora, e quello che si vorrà fare in seguito.”CXLV L’analisi era perfetta, però non fu seguita dalle ovvie conseguenze; perché? Lo stesso Consalvi aveva già risposto, spiegando a Metternich: “…il governo Pontificio per sua natura ha in alcune parti più sostanziali alcune forme, che non potrebbero cambiarsi, senza quasi rovesciare il Governo stesso. Dunque, dissi, è impossibile di accordare questa ammissione dei secolari negli impieghi in tutta quella estensione che si usa in un governo secolare. Ma questo non toglie che si possa farlo in una buona parte. ”CXLVI
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Aveva poi aggiunto a Pacca: “Io sento bene che molti in Roma non apprenderanno tali cose: chi per passione, chi per irriflessione, chi per ignoranza, chi per abitudine, chi per altri motivi, non intenderà niente di tutto questo.”CXLVII Ebbe ragione: andò proprio così.
II) La Restaurazione Pontificia vista dai laici La Restaurazione, ardua per il clero, fu un disastro per i nobili e i borghesi che in Italia avevano parteggiato per i Francesi, perché riportò, o pretese di riportare, tutto a come era prima; volle cioè privare una classe del potere che aveva acquisito e al quale avrebbe ripreso a tendere con tutte le sue forze. Come l’esercito era stato il principale puntello dello scomparso Regno Italico, così ora, coll’eccezione di quello pontificio, gli eserciti della Restaurazione sarebbero stati i custodi della volontà di rivincita della borghesia. Non a caso in essi militavano, dove più e dove meno, i militari ex-napoleonici molti dei quali sarebbero stati alla testa dei moti insurrezionali del 1821 – come a Napoli Morelli e Silvati – o del 1831 – come Zucchi e Sercognani158 – o vi sarebbero stati pesantemente coinvolti, come l’erede al trono di Sardegna, Carlo Alberto. Quando poi fosse arrivato l’anno dei portenti, l’incredibile 1848, i motivi di base dell’insurrezione sarebbero stati gli stessi della collaborazione filofrancese del 1796: la classe ricca, privata dell’esercizio del potere politico nel 1814, avrebbe voluto riavere almeno quanto aveva avuto dagli invasori dal 1796 in poi. E quando un Sovrano avesse accettato il compromesso di garantirle il potere politico, gli avrebbe fatto avere la corona d’Italia. Il beneficio sarebbe stato ambivalente; solo che non sarebbe stato il Papa a concludere il compromesso, ma Carlo Alberto di Savoia. Tanto i Savoia avrebbero guadagnato in termini di accrescimento di potere e tanto avrebbe guadagnato la borghesia, che sarebbe passata nuovamente dalla mancanza alla pienezza del potere politico e più che nel periodo napoleonico, perché non avrebbe più dovuto dipendere dall’esterno e avrebbe dominato su tutta l’Italia anziché su una porzione. Senza questa premessa non si può comprendere quanto avvenne in Italia dopo il 1814. La scomparsa del Regno d’Italia e dell’Impero francese lasciò gli Italiani del Centro e del Nord sotto il “paterno” e provvisorio regime dell’occupazione austriaca. Il primo provvedimento dei governatori militari imperiali fu, dovunque, la creazione di una Guardia Urbana, che provvedesse ad un minimo di tutela dell’ordine pubblico, e di una Giunta, o Commissione, del Buon Governo preposta alle attività di polizia e dalla quale dipendevano le forze di gendarmeria, denominate Carabinieri, o Dragoni, o Cacciatori, a seconda dei tempi e dei luoghi. I militari italiani che avevano prestato servizio negli eserciti italico e francese rimasero “tra color che son sospesi” per breve tempo, perché i vecchi sovrani si affrettarono a ricostituire i rispettivi eserciti, spesso consentendo loro di arruolarvisi. Per gli Stati Pontifici la Restaurazione iniziò il 28 maggio 1814, quando 6.000 Austriaci entrarono a Bologna. La Guardia Nazionale fu abolita seduta stante e il governatore militare imperiale, generale d’Echar, s’insediò a Palazzo Aldrovandi. Come tutti i periodi di transizione, quello del 1814-15 non fu tranquillo. Il Congresso di Vienna dichiarò di voler ripristinare lo statu quo ante, ma quando le trattative del 1814 terminarono, l’Italia si trovò con una fisionomia assai diversa dalla precedente. Venezia era stata assorbita dall’Austria e, unita al Ducato di Milano nel nuovo Regno Lombardo-Veneto. Ragusa era scomparsa. Malta era finita in mano agli Inglesi e ci sarebbe rimasta. Napoleone regnava sull’Elba. Sua moglie Maria Luigia, essendo figlia 158 Zucchi e Sercognani, passati al servizio austriaco, il primo come tenente generale e il secondo come maggiore,
avevano ottenuto il pensionamento rispettivamente Zucchi nel 1823 e Sercognani dopo la sconfitta di Murat a Tolentino, senza che le loro opinioni politiche cambiassero.
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dell’Imperatore d’Austria, aveva avuto a vita il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, i cui legittimi sovrani, i Borbone-Parma, erano stati temporaneamente sistemati a Lucca, trasformata per l’occasione da Repubblica in Ducato, ma col diritto di reversibilità al Granduca di Toscana (che era il fratello minore dell’Imperatore Francesco d’Austria) quando, alla morte di Maria Luigia, fossero tornati a Parma. Il Papa aveva perso Pontecorvo e Benevento, passate a Napoli, ancora in mano a Murat. Massa e Carrara erano state ricostituite in Stato indipendente, retto da Maria Beatrice d’Este, ma a condizione che alla sua morte entrassero a far parte del Ducato di Modena. Infine, di tutti i sovrani italiani tre non erano per niente soddisfatti di come andavano le cose. Vittorio Emanuele I di Sardegna aveva acquistato la Repubblica di Genova, ma non aveva riavuto indietro la culla della dinastia, il Ducato di Savoia, rimasto alla Francia di Luigi XVIII. Ferdinando IV di Borbone era in Sicilia e là sembrava costretto a restare dall’atteggiamento condiscendente delle Potenze verso il suo diretto avversario, Murat, al quale il voltafaccia contro Napoleone sembrava aver assicurato il trono di Napoli, ma non quello di tutta l’Italia a cui agognava. Mentre a Vienna il Congresso si dava alla bella vita e a Parigi il Re sonnecchiava, all’Elba l’Imperatore attendeva il momento propizio a ricominciare. Nel marzo del 1815 lo giudicò arrivato e salpò per la Francia. L’ultima avventura napoleonica, cominciata su un brigantino nella rada di Portoferraio e terminata quattro mesi dopo su un vascello inglese nel porto di Tolone, diede all’Italia restaurata il tocco finale e l’aspetto che avrebbe mantenuto nei quarantacinque anni seguenti. Quando il cognato giunse a Parigi dando inizio ai Cento Giorni, Murat pensò di giocare le proprie carte lanciando una specie di guerra parallela contro l’Austria, che terminò con la sconfitta di Tolentino, la sua caduta, il rientro di Ferdinando IV a Napoli, la restituzione di Benevento e Pontecorvo al Papa. Nel frattempo Pio VII era tornato a Roma, chiudendo la lunga parentesi rivoluzionaria ed ateista ma, come accadde nel resto d’Italia e come Consalvi aveva scritto, diciott’anni di dominio o di influenza non potevano essere cancellati e, anzi, più ci si provava e meno ci si riusciva, specialmente a Roma e nello Stato Pontificio, dove la crisi era profonda. Il periodo napoleonico aveva visto un saccheggio senza pari per durata ed entità in opere d’arte, denaro, uomini e animali da tiro, le cui ossa erano rimaste in Austria, Ungheria, Spagna, Polonia, Russia, Germania e Francia,. Adesso, dopo la vittoria, il Papa chiedeva la restituzione delle opere d’arte e il pagamento dei danni di guerra, valutati a 30 milioni di franchi oro. Le prime andò a prenderle Canova e le riportò indietro quasi tutte. Ne lasciò qualcuna delle più scadenti ma nessuno protestò, salvo i Francesi che si vedevano “spogliati del patrimonio dei musei di Francia.” I soldi furono un’altra cosa. La lista dei danni presentata dai vincitori era lunga e spaventosa. D’altra parte si voleva indietro si e no quanto la Francia aveva saccheggiato, danneggiato e distrutto per venticinque lunghi anni da Coimbra a Mosca e da Amburgo al Cairo. Le vite non potevano essere ridate, i soldi si e quelli si chiedevano adesso, per un totale di 775 milioni e mezzo di franchi oro. Ma la Francia non li aveva – e del resto aveva fatto la rivoluzione per via dei debiti e iniziato la guerra proprio per trovar denaro – e non li avrebbe mai avuti. Si andò a una soluzione di compromesso, demandandola al Duca di Wellington, che ridusse la cifra e meno d’un terzo – 240.664.325 franchi oro – e la ripartì in maniera arbitraria e per nulla influenzata dalle antiche alleanze. L’Austria esigeva 200 milioni? Ne ebbe 20. La Prussia ne voleva 125? Poté averne un po’ più di 52 da sola e altri due da spartire colla Sassonia. La Toscana, che ne chiedeva quattro, se ne vide assegnare quattro e mezzo, mentre la Sardegna ne prendeva 25 dei 70 richiesti e il Papa cinque soli dei trenta domandati: un sesto. Non c’era da scialare e c’era invece tutto da rifare; e con quali uomini? Qui nasceva una seconda difficoltà: mancavano. Il maggior problema per l’amministrazione organizzata dai Francesi in Italia era stato di trovare gli idonei alle cariche civili. In un periodo in cui, come in tutta Europa, l’analfabetismo era assai diffuso, bisognava contentarsi di quel che c’era, senza stare troppo a guardare a chi funzionari o impiegati erano veramente 233
fedeli, se a Napoleone o al sovrano spodestato, e sapendo che erano pronti a voltar gabbana alla prima occasione. La stessa difficoltà si presentò ai governi restaurati e, quasi tutti, si comportarono come avevano fatto i Francesi: lasciarono al loro posto i funzionari dei gradi minori, ripulirono come poterono i gradi maggiori, riorganizzarono l’esercito ammettendovi a certe condizioni anche i reduci napoleonici, incrociarono le dita e sperarono che tutto sarebbe tornato come prima. Questo si poteva fare in tutti gli Stati italiani meno uno, perché nello Stato Pontificio tutti i funzionari di un certo livello erano preti, o almeno abati laici che avessero ricevuto gli ordini minori, perché ai laici non era mai stata consentita la benché minima carriera senza indossare la veste talare. Di conseguenza, quando col Papa tornarono i reverendissimi ed eminentissimi cardinali, quanti fra loro si riconoscevano nella fazione degli “Zelanti”, risalente al primo quarto del Settecento, puntarono alla cancellazione di quella che in Francia veniva adesso definita “la rivolta dei venticinque anni”, durante la quale, nel 1793, era iniziato il regno della maestà cristianissima di Luigi XVIII (ora nel ventiduesimo anno). Era quanto Consalvi aveva temuto e suggerito d’evitare; non lo ascoltarono e le cose andarono come lui aveva predetto: malissimo. Il ripristino dell’antico sistema comportava l’espulsione di tutti i laici dagli incarichi direttivi senza se e senza ma, tanto che, quando monsignor Sala, nel 1814, aveva ardito pubblicare un libro in cui si auspicava la separazione dei poteri e la secolarizzazione delle cariche civili, proprio Consalvi, nonostante fosse suo amico, ne aveva ordinato da Vienna la distruzione; non perché non fosse almeno in parte d’accordo, ma perché, nello stato in cui erano le sue trattative, non voleva fornire alle Potenze del Primo Ordine pretesti tali da rendere i negoziati più difficili per la Santa Sede. Questo atteggiamento chiuso mitigò alquanto l’entusiasmo per la Restaurazione del sacro potere e il malcontento implicò da parte del governo la risposta più ovvia: fu potenziata la polizia e si riorganizzarono le forze armate sotto il controllo ecclesiastico, dando la preferenza per l’arruolamento agli elementi politicamente sicurissimi. Scrisse Massimo d’Azeglio, che da sedicenne aveva vissuto nell’Urbe nel 1814 dopo la Restaurazione, “…Di Roma dirò intanto che tutto fu rimesso com’era in primis et ante omnia, che vidi tornati il Bargello colla corte, i birri, il cavalletto, la corda ecc. ecc. con tutto quel che gli s’assomiglia.”CXLVIII I birri però durarono poco. Data la loro pessima fama, Consalvi li soppresse in fretta. Prima fece sciogliere i birri vescovili e nel 1816 tutto il corpo, con la circolare del cardinal Saluzzo, prefetto della Congregazione del Buon Governo, emessa il 5 ottobre di quell’anno “Per dare esecuzione alla sovrana determinazione, che abolisse il corpo de’ birri in tutta l’estensione dello stato Ecclesiastico, impiegandoli presso le Comunità in qualità di Guardie campestri.” Queste a loro volta, con la circolare del 7 ottobre 1824, sarebbero state soppresse dal novembre dello stesso anno, pur conservando il diritto allo stipendio vita natural durante, se non cambiavano domicilio, e coll’avvertimento ai Comuni di dar loro la precedenza nell’assunzione di secondini, carcerieri o guardiani Spiegava, riferendo alle autorità di Vienna un informatore austriaco cinque anni dopo: “Fu organizzato un corpo di Fanteria, ed altro di Cavalleria, al Satellizio furono sostituiti i Carabinieri,159 che equivalgono ai gendarmi, questi sono ben montati, ma prepotenti e indisciplinati, per cui i cittadini se ne lagnano non poco. Il Card. Consalvi vuol essere Ministro della Guerra, Generale, e talvolta vorrebbe fare sino da Gendarme, tant’egli è di carattere irrequieto che vuol saper tutto, fare tutto e ingerirsi di tutto.”CXLIX
159 Poiché i Carabinieri pontifici avevano un’uniforme scura con grandi alamari bianchi sulla giubba, il popolo romano li
soprannominò “scheletri”, in dialetto “schertri” (cfr. ad esempio G. G. BELLI, Sonetto 762, Chi ha fatto ha fatto), ma va notato che “schertro” voleva dire pure “sterco.”
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Il problema principale era senz’altro quello dell’ordine pubblico. La Restaurazione negli Stati Romani – come adesso erano spesso chiamati – era stata accompagnata da una pesantissima repressione di polizia, diretta da monsignor Tiberio Pacca, nipote del pro-segretario di Stato, resa necessaria dalle tremende condizioni della fine del periodo napoleonico. Già infestati dai briganti da prima dell’arrivo dei Francesi, negli ultimi quindici anni i territori del Papa avevano visto la delinquenza aumentare a dismisura, prima per i disastri del periodo 1798-1802, poi per le vicissitudini della campagna murattiana del 1815 e infine per le carestie avvenute nei primi tempi della Restaurazione. I metodi di repressione dal 1814 in poi erano stati brutali, ma insufficienti. Parlando di Roma, riferiva nell’aprile del 1819 il già citato informatore austriaco: “La pubblica sicurezza ora non è compromessa pel terrorismo essercitato da mons. Tiberio Pacca governatore di Roma e direttore generale della polizia, essendo all’ordine del giorno la pena capitale e le bastonate che si danno in pubblico. La facilità colla quale ha il predetto monsignore accordata l’impunità ad un numero riflessibile d’assassini riescì di non poco scandalo, vedendosi ora girare per Roma baldanzosi l’omicidiario e l’aggressore, a’ quali il Governo corrisponde quattro paoli al giorno, sino a tanto che vengono questi sanguinari impiegati chi in custodi di carceri, chi in guardia delle saline, ed altri finalmente in guardie campestri.”CL Questo valeva per l’Urbe, non per il resto dello Stato, tant’è vero che monsignor Pacca ritenne opportuno trasferirsi per un certo periodo nel Basso Lazio per sovrintendere da vicino alle operazioni contro i briganti. La situazione, specie in Marittima e Campagna, era così cattiva da indurre Pio VII ad ordinare nel 1819 la completa distruzione della piccola città di Sonnino, al confine col Regno di Napoli, ordine che si cominciò a eseguire e fu poi sospeso. Le bande di Barbone, Spadolino, De Cesari e più tardi Massarone e Gasparone 160 continuarono a infestare il Lazio, mentre non meno numerose erano quelle nelle Legazioni. Nonostante il reiterato impiego della truppa regolare e irregolare, allora e nei decenni seguenti, la piaga del brigantaggio restò in eredità al Regno d’Italia, che nel Lazio sarebbe riuscito ad estirparla solo ai primi del XX secolo. Al tempo di Pio VII si tentarono tutti i sistemi. Vennero fatti patti coi briganti, offrendo loro l’immunità in cambio della resa. Certi, come diceva l’informatore austriaco, accettarono di passare al soldo del governo e, riferendosi ai primi degli Anni ’20, scrisse poi d’Azeglio: “il modo del momento era stato il formare bande di briganti in ritiro o convertiti o disgustati; dar loro le medesime armi, il medesimo vestiario, l’ordinamento medesimo de’briganti attivi. Quanto allo spirito ed alle tendenze non c’era da occuparsene. L’identità era perfetta.”CLI L’attenzione all‘ordine pubblico da parte delle autorità era forte nelle intenzioni quanto inconcludente nei fatti. Leone XII, nel suo quinquennio di pontificato, dal settembre del ’23 al febbraio del 1829, avrebbe controllato tanto da vicino la sicurezza pubblica da ricevere regolarmente a rapporto – di solito la notte e da un ingresso riservato – due ufficiali dei carabinieri, il colonnello Gianfrancesco Cecilia e il tenente Calderari, futuro colonnello, per essere tenuto sempre al corrente di ogni minimo fatto. Questo però, unito alla reinstaurazione del diritto d’asilo che garantiva l’impunità a chi si rifugiava in un luogo sacro, chiesa o convento che fosse, non impediva alla polizia in generale di concludere poco e ai carabinieri pontifici d’evitare il contatto, se potevano.
160 Nome con cui era noto il brigante Antonio Gasbarrone.
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Sempre D’Azeglio, che, tornatoci ultraventenne per fare il pittore, fuori Roma non si muoveva mai da solo senza un fucile carico, parlando del suo soggiorno a Marino nell’estate del 1823, scrisse che, dovendo dipingere rapidamente un affresco in una chiesetta insieme a un amico pittore, erano stati aiutati da tre o quattro “ritirati”, cioè da ricercati i quali, entro il sagrato, erano al riparo dalla legge e aggiungeva che, nei due mesi trascorsi a Marino, di furti non ce n’era stato uno, ma d’aver contato “diciotto fra morti e feriti.”CLII Ancora più di trent’anni dopo, nel 1856, Ferdinand Gregorovius avrebbe notato nel suo diario la vicenda d’un ladro salvatosi dall’arresto in San Giacomo al Corso, a Roma, mentre stavano “dinnanzi alla cappella due poliziotti in borghese senza osare d’afferrarlo. Il ladro stette là, a quanto mi si disse, fino a sera. Di notte i frati l’han fatto sgattaiolare.”CLIII Quanto ai briganti, descrivendo la festa dell’Assunta a Cisterna nel 1822, d’Azeglio raccontava che c’erano venuti, cogli abiti migliori, apparentemente disarmati, e avevan liberamente girellato per la piazza, in mezzo alla gente che si divertiva, “E i carabinieri pel buon ordine (pareva una fatalità) si venivano trovando sempre nell’angolo della piazza diametralmente opposto a quello occupato dalla banda.”CLIV Questa era la polizia dal ’14 in poi; e l’Esercito com’era? III) L’esercito del 1814-15 Poiché nulla avevano imparato e sembrava che tutto avessero dimenticato, i prelati di Curia non si preoccuparono affatto d’avere un esercito funzionale e lo rimisero in piedi collo stesso difetto del passato: piccolo e insufficiente ad una guerra. Questa caratteristica aveva condannato la Santa Sede alla sconfitta nel 1708 e nel 1797 e l’avrebbe afflitta fino alla fine. Ad ogni crisi l’esercito sarebbe risultato insufficiente e si sarebbe ricorsi ad arruolamenti frettolosi e caotici, con grandi spese, nessuna efficienza e un’inevitabile sconfitta finale, seguita da una contrazione degli effettivi e dal ritorno all’inefficienza di prima. Ai preti l’esercito non interessava, perché non capivano che era il puntello dell’esistenza dello Stato e dunque del loro potere temporale, perciò continuarono a ripetere lo stesso errore del 1797 nell’estate del 1831, nel 1844, negli anni dopo il 1849 e ne subirono le conseguenze nascoste nel 1832 e palesi nel 1860. Ci ricascarono dopo Castelfidardo, evitarono il disastro per un soffio nel 1867 e crollarono miseramente nel 1870, sempre per gli stessi motivi: il loro esercito era e rimaneva un’entità adatta al mantenimento dell’ordine pubblico in tempo di pace e del tutto inadatta a combattere in guerra, nonostante le prove sostanzialmente buone date dalle truppe permanenti, il cui scarso numero però non consentiva alcun successo sul campo. Ciò premesso, il 12 maggio 1814, per ordine di monsignor Sanseverino, Commissario Generale delle Armi, fu costituito il Comando Generale, organo di comando e controllo delle milizie pontificie, le quali nominalmente constavano del Commissariato e d’una Brigata, messa al comando del brigadier generale Bracci.161 La Brigata comprendeva tutto l’esercito, perché includeva reparti di fanteria, cavalleria, artiglieria, e genio. La fanteria era tutta nel I Reggimento e la cavalleria nel Corpo dei Dragoni. I Corpi dell’Artiglieria e del Genio completavano il quadro. Esistevano poi i Comandi di Piazza. Un tempo preposti alle piazzeforti, ora provvedevano pure al controllo militare delle città svolgendo i servizi di guardia e in generale quelli entro le mura. Erano piccoli e di minima importanza, perché comprendevano
161 Le notizie sulla ricostituzione dell’Esercito Pontificio sono in un registro conservato in ASR, Soldatesche e Galere, come
busta n. 805. Dopo averlo trovato e letto, lo segnalai a Giacomo Maestri, che, integrandone le notizie con ricerche ulteriori, ne ricavò la propria tesi di laurea L’Esercito Pontificio tra il 1° novembre 1814 e il 1° settembre 1815, discussa nel 2006 a Roma alla Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza.
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un ridotto nucleo di ufficiali e truppa solo in assegnazione temporanea, a rotazione fra i vari reparti della guarnigione. Il I Reggimento di Fanteria era composto da uno stato maggiore, una banda e tre battaglioni. Lo stato maggiore comprendeva il colonnello comandante, l’aiutante maggiore, il quartiermastro, l’alfiere, il cappellano, il chirurgo, il sotto chirurgo e il tamburo maggiore. La banda aveva 34 componenti, cioè un capo banda, 12 bandisti fissi, 13 tamburi appoggiati alle compagnie e otto membri della piccola banda o turca (che si distinguevano per essere vestiti alla turca). Ogni battaglione aveva un suo stato maggiore162 e quattro compagnie fucilieri, Queste prendevano il nome dal capitano comandante e includevano un capitano, un tenente, due sottotenenti, due cadetti, un sergente maggiore, due sergenti, un caporale furiere, otto caporali, 163 due tamburi e 150 soldati semplici, detti “comuni”, che per il momento erano ancora solo cento. 164 Ogni compagnia si doveva dividere in due Sezioni al comando dei sottotenenti, oppure in quattro plotoni guidati dai sergenti e dai cadetti, fino a scendere all’unità minore di base, la squadra, formata da un caporale e 12 uomini. In totale il reggimento quindi avrebbe avuto 1.486 uomini, cioè 63 ufficiali, 179 sottufficiali e 1.244 fucilieri, ma in realtà fra maggio e giugno del ‘14 le compagnie potevano allineare in media il capitano, un solo subalterno, un cadetto, e non in tutte, poi due fra sergenti maggiori, sergenti e caporali furieri e quattro o cinque caporali, il che induce a ritenerle di forza pari a circa la metà del previsto, per cui dovremmo stimare la consistenza del Reggimento a non più di 800 uomini. Per rimediare, nell’estate del 1814 si ebbe un massiccio reclutamento che portò, secondo l’ordine del giorno 1° ottobre 1814, ad un ruolo di ufficiali e sottufficiali pressoché completo, cosa tanto più necessaria in quanto nel medesimo periodo si cominciò a inviare contingenti più o meno forti a riprendere possesso delle varie piazze dello Stato, come San Leo, Pesaro, Perugia, Assisi e Terracina, mentre le province di Bologna, Ferrara e Ravenna sarebbero stata formalmente riconsegnata dagli Austriaci del generale Stefanini solo il 18 luglio del 1815 a un battaglione pontificio comandato dal colonnello conte Filippo Resta – ex ufficiale d’artiglieria del Regno Italico – e il governo pontificio si sarebbe ufficialmente reinsediato a Bologna un anno dopo.165 Il 1° settembre 1814 vennero create ufficialmente, nel 1° e nel 3° battaglione, due compagnie granatieri, la 1ª e la 2ª. Meno facili furono le cose per la cavalleria. All’atto della ricostituzione venne riorganizzato un Corpo dei Dragoni, comprendente un solo squadrone, che era però considerato equivalente non a una compagnia ma ad un battaglione di Fanteria, benché avesse una sola compagnia operativa. CLV I documenti d’archivio permettono di capire che lo squadrone avesse uno stato maggiore – non esplicitamente indicato, ma menzionato qui e là in vari ordini del giorno – la cui composizione era simile a quello del reggimento di fanteria. La sua unica compagnia comprendeva un capitano comandante, il principe Pompeo Gabrielli, ex-guardia nobile, carcerato da Miollis in Castel Sant’Angelo, poi nella 162 Capo battaglione col grado di tenente colonnello, un aiutante maggiore, un vice quartiermastro, un alfiere, un aiutante
sottufficiale, un caporale tamburo.. 163 “Ogni compagnia avrà un Sergente Maggiore, due Sergenti, un Caporale Foriere, e otto Caporali.” cfr. “Ordini del comando Generale 13/05/1814”, ASR, Soldatesche e Galere busta n. 805. 164Cfr. supra, nt. 2, e anche: “La formazione delle compagnie per ora, sintantochè la forza delle medesime non sia portata al n° di 150 teste, sarà sopra due ranchi di un solo plutone, e divisibile in due sezzioni.” in “Ordini del comando Generale del 1° giugno 1814”, in ASR, Soldatesche e Galere busta n. 805. 165 Le truppe austriache avrebbero continuato a passare per Bologna fino alla fine di febbraio del 1818, con un transito complessivo, tra il 18 ottobre 1816 e il 28 febbraio 1818, di circa 9.000 uomini, pari a 18.868 pernottamenti, tutti a carico del Comune tanto per il vitto che per l’alloggio, come si evince dallo Stato dimostrativo dei corpi d’armata e distaccamenti austriaci e loro forza transitati per Bologna, del 28 febbraio 1818, manoscritto firmato conte Alessandro Scarselli, conservato nel Museo Civico del Risorgimento di Bologna. Parte dei militari di passaggio negli anni 1816 e 1817 dormì in un insieme di tredici locande, altri nelle case, con biglietti d’alloggio. Lo stazionamento degli Austriaci sarebbe stato sempre a spese dell’amministrazione cittadina fino al 1858.
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cavalleria napoleonica fino al ferimento e alla cattura a Lipsia nel 1813 e che ebbe una parte di spicco nella vita dell’esercito pontificio 166 fino al 1849, un tenente, un sottotenente, un sergente maggiore, due sergenti, un caporale furiere, ed otto caporali, dal che si deduce che fosse a pieno organico, anche se non era menzionato lo stato delle monte. Non se ne può perciò supporre l’operatività completa, ma sappiamo che il Corpo dei Dragoni assegnava pattuglie montate per il servizio di piazza. Anche qui l’autunno implicò un rafforzamento, perché dall’ottobre del 1814 si cominciarono a richiamare in servizio vari ufficiali ex-napoleonici, di solito facendo perdere loro un grado, per formare una seconda e poi una terza compagnia di cavalleria per cui, in base ai calcoli fatti da Maestri, in autunno il Corpo aveva dieci ufficiali, 29 sottufficiali e 128 dragoni, per un totale di 167 uomini. Come la cavalleria, pure l’artiglieria era ridotta al minimo. Anch’essa nel maggio del 1814 aveva una sola compagnia attiva, con un organico simile a quello della cavalleria, cioè un capitano, un tenente, un sottotenente, un sergente maggiore, due sergenti, un caporale furiere, ed otto caporali. Mancava l’alfiere, per cui si dovrebbe pensare che il Corpo – definito Battaglione – non avesse bandiera; però gli ufficiali sembrano essere stati tutti artiglieri veterani, 167 o dotati d’esperienza, mentre i soldati vennero presi fra gli ex-artiglieri in servizio in quel momento nelle altre unità della Brigata. CLVI Anche l’artiglieria a partire dall’ottobre del ‘14 vide aumentare l’organico colla creazione d’un’altra compagnia, giungendo – secondo Maestri – a una forza di undici ufficiali, 28 sottufficiali e 192 comuni, per un totale di 231 uomini. Per quanto riguarda il Genio, ne sappiamo qualcosa solo grazie alla menzione negli ordini del giorno del capitano Piernicoli, e di due altri ufficiali, per cui si deve supporre che fosse composto solo da ufficiali tecnici, come poi sarebbe stato per il Corpo degli Ingegneri Pontifici, nato sulle sue ceneri nel 1817 e non a caso in concomitanza coll’istituzione della facoltà d’ingegneria – la “scuola di ingegneria” – dell’Università di Roma. Un’ultima componente delle Armi Pontificie era la Guardia Nobile, fondata da Pio VII nel 1801 e progressivamente ripristinata tra il settembre e l’ottobre del 1814, i cui membri, tutti nobili, avevano come minimo, cioè da guardia semplice, il grado pari a colonnello dell’esercito. Come negli eserciti di prima della Rivoluzione, il Reggimento di fanteria comprendeva gente dalle nazionalità più diverse, fra cui pure parecchi protestanti, che si fecero passare per cattolici, cosa che alle autorità, quando lo scoprirono, non piacque. Le reclute dovevano avere meno di 36 anni ed essere scapoli; i militari dell’“antico servizio”, invece potevano essere riarruolati a dispetto dell’età e dello stato civile. L’altezza minima era per tutti di almeno cinque piedi ed un pollice. Era obbligatoria una visita medica per accertare la piena salute, benché fossero poi ammessi parecchi che soffrivano di infezioni cutanee. CLVII Il riarruolamento dei provenienti dall’“antico servizio” non fu una buona idea, perché molti di loro, dopo pochi mesi, raggiunta l’età per passare nella classe dei “giubilati”, chiesero il pensionamento, aggravando l’erario pontificio.168 Ad ogni modo al 1° novembre il Reggimento era salito a 1.696 uomini, cioè 71 ufficiali, 181 sottufficiali e 1.444 comuni, e gli venivano affidati incarichi di presidio e di ordine pubblico. Due compagnie (la 3ª Fra l’altro il principe Gabrielli redasse tutta la regolamentazione delle truppe montate, scrivendo il Regolamento concernente il servizio interno, la polizia e la disciplina della truppa pontificia a cavallo, Roma, Michele Ajani & Figli, 1817 e, tredici anni dopo, il Ristretto dell’istruzione teorica sopra l’esercizio e la manovra della truppa a cavallo, Roma, 1830, e l’Istruzione cristiana ad uso degl’individui del reggimento de’dragoni pontifici, Roma, 1830. 167 Maestri fornisce un elenco preciso di cinque ufficiali, con cenni biografici, che permette di notare come tre avessero servito solo il Papa, lasciando il servizio nel 1808, e due, tra cui il comandante, Carlo Lopez, tenente colonnello dalla fine dell’anno, oltre a servire il Papa fino al 1796, avessero militato pure per la Repubblica Romana e il Regno Italico. 168 Le pensioni, nel senso di retribuzione mensile a vita dopo la cessazione del servizio attivo e proporzionate alla durata del medesimo, erano state istituite dal motu proprio di Pio VI Quo Gubernatoribus vitalitiae praestantiones proponuntur del 19 giugno 1790. In precedenza chi lasciava il servizio poteva ricevere una somma una tantum, cioè una volta e basta, o una rendita annua vitalizia, il cui tipo, cadenza ed entità erano a piacere dell’amministrazione o del prelato che gliela faceva concedere. 166
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del 1° battaglione e la 3ª del 3°) con la bandiera del 2° battaglione erano a Civitavecchia, la 2ª compagnia del 2° battaglione a Perugia, la 3ª del 2° battaglione era divisa tra il Forte di San Leo e Terracina, mezza compagnia, formata da truppe del Reggimento e dell’Artiglieria, stava ad Anzio, un plotone rinforzato, anch’esso misto, ad Assisi, e varie unità minori tra i Castelli Romani, il Basso Lazio e la costa. Va notato che, fuori di Roma, molte fortezze avevano squadre di artiglieri comandate da sottufficiali d’artiglieria, come nei castelli di Civitavecchia, Fiumicino 169 e San Leo; altrettanto importanti però erano le torri ed i forti costieri tirrenici, come le batterie costiere del porto di Anzio e dei quali l’Artiglieria Pontificia aveva piena responsabilità, sempre affidate a sottufficiali preparati. Quanto all’ordine pubblico, i granatieri erano assegnati al servizio di maggior rappresentanza, come processioni, funzioni sacre, funerali o ricevimenti dei cardinali e dei nobili, mantenimento dell’ordine all’anfiteatro Corea170 e al teatro Valle e così via. I fucilieri controllavano la Cassa dei Depositi, il rispetto delle decisioni della Grascia, il gioco del pallone, 171 il mercato di piazza Navona, le sale da ballo, i teatri durante le stagioni e il carnevale, le feste pubbliche e i funerali dei borghesi. Nell’attività d’ordine pubblico erano coadiuvati dai dragoni, ai quali spettavano le ronde cittadine e, fuori dalle mura, il controllo dell’Agro Romano e delle campagne laziali, i servizi di scorta alla carrozza papale e quelli all’alta nobiltà romana e straniera di passaggio. L’esercito all’inizio non funzionò bene. L’addestramento si concentrò sulla forma e non sulla sostanza, cioè tralasciò il tiro e le manovre di guerra, forse perché era già noto che nulla giova alla disciplina più delle manovre in ordine chiuso e dell’addestramento formale. L’imposizione della disciplina fece sì che nei primi tempi le diserzioni fioccarono, arrivando a 200 in sei mesi. Un terzo dei disertori fu riacciuffato e punito con dieci giorni di prigione, seguiti da 50 bastonate prima di essere rispediti al reparto. Frequenti i furti, puniti con la prigione, seguita dai “giri di bacchetta”, cioè dallo sfilamento del colpevole fra due righe di commilitoni, ognuno dei quali doveva colpirlo con almeno un colpo della bacchetta del suo fucile, il tutto completato dall’espulsione dal servizio con segnalazione all’Uditore Civile. Ad ogni modo nel corso dell’estate del 1814 la situazione migliorò progressivamente e per la fine dell’anno il problema si poteva dire contenuto, se non risolto del tutto. Le armi furono all’inizio molto varie e in cattive condizioni, ma l’Armeria Vaticana fu rapidamente in grado di sostituirle con materiale nuovo. Le uniformi vennero regolamentate da subito, riprendendo i precedenti colori, cioè il blu per il servizio ordinario e il bianco per quello di cerimonia, conservando la coccarda bianca e gialla. Ai sottufficiali e alla truppa l’uniforme era distribuita dal Commissariato, con detrazione dalla paga. Gli ufficiali, invece se la dovevano far fare dal sarto, ma venivano indennizzati. Ogni soldato doveva ricevere dal Commissariato cappotto, camicia di panno, pantaloni di panno, pantaloni di tela, mutande, stivaletti di panno e di tela, 169 Non è chiaro cosa questi documenti intendessero esattamente con “Fiumicino”. La località sulla riva destra del braccio
settentrionale del delta artificiale del Tevere, dove oggi sorgono il paese e l’omonimo aeroporto infatti era una palude, segnata sulle carte come un golfo. Come si evince dalla nota 53, a nord della palude esisteva un castello, quello di Maccarese; a sud, sulla sponda sinistra del Tevere e nell’entroterra, il castello di Ostia Antica e, fra questo e il mare, lungo il corso del braccio più meridionale del delta del fiume, Torre San Michele, detta “di Michelangelo”, con, poco più a monte, un’altra torre medievale, a pianta quadrata, nota come Tor Boacciana, mentre, sempre fra il castello di Ostia Antica e il mare, ma sul braccio più settentrionale, c’era la Torre Nicolina, conosciuta pure col nome di Torraccia dello Sbirro. In ciò che poi divenne l’abitato di Fiumicino esisteva pure un'altra torre, la Torre Alessandrina, eretta nel 1662 e che fu inglobata negli edifici costruiti su progetto dell’architetto Valadier negli anni ’20 dell’Ottocento. Prima della sistemazione valadieriana Fiumicino in sé e per sé non esisteva altro che come un minuscolo villaggio di pescatori su una spiaggia; l’approdo era al largo e la movimentazione di merci e passeggeri era su natanti, come avevano fatto gli Austriaci nel 1744 per evacuare i loro feriti sulle navi inglesi dopo la battaglia di Velletri. 170 L’anfiteatro Corea era un teatro costruito sfruttando il Mausoleo d’Augusto. sulla siistra del Tevere, vicino all’Ara Pacis. Acquisito dalla Reverenda Camera Apostolica nel 1802 e passato dopo il 1870 al Ministero della Real Casa, divenne Teatro Augusteo nel 1908 e fu demolito nel 1937, liberando il Mausoleo da ogni sovrastruttura. 171 Si trattava del pallone col bracciale, non del calcio; fu popolarissimo fino al tempo della Marcia su Roma, richiedeva una grandissima abilità e si giocava uno contro uno o due contro due.
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bonetto (cioè berretto), due paia di scarpe, due camicie, zaino di cuoio; shakot di feltro,172 a cui, per i soli granatieri si aggiungeva il berrettone di pelo, da portare nelle cerimonie e durante le guardie. Le paghe non erano altissime: si andava dai 28 scudi e 80 bajocchi mensili del capitano di 1ª classe ai 3 e 30 del soldato semplice di qualsiasi corpo. In termini di potere d’acquisto erano inferiori al secolo precedente e nell’insieme molto più basse di quelle di pari livello gerarchico nell’amministrazione ecclesiastica ed inferiori a quelle dei pari grado di altri eserciti od amministrazioni italiane. Agli ufficiali spettavano alcune indennità – d’alloggio, vitto, cavalcatura e foraggio – mentre alla truppa venivano trattenuti sei baiocchi per le spese di rancio, lavanderia, barbiere, più un altro mezzo baiocco al giorno per le eventuali necessità accessorie di sartoria, calzoleria e altro, per cui Maestri, facendo un rapido rapporto fra il guadagno e le ritenute, notava che un soldato riceveva in pratica un solo scudo e 35 baiocchi al mese. Quanto era? Poco: col suo stipendio poteva comprare 45 razioni di pane, 173 cioè una razione e mezza al giorno. Si era assai lontani dalla pacchia di “prima dei Francesi.” Esisteva infine una diaria per le truppe in marcia. Agli ufficiali si dava uno scudo al giorno, ai sottufficiali 40 baiocchi e ai militari di truppa dieci.CLVIII In marcia, agli ufficiali era previsto un ulteriore indennizzo per il vitto e l’alloggio, mentre per la truppa i materiali e il vestiario erano considerati come “in doppio uso” e quindi se ne garantiva una sostituzione più rapida.174 La ricostituzione dell’esercito durò un paio d’anni. Nel 1816 era retto da un comando centrale, che aveva ripreso il nome (e le vesti talari) della Congregazione Militare. Ad essa sottostavano ora i Corpi: della Guardia Nobile; della Guardia Svizzera di Santa Sede; dei Carabinieri, su due reggimenti, il secondo dei quali divenne operativo nel 1817; d’Artiglieria, su sei compagnie, e del Genio che, come nei ducati padani e nel Regno di Sardegna, continuò a restare formato solo da ufficiali e impiegati. Aggiungendo tre reggimenti ternari di Fanteria di Linea (ognuno con propria banda, compagnia deposito e Stato Maggiore), uno di Dragoni su quattro compagnie e, dal 1819, un Battaglione dei Veterani l’esercito era pronto. Per avere il quadro completo delle armi papali, si potevano aggiungere il Corpo della Guardia di Finanza, la Guardia Civica 175 e la milizia provinciale pontificia, da mobilitare in caso di
172 “Cappotto; camiciola di panno; pantaloni di panno mischio; pantaloni di tela si l’anno ricevute; mutande sud; stivaletti di
panno e di tela; bonetto; due paja di scarpe; due camicie; muciglia di canavaccilo; giaccho di feltro di quelli costituiti per i fucilieri del cappellaro Mezzano.” Cfr. “Ordini del Comando Generale” del 30/09/1814, ASR, Soldatesche e Galere busta n. 805. 173 Valendo una razione di pane giornaliera 3 baiocchi, cfr. ASR, Soldatesche e Galere busta n. 805. 174 Ossia dato che la vita del materiale e del vestiario era conteggiata in giorni, trascorsi i quali, l’utente poteva cambiarli, per gli oggetti degli uomini in marcia le giornate di usura valevano il doppio, cfr. ASR, Soldatesche e Galere busta n. 641- 642. 175 La Guardia Civica, ufficialmente definita “Corpo della "Guardia Civica" per la sicurezza e la tranquillità della Capitale” è il Corpo pontificio dalla vita più complicata che si possa immaginare. Stabilita inizialmente nel 1796, dopo la seconda annessione francese del 1809 rimase in vita, ma venne sostituita nel 1812 da un corpo di guardie incaricato del servizio di polizia. Alla Restaurazione quel corpo continuò ad esistere per poco tempo, prima d’essere sciolto, già nel corso del 1814, e sostituito da uno nuovo, composto da otto battaglioni e incaricato del mantenimento dell’ordine pubblico a Roma. Il 26 gennaio 1815 pure questo nuovo corpo fu sciolto, ma si decise di ricostituirlo subito, a organici ridotti e mobilitabile a piena forza in caso di bisogno. D’iniziativa del Segretario di Stato, cardinal Consalvi, fu in seguito emanata la notificazione in nome di Pio VII del 27 dicembre 1815, con cui si ordinava ai cittadini romani nobili, possidenti e proprietari, dai sedici ai cinquant’anni, l’ascrizione alla Guardia Civica, il cui manuale fu pubblicato il 26 aprile 1823. Messa agli ordini del principe don Giulio Rospigliosi, era in sostanza una forza di polizia volontaria, mobilitabile su chiamata, presente poi anche nelle altre città dello Stato Pontificio, ed aveva una componente scelta, la Guardia Civica Scelta. Secondo l’articolo 2 della notificazione: “Nelle pubbliche funzioni, feste ordinarie e straordinarie, tanto religiose, che civili, e così pure nei pubblici spettacoli, la Guardia civica scelta sarà chiamata a mantenervi il buon ordine sotto l'immediata dipendenza dei rispettivi suoi capi.” I Civici erano retribuiti con due libbre di pane – la razione ordinaria del soldato – e 15 bajocchi per ogni giorno di servizio attivo. In compenso dell’arruolamento volontario erano esentati dalla tassa di patente.
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bisogno, non necessariamente solo in guerra, e composta da 19 reggimenti a piedi e 19 squadroni. Riorganizzata nel 1823 su sedici battaglioni quaternari a piedi e una compagnia a cavallo, venne ad allineare sulla carta 9.250 uomini, dei quali solo alcuni ufficiali e sottufficiali in servizio permanente. Nel 1828 la milizia, senza alterarne la forza, fu ulteriormente riorganizzata nel Corpo dei Cacciatori Provinciali, che doveva costituire la truppa leggera pontificia e si articolava in otto reggimenti binari di fanteria e due reggimenti di cavalleria da otto squadroni l’uno. Dal punto di vista ordinamentale gli anni fino al 1830 presentarono alcune variazioni rispetto alla pianta organica del 1816. Nel 1822, in seguito al “Piano di riforma e di organizzazione della Truppa Pontificia” di quell’anno, che mirava a un esercito stabile di 15.000 uomini, la fanteria fu ristrutturata su dieci battaglioni indipendenti: uno di granatieri, sette di linea e due leggeri, sparsi in diciannove sedi su tutto il territorio dello Stato, che potevano essere riuniti all’occorrenza in divisioni, comandate da un colonnello. Ad ogni modo gli effettivi arrivarono a circa 12.500 uomini e si tennero di fatto su quel livello fino agli Anni ‘40, quando, colla riforma Lambruschini e il conseguente Regolamento organico-amministrativo per la Truppa Pontificia Indigena, del 16 dicembre 1844, la forza di 12,500 uomini sarebbe stata sancita ufficialmente, Nel 1828 fu riorganizzato il vertice. La Congregazione delle Armi fu sostituita da un’apparentemente più laica Presidenza delle Armi, sempre sotto controllo ecclesiastico, ovviamente, il cui Consiglio Economico Militare nel luglio dell’anno seguente approvò una riforma organica. I dieci battaglioni e il Battaglione Veterani furono fusi in due reggimenti. Il 1° Reggimento ebbe un battaglione granatieri e tre di fucilieri – ognuno comprendente una compagnia cacciatori – mentre il 2° Reggimento ebbe quattro battaglioni fucilieri, ognuno dei quali con una compagnia granatieri e una compagnia cacciatori, e denominando uno dei battaglioni “delle Marche”. Entrambi i reggimenti furono posti al comando dei colonnelli già divisionari. I dragoni ebbero alti e bassi simili alla fanteria: Nel 1828 furono ridotti a due compagnie e destinati al rinforzo dei carabinieri. Adesso una nota, che non è tanto scontata: pure dopo la Restaurazione, come nel XVII Secolo, nello Stato Pontificio tutti, ma proprio tutti, inclusi i militari, dovevano dimostrarsi buoni cristiani, mediante la frequenza ai sacramenti e agli esercizi spirituali, obbligatori e certificati. A Roma il Genio e l’Artiglieria li facevano alla Chiesa di Santo Spirito, il Comando piazza nella Cappella dei Profossi di Piazza, gli altri reparti a seconda dei casi nelle chiese loro indicate. Con che partecipazione? Essendo obbligatori, totale.
Per chiarezza, anticipo qui alcune notizie che ripeterò nel testo al momento opportuno. L’essere composta da cittadini rendeva la Civica molto influenzabile dalla politica e poco controllabile dalle autorità. Non c’è da sorprendersi se, il 21 novembre 1825, non a caso in seguito ai torbidi nelle Legazioni, fu di nuovo ridotta alla posizione quadro, riattivandosi nel 1826. Pio VIII l’incrementò. Gregorio XVI, su impulso del cardinal Bernetti, con notificazione del 3 giugno 1831 oltre al servizio di polizia le affidò la difesa di Roma, con l’aiuto di due compagnie ausiliarie, fino al ritorno delle truppe regolari dalle Legazioni, avvenuto il quale, dal 25 luglio del ’31 le fu tolta la difesa dell’Urbe. In conseguenza dei Fatti di Romagna del 1831-32 la Civica venne sciolta in parecchie città del nord. Il 13 giugno 1838 il servizio ordinario della Civica fu soppresso e le rimase solo quello straordinario di mobilitazione. Nel 1842 era ormai una milizia volontaria permanente, incaricata del mantenimento dell’ordine pubblico e godeva di scarsa fama. Ne fa fede Belli nel suo sonetto 1898, notissimo, intitolato Er civico de corata – il Civico di fegato – in cui una Guardia Civica si giustifica dell’aver subito un’aggressione senza reagire perché, avendo fucile, sciabola e baionetta, “co sta battajeria d’impiccio addosso, com’avevo da fa, si benedetta?” cfr. BELLI, op. cit., vol. IV, pag. 1988. Dopo l’elezione di Pio IX, Bologna ed alcune città delle Legazioni chiesero di riavere la Civica. Di fatto fu loro accordata il 5 luglio 1847 e il 30 fu emanato un Regolamento per la Guardia Civica di tutto lo Stato Pontificio, ricalcato su quello della Guardia Nazionale in Francia, per cui la Civica era posta sotto i municipi e sotto l’autorità dei governatori, dei capi provincia e della Segreteria di Stato; poteva prendere le armi solo su loro ordine scritto e questo era emanabile solo dietro autorizzazione scritta del Governo Pontificio. La Guardia era organizzata per Comuni o per Circondari, per compagnie o battaglioni, che non si potevano riunire sotto un solo comandante senza speciale autorizzazione del cardinale Segretario di Stato. Con questa struttura avrebbe partecipato alle vicende del ‘48 e del ’49.
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E la convinzione? Risponde Massimo d’Azeglio: “bisognava sentire i giovani, i militari, gli impiegati, messi al bivio di rimetterci il posto o cantar miserere che moccoli attaccavano in via preventiva.”CLIX E’ vero che parlava di quanto ci si aspettava per l’imminente Anno Santo del 1825, ma si capiva che quanto valeva per l’Anno Santo valeva pure per gli anni ordinari, in cui erano previste prediche ed esercizi spirituali obbligatori per i militari almeno durante la Quaresima. Quale fosse l’atteggiamento della nobiltà e della borghesia di Roma nei confronti dell’Esercito appena restaurato è difficile dirlo, però una traccia, buona anche se flebile, l’abbiamo grazie allo studio di Giacomo Maestri sull’esercito papale del 1814; e non va a vantaggio della solidità del restaurato potere temporale. Scrive infatti Maestri – e ne riporto pure le note – a proposito degli ufficiali del 1814: “Tra tutti i 92 ufficiali dell’Esercito Pontificio ve ne sono 5 citati con i soli titoli nobiliari,176 a cui si aggiungono 11 membri del patriziato romano177 più 3 membri di rami cadetti delle grandi famiglie nobili romane 178 e napoletane.179Ciò vuol dire che il 12% degli ufficiali proveniva delle famiglie patrizie romane, il 5,5% proveniva dalla piccola nobiltà, percentuale alla quale va aggiunto un ulteriore 3% dovuto ai rami cadetti, per un totale del 20,5%. La percentuale più importante da prendere in considerazione è chiaramente quella delle famiglie patrizie, il 12%, che ci fa supporre un sentimento quantomeno attendista da parte dell’“alta società” romana nei confronti del rientrante Papa Pio VII, ipotesi confermata anche dall’assenza di giovani nobili nel quadro dei cadetti, pur essendo trascorsi sei mesi dal ritorno di Papa Chiaramonti a Roma.180 I Conti: Tenente Colonnello di Fanteria Giovambattista Eroli, Capitano d’Artiglieria Alderano Porti, Sottotenente di Cavalleria Serafino Novi, Sottotenente di Fanteria Cesare Severoli, Sottotenente di Fanteria Pietro Martire Paolucci. ASR, Soldatesche e Galere busta n. 805. 177I Patrizi Romani Coscritti: capitano di Fanteria cavalier Giacomo Bolognetti, tenente di Fanteria Andrea Bonarelli, sottotenente di Fanteria Alfonso Ricci, sottotenente di Fanteria marchese Mario Theodoli, sottotenente di Fanteria Calcedonio Vitelleschi (erede di un ramo cadetto dei marchesi di Rigatti), e l’unico di cui si possa ricostruire con certezza la genealogia è il marchese capitano di Cavalleria Giovambattista Olgiati (morto a Roma il 16/04/1841), 7° marchese di Poggio Catino (rinunciò alla giurisdizione feudale il 19/10/1816), Conservatore di Roma nel 1819 e 1825. Cfr. MORONI, op. cit. I Patrizi Romani: capitano di Fanteria Girolamo Della Porta, capitano di Fanteria Ardiccino Della Porta (fratello minore del precedente), capitano di Fanteria Oddo Dandini, capitano di Fanteria Pompeo Fioravanti, sottotenente Luigi Colonna (della linea Colonna di Stigliano). Papa Benedetto XIV (1740-1758) promulgò una bolla che impediva l’uso del titolo di nobile o patrizio romano, in atti pubblici o privati, a tutte le famiglie che non avevano dei loro componenti elencati nelle cariche amministrative cittadine oppure che mancavano dei requisiti necessari per essere considerate aggregate alla nobiltà romana. L’elenco delle 179 famiglie ammesse a godere del titolo e dei privilegi di Nobile Cittadino Romano prendeva il nome di “Libro d'Oro” ed era custodito in Campidoglio. L’esemplare originale fu distrutto durante l'occupazione dei rivoluzionari francesi sul finire del XVIII secolo. Alla Restaurazione ne venne pubblicata una seconda versione (spesso sbagliata nella riproduzione e descrizione dei blasoni) e, infine, con il Chirografo di Papa Pio IX datato 2 maggio 1853 fu resa pubblica la nuova normativa sulla conservazione e l'ammissione all'Albo dei Nobili Romani. Oltre alle famiglie menzionate genericamente per il solo cognome, Benedetto XIV aveva decretato la separazione di 60 di queste ordinando la creazione di un libro speciale, solo a loro destinato, e la relativa elencazione con nome e cognome dei rispettivi capi. Le 60 famiglie venivano indicate come "coscritte", cioè il numero risultava chiuso. Erano state scelte per la particolare importanza nella storia romana, per la fedeltà alla Chiesa e per la tradizionale appartenenza al ceto governativo cittadino ab antiquo e Benedetto XIV aveva delegato loro il privilegio esclusivo del governo amministrativo dell'Urbe. Cfr. AMAYDEN, T., con note ed aggiunte [di] BERTINI, C.A., La storia delle famiglie romane, Edizioni Romane Colosseum, Roma, 1987. 178 I Sottotenenti Costantino e Giovambattista Giustiniani, eredi di una linea laterale dei Giustiniani de Banca di Bassano. Cfr. AMAYDEN, op. cit. 179 Il capitano Massimiliano Carafa di Colombrano, lontano parente del più celebre principe Carafa al comando delle forze del Regno di Napoli in quel periodo. 180 L’unico presente all’arrivo a Roma nei ranghi fu il cadetto conte Vincenzo Vespignani. Solamente il marchese Lepri inviò suo figlio Alessandro come Cadetto: “Il Marchese Alessandro Lepri sarà riconosciuto Cadetto nella comp. Cattivera del 2° battne.” Sic, “Ordini del Comando Generale” del 16/07/1814, ASR, Soldatesche e Galere busta n. 805. 176
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Sappiamo infatti che per molte famiglie nobili cadute in disgrazia, i rovesciamenti polirci potevano sempre dar luogo ad una nuova ascesa verso maggior potere, spesso sfruttando la carriera militare. Altra considerazione, però, da fare riguardo al patriziato romano è il rapporto che intercorre tra le 60 famiglie coscritte e 6 ufficiali patrizi coscritti al servizio pontificio nel novembre 1814, pari al 10%. Ciò vuol dire che anche la cerchia medio-alta della società romana partecipava molto cautamente alla restaurazione di Papa Pio VII, a differenza magari della famiglia patrizia “semplice” Della Porta che dava 2 elementi al corpo ufficiali, con l’intenzione quindi di carpere diem, per raggiungere posizioni più elevate nella scala sociale romana. La precedente percentuale del 20,5% degli ufficiali di nobile nascita ci induce anche a sottolineare come anche nello Stato Pontificio il passaggio della Rivoluzione e di Napoleone avesse distrutto l’ultimo baluardo di Ancièn Règime che in ogni Stato era prerogativa quasi esclusiva della nobiltà (con percentuali che nel Settecento difficilmente scendevano sotto il 50%): per l’appunto, l’esercito.”CLX In definitiva, non contando la milizia provinciale, nel periodo fra il 1816 e il 1830 la forza dell’esercito di Sua Santità si stabilì fra i 6.000 e i 7.000 uomini – un po’ più di prima di Napoleone – e tale sarebbe rimasta fino al 1848. Poteva bastare, perché l’Italia era guardata dall’Austria e l’Austria era sorretta dalla Santa Alleanza, per cui non ci sarebbe stato da preoccuparsi. In realtà da preoccuparsi ce n’era eccome: ci pensavano i Carbonari. IV) I Carbonari, l’Austria, il Papa e i Moti del ‘21 La Carboneria fu un’eredità del periodo napoleonico. A tutt’oggi non è per nulla certo da dove sia arrivata o come sia nata. Secondo quanto deposto dai Carbonari processati nel Lombardo-Veneto nel 1820 e nel ‘21, sarebbe apparsa a Napoli nel periodo Murattiano, estendendosi lungo il litorale abruzzese e la costa adriatica al seguito delle truppe poi sconfitte a Tolentino, fino a fiorire in abbondanza nelle Marche, nelle Romagne e in Emilia già nel 1815-16. Finalizzata all’unità italiana in forma repubblicana, si articolò in una miriade di gruppi e sottogruppi, poco in contatto fra di loro, abbondantemente scoordinati, uniti da una certa eccessiva e magniloquente teatralità – ereditata dalla Rivoluzione Francese – che rivestiva una marcata propensione all’omicidio politico e al terrorismo. Dopo la Restaurazione, la prima ad avvertire il pericolo carbonaro fu proprio l’appena riorganizzata polizia pontificia, che nel 1817 si trovò davanti a un fallito tentativo rivoluzionario nelle Marche. Secondo gli inquirenti del vicino Lombardo-Veneto, però, non tanto la polizia quanto sopratutto le autorità papali sottovalutavano il pericolo e non lo contrastavano con la necessaria energia. Era vero? Antonio Salvotti, l’inquirente dei due primi processi del Lombardo-Veneto contro i Carbonari, lo sostenne, ma altri erano di parere opposto e probabilmente avevano ragione: la polizia pontificia conosceva bene il pericolo e la Santa Sede non si faceva illusioni. Quando nel 1818 la polizia austriaca procedé agli arresti che portarono al processo Foresti-Solera, in sostanza il primo contro i Carbonari, le notizie su di loro erano ancora poche e confuse e sarebbero venute alla luce in modo organico proprio grazie agli interrogatori preparatori di quel procedimento e del successivo, quello contro il gruppo comprendente Silvio Pellico e Piero Maroncelli. Ciò che però fecero arrivare sul tavolo degli inquirenti lombardo-veneti e in particolare su quello di Salvotti, fu una vera e propria bomba politica, perché Piero Maroncelli svelò qualcosa che gli Asburgo di Vienna e Firenze sapevano benissimo, ma i loro magistrati no. C’erano stati e forse c’erano ancora dei contatti fra i Carbonari delle Legazioni e degli emissari austro-toscani per una sollevazione che portasse l’Emilia, la Romagna e le Marche nelle paterne braccia del Granduca, coll’augusto compiacimento e venerato 243
benestare di Sua Maestà Imperiale e Reale Austriaca. Era quindi opportuno e necessario dichiarare da Vienna e da Milano che la polizia pontificia conoscesse poco e male quanto facevano i Carbonari, per non ammettere che a Roma si sapesse quanto l’Austria stava cercando di fare. Ma come mai i Carbonari erano disposti almeno a considerare l’ipotesi di passare dal governo del Papa a quello altrettanto assoluto austriaco o toscano? Era vero che l’Austria fino al 1820 godeva fama di liberale e Roma no, ma era quello il motivo? No, la Carboneria trovava un terreno fertile nello Stato Pontificio, o, almeno nella sua parte settentrionale perché la restaurata amministrazione papale non aveva ripristinato le autonomie del periodo antico. La situazione fu descritta molto bene dal solito informatore della polizia austriaca, che, nell’aprile del 1819, scriveva da Roma: “Per quanto il Governo Pontificio abbia procurato di fare dopo il ritorno del S. Padre in Roma per procacciarsi l’amore de’sudditi, pure lo spirito pubblico è sempre indisposto contro del medesimo, trovandosi essi delusi di quanto erano stati lusingati dal motu proprio del Papa, che tutto sperava principî di liberalità e d’imparzialità nell’amministrazione della giustizia. Il popolo Romano ama S.S. come Capo Supremo della religione, ma non lo vorrebbe sovrano temporale. Diverse persone che annoverar si potrebbero tra le più assennate, le più imparziali, ed integerrime, osservano che non potranno mai essere felici i sudditi pontifici sotto l’attual Governo, la di cui sovranità risiede in un numero grande di cardinali, e di prelati, le passioni personali, gl’impegni, gl’intrighi, le protezioni sanno aprirsi un cammino più che in ogni altro Stato, e non di rado si vede oppressa la virtù ed il malvagio ed il vizioso trionfano, e però i Romani non poco se ne dolgono delle ingiustizie che vengono commesse; ma guai però a quel suddito che si proponesse di svelarle al Pontefice; egli avrebbe a temere di essere recluso, o per lo meno di essere esiliato dalla propria patria.”CLXI Spiegò poi Massimo d’Azeglio: “Ognun sa come il Governo temporale di prima, per quanto cattivo, era però temperato da patti, capitoli, diritti provinciali e comunali, da usi, tradizioni; quindi infinitamente meno peggio di quello che stabilì il Cardinale Consalvi e seguito, facendo la scimmia a Napoleone. Questi lasciava all’Europa in regalo, per sua memoria, le macchine e gl’istrumenti più ingegnosi che abbia mai saputo trovare il despotismo, da quando cominciò ad infierire sulla specie umana: Polizia e Burocrazia. … i Principi, come i ministri reduci dagli esigli, trovarono comodo di accettare l’eredità di Napoleone con benefizio d’inventario: tenersi la polizia, la burocrazia, più le imposte, gli eserciti fuor di proporzione e via via…”CLXII Napoleone aveva spazzato via i secolari privilegi e le autonomie di cui godevano prima della Rivoluzione quasi tutte le comunità e le aveva inserite in uno stato centralizzato: nell’Impero quelle del Lazio ed Umbria, nel Regno Italico le Marche e l’Emilia. Alla sua caduta, la restaurata amministrazione pontificia aveva mantenuto la struttura centralizzata. Per certi versi si faceva prima che a cambiarla, per altri – come sottolineò Pio VII – era assai più conveniente tenerla, perché nel crearla Napoleone aveva fatto un favore alla Santa Sede. Ora si poteva smettere di parlare di Stati del Papa al plurale e cominciare a parlare di Stato Pontificio al singolare, con molti vantaggi, primo fra tutti la centralità della gestione del denaro. Può darsi che il ritorno all’autonomia locale avrebbe permesso una sopravvivenza dei piccoli centri di potere urbani nati sotto Napoleone e costituiti da borghesi rimasti tali o da lui nobilitati; è certo però che la centralizzazione non solo impose il controllo romano su tutto, come mai in passato, ma lo fece 244
reinstallando un’amministrazione il cui vertice era guidato da soli ecclesiastici. E’ vero, continuavano ad esserci monsignori e cardinali laici – ad esempio monsignor Pacca era un laico e non prese mai gli ordini e Consalvi lo stesso – però la tonaca era sempre una condicio sine qua non si poteva quasi nemmeno iniziare una carriera, carriera che veniva inesorabilmente troncata dal matrimonio, per contrarre il quale bisognava abbandonare la veste anche solo d’abate laico. In più la tonaca era pagata assai meglio della spada. Benché la differenza si attenuasse nel corso dei quasi sessant’anni fra la Restaurazione e la caduta del Potere Temporale, come ha evidenziato Giuliano Friz gli stipendi dei gradi militari più elevati non solo diminuirono del 30% nel periodo fra il 1828 e il 1870, ma ammontarono sempre a una frazione di quelli ecclesiastici. Il tenente generale – l’unico – a capo di tutte le forze pontificie, che sarebbe passato dai 344 scudi al mese del 1828 all’equivalente di 210,50 scudi in lire romane del 1870 – a dispetto della perdita di potere d’acquisto avvenuta nel frattempo a causa dell’aumento dei prezzi – non avrebbe mai preso più d’un ottavo e spesso solo un decimo della prebende dei prelati maggiori, cardinali, vescovi o capi di ordini religiosi. Un brigadier generale, che si sarebbe visto ridurre lo stipendio da 150 a 140 scudi mensili nei vent’anni fra il 1850 e il 1870 e senza considerare l’inflazione, non avrebbe mai superato il livello d’un prefetto di Segnatura, d’un avvocato generale della Reverenda Camera Apostolica o d’un revisore di Dataria, cariche alte ma non altissime, mentre un intendente militare, giunto al grado più alto, avrebbe, coi suoi 1.500 scudi annui, preso meno d’un uditore di Rota, di solito giovanissimo e al principio della carriera. Aggiungendo che tanto nel civile come nel militare le carriere dipendevano non dai meriti e dalle competenze, ma dagli appoggi ecclesiastici, la scelta fra la spada e la tonaca era chiara in partenza. Sia come sia, il malgoverno dei preti era qualcosa d’inenarrabile, in cui la misericordia nei confronti del peccatore infallibilmente bloccava l’esecuzione della legge, inceppava la giustizia, e, complici il diritto d’asilo, le raccomandazioni più o meno esplicite e dovute ai motivi più o meno onesti di un prelato qualsiasi, dai monsignori ai cardinali inclusi, generava un clientelismo e un caos assoluti. Le conseguenze? Basti questo esempio. Scriveva il consigliere aulico Giuseppe Maria Sebregondi al principe di Metternich il 13 maggio 1833 a proposito dell’amministrazione militare pontificia: “Fui ai magazzini militari di Roma. Per dare un’idea a V.A. del disordine che vi regna, Le dirò che si confezionarono mille e dugento uniformi d‘un colore che non appartiene ad alcun corpo pontificio, che si acquistarono quattromila sacchi a pelo per l’infanteria, ed essi di tale piccolezza da non capirvi nemmeno metà degli effetti che vi si debbono contenere; che si comprarono i cordoni e gli spallini per i supposti volteggiatori non esistiti mai e che centinaia di pezze di panno, unitamente ad innumerevoli oggetti di vestiario, giacciono alla rinfusa in camere o umide, o esposte al sole ed alla polvere, che s’innalza dalle strade vicine, Chi vuol lucrare suggerisce alcuna fattura [fabbricazione] e questa ha subito luogo. Nella settimana scorsa si ordinarono fuori asta ventiduemila paia di pantaloni di tela e la persona che ne assunse l’incarico lo cedeva di poi con il guadagno d’intorno ad ottomila scudi.”CLXIII Insomma: amministrare era impossibile, perché non si poteva imporre il rispetto della legge e tanto basti. Come dar torto a chi, volendo un’evoluzione, accusava il regime clericale d’essere l’origine di tutti i mali che affliggevano lo stato e la società? Un altro elemento in apparenza contraddittorio e in realtà destabilizzante era che il Papa, perseguitato come pochi da Napoleone, ne avesse accolto tutti i parenti giunti a chiedergli asilo. A parte lo zio, cardinale Fesch, la madre dell’Imperatore, madama Letizia, viveva a Roma in Palazzo Rinuccini, poi rinominato Palazzo Bonaparte, dove mori nel 1836 e dove prima della Rivoluzione aveva alloggiato Goethe. Con lei man mano arrivarono negli Stati Romani Paolina principessa Borghese, Luciano,
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nominato da Pio VII principe di Canino, coi vari figli,181 uno dei quali ritroveremo nel 1848 nella Guardia Civica e nel 1849 alla testa della costituente della Repubblica Romana; poi Ortensia de Beauharnais, moglie dell’ex re d’Olanda Luigi Bonaparte, coi due figli, di cui il primo sarebbe morto carbonaro nel 1831 e il più giovane imperatore dei Francesi col nome di Napoleone III e, infine, Gerolamo, l’ex re di Vestfalia, il più giovane dei fratelli di Napoleone, che si stabilì nelle Marche e ci rimase fino alla fine del 1831. Che Pio VII avesse agito con generosità permettendo ai Bonaparte di rifugiarsi a Roma è indubbio, ma equivaleva a piazzare la benzina accanto al fuoco. I Carbonari erano figli della Rivoluzione. Mettere vicino a loro tutti, o quasi, i parenti di chi aveva esportato la Rivoluzione e l’idea di Repubblica non aristocratica era come tener viva la fiamma della rivolta davanti a chi la rivolta voleva fare; e infatti lo si sarebbe visto prima nel 1831 e poi nel 1849. Per il momento però successe una cosa stranissima. La polizia pontificia che le autorità austriache definivano inetta e lo Stato Pontificio che deridevano come corrotto, rimasero del tutto esenti dai moti del ’21, così come nessun ufficiale pontificio aderì ai successivi moti del ‘31. Il 1821, com’è noto, fu un anno di rivoluzione in quasi tutta Italia dove, del resto, le rivolte erano cominciate già l’anno prima. Il primo focolaio era stato a Napoli, anzi, a Nola; il più pericoloso in Sicilia. La situazione peggiorò rapidamente. L’Austria si preoccupò. Moti e congiure stavano venendo alla luce un po’ dovunque, sia nei suoi dominii sia negli Stati italiani e, dopo il Congresso di Lubiana e la richiesta d’intervento austriaco fatta da Ferdinando re di Napoli, le truppe del generale Frimont marciarono attraverso lo Stato Pontificio. Le unità provenienti da Padova, passavano per Rovigo, Polesella, poi Ferrara e Malalbergo prima di raggiungere Bologna e da là proseguire verso sud. Lo stesso valeva per quelle in arrivo da Mantova, che, per la via di Villafranca, Verona, Carpi e Modena, entravano negli Stati Pontifici e puntavano anche loro su Bologna, città che avrebbe visto gli Austriaci installarvi in quegli anni una guarnigione permanente e andarsene solo nel 1827. Mentre gli Austriaci erano impegnati a Napoli, si accese il moto piemontese dei Federati, coll’insurrezione di mezzo esercito sardo, spezzata a Novara dall’altra metà. La repressione seguì i combattimenti. I processi fioccarono, i patrioti finirono in carcere o in esilio e per un decennio l’ordine parve ripristinato. In seguito a quei moti e su pressione delle varie Potenze, Pio VII il 13 settembre del 1821 scomunicò i Carbonari colla bolla Ecclesia a Jesu, nota pure come Ecclesia a Jesu Christo o, in Italiano, come Tanti e così fieri nemici. E’ stato sottolineato che il Papa non avesse troppo desiderio di condannare la Carboneria, che l’abbia fatto solo in seguito a fortissime pressioni diplomatiche e che il risultato sia stato pessimo, poiché: “Da quel momento cospirare per ottenere migliori condizioni di governo significò anche lottare contro la Chiesa come autorità morale. con la conseguenza di trasformare in anticlericale quello che fino ad allora era stato un movimento riguardante la sola sfera temporale. Poiché il sentimento religioso era profondamente radicato nelle popolazioni (si ricordino le sollevazioni antifrancesi) e queste non erano ancora pronte per l’ateismo, si preparò il terreno affinché il seme del repubblicanesimo mazziniano, con il suo messianesimo e morale laica attecchisse in ogni ceto sociale, soprattutto in Romagna. Si favorì in definitiva, per compiacere l‘Austria e la Francia, la sostituzione della morale cattolica con quella mazziniana.”CLXIV
181 Tra i quali Carlotta, che il 27 dicembre 1815 aveva sposato don Mario Gabrielli, principe di Prossedi, fratello di Pompeo,
comandante dei dragoni pontifici.
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Quest’analisi delle conseguenze è perfetta, però va sottolineato che nella Ecclesia a Jesu Pio VII accusava i Carbonari di essere una filiazione della Massoneria, già condannata fin dalla metà del Secolo precedente, dunque dei Deisti i quali: “hanno per principale oggetto di dare a chicchessia ampia licenza di fabbricarsi a proprio talento, e secondo le proprie opinioni la Religione da tenersi, introducendo così l’indifferentismo religioso, di cui appena potrebbe imaginarsi cosa più perniciosa.”CLXV Sotto il profilo confessionale questo era più che sufficiente a condannarli. Per il resto è verissimo che la scomunica non servì a nulla salvo a spingere lontano dalla Chiesa i patrioti. Ad ogni modo, se rimase indenne dai moti di vasta portata come quelli napoletani o piemontesi, lo Stato Pontificio venne funestato da numerosi assassinii politici di marca prettamente carbonara almeno dal dicembre del 1820. Il primo omicidio sensazionale fu quello del comandante la piazza di Ravenna, l’8 dicembre di quell’anno. Seguirono assassinii di funzionari civili e di polizia ed entro l’aprile 1824 nelle Legazioni romagnole se ne contarono almeno altri dieci, fra cui quelli di due preti. Intanto Pio VII era morto nell’agosto del 1823 e un mese dopo, il 28 settembre, era stato eletto Leone XII, grazie al veto austriaco contro il cardinale Severoli, cugino d’un ex-generale del Regno Italico. Papa Leone aveva incominciato sbarazzandosi di Consalvi e nominando il cardinal della Somaglia segretario di Stato, poi, sei giorni dopo la sua elezione, il 4 ottobre del 1823, aveva annunciato una diminuzione delle imposte indirette e una riforma del personale civile e militare, più l’insediamento d’una commissione cardinalizia incaricata di rivedere il codice di procedura e redigere quelli civile e penale. Le riforme, dove più dove meno, si erano arenate e non avevano contribuito a calmare gli animi. Quando il 5 aprile 1824 venne ucciso con una pistolettata alle spalle il conte Domenico Matteucci, direttore provinciale della polizia di Ravenna, il Papa perse del tutto la pazienza e il 4 maggio nominò legato a latere nelle Legazioni il cardinale Agostino Rivarola, con amplissimi poteri “onde porre un argine ai progressi dei Carbonari nelle Legazioni ed impedire gli eccessi che andavano commettendo.”CLXVI Agostino dei marchesi Negrone Rivarola, cardinale diacono del titolo di Sant’Agata alla Suburra, aveva retto con mano rigida lo Stato Pontificio nei primissimi tempi della Restaurazione. Non conosceva compromessi – il che al tempo di Napoleone gli era costato la prigione da parte dei Francesi – ed era la persona adatta a stroncare il terrorismo, carbonaro o meno. L’11 maggio 1824 era già a Ravenna. Si insediò in carica il 19 ed emanò alcuni provvedimenti. Conoscendo l’animo umano, istituì una cassetta per le denunce anonime, di cui annunciò d’essere l’unico ad avere le chiavi. Bastò: le delazioni piovvero in tal numero da far ripartire le indagini. Ci fu un’ondata d’arresti come non si era mai vista. Al 25 agosto si contavano oltre mille imputati, ma di questi a malapena settanta furono effettivamente interrogati e la sentenza uscì il 31 dicembre 1825 con 513 condanne inappellabili, di cui sette a morte. Rivarola in persona le commutò praticamente tutte – quelle a morte divennero ergastoli – e pensò d’aver messo fine alle uccisioni: vane speranze. Quando nella primavera del 1826 la sua attività fu estesa a Forlì, lui stesso scampò per sbaglio alla morte il 23 luglio, mentre gli assassinii continuavano. Meno d’un mese dopo, il 22 agosto, Rivarola fu richiamato a Roma e sostituito da una commissione mista, presieduta da monsignor Invernizzi, con giurisdizione sulle quattro Legazioni e sulla Delegazione di Pesaro-Urbino. Invernizzi seguì una linea non tanto diversa da Rivarola e assicurò ai delatori – non importa quanto rei o correi – l’impunità e un premio in denaro. Funzionò. Le carceri si riempirono in fretta, i processi furono celebrati altrettanto in fretta e le sentenze eseguite senza ripensamenti, sia là che a Roma, come era stato nel caso di Targhini e Montanari nel novembre del 1825. Gli attentati da parte dei Carbonari182 erano un sintomo di quanto l’Italia fosse inquieta, ma dopo il 1830 ci si accorse che lo era in modo diverso: qualcosa era cambiato. 182 La Carboneria era stata nuovamente condannata con la bolla di Leone XII Quo graviora, del 13 marzo 1825.
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Iniziavano a diffondersi gli scritti di Mazzini, il quale parlava apertamente d’Italia una e repubblicana e spargeva di nuovo l’idea di quella coscienza nazionale ed unitaria affacciatasi intorno al 1770, sparita nel 1815 e mancata fino allora. I moti carbonari – diceva giustamente – erano falliti perché scoordinati; ed erano stati scoordinati perché non erano chiare le idee sui risultati da ottenere. Nelle “vendite” – come si chiamavano i gruppi degli affiliati alla Carboneria – si era parlato di monarchie costituzionali, di repubbliche di varie tendenze, di insurrezioni, di libertà, di socialismo, di tutto e di nulla. Insomma: delle forze c’erano state, ma era mancato loro il catalizzatore; ed ora Mazzini lo stava per creare mediante la sua Giovine Italia e, come vedremo, la spinta gli sarebbe venuta proprio dallo Stato Pontificio. Adesso si cominciava a parlare seriamente d’unità e ci si rifece ai modelli antichi ma pure a quelli recenti e questo era più pericoloso, specie per l’Austria, perché l’unico caso d’unione nazionale, seppur parziale, l’unico esempio di Regno d’Italia più o meno indipendente che si fosse chiamato così dai tempi di Arduino in poi, era stato quello di Napoleone. E un sintomo significativo di questo richiamo ad un passato assai prossimo, a cui tanti Carbonari avevano partecipato, fu la diffusione della bandiera del Regno Italico. Nei moti del ‘21 era stato usato un tricolore, è vero, ma si era trattato di quello carbonaro: azzurro, nero e rosso; ora invece si tornava al verde, bianco, rosso della Cisalpina. Fu un ulteriore segno della maggior pericolosità dei moti del 1831 rispetto ai precedenti. Il ‘31 allarmò perché dimostrava che il ‘21 non era stato un caso, semmai un primo tentativo; poi perché si videro funzionari ed ufficiali ex-napoleonici, come Pepe, Zucchi, Sercognani e Armandi, che nel ’21 non si erano mossi o eran restati col governo, schierarsi ora contro il potere costituito. Questo testimoniava il distacco definitivo della categoria dei napoleonici dai governi restaurati e la fine della cooperazione; e avveniva perché i sovrani continuavano a rifiutare di concedere l’evoluzione politica, cioè la spartizione del potere colla classe che l’aveva parzialmente esercitato sotto Napoleone. Appunto sperando in quella spartizione, nel ’21, a Napoli, il generale Guglielmo Pepe era stato dalla parte della corona – e ci sarebbe tornato nel ‘48 – ma per questo nel ‘31 Zucchi si sarebbe schierato contro il Papa. Ecco perché la bandiera del Regno Italico ricompariva nelle file dei rivoltosi, i quali, per di più, grazie a Mazzini, avrebbero trovato una valida base teorica per giustificare le loro azioni: stavolta si voleva l’unità. Prima del ’30, come avrebbe scritto d’Azeglio “I moti di Napoli e di Torino, repressi così completamente, avevano lasciata nelle masse l’impressione che il mischiarsi di politica era mestiere da matti o da birbi, e non da persone oneste e di buon senso.”CLXVII Adesso proprio i moti del ’31 e i conseguenti Fatti di Romagna avrebbero cambiato le idee di molti. In più bisognava guardare con sospetto la Sardegna. Nell’aprile 1831 Carlo Alberto di Savoia principe di Carignano era divenuto re di Sardegna. Con lui saliva al trono un ex-ufficiale napoleonico, un ex-amico dei Carbonari, un uomo, insomma, che Vienna avrebbe fatto bene a tener d’occhio.
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Capitolo XX I Fatti di Romagna e i Moti del ‘31 I) I Moti del ‘31 Nel 1830 il fermento politico era dappertutto in Europa e l’avvenimento di maggior portata fu la rivoluzione parigina, coll’avvento alle Tuileries del ramo cadetto dei Borbone-Orléans. I fatti di Francia diedero l’avvio a quelli d’Italia. Si verificarono moti di Carbonari e Mazziniani a Modena, Bologna, Parma e nelle Marche, ma i più pericolosi furono quelli dell’Emilia-Romagna. In termini di durata e di numero dei coinvolti furono tutto sommato poca cosa. Ebbero però delle conseguenze così determinanti per il Risorgimento da meritare che se ne parli a fondo. L’insurrezione modenese, fatta fallire da Francesco IV d’Austria-Este la sera del 2 febbraio 1831 e costata il patibolo a Ciro Menotti, fu la miccia che fece esplodere le Legazioni. In poco più di dodici ore, nella giornata del 3 febbraio, la notizia arrivò a Bologna completamente cambiata: Modena era insorta, il Duca era scappato e il moto era riuscito; prova aggiuntiva e verificabile: Sassuolo, Carpi e Mirandola erano in mano agli insorti. Bologna entrò in fermento e a sera il Pro-Legato, monsignor Nicola Clarelli Paracciani, si trovò in difficoltà. Convocò il conte Bentivoglio, e il cavalier Barbieri, comandanti dei carabinieri e del presidio, e se ne sentì dire che non ci si poteva fidare delle truppe. Escluso l’uso della forza, monsignor Clarelli trasmise i poteri al Senato e incaricò il gonfaloniere, marchese Francesco Bevilacqua, di formare una commissione di governo e una guardia provinciale a garanzia dell’ordine. La sera del 4 Bevilacqua tornò cogli altri membri della Commissione e accettò l’incarico, a condizione però che monsignor Clarelli lasciasse la città. La notizia, propalata da un manifesto affisso il 5 febbraio, arrivò a Modena in un lampo e indusse il Duca a fuggire davvero, a Mantova, mentre la duchessa di Parma il 15 si spostava a Piacenza. Il risultato fu che insorsero pure Faenza, Cesena, Forlì, Rimini e Ravenna; Ferrara no, perché, come vedremo, c’erano entrati gli Austriaci. Tolti cinque morti a Forlì, la rivolta filò liscia come l’olio e pressoché incruenta dappertutto. Rifacendosi alla Repubblica Cispadana di trentacinque anni prima, le città insorte mandarono a Bologna i propri delegati perché si unissero alla Commissione. Questa, valendosi legalmente del mandato avuto dal ProLegato, si autoproclamò Governo Provvisorio e l’8 febbraio decretò: “Il Dominio Temporale che il Romano Pontefice esercitava sopra questa Città e Provincia, è cessato di fatto, e per sempre di diritto.”CLXVIII Il passo seguente fu la convocazione dei comizi elettorali per eleggere i deputati che avrebbero definito il nuovo assetto istituzionale, tra loro il marchese Guido Taddeo Pepoli, marito di Letizia Murat, una delle figlie di Gioacchino Murat e di Carolina Bonaparte. 183 Ovviamente anche tutte le altre città elessero i propri deputati e li mandarono a Bologna, che, più nolente che volente, si trovò capitale della strana entità che stava nascendo. Per la parte militare, si istituirono, sempre a Bologna, una Direzione Generale di Finanza e un Comitato di Guerra, a capo del quale venne posto il generale Grabinski, quello che nel 1809 aveva sconfitto gli insorti che bloccavano Ferrara. 183 La Famiglia Pepoli aveva signoreggiato Bologna nel Medioevo e si era poi divisa in tre rami. Il principale, senatorio, che
dava diritto all’appellativo “dei quaranta” dopo il cognome, si era estinto nella seconda metà del Settecento, lasciando i rami marchionale e comitale. Carlo Taddeo apparteneva al ramo marchionale e i suoi cugini a quello comitale, più noto e l’unico oggi esistente. Perciò, benché venisse fatta spesso molta confusione negli atti del tempo, il titolo di Carlo Taddeo era quello di marchese.
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Il passo seguente, in Emilia come in Romagna, fu prima la formazione della Guardia Nazionale, comprendente pure un battaglione di studenti universitari, e poi la concentrazione di alcune centinaia dì guardie nazionali fra Rimini e Cattolica. La mossa successiva sarebbe stata verso Pesaro dove, già il 9 febbraio, l’ex maggiore napoleonico Giuseppe Sercognani era stato fra quanti avevano costretto il delegato apostolico monsignor Cattani a cedere ufficialmente il governo a un Comitato Provvisorio. Meno facile era stata invece la rivolta ad Ancona. C’era giunto un presidio austriaco che aveva reagito subito, ma, dopo un primo successo, si era visto contrastato da una guerriglia urbana assai efficace, comandata dall’ex-colonnello napoleonico Pier Damiano Armandi, che dal 1821 al 1825 era stato precettore dei figli di Luigi Bonaparte e da alcuni anni amministrava i beni di Girolamo Bonaparte nelle Marche. Saputo dei fatti di Pesaro, Armandi chiese aiuto a Sercognani, nel frattempo nominato colonnello, che, riuniti i Pesaresi alle sopraggiunte guardie nazionali romagnole nella “Vanguardia”, arrivò in fretta e assediò la città, tenuta dagli Austriaci del tenente colonnello Suterman e dal Legato monsignor Fabrizi. Contemporaneamente una compagnia regolare della fanteria di linea pontificia, al comando del capitano Stelluti e passata fra gli insorti, si diresse a San Leo e il 12 intimò la resa al presidio. Il maggiore Bavari, che lo comandava, non ci trovò nulla da ridire: cambiava la bandiera, ma i soldati erano dello stesso esercito. La resa di San Leo – la temutissima e minacciosa rocca dove Cagliostro aveva finito i suoi giorni – echeggiò in tutti gli Stati papali, insieme alla nuova della sollevazione tentata a Roma la sera del 12 febbraio e domata al prezzo d’un morto e quattro feriti. 184 Va notato che tutto questo pasticcio insurrezionale era scoppiato esattamente al momento dell’elezione del nuovo papa, l’eminentissimo e reverendissimo signore frà Mauro, di Santa Romana Chiesa cardinal Cappellari, “qui sibi nomen imposuit Gregorii”, eletto il 2 febbraio 1831, cioè proprio il giorno del fallito moto modenese. Non c’è da stupirsi che, iniziato fra tali turbolenze, il pontificato di Gregorio XVI ne abbia risentito in senso reazionario; strano sarebbe stato il contrario. Il marchigiano cardinal Bernetti, subito confermato a capo della Segreteria di Stato, appena appreso quanto avveniva, cominciò a preparare la reazione e intanto inviò ordini a monsignor Fabrizi ad Ancona, tramite il cardinal Benvenuti, vescovo di Osimo, che tornava in sede dopo il conclave. Benvenuti prese le carte, partì, ma, giunto a Terni, si accorse che il viaggio rischiava di diventare pericoloso e scrisse a Roma per una scorta di 250 carabinieri. Bernetti gli mandò 250 fanti di Linea comandati dal tenente colonnello Bentivoglio e l’ordine d’organizzare la controrivoluzione mediante una chiamata alle armi dei popoli fedeli e previa la stesura d’un piano, da mandare a Roma per l’approvazione: sistema facile e soprattutto rapido. Benvenuti arrivò ad Osimo e ci trovò un governo provvisorio, costituitosi il 15 febbraio. Provò a proseguire verso Ancona, ma fu riconosciuto, arrestato e spedito a Bologna, mentre Ancona la mattina del 17 si sarebbe arresa agli insorti. Nel frattempo gli Austriaci, passato il Po, avevano occuparono Fiorenzuola, nel territorio di Piacenza, dove quel medesimo 15 febbraio si rifugiò la duchessa Maria Luigia. La giunta di governo insurrezionale di Parma, per non destare allarme, commentò che, essendo Fiorenzuola nel Piacentino, in mano a Maria Luigia, non c’era nulla da obiettare se c’erano entrati gli Austriaci: Piacenza era un altro Stato, in unione personale con Parma, perciò Parma non si sarebbe ingerita, seguendo il principio del non intervento, sancito dal congresso di Vienna. 184 Il principe don Agostino Chigi scrisse nel suo diario che il 12 febbraio, dopo mezzogiorno, era stata pubblicata una
notificazione del governatore di Roma con cui si proibivano le maschere e tutti i divertimenti carnevalizi, incluso il teatro. Poco prima “di due ore di notte” cioè delle sette di sera, un gruppo di persone s’era presentato a Piazza Colonna, aveva sparato dei colpi di pistola alla sentinella e incominciato a gridare “Viva Filippo “ cioè viva Luigi Filippo, e “Viva Bologna.” La guardia aveva reagito aprendo il fuoco e facendo dileguare i dimostranti..
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Mentre le truppe imperiali si preparavano ad investire Modena, il 17 febbraio, come ho detto, Ancona si arrese a Sercognani; a Roma papa Gregorio chiese l’intervento austriaco e il cardinal Bernetti iniziò a rinforzare le difese dell’Urbe, sia vicine che lontane. Per quelle vicine dispose la chiamata alle armi delle guardie civiche fra i 20 e i 60 anni. Per quelle lontane spedì lungo la via Flaminia quel poco di truppa che aveva a bloccare almeno la Valle del Tevere. L’indomani la neocostituita Guardia Nazionale di Spoleto – città lasciata dal suo arcivescovo, cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti – insieme all’altrettanto nuova Guardia Nazionale di Terni respinse dal paese di Otricoli una mezza compagnia di Fanteria di Linea pontificia – un sottotenente e 50 uomini – mandata in avanscoperta dalla guarnigione di Civita Castellana risalendo la via Flaminia attraverso la Valle del Tevere. Questo modesto successo infiammò gli animi. Sercognani riarmò i suoi e li irraggiò ad occupare Macerata, Osimo e Tolentino. Quattro giorni dopo le Marche erano completamente sotto il controllo rivoluzionario, Armandi e Sercognani erano promossi generali e, mentre il primo veniva fatto governatore delle Tre Marche, il secondo cominciava a chiedere a Bologna uomini, armi e l’autorizzazione a far marciare su Roma la Vanguardia. Il motivo di tanta insistenza era proprio legato allo scontro di Otricoli: l’Umbria, di solito tranquillissima, s’era riempita di focolai d’insurrezione e le Guardie Nazionali erano spuntate qui e là, ma nessuno si era aspettato che combattessero contro i Pontifici come avevano fatto. Questo apriva grandiose possibilità. Intanto i Pontifici battuti – la mezza compagnia di circa 50 uomini – e respinti da Otricoli, in un paio d’ore riattraversarono la Valle del Tevere verso Roma e si attestarono dal lato opposto, a Borghetto, quattro case dominate dalle mura d’un diruto castello quadrato, alle falde dell’altopiano di Civita Castellana. Da là informarono dell’accaduto la guarnigione di Civita Castellana, il cui comandante, tenente colonnello Giovanni Lazzarini, ex-ufficiale napoleonico, chiese a Roma dei rinforzi, specie di cavalleria, per tenere la città e battere la campagna. Bernetti, che non aveva molto, gli mandò dei militi a cavallo 185 pratici della zona e questo fu tutto. 186 Lazzarini li sparse in tutte le cittadine vicine e aspettò gli eventi. 187 Dall’altra parte gli Umbri non sapevano bene che fare. Non avevano disposizioni né piani e la Vanguardia non si vedeva, perché Sercognani era sempre in attesa degli ordini chiesti a Bologna.
185 Questa è l’origine dei Centurioni, i grandi dimenticati delle truppe pontificie di sicurezza, formalmente nati nel 1832. A
quanto si capisce, nel 1831 Bernetti delegò l’organizzazione di base di una qualche sorta di militi a sostegno del governo pontificio a Giovanni Galante, un tempo capo dei birri di campagna. Galante in sostanza rimise in piedi i birri e li impiegò come forza mobile di controllo del territorio e supporto all’esercito regolare. Dopo la fine degli scontri quei gruppi armati si evolsero in due modi: a Roma divennero i Galantini, cioè i Bersaglieri Pontifici; fuori della zona di Roma diventarono i Centurioni, armati, pagati e dipendenti dai legati locali, in una sorta di resurrezione degli antichi birri vescovili soppressi nel 1815. 186 Il generale di brigata conte Filippo Resta, comandante l’esercito pontificio aveva organizzato la difesa di Roma affidandola a tre colonne: del Centro, di Sinistra e di Destra. La prima, comandata da Lazzarini, dal 18 febbraio faceva perno su Civita Castellana contava 2.215 uomini, dei quali solo circa 400 erano regolari (e di questi solo 125 disponibili per una sortita) e gli altri militi del “corpo franco”, levati qui e là. La seconda, del generale Vincenzo Galassi – altro ex-napoleonico, noto archeologo e uno dei due scopritori della famosa tomba etrusca Regolini-Galassi – doveva coprire Viterbo; la terza, di soli 750 uomini, comandata direttamente da Resta, teneva Corese e chiudeva la via Salaria. La forza mobile era affidata a Giovanni Galante, l’appena citato capo dei birri di campagna, ora comandante “delle guardie di polizia a cavallo”, che poi erano i suoi birri, e a suo figlio Vincenzo, nominato comandante di una “colonna ausiliaria volante”. Giovanni doveva garantire l’ordine pubblico extra muros, Vincenzo accorrere dove fosse stato necessario. 187 Lazzarini disse d’averne messi 30 a Configni, 300 a Nepi, 122 a Orte, 200 a Poggio Mirteto e d’aver distribuito il resto fra Calvi, Amelia, Rignano e Magliano. Allargatasi l’insurrezione, i presidii furono ritirati da Calvi, Amelia, Configni e Magliano senza sparare un colpo.
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Da Bologna l’avvocato Giovanni Vicini, ex alto magistrato napoleonico 188 e presidente del Governo di quelle che si erano iniziate a chiamare le Province Unite Italiane, chiese al generale Armandi se alla causa nazionale convenisse o no l’avanzata su Roma. La risposta fu cauta e indiretta, ma in sostanza negativa: Civita Castellana era troppo forte, Sercognani non aveva cannoni né cavalleria, Roma era lontana e la sua popolazione fedele al Papa, meglio lasciar perdere. Nel frattempo il disorientamento aumentava. Sercognani, visto che aveva circa 2.000 uomini, ma da Bologna né risposte né nulla, entrò in Umbria e si attestò a Foligno, pensando di farne la base logistica della sua avanzata su Roma. Nella pianura padana le truppe austriache intanto erano passate all’azione. Radunate immediatamente sulla sponda sinistra del Po appena saputi i fatti di Modena, erano entrate nel Ducato per ripristinarvi l’ordine, come pure a Parma, cosa facile perché gli insorti erano slegati e agivano separati, o non agivano affatto. Se n’era avuta una prima prova col proclama di Parma e se ne ebbe una seconda quando gli Austriaci marciarono su Modena per la via di Novi. Gli insorti, comandati da Antonio Morandi, futuro generale dell’Esercito Italiano, li accolsero a fucilate. Ci furono perdite e Morandi fu rimproverato dal governo di Bologna, perché gli affari dei Modenesi non erano quelli dei Bolognesi e bisognava applicare il principio del non intervento. Sulla base del medesimo principio si ebbe la terza prova dello slegamento insurrezionale quando, respinti dagli Austriaci, si presentarono al confine pontificio il generale Zucchi e 800 Modenesi: furono disarmati e non ammessi nel territorio bolognese. Sotto questi non brillanti auspici il 26 febbraio a Bologna si riunì l’Assemblea Nazionale, che elesse un Comitato Governativo e Militare presieduto da Vicini, il quale chiamò Armandi alla carica di ministro della Guerra. Il primo atto del nuovo Governo consisté nel lodare Sercognani e ordinargli di non avanzare, limitandosi a tenere la zona fra Magliano Sabino e Civita Castellana. L’inazione non premiò. Già la sera seguente, il 27, i Pontifici si fecero sotto. Uscirono da Borghetto e attaccarono le Guardie Nazionali al poco distante ponte Felice. Lo scontro durò tre ore. I Pontifici furono respinti di nuovo e stavolta, il 1° marzo, a Bologna il Governo si sentì suggerire dal comando militare che era opportuno occupare Roma. Il 4 marzo le truppe di Sercognani vinsero un piccolo scontro nei pressi di Magliano Sabino. Una colonna di Guardie Nazionali bolognesi comandata dal colonnello Alessandro Guidotti, ex-ufficiale napoleonico e murattiano, sostenuta da volontari di Perugia, Spoleto, Terni, Narni e Foligno, impegnò i Pontifici giunti a Magliano Sabino, cioè là dove, sulla sponda opposta rispetto a Borghetto, la Flaminia dalla valle del Tevere saliva sulle prime colline dell’Umbria. I Pontifici persero otto morti, 18 feriti e 34 prigionieri; gli insorti non si sa. La buona notizia arrivò a Bologna quasi contemporaneamente a un’altra, cattiva: il 6 marzo 3.000 Austriaci erano entrati a Ferrara, però il capitano aiutante Brunetti, mandato a parlare col generale Friedrich Wilhelm principe von Bentheim-Bentheim, era tornato indietro latore della promessa austriaca di limitarsi all’occupazione di Ferrara e Comacchio. L’indomani, dall’Umbria, Sercognani, invece d’avanzare su Civita Castellana e Roma, attaccò Rieti. La difendeva il tenente colonnello dei carabinieri Gabriele Bentivoglio con un paio di centinaia di uomini, cioè poche truppe regolari e una certa quantità di volontari irregolari vestiti da contadini. Respinta l’intimazione di resa il 7 marzo, l’8 Sercognani fece aprire il fuoco ai due cannoni che aveva, bombardando coll’uno Porta Cintia e coll’altro Porta d’Arce, protette da Bentivoglio con sacchi di terra. I colpi ebbero poco effetto, la guarnigione rispose vivacemente, sostenuta pure dai frati agostiniani, alcuni dei quali sparavano sugli assedianti dalla torre del convento, poi, dopo due ore di fuoco, scoppiò un temporale e mise fine allo scontro e alle operazioni. Privi di denaro, e scarsi a vettovaglie, i militi della 188 Giovanni Vicini, laureato in legge a Bologna, a 25 anni, nel 1796 era stato rappresentante di Cento al congresso di Reggio
Emilia della Repubblica Cispadana, divenendo poi Segretario generale del Governo della Cisalpina e, nel Regno Italico, giudice e consigliere di revisione e cassazione per la Lombardia.
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Vanguardia restarono fermi e cercarono di sfamarsi con requisizioni e furti, in attesa della fine che si intuiva prossima. Fu, a quanto pare, il solo momento in cui non si comportarono bene, perché a d’Azeglio, che, in incognito, nel 1845 gliene chiedeva notizie quasi suggerendogli di rispondere il contrario, un cameriere di Otricoli, che aveva tutto da perdere ad affermarlo, negò che avessero fatto danni e aggiunse: “per la verità, bisogna dire ch’erano bravi giovanotti, che nessuno ebbe che dire.”CLXIX Alla fine di marzo Lazzarini avanzò ad Otricoli e poi fino a Narni. Il 3 aprile la Colonna di Destra pontificia del generale Resta entrò a Terni. Le Marche e la Romagna erano intanto divenute il polo d’attrazione di tutti i Carbonari italiani, tra cui i fratelli Bonaparte, i figli di Luigi ed ex-allievi di Armandi, il maggiore dei quali, Napoleone Luigi, sarebbe morto il 17 marzo a Forlì di morbillo. Il minore invece, Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III, partito da Roma per seguire il fratello, sarebbe sopravvissuto per giocare la sua parte da protagonista nel decidere la sorte dello Stato Pontificio. Il coacervo di Carbonari e settari di tutti i generi concentratosi in Emilia sarebbe bastato già da solo a far muovere gli Austriaci; le richieste del Papa li autorizzavano formalmente e in pieno, perciò agirono. Se l’8 marzo il Governo di Bologna poteva ancora raccontare a chi ci credeva che gli Austriaci non erano usciti dal Ferrarese – che non era il Bolognese, perciò il non intervento pagava – i dubbi iniziarono a serpeggiare quando l’indomani, 9 marzo, si seppe che Francesco IV era rientrato a Modena. I membri dell’Assemblea bolognese cominciarono a sparire. Il 10 marzo erano ridotti a tredici presenti; il 14 Vicini rassegnò le dimissioni. Il 15 si seppe che gli Austriaci da Ferrara erano giunti a Cento, ancora nel Ferrarese, ma a ridosso del Bolognese, e il 17 che si erano mossi in direzione di Ravenna, fermandosi ad Argenta, ancora sempre nel Ferrarese. Il 20 marzo, mentre gli Austriaci entravano nel Bolognese, Zucchi riebbe le armi dei suoi 800 uomini, però Armandi si chiamò fuori, dichiarando di non aver dato ordini in merito. Poi Zucchi si sentì affidare la difesa di Bologna dal Governo, il quale sulla carta disponeva la levata di sei reggimenti di fanteria e due di cavalleria, ma prudentemente se ne lavava le mani e se ne andava, portandosi dietro il cardinal Benvenuti. Trovandola indifendibile coi pochi uomini che aveva, la sera dello stesso giorno pure Zucchi lasciò Bologna, muovendosi verso la costa. Gli Austriaci arrivarono l’indomani, 21 marzo 1831, e con loro il cardinale arcivescovo Carlo Oppizzoni Il 23 il Governo giunse ad Ancona e decise di passare i suoi poteri a un triumvirato composto da Zucchi, Borgia e dal conte Ferretti. Ma Borgia era a sud con Sercognani, Zucchi verso Rimini contro gli Austriaci e Ferretti da solo non bastava. Preso atto di questo, il 25 il Governo ascoltò una drammatica relazione di Armandi e decise di seguirne il consiglio: liberare il cardinal Benvenuti – visto che aveva i poteri di Legato – e accordarsi con lui per una resa totale in cambio dell’amnistia. Lo stesso giorno Zucchi, ignaro di tutto, affrontò gli Austriaci in quella poi ricordata come la battaglia di Rimini, ma che in realtà fu combattuta a Celle. Zucchi aveva deciso d’arrangiare una linea difensiva a Cattolica, appoggiandola al fiume Conca ed alle alture tra Gabicce e Gradara per sbarrare la via del sud al nemico. Le sue intenzioni non erano di resistere ai 23.000 Austriaci in arrivo, ma di guadagnare abbastanza tempo da sganciarsi coi 5.000 uomini dell’Esercito Nazionale, marciare su Fano, valicare l’Appennino al Furlo, unirsi a Sercognani e proseguire poi su Roma. Era convinto che la Francia non avrebbe permesso agli Austriaci d’entrare nell’Italia Centrale e sperava, come parecchi altri, che Parigi si sarebbe interposta per far rispettare a Vienna il principio del non intervento. Non fu così. Alle cinque del pomeriggio del 25 marzo 1831, sotto una lieve pioggia, gli avamposti di Zucchi a Santa Giustina, allora a otto chilometri da Rimini, furono attaccati dall’avanguardia austriaca, si sbandarono e ripiegarono verso la città. A due chilometri da Rimini, alla giunzione delle strade da Bologna e Ravenna, si unirono al generale Olini, messo là con un forte nucleo di truppe e due cannoni. Olini resisté al primo urto e diede tempo a Zucchi di uscire da Rimini in suo soccorso con 200 fanti di linea del colonnello Ragani e due squadroni di dragoni del 254
maggiore Molinari. Il contrattacco ebbe successo e consentì al grosso di lasciare Rimini in direzione di Cattolica. Dopo un’ora il combattimento finì. Restarono sul terreno 15 italiani e sei austriaci. L’indomani il cardinal Benvenuti accettò la resa – di cui Zucchi non sapeva nulla e che non poté evitare perché ne ebbe notizia a cose fatte – e l’amnistia e, dopo averne parlato al generale Geppert, scrisse in tal senso al Papa. La risposta di Gregorio XVI fu dura, ma tutto sommato assai meno del prevedibile: al massimo un salvacondotto a chi lo chiedeva, guai agli altri. Chi poté averlo si imbarcò. Partirono in circa 300. Duecento, tra cui Armandi che arrivò a Corfù, ce la fecero. I circa novanta, fra i quali Zucchi, imbarcati sul trabaccolo Isotta e diretti a Marsiglia vennero intercettati dalle navi austriache del capitano Bandiera e arrestati. In definitiva i più fortunati furono Sercognani e i suoi. Confluiti a Terni e Spoleto, ebbero dal cardinal Mastai Ferretti un salvacondotto con cui rifugiarsi nel tollerantissimo Granducato di Toscana per poi passare in Francia. Papa Gregorio non obiettò e al cardinale Mastai rimase la fama di liberale, che l’avrebbe accompagnato nei primi due anni di pontificato e gli sarebbe arsa addosso nella primavera del ’48. Per il momento il cardinal Bernetti ebbe mano relativamente libera. Fece avanzare le truppe pontificie fino a Rimini e lasciò l’Emilia all’occupazione austriaca. Poi diede il via a una sfilata di riforme, che modificavano la giustizia, riorganizzavano le amministrazioni locali, aprivano ai laici la partecipazione al potere, quantomeno fino al livello provinciale e, dal 1° giugno del 1831, sostituivano con pro-legati laici i cardinali legati a Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì. In pratica il potere ecclesiastico retrocedeva un po’ verso la sfera squisitamente spirituale, solo che le cose non andarono come si sperava. Bernetti voleva liberarsi degli Austriaci e degli stranieri in generale. Sosteneva che gli Italiani dovessero fare da sé. Pensava non all’unità, bensì a un’integrazione fra i vari Stati, come si sarebbe auspicato da molti fino al 1848. Ciò che non voleva era la scomparsa o anche solo l’indebolimento dello Stato Pontificio. Per contro i liberali, Carbonari o meno, di fatto proprio quello volevano e chiedevano l’abolizione del foro ecclesiastico e dei benefici di cui godeva il clero, cioè cose che si sarebbero ottenute per la prima volta, e a stento e per imposizione dall’alto, solo 18 anni dopo e solo nel meno confessionale degli stati italiani – il Piemonte – e a costo d’una crisi parlamentare durissima, mentre non sarebbero giunte nel resto d’Italia altro che dopo il 1860. In definitiva le richieste dei liberali, per quanto giuste, erano in anticipo d’una generazione, per cui, se pure l’avesse voluto, Bernetti non avrebbe potuto soddisfarle, perché i tempi non erano maturi e l’Austria non l’avrebbe permesso. In quelle condizioni le riforme bernettiane erano il miglior risultato possibile, però i liberali non se ne contentavano, le consideravano di pura facciata e prese solo per tacitarli. Ne risultò che il resto del 1831 passò fra un cambiamento e l’altro, ma senza portare calma. Lo si percepiva così bene che non a caso la Santa Sede incrementò l’esercito, coi soliti sistemi affrettati e poco utili: a giugno arruolò 8.000 volontari, 189 a settembre dispose l’eventuale mobilitazione delle truppe ausiliarie di riserva provinciali e si preparò a fronteggiare qualche nuovo disordine. 190 L’arruolamento però venne fatto in una maniera folle e pericolosa i cui risultati si sarebbero visti nel febbraio seguente. Infatti il bando del 7 giugno del ’31, complice l’urgenza, al capo 2° aveva annunciato: “Chiunque d’onesta, e civile condizione, il quale ami d’appartenere alla Milizia Pontificia, e condurrà nel termine di venti giorni dalla data della presente in qualsivoglia degli 189 Bernetti mandò agenti nel Vallese, noto per essere un Cantone fortemente cattolico. Due ex-marescialli di campo di Carlo X
di Francia, Eugène de Courten e Frantz de Salis accettarono e costituirono due reggimenti di fanteria, divenuti in seguito il 1° e il 2° Reggimento Estero, sciolti dopo Castelfidardo. 190 Fu in questo periodo che Bernetti fece nascere i Centurioni, presenti in ogni diocesi, per la difesa del trono pontificio, facendovi confluire i militi raccolti da Vincenzo Galante.
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infradescritti Luoghi191 e consegnerà al Comandante della Guernigione 100 idonee reclute, avrà il grado di Tenente; lo avrà di Capitano chi ne darà 200; di Maggiore chi ne darà 600; di Tenente Colonnello chi ne consegnerà 800; e finalmente di Colonnello consegnandone 1.600, e tutti con soldo, ed onori corrispondenti.”CLXX Il successivo Capo 3°, parlando degli ufficiali e sottufficiali reclutatori, dava loro delle analoghe possibilità d’avanzamento dicendo: “Saranno promossi al grado di Sotto-Tenente i Cadetti, gli Ajutanti sott’Ufficiali, i Sergenti Maggiori, e Sergenti, che presenteranno cinquanta reclute; saranno promossi al grado di Tenenti i Sotto-Tenenti che ne presenteranno altrettante, ed al grado di Capitano i Tenenti che ne presenteranno Cento.”CLXXI Il gettito fu insufficiente, perciò, nemmeno un mese dopo, il 2 luglio, Bernetti intimò ai Comuni di fornire una recluta ogni 500 abitanti, ricorrendo alla leva forzata degli oziosi in caso di mancanza di volontari. Contemporaneamente il Cardinale proseguiva sulla sua strada deciso a liberarsi della presenza austriaca. Giocando la Francia contro l’Austria ottenne che il 1° luglio il conte de Saint-Aulaire, ambasciatore a Roma, presentasse una nota con cui si chiedevano un’amnistia e la partenza degli Imperiali dalle Legazioni. Poiché, come Bernetti disse ufficialmente, il Papa era d’accordo, gli Austriaci nella seconda metà del mese tornarono nel Lombardo-Veneto, sostituiti dalle Guardie Nazionali in tutte le Legazioni. La partenza degli Austriaci incoraggiò i liberali. Saint-Aulaire cercò di mediare fra questi ultimi e il Papa, ma non ebbe successo. Si rendeva conto delle conseguenze, che potevano giungere fino a un ritorno delle truppe austriache e al loro insediamento in Ancona, città sempre strategicamente fondamentale per la Francia, per cui era meglio averla in mano al Papa che all’Austria, ma era la Santa Sede a non accettare più di cedere alle istanze liberali, specie perché si sapeva approvata da Austria, Prussia e Russia. II) La repressione del ‘32 Il 10 gennaio 1832 Bernetti notificò alle Potenze della Quintuplice Alleanza, cioè Austria, Prussia, Russia, Francia e Gran Bretagna, che il Governo Pontificio sarebbe intervenuto a ripristinare l’ordine in Romagna, sciogliendovi la Guardia Nazionale e restaurando la piena autorità papale. Il 14 pubblicò una notificazione in cui si diceva che: “Esaminati senza frutto tutti gli altri mezzi che erano a disposizione del SANTO PADRE, egli non può più lusingarsi di ristabilire l’ordine e la tranquillità in codeste Provincie, che ingiungendo ai Comandanti delle sue Truppe, di portarsi innanzi a presidiarle, a prestare quella forza, di cui ha bisogno il governo per esigere obbedienza e rispetto, e finalmente ad offrire alla Sovranità quella garanzia senza la quale ogni ulteriore condiscendenza, di clemenza e di moderazione non ritornerebbe che a danno del suo potere, e del pubblico riposo, come fino ad ora è avvenuto.”CLXXII La repressione fu diretta dal cardinale Giuseppe Albani. A Bologna avrebbe dovuto pensare la colonna del colonnello Zamboni: due battaglioni di granatieri, due di cacciatori, due squadroni di dragoni, una compagnia d’artiglieria, una del treno e una di carabinieri, con parecchie reclute appena arruolate a Ferrara tra la schiuma della città. 191 Gli “infradescritti luoghi” indicati nell’ultima riga, dopo la data e prima della firma, erano: Roma, Frosinone, Civitavecchia,
Civita Castellana, Spoleto, Perugia, Macerata, Fermo, Ascoli, Ancona, Pesaro, Bologna e Ferrara.
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Le truppe pontificie entrarono il 28 gennaio, cogli Austriaci davanti e dietro. Accadde perché erano precedute da una fama così sinistra dopo quanto capitato a Cesena il 20 e a Forlì il 21, che i Bolognesi avevano ottenuto che gli Austriaci le scortassero in città, le sorvegliassero strettamente e le tenessero confinate nei loro quartieri durante la notte, 192 sottoponendole alla loro disciplina. CLXXIII Cosa era successo a Cesena e Forlì? Un disastro. Il 20 gennaio 1832 le truppe pontificie da sud, guidate dal tenente colonnello Barbieri, erano arrivate da Rimini a Cesena. La Guardia Nazionale Romagnola si era radunata agli ordini del maggiore Montallegri e dei capitani Belluzzi, Conti, Landi e Picconi e allineava un po’ meno di 2.000 combattenti, tutti fanti, con tre cannoni, contro circa 4.100 pontifici, sostenuti da circa 600 cavalieri e otto pezzi. Lo scontro avvenne alla Madonna del Monte e terminò in due ore colla vittoria dei Pontifici. Circa 200 guardie restarono sul terreno tra morte e ferite, il resto si disperse nelle campagne. I Pontifici entrarono in città e non ebbero rispetto per niente e nessuno. Si contarono diciassette civili morti, parecchi feriti e furono poi denunciati stupri; fu saccheggiata l’abbazia di Santa Maria del Monte, in cui era stato novizio Pio VII, parte del cui medagliere fu rubata. 193 L’indomani, 21 gennaio, gli amministratori di Forlì, preoccupati dalla richiesta di riforme e di costituzione avanzata dalla città al Papa nel dicembre precedente e visto quanto era accaduto a Cesena, si sottomisero al cardinale Albani. Forlì fu occupata da 3.000 fanti e 300 cavalieri pontifici. Purtroppo non andò bene nemmeno là. Per un colpo di fucile udito vicino al bivacco e che si disse avesse ucciso un militare, le truppe si agitarono, presero la mano agli ufficiali e si diedero a sparare e saccheggiare in città. Secondo le testimonianze poi riportate, ci furono ventun morti – fra cui due donne, una delle quali incinta – e almeno sessanta feriti. Nel complesso era andata così male che lo stesso Barbieri il 22 a Forlì si trovò 192 Zamboni pochi giorni dopo uscì da Bologna coi suoi soldati umiliato e furioso, non senza zuffe coi cittadini. Gli Austriaci
rimasero in città, molto ben accolti e ricevuti nelle case. Zamboni decise di fare ugualmente un ingresso solenne il 13 marzo colle truppe richiamate da Ferrara. La città fece sapere che avrebbe scatenato un’insurrezione. Gli Austriaci intervennero per evitare guai e convinsero Zamboni a contentarsi d’un’entrata simbolica con 300 regolari. Il colonnello entrò a cavallo alla testa di quelli soli da Porta Galliera, fu insultato, reagì minacciando e cominciarono i tumulti. Protetto dagli Austriaci, uscì e andò ad aspettare il grosso dei suoi in arrivo da Lugo. Quando i Bolognesi lo seppero, corsero agli spalti, perciò le truppe pontificie in arrivo vide le mura piene di gente che urlava loro contro e si spaventarono. Zamboni ordinò d’entrare. Il generale austriaco Johann Hrabowski von Hrabova lo obbligò a passare dalla più defilata Porta San Vitale, ma non servì, perché il popolo vi corse e, appena Zamboni entrò, lo accolse con una scarica di sassi che colpirono lui e il cavallo. Fu tirato giù di sella sanguinante. Vennero colpiti pure Hrabowski e i suoi aiutanti, i quali, su richiesta di Zamboni, dovettero far accorrere un reggimento di fanteria e uno squadrone di cavalleria per scortare i Pontifici fino ai quartieri loro assegnati. Ci vollero otto ore – dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio – per riuscirci, sotto un continuo lancio di pietre e una pioggia d’urla e di insulti, che obbligarono gli Austriaci ad aprire la strada con la baionetta in canna e minacciando di sparare. Una volta raggiunti i loro quartieri e vista la folla disperdersi, alcuni Pontifici uscirono armati e iniziarono a vendicarsi sparando sui passanti. Ci fu un morto – un bambino – e una mezza dozzina di feriti, tra cui un prete, un ragazzo e due donne. La gente si infuriò e tornò; e gli Austriaci si dovettero accampare intorno alle caserme pontificie per tutta la notte. In seguito, nonostante la presenza degli Austriaci, i Pontifici, per quanto sempre consegnati in quartiere e fuori quasi solo per dei servizi di pattuglia, perpetrarono parecchi ferimenti ed uccisioni per i più futili motivi fino a tutto il mese di maggio, obbligando le truppe imperiali – mai molestate dai cittadini – a interporsi in continuazione e ad assumersi i turni di guardia per evitare la lapidazione dei Pontifici. 193 Cfr. BELLI, G. G., Sonetto 382 Li papalini del 27 gennaio 1832 in Sonetti, cit., vol. I, pag. 413: “Va’ mò a dì à li sordati che tiè er Papa:/tu sei ‘na crapa, tu sei ‘na carogna,/tu nun zei bono da tajà una rapa,/tu nun hai core d’infilà un’assogna/ Proprio carogna, si! giust’una crapa!/ Antro che gente da grattà la rogna!/ Le panze da sbucà lei se le capa,/ e addimannelo a quelli de Bologna./Pe’ sapé sì che armata sopraffina/tu fatte legge dar compar de Checca/ lo spappiello ch’uscì jer’a matina / dice ch’è truppa da non daje pecca/ gente che se sa fa la disciplina/ e a bonpracito suo mena a l’inzecca” [Va’ ora a dìr ai soldati che ha il Papa:/tu sei una capra, tu sei una carogna,/tu non sei buono a tagliar une rapa,/tu non hai coraggio d’infilzare una vescica di sugna/ Proprio carogna, si! Giusto una capra!/ Altro che gente da grattar la rogna!/ Le pance da bucar lei se le sceglie,/ e domandalo a quelli di Bologna./ Per sapere sì che armata sopraffina/ tu fatti legger dal compar di Checca/ il foglio che uscì ieri mattina/ dice ch’è truppa da non trovarci pecca/ gente che sa impor la disciplina/ e a beneplacito suo picchia alla cieca].
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costretto ad emanare un ordine del giorno in cui rimproverava le truppe e cancellava le ricompense che aveva avuto l’intenzione di concedere per l’azione del 20. CLXXIV La Guardia Civica fu sciolta e se ne ammisero nell’esercito tutti e solo i membri che – come annunciò il cardinale Albani il 24 gennaio 1832 – potevano dimostrare d’essere “scevri da delitti ed eccezioni Criminali.” Comunque incerto su quanto l’aspettava e per niente fiducioso nelle sue truppe raccogliticce – si vedevano i risultati dell’arruolamento frettoloso dell’agosto precedente – Albani ebbe la pessima idea di rivolgersi alle truppe austriache, il cui comando era passato da poco al conte Radetzky, il quale, senza aspettare ordini da Vienna, entrò subito in Emilia e occupò Bologna il 28 gennaio con 8.000 uomini. A Roma Saint-Aulaire affermò che la Francia non poteva restare inerte e chiese come avrebbe reagito la Santa Sede nel caso d’un sbarco di controbilanciamento ad Ancona. Bernetti disse che non l’avrebbe potuto approvare, ma che la Curia non si sarebbe opposta. Di conseguenza, alle tre del mattino del 23 febbraio 1832, la squadra francese sbarcò due reggimenti in modo clandestino e senza opposizione da parte della guarnigione papale. 194 Il tricolore e la convinzione che le truppe di Luigi Filippo fossero là per proteggerli dagli Austriaci fecero accorrere in Ancona tutti i liberali. Roma s’infuriò, l’Austria, che aveva privatamente rimproverato Radetzky per aver agito senza autorizzazione, s’infuriò altrettanto e la situazione s’inasprì. Se ne venne fuori dichiarando che la presenza francese sarebbe durata quanto quella austriaca. Austria e Francia avrebbero garantito il ritorno alla normalità, e mentre la prima avrebbe ritirato parte dei suoi presidii nel corso del 1832 e gli altri, soprattutto quello di Bologna non prima del 1838, la seconda avrebbe mantenuto il proprio contingente in Ancona proprio fino al 1838. Le Legazioni rimasero turbolente. Delitti comuni e politici si intrecciarono più di prima. Le liti aumentarono. L’amministrazione locale apparve sempre più inceppata da difficoltà di ogni genere, da mancanza di volontà e dall’opposizione passiva dei liberali che ne facevano parte. La polizia e i carabinieri facevano quanto potevano, ma, se agivano d’iniziativa, la magistratura li metteva sotto inchiesta e con la sospensione dello stipendio alla minima lamentela della parte inquisita, cosicché le indagini venivano di fatto annullate proprio dai giudici che avrebbe dovuto incoraggiarle. L’autorità di polizia cominciò allora ad agire sempre più solo dietro denuncia, anonima o spontanea che fosse. Questo, 194 In realtà venne fuori un pasticcio senza precedenti e con molte conseguenze. Comandava la guarnigione d’Ancona Giovanni
Lazzarini, appena promosso colonnello da Bernetti per quanto aveva detto d’aver fatto a Civita Castellana l’anno prima, magnificandosi nell’opuscolo Li XXXXII giorni della difesa di Civita Castellana. Ancona come fortezza era indifendibile, perché era stata smantellata già prima dell’insurrezione del 1831. Al momento dello sbarco Lazzarini non c’era. Pur sapendo della squadra francese a largo, era andato a dormire a casa, preoccupato della salute della moglie. Il capitano Lopez avrebbe voluto resistere allo sbarco, ma il tenente colonnello don Sigismondo dei principi Ruspoli s’intromise e, valendosi del proprio grado superiore, glielo impedì. I Francesi presero la fortezza e arrestarono Lazzarini, rilasciandolo il 29 febbraio. Il 7 marzo don Sigismondo partì per Roma, convocato per giustificare il suo operato. Il 20 Lazzarini apprese che sarebbe stato privato del comando e retrocesso al grado di tenente colonnello. Corse a Roma, chiese udienza a Bernetti, non l’ebbe, finì al Tribunale militare, presieduto da Resta, e per la cessione d’Ancona – in concorso con Ruspoli – fu condannato alla perdita di grado e stipendio. Dopo la caduta del Potere Temporale lo si ritenne esecutore di ordini segretissimi di Bernetti per cedere la fortezza ai Francesi, ma già nel 1932 tale tesi fu se non smantellata almeno controbattuta efficacemente da Fulvio CANTONI, nel suo intervento “Un episodio della marcia su Roma del 1831. la risposta inedita del conte Francesco Rangone al tenente colonnello Lazzarini su Civita Castellana”, presentato al XIX congresso nazionale della Società per la Storia del Risorgimento Italiano nel 1931, poi pubblicato nella « Rassegna Storica del Risorgimento », anno XIX, fasc. IV, ottobre-dicembre 1932. Cantoni iniziò dimostrando che, riguardo a Civita Castellana, Lazzarini aveva scritto nel suo opuscolo un diluvio di vanterie. Queste erano state tutte controbattute puntigliosamente dal conte Rangone nel proprio Osservazioni sulli XLII giorni della difesa di Civita Castellana, uscito nell’estate del 1831 – quindi sei mesi abbondanti prima dello sbarco francese – in cui smontava le asserzioni di Lazzarini una per una. L’opuscolo di Rangone ebbe vasta risonanza e finì pure in mano a Bernetti, il quale si rese conto d’essere stato tratto in inganno, perciò, quando si verificò il pasticcio dello sbarco, fece scontare a Lazzarini tutte le precedenti menzogne, semplicemente non interferendo nell’attività del tribunale militare.
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specie per le anonime, si prestò a un’ondata di calunnie e vendette personali, che, se ottenevano un risultato in tribunale, provocavano spesso una reazione analoga o una vendetta di sangue, il cui colpevole si dava alla macchia e aumentava il numero dei briganti. Ne risultò una crescente insicurezza fuori delle città e specie lungo le strade. Allora, per cercare di rimediare, si decise di presidiare le strade con la truppa di Linea, concentrando i carabinieri in colonne mobili e si introdusse in Romagna il corpo delle Truppe di Finanza. Gli effetti non furono buoni. I carabinieri continuarono a funzionare bene, anche se subirono un’epurazione col congedo di quanti avevano aderito ai moti liberali. A ripianare i vuoti nell’organico di polizia sarebbe stato poi istituito nel dicembre del 1832 un corpo, detto dei Bersaglieri Pontifici. Fu composto al principio da gente poco affidabile e piccoli delinquenti. 195 Inizialmente radunati, nella prima metà degli anni ’20, messi in divisa e organizzati sulle ceneri del disciolto corpo dei birri dal bargello di campagna Galante, e perciò chiamati “Galantini”, vennero adoperati in seguito pure per il pattugliamento diurno e specialmente notturno della città, Furono disseminati in brigate nel Lazio, in Umbria, nelle Marche e a Benevento e dipesero direttamente dalla Direzione generale di Polizia, perciò dagli Interni e non dalle Armi. La Linea, dispersa in piccoli posti di forza minima su tutto il territorio, nelle Legazioni, sotto il profilo dell’ordine pubblico non servì a nulla e la Truppa di Finanza, sempre nelle Legazioni romagnole, nemmeno. Già riorganizzata il 24 ottobre 1827 per collusione coi contrabbandieri e rimessa in campo con 800 effettivi territoriali e 74 in servizio guardacoste,196 a settembre del 1832 era considerata inaffidabile perché piena di liberali e favoreggiatrice dei contrabbandieri, purché si dichiarassero liberali anche loro. Nel frattempo, in previsione di possibili altri scossoni rivoluzionari, si ebbe un’ulteriore riorganizzazione militare. Nel novembre del 1832 i cadetti, fino allora sparsi nei diversi reggimenti secondo l’antico sistema settecentesco antecedente alle Accademie, furono riuniti in una Compagnia dei Cadetti Pontifici. Sottoposta non alle Armi, ma alla Segreteria di Stato, doveva comprendere 110 giovani fra i 17 e i 25 anni, “di nobile o di civile condizione”, divisi in 70 a piedi e 40 a cavallo e destinati a divenire ufficiali dell’esercito. Quest’ultimo continuò a dipendere dal Ministero della Presidenza delle Armi. Il Ministero aveva un Segretariato, un Ispettorato centrale divisionario, un Uditorato centrale divisionario, uno Stato Maggiore Generale e uno Stato Maggiore Generale di Piazza di Roma, che coordinava gli stati maggiori delle varie piazze. 197 Lo Stato Maggiore Generale aveva sotto di sé il Corpo delle Guardie Nobili, diviso 195 Giuseppe Gioachino Belli nella nota terza al suo sonetto Le truppe di Roma, (in BELLI, op. cit., vol. IV, n. 1889, pag. 1979)
da testimone oculare scrisse: “Bersaglieri: specie di birri un po’inciviliti. Dall’epoca della rivolta del 1831 è stata organizzata una milizia di bravi [nel senso manzoniano di bravacci, mezzi delinquenti assoldati a servizio] papalini, anfibia tra il soldato e il birro, la quale ha ottenuto dai popoli il nome di Reggimento Canaglia. Ora a questi birri reggimentati si dà più propriamente il nome di bersaglieri.” Ribadì il concetto nella nota 7 del suo Sonetto Er cavajerato, (in BELLI, op. cit., vol. IV, n. 2155, pag. 2257) in cui definì i bersaglieri: “specie di birri monturati, composti dal rifiuto della società.” Per farsi un’idea del loro operato, basti sapere che l’Archivio di Stato di Roma nel fondo Tribunale criminale dei bersaglieri (1836-1842), conserva 254 fascicoli di cause, cui si aggiunge un registro delle cause criminali e una rubricella alfabetica dei bersaglieri inquisiti. Il Corpo venne fuso di nuovo nei carabinieri con ordinanza del Ministero di Polizia del 22 maggio 1848. I bersaglieri pontifici non erano i Centurioni, benché ne condividessero l’origine e gli organizzatori, perché i centurioni operavano su base diocesana e, per quanto si capisce, venivano stabiliti dall’ordinario. 196 Secondo l’edito del Tesoriere Generale datato 24 ottobre 1827 “Per l’organizzazione della Guardia di Finanza in seguito della Riforma”, il Corpo era diviso nelle sei Ispezioni Territoriali di: I Ispezione: Roma, Comarca e Luogotenenza di Civitavecchia; II Ispezione: Delegazione di Frosinone, Luogotenenza di Rieti e Governo distrettuale di Subiaco; III Ispezione: Delegazioni di Perugia, Spoleto e Viterbo; IV Ispezione: Delegazioni di Ancona, Fermo, Ascoli, Macerata, Camerino, Urbino e Pesaro; V Ispezione: Legazioni di Forlì e Ravenna; VI Ispezione: Legazioni di Bologna e di Ferrara. Dal Tesoro dipendeva pure un piccolo corpo di 30 addetti all’amministrazione dei boschi e foreste, comprendente un Amministratore generale, un Segretario, un Commesso contabile, e un Archivista scrittore, due Ispettori, cinque Sotto-Ispettori, cinque Capiguardie e 14 Guardie. 197 Nel 1834 si organizzarono tre Divisioni Militari dirette ognuna da un comandante superiore. Nell’ottobre del 1838 la struttura centrale fu articolata su un Consiglio delle Armi, composto dal prelato presidente, non necessariamente un cardinale, e da quattro consiglieri e si riordinò il Ministero su quattro dipartimenti, cioè Soprintendenza al materiale del Genio, Marina e Artiglieria, Uditorato, Stato Maggiore e Stato Maggiore di Piazza. Allo Stato Maggiore di Piazza nel 1840 vennero aggregati i
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in due brigate, articolate in mezze brigate; il Corpo della Guardia Svizzera, il Corpo del Genio, il Corpo dei Carabinieri,198 quello della Fanteria di Linea, 199 il Battaglione Veterani e Invalidi, il Corpo d’Artiglieria e treno;200 il Reggimento dei Dragoni; il Corpo dei Cacciatori a cavallo; la Truppa Ausiliaria di Riserva, poi sostituita dai Volontari Pontifici; il Battaglione Ausiliario; la Compagnia Correzionale e, infine, il neo-arruolato Reggimento Stranieri, in gran parte svizzeri, che nel 1834 sarebbe stato sviluppato in due reggimenti di fanteria estera e una compagnia di artiglieria estera. Meno d’un mese dopo il moto di piazza di Perugia, avvenuto l’8 maggio del 1833 in seguito a una perquisizione della polizia politica nella Farmacia Tei, il 1° giugno 1833 venne istituito il “Corpo di Volontari Pontifici” su quattro brigate, sparso nelle Legazioni di Velletri, Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì e nelle Delegazioni di Frosinone, Benevento, Spoleto, Rieti, Camerino, Ascoli e Fermo. Di fatto era l’antica milizia provinciale, sospesa nei recenti moti e ora riorganizzata in Brigate, che prendevano nome dalla zona d’appartenenza e la cui forza consisteva in un minimo di sei compagnie, ognuna di non meno di 100 e non più di 200 uomini. Ogni compagnia era divisa in distaccamenti di non meno di dieci uomini, entrava in azione in caso di necessità, doveva coadiuvare i carabinieri nel mantenimento dell’ordine pubblico e l’esercito in caso di guerra. Queste precauzioni non erano infondate, perché i torbidi in Italia continuarono. Nel 1834 sarebbe stata scoperta dalla polizia sarda una trama rivoluzionaria organizzata dai seguaci della Giovine Italia; tra gli scampati all’arresto il marinaio della Regia Marina sarda Giuseppe Garibaldi. L’anno seguente, colonne armate di repubblicani, guidati dal generale Ramorino e dallo stesso Mazzini, sarebbero entrate in Savoia venendo però rapidamente disperse dalle truppe regie. E ancora si sarebbero verificati disordini a Roma201 e sommosse in Sicilia, Abruzzo e Calabria nel 1837 e nel 1841 e poi a Cosenza nel 1844 e, come vedremo dopo, a Rimini nel 1845. In definitiva, come si è visto, i Fatti di Romagna di per sé furono poca cosa e in confronto ad altri avvenimenti costarono pochi morti. Se mi ci sono dilungato è perché ebbero un’importanza enorme, di solito sottaciuta. Come ho già detto, in primo luogo perché, col ritorno al verde bianco rosso della Cisalpina, dimostrarono che il 1821 non era stato un caso, ma un primo tentativo; poi perché coinvolsero contro il potere costituito non solo degli ufficiali ex-italici, ma pure molti esponenti della classe che aveva
medici, tolti dai singoli reggimenti indigeni ma non da quelli esteri, e già concentrati amministrativamente in un Corpo Sanitario, comprendente trentotto persone di vari gradi, di cui, dal dicembre 1836, era “Ispettore Sanitario delle truppe pontificie” il dottor Alessandro Tavani, col grado di tenente colonnello. 198 Un reggimento su Stato Maggiore e sei squadroni, divisi in compagnie e tenenze. Il I squadrone era stanziato a Roma e comprendeva una compagnia scelta e una per i servizi ai Sacri Palazzi Apostolici, che, presente in Vaticano, nel 1870 avrebbe in pratica consentito la sopravvivenza del Corpo dopo la presa di Roma. 199 Due reggimenti, ognuno su un battaglione granatieri, cinque di fucilieri e uno di cacciatori, più la banda, comprendente le cornette per i cacciatori e i tamburi per tutti gli altri. 200 Comprendeva un numero variabile nel tempo di compagnie a piedi e due montate, dette “indigene” per distinguerle dalla compagnia estera. Nel 1834 il treno fu sciolto e il suo personale passò nelle due compagnie a cavallo, con la denominazione di “cannonieri conduttori”. 201 A dire il vero i disordini di Roma furono solo molto indirettamente causati dalla politica. Esisteva un certo malcontento per via degli aumenti delle tasse, specie quelle indirette sui generi di prima necessità, originati dalle spese militari iniziate con la repressione dei Fatti di Romagna ed il conseguente stazionamento degli Austriaci a Ferrara. Temendo che il malcontento sfociasse in disordini, dei quali i – pochi per la verità – liberali romani avrebbero potuto profittare, il Papa pensò di vietare il Carnevale del 1837, motivandolo col rischio del contagio del colera. Il provvedimento fu accolto malissimo per via del danno a tutti quei minimi commercianti a cui la mancata entrata comprometteva l’intero bilancio mensile, se non annuale. Il governo fece allora un passo indietro: vietò le maschere e permise i tradizionali “moccoletti” e la corsa dei cavalli “barberi” da Piazza Venezia a Piazza del Popolo. Sapendo che questa mezza misura non aveva calmato i risentimenti, sui bastioni di Castel Sant’Angelo vennero tenuti 16 cannoni puntati verso la città, carichi e con le micce accese e fu aumentata la sorveglianza nelle strade. Questo non impedì, subito dopo la corsa dei cavalli, una sassaiola generale, che sfasciò quasi tutti i vetri delle case del Corso e fu così improvvisa da non lasciare ai carabinieri il tempo di reagire.
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avuto il potere locale nell’Età Napoleonica, a dimostrazione del distacco definitivo di essa dai governi restaurati e del suo passaggio alla contrapposizione, alla lotta aperta. Ci furono altri due aspetti importanti. Uno fu l’influsso determinante di quei fatti sul giovane Bonaparte che sarebbe divenuto Napoleone III, il quale certamente aderì alla Carboneria – e lo dimostrerò poi, parlando del 1859 – anche se non si sa quando l’abbia fatto, se a Roma prima dell’autunno del ’31 o in Romagna. E’ certo però che quanto vide in Romagna gli bastò per aderire in pieno all’idea dell’unità italiana, poiché, pur apparendo freddo e calcolatore, Napoleone III era assai più idealista di quanto non si immagini. Infine coi Fatti di Romagna lo Stato Pontificio in buona sostanza si suicidò. La reazione del 1831, prettamente militare, sarebbe anche stata perdonata dalla gente, ma quella del ’32 che infierì sui civili no, ebbe conseguenze pesanti e ne abbiamo una testimonianza. Più di venticinque anni dopo, nell’aprile del 1858, il 2° Reggimento di Linea indigeni si trasferì da Roma a Bologna per un cambio di guarnigione. Le accoglienze furono buone nel Lazio quanto in Umbria e nelle Marche. Poi, ricordò il conte Giulio Brigante Colonna, allora soldato dei veliti, passata Rimini, il Reggimento procedé per Cesena: “trentaquattro chilometri e mezzo con due brevi alt a Sant’Arcangelo e a Savignano. Durante queste fermate ebbi a sentire due ufficiali che parlavano di rivolte e di barricate, di feriti e di morti, ma non ci feci gran caso. Dovevo capire a Cesena. Sotto quelle mura, nuova breve sosta per il riassetto dei ranghi. Il maggiore percorre la fronte e comanda d’inastare le baionette. Perché? Un ordine tale non è stato mai dato all’ingresso di nessun’altra città. Il battaglione entra a tamburi battenti, raggiunge la piazza principale, fa bivacco: zaini a terra, ma armi alla mano, in attesa della destinazione degli alloggi. Contrariamente al solito, nessuno viene a gironzarci attorno, neppure i ragazzi che abitualmente fanno folla, in ammirazione della truppa. Già percorrendo le strade per arrivare alla piazza, non avevamo incontrato che qualche raro passante; e, sebbene fossero circa le undici, tutte le finestre eran chiuse o andavano chiudendosi con dispettoso sbatacchiamento. Chiuse anche le botteghe, perfino le trattorie. Innanzi a noi il nostro maggiore stava parlottando con un vecchio capitano comandante della piazza e con il tenente della gendarmeria. Alla fine, le compagnie vengono avviate ai rispettivi alloggiamenti…. ma prima di darci il “rompete le righe”, il capitano ci arringa: non sparpagliati e isolati, essere prudenti e calmi, ritirarsi in quartiere al primo segnale di tromba o tamburo. Siamo dunque fra nemici?”CLXXV Usciti in cerca d’un’osteria, Brigante Colonna e un suo commilitone ne trovarono una, fatta riaprire dai gendarmi, come erano state fatte riaprire le altre e le botteghe, perché “bottegai e cittadini erano paghi della dimostrazione ostile fatta al governo, ricevendo in tal modo la truppa. Sedemmo dunque a mensa… ma il buon umore se n’era andato. La sala era quasi vuota. Un vecchietto che ci vide tristi, ci rivolse la parola. Non ci tenemmo e domandammo il perché di così strano ricevimento e di così ostentata antipatia. Il vecchietto comprese il nostro dolore e, fidandosi forse della nostra giovinezza, spiegò con semplici e pur chiare parole: disse della rivoluzione di ventisette anni innanzi, a Modena e a Parma, ad Ancona, e a Bologna. Lì a Cesena, il 19 gennaio del ’32, ed anche a Forlì, le truppe papaline avevano fatto strage dei patrioti comandati dal Montallegri: al paragone, disse, gli austriaci a Bologna s’eran mostrati agnelli. Cesena non dimenticava: i vecchi tramandavano ai giovani odio e rancore contro il governo che aveva fatto massacrare 261
tanti cittadini e tanti altri teneva ancora nelle galere, a Cesena… vedove e orfani e intere famiglie non avevano più smesso, da allora, di portare il lutto…. Fuori mi parve d’essere un altro; e che, d’intorno, tutto un mondo fosse crollato. Chi eravamo noi, dunque? Che cosa rappresentavamo in quella città? La città intera odiava la nostra divisa; a quella dimostrazione calma e dignitosa avevan preso parte risoluta tutte le classi, senza distinzioni sociali. E i nostri camerati, i nostri ufficiali che ne pensavano?”CLXXVI La citazione è lunga ma meritava d’essere riportata in extenso. Dopo una generazione, alla vigilia del 1859, le conseguenze dei Fatti di Romagna erano ancora così pesanti da aver predisposto tutta la regione alla rivolta: chiunque, ma non il Papa. Avevano influito anche sulle truppe pontificie? Se si, quanto? Questo è più difficile da stabilire. Brigante Colonna, che l’anno seguente disertò e passò nell’Armata Sarda e poi nell’Esercito Italiano, fu decorato e terminò la carriera da ufficiale superiore, era assai più istruito del soldato medio ed era un nobile. Altri, incolti, o del tutto analfabeti, probabilmente non la pensavano come lui, o non se ne curavano, o invece si? E quanto differiva la loro opinione dalla sua? E non dimentichiamo che fra il 1832 e il 1858 ci furono il 1848 e la Repubblica Romana, che lasciarono ulteriori tracce. Ad ogni modo, senza considerare la retorica con cui Mazzini condì la sua versione e senza occuparci dei commenti di d’Azeglio, ciò che è più importante dopo l’influsso dei Fatti di Romagna sui patrioti, sulla gente del luogo e su Napoleone III è un quarto aspetto: furono proprio i Fatti di Romagna, una volta riesaminati da Mazzini in quello stesso 1831, a convincerlo che occorreva cambiare metodo, scartare il federalismo, teorizzare l’unità e dare alla luce la Giovine Italia. 202 Dai Fatti di Romagna scaturì la scintilla che avrebbe animato il Risorgimento, coi Fatti di Romagna lo Stato Pontificio iniziò a morire.
202 Mazzini ne parlò nel suo Une nuit de Rimini en 1831, uscito a Parigi e nel lavoro Due parole sugli eventi recentemente
occorsi negli Stati Romani; d’Azeglio ne I miei ricordi, pubblicati però dopo il 1848, e ne fece cenno nel suo Degli ultimi casi di Romagna, relativo però ai fatti del 1845 e pubblicato nel 1846.
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Capitolo XXI Verso il ‘48 I) Il moto del ‘45 Come molte morti di vecchiaia, pure quella del Potere Temporale richiese tempo. Il corpo più che millenario dello Stato Pontificio dopo i Fatti di Romagna declinò lentamente e inesorabilmente per altri quarant’anni, affetto da un male incurabile che alternò fallaci speranze di sopravvivenza a bruschi peggioramenti, a volte forti, a volte lievi, ma non per questo meno letali. Nelle Legazioni il magma rivoluzionario continuò a ribollire sommessamente per tredici anni ed esplose di nuovo nel settembre del 1845, con esiti negativi quanto quelli del ’31 e del ‘32. C’erano stati due tentativi nella tarda estate del 1842, uno a metà agosto a Savigno, terminato colla morte di due carabinieri e la fuga in Toscana dei rivoltosi, inseguiti dai carabinieri pontifici; l’altro, da parte di circa 200 uomini, e che per caso fu intercettato e sventato dai dragoni nella notte fra l’8 e il 9 settembre, nei pressi di Imola, per catturare il cardinal legato di Ravenna Luigi Amat di Sorso, il vescovo di Imola cardinale Mastai Ferretti e il vescovo di Ravenna cardinal Falconieri. Fioccarono gli arresti: venti coinvolti furono condannati a morte e sei di loro vennero fucilati a Bologna il 7 maggio del ’44. Non a caso il 22 giugno successivo partì da Roma per Senigallia, un battaglione di fanteria, forte di oltre 600 uomini, ufficialmente per assicurare l’ordine pubblico durante la fiera annuale, in realtà per aumentare la guarnigione delle Romagne e prevenire disordini. Poi ci fu la spedizione dei fratelli Bandiera, il cui fallimento provocò acri discussioni nel movimento mazziniano e fra questo e le altre organizzazioni sui modi per giungere al successo. Le Legazioni ricominciarono a vedere fatti di sangue, di cui era difficile stabilire i veri motivi. Ci furono agguati notturni a membri delle forze di polizia, dell’amministrazione pubblica e a cittadini più o meno noti. La polizia intensificò le indagini, senza procedere ad arresti indiscriminati per non inasprire inutilmente la situazione. I ricercati si rifugiarono in Toscana o a San Marino, mettendo a dura prova la tolleranza del Granducato e obbligando la Repubblica a procedere a sua volta a fermi ed estradizioni. L’episodio più grave fu senza dubbio la mezza insurrezione accaduta a San Nicolò, 203 dove il 10 marzo 1844 ben 120 insorti aggredirono i dragoni, li privarono di armi e cavalli, fermarono e derubarono il corriere postale e i dragoni di scorta e si buttarono per la campagna. I carabinieri reagirono e ne presero trentacinque subito. Da Roma, dove la notizia arrivò il 12 marzo, il Presidente delle Armi monsignor Giacomo Amadori Piccolomini ordinò d’abbandonare il sistema dei piccoli presidi e passò all’impiego delle truppe in massa. Fece richiamare agli squadroni tutti i distaccamenti di dragoni dai posti di sorveglianza lungo le strade corriere e li raggruppò a Terni, facendo lo stesso coi cacciatori a cavallo, concentrati in Ancona. Ordinò a mezza batteria di rientrare da Foligno a Castel Sant’Angelo e mobilitò i battaglioni della riserva in sedici delle venti provincie dello Stato. Ovviamente i regolari e gli ausiliari non andarono d’accordo e a maggio si registrarono frequenti risse fra gli uni e gli altri nella guarnigione d’Ancona Nel gennaio del 1845 l’uccisione del brigadiere dei carabinieri Sparapani, avvenuta la sera del 15 a Ravenna, seguita due settimane dopo da quella del soldato svizzero Carl Adolf Drotzer, provocarono prima una reazione dei soldati svizzeri, contrastati dalla popolazione in numerosi tafferugli, e poi un’ondata di arresti, terminata colla decapitazione di due colpevoli il 18 e il 19 aprile. Nelle Legazioni l’atmosfera si faceva sempre più tesa. In agosto si disse che nel battaglioni fucilieri del maggiore Bruti, di presidio a Senigallia, fossero stati scoperti e arrestati alcuni soldati aderenti ad una
203 Oggi nel comune di Castel San Pietro Terme, città metropolitana di Bologna, lungo la via Emilia ponente.
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società segreta non meglio identificata, per cui il battaglione era stato subito trasferito. 204 Per lo stesso motivo, si diceva, erano state spedite quattro compagnie di cacciatori nelle Marche, incrementati i carabinieri di 300 uomini, disposto l’invio di 34.000 libbre di polvere da sparo e lasciata una guarnigione di 1.000 uomini a Senigallia. Ciò che non si sapeva era il piano mazziniano per un’insurrezione su larga scala nelle Legazioni romagnole. Capeggiati da Pietro Renzi, un entusiasta confusionario con al suo attivo più piani che fatti, i patrioti nel settembre del 1845 passarono all’azione, inconcludente e pasticciata quant’altre mai. Le autorità papali non furono colte del tutto di sorpresa. Avvertite da San Marino e dalla polizia modenese che il moto poteva scoppiare intorno al 10 settembre, mobilitarono tutti i Volontari Pontifici e fecero affluire truppe regolari dalle Marche, benché non in gran quantità per via d’una parallela mobilitazione contro gli sbarchi temuti sulla spiaggia tirrenica da Montalto di Castro ad Anzio. Renzi se ne accorse e differì la rivolta di due settimane, fissandola al giorno d’un’attesissima partita di pallone – pallone col bracciale, non il calcio – allo sferisterio di Rimini. Perciò, nel pomeriggio del 23 settembre 1845, quando da otto giorni i volontari pontifici erano stati quasi tutti rimandati a casa, il moto rivoluzionario scoppiò proprio nello sferisterio e si allargò alla città. Due terzi dei circa 300 regolari della guarnigione – due compagnie di fanteria indigena – comandata dal capitano Vincenzo Vespignani, aderirono alla rivolta e fecero prigionieri i commilitoni restati fedeli, i sedici dragoni, arresisi per ordine del loro comandante, e tutti e dodici i carabinieri presenti a Rimini. Salvo qualche ferito nei primi momenti, non ci furono perdite, furti o violenze, né durante la sollevazione, né durante le perquisizioni nelle case e tantomeno nel corso della notte; fu una rivolta molto civile e ordinata. La mattina seguente gli insorti – ormai circa 300 con tre cannoni – crearono un “Governo di Riforma di Rimini”, capeggiato da Renzi, chiesero soldi alle autorità cittadine, che glieli negarono, e restarono ad aspettare la sollevazione della Romagna. Non ci fu. Le autorità pontificie invece reagirono in fretta. La mattina del 24, confermata la notizia dell’insurrezione, richiamarono alle armi tutti i Volontari e radunarono le truppe disponibili. A sera all’infuori di Rimini non c’era cittadina o paese che non fosse saldamente controllato dalle autorità, mentre a Savignano stavano affluendo 830 fanti indigeni ed esteri, più di cento dragoni, due treni d’artiglieria e 250 volontari; ed altrettante truppe si stavano concentrando a Pesaro per muovere alla volta di Rimini. Dalla Toscana una dozzina di fuorusciti rientrarono in Romagna e arrivarono a Modigliana. Vi abitava il canonico don Giovanni Verità, attivo membro della Giovine Italia, tenuto d’occhio dalla polizia pontificia. Guidati da lui, nella notte sorpresero la casermetta della Finanza alle Balze di Scavignano, disarmarono i nove finanzieri, il brigadiere dei carabinieri e l’ispettore di polizia che ci trovarono, poi si fecero prudentemente rilasciare dal brigadiere una dichiarazione scritta che l’irruzione non aveva causato danni a persone o cose, ma solo la sottrazione delle armi e rimasero in attesa degli eventi. La mattina del 25 i Riminesi spedirono tre colonne verso San Marino, Santa Giustina e Riccione per capire se stava succedendo qualcosa. Stava succedendo. Le prime notizie annunciarono che il maresciallo Zambelli dei carabinieri aveva raccolto un centinaio di volontari ed era fra Corvignano e Spadarolo. Poi si seppe del concentramento di truppe indigene ed estere a Savignano e che pure Faenza, Bagnacavallo e Cotignola erano insorte. L’indomani però, visto che il resto della Romagna non si muoveva, Renzi decise di dichiarare finita la rivolta. I suoi seguaci dapprima si indignarono, poi nel corso della giornata cominciarono a sparire. Il 27 settembre lo sfascio era ormai assoluto e senza nemmeno l’intervento delle autorità. Rimini, abbandonata da Renzi e dai pochi rivoltosi rimasti, fu ripresa dai carabinieri e dalla decina di dragoni prigionieri dal 23 e ormai incustoditi, che provvidero ad avvisare le truppe pontificie in arrivo. Intanto 204 Nel frattempo era stato emesso il Regolamento pel Dettaglio amministrativo della Truppa di Linea indigena, del 20 aprile
1845, che non in sostanza cambiava l’organico e confermava l’arruolamento forzato gli oziosi, a beneplacito del Governo.
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Renzi e gli insorti, giunti a San Marino, ebbero la sorpresa di sentirsi negare qualsiasi ricovero oltre le 24 ore. All’alba dell’indomani furono accompagnati al confine della Repubblica verso il Montefeltro e, per viottoli di montagna, arrivarono a Sestino, nel Granducato di Toscana. Contemporaneamente, le truppe regolari uscite da Faenza e i Volontari Pontifici in arrivo da Brisighella cominciarono ad accerchiare la casermetta della Finanza delle Balze di Scavignano. Ci fu uno scontro a fuoco, che costò ai Pontifici la morte d’un ufficiale svizzero e una decina di feriti, alcuni dei quali deceduti poi in ospedale, e due morti, tre feriti e due prigionieri agli insorti, la maggior parte dei quali – si parlò di 150 persone – fuggì in Toscana e si consegnò ai soldati del Granduca. La mattina del 29 settembre, mentre le truppe e la polizia pontificia rastrellavano Rimini, arrestando colpevoli, sospetti e disertori, inclusa la guarnigione che tutta intera fu rinchiusa nella cittadella d’Ancona fino al termine dell’inchiesta, 205 apparve a largo un vapore austriaco. Come il comandante fece sapere all’imperialregio console Adducci, era pronto a cannoneggiare la città, aveva a bordo 300 fanti ed era seguito dal resto della squadra austriaca. Convinto dal console a lasciar stare e sceso a terra a controllare, il comandante constatò di persona che non era successo quasi nulla, che la città era di nuovo in mano alle autorità e ripartì immediatamente. 206 Vi furono dei contraccolpi d’ordine diplomatico. La Santa Sede protestò col Granduca per l’asilo concesso ai fuorusciti, primo fra tutti Renzi, e invocò la convenzione del 1827 in base a cui i rei politici andavano restituiti a semplice richiesta. Leopoldo II dovette arrivare a un compromesso e, per timore d’apparire troppo liberale e dunque sospetto all’Austria, nel corso del 1846 li rese alla polizia pontificia, facendo insorgere gli ambienti liberali fiorentini, che cominciarono a criticare il governo e ad allontanarsene, per cui la situazione politica si inacerbì pure nella tollerante Toscana. La scossa vera però era dietro l’angolo, perché il 1° giugno 1846 morì papa Gregorio. Fin dal principio del suo pontificato, Gregorio XVI aveva fatto emanare dei severi editti contro la Giovine Italia e nel 1833 aveva chiesto a Ferdinando II di Napoli di seguire la sua stessa strada. Ne era venuta una complicata situazione diplomatica, che si sarebbe più o meno ripetuta quindici anni dopo, nel 1848. Nel 1833 Ferdinando aveva risposto che la repressione pura e semplice aveva un effetto superficiale e non risolveva la questione, perciò sarebbe stato meglio che il Papa organizzasse una Lega degli Stati italiani, difensiva e offensiva, contro qualsiasi ingerenza estera. In sostanza si trattava della neutralizzazione dell’Italia che era stata auspicata già alla fine del XVII Secolo, menzionata nei trattati di Utrecht e Rastadt, raggiunta in pratica nel 1756 col rovesciamento delle alleanze, sconvolta dal periodo napoleonico e infine imposta dalla Santa Alleanza. Gregorio sapeva che una simile iniziativa, se partita da uno Stato italiano, non sarebbe piaciuta all’Austria, così come lo sapeva Bernetti, perciò la risposta di Roma a Ferdinando fu no. Nel frattempo però quest’ultimo aveva fatto la stessa proposta a Leopoldo II di Toscana, marito di sua sorella, e a Carlo Alberto di Sardegna, cugino di sua moglie e cognato di Leopoldo, non dimenticando d’avvertire l’ambasciatore austriaco a Napoli. A Vienna Metternich sospettò Ferdinando di chissà quali mire espansionistiche. Berlino e San Pietroburgo obiettarono che non avrebbero accettato cambiamenti e la cosa finì lì. Però, quando nel 1848 si sarebbe parlato di nuovo di lega, proprio Ferdinando se ne sarebbe chiamato fuori, facendo fallire il progetto. Nel frattempo era successa un’altra cosa. Tornato a Roma alla fine del 1844, Massimo d’Azeglio era stato avvicinato dai liberali. Diomede Pantaleoni in un incontro a quattr’occhi gli aveva offerto di diventare il coordinatore delle attività patriottiche nelle Legazioni, spiegandogli che più nessuno dava credito alla Carboneria ed alle sette. Occorreva qualcuno di noto, serio, affidabile, capace dì imprimere una svolta. Il 205 A dicembre il loro battaglione, originariamente acquartierato a Rimini e Pesaro, fu rimandato a Roma, lasciando però agli
arresti nella cittadella d’Ancona il capitano Vespignani e tutti gli inquisiti il cui processo non era ancora finito. 206 Il 30 dicembre 1845, vista la calma esistente, la Santa Sede pubblicò un nuovo regolamento militare e ridusse l’organico dell’esercito di 382 uomini e 54 cavalli.
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movimento andava distolto dai soliti tentativi mazziniani, votati all’insuccesso quanto quelli carbonari. Il nuovo coordinatore doveva essere capace d’indicare ai patrioti nuovi mezzi per ottenere il risultato unitario, convincendoli però a non fare tentativi insurrezionali alla morte di papa Gregorio, intuita prossima, per evitare il solito ingresso degli Austriaci e relative conseguenze. Si era pensato a lui: accettava? D’Azeglio aveva accettato e il 1° settembre 1845 era partito per la Romagna lungo la solita strada: Cassia fino a Monterosi, poi a destra per Nepi a Civita Castellana e da lì la Flaminia fino a destinazione. “Il piano era composto di due operazioni. La prima distruggere le idee vecchie; la seconda proporre le nuove sia relativamente alla questione generale italiana che relativamente alla questione speciale dello Stato ecclesiastico.”CLXXVII In sostanza, passato di mano in mano, tappa dopo tappa, dalla cosiddetta “Trafila” patriottica, d’Azeglio aveva convinto i patrioti da lui incontrati a lasciar perdere la Giovine Italia e le sue iniziative, a sperare nell’intervento del Piemonte, senza i cui soldati e denari la rivoluzione non si poteva fare e, nel frattempo, a non sollevarsi e a non partecipare a nessuna iniziativa. Gli avevano dato retta e probabilmente per questo il moto di Rimini non aveva avuto quasi nessun’eco ed era morto subito. Carlo Alberto in udienza riservata aveva poi approvato quanto fatto da d’Azeglio, dicendogli di riferirlo ai suoi contatti nelle Legazioni. I risultati si sarebbero visti in meno di tre anni, nel marzo del ’48. Adesso però era ancora il giugno del 1846 e gli eminentissimi cardinali, alloggiati nella Manica Lunga del Quirinale, come sempre per il Conclave, si trovarono imbarazzati nella scelta del nuovo Papa. I due favoriti erano Lambruschini e Ferretti, ma, al primo scrutinio, nella Cappella Paolina del Quirinale, andarono quasi pari, dopodiché i voti si riorientarono sull’arcivescovo d’Imola Mastai Ferretti, che in prima battuta ne aveva avuti inaspettatamente dodici. Poteva essere lui il nuovo papa? A Lambruschini che gli domandava chi secondo lui sarebbe stato eletto, il cardinal Micara aveva già risposto: “Eh, se spira il diavolo, vostra eminenza, od io; ma se spira lo Spirito Santo, il cardinale Mastai.”CLXXVIII Adesso, al secondo scrutinio, il 15 giugno 1846, Mastai salì a diciassette voti su cinquantadue e Lambruschini scese a tredici. Nel pomeriggio del 16 giugno tutti capirono d’essere alla votazione definitiva. Mastai era lo scrutatore. Al diciottesimo voto in suo favore gli si spezzò la voce e cominciò a piangere. Chiese d’essere sostituito, ma non si poteva, pena la nullità dell’elezione. Continuò a leggere in lacrime. Al trentaseiesimo voto per lui, l’arcivescovo di Napoli, Tommaso Riario Sforza, decano del Sacro Collegio esclamò: “Habemus Pontificem”. Era fatta. Il cardinale arcivescovo di Milano Gaysruck, latore del veto austriaco, arrivò l’indomani: troppo tardi. Mandandolo, Metternich aveva visto giusto, senza sapere quanto: coll’elezione di Pio IX cominciava il ‘48.
II) I primi 18 mesi di Pio IX e la crisi per la Guardia Civica Come molte persone di buona volontà, troppo candide e oneste per essere scaltre, 207 il nuovo Papa iniziò con entusiasmo, senza rendersi ben conto della portata dei cambiamenti che concedeva e delle conseguenze del farli troppo in fretta.
207 Commentandone la morte, il marchese Alessandro Guiccioli avrebbe scritto nel proprio diario il 7 febbraio 1878: “Pio IX ha
cominciato e finito bene. Benedisse l’Italia nel suo nascere e Vittorio Emanuele nel suo letto di morte. Nell’insieme, fu una figura piuttosto mediocre, un carattere alquanto leggero, ma generoso, casto, probo, amante del bene altrui e di quello della Chiesa. Non aveva la mente all’altezza del suo compito”, cfr. GUICCIOLI, Alessandro, Diario di un conservatore, Milano, Edizioni del Borghese, 1973, pag. 31.
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Un mese dopo la sua elezione decretò l’amnistia per i reati politici: 550 detenuti furono messi in libertà e circa 700 esiliati poterono rientrare. 208 Se c’era un modo per innescare la miccia della rivoluzione, ebbene, Pio IX l’aveva trovato. Poi vennero altre riforme che toccarono un po’ tutti i settori, dalla libertà agli Ebrei – e in fondo già da quindici anni non era la Banca Rothschild di Napoli la maggior finanziatrice dello Stato Pontificio? – a quella di circolazione dei giornali, includendo l’introduzione delle casse di risparmio, la creazione della lega doganale italiana sul modello dello Zollverein tedesco, il passaggio dell’orologio del Quirinale dalle ore all’italiana a quelle astronomiche alla francese,209 un cambiamento radicale di personale civile e militare in tutti i gradi della polizia, avvenuto ai primi di gennaio del 1847 e, in campo militare, prima il congedo di 1.700 ausiliari nell’estate del ‘46, per sgravare l’erario, poi su richiesta di Bologna e di altre città delle Legazioni, la riorganizzazione della Guardia Civica. Qui si ebbe il primo urto serio in Curia. Il segretario di Stato, Tommaso Gizzi, aveva idee tanto avanzate da essere considerato il capo dei cardinali liberali ed era benvoluto dal popolo, ma si oppose alla Guardia Civica in modo così drastico da giungere alle dimissioni. Era in torto? Gizzi aveva due caratteristiche di cui Pio IX mancava: una profonda esperienza diplomatica, maturata nelle nunziature in Belgio, Svizzera, Austria e Sardegna, e un solido buon senso politico. Legato pontificio a Forlì nel 1845, per il suo comportamento aveva riscosso il plauso del laicissimo e liberale d’Azeglio, il che, una volta ripresa Rimini, non gli aveva impedito di rimproverare duramente e spedire sotto processo ad Ancona gli ufficiali della guarnigione, per essersi fatti imprigionare da poche decine di scalmanati benché avessero avuto più di 300 uomini. Adesso a Gizzi la Civica non piaceva. Ne intuiva tutta l’inaffidabilità, la pericolosità. Se c’erano già i carabinieri, la finanza, la polizia, i bersaglieri, i centurioni e i volontari pontifici, perché ricorrervi? Perché per i liberali era, a imitazione della Guardia Nazionale francese, l’organizzazione in armi della borghesia a tutela dei suoi interessi e perché poteva essere numericamente assai più forte dell’esercito. 210 Gizzi capiva bene tutto questo e che la Civica era il primo passo su una strada che alla fine aveva la Costituzione e la guerra. Dall’altra parte Pio IX era premuto dalla piazza, dalle manifestazioni, coordinate e spesso capeggiate dal capopopolo Angelo Brunetti, a tutti noto come Ciceruacchio, che lo acclamavano e spingevano per una diminuzione dell’attività di polizia. Era bello essere acclamati; al Papa piaceva molto, come si vide sempre durante il suo pontificato, non per vanità, ma perché lo faceva sentire amato e accettato. Pio IX scendeva volentieri in mezzo al popolo, ma non lo capiva. Era rimasto a prima della Rivoluzione Francese, benché, nato nel 1792, avesse vissuto nel Regno Italico. Era un aristocratico e d’istinto divideva il mondo in nobili e plebei. Ciò che lui concedeva era sia una grazia dall’alto, sia un segno di amicizia che non si poteva né doveva rifiutare; né si poteva obbiettare a quanto era negato in suo nome o da lui in persona. Ebbe delle buone, ottime intenzioni, ma, ripeto, non capì cosa avrebbero implicato una volta messe in atto. Gran parte dei disastri politici del suo pontificato nacquero da questa incapacità di comprendere il mondo che lo circondava. citando come fonte quanto gli aveva detto monsignor Gnoli, “advocatus pauperum” (cioè difensore dei poveri chiamati in causa contro la Reverenda Camera Apostolica) il 4 agosto 1846 riportava che erano stati interessati 247 condannati per motivi politici, 303 prigionieri in attesa di giudizio, e 700 profughi; cfr. RONCALLI, Nicola, Cronaca di Roma 1844-1870, 2 voll., a cura di Maria Luisa Trebiliani, Roma, Istituto centrale per la Storia del Risorgimento Italiano, 1972,. vol. I, anno 1846, appendice II, Amnistia 1846, pag. 235. 209 Oltre a quanto detto nella nota 54, parlando del massacro della Valtellina, le ore all’italiana avevano un’ulteriore complicazione data dagli orologi col quadrante all’italiana, che segnava solo sei ore - perciò occorreva fare attenzione pure alla posizione del sole – ma batteva le ore coi colpi da uno a dodici, da cui, come annotò Belli, si ebbe lo sconsolato commento d’un soldato svizzero: “diafolo: seg-nare qvattro, battere dieci e stare fentidue!” 210 E infatti i ruoli della Guardia Civica romana, redatti rione per rione a partire dal 1847 e fino al 1849, registrano, in quattordici volumi conservati nell’Archivio Capitolino, oltre 20.000 iscritti. Questo significa che la sola Civica di Roma superava la forza dell’intero esercito regolare pontificio. 208 Roncalli, nella sua Cronaca di Roma 1844-1870,
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C’era però un altro elemento che certamente non sfuggiva del tutto a Pio IX e costituiva una minaccia sorda e crescente: la piazza stava prendendo la mano al governo. L’estate del ’47 fu il periodo in cui si passò dall’entusiasmo rispettoso all’entusiasmo condizionato. Prima di quell’estate il Papa andava bene per definizione, ma nel corso dell’estate si cominciò a intravedere qualche incrinatura nell’atteggiamento popolare e si capì che, per alcuni, il Papa andava bene a condizione di fare quanto volevano loro. Si parlò per la prima volta di pubblicazioni comuniste 211 – termine mai usato prima – e si notò un progressivo e preoccupante allentamento dell’ordine pubblico. A Roma le cose furono complicate da insurrezioni nelle carceri da parte degli esclusi dall’amnistia o dagli indulti e dall’opposizione violenta del popolo contro le riduzioni di lavoro indotte dalle innovazioni meccaniche e dai lavoratori stranieri. Si tentò di dar fuoco alle macchine del lanificio Costa in Trastevere, in dicembre si sarebbe progettato un altro incendio in un secondo lanificio e in luglio ci furono violenze contro i cocchieri e gli stallieri abruzzesi per cacciarli da Roma, perché levavano il lavoro ai Romani. Queste ultime furono così forti, diffuse e su ampia scala – si parla di centinaia di coinvolti ad ogni manifestazione, con aggressioni e ferimenti – da far intervenire pesantemente l’ambasciata delle Due Sicilie a protezione dei propri sudditi e contro l’inazione della polizia. Nemmeno in provincia le violenze erano cessate. Nelle Legazioni le strade continuavano ad essere malsicure- Gli attentati contro magistrati, funzionari civili e di polizia, personale militare e dei carabinieri non avevano interruzione e, anzi, venivano colorandosi d’una specie di pretesa d’impunità, perché fatti da sostenitori di Pio IX contro quelli che loro definivano “gregoriani” – lo fossero o no – cioè nostalgici di papa Gregorio XVI, dunque reazionari. Insomma, adoperando una terminologia posteriore, i sostenitori di Pio IX erano i politicamente corretti, gli altri i reazionari; e i politicamente corretti, in quanto tali, si ritenevano “ipso facto” legittimati a tacitarli e magari a eliminarli fisicamente. Tacciare qualcuno di “gregoriano” sovente era il preannuncio del suo ferimento o della sua uccisione e spessissimo fra il dirlo e il farlo c’erano solo pochi secondi. Le minacce aumentarono in quantità e arrivarono tanto in alto quanto mai prima. Cardinali e vescovi ricevettero lettere minatorie e si scoprirono complotti per aggredirne più d’uno. Alcuni sacerdoti definiti “gregoriani” furono uccisi, altri costretti a fuggire, altri ancora furono esentati dall’incarico dalle stesse gerarchie ecclesiastiche. In tutto questo, almeno da gennaio del 1847 l’autorità di polizia appariva inerte e si doveva sempre più spesso far ricorso alle truppe regolari, più numerose, più armate e meglio in grado d’imporsi. La situazione era così grave che in primavera ed estate per calmare la gente si fecero varie sostituzioni di delegati e governatori nelle Legazioni e in Umbria; ma non servì altro che sul momento. Da Bologna, devastata da furti e aggressioni, le classi medie ed alte chiesero insistentemente il permesso d’organizzarsi in pattuglie armate per assicurare l’ordine con ronde notturne, cioè in sostanza chiesero la Civica; 212 a Forlì cominciarono a metterla in piedi a giugno senza il permesso da Roma. 211 Citata da RONCALLLI, in op. cit., pag. 271, come “una stampa clandestina in senso communista”, diffusa il 14 luglio 1847;
non a caso l’anniversario della presa della Bastiglia 212 In realtà Bologna aveva avuto una specie di propria guardia già da parecchi anni prima. Intanto colla Restaurazione era stata reistituita la Guardia Forese e, come in qualsiasi altro posto, la Guardia Urbana. Secondo Ettore STANZANI, nel suo Corpo delle Pattuglie Cittadine 1820-1961, Rocca San Casciano, Cappelli, 1962, a causa del gran numero di furti e grassazioni, nel 1820, su richiesta dei cittadini, il cardinal legato Spina aveva costituito il Corpo delle Pattuglie Cittadine di Bologna, dipendente dal Comando degli Artiglieri e dei Pompieri Urbani, però occorre specificare che l’Artiglieria non aveva mansioni di polizia ed era una specie di guardia d’onore, composta da non più di 69 membri, che d’inverno a volte coadiuvavano i carabinieri e la truppa di linea nel pattugliamento notturno delle vie cittadine. Nel 1984 Steven C. Hughes dimostrò però che la data d’istituzione delle Pattuglie Cittadine doveva essere spostata al 27 ottobre 1828, basandosi su una lettera del legato cardinale Albani a Filippo Resta, allora colonnello comandante la guarnigione, in cui era espressamente detto a proposito del Corpo delle Pattuglie che si trattava “d’una semplicissima istituzione, da far durare sino a che il bisogno lo esiga e che può dare neppure l’idea di Guardia Urbana o di truppa Provinciale, non dovendo esservi né gradi né uniformi , né quant altro possa far nascere il pensiero di una organizzazione militare” (rip. in HUGHES, Steven C, Per le origini del Corpo delle
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Il Papa non sapeva come regolarsi. L’idillio del primo anno esisteva ancora, ma stava rivelandosi una maschera dietro cui si svelava lentamente qualcosa di minaccioso. Il popolo appariva sempre affezionato, ma lo sarebbe restato davanti a un diniego? Ciceruacchio garantiva la calma in città. Il vero padrone di Roma era ormai lui. Non era uno qualunque, un semplice carrettiere, come molti dissero poi, ma un popolano facoltoso: possedeva una grossa osteria fuori Porta del Popolo, teneva in affitto dei prati lungo il Tevere a monte di Roma, a Tor di Quinto, dava carri e carrette a nolo e commerciava in granaglie, farine, fieni e paglia, organizzava manifestazioni e imponeva il suo volere. Per il compleanno del Papa ordinò che nessuno ardisse vendere fiori a più di 4 bajocchi al mazzetto: fu ubbidito, in tutta la città nessuno si azzardò a trasgredire. Ciceruacchio metteva in piedi cortei imbandierati, fiaccolate, acclamazioni, sempre rigorosamente inneggianti al Papa “e” a qualcos’altro: libera stampa, ferrovie, istruzione, progresso…. Il Papa insomma stava diventando l’etichetta di garanzia sotto cui introdurre idee e pretese nuove da parte del popolo; e Ciceruacchio governava il favore del popolo. Forse fra poco avrebbe governato tutto? E dietro di lui chi c’era? Nessuno? O invece si? Era un caso che frequentasse d’Azeglio? Era un caso che alla Civica avessero aderito come comuni – soldati semplici – il figlio maggiore di Ciceruacchio e anche il quarantaquatrenne principe di Canino, Carlo Luciano Bonaparte, figlio di Luciano, dunque nipote di Napoleone?213 Il cardinal Gizzi intuiva il baratro. La rivoluzione avanzava a grandi passi, ma non era un bene; si andava troppo in fretta e verso qualcosa che non somigliava per niente ai moti del ’31 e moltissimo ai tempi orribili della Rivoluzione Francese. Serpeggiavano un forte anticlericalismo e, cosa ritenuta spenta da molti anni, una vena di nazionalismo. Ad esempio, Ciceruacchio aveva stigmatizzato il tradizionale pranzo in maschera fatto in campagna degli artisti tedeschi per il Natale di Roma: che c’entravano quegli stranieri? Mascherandosi non rispettavano Roma, il suo retaggio e i suoi fasti, perciò andavano isolati. Altro esempio: in giugno, in occasione d’un tumulto, erano stati aggrediti gli Svizzeri in servizio d’ordine e acclamati i granatieri, perché italiani. Ma il colpo più grosso era avvenuto il 5 dicembre del 1846; una cosa inaudita, mai fatta in precedenza: a Roma si era festeggiato il centenario di Balilla, dell’insurrezione che aveva cacciato gli Austriaci da Genova. Il significato era chiaro: ieri via da Genova, domani via dall’Italia. Gizzi sul via dall’Italia poteva concordare, ma quale prezzo si sarebbe pagato? E i conservatori, che stavano diventando rapidamente reazionari, perché si preparavano a reagire, che avrebbero fatto? Quale reazione si sarebbe avuta quando, costituendo la Civica, si sarebbero dovuti sciogliere i volontari e i centurioni messi in piedi nel 1832? Non era una segnale alla fazione fedele che la si disarmava per darla inerme nelle mani della rivoluzione? E si poteva pensare che non avrebbe reagito? Per tutti questi motivi Gizzi non voleva la Civica, 214 che invece era voluta dal popolo. E dunque, adesso a Pio IX stava la scelta: favore del popolo o Gizzi? Volontà del Papa o Gizzi? Civica o Gizzi? Civica, il 5 luglio; e Gizzi fu sostituito dal cardinal Ferretti, cugino del Papa, nominato il 17 luglio 1847. Pattuglie Cittadine (Bologna 1830), in « Rassegna Storica del Risorgimento », anno LXXI, fasc. II, aprile-giugno 1984, pag. 172). Di conseguenza l’istituzione della Civica bolognese si innestava su una lunga tradizione cittadina risalente almeno ai primi del XVII Secolo con la Compagnia di Manino e ripristinata dopo la Restaurazione. . 213 Carlo Luciano Bonaparte sarebbe stato accusato di sedizione già l’11 settembre 1847, perché con altri tre civici in uniforme, fra cui il capitano Galletti, la sera del 7 aveva radunato dei musici e, alla testa di molti popolani erano andati a suonare inni nazionali e a strillare sotto le finestre dell’ambasciatore toscano e di quello sardo “Viva il duca di Lucca, viva Carlo Alberto, viva l’Italia, viva l’indipendenza italiana, viva l’unione dei principi italiani.” L’11 – mentre Carlo Luciano, famoso ornitologo, era in viaggio per il congresso degli scienziati italiani di Venezia – c’era stata un’altra manifestazione per il Corso e sempre sotto le finestre del ministro di Sardegna, con nuove grida di “Viva Carlo Alberto” e “Viva la Lega Italiana.” Tornato a Roma, Carlo Luciano il 28 fu interrogato dal magistrato inquirente per quattr’ore e “insultò molte volte il giudice e proferì parole contro il card. segretario di Stato.”; cfr. RONCALLI, op. cit., anno 1847, 2 ottobre, pag. 279. 214 Scrisse Roncalli che, nel luglio del ’47, avendogli Marforio chiesto come il popolo avrebbe soprannominato la Civica, visto che aveva chiamato quella del 1831 “I cappelletti”, come la celebre pasta di Bologna, Pasquino rispose che, per non far torto ai
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Ci fu una conseguenza di cui parlerò a suo tempo. Adesso bisogna sottolineare che, colle dimissioni di Gizzi e la nomina di Ferretti, fu evidente, pure ai meno addentro alle cose pontificie, che Pio IX non aveva le idee chiarissime sulle conseguenze dei suoi atti e, per quanto amichevole potesse apparire, non ammetteva opposizioni e reagiva assai bruscamente se ne incontrava. Il caso della Civica fu esemplare: nonostante Gizzi avesse chiaramente detto cosa temeva collo scioglimento dei volontari e dei centurioni, il Papa non tollerò obiezioni e, per superare ogni ostacolo, s’arroccò sul più sicuro di tutti i cardinali: suo cugino. Non si rese conto che non era una questione personale, ma di politica e di affari. Trattò una faccenda oggettiva come un fatto personale, come del resto faceva spesso. Non capì che la via delle riforme non consentiva ritorno, né rallentamenti, né soste e che nel percorrerla occorreva fare attenzione a ogni parola, domandandosi quanto e soprattutto come sarebbe stata capita. Non comprese che la concessione della Guardia Civica era un passo irrevocabile in una direzione ben definita, mentre l’aveva capito Gizzi e lo capì il conte Pellegrino Rossi. Questi, carrarese, rinomato giurista, naturalizzato cittadino svizzero, poi naturalizzato francese, era stato nominato da Luigi Filippo ambasciatore di Francia a Roma e in tale veste, il 18 luglio 1847, commentando la nomina del cardinal Ferretti, riferì al ministro Guizot d’aver detto in Cancelleria Apostolica il giorno avanti: “La rivoluzione è incominciata, e non si tratta più ormai di prevenirla, ma di guidarla, circoscriverla, arrestarla. Se però si adoprerà la stessa lentezza, da benigna che ora essa è, si inasprirà.”CLXXIX Quanto era stato evidente a Gizzi ed ora a Rossi lo era pure a molti altri. Fra il 14 e il 16 luglio vi furono dimostrazioni e disordini di stampo reazionario in dieci città dello Stato Pontificio. Fu denunciato un complotto mirante a un sovvertimento dello Stato, indicandone il cardinale Lambruschini come capo e coinvolgendo svariati ufficiali superiori e subalterni dei carabinieri, alcuni dei quali notissimi, come il colonnello Nardoni a Roma e il tenente colonnello Freddi nelle Romagne, che furono arrestati e interrogati. Radetzky ne profittò per occupare Ferrara proprio il 17 luglio. Il pro-legato cardinal Luigi Ciacchi protestò subito in nome del Papa, ma la Segreteria di Stato impiegò un mese a seguirlo e, quando lo fece, si limitò a scrivere a Vienna di non poter credere che le truppe avessero agito per ordine della corte. Il guaio fu che nel frattempo non solo tutti i liberali, pure i più moderati, erano insorti – per il momento a parole – contro la mossa austriaca, ma che, davanti a una così lenta e fievole reazione pontificia, sospettarono un’intesa tra Vienna e Roma che non c’era mai stata. Alla fine dell’estate la piazza aveva preso la mano al Papa, che o non se ne rendeva conto, o non ci voleva credere e – ecco la conseguenza che intendevo – l’arrendevolezza pontificia contagiò altri. Il 4 settembre il granduca Leopoldo concesse la Guardia Civica; poi Firenze trascinò Lucca e pure Carlo Ludovico dové concederla. Londra scese in campo a sostegno dell’incipiente rivoluzione italiana. In quello stesso mese di settembre del 1847 lord Palmerston spedì lord Minto a fare un giro in Italia, coll’esplicita istruzione d’incoraggiare i governi della Penisola sulla via delle riforme. Contemporaneamente l’ambasciatore britannico a Vienna presentò una fredda nota con cui il governo di Londra faceva presente a quello imperiale che a Ferrara si era andati troppo oltre. L’Austria capì e ritirò le truppe nella cittadella, rendendo la città ai regolari pontifici e, soprattutto, alla Civica, con un accordo formale pubblicato in dicembre. .
veterani dei Cappelletti, si sarebbe dovuto cercare un altro soprannome “da minestra” e che forse “Strozza-preti” sarebbe stato gradito.
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Nel frattempo a Roma i cambiamenti si susseguivano: si inaugurava la Consulta di Stato, si teneva la prima riunione del Municipio, nascevano circoli politici e giornali da tutte le parti, si attendeva la Lega doganale, si discuteva, si manifestava e si aspettava con impazienza il nuovo anno. Il 1° gennaio 1848 i popolani che si recavano al Quirinale per fare gli auguri di buon anno al Papa trovarono le strade sbarrate dalle truppe regolari. Si rischiò l’insurrezione e solo l’intervento del senatore di Roma – cioè del sindaco – principe Corsini e di Ciceruacchio evitò lo scontro. L’indomani, 2 gennaio 1848, lo Stato Pontificio ebbe un governo in cui veniva ammesso per la prima volta un laico. Il Papa uscì in carrozza, fu acclamato come mai prima e Ciceruacchio, aggrappatosi alla vettura gli gridò: “coraggio Santo Padre, fidatevi del popolo!” Poi gli eventi precipitarono.
III) Il pasticcio del 10 febbraio Gli intenti riformatori di Pio IX si erano estesi alle forze armate, creando il 12 aprile 1847 la commissione, per “provvedere allo splendore dell’amministrazione militare.”CLXXX La componevano i principi Barberini, Rospigliosi e Pompeo Gabrielli. Quest’ultimo aveva comandato le truppe nei recenti Fatti di Romagna ed era stato poi nominato ispettore generale delle armi e, poiché tutta la sua vita era una testimonianza d’attaccamento alla Santa Sede, Pio IX l’aveva scelto come uno dei laici cui passare certi poteri politici, nominandolo Ministro delle Armi il 13 gennaio 1848. A dire il vero ai primi di settembre215 del 1847 gli aveva già fatto offrire la carica di pro-presidente della Armi, ma il Principe aveva rifiutato, perché era e restava molto cauto, per non dire contrario, a provvedimenti quali il riarmo dell’esercito e, soprattutto, la concessione di armi alla Guardia Civica, ben sapendo cosa si poteva rischiare. Non fu dunque una gran sorpresa quando il 10 marzo 1848 lasciò la carica. Due settimane dopo, il 23 marzo 1848, la ventata rivoluzionaria avrebbe portato Pio IX a far emanare un’ordinanza con cui si stabiliva la formazione d’un Corpo d’Operazione per “Procedere alla difesa e sicurezza dei domini pontifici, nonché alla concorde azione delle forze nazionali italiane,” ordinanza che però nasceva da un enorme equivoco, frutto della totale incapacità del Papa di farsi capire: il discorso del 10 febbraio 1848, passato alla storia come “la Benedizione all’Italia.” A differenza di quanto moltissimi pensarono, allora e dopo, il discorso del 10 febbraio non era un incitamento all’indipendenza, bensì alla calma e al mantenimento dello statu quo, solo che non fu capito: era troppo ammantato dalla consueta, vaga, sfumata, velata, ridondante retorica ecclesiastica, che, contrariamente al dettato evangelico, quasi mai parla chiaro e tondo, non dice “si se si, no se no”, ma riveste quei “si” e quei “no” di “se”, “ma”, “ove” e “forse”, di ipotesi, disquisizioni e sottintesi, a svantaggio della chiarezza e della comprensione e col risultato del disorientamento del Cristiano e, a volte, del suo allontanamento dalla Chiesa stessa. Aveva detto il Papa: “Romani Ai desideri vostri, ai vostri timori, non è sordo il pontefice che ormai in due anni ha da voi ricevuti tanti segni di amore e fede. Noi non ristiamo dal continuo meditare come possano più utilmente svolgersi e perfezionarsi, salvi i nostri doveri verso la Chiesa, quelle civili istituzioni che abbiamo poste, non da alcuna necessità costretti, ma persuasi dal desiderio della felicità dei nostri popoli e dalla stima delle loro nobili qualità.
215 Il 6 settembre 1847 in un colpo solo erano state accolte le dimissioni di monsignor Spada Medici da Presidente delle Armi e
mandato in pensione il comandante dell’esercito, il conte Filippo Resta, dal 1838 promosso tenente generale e fatto marchese di Sogliano. Un altro che preferì sparire nell’ombra fu il generale Ottaviano Zamboni.
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Abbiamo volti altresì i nostri pensieri al riordinamento della milizia, prima ancora che la voce pubblica lo richiedesse, e abbiam cercato modo di aver di fuori ufficiali che venissero in aiuto a quelli che onoratamente servono il governo pontificio.”CLXXXI Dunque, premesso che il Papa si stava armando per proteggere le riforme – perché, con una certa fatica, dalle sue parole questo si capiva – si aggiungeva, in un ingarbugliatissimo successivo paragrafo, qualcosa la cui sostanza, a ben vedere, ma molto a ben vedere e pensandoci parecchio, significava: “Se per stare in pace occorrerà andare d’accordo con tutti i principi italiani che fanno le riforme, ci penseremo sopra.” Poi Pio IX proseguiva con un altrettanto complicato periodo, culminante nella frase in cui diceva che il Papa era “pronto altresì a resistere colla virtù delle già date istituzioni agli impeti disordinati, come sarebbe pronto a resistere a domande non conformi ai doveri suoi ed alla felicità vostra.” CLXXXII il che nelle sue intenzioni significava: “non intendo cambiare una virgola alla situazione attuale.” Restava da vedere se chi l’ascoltava – ammesso che riuscisse a sentirlo in una grande piazza affollata e in un periodo in cui non esistevano microfoni ed altoparlanti – capiva e, in caso, se capiva nello stesso modo che intendeva lui o no; ed era più probabile il no. Ma il capolavoro del fraintendimento, l’apice dell’incapacità comunicativa, il disastro sommo era la chiusa, che, per quanto magniloquentemente involuta e pesante, vale la pena di riportare, tagliando solo le sette righe di benedizioni finali: “Ascoltate dunque la voce paterna, che vi assicura: e non vi commova questo grido che esce da ignote bocche ad agitare i popoli d’Italia con lo spavento di una guerra straniera aiutata e preparata da interne congiure o da malevola inerzia dei governanti. Questo si è inganno: spingervi col terrore a cercar la pubblica salvezza nel disordine, confondere col tumulto i consigli di chi vi governa; e con la confusione apparecchiare pretesti ad una guerra che con nessun altro motivo si potrebbe rompere contro di noi. Qual pericolo infatti può sovrastare all’Italia finché un vincolo di gratitudine e di fiducia, non corrotto da veruna violenza, congiunga insieme le forze dei popoli con la sapienza dei principi, con la santità del diritto? Ma noi massimamente, Noi capo e pontefice supremo della santissima Cattolica Religione, forsechè non avremo a nostra difesa, quando fossimo ingiustamente assaliti, innumerevoli figliuoli che sosterrebbero come la casa del Padre, il centro della Cattolica unità? Gran dono del Cielo è questo, fra tanti doni con cui ha prediletto l’Italia: che tre milioni appena di sudditi nostri abbiano dugento milioni di fratelli d’ogni nazione e d’ogni lingua. Questa fu in altri tempi, e nello scompiglio di tutto il mondo romano, la salute di Roma: per questo non fu mai intera la rovina dell’Italia; questa sarà sempre la sua tutela finché nel suo centro starà questa Apostolica Sede. Oh! Perciò benedite, Gran Dio, l’Italia e conservatele sempre questo dono preziosissimo di tutti, la Fede! ”CLXXXIII Non si sarebbe potuti essere più fuorvianti e l’unica spiegazione è che Pio IX non avesse compreso assolutamente nulla di quanto stava accadendo, di cosa veramente volesse la piazza e di conseguenza di cosa la piazza fosse portata a capire. Annunciare a gente infiammata dalla propaganda: “Ai desideri vostri, ai vostri timori, non è sordo il pontefice” equivaleva a dir loro: “do retta al vostro desiderio politico.” Asserire “Abbiamo volti altresì i nostri pensieri al riordinamento della milizia, prima ancora che la voce pubblica lo richiedesse” era lo stesso che annunciare: “preparo la guerra prima che il popolo me lo chieda.” Sostenere che il Papa era “pronto altresì a resistere colla virtù delle già date istituzioni agli impeti disordinati, come sarebbe pronto a resistere a domande non conformi ai doveri suoi ed alla felicità vostra.” suonava coll’immediato significato di “resisterò colla forza delle attuali istituzioni da me concesse – evidentemente esercito e guardia civica – a chiunque cercherà d’abbatterle o di farmi cambiare idea.” Infine, a coronare questo 273
esempio d’eloquenza, affermare che si doveva ascoltare il Papa e non “questo grido che esce da ignote bocche ad agitare i popoli d’Italia con lo spavento di una guerra straniera aiutata e preparata da interne congiure o da malevola inerzia dei governanti.” nelle menti di chi ascoltava, in quel lontano inverno del 1848, dopo tre interventi austriaci nel ’21, nel ’31 e a Ferrara nel ‘47, significava: “non preoccupatevi di chi vi spaventa colla minaccia d’un intervento straniero – che per tutti voleva dire austriaco – e d’una guerra; io sono il capo dei Cattolici e vi dico che 200 milioni di loro sono pronti a soccorrere lo Stato Pontificio”. E non si era già visto nel ’32 ad Ancona collo sbarco francese in funzione antiaustriaca? Quanti potevano comprendere che il Papa stesse dicendo: “guai a chi s’azzarda a cambiare qualcosa perché chiamerei gli stranieri come altri Papi han fatto in passato”? Chi poteva immaginare che il 10 febbraio del 1848 Pio IX stesse preavvisando il popolo di quanto avrebbe fatto col proclama di Gaeta un anno dopo? Conseguenza? Aiutati da una prosa contorta, oscura, magniloquente e vaga, tutti capirono ciò che vollero capire, ciò che volevano sentirsi dire, cioè che Pio IX voleva l’indipendenza italiana – il che significava: “fuori l’Austria!” – e che se fosse stato assalito da qualcuno intenzionato a fermarlo, che a quel punto poteva essere soltanto l’Austria, non solo avrebbe resistito grazie all’esercito che stava riorganizzando, ma avrebbe chiamato ad appoggiarlo tutti i cattolici stranieri, nel caso specifico ovviamente i Francesi, proprio contro chi l’avesse aggredito. In soldoni: il Papa voleva l’indipendenza, non si faceva intimorire e se l’Austria l’avesse attaccato, lui avrebbe reagito, facendosi aiutare dai Francesi. A questo punto col suo “Benedite l’Italia” per la massa il Papa diventava l’anima dell’Indipendenza; peccato che in realtà sarebbe stato l’anima della reazione. 216 Pio IX aveva, come tutti, i suoi limiti, ma non era uno sciocco e impiegò solo ventiquattr’ore a capire l’equivoco nato dalle sue parole. Provò a chiarire, ma era già troppo tardi. Lo si vide due giorni dopo, il 12 febbraio, quando inaspettatamente, durante una sfilata davanti al Quirinale di popolo, preti, guardie civiche e “speranzini” come eran chiamati i ragazzi arruolati nel “Battaglione della Speranza”, 217 fece segno di voler parlare. Nel silenzio più completo disse:
216 Un esempio è fornito dalle memorie del pittore olandese Jan Philip Koelman. A Roma dalla primavera del 1846, parlava
l’Italiano tanto bene da capire e farsi capire completamente. Vide l’esposizione della salma di Gregorio XVI e i suoi funerali, Fu presente in piazza Montecavallo all’annuncio dell’elezione di Pio IX, fu coinvolto nelle attività della Guardia Civica, alla quale potevano iscriversi anche gli stranieri e dovevano farlo quelli, come suo fratello, la cui moglie fosse italiana. Koelman fu presente sia al discorso del 10 febbraio, sia, benché protestante, alla benedizione del 12 e non solo capì quello che ho detto qui, ma scrisse poi che tutti i Romani intorno a lui avevano capito allo stesso modo: Pio IX voleva l’indipendenza ed era pronto a battersi contro l’Austria. Va notato che Koelman pubblicò le sue memorie ben 17 anni dopo e si vede. Nel riferire cose sapute da altri, incorse in parecchi errori fattuali, dovuti sicuramente alle imprecise informazioni avute all’epoca. Anche la successione cronologica di alcuni avvenimenti è confusa e sovrapposta; però, da riscontri su altre fonti, si può dire che riportò in modo esatto tutto quanto vide e sentì di persona. Altro esempio: Nino Costa, pittore, d’una ricchissima famiglia d‘imprenditori, il quale aveva abbattuto le porte del Ghetto il 17 aprile 1847 e di lì a poco si sarebbe arruolato volontario nella Legione Romana, avrebbe fatto parte dello stato maggiore di Garibaldi nel 1849, sarebbe andato volontario nel ’59 in Lombardia e di nuovo con Garibaldi nel 1867, per rientrare a Roma il 20 settembre 1870, capì esattamente come Koelman e questo disse nelle sue memorie, Quel che vidi e quel che intesi, pubblicate nel 1927 a cura di Giorgia Guerrazzi Costa. 217 Il Battaglione della Speranza era un retaggio della prima occupazione francese, quando, sull’esempio giacobino della lévée en masse, tutti, compresi i bambini e i ragazzi, dovevano correre alle armi per difendere la Libertà, l’Uguaglianza e la Repubblica. A Bologna ne era stato creato uno nel 1797 dal cittadino Salvaterra, radunando giovani dagli 11 ai 18 anni, chiamandoli “speranzini”, addestrandoli militarmente con canne e bastoni e alloggiandoli nell’ex-convento di San Benedetto di Galliera. Spariti col Regno Italico, quando “Gli immortali Principii dell’89”, soprattutto nella versione riveduta e corretta del 1792-93 avevano rifatto capolino, nel novembre del 1847 un ex ufficiale piemontese di nome Pantier aveva raccolto a Roma una trentina di ragazzi in un Battaglione della Speranza sull’esempio di cinquant’anni prima. Non furono mai molti di più, però, alla prova del fuoco, nei giorni della Repubblica, si rivelarono tutti audaci e combattivi. L’istruzione militare per giovanissimi non prese piede in tutto lo Stato e nel 1848 esisteva, oltre che a Roma, a Bologna, Macerata ed Imola. Gli Speranzini di norma indossavano una versione assai semplificata della divisa della Guardia Civica in cui erano organicamente inquadrati.
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“io raccomando che tutti i cuori sieno concordi, e le domande non sieno contrarie alla santità di questo Stato della Chiesa, e perciò certe grida e certe domande io non posso, non debbo, non voglio ammettere. Con queste promesse d’essere fedeli al Pontefice e alla Chiesa, a queste condizioni io vi benedico.”CLXXXIV Furono parole al vento, precisazioni ancora non abbastanza esplicite, troppo sottili. Sarebbero andate bene forse per sviscerare una causa in tribunale, per dirimere un caso di coscienza; così com’erano furono la base delle accuse di tradimento che portarono alla Repubblica Romana, minarono irrimediabilmente il Potere Temporale e fecero odiare Pio IX da metà degli Italiani fino a molto dopo la sua morte. 218 Il 6 marzo del 1848, sentite le notizie della rivoluzione in Francia, il consiglio municipale di Roma, che non era stato eletto dal popolo, ma nominato dal Papa fra persone politicamente fidate e constava di quindici principi romani, quarantanove possidenti, sei canonici e trenta professionisti, dunque tutti moderati o conservatori, votò un indirizzo con cui si chiedevano al Pontefice un governo elettivo e la lega italiana per l’indipendenza. Quattro giorni dopo, il 10 marzo, Pio IX riformò il consiglio dei ministri. I laici salirono da metà a due terzi sotto la presidenza del cardinale Antonelli, dell’ordine dei diaconi, dunque, a voler essere ottimisti, laico, e il principe Gabrielli lasciò il portafoglio delle Armi al principe Camillo Aldobrandini. Il 14 marzo Pio IX concesse la Costituzione, il 18 insorse Milano. Il 20, mentre a Milano si combatteva, Aldobrandini emanò un proclama che era una presa di posizione politica: “Soldati, sono lieto d’annunziarvi che la bandiera pontificia sarà d’ora innanzi fregiata di cravatte dai colori italiani. Di nuovo, il nostro adorato Principe soddisfa un voto e un sentimento del Paese. Stringiamoci intorno a questo Sacro Vessillo. Esso è simbolo di devozione e fedeltà al nostro Sovrano, a Pio IX; è pegno di amore e fratellanza fra tutti gli Italiani. Firmato: C. Aldobrandini.”CLXXXV La bandiera del Papa prendeva i colori della rivoluzione, diventava quella della rivoluzione. Adesso ci poteva essere solo la guerra all’Austria.
218 Come ho detto, Koelman era là. Scrisse nel 1865: “Mi trovavo ad una certa distanza dal balcone, eppure non mi sfuggì una
sola parola; la voce di Pio IX giungeva lontano e le parole che disse, a causa del loro significato, non si cancellarono mai dalla mia mente. “Sfidatevi di taluni che domandano delle cose che non devo, non posso, non voglio ammettere.” La frase risuonò chiara e concisa nel silenzio assoluto della piazza. Descrivere l’impressione che queste parole di Pio IX fecero sulla folla è impossibile; va anche ricordato che non si trattava soltanto di un assembramento popolare, ma di una dimostrazione preparata dalla Camera di Commercio e da altri simili enti, costituita perciò dai più notabili borghesi. Nessuno parlò per alcuni istanti, come fossero tutti assorti in pensiero. Tante interpretazioni si potevano dare a quelle parole “Sfidatevi di taluni che domandano delle cose” – aveva detto il papa. ma quali cose erano state richieste… e da chi?.. Alludeva forse il pontefice alla Consulta di Stato o ad altri? Ed allora chi erano questi? Era forse la Camera di Commercio lì rappresentata? E il papa, che tutti avrebbero voluto credere liberale, e sempre ancora veniva festeggiato e venerato come un idolo, faceva ora conoscere al pubblico che non solo non poteva, o “doveva”, ma, ancora più grave, che non “voleva” ammettere. Non era possibile. Pio IX così liberale, veniva indotto dai cardinali a far ritorno sulla vecchia strada battuta. E la sua infallibilità, allora? Un pontefice può tutto. Questo non doveva esser permesso. Pio IX era troppo buono per essere sopraffatto, bisognava sostenerlo. Questi e simili pensieri si agitavano nella folla, espressi in parole mozze e frasi interrotte. Se il papa stesse per continuare il suo dire non so, può anche darsi, ma l’impressione prodotta dalle sue parole sugli animi sbigottiti, si manifestò improvvisa. Come un’onda minacciosa vedemmo muoversi quella stessa folla che un minuto prima sostava indecisa. Là, sotto al balcone, si alzarono innumerevoli braccia e risuonarono innumerevoli voci quasi imploranti: “Santo Padre, allontanate i cardinali.” KOELMAN, Jan Philip, Memorie romane, (a cura di Maria Luisa Trebiliani), 2 voll., Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1965, vol. I, pagg. 110-111.
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Capitolo XXII 1848: la campagna dei Pontifici e la Non semel
I) Marzo del ‘48. La ventata d’irrequietezza del ‘47 si era tramutata dal gennaio del 1848 in una furiosa tempesta che si stava abbattendo su tutti i troni dell’Europa continentale. I Palermitani erano insorti il 12 gennaio e in quindici giorni avevano cacciato i Borbonici dalla Sicilia. I Napoletani si misero in moto anche loro e, per salvare il trono, il 29 gennaio Ferdinando II aveva concesso la Costituzione. L’8 febbraio i Torinesi avevano acclamato Carlo Alberto che aveva promesso lo Statuto, promulgato poi il 4 marzo. Il 15 febbraio si era unito al gruppo dei principi costituzionali il Granduca di Toscana. Il 22 a Parigi la folla aveva invaso le Tuileries e proclamato la repubblica, mentre Luigi Filippo abdicava il 24 e riparava all’estero. Il 13 marzo i moti popolari determinarono l’Imperatore d’Austria ad allontanare dal governo l’anziano Metternich, universalmente considerato l’incarnazione del principio assolutista, ed a promettere le attese riforme politiche. Cinque giorni più tardi insorse Berlino. Il medesimo giorno i Milanesi iniziarono gli scontri coi 20.000 austriaci del feldmaresciallo conte Radetzky, che il 22 marzo sgomberò la città. La stessa cosa successe a Venezia. Insorta tutta la Lombardia, cacciati i duchi da Modena e Parma, gli sguardi dell’aristocrazia e della classe ricca lombarda si volsero al Regno di Sardegna. Aveva un buon esercito e un suo intervento avrebbe incanalato in una monarchia, ordinata e costituzionale, le tendenze più rivoluzionarie e repubblicane che già s’erano andate manifestando. Carlo Alberto accettò l’invito dei Milanesi. Seguendo la politica inaugurata dalla sua Casa trecent’anni prima, aveva come obiettivo non l’unificazione dell’Italia ma, più modestamente, l’acquisizione del Lombardo-Veneto poiché, escludendone gli Austriaci, avrebbe distrutto la loro influenza politica sulla Penisola, sostituendole la propria. Sarebbe così divenuto il più importante membro di quella confederazione fra gli Stati italiani, presieduta dal Papa, che da anni veniva ipotizzata, nel rispetto dei diritti dei legittimi sovrani d’Italia sui loro Stati. Per questo all’indomani della caduta di Peschiera, quando tutto sembrava avviarsi ad una fine rapida e fortunata, sarebbe stato acclamato re dell’Alta Italia, non di tutta la Penisola. L’Armata Sarda sostituì le vecchie bandiere con quelle tricolori solo al momento d’iniziare la campagna, il 25 marzo 1848, cinque giorni dopo quella pontificia. Era composta da due corpi d’armata, ognuno su due divisioni, alle quali se ne aggiungeva una quinta, di riserva, comandata dal duca di Savoia, l’erede al trono Vittorio Emanuele. A loro s’aggiungevano 16.000 pontifici su due divisioni: una regolare di soli 7.000 uomini, comandata dal generale Durando, ed una di volontari, del generale Ferrari, di circa 9.000 fra Bolognesi, volontari pontifici di ogni genere e provenienza e Guardie Civiche romane. Settemila toscani fra regolari e volontari, 3.000 volontari modenesi e parmensi, 2.000 lombardi e due divisioni regolari napoletane, condotte da Guglielmo Pepe, che erano però ancora in marcia verso nord, completavano le forze italiane. Complessivamente, dunque, erano 98-100.000 uomini, prevalentemente appiedati e privi di un efficiente coordinamento, che si rimettevano comunque tutti agli ordini del Re di Sardegna. Dall’altra parte Radetzky, appoggiatosi alle fortezze del Quadrilatero, disponeva di due corpi d’armata. Il 29 marzo Carlo Alberto fece pervenire alle truppe l’ordine di radunata al Ticino. Mancavano i piani di mobilitazione e quelli di guerra. Le forze sarde erano ancora nelle proprie guarnigioni, il che significava fino a 15 giorni di marcia per raggiungere il confine, ed il ministro della Guerra prevedeva di non poter disporre di 25.000 uomini sul Ticino prima del 30 marzo. Prevalsero le considerazioni politiche e si 277
decise di traversare la frontiera colle poche truppe presenti. Il 26 il generale Bes marciò su Milano con 4.000 uomini, mentre il suo collega Trotti, con altrettanti, passava per Pavia diretto a Lodi, seguito dal grosso.
II) La Non semel, Cornuda e Treviso Il piemontese Giovanni Durando, con Massimo d’Azeglio come vice e col grado di colonnello, comandava il Corpo pontificio. Com’era finito un piemontese alla testa delle truppe del Papa? In conseguenza della famosa commissione per “provvedere allo splendore dell’amministrazione militare.” Durando, esule nel ’31, aveva combattuto a lungo in Belgio, Portogallo e Spagna. Rientrato in Piemonte nel 1843, nel ‘47 era stato chiamato dal Papa a riorganizzare l’esercito pontificio, di cui era quindi già regolarmente a capo quando, il 23 marzo 1848, Pio IX ordinò di formare il Corpo d’Operazione per “Procedere alla difesa e sicurezza dei domini pontifici, nonché alla concorde azione delle forze nazionali italiane.”CLXXXVI Le prime istruzioni date a Durando gli dicevano di non passare il Po e di limitarsi a difendere il territorio pontificio. In seguito don Camillo Aldobrandini gli aveva scritto di “prendere per le operazioni le istruzioni di re Carlo Alberto”, il che, nelle intenzioni di Roma, significava solo di coordinarsi colle forze italiane se il confine pontificio fosse stato minacciato. Da quel momento, dando agli ordini un’interpretazione più estesa ed attiva, Durando, d’accordo con d’Azeglio, l’ufficiale di collegamento indicatogli dai Piemontesi, decise di portare le sue truppe a Padova, per fermare i rinforzi austriaci che il generale Nugent, presa Udine il 23 e passato il Tagliamento, voleva portare in Lombardia. Le forze pontificie nel teatro d’operazioni non erano pochissime. Delle due divisioni, quella regolare, agli ordini di Durando stesso, allineava quattro reggimenti di fanteria, due di cavalleria, tre batterie d’artiglieria da campagna, una compagnia d’artificieri e due del genio, cioè quasi tutto l’esercito regolare. L’altra, quella dei volontari, comandata dal generale Ferrari, comprendeva la cosiddetta “Legione Romana”, che, quando si stabilizzò, risultò composta da tre legioni della Guardia Civica 219 e tre battaglioni dei volontari, fra i quali il Battaglione Universitario. Quest’ultimo era formato in gran parte dagli studenti dell’università di Roma. 220 Come in Toscana, gli universitari erano corsi alle armi, componendo cinque compagnie – tre dell’università di Roma e due di quella di Bologna – riunite in un Battaglione. Gli ufficiali inferiori erano stati eletti dalla truppa e a Foligno il generale Ferrari aveva riconosciuto i loro gradi, privilegio unico, confermando che il sistema elettivo per i subalterni avrebbe potuto continuare. C’erano poi da aggiungere una miriade di corpi volontari locali, dalla vita più o meno breve, tutti nati come funghi negli ultimi mesi, che si unirono a Ferrari man mano che procedeva verso nord o che gli si aggregarono all’arrivo in Emilia. Tra i maggiori c’erano il Battaglione dell’Alto Reno formato dal conte Zambeccari; il Battaglione del Basso Reno, nato dalla fusione dei civici di Crevalcore, Pieve, Cento, San Giovanni in Persiceto e Sant’Agata; i Bersaglieri del Po del conte Tancredi Mosti Trotti Estense, i 610 uomini della Guardia Mobile Faentina del conte Pasi, e molti appartenenti alla Guardia Mobile Pontificia,
219 Scrisse Nino Costa “nel cortile del Belvedere in Vaticano si formò con volontari la Legione Romana, la quale contò
duemilatrecento volontari; e venne formata su due battaglioni, sotto il comando del colonnello Tommaso Del Grande, mercante di campagna. Come ufficiali v’erano, tra gli altri, Bartolomeo Galletti, droghiere, Angelo Tittoni mercante di campagna, Agneni pittore” rip, in ORIOLI, Giovanni (a cura di), Memorie romane dell’Ottocento, Rocca San Casciano, Cappelli, 1963, pag. 195. 220 Quella che poi divenne l’Università di Roma 1, “La Sapienza”, allora e fino al 1935 era nel palazzo rettangolare la cui cappella è la chiesa borrominiana di Sant’Ivo alla Sapienza, vicino a Piazza Navona. L’università ricorda ancora, ogni anno, con un convegno i suoi antichi studenti e professori che nel Battaglione Universitario combatterono per l’Indipendenza.
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o a quella Provinciale, formata nello Stato Pontificio su vari battaglioni e sottoposta al colonnello D’Aragona, prima, al tenente colonnello Franchi poi. In media i piccoli reparti di volontari che dal 31 marzo composero i battaglioni maggiori si potevano dire fortunati se raggiungevano i cento uomini – i Bersaglieri del Po erano ben 129 – ed avevano almeno l’armamento individuale. Alcuni si unirono, in blocco o in parte, ai volontari in arrivo e passarono con loro in Veneto: altri restarono nel proprio territorio.221 Ad esempio i volontari di Medicina passarono insieme alla Guardia Mobile Faentina e ai volontari di Budrio, Castel San Pietro, Baricella e Minerbio nel cosiddetto Battaglione dell’Idice, che però si dissolse già il 1° aprile, quando molti dei suoi 392 componenti passarono con Zambeccari o coi volontari di Castel Bolognese, coi quali finirono nel 3° Reggimento Volontari del colonnello Pianciani. Quanti furono esattamente i volontari è difficile stabilirlo, perché i documenti sparsi negli archivi riportano notizie di settanta fra città e paesi di tutte le dimensioni, inclusa Roma, in tutto lo Stato, ma ve ne furono di provenienti da altri centri, nemmeno tanto piccoli, come Ronciglione, che non sono menzionati da nessuna parte, per cui non si sa se rientrino nella forza di altri gruppi, o siano state perse le carte, oppure siano stati dimenticati, dunque prenderemo per buona la mai smentita cifra di 9.000. Durando uscì da quel caos di bellicosi entusiasti con una riunione, tenuta il 31 marzo a Bologna coi comandanti dei volontari, i cui corpi furono aggregati a comporre unità di forza accettabile e messi alle dipendenze di Ferrari. Molti di loro, come quelli della Mobile Pontificia, avrebbero partecipato alla difesa di Venezia. Nel frattempo i Pontifici non erano stati colle mani in mano. Volontari e Civica avevano bloccato le guarnigioni austriache di Ferrara e di Comacchio. Riguardo alla seconda, ottenuto un rinforzo di truppe svizzere dal Legato di Ravenna, il 31 marzo pomeriggio la Civica avuto la resa del forte e della guarnigione. Per la cittadella di Ferrara, presidiata da 1.800 austriaci, invece il terrore delle autorità pontificie di un bombardamento sulla città era stato tale da paralizzare ogni iniziativa, per cui Ferrara rimase colla cittadella in mano nemica fino alla fine. Intanto i contingenti provenienti da Roma erano saliti al nord a partire dal 24 marzo per la solite vie Cassia e Flaminia, attraversando l’Umbria e le Marche con una marcia piuttosto lenta. 222 Il 1° aprile molti erano ancora a Civita Castellana. Le avanguardie arrivarono a Ferrara l’8 aprile, gli ultimi il 30, lo stesso giorno in cui i Piemontesi battevano gli Austriaci a Pastrengo e l’indomani dell’allocuzione Non semel. Negli stessi giorni furono dati loro i nuovi fucili. Acquistati in Francia, erano stati trasportati con 200.000 cartucce ad Ancona dal piroscafo pontificio Roma, comandato dal colonnello Cialdi, il quale aveva sotto di sé pure due guardacoste223 e cinque barche scorridore224 di Finanza, con cui doveva proteggere il 221 Si può avere un’idea piuttosto chiara della miriade di reparti e della loro minima consistenza e breve vita, dall’origine
all’incorporazione nella divisione Ferrari, grazie all’articolo di Armando LODOLINI, “La mobilitazione di una divisione di volontari nel 1848”, in « Rassegna Storica del Risorgimento », anno XIX, fasc. II, aprile-giugno 1932. Per quanto rimandi a un paio di lavori di più ampio respiro e sia molto schematico, proprio per la sua schematicità fornisce un quadro chiaro e completo, dal quale si evince che il numero di reparti di volontari si aggira sul centinaio e che la loro forza spesso non raggiungeva neanche i 50 uomini. Il Battaglione del Senio includeva volontari della bassa Romagna provenienti da Lugo, Massa Lombarda, Cotignola, Conselice, Fusignano, Alfonsine, Bagnacavallo e Sant’Agata sul Santerno; dei suoi 486 componenti, il contingente maggiore – 190 uomini – era quello di Lugo, il più piccolo, di 32, quello di Conselice. 222 Ottenuta la benedizione del Papa in piazza di Montecavallo – la piazza del Quirinale – il 24 marzo, il primo contingente, era partito subito e comprendeva il 2° Battaglione Cacciatori, 300 uomini del 5°, quattro compagnie del 2° Battaglione di Linea, uno squadrone di 150 dragoni ed uno di 150 cacciatori a cavallo. La 1ª Legione della Civica – due battaglioni – partì l’indomani col Battaglione Universitario Romano – tre compagnie – e un altro battaglione di Linea. Il 27 partì un reggimento di volontari, una compagnia di 99 carabinieri – 70 a piedi e 29 montati – e mezza batteria d’artiglieria. Durando aveva lasciato Roma nella notte dal 25 al 26. 223 Il Cesare e l’Annibale. 224 Santa Pelagia, Santa Clementina, Santa Rosa, Santa Firmina e Santa Lorenza.
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passaggio del fiume. A dire il vero i volontari avevano già passato il Po da qualche tempo quando il grosso il 2 maggio traversò il confine e il fiume in due turni a Pontelagoscuro. I Pontifici raggiunsero Rovigo, poi Monselice, dove s’imbarcarono per andare a Padova. Vi restarono due giorni e, in treno, la mattina del 6 arrivarono a Mestre, dove furono accolti dalla banda del Corpo di Marina di Venezia, per muoversi poi verso nordest. Durando mandò avanti sul Piave Ferrari, con la maggior parte dei volontari e duecento dragoni pontifici, per stabilire una prima linea difensiva a copertura del triangolo Venezia–Padova–Vicenza. Nel frattempo la notizia del passaggio del Po aveva avuto un’eco a Roma. Il 29 aprile il Papa aveva pronunciato l’allocuzione Non semel e provocato un terremoto: “Non è la prima volta, Venerabili Fratelli, che nel Vostro Consesso abbiamo condannato l’audacia di alcuni i quali non ebbero difficoltà di fare a Noi, e per conseguenza a questa Apostolica Sede, l’ingiuria di far credere che Noi Ci fossimo discostati dai santissimi istituti dei Nostri Predecessori, e che (orribile cosa a dirsi!) in più d’un capo Ci fossimo allontanati dalla dottrina della Chiesa. Però nemmeno adesso mancano coloro i quali parlano di Noi e Ci considerano i principali Autori dei pubblici movimenti che negli ultimi tempi non solo in altre parti d’Europa, ma anche in Italia sono accaduti. Principalmente dai Paesi Germanici dell’Impero Austriaco sappiamo che ivi si divulga che il Sommo Pontefice, per mezzo di esploratori mandati colà e per mezzo di altre arti, abbia eccitato i Popoli d’Italia a promuovere nuovi mutamenti nelle pubbliche cose. Sappiamo ancora che alcuni nemici della Religione Cattolica prendono da ciò argomento per accendere il fuoco della vendetta negli animi dei Germanici, e così allontanarli dall’unione con questa Santa Sede. Orbene, quantunque Noi non dubitiamo punto che i Popoli Cattolici della Germania e i preclarissimi Vescovi che li governano siano lontanissimi di animo dalla malvagità dei predetti, sappiamo però che è Nostro dovere impedire lo scandalo di cui potrebbero patire gl’incauti ed i semplici, e di ributtare la calunnia, la quale ridonda in contumelia non tanto della persona della Nostra umiltà, quanto del supremo Apostolato del quale siamo insigniti, e di questa Santa Sede. E poiché quei denigratori, non potendo presentare alcun documento delle macchinazioni che Ci appongono, si ingegnano di mettere in sospetto quelle cose che Noi abbiamo fatte nell’assumere il governo dei Nostri Domini Temporali Pontifici; così Noi, per togliere loro questo appiglio di calunniare, abbiamo pensato di spiegare oggi chiaramente ed apertamente nel Vostro Consesso tutta la ragione di quelle cose.”CLXXXVII Ricordato come Pio VII e Gregorio XVI avessero agito per modernizzare lo Stato secondo i consigli delle Potenze europee, Pio IX aggiungeva: “Noi, appena che per imperscrutabile giudizio di Dio succedemmo in luogo di Lui, non eccitati né dall’esortazione né dai consigli di alcuno, ma mossi dalla Nostra carità singolare verso il popolo suddito della Santa Chiesa, concedemmo un più largo perdono a coloro che avevano mancato alla fedeltà dovuta al Pontificio Governo; e poi Ci studiammo di dare alcune istituzioni che avevamo giudicato giovevoli alla prosperità del medesimo Popolo. Tutto quello che nel principio del Nostro Pontificato Noi facemmo è del tutto conforme alle cose che avevano desiderato i Principi d’Europa..”CLXXXVIII Menzionata l’approvazione incontrata dai suoi provvedimenti, il Papa lamentava che alle sue esortazioni di restare aderenti alla dottrina cattolica e all’ubbidienza ai sovrani, i sudditi non avevano risposto come avrebbero dovuto. 280
“Ma ognuno conosce le pubbliche accennate sommosse dei popoli d’Italia, nonché gli altri eventi che, o fuori d’Italia o in essa medesima, o prima o dopo accaddero. Ché se alcuno volesse ritenere che a questi eventi abbia aperto in qualche modo la strada ciò che dal principio del Nostro Pontificato benevolmente e benignamente abbiamo operato, egli certamente non lo potrà attribuire a quanto abbiamo compiuto, non avendo Noi operato altro che ciò che era sembrato utile alla prosperità del Nostro Stato non solo a Noi, ma anche ai suddetti Principi. Del resto, quanto a quei Nostri sudditi che hanno abusato dei Nostri medesimi benefici, Noi, dietro l’esempio del Principe dei Pastori, perdoniamo loro di cuore, e con tutto l’affetto li richiamiamo a miglior consiglio, e supplichiamo il Padre delle misericordie che allontani clemente dal loro capo i flagelli meritati dagl’ingrati. Inoltre non potrebbero poi lamentarsi di Noi i sopraddetti Popoli della Germania se non Ci fu possibile frenare l’ardore dei Nostri sudditi che vollero applaudire alle imprese compiute contro di loro nell’alta Italia, e vollero con gli altri popoli d’Italia far causa comune, infiammati anch’essi, come gli altri, dell’amore verso la propria Nazione. Tanto è vero che molti altri Principi d’Europa, di gran lunga a Noi superiori nella forza militare, non poterono neppur essi resistere alla commozione dei loro Popoli. In tale situazione Noi però ai Nostri Militi mandati ai confini dello Stato non volemmo che fosse ordinato altro che di difendere l’integrità e la sicurezza dei domini Pontifici. Ma siccome ora alcuni desidererebbero che Noi unitamente agli altri Popoli e Principi d’Italia entrassimo in guerra contro i Germanici, abbiamo ritenuto Nostro dovere dichiarare chiaramente e palesemente in questo solenne Nostro Convegno che ciò è del tutto contrario alle Nostre intenzioni, in quanto Noi, benché indegni, facciamo in terra le veci di Colui che è Autore della pace e amatore della carità, e per dovere del Nostro Supremo Apostolato Noi con eguale paterno affetto amiamo ed abbracciamo tutti i popoli e tutte le nazioni. Ché, se nonostante ciò non mancassero fra i Nostri sudditi coloro che sono trasportati dall’esempio degli altri Italiani, in qual modo potremmo Noi frenare il loro ardore? Qui poi, al cospetto di tutte le genti, non possiamo non rigettare i subdoli consigli, manifestati anche per mezzo dei giornali e dei libelli, di coloro che vorrebbero il Romano Pontefice Presidente di una certa nuova Repubblica da farsi, tutti insieme, dai popoli d’Italia. Anzi, in questa occasione, per la Nostra carità verso i popoli d’Italia li esortiamo caldamente e li ammoniamo a guardarsi da questi consigli astuti e perniciosi per la stessa Italia, e di stare fedeli ai loro Principi, dei quali hanno già sperimentata la benevolenza, e di non lasciarsi staccare dal debito ossequio verso di loro. Infatti operando altrimenti non solo mancherebbero al proprio dovere, ma incorrerebbero anche nel pericolo che l’Italia di giorno in giorno finisse divisa da discordie ed intestine fazioni. In quanto a Noi, però, di nuovo dichiariamo che il Romano Pontefice dirige ogni suo pensiero, ogni cura, ogni studio perché si accresca ogni giorno il regno di Cristo, che è la Chiesa; ma non perché si dilatino i confini del Civile Principato che Iddio volle dato a questa Santa Sede per la sua dignità e per difendere il libero esercizio del Supremo Apostolato. Errano dunque grandemente coloro i quali ritengono che il Nostro animo possa essere lusingato dall’ambizione di più largo temporale dominio, al punto che Noi Ci gettiamo in mezzo ai tumulti delle armi. Per certo al Nostro cuore paterno sarebbe carissimo se Ci fosse dato con l’opera Nostra, con le cure, con gl’impegni di far qualche cosa per estinguere i fomiti delle discordie, per conciliare gli animi che si guerreggiano e per ristabilire fra loro la pace.”CLXXXIX 281
Posso fermarmi qui. La Non semel era spiritualmente e confessionalmente corretta; temporalmente micidiale. Era un ramoscello d’ulivo all’Austria, una mazzata mortale sul movimento italiano, una sconfessione completa di Durando, ma in definitiva l’unica cosa che il Papa potesse fare per salvaguardare l’unità della Chiesa evitando un scisma tedesco. Se avesse usato un linguaggio altrettanto chiaro due mesi prima, il 10 febbraio, le cose avrebbero preso una piega diversa, ora era troppo tardi. Avrebbe pagato questo errore per il resto della sua vita. La prima conseguenza della Non semel era stata che Roma aveva tolto il comando a Durando e questo aveva precipitato le truppe, specie i volontari, nel dubbio: dovevano rientrare, o potevano continuare? In caso di guai seri, di scontro, gli Austriaci avrebbero riconosciuto loro la qualifica di combattenti anche senza una dichiarazione di guerra del Papa all’Austria? E, peggio, se presi, i volontari sarebbero stati trattati come prigionieri di guerra, o come insorti in armi e fucilati? Il dubbio non era da poco, c’era solo da sperare che le cose andassero bene e non si poteva dirlo con certezza. La situazione in quel momento era in stallo. I Sardi prevalevano, ma avevano un fronte troppo esteso e si erano impegnati nell’assedio di Peschiera, per cui erano pressoché fermi. Radetzky era riuscito a tenere Verona e per prendere l’iniziativa aspettava le truppe di Nugent, che Durando voleva fermare. L’8 maggio Nugent attaccò lo schieramento di Ferrari più a meno al centro, cioè a Cornuda. I primi scontri fra le avanguardie si erano verificati a Pederobba ed Onigo, dove i Bersaglieri del Po e i Volontari del Cadore avevano cercato almeno di ritardare l’avanzata nemica, senza successo: la sproporzione di forze era troppa. Andrea Ferrari era un generale anziano ed espertissimo. Napoletano, aveva combattuto sotto Napoleone in Spagna e in Italia. Nel 1814 a Montmirail aveva avuto la Legion d’Onore; poi era stato nell’esercito napoletano. Epurato dopo la sollevazione del 1820, nel ‘30 era entrato nella Legione Straniera, con cui aveva combattuto in Algeria e in Spagna, diventando generale di divisione. Lasciato l’esercito francese nel 1844 a settantaquattro anni, a settantotto, ai primi del ‘48, appena avuto sentore della rivoluzione aveva aderito all’esercito pontificio ed era stato messo a capo dei volontari. Adesso, a Cornuda, aveva la 2ª Legione della Guardia Civica, il II Battaglione della 3ª, un po’ di studenti, detti “tirajuoli” – tiragliatori, o bersaglieri secondo come li si chiamava – e mezza batteria d’artiglieria: 3.200 uomini. Attestatosi coll’avanguardia sulla riva del torrente Nasson nel tardo pomeriggio dell’8 maggio, vi fu raggiunto dal resto delle sue truppe. Lo stesso giorno gli Austriaci riuscirono a passare il corso d’acqua e a prendere due alture, ma furono ricacciati e il fuoco durò fino ad un’ora dopo il tramonto. Gli scontri ripresero l’indomani alle otto del mattino e durarono dieci ore. Ferrari, più debole numericamente, si trovò presto in difficoltà. Ricevuto un messaggio di Durando, che l’avvertiva d’essere in marcia coi rinforzi, indietreggiò di circa mezzo chilometro, poi lanciò una carica d’alleggerimento impiegando i 50 dragoni che aveva. Ne perse 40, ma fermò gli Austriaci fino alle tre del pomeriggio, quando i combattimenti ripresero. Dopo altre tre ore, visto che Durando non era ancora arrivato, decise la ritirata su Montebelluna. Coperto dal II Battaglione della Civica del maggiore Cesarini, il movimento fu eseguito a marcia forzata, ma parecchi uomini si fecero prendere dal panico, per cui non fu possibile attestarsi a Montebelluna e si dové continuare praticamente in rotta verso Treviso. I carabinieri pontifici, i cui ufficiali erano tutti exnapoleonici, coprirono la ritirata e distrussero il ponte sul Brenta a Fontaniva. Rimasero sul campo 60 morti e 100 feriti, a fronte di 300 morti e un numero assai maggiore di feriti che si dissero persi dal nemico. Due giorni dopo, l’11 maggio, gli Austriaci attaccarono Treviso. A circa 16 chilometri – nove miglia – dalla città, vicino a Castrette, i Croati furono impegnati e respinti, ma i granatieri e i cacciatori del II Battaglione della Civica, colpiti a mitraglia dai pezzi nemici, si spaventarono e ripiegarono. La cavalleria pontificia li seguì e dopo di essa scappò l’artiglieria, che perse un cannone, per cui alla fine l’intero schieramento italiano si sbandò e rientrò in città in gran confusione. Mentre il colonnello Zambeccari li 282
copriva mettendo i suoi Cacciatori dell’Alto Reno in quadrato, pronto a vender cara la pelle contro gli ulani nemici, gli Austriaci, stupefatti dalla rotta improvvisa, pensarono a un trucco per attirarli troppo avanti e accerchiarli, per cui batterono pure loro in ritirata, così in fretta da abbandonare l’artiglieria, i carriaggi e la cassa. Si fermarono a quasi quattro chilometri di distanza. Restarono sul terreno 40 morti italiani, i feriti furono 75. Si sostenne che gli Austriaci avessero subito perdite maggiori, ma non fu provato. La mattina seguente, mentre cautamente recuperavano la cassa dal campo di battaglia abbandonato, gli Austriaci scambiarono i dodici pontifici catturati cogli otto croati persi il giorno avanti.
III) La diserzione di Mestre e la resistenza di Treviso Quella stessa mattina, il 12 maggio, Ferrari portò via da Treviso un gran numero di volontari pontifici. Come scrisse poi al ministro delle Armi, si era reso conto di non potersene fidare, perciò, lasciato il comando della piazza e di 3.500.uomini al colonnello Filippo Lante di Montefeltro, si mise in marcia verso Mestre. Riferì poi: “Appena giunta la colonna in presenza di Mestre, punto sulla strada di ferro che conduce a Padova ed a Venezia, una forte parte dei miei uomini fu presa da vertigini di volere ad ogni patto varcare il Po per rientrare nello stato pontificio. Infatti le rimostranze tanto degli ufficiali superiori, che di molti ufficiali a nulla valsero a quegli uomini traviati, i quali gridando si disposero per drappelli, chiamandosi per provincia onde rientrare nello Stato. Altro ripiego non mi restava che di far loro abbandonare le armi prima di partire, cosa che feci seguire per quanto fu possibile; per cui a tutt’oggi non sono restati sotto i ranghi della mia divisione oltre i 3.500 di Treviso, che circa 3.000 uomini, i quali, vista la debolezza numerica delle due divisioni, abbiamo noi generali convenuto di farne una forte per operare ed intrattenere le comunicazioni per approvvigionare tanto Treviso quanto diversi altri punti fortificati.”CXC Mentre Ferrari a Mestre si trovava in questi guai, a Treviso la tregua era finita e gli Austriaci alle 10 attaccarono le mura. Si combatté duramente. L’artiglieria napoletana inflisse loro forti perdite e lo scontro durò fino alle quattro del pomeriggio, quando si ritirarono in disordine un miglio più indietro del giorno precedente, accampandosi a tre miglia dalle mura. Le perdite furono contenute: 15 morti, fra cui il generale Guidotti,225 e 27 feriti per gli Italiani; 20 morti e parecchi feriti fra i Croati. L’indomani gli Austriaci intimarono la resa alla guarnigione. Fu loro risposto fieramente che sarebbe stata fatta coi cannoni, il che li tenne buoni quattro giorni. 226 Il 16 maggio, mentre Durando incontrava Ferrari a Bologna, il Governo Provvisorio dichiarava d’avere in Treviso 5.000 uomini e chiedeva soccorsi.CXCI 225 La morte di Guidotti fu la fine di un triste contrasto. Al termine della rotta da Cornuda, Ferrari aveva cercato di tornare
indietro per assestarsi a Montebelluna come era stata sua intenzione in origine, ma la brigata di volontari emiliani e romagnoli di Guidotti aveva rifiutato di muoversi. Ne era nata una discussione molto pesante in cui Ferrari aveva accusato d’imperizia Guidotti, anche lui ex-ufficiale napoleonico e veterano dei moti del ’31. Poi l’11 maggio, tenuto consiglio di guerra per decidere a chi affidare la piazza mentre lui portava i volontari a Mestre, Ferrari si era trovato davanti al rifiuto di Guidotti, per cui aveva conferito il comando a Lante di Montefeltro, comandante del 1° Reggimento Volontari. L’indomani, 12 maggio, Guidotti per “riaffermare il proprio onore di soldato” partecipò alla sortita, a piedi e con un fucile in mano e fu ucciso. 226 In una lettera al padre, il volontario milanese Giuseppe Casanova, che con altri 69 lombardi era a Treviso, diede dell’“ignorantissimo generale” a Ferrari, sostenne che tanto lui che Durando non facevano altro che ritirarsi e che lo scontro del 10 era stato dovuto alla loro incapacità, cfr. CASANOVA Eugenio, “Difesa di Treviso (21 maggio 1848)”, in «Rassegna Storica del Risorgimento», anno XI, fasc. II, aprile-giugno 1924.
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A Treviso si sperava in un aiuto rapido, perché si sapeva Durando a Mestre e dintorni con 3.500 uomini più altri 500 del colonnello Zambeccari; si sosteneva che due Legioni Romane, forti di 1.400 uomini, fossero venute da Padova a Mestre e che altri 500 uomini “di un disperato valore e di un patriottismo eroico sono guidati dal celebre generale Antonini.” A questi si sommavano i 1.200 uomini di linea del Battaglione di Treviso, comandati dal maggiore Galateo e, si diceva, erano giunti per via d’acqua pure 700 Napoletani. Era un insieme di quasi 20.000 uomini, senza parlare delle altre truppe a difesa di Venezia, possibile che qualcuno non potesse venire a Treviso? CXCII Che stava succedendo?
IV) Liti e mediazioni L’ostinazione dei Pontifici a combattere, la loro permanenza in Veneto, l’implicita disubbidienza alla Non semel avevano causato a Pio IX parecchie difficoltà. In primo luogo la chiarezza della Non semel era stata affievolita, sminuita, da una delle solite mezze misure ecclesiastiche: era stata detta, questo si, ma non pubblicata. La Non semel era stata infatti pronunciata davanti al concistoro dei cardinali, però non era stata resa ufficialmente nota “Urbi et Orbi”, alla città e al mondo; era un’allocuzione, non un breve o una bolla, per cui – sempre ufficialmente – Durando non ne era al corrente e non aveva ricevuto istruzioni ad essa coerenti. D’altra parte poteva il Papa imporsi a gente così testarda e infiammata e rischiare di vedersi disobbedito, rendendo palpabile e concreta un’insubordinazione che avrebbe portato alla rivolta? Si cercò una via di mezzo, profittando delle polemiche seguite alla sconfitta di Cornuda e il 9 maggio si nominò Carlo Taddeo Pepoli commissario generale dell’Armata Pontificia “tanto assoldata che di Civica e Volontari,” Al di là della sua parentela murattiana e napoleonica, era stato fra gli organizzatori dei moti del ’31 a Bologna e sembrava il più adatto a trovare una soluzione. Andò a Mestre e il 16 maggio riunì Durando, Ferrari e tutti gli ufficiali più elevati in grado in un incontro tanto più urgente in quanto i volontari, in prevalenza repubblicani e mazziniani, si stavano già creando per conto loro un comando di coordinamento, col quale volevano entrare in contatto e poi alle dirette dipendenze della Repubblica di San Marco. L’incontro fra Durando e Ferrari fu vivace, diciamo pure acceso, però il marchese Pepoli ne venne a capo con due risultati: un’apparente pacificazione – che sarebbe durata poco – e, cosa che premeva di più a quelli di Roma, la formale conferma della fedeltà di tutti gli intervenuti al Papa e alla bandiera pontificia, anziché a progetti di repubblica o in favore di altri Stati come ad esempio la Sardegna. Il futuro avrebbe mostrato quanto tali promesse avrebbero retto alla prova dei fatti. Adesso il marchese poté scrivere a Roma d’essere stato un “non disutile pacificatore” nel corso di “aspre discussioni strategiche, le quali potevano degenerare in querele tremende”, aggiungendo d’aver ricevuto da Durando e Ferrari: “le più leali dichiarazioni che nessuno di essi aveva ed avrebbe mai in vista né il parteggiare per il simbolo repubblicano, né il parteggiare per estere potenze, essendo loro in mente il servire le bandiere di Pio IX, che tanta gloria ed indipendenza frutterà all’Italia.”CXCIII La pace fra i due era così solida che l’indomani Ferrari spedì al ministro un suo rapporto in cui spiegava la diserzione di Mestre cogli effetti della sconfitta di Cornuda, addossando tutte le colpe a Guidotti e specialmente a Durando, al cui mancato intervento attribuiva la responsabilità dell’insuccesso e della rotta. Praticamente insieme al suo partì il rapporto del colonnello Del Grande, comandante la 1ª Legione della Civica, la Legione Romana. 284
Lo scarso numero di effettivi rimasti aveva portato alla riorganizzazione menzionata da Ferrari, che a sua volta implicò la scomparsa di alcuni reparti – ad esempio la 2ª Legione della Civica, composta per la maggior parte da Umbri – e a un aumento del malcontento, specie nei confronti di Durando. Il 17 maggio la guarnigione di Treviso fece una sortita alle due del pomeriggio. Si combatté un’ora e mezzo. Gli Austriaci persero una dozzina di morti e parecchi feriti e la guarnigione rientrò in città senza perdite e molto soddisfatta. Il 18 il Comitato di Treviso lanciò un’altra disperata richiesta di soccorsi – la terza in tre giorniCXCIV – a Durando, il quale stava cercando di capire se effettivamente l’obiettivo del nemico fosse Treviso o non piuttosto Vicenza.
V) Vicenza Come poi scrisse, da quando il nemico si era impadronito del ponte di Fontariva a Durando era stato chiaro che il passo seguente sarebbe stato su Vicenza, per poi marciare su Verona e congiungersi a Radetzky.CXCV Di conseguenza far avanzare i Pontifici a soccorso di Treviso avrebbe significato allontanarsi da Vicenza e non poterci tornare in tempo in caso di necessità, per cui non li mosse. Che avesse ragione fu dimostrato sia dagli avvenimenti seguenti, sia dal fatto che, quando fu ordinato il concentramento a Vicenza di tutte le unità disponibili, da Treviso la sola Legione Gallieno poté giungere in tempo, con una marcia forzata sotto la pioggia. Dunque, sempre in attesa dei rinforzi, che Durando sapeva di non doverle mandare, il 19 la guarnigione di Treviso lanciò una seconda piccola sortita, di nuovo alle due del pomeriggio: 80 uomini attaccarono un avamposto in una casa a due miglia dalle mura. Dopo un’ora di fuoco i Pontifici, allo scoperto e più o meno riparati dietro gli alberi, desisterono e rientrarono portandosi dietro l’unico ferito avuto. Come Durando aveva capito, Treviso non era l’obiettivo e infatti quella stessa notte le truppe austriache partirono alla volta di Vicenza. Là si trovava quanto era rimasto della 2ª Legione Civica e tutta la 3ª, col battaglione di Zambeccari, appena accorso in treno da Mestre. Gli Austriaci giunsero sotto le mura di Vicenza alle 5 del mattino del 20 maggio, le attaccarono in tre punti dalla parte di Borgo Santa Lucia e di Palazzo Scroffa, oltrepassarono la prima barricata, ma furono respinti dalla fucileria e poi alla baionetta. Retrocedettero in gran confusione e con forti perdite. I combattimenti durarono fino a notte, quando gli attaccanti furono completamente ricacciati. Gli Italiani ebbero 24 morti e una sessantina di feriti – fra cui il generale Antonini, che ci rimise un braccio, e il colonnello Salloero, comandante la 3ª Legione, ferito a un braccio da una pallottola – e calcolarono le perdite avversarie in circa 300 morti e moltissimi feriti, perché seppero che il nemico li stavano evacuando con parecchi carri. Alle nove e mezzo di sera arrivò Durando con tutte le sue truppe e la notte riposò a Vicenza. L’indomani uscì per combattere, ma, resosi conto d’essere assai inferiore al nemico, rientrò in città. Seguirono alcuni piccoli scontri ogni giorno fino alla sera del 22, quando sembrò che gli Austriaci si fossero ritirati. Non era così. Alle cinque del pomeriggio del 23 maggio, gli esploratori pontifici avvertirono la guarnigione che il nemico, partito per Verona il 22, stava tornando alla volta di Montebello, che i suoi picchetti avanzati si avviavano a Vicenza ed erano seguiti dal grosso, forte dei circa 15.000 uomini già impegnati contro Vicenza il 20 e il 21 e aumentato da altri quattro battaglioni provenienti da Verona, con 42 pezzi d’artiglieria. Avvertiti, Durando e il colonnello Bellasi disposero le loro forze all’esterno delle mura. Una gran parte del nemico accennava a volgersi verso Brendola per prendere i Colli Berici e da là bombardare la città, perciò Durando provvide a guarnire soprattutto quelle posizioni. L’attacco alla barricata di sbarramento di Porta Castello, alla Loggetta, era atteso fra le 19,00 e le 20,30, ma i soldati rimasero ad aspettare sotto la pioggia per più di tre ore prima che succedesse qualcosa. 285
Alle 23,30 fu dato l’allarme. I cannoni aprirono il fuoco, poi iniziò lo scambio di fucilate. Contemporaneamente un’altra schiera nemica assaliva le mura da Porta Nuova a Santa Croce, al centro delle quali stava la polveriera con moltissime munizioni.CXCVI Riportò poi il bollettino di guerra italiano: “Il cannoneggiamento contro Vicenza, cominciato verso la mezzanotte di jeri durò ininterrotto fino alle ore 3 del mattino, e riprese mezz’ora dopo, non cessava che alle tre pomeridiane di quest’oggi. Gli Austriaci avevano potuto riuscire ad inoltrarsi fino alla stazione della strada ferrata quantunque soffrissero continue perdite di Uomini, ma i nostri poterono respingerli, ricuperando le prime posizioni. Il Capitano Lentulus degli artiglieri svizzeri, riuscì con tre colpi di un pezzo da 18 a smontare due obizzi e distruggere tutte le machine da racchette opposte dagli Austriaci. Tale fortunato evento, mentre onora il valente artigliere ed il sotto tenente che lo assisteva valse a volgere in pronta fuga il nemico che erasi addensato da quella parte. Quantità di razzi a racchette veniva slanciata in città, e la casa dove abitava il General Antonini, fu singolarmente presa di mira. Delle 30 granate scagliate, tre scoppiarono nella stanza da letto dove giaceva il ferito, che si dovette trasportare in casa Bonello. Alcuni forni vennero distrutti. Il Campo Marzo è coperto di cadaveri Austriaci, e vennero fatti altri 130 prigionieri, oltre a quelli che abbiamo annunciato questa mane. La perdita dei nostri non è affatto da paragonarsi con quella dell’inimico, mentre non annoveriamo che pochissime vittime. Sembra che in questa notte l’inimico non sarà per riprendere l’attacco dopo essere stato così energicamente respinto ed essersi ritirato a tre miglia dalla città.”CXCVII L’indomani Durando emanò un ordine del giorno incoraggiante: “I nemici jeri assaltarono di nuovo Vicenza, città aperta, dichiarata dagli esperti incapace di difesa…. Il nemico dopo un barbaro bombardamento di dodici ore, dopo replicati assalti, fu respinto. Per cagion vostra, soldati, d’ora innanzi si dirà Vicenza si può difendere. Se verrà un nuovo assalto, ho disposto nuove e più valide difese. Come vinceste la prima volta, vincerete la seconda, e la terza, e sempre.”CXCVIII Anche se il 30 maggio i Sardi batterono clamorosamente gli Austriaci a Goito, la Non Semel stava facendo effetto. Le truppe papali, come quelle napoletane, sarebbero dovute tornare a casa. Alcuni reparti rifiutavano il rientro, altri si sfaldavano. Il Battaglione Universitario fu quello che ne soffrì di più, come sottolinearono gli studenti della 3ª compagnia in un loro manifesto, diffuso il 1° giugno: “Dopo combattuto a Cornuda, restati a difendere Treviso, mentre eravamo sulle mura in faccia al nemico, ci siamo trovati abbandonati, senza averne avviso, dal Generale, dal Colonnello e dai compagni del nostro Battaglione portati sotto nome di fare una mossa strategica a Mestre. I disordini di Mestre son troppo conosciuti per parlarne di nuovo. I tristi che vedevano nel nostro corpo Universitario un ostacolo alle loro mire antiliberali hanno fatto di tutto per rovinarci. Hanno rimandata a casa un’intera compagnia, hanno dispersa una seconda, hanno sbalzate due altre a Vicenza e noi della 3ª hanno circondato d’intrighi e tormentato con mille angherie pur di toglierci tutto. Hanno portato via i nostri sacchi, hanno ritardate 286
e diminuite le nostre paghe; alcuni hanno sedotto, altri spinti a partire; e per sovrapiù, perpetrando il disordine in mezzo a noi hanno fatto per durezza e mali trattamenti la nostra condizzione attanto insopportabile. Pure la grande maggiorità della compagnia è restata ferma unita e risoluta a soffrir qualunque male, purchè si possa combattere e morire per la santa Causa d’Italia. Partito il nostro Capitano, partito il Sottotenente, il maggiore, il foriere e varii caporali; e non volendo per gelosia di comando i superiori riconoscere i nuovi ufficiali eletti a voti della compagnia secondo il privilegio datoci dal General Ferrari a Fuligno finora liberamente esercitato, siamo restati affatto in nostra balia. Cotesto abbandono ci pone in necessità e ci dà diritto di provvedere di per noi stessi ai nostri bisogni. Noi abbisognamo soprattutto di ordine e di direzzione, ed ordine e direzzione ci procureremo. Alcuni malvaggi ostili o ambizziosi vorrebbero portarci via di quà dove le forze sono poche, essi han supremo bisogno di noi per farci andare in luogo dove la nostra presenza sarebbe quasi inutile e superflua. Noi non commetteremo questa infamia. noi abbiamo risoluto di non abbandonar Treviso finchè sarà minacciata dagli Austriaci e finchè ne saranno devastate le campagne. Noi usciremo di Città solo per andare a discacciare i nemici da queste provincie. A quelli poi che ci vorrebbero portare sotto altre insegne meno libere e non nostre noi dichiariamo. 1°. ___ Di voler restare corpo Universitario attaccato alla nostra bandiera Pontificia benedetta da Pio nono, al quale saremo sempre fedeli per affezione di cuore per principii per dovere. 2°. ___ Di metterci sotto gli ordini del Comandante dei corpi franchi quà accorsi da tutta Italia, per uscire una volta da quell’ozio che ci consuma e cooperar attivamente alla liberazione della patria nostra uniti ad un centro di direzzione ordinata forte e leale. Siamo sicuri che tutti riconosceranno la necessità e la giustizia di questa nostra risoluzione. In tanto protestiamo altamente di voler mantenere il nostro giuramento di vincere o morire senza mai retrocedere in faccia al nemico. Scevri da ogni passione di partito spenderemo e forze e vita per far l’unione, la libertà, l’indipendenza d’Italia, ed i nomi di Pio nono, di Roma e d’Italia saranno sempre il nostro grido di guerra. Treviso 31. Maggio 1848.”CXCIX In realtà quanto era accaduto loro non differiva molto da ciò che avevano passato gli universitari toscani, battutisi pochi giorni prima a Curtatone e Montanara insieme ai regolari napoletani. Gli studenti e i volontari in genere non erano graditi né a Firenze né a Roma. I volontari toscani erano stati fatti marciare su e giù per l’Appennino finché non si erano quasi rivoltati ottenendo d’essere schierati nei pressi di Mantova; ai Romani capitava adesso qualcosa del genere, ecco tutto. La stessa mattina in cui fu pubblicato il manifesto, il 1° giugno, alle dieci giunsero a Treviso dei contadini e avvertirono il comando e il Comitato cittadino che un corpo di Austriaci della forza d’un battaglione, era al Sile, dove stavano facendo il bagno e il bucato dopo aver radunato nel casino del conte Bestoli il bestiame e gli oggetti razziati nei dintorni e che aspettavano la sera per portare tutto oltre il Piave. Il generale Lante227 ordinò al comandante Pio di fare una sortita. Pio, comandante la “Legione degli Emigrati Italiani in Parigi”, prese i suoi uomini, il 1° Battaglione Granatieri pontificio, le due compagnie Civiche rimaste a Treviso dopo la fuga delle Legioni a Mestre, ed una compagnia di “Tirajuoli”, cioè quella degli studenti romani rimasta, la 3ª. 227 Era stato promosso generale dal Governo Provvisorio di Venezia il 14 maggio. Poiché era suddito pontificio, piovvero le
lagnanze da Roma e da Durando, tutte concordi nel sottolineare l’invalidità sostanziale della nomina veneziana fatta a un soggetto di un altro Stato. Durando fece però scrivere da d’Azeglio a Lante d’essere costretto a protestare per dovere di carica, ma che approvava la promozione. Da Roma invece si faceva più sul serio e il tutto certo non giovò alla compattezza necessaria alle operazioni seguenti.
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Le truppe uscirono da Porta Attilia. Pio le mise in ordine di battaglia formando un semicerchio con al centro la sua colonna per plotoni; a destra e a sinistra mise il Battaglione Granatieri, e sulle ali di questo, la Civica in ordine sparso. Alle estremità delle due ali pose infine gli studenti. Marciando con questa disposizione giunse in faccia al nemico e ordinò ai tiratori sulle ali di non sparare finché non avessero udito la prima scarica della colonna centrale. Ovviamente la mancanza di disciplina prevalse. Appena le ali furono a un mezzo miglio di distanza dal nemico, quindi abbondantemente fuori tiro per i fucili d’allora, gli studenti aprirono il fuoco, del tutto inutilmente. Il rumore avvertì i Croati dell’attacco. Corsero alle armi mezzo nudi, ma la colonna centrale era già loro addosso e li sbaragliò. Dopo una debole resistenza furono completamente sconfitti. Cercarono di riordinarsi sulla strada, ma furono presi fra i granatieri, la Civica e gli studenti e fuggirono in rotta fino al Piave. Lasciarono sul terreno 260 tra morti e moribondi, contro i 15 morti e 10 feriti degli Italiani, e persero 12 prigionieri. . Nel frattempo a ovest le cose si mettevano male. Dopo la vittoria di Goito il 30 maggio, l’Armata Sarda aveva esteso ancor di più il suo dispositivo, era divenuta del tutto statica ed aveva lasciato l’iniziativa a Radetzky, che ne approfittò. Sapendo che i Napoletani erano stati richiamati da Ferdinando II al sud e vedendo i Sardi immobili, decise di assicurarsi le spalle e, fra il 4 e il 9 giugno, mosse circa 30.000 uomini contro i 10.500 veneti e pontifici intorno a Vicenza, dove Durando stava concentrando tutto quello che poteva, facendo affluire per ferrovia il 7 pure i Pontifici ancora a Treviso. La mattina del 9 giugno Durando seppe che gli Austriaci erano a circa cinque chilometri da Vicenza. Aveva 26 pezzi e 10.000 uomini circa e venne informato che gliene stavano arrivando addosso 45.000 con 106 pezzi.228 Inferiore per 1 a 4,5 in un periodo la cui la tecnologia manteneva ancora valida la regola napoleonica per cui 1 a 3 era già sicura disfatta, la partita era persa in partenza, ma tenne pronte tutte le sue forze, distribuendole in città e fuori, specie sui Colli Berici, che la dominano da sud. Là, agli ordini di Massimo d’Azeglio ed Enrico Cialdini, piazzò un quarto delle sue truppe. Gli Austriaci avanzarono a semicerchio da sud verso est, col I Corpo d’Armata dai Colli Berici al Bacchiglione e il II sulla strada per Padova e Treviso All’imbrunire del 9 venne dato l’allarme in città. Durando mandò di rinforzo al battaglione dei Cacciatori Svizzeri pontifici sul Monte Berico la 3ª Legione. Giunta sulla piazza di Santa Maria del Monte, questa staccò due compagnie del II Battaglione in rinforzo ad una compagnia svizzera in posizione avanzata sui colli, circa tre chilometri più avanti e di fronte al nemico. Pioveva, ma durante la notte non successe nulla. Il capitano svizzero comandante l’avamposto giudicò la posizione intenibile, per cui ordinò di ripiegare su una’altra più forte, in cui si trovava pure il primo posto telegrafico degli Italiani. Alle nove e mezzo del mattino del 10 gli Austriaci avanzarono. Il loro II Corpo si avvicinò da est; il I marciò sulle colline. Al II venne opposta una valida resistenza, che a Porta Padova costò la vita al colonnello Natale Del Grande, comandante la 1ª Legione della Guardia Civica. La difesa continuò, validamente diretta dal colonnello Bartolomeo Galletti, ma il centro della lotta era sui colli, dove gli attaccanti vennero contrastati inizialmente dagli Svizzeri e poi dalla Civica. Il fuoco durò tre ore. Gli Austriaci lanciarono molti razzi Congreve, ma sempre troppo lunghi o troppo corti. Piazzarono allora due pezzi d’artiglieria e aprirono il fuoco a mitraglia, costringendo i difensori a ritirarsi in cima al Monte Berico, sotto la protezione della batteria estera pontificia del capitano Lentulus. Più volte le colonne Austriache provarono a salire il colle e ogni volta la mitraglia li respinse. Poi lo scontrò si frazionò nei boschi in schermaglie fra tiratori e durò fino a notte, quando, restati i pezzi pontifici senza munizioni, i nemici poterono avanzare e prendere la posizione. La 3ª Legione coprì il ripiegamento delle altre unità e dei pezzi, mentre in città il resto della guarnigione resisteva in tutti i punti. Costretta finalmente a ritirarsi
228 Secondo altre fonti aveva 12.000 uomini e 36 pezzi contro 43.000 Austriaci con 118 pezzi
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fino al santuario della Madonna di Monte Berico, la 3ª Legione provò ancora a resistere, ma fu pesantemente colpita dall’artiglieria nemica e costretta a ritirarsi in città, cedendo tutte le posizioni. Preso il Monte Berico, gli Austriaci poterono bombardare Vicenza colla massima efficacia. Il Comitato Civico fece allora alzare bandiera bianca, ma fu abbattuta a fucilate da soldati e cittadini, che imposero di reinnalzare quella rossa della Repubblica di San Marco. Ricominciò il bombardamento; ma Durando si rese conto dell’inutilità del massacro, ordinò di nuovo bandiera bianca e mandò dei parlamentari ai generali D’Aspre e Wratislaw. Si capitolò che la mattina seguente, 11 giugno, tutta la truppa pontificia potesse uscire da Porta Monte cogli onori militari, armi e bagagli, per ripassare il Po entro quattro giorni, promettendo di non combattere per i successivi tre mesi.
VI) Fine campagna e Bologna La mattina dell’11, a mezzogiorno, le truppe papali sortirono, passando in mezzo a 25.000 Austriaci che stavano sulla strada schierati “a doppi ranghi.”229 Circolò tra i Pontifici la voce d’aver perso tra morti e feriti 1.500 uomini, tra cui un colonnello ed un tenente colonnello, ma che il nemico avesse avuto 7.500 morti e che la cifra fosse stata detta da D’Aspre in persona. La realtà era molto diversa: gli Italiani avevano perso 293 morti e 1.665 feriti, gli Austriaci meno della metà: 141 morti, tra cui il generale di brigata principe von Taxis, 541 feriti e 140 dispersi e si erano riaperti la strada del Friuli, isolando i Veneti e mettendo le basi per l’assedio di Venezia. Le truppe pontificie in ritirata da Vicenza arrivarono a Barbarano lo stesso giorno 11, il 12 a Este, il 13 a Rovigo. Passarono il Po a Francolino la mattina del 15 giugno e in poche ore rientrarono a Ferrara. Furono seguite una settimana dopo da quelle che avevano capitolato a Treviso. Le altre invece, per un complesso di 6.000 uomini, rimasero in Veneto e si sarebbero poi spostate a difendere Venezia. Durando si congedò formalmente dal suo esercito il 22 giugno e partì per il Piemonte. L’aspettavano vent’anni di carriera, promozioni e decorazioni. Le sue truppe in gran parte tornarono a casa: le aspettavano fino a vent’anni di tempi assai tristi a partire dall’inverno seguente. La 1ª Legione della Civica rientrò a Roma da Vicenza il 25 luglio, portando la salma del colonnello Del Grande e “ricevuta festevolmente per il valore con che si distinse.”CC Le altre truppe rientrarono nello stesso periodo. Il Papa, disorientato e sentendosi insicuro per via della situazione a Roma, fece richiamare dal nord i reparti svizzeri e, tramite il cardinal Ferretti, chiese truppe a Ferdinando II, ma non poté averne perché ancora impegnate in Sicilia. Il ministero pontificio pensò allora d’organizzare una Lega italica con Toscana, Napoli e Sardegna. Il ministro Mamiani aveva annunciato il progetto il 29 luglio, ma il diniego napoletano lo fece fallire. Il principe Doria rinunciò al portafoglio delle Armi e fu sostituito dal conte di Campello, mentre arrivava a Roma il 31 luglio la notizia della sconfitta sarda a Custoza. Questo cambiava tutto, però, pur essendo ormai evidente il ristabilito predominio austriaco, il parlamento chiese al Papa di armarsi. L’intenzione era di proseguire da soli la guerra d’indipendenza, ma significava obbligare il Papa a smentire la Non semel e a rischiare lo scisma germanico. La ristrettezza di vedute della piazza entrava di nuovo in collisione colle condizioni politiche e militari del momento. Solo chi non era un politico poteva ancora pensare in quel momento a un’unione con Toscana, Sardegna e Napoli. Solo chi non era un militare poteva credere lo Stato Pontificio isolato capace d’opporsi all’Austria. Solo chi non era un ecclesiastico poteva ritenere il Papa disposto allo scisma tedesco. La piazza era dominata dal Circolo Popolare e 229 Secondo un uso militare vecchio d’oltre un secolo per cui, nel rendere gli onori militari, i vincitori suonavano le marce dei
vinti, durante lo sfilamento dei Pontifici le bande austriache, forse non sapendo quali fossero le marce pontificie, eseguirono gli inni della rivoluzione italiana e si rischiò un incidente serio, perché, del tutto ignari delle tradizioni militari, gli studenti romani, credendo quegli inni suonati in segno di scherno, dovettero essere energicamente trattenuti perché stavano per aggredire colle armi i nemici che, schierati, rendevano loro gli onori.
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questo, controllato da Ciceruacchio, era formato da gente che non era nessuna delle tre cose. A loro, purtroppo, si attagliava a perfezione il commento di Garibaldi: “In Roma dominava sempre lo stesso spirito... L’Italia non avea bisogno di militi, ma di oratori e patteggiatori.”CCI Intanto, chiusa la partita coi Piemontesi in Lombardia, gli Austriaci traversarono il Po. Il 13 luglio la colonna di 6.000 uomini del generale principe di Liechtenstein entrò a Ferrara, intimò l’uscita dei reparti capitolati a Vicenza e ancora presenti, vettovagliò la cittadella e consentì la permanenza in città al solo 5° Battaglione Fucilieri ed ai carabinieri. Contemporaneamente gli uomini di Welden si avvicinarono a Bologna ai primi d’agosto per occuparla, minacciando la fucilazione a quanti fossero stati trovati in armi. Bologna non era un affare da poco. Il popolo vi aveva da tempo creato un Comitato di Salute Pubblica, radunando le truppe non vincolate dalla capitolazione di Vicenza e dandone il comando al colonnello Domenico Galluzzi. Quando il 2 agosto arrivò la notizia dell’avanzata di Welden e il 3 si seppe del suo proclama di Bondeno, in cui, sull’esempio della devastata Sermide, minacciava fuoco, morte e devastazione a quanti avessero osato sparare sui suoi soldati, fu evidente cosa ci si poteva attendere. La mattina del 7 agosto, mentre il grosso si fermava fuori di Porta San Felice, alcuni reparti austriaci entrarono in città e, dopo essere rimasti per qualche tempo a piazza Maggiore, se ne andarono. Il prolegato conte Cesare Bianchetti era riuscito a ottenere da Welden lo stazionamento delle truppe all’esterno delle mura, a condizione di far loro presidiare le porte San Felice, Galliera e Maggiore ed accettando che gli Austriaci stabilissero una postazione d’artiglieria sulla Montagnola che dominava la Piazza d’Armi. Le truppe pontificie vincolate dalla capitolazione di Vicenza si erano dovute allontanare, ma il popolo era infuriato. Secondo le cronache del tempo, l’indomani, mentre ufficiali e militari austriaci passeggiavano per la città con aria provocatoria, un sergente austriaco entrò al Caffè Marabini, dipinto coi colori italiani e ordinò al cameriere “un caffè a tre colori.” Un giovane avventore, indignato per l’insulto, gli sparò una pistolettata. Da lì partirono i disordini, che si ampliarono a Porta San Felice e si estesero in breve a tutta la città.. Gli Austriaci minacciarono. Bianchetti cercò un accordo. Il generale Ferglas, succeduto a Welden, rispose di volere i responsabili o sei ostaggi entro due ore. Alle cinque del pomeriggio Bianchetti annunciò d’offrirsi lui come ostaggio, ma era troppo tardi: la città era insorta. Mentre le campane suonavano a stormo, i cittadini chiudevano le porte e correvano ad armarsi. Nel giro di poco più d’un’ora popolo, guardie civiche e carabinieri, incuranti del tiro dell’artiglieria nemica dalla Montagnola, incalzarono gli Austriaci fino a obbligarli a ritirarsi, lasciando un centinaio di prigionieri e portando via non si sa quanti morti e feriti. Per circa un anno Bologna sarebbe restata libera. Il 15 agosto, a cose fatte, mentre gli Austriaci ripassavano il Po, il Consiglio dei Ministri dello Stato Pontificio dichiarò che il Papa era fermamente deciso a difendersi contro l’invasione austriaca e Pio IX spedì a Welden una delegazione di tre persone coll’intimazione di retrocedere. Grazie a quanto avevano fatto i Bolognesi, il cardinal Marini e i principi Corsini e Simonetti ottennero da Welden che si ritirasse, quando l’aveva già fatto, però gli Austriaci si tennero la cittadella di Ferrara.
VII) I Pontifici alla difesa di Venezia Un discorso a parte meritano i militari pontifici che presero parte alla difesa di Venezia, perché furono gli ultimi sudditi del Papa a cedere le armi contro gli Austriaci nel ’48 e se ne andarono il 17 dicembre solo per disciplina: erano stati richiamati da Roma. Anche qui la situazione organica è complicata parecchio e, per semplificare, dirò subito che a Venezia andarono tutti i reparti decisi a continuare la guerra i quali, non essendo stati alla difesa di Vicenza, non eran compresi nella capitolazione e nella conseguente tregua di tre mesi.
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L’unità più nota è forse la Legione Bolognese che, nella miglior tradizione dei corpi volontari pontifici del ’48, in origine non si chiamava così e non era neppure una Legione, ma un battaglione, ovviamente piccolissimo: il 1° Battaglione Civico. Il 1° Civico era nato sull’onda dell’entusiasmo patriottico e, agli ordini del tenente colonnello Carlo Bignami – banchiere, già degli insorti del ’31 – si era mosso il 2 maggio, era entrato in Veneto l’8 varcando il Po a Francolino ed era stato a Padova dall’11 al 14 maggio, tornandoci il 24 – dopo il primo scontro di Vicenza – e rimanendoci di presidio fino al 13 giugno, quando si era spostato a Venezia in seguito al ripiegamento oltre Po dei Pontifici battuti a Vicenza. Nel frattempo il 1° Civico era stato raggiunto da un secondo battaglione, comandato da Pietro Scarselli – ex-napoleonico – e a Venezia Guglielmo Pepe li aveva uniti a tre compagnie di volontari marchigiani, formando la Legione Bolognese di cui aveva dato il comando a Bignami, per cui, per semplificare le cose a tutti, la Legione Bolognese fu nota pure come Legione Bignami, mentre il 1° Civico passava agli ordini dell’ingegner Carlo Berti-Pichat, altro reduce del ‘31. La forza complessiva della Legione, compresi i Marchigiani, era di 780 uomini, cioè meno d’un solo battaglione regolare sul piede di guerra Tornando all’insieme dei Pontifici, come andarono loro le cose? L’11 la notizia della caduta di Vicenza era giunta Padova. L’indomani il consiglio di difesa aveva tirato le somme. Stavano arrivando 20.000 austriaci con 40 cannoni per resistere ai quali c’erano 5.000 uomini e 18 pezzi d‘artiglieria con cento colpi ciascuno a presidiare circa dodici chilometri di mura, pari a un uomo ogni due metri e un cannone ogni 650: la difesa era impossibile. L’unica scelta militarmente logica era difendere la capitale, perciò il 13 giugno tutte le truppe italiane – venete, lombarde, pontificie e napoletane – a piedi o in treno si concentrarono a Venezia. La guarnigione di Treviso non fece in tempo a muoversi. Fu agganciata dai 10.000 uomini di Welden e il 14 giugno dové capitolare a condizioni simili a quelle di Vicenza: onori militari, passo libero fino al Po, permesso ai militari austriaci sotto bandiera pontificia dì seguirla come emigrati; l’unica differenza fu la concessione di portar via due soli pezzi d’artiglieria. Zambeccari il 15 alle sei del mattino uscì con 4.300 uomini diretto al Po e il 22 giugno rientrò a Ferrara. A Venezia intanto ci si preparava alla difesa. Guglielmo Pepe, nominato comandante dell’esercito veneziano il 18 giugno, per prima cosa si sbarazzò del generale Lante, destinandolo il 19 insieme allo stato maggiore dell’assente generale Ferrari ai depositi da costituire a Ferrara. Otto giorni dopo Ferrari arrivò a Venezia. Era stato chiamato a Roma, dove l’avevano mandato da Carlo Alberto, il quale l’aveva inviato a Venezia, dove il 27 giugno si vide affidare da Pepe un comando di divisione raggruppante i circa 5.000 pontifici. Erano, come riferì a Roma, tre reggimenti di volontari, tre battaglioni della 4ª Legione Civica, due battaglioni bolognesi – la Legione bolognese – oltre a quelli da lui definiti “alcuni piccoli corpi disorganizzati” da fondere nei più grandi, tutti accomunati da divise in pessime condizioni, mancanza di scarpe e, per 500 di loro, di fucili. Meglio o peggio armati ed equipaggiati, per difendere Venezia Pepe aveva 21.000 uomini, con cui presidiare 54 forti e tutta la laguna, non era affare da poco, ma lui si era fatto le ossa sotto Napoleone. Il 3 luglio i Veneziani votarono per ergersi in Repubblica e resistere. Le truppe pontificie furono poste agli ordini di Guglielmo Pepe e concorsero al presidio delle difese esterne e agli scontri per il ponte ferroviario a Mestre o per il forte di Marghera. Il 27 luglio il 1° Civico fu impegnato con reparti trevigiani, un battaglione napoletano ed uno lombardo, nella tentata presa del forte di Cavanella, tenuto da 500 austriaci. Il combattimento, diretto dal generale Ferrari, terminò dopo cinque ore di fuoco con un nulla di fatto e poche perdite – otto morti e 42 feriti – per lo scarso coordinamento fra le tre colonne d’attacco, una delle quali, la trevigiana, si era spinta troppo avanti, finendo in una palude sotto il fuoco nemico. Nel frattempo il governo veneziano stava cercando di liberarsi d’una parte dei Romani. A Venezia servivano i combattenti, ma parecchi del contingente pontificio erano di peso: poco disciplinati, mal equipaggiati, militarmente inaffidabili: costavano molto e valevano poco. Manin e Pepe avrebbero 291
preferito tenersi i migliori e rimandare oltre Po gli altri. Del resto non era una novità; già all’inizio della campagna, alla fine di marzo e in aprile, alcuni emissari veneti avevano cercato d’indurre i volontari emiliani, specie quelli di Zambeccari, a passare al servizio di Venezia, lasciando l’inazione pontificia di qui giorni per combattere contro lo straniero; e questo era stato uno dei motivi per cui certi reparti volontari avevano passato il Po e Durando aveva preferito seguirli. Adesso le necessità della guerra imponevano un’attenta valutazione di spesa e resa, per cui Venezia preferiva tenersi i validi e scaricarsi degli inefficienti o di chi creava fastidi e interferenze. Non si poteva dirlo in maniera tanto netta, per cui si cerò di ottenere da Roma il richiamo d’alcuni. Il primo ad essere allontanato era stato Lante, perché dava fastidio a Pepe. Adesso si cercò di fare lo stesso ad alcuni corpi, tenendo i migliori, ma i contatti con Roma portarono a dover scegliere: tutti o nessuno. Venezia preferì nessuno, per cui, con molte belle parole, si preparò la partenza dei Pontifici, giustificandola, d’accordo colle autorità papali, col maggior bisogno che di loro si aveva in Patria, il che non era nemmeno falso. Durante questo coperto lavorio diplomatico, le truppe pontificie a Venezia avevano continuato a servire e combattere dov’erano chiamate, passando tre mesi fra servizi di presidio e schermaglie e scaramucce in vari punti della Laguna. Il 27 ottobre parteciparono al combattimento di Mestre, che portò alla presa del forte di Marghera. I 2.500 austriaci della guarnigione furono colti di sorpresa e messi in fuga alla baionetta dai civici di Bignami, perdendo quattro cannoni. Una parte di loro si asserragliò nell’abitato di Mestre e fu stanata casa per casa, lasciando in mano agli Italiani 600 soldati e 22 ufficiali prigionieri. Fu per i Pontifici la chiusura in bellezza. Ben presto arrivò l’ordine di rientro. A Roma le cose non andavano bene.
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Capitolo XXIII La Repubblica Romana
I) Dal Papa alla Repubblica Mentre la Lombardia veniva rudemente pacificata dal “Paterno Reggime Austriaco”, Venezia veniva prima circondata e poi bloccata e l’Emilia evacuata dagli Austriaci per non disperdere le forze, la situazione nelle Legazioni era bollente, benché sotto controllo, ma nel Lazio precipitava. Dalla metà d’agosto a Bologna quasi ogni giorno si erano verificati disordini gravi, con uccisioni, rapine ed arresti arbitrari da parte del popolo. Nel giro d’un mese la decisa azione delle truppe regolari e della Civica bolognese avevano riportato una parvenza d’ordine, ma si era ancora lontani dalla tranquillità. A Roma l’ordine pubblico era migliore, ma le tensioni forti. La delusione dei volontari per come era andata la campagna era inasprita dalla sensazione che il Papa avesse tradito la causa italiana e dalle polemiche tra Ferrari e Durando sempre sui fatti di Cornuda. I volontari, specie gli universitari, erano furiosi, ma il pericolo vero veniva dalle Guardie Civiche, molte delle quali erano restate con pochi soldi in tasca e nessuna prospettiva. Nell’autunno del 1848 Pio IX consentì la formazione d’un governo di tinta liberale e moderata. A capeggiarlo mise il Segretario di Stato cardinale Giovanni Soglia Ceroni, titolare degli Esteri. All’Interno e coll’interim delle Finanze piazzò il conte Pellegrino Rossi, il quale chiamò al Ministero della Guerra don Mario Massimo duca di Rignano, uomo colto ma non molto energico. La stampa estremista accusò immediatamente Rossi di mirare a una sorta di dittatura, quella moderata lo accolse benevolmente, ma i guai erano dietro l’angolo. Il 18 settembre Rossi inglobò nel suo ministero dell’Interno quello di Polizia. La notizia fece sensazione e non piacque: tre ministeri in mano a un uomo solo! La situazione politica peggiorò. La piazza premeva per inoltrarsi sempre più sul cammino delle riforme costituzionali e della rivoluzione italiana. Il Papa non voleva cedere a nessun costo. Rossi cercava una via di mezzo, ma la fazione liberale, capeggiata da Ciceruacchio, era pesantemente sostenuta da un gran numero di guardie civiche reduci dal nord, malpagate e indisciplinate. Mentre Bologna e le Legazioni marchigiane e romagnole continuavano ad essere seriamente turbate da uccisioni di matrice politica, il 22 settembre Rossi pubblicò il programma del governo sulla “Gazzetta di Roma”, confermando la soppressione del Ministero di Polizia e dicendo a chiare lettere che contava di riordinare l’esercito, avendo offerto il portafoglio della Guerra al generale Carlo Zucchi. Poi, l’indomani, 23 settembre, rese esecutivo l’ordine del suo predecessore Fabbri che la 1ª Legione della Civica lasciasse Roma per la Romagna, e questo fu un errore fatale. La componevano 800 giovani romani tutt’altro che di miti consigli, i quali sostenevano di non essere stati trattati bene dal Governo Pontificio, perché li riteneva politicamente pericolosi e perciò aveva lesinato armi e denaro, a loro e in generale a tutta la Guardia. La Civica da parte sua in Veneto non si era dimostrata maneggevole, né disciplinata – si era visto a Mestre – e, al rientro a Roma, le cose non erano migliorate, tanto che il 12 agosto 1848 ne era stato decretato lo scioglimento. Il colonnello Galletti, che aveva comandato la 1ª Legione da Vicenza in poi, era riuscito ad evitarlo con difficoltà. Era molto ricco, aveva dei buoni agganci, sostenuti da cointeressamenti finanziari, e la persona che forse gli poteva essere più utile era il fratello del cardinale Antonelli, alto funzionario della Banca Romana, al quale aveva affidato la gestione dei suoi affari mentre era al fronte. Già in estate Galletti aveva speso forti somme di tasca sua e addirittura impegnato i gioielli della moglie per pagare almeno il vitto ai suoi civici, Adesso, rientrato in Roma, si stava dando da fare per una riorganizzazione e un miglioramento della Guardia. Ovviamente l’ordine di Rossi gli complicava tutto. Dal suo punto di vista c’erano buone ragioni per non far partire la Guardia: lui sarebbe stato costretto a scegliere se seguirla, allontanandosi dai suoi affari e andando al fallimento sicuro, o restare a 294
Roma per salvare il salvabile, abbandonando la Guardia e condannandola all’annientamento per consunzione. D’altra parte il governo obiettava che le ruberie nella 1ª Legione erano state enormi. Sulla carta risultava in origine di 2.100 uomini. Passata una prima rassegna in estate, dopo il ritorno, se n’erano trovati alle armi solo 1.200, poiché 900 “si erano dimessi”, gentile eufemismo per indicare quanti erano morti o a Mestre avevan preso la via del Po. Il Ministero delle Armi aveva pagato vestiario e razioni per quei 1.200, però a una seconda rassegna i civici della 1ª Legione erano risultati 971. Dov’erano finiti i soldi spesi per le oltre duecento guardie mancanti? Era stata aperta un’inchiesta e la si era presa ad occasione per differire il trasferimento, ma ora Rossi reiterò l’ordine e la 1ª Legione partì il 23 settembre alle 6 del mattino, diretta a Cesena via Ancona. Molti militi però non la seguirono. In questo erano sostenuti dalla fazione rivoluzionaria più accesa, che vedeva nella Guardia se non il proprio braccio armato – male, ma armato – quantomeno un’entità che poteva spalleggiarla contro il Governo. Del resto l’ala liberale più accesa era capeggiata da Ciceruacchio, il cui figlio maggiore era milite proprio della Civica. Adesso si poteva calcolare che a Roma ci fossero i circa mille ex-civici congedatisi o spariti dai ruoli, senza paga, malcontenti e pronti a tutto, ai quali si potevano sommare altri malcontenti di ogni genere, dagli impiegati ministeriali irritati dalla stretta disciplinare imposta da Rossi per cui non potevano più assentarsi senza permesso, ai militari cui Zucchi aveva annunciato una disciplina ferrea, fino ai cosiddetti “cavalieri della beneficenza”, cioè i disoccupati a cui il Governo passava un sussidio per il quale avrebbero dovuto lavorare – ma non lo facevano – per la pubblica utilità e che il 3 novembre, sentendosi dire che da quel momento sarebbero stati pagati solo a giornata intera 230 e vedendosi assegnare un lavoro a Testaccio, si erano ribellati, avevano preso a sassate i sovrastanti e la polizia ed era stato necessario un picchetto di cavalleria per disperderli e arrestare i più violenti. Infine il riordinamento dell’esercito e la fusione dei ministeri della Polizia e dell’Interno facevano presagire un irrobustimento delle autorità, il cui scopo certo non si poteva immaginare favorevole alla fazione rivoluzionaria. Per di più la stessa Guardia Civica non era un insieme compatto filorivoluzionario. I tre battaglioni comandati dai principi Doria, Colonna e Aldobrandini erano disciplinati e non condizionabili dal Circolo Popolare. La Civica nel suo insieme funzionava passabilmente, quanto e in certi casi meglio dei carabinieri; non si tirava indietro e non si faceva intimidire. Insomma, la Civica era una cosa, i civici spesso un’altra. Dal punto di vista del Circolo Popolare il rafforzamento del governo significava arrestare, spegnere la rivoluzione. Rossi era l’anima del governo, Rossi era l’anima della manovra. Levandolo di mezzo si poteva ritenere d’eliminare l’ostacolo maggiore sul cammino della rivoluzione, restava da decidere come. Nel frattempo la situazione dell’ordine pubblico in Emilia e nelle Marche peggiorava tanto da indurre Zucchi a partire in fretta per Bologna ai primi di novembre. Appena arrivato, nel bel mezzo della confusione generata dall’assalto popolare alla residenza del console austriaco di Ferrara, dall’invio a Bologna di 30 arrestati per i disordini, con la Romagna e le Marche turbate da sei gravi omicidi politici in meno di due mesi e colla richiesta dei carabinieri di Ferrara di allontanare dalla città i volontari del Battaglione Unione che si erano uniti ai Ferraresi nella devastazione della residenza consolare austriaca, Zucchi si trovò una grana tremenda: Garibaldi chiedeva il passaggio per andare a Ravenna a imbarcarsi per Venezia con 150 legionari, metà dei quali giunti con lui da Montevideo. Zucchi, si spaventò: Garibaldi e 150 uomini colla loro sola presenza avrebbero fatto divampare l’insurrezione in Romagna, non dovevano passare. Perciò spedì 400 svizzeri a Pianoro per sbarrare loro la strada. I Bolognesi si infuriarono. Una delegazione si presentò al generale svizzero Latour e minacciò 230 Potendo essere pagati anche a mezza giornata,
di solito pensavano ai loro affari, cioè spesso a un altro lavoro, poi passavano a fare atto di presenza e incassare la mezza giornata. Il pagamento a giornata intera implicava la presenza continuata e impediva loro di fare come in precedenza.
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guai seri, perciò Latour, all’insaputa di Zucchi, andò da Garibaldi e l’accompagnò personalmente in città fra manifestazioni trionfali. Davanti alla crescente inquietudine, Rossi rifiutò l’offerta piemontese d’alleanza contro l’Austria per l’imminente campagna del 1849, richiamò a Roma i carabinieri del Lazio e il 14 novembre li fece sfilare a cavallo tutti e 600 lungo il Corso, mentre ordinava l’estradizione di due esuli napoletani condannanti a morte da Ferdinando II. Con questo per il partito liberale la misura era colma. Rossi mirava alla restaurazione del potere assoluto e andava tolto di mezzo. Al Circolo Popolare Ciceruacchio ordinò ai reduci – inclusi i disertori – della Civica di trovarsi l’indomani davanti al Palazzo della Cancelleria sede del Parlamento, con addosso la divisa indossata in Alta Italia231 e, in caso d’allarme, d’armarsi subito e concentrarsi in Piazza di Spagna. L’indomani ci sarebbe stata seduta alla Camera, la prima dal 26 agosto precedente. Il 15 novembre 1848, in un’atmosfera tesissima, Rossi arrivò al Parlamento. Nel calca nel cortile del palazzo fu attorniato da un gruppo di persone fra cui alcune in divisa della Civica e ucciso con una pugnalata al collo, che le ricostruzioni successive indicarono inferta dal figlio di Ciceruacchio. L’ordine pubblico degenerò immediatamente. Soldati, civici, popolo e carabinieri fraternizzarono. Il governo apparve impotente, la piazza prese il sopravvento con urla e manifestazioni inneggianti alla morte di Rossi e a quelli che si credevano i suoi assassini. L’indomani una manifestazione con in testa Carlo Luciano Bonaparte e Ciceruacchio si recò a portare al Quirinale le proprie richieste, che in quel momento storico erano altrettante bombe innescate: promulgazione del principio della libertà italiana, convocazione della costituente e attuazione dell’atto federativo, attuazione delle deliberazioni dei deputati quanto alla guerra d’indipendenza, approvazione e attuazione del programma Mamiani del giugno precedente, col quale si stabiliva la separazione fra potere spirituale e temporale, riservando il secondo al governo e al parlamento e riducendo il Papa a capo dello Stato senza responsabilità, cioè a sovrano costituzionale del tipo più avanzato. Accettare avrebbe significato la fine del potere temporale e la ripresa della guerra; non c’era speranza che Pio IX lo facesse, ma gli entusiasti pensavano di si. Arrivati al Quirinale lo trovarono sbarrato. Si avvicinarono e la situazione degenerò. Partirono parecchie fucilate. La gente si arrampicò sui tetti vicini e cominciò a tirare da là e dalla piazza contro il palazzo, in cui fu ucciso un monsignore perché da lontano era parso che avesse un pistola in mano. Altra folla corse a una caserma vicina e s’impadronì d’un cannone, puntandolo contro il portone del palazzo per sfondarlo ed entrare. L’intromissione di alcuni volonterosi impedì il tiro, ma fu un miracolo dell’ultimo istante. La situazione era pessima, il Papa si piegò alle condizioni della piazza, compresa la sostituzione degli Svizzeri con la Civica fin dentro il suo appartamento. Tra il mezzo assalto al Quirinale difeso dagli Svizzeri e la custodia del sovrano alla Civica, alla gente del tempo il paragone con Luigi XVI veniva spontaneo. Sarebbe giunto fino alla ghigliottina? Arrivò solo fino a Varennes, o meglio, a Gaeta. Alle richieste dei manifestanti Pio IX non aveva detto di no, ma nemmeno esattamente di si. Consentì alla formazione di nuovo governo solo di laici, poi, la sera del 24 novembre, vestito da semplice prete e senza accompagnatori, mentre nel suo appartamento l’ambasciatore di Francia leggeva ad alta voce un libro per far credere al civico di guardia di star parlando col Papa, Pio IX uscì dal Quirinale, del tutto ignorato e nella carrozza del suo scalco Filippini. A via Labicana passò in quella del ministro di Baviera conte Spaur e, accompagnato dalla contessa e dal figlioletto, fingendosene il precettore abbandonò Roma. 231 Chi la indossava si riconosceva subito. La divisa, adoperata in primavera ed estate, era di tessuto leggero e ormai, dopo
dieci mesi d’uso ininterrotto da parte dei fuori servizio, talmente sporca da essere stata soprannominata dai Romani “panontella” . La panonta è un alimento composto da pane abbondantemente intriso d’olio della frittura di pancetta o, com’era in origine, imbevuto di strutto o di lardo sciolti, a cui si possono aggiungere uova o baccalà. Con queste caratteristiche non è un caso se nel dialetto romano “panonta” indica qualsiasi cosa grassa, unta e non pulita, per cui si capisce il motivo del soprannome.
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La mattina del 25 novembre ci si accorse che il Papa non c’era più e il disorientamento prese il posto della follia. Durò finché non si seppe dov’era: a Gaeta, la più formidabile e imprendibile fortezza del Regno di Napoli. Lo pregarono di tornare; non ci fu verso, la misura era colma. Il popolo aveva preteso ciò che dieci mesi prima Pio IX aveva detto di non poter, non dover e non voler concedere. Ora sarebbe successo quanto era stato annunciato il 10 febbraio 1848: il Papa era “pronto a resistere a domande non conformi ai doveri suoi ed alla felicità” valendosi del “Gran dono del Cielo” dei “dugento milioni di fratelli d’ogni nazione e d’ogni lingua.” che erano stati “in altri tempi, e nello scompiglio di tutto il mondo romano, la salute di Roma” e grazie ai quali, contrariamente a quanto pensava lui, era stata intera la rovina dell’Italia. Perciò, come era sempre stato fatto dall’VIII secolo in poi, cominciando con Carlo Magno contro i Longobardi e terminando cogli Spagnoli e i Francesi ai primi del Cinquecento, il Papa chiamò gli stranieri a piegare gli Italiani. Nel frattempo al posto del potere papale nacque la Repubblica Romana, proclamata il 9 febbraio 1849, alla cui testa si mise un triumvirato formato da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini, mentre arrivava Garibaldi. Giunto in Italia troppo tardi per partecipare alla prima parte della campagna del 1848, come sappiamo aveva pensato d’andare a Venezia. Colto in Romagna dalla proclamazione della Repubblica Romana, gli era stato chiesto di raggiungere l’Urbe, con molta circospezione da parte dei Triumviri, perché, come scrisse nelle sue Memorie, “In Roma dominava sempre lo stesso spirito... L’Italia non avea bisogno di militi, ma di oratori e patteggiatori, dei quali si poteva dire: “Or superbi, or umili, infami sempre.”CCII Si aveva bisogno di lui e della sua Legione, salita a ben 1.200 uomini, per coprire Roma dall’offensiva filo papale; infatti all’appello di Pio IX avevano risposto Napoli, Francia, Spagna, Austria e Toscana, armando dei contingenti. Il più pericoloso si sarebbe dimostrato quello francese e con esso la II Repubblica Francese avrebbe ucciso la II Repubblica Romana. Deciso nel tardo autunno del 1848 il corpo di spedizione sarebbe stato mandato dal nuovo capo dello Stato, il presidente, anzi, come si faceva chiamare, il principe-presidente, Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, eletto in dicembre, l’antico carbonaro del ’31 che di lì a tre anni sarebbe stato Napoleone III, imperatore dei Francesi. Se all’esterno non era ben vista, all’interno la Repubblica Romana godeva di poco consenso e fece del suo meglio per perdere pure quello. Non è facile parlarne, perché la memoria dei suoi cinque mesi di vita è stata molto distorta nel successivo secolo e mezzo, tanto dall’una quanto dall’altra parte. I patrioti italiani, la parte che alla fine vinse, si concentrarono sulla resistenza di Roma e sulla dura repressione successiva, dettando in sostanza i parametri storiografici, se non agiografici, da seguire in futuro. La parte soccombente, quella papale, poté profittare della ventina d’anni fra la caduta della Repubblica e quella del Potere Temporale per far sentire la propria voce, dando la sua versione dei fatti, ma si perse in querimonie cavillose e lamentose, con abbondanza di dettagli inutili e d’esagerazioni evidenti, Ebbe poca efficacia e il 20 settembre la condannò all’oblio. Entrambe le parti stigmatizzarono ed esagerarono le violenze avversarie ed entrambe tacquero il più possibile le proprie. La verità è che ve ne furono da tutt’e due i lati e che, alla fin fine, chi ne pagò le conseguenze fu più che altro la maggioranza disarmata rimasta in mezzo. Come al solito, l’elemento da tener presente è quello dell’atteggiamento politico delle due parti e della percezione che il pubblico poteva averne. La premessa era sempre la stessa, l’ordine costituito era minacciato dalla rivoluzione. Delle tre generazioni in vita nel 1848, la più giovane conosceva il periodo francese per sentito dire, quella di mezzo ci era nata, quella anziana l’aveva sofferto in pieno. Chi aveva sessant’anni nel 1848 ne aveva avuti dieci all’arrivo dei Francesi e venticinque quando se n’erano andati. Ricordava com’era stato prima di loro e come sotto di loro, i cambiamenti e le violenze, i saccheggi e le fucilazioni, l’ateismo e l’arresto del Papa, l’internamento dei vescovi e dei cardinali, le tasse e la coscrizione obbligatoria; e l’idea che adesso tutto potesse ricominciare dopo trentacinque anni di relativa pace non gli faceva piacere, o meglio, faceva 297
piacere ai pochi che contavano di guadagnarci, ma fra di essi il popolo, o, almeno, la maggioranza del popolo, non c’era. Chi voleva le novità erano i borghesi, i professionisti, o quei popolani che vedevano prossimo il passaggio alla classe sociale superiore: Ciceruacchio era uno di questi. Era gente da cui il popolo vero e proprio non poteva sperare nemmeno la carità fatta giornalmente dai conventi; perché sostenere la rivoluzione dunque, se a sostenerla si doveva tornare alla coscrizione obbligatoria, alle tasse e allo sconvolgimento generale? Questo valeva a Roma. Fuori Roma era pure peggio. La rivolta del ’31, come quella del ’45, era stata fatta da gente forse inconcludente, ma onesta e per bene. La risposta del cameriere di Otricoli a d’Azeglio non era un caso, era la verità. Nel febbraio-marzo del ’48 si poteva ancora pensare che i rivoluzionari fossero come quelli del ‘31 e del ’45, ma ciò che si vide saltar fuori nel ’49 no, tutt’altro: era piuttosto la seconda edizione dei maledetti Giacobini del ’99. Minacce, furti e grassazioni; violenze, sequestri, insulti alla religione; atti sacrileghi, arresti e uccisioni a freddo di preti e frati costellarono, a Roma e fuori, le giornate della Repubblica. Ingigantiti dalla paura, dall’orrore e dalle voci incontrollate, i fatti assunsero un aspetto terrificante, in cui i repubblicani erano pericolosi quanto i loro predecessori di cinquant’anni prima e, di converso, Francesi, Austriaci, Spagnoli e Napoletani i liberatori venuti a ripristinare ordine e giustizia. Il ricordo del 1799, corroborato dai fatti del 1849, spiega a dismisura perché nel Lazio la Repubblica non ebbe alcun appoggio, perché nei vent’anni seguenti non si riuscisse a organizzare un moto che era un moto a Roma o coi Romani, tanto da amareggiare Garibaldi fino a fargli tacciare i Romani di nessuna iniziativa.232 C’era un motivo, un buonissimo motivo: le fucilazioni e le devastazioni giacobine del ’99 erano ancora vive nella memoria di tutte le famiglie del Patrimonio di San Pietro e nessuno le voleva risubire. Dopo la sconfitta della Repubblica i vincitori si affrettarono a stampare testi in cui cercavano d’aggravare le colpe dei vinti fino al massimo possibile, tacciandoli d’ogni crudeltà o quasi, a volte passando i limiti del credibile. A quel periodo, ad esempio, risalgono le prime menzioni di Garibaldi tornato dall’America non per combattere per l’indipendenza, ma perché fuggito in quanto ricercato per furto. Da parte loro i vinti del ‘49, dopo la vittoria parziale del ’61 e finale del 1870, non si peritarono di giocare allo stesso modo. Tacquero su molte cose e arrivarono a glorificare anche persone che, a ben vedere, lo meritavano poco o nulla. Mettendo a confronto le due storiografie, quella perdente assume una certa attendibilità perché riporta ciò che è omesso dalla storiografia vincente. La vincente a sua volta si riscatta quando, grazie ad essa, si vede che gli sconfitti spesso riferiscono in maniera scopertamente tendenziosa parecchi fatti che di per sé si intuiscono non così gravi come son detti e ne tacciono parecchi altri. La storiografia successiva non fu da meno nel confondere le acque. Poiché la Romana era stata una repubblica, i Savoia dopo il ’70 non ne parlarono troppo. Mussolini invece la rispolverò e poi la mise sugli altari come antesignana della Repubblica Sociale. Nonostante si fosse rivelata meno resistente e durevole di quella Veneziana, dagli altari della RSI passò nel 1949 a quelli della Repubblica Italiana e lì rimase, in quanto prova che la Repubblica nata dalla Resistenza era il perfetto e compiuto risultato del Risorgimento. Le cause di questa maggior attenzione rispetto a Venezia sono molte. Roma e non Venezia era destinata ad essere la capitale del nuovo Stato. Roma era stata aggredita da quattro nemici – del quinto, la Toscana, 232 In realtà non fu così. Dipese molto dai periodi e anche dai pericoli. Dalla primavera del 1859 fino a dopo Castelfidardo,
Roma ribollì di dimostrazioni per l’unità e l’indipendenza. Tranne un mese e mezzo di pausa dopo l’armistizio di Villafranca, le dimostrazioni furono di grandi applausi e acclamazioni alle truppe francesi – in quanto alleate dei Sardi – e a Napoleone III, con intenti chiarissimi quanto impliciti, avendo in questo modo buon gioco nell’impedire alla polizia dì intervenire. La cronaca Roncalli riporta decine e decine di episodi: pasquinate, manifestazioni, partenze di volontari, tumulti universitari, affissioni di manifesti, dimostrazioni in teatro. Quando però, dopo la nascita del Regno d’Italia, la copertura francese venne a mancare, la polizia ebbe mano più libera, le incarcerazioni aumentarono e le pene, molto severe, non lasciarono scelta fra l’espatrio e il carcere duro.
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non si parla mai – mentre Venezia da uno solo. A Roma c’erano stati sia Mazzini che Garibaldi, specie Garibaldi, e a Venezia no. Poi non andava dimenticato – anche se non si dice mai esplicitamente – che a Venezia non c’era stata alcuna lotta ateistica contro il clericalismo come invece a Roma e che, infine, mentre a Venezia non si erano fatti esperimenti politici di chissà che genere, a Roma ci si gloriava – e ancora c’è chi lo esalta – dell’esperimento consistente non nella zoppicante Repubblica che si organizzò e si fece funzionare, ma nella Costituzione che non entrò mai in vigore, perché fu approvata quando la Repubblica era già morta. Nessuno nega che fosse una Costituzione progressista, avanzatissima per i tempi, un’assoluta novità sociale e politica; ma furono bellissime parole e basta, prive di qualsiasi consistenza, perché prive di applicazione. Non ha senso lodare una cosa inesistente e la teoria di per sé non conta. Avere un’idea è una cosa, metterla in pratica è un’altra ed è la messa in pratica che conta. Della Costituzione romana ci fu il testo, è vero, ma fu approvato coi Francesi alla porta della sala in cui lo si discuteva. E’ tutto da dimostrare che una volta promulgato avrebbe funzionato e sarebbe interessante sapere cosa sarebbe stato necessario per farlo rispettare. Come l’avrebbe recepito la popolazione romana? E quella delle province? Quanto si sarebbe riusciti a imporlo? Visti i precedenti del ’99, a che prezzo in vite umane e persecuzioni? E’ molto bello dire che fu un capolavoro di progresso e di ideali, ma era realizzabile? Nella Roma di allora e nell’Italia d’allora crederei proprio di no, non senza forti attriti, non senza sofferenze per imporlo. Un conto è fare della teoria, un altro fare della pratica, un altro ancora mettere la teoria in pratica sulla pelle e sul sangue altrui. L’Ottocento si specializzò in questi tentativi che, alla messa in atto, allora e nel secolo seguente, costarono tutti un prezzo altissimo in dolori e vite umane: lo imposero le rivoluzioni francesi dal 1792 alla Comune, quelle marxiste fino alla sovietica del 1917 e le altre nate dal socialismo. Allora a che servì veramente la Repubblica Romana? Davvero fu una messa in atto del pensiero mazziniano? Fu determinante per il Risorgimento? Se si guarda da vicino il Risorgimento, si nota che l’apporto ideale e teorico di Mazzini diede una grandiosa spinta spirituale, però, all’atto pratico, ai fini della concreta realizzazione dell’indipendenza e dell’unità non contò nulla. Le Cinque Giornate furono esattamente e solamente uno di quei moti isolati che Mazzini aveva stigmatizzato nel 1831 in seguito ai Fatti di Romagna. La differenza col ’31 fu che le Cinque Giornate causarono, dietro esplicita richiesta formale dei vertici milanesi, l’intervento del Piemonte; ma senza quell’intervento sarebbe finita come nel ’31. E non si deve dimenticare che pure in Piemonte l’unità in pratica non fu in programma fino al 1859 e lo divenne solo per la serie di fortuite conseguenze dell’imprevisto armistizio di Villafranca. Dunque a che servì la Repubblica Romana? Lasciò una traccia, questo si, ma quanto profonda e quanto importante? Esaminando i fatti della Repubblica Romana occorre essere molto cauti, molto attenti e molto obbiettivi, specie perché, come in tutte le cose umane, major e longique reverentia e più le si guarda da vicino, più si scoprono meschinerie, viltà, polemiche e reati; e l’aura d’eroismo che circonda certi nomi si dissolve in un fumo che sa di interessi di bassa lega e a volte di delitti. Insomma, nella Repubblica, come in tutte le cose umane, ci fu la coerenza ma non in troppi, ci fu la gloria, ma non di tutti; ci fu l’ideale, ma non in molti e la maggior parte di quei non molti restarono sul campo, per cui è meglio limitarsi ai fatti militari e trattandoli in linea assai generale, anziché entrare nei particolari. Del resto, come vedremo, lo stesso Garibaldi, che era un pratico e non un teorico, un idealista e non un politico, amò la Repubblica Romana perché era una repubblica e perché era a Roma cioè nella capitale ideale, ma nelle sue memorie ne parlò abbastanza in breve e ne stigmatizzò il governo, perché era di teorici, che identificò come i responsabili del disastro, tutti, a partire da Mazzini. Ciò detto, passiamo all’esercito e alle operazioni.
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II) l’esercito della Repubblica Romana Tra il 24 ed il 25 aprile 7.000 francesi al comando del generale Oudinot sbarcarono a Civitavecchia fingendo di venire in pace; con che intenzioni? Mantenere la legittima influenza della Francia. Cioè a dire? Si tennero sul vago, ma intanto erano a terra. Lo sbarco francese fece interrompere la marcia del contingente toscano, già in Maremma che, dopo una sosta relativamente breve, ripiegò verso Siena e Firenze. A sud, date disposizioni per domare la Sicilia insorta, Ferdinando II si mise a capo d’una divisione e mosse su Roma. Gli Spagnoli si sarebbero messi in mare a maggio per sbarcare nel Lazio solo a fine mese, poi sarebbero stati osteggiati dai Francesi e alla fine non sarebbero riusciti a far nulla. Gli Austriaci si erano preparati ad entrare nelle Legazioni dopo lo scontro coi Piemontesi, per cui, vinta la battaglia di Novara, concluso l’armistizio di Vignale, distaccate forze a presidiare le piazze previste, solo piuttosto tardi si sarebbero potuti affacciare oltre il Po, quando non sarebbe stato più necessario muovere su Roma, ma intercettare i reduci in marcia su Venezia. A contrastare i Francesi e i Napoletani stava l’esercito della Repubblica Romana, un mosaico di reparti il cui nucleo erano le forze regolari pontificie. Colte di sorpresa dalla partenza del Papa e dal conseguente pasticcio istituzionale in cui un governo legittimo si era trovato improvvisamente col capo dello Stato fuggito all’estero e che dall’estero promulgava leggi, cosa che per legge non poteva fare, le truppe, con qualche incertezza, ubbidendo al Governo erano rimaste ai loro posti. Ad esse si sommavano i reparti volontari, più o meno numerosi, più o meno addestrati e più o meno disciplinati di ritorno dal Veneto o formatisi qui e là. La Civica era dappertutto e il suo comportamento destava parecchie critiche. In parte si doveva all’atteggiamento dei suoi componenti nelle città, in gran parte alle prevaricazioni e agli omicidi commessi, a quanto si diceva, da alcuni militi fuori di Roma e in alcuni centri di provincia . Era vero? Non proprio. Secondo gli atti processuali pontifici, su oltre sessanta omicidi e cinquanta ferimenti commessi nelle Marche e a Senigallia dal febbraio del ’48 al novembre del ’49 per motivi più o meno dettati dalla politica, otto omicidi e due ferimenti erano da ascrivere a militi della Guardia, ma sei di quegli otto erano stati commessi da membri della setta di assassini nota a Senigallia come gli “Ammazzarelli”, arruolatisi per godere della massima impunità. Certo è che pure fra gli altri erano in molti a non essere gente onesta. D’altra parte nemmeno i volontari di Garibaldi lo erano, non tanto i primi arrivati con lui in Italia, quanto quelli che l’avevano seguito a Roma o che, peggio, a Roma si erano arruolati. Come in tutte le rivoluzioni, c’erano quelli che Garibaldi chiamava “i generosi”, pronti a dare ogni avere e la vita per l’idea e quelli pronti a prendere ogni avere a portata di mano e che dell’idea non si curavano affatto. Oltre ai Garibaldini si erano formati o erano giunti i gruppi di volontari più disparati e il cui valore variava molto da gruppo a gruppo e da milite a milite. Scarso quello del Battaglione Bartolucci stanziato a Pesaro nel dicembre del ’48, migliore quello di altri; decente quello delle Guardie Mobili. Si era infatti formata una Guardia Mobile Ravennate. In Umbria erano nate la Guardia Mobile di Spoleto, comandata dal tenente Croce, e quella di Città di Castello, istituita dal tenente Speziali il 2 maggio 1849, lo stesso giorno in cui si costituivano la Guardia Mobile di Amelia agli ordini del capitano Girotti e quella di Castiglion del Lago, prima comandata dal tenente Pieracciani e poi dal capitano Fabri. La Guardia Mobile Faentina, ancora attiva, aveva continuato a presidiare le campagne del contado: che fare di tutta questa gente? L’amministrazione militare inizialmente fu data a un competente, il quarantaquattrenne neopromosso maggiore Alessandro Calandrelli, dell’artiglieria,233 un moderato, deputato alla Costituente, che dopo la 233 Oltre ad essere stato incaricato della consegna e distribuzione delle armi alla Guardia Civica nel 1847, Calandrelli aveva
redatto il Regolamento per le vestimenta ed armamento della Guardia Civica nello Stato Pontificio.
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proclamazione della Repubblica fu nominato ministro interinale della Guerra al posto del conte di Campello. Calandrelli non aveva gran fiducia nelle formazioni volontarie, di cui vedeva i punti deboli, a partire dalla poca disciplina, perciò cercò di rinforzare i regolari. Rispondendo ad alcune interrogazioni il 17 e il 25 marzo, espose chiaramente le pecche dei volontari, specie della Legione di Garibaldi. Narrò come in Marittima e Campagna fossero stati preceduti da una fama tale da svuotare paesi e monasteri al loro avvicinarsi e concluse indicando come unica soluzione la coscrizione obbligatoria per gli uomini fra i 18 e i 36 anni, con esenzione a pagamento. Ma la Repubblica non ammetteva… ! Così il 2 aprile Calandrelli avrebbe lasciato l’incarico al generale Avezzana, uno dei cui primi atti fu d’insistere con Mazzini per ottenere la promozione di Garibaldi a generale; e dové impiegare parecchia energia per superare l’opposizione del Triumvirato e di Carlo Pisacane, colonnello della Repubblica, proveniente dal Genio napoletano, che proprio non voleva saperne. Calandrelli tornò fra i combattenti, dove si sarebbe distinto tanto da avere la medaglia d’oro il 30 aprile, smontare le artiglierie francesi col tiro dei suoi pezzi il 22 giugno ed essere cooptato nell’ultimo triumvirato il 1° luglio, con Mariani e Saliceti. Gli sarebbe costato caro: le accuse di alto tradimento, concussione e furto – per essersi trovati fra le sue cose dei libri, alcuni dicono uno solo, della biblioteca dell’Accademia Ecclesiastica – e poi la pena di morte, commutata da Pio IX in vent’anni di carcere e in seguito nell’esilio, da cui sarebbe tornato solo nel 1870. Per il momento, nel marzo del ’49, ottenne di riorganizzare l’esercito della Repubblica su quattro brigate, abbondantemente sotto organico rispetto a quelle regolari solite, perché c’erano alle armi 7.950 fanti e 2.760 uomini tra artiglieria e cavalleria, appartenenti sia a unità regolari pontificie, sia a reparti di volontari, per un totale di 10.610 uomini, per cui in media ogni brigata passava di poco i 2.600. I volontari vennero in gran parte fusi in reggimenti regolari di fanteria di nuova formazione, cogli ordinali dal 5° all’11° (più un 12° che si cominciò a formare), in parte rimasero indipendenti. 234 Il servizio sanitario ebbe molto da fare e anche su quello, forse più che su tutti gli altri, si sarebbero poi appuntate le accuse di parte pontificia: i moribondi erano stati privati della possibilità di confessarsi, anzi, il Cappellano Maggiore e sopraintendente a tutti gli ospedali militari, padre Gavazzi “diceva non esservi bisogno di confessori né di confessioni, perché il martirio sostenuto a difesa della patria cancellava tutte le colpe e rendeva l’anima monda e netta da ogni macchia.”CCIII L’ulteriore accusa mossa alla Repubblica fu di aver prima liberato le prostitute rinchiuse all’Ospizio del San Michele e poi d’aver consentito che consolassero i feriti negli ospedali e i soldati prima del combattimento e si basava su quanto apparso nel bollettino delle leggi in ringraziamento però alle infermiere volontarie, non alle altre.
234 Alla fine la fanteria della Repubblica Romana comprendeva: due reggimenti di linea nazionali, due reggimenti di linea
svizzeri e i reggimenti 5° di linea ex 1° reggimento volontari, 6° di linea ex 2° reggimento volontari, 7° di linea ex 3° reggimento volontari, 8° di linea composto da due battaglioni e cioè il Battaglione Zambeccari e il Battaglione Reduci, i cui membri erano ex della Civica già comandata da Galletti, 9° di linea ex Reggimento Unione, anch’esso formato da veterani della Civica, 10° di linea ex Legione Romana, che però chiese di sciogliersi perché non gradiva perdere il nome per avere un numero, per cui fu ricostituito con altri elementi, 11° di linea ex Legione Emigrati, poi i tre battaglioni Bersaglieri Lombardi, Bersaglieri del Tebro e Bersaglieri del Reno, le sei legioni Emigrati o “Arcioni”, Italiana o “Garibaldi”, Straniera, Polacca, Bolognese e Volontari, o “Medici” o “Fiorentina”, il Battaglione Volteggiatori Lombardi, il Battaglione Civico Mobilizzato, il Battaglione Universitario romano mobilizzato, il Battaglione Universitario bolognese e la Colonna di Finanza moblilizzata, comandata dal capitano Callimaco Zambianchi, poi noto come “lo scellerato Zambianchi” e composta da una sessantina di uomini dalla cattiva fama, presto resa pessima fra gli stessi volontari dall’eco delle loro azioni. La cavalleria comprendeva il 1° Reggimento dragoni, il 2° Reggimento Lancieri, i Lancieri della Morte comandati dal maggiore Angelo Masini, detto “Masina”, uno squadrone di cavalleria comandato dal colonnello Boldrini e i Carabinieri e i Finanzieri a cavallo. L’artiglieria allineava i due reggimenti 1° e 2°, più un reparto di “Brulottisti”, una compagnia di Speranzini e reparti di zappatori, minatori e pontieri del genio, di marina e di piccoli reparti civici.
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Vale la pena spenderci due parole perché è un caso esemplare delle due opposte versioni. Il testo originale diceva: “Le cittadine che prima del combattimento si offersero non hanno mancato la promessa: unite ad altre molte di questa repubblicana metropoli stanno apprestando ai feriti quel balsamo che è superiore ad ogni scienza, il balsamo degli affetti più gentili del cuore.”CCIV Bene, a parte altri polemisti del tempo, 235 Luigi Bado, nel 1853, nel suo dettagliatissimo Fatti atroci dello spirito demagogico negli Stati Romani, riportava il brano tale e quale, ma lo faceva precedere e seguire da due affermazioni che ne cambiavano il senso. Scrisse che l’opera dei sacerdoti datisi volontari per confessare i soldati moribondi: “riuscì di poco o niun prò, atteso un branco di femminacce impudentissime, che sotto colore di caritatevol servigio contaminavano fin le estreme agonie de’moribondi. Di queste sfacciate i pubblici fogli di Roma predicavano meraviglie, e la Commissione incaricata della visita agli ospedali, composta di Andreini, Fantini e Cristofori non avea rossore di mettere al pubblico in un suo proclama che “Le cittadine che prima del combattimento si offersero non hanno mancato la promessa: unite ad altre molte di questa repubblicana metropoli stanno apprestando ai feriti quel balsamo che è superiore ad ogni scienza, il balsamo degli affetti più gentili del cuore” La licenza arrivò a segno che il Triumvirato medesimo mandò a cacciare dagli spedali alcune di quelle donne.”CCV Con una simile introduzione e una simile chiusa, veniva da pensare a donne che si offrivano per una consolazione molto materiale e corporea, ma un minimo di buon senso doveva far capire che un moribondo sarebbe difficilmente stato in grado di partecipare o di apprezzarla. Era evidente una voluta e maligna confusione. L’accusa iniziale alle donne era d’aver vanificato l’opera dei confessori, quella finale, confondendole artatamente con le ex-ospiti del San Michele, poi allontanate dagli ospedali per ordine del Triumvirato, era di averli sedotti e corrotti in punto di morte; e il tutto era fatto senza minimamente modificare il testo del ringraziamento originale, ma solo commentandolo in modo da far sorgere le impressioni più scandalose in chi leggeva; bella obiettività, non c’è che dire. Diverso il discorso per i finanzieri di Zambianchi. Messi su come reparto di sicurezza interna, vennero subito circondati da un alone di malvagità inaudita e fondatamente accusati di rastrellare religiosi per poi ucciderli nella loro caserma di San Callisto, un edificio religioso occupato. La pessima fama di Zambianchi lo seguì per tutta la vita. Cesare Abba lo definì “uno sterminatore di monaci sanguinario”CCVI e a lui non dispiaceva, tanto che, quando Giuseppe Bandi, l’aiutante di campo di Garibaldi nel 1860, lo incontrò per la prima volta a Talamone e sorpreso gli chiese: “Siete voi il colonnello Zambianchi? Quello che a Roma fucilava i preti per divertimento?” L’altro gli rispose con un bestemmione, seguito da un tonante: “son io.”CCVII Quanto c’era di vero? Senza entrare in disquisizioni troppo approfondite, mi limito ad osservare che la propaganda pontificia pubblicata dopo il 1849 menzionò accuratamente con nome e cognome tutti i casi di religiosi anche solo maltrattati o incarcerati dalla Repubblica e fece ammontare il numero dei sacerdoti uccisi a Roma a sei, di cui due fucilati sulla collina di Monte Mario dai Garibaldini, chiaramente per sospetto di spionaggio, per cui solo quattro – che comunque non sono pochi – andrebbero attribuiti a Zambianchi ed ai suoi finanzieri, ma di tutti questi furono tramandati i nomi di due soli, i domenicani Pellicciai e Sghirla, ucciso da Zambianchi a San Callisto il primo, fucilato a Monte Mario il secondo. 235 Ad esempio l’anonimo opuscolo di 69 pagine, Il cattolicismo e la demagogia italiana, Roma, Tipografia della Reverenda
Camera apostolica, 1849, più volte ripubblicato negli anni successivi,
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Il 28 aprile la Repubblica organizzò la polizia civile e militare radunandola tutta in un “officio speciale e generale della Polizia civile e militare” del Ministero della Guerra, agli ordini del capitano Ernesto Galvagni. Lo stesso giorno un proclama di Aurelio Saffi diretto agli ecclesiastici secolari e regolari, uomini e donne, stranamente mai citato dalla parte pontificia, chiedeva di dare due cose: quanto potevano di biancheria; e preghiere. Diceva infatti: “R.mi Cittadini e Reverende Madri…. Prostratevi intanto uniti al Dio degli eserciti, e pregate valore e vittoria ai vostri confratelli. Pregatelo fervorosamente che inspiri in cuore di molti quel santo amore di carità ineffabile , spinto dal quale discese per tornare a libertà la sua creatura: pregatelo, che, illuminando le menti ottenebrate, mostri come disconvenga imporre giogo di servitù, e come la sola carità possa indurre a piegare sinceramente la fronte al potente, e possa accendere il cuore verso di esso. Siano pubbliche le vostre preghiere, perché di esempio e vergogna a coloro che vogliono versato il sangue fraterno. L'evangelica carità ci unisca co'nodi di una fede pura, e scevra d’interessi mondani.”CCVIII Inoltre il 30 aprile i Triumviri stabilivano: “Al primo suono della campana a stormo, sarà esposto nelle principali Chiese il SANTISSIMO per implorare la salute di Roma e la Vittoria del buon Diritto.”CCIX Niente male per una Repubblica atea o supposta tale. Diciamo che, più esattamente, era una Repubblica con moltissimi atei e anticlericali e si vedeva, ma, come osservò Koelman, il Triumvirato non voleva avvalorare le accuse d’ateismo ed empietà scagliategli da Gaeta. CCX Con queste premesse, quel giorno cominciarono i combattimenti.
III) Vita e lotta della Repubblica Romana Il 30 aprile la Repubblica impartì gli ordini per la difesa della capitale, entrando nei più minuti particolari.CCXI Dal giorno prima, 29 aprile, Oudinot era davanti all’Urbe, deciso ad investirla da nord, limitatamente al tratto retrostante Trastevere ed il Vaticano. Per garantirsi i collegamenti, aveva lasciato una delle sue tre piccole brigate a Civitavecchia, per cui era davanti alle mura con circa 5.000 uomini. Non aveva abbastanza forze per un assedio regolare e il terreno gli dettava delle difficili condizioni d’approccio e attacco. Le posizioni dominanti la città erano solo due: Monte Mario e il Gianicolo, con in mezzo un tratto di pianura interrotto dalla bassa collinetta dei Giardini Vaticani. Poiché Monte Mario, privo di mura e disabitato, dominava la piana vuota sulla destra del Tevere dal Vaticano a ponte Milvio e il parallelo tratto piano sulla sponda opposta, anch’esso vuoto fino a Porta del Popolo, prenderlo era del tutto inutile. Restavano allora due sole posizioni dominanti: il Gianicolo e il Vaticano: quale scegliere? Le mura urbane erano tutte di costruzione romana, perciò verticali e di mattoni, relativamente poco spesse. Come si sarebbe visto il 20 settembre 1870, due o tre ore di cannoneggiamento potevano bastare a farvi delle brecce. Questo valeva dovunque meno che nel tratto sul Gianicolo, da San Pietro a Porta Portese, dove i lavori eseguiti dal cardinal Maculano per ordine d’Urbano VIII al tempo della Guerra di Castro le avevano ammodernate e rese difficili da prendere e, essendo arrivato dall’Aurelia, Oudinot proprio quelle aveva davanti. Per entrare in città – come avrebbe tentato Garibaldi diciott’anni dopo e come avrebbe fatto Cadorna nel 1870 – gli sarebbe convenuto passare sulla sponda sinistra del Tevere, ma questo si poteva fare solo allargandosi fino a Ponte Milvio e lui non aveva abbastanza uomini. Non solo, se si fosse spostato, avrebbe offerto ai Romani la possibilità di prenderlo di fianco e alle spalle schiacciandolo contro il fiume. Restava l’attacco alle mura da nord e, data la maggior robustezza di quelle del Maculano sul Gianicolo, scelse di puntare contro il Vaticano e si preparò. 303
Il suo piano però si basava su due dati errati: che i Romani sarebbero insorti contro la Repubblica accogliendo i Francesi liberatori – come era stato raccontato alle truppe – e che convenisse assalire le mura concentrandosi su Porta Pertusa. Questa però era chiusa da un po’ di tempo e, anzi, appena noto lo sbarco francese, era stata murata saldamente, per cui non poteva più essere aperta altro che battendola in breccia, come un qualsiasi tratto di mura. Non sapendolo e convinto di poter concludere bene e in fretta, Oudinot il 30 passò all’azione. Fu un disastro. Agì con due colonne: una su Porta Pertusa e l’altra su Porta Angelica. Arrivati a Porta Angelica sotto il fuoco dei difensori e presi d’infilata da Castel Sant’Angelo, i Francesi, per non rompersi il collo contro il castello, provarono a scalare le mura della Città Leonina: vennero buttati di sotto e respinti in mezz’ora. L’altra colonna, arrivata a Porta Pertusa e bersagliata da un fuoco micidiale, si rese conto di non poterla prendere; di gran carriera si incuneò a destra, fra il Vaticano e il Gianicolo per provare da Porta Cavalleggeri e finì sotto il fuoco incrociato delle difese del Gianicolo e del Vaticano. Visti i nemici imbottigliati, Garibaldi ordinò la sortita da Porta San Pancrazio, per scendere lungo le mura e prenderli di fianco. Uscirono per primi gli Studenti del Battaglione Universitario, colla Legione Italiana dietro. Cozzarono contro i 1.000 uomini del 20° di Linea francese messi a copertura della colonna in azione contro Porta Cavalleggeri e ripiegarono di poco. Garibaldi chiamò la riserva. La comandava il colonnello Galletti e aveva tre battaglioni regolari; gliene mandò uno, il migliore, i reduci del Veneto, coi quali Garibaldi attaccò alla baionetta e travolse i Francesi. Crollata l’ala destra, che per di più gli presidiava l’Aurelia, Oudinot dové piantare tutto e ritirarsi letteralmente di corsa verso nord, per non essere circondato. Commentò Garibaldi: “... egli attaccò non in altra guisa che se non vi fossero stati baluardi, e se questi fossero stati guerniti con bimbi.... I Francesi giunti sotto le nostre posizioni dei Casini furono ricevuti dai fuochi incrociati dei nostri posti... ma giunti a noi rinforzi da dentro, si caricò il nemico con vigore sinchè voltò in ritirata precipitosa. Il cannone delle mura ed una sortita dei nostri... completarono la vittoria. Il nemico lasciò alquanti morti 236 e varie centinaia di prigionieri, ritirandosi sconquassato e senza fermarsi sino a Castel di Guido”,CCXII Finita la sua ritirata di circa 20 chilometri lungo l’Aurelia. Oudinot, che aveva perso il 12% delle sue forze in teatro e circa il 14,5% di quelle impegnate, domandò una tregua. Garibaldi inoltrò il parlamentare al Triumvirato, accompagnandolo con un parere negativo: accogliere la richiesta avrebbe consentito al nemico di ricevere rinforzi, prepararsi meglio ad un nuovo attacco e conservare l’iniziativa, mentre “Noi avressimo potuto, profittando della sua debolezza e della sua paura, ricacciarlo in mare; e poi avressimo fatti i conti.”CCXIII Non gli fu data retta e venne commesso il primo degli errori che avrebbero portato alla caduta della Repubblica. Amareggiato, scrisse poi Garibaldi: “Se Mazzini – e non si deve incolpare ad altri – avesse avuto la capacità pratica, com’era prolisso nel progettare movimenti ed imprese; e se avesse poi – ciocchè pretese sempre di avere – il genio di dirigere le cose di guerra; se, di più, egli si fosse tenuto ad ascoltare alcuni de’suoi che dai loro antecedenti si potevan supporre conoscitori di qualche cosa, egli avrebbe commesso meno errori, e, nella circostanza che sto narrando, avrebbe potuto, senò salvare l’Italia, almeno ritardare la catastrofe romana indefinitamente.”CCXIV
236 Trecento morti, 150 feriti e 365 prigionieri, a fronte di 200 tra morti e feriti italiani.
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Obbiettivamente Mazzini aveva delle ragioni politicamente infondate e militarmente invalide, che però a lui sembravano solidissime. Contava sulla reazione degli estremisti repubblicani francesi contro la spedizione, voluta dai settori conservatori e mandata dal principe presidente Luigi Napoleone, per cui era certo che i sentimenti repubblicani della sorella latina avrebbero prevalso, mutando l’intervento in un sostegno alla Repubblica Romana, tanto più necessario da quando gli Austriaci avevano iniziato a concentrarsi sul Po. Come scrisse chi lo conosceva personalmente, ad esempio Giovanni Visconti Venosta, purtroppo Mazzini ascoltava solo ciò che voleva sentirsi dire e non dava la minima retta a chi cercava di spiegargli la realtà delle cose. Questo di Roma fu il caso esemplare – e il peggiore – di tanta sua sufficienza e se ne videro presto le conseguenze. Luigi Napoleone mandò Ferdinand de Lesseps,237 il futuro realizzatore del Canale di Suez, a blandirlo con delle trattative, di per sé inutili, il cui vero scopo era prendere tempo per rinforzare il corpo di spedizione francese. Nel frattempo Garibaldi aveva cercato di spiegare come stavano le cose; aveva ottenuto solo il permesso di affrontare i Napoletani ormai ai Castelli Romani, ma, beninteso, con poche forze e non andando troppo lontano. Uscito da Roma il 5 maggio con 2.300 uomini,238 Garibaldi aveva davanti a sé un bel problema. Ferdinando II, giunto da Terracina risalendo l’Appia, occupava Frascati e Albano con due forti colonne ed era vicinissimo a Roma. Attaccarlo frontalmente non si poteva, sia per la sua superiorità numerica, sia perché stava su posizioni dominanti qualsiasi direttrice d’attacco; di conseguenza Garibaldi agì d’astuzia. Marciò ad est lungo la Tiburtina come se volesse invadere l’Abruzzo. I Napoletani si preoccuparono e, scoperto che da Tivoli aveva piegato a destra, cioè a sud, e stava dirigendosi verso Palestrina, come se volesse portarsi alle loro spalle, si mossero contro di lui per ricacciarlo a Roma. Lo scontro avvenne a Palestrina, dove Garibaldi li attendeva. Palestrina sta in cima a un colle ripidissimo. E’ una posizione naturalmente forte, che si può bombardare ma non conviene attaccare: i Napoletani l’attaccarono il 9 maggio verso mezzogiorno, con due colonne condotte dal colonnello Novi e dal generale Lanza, che si sarebbe trovato di nuovo contro Garibaldi in Sicilia nel 1860. I Garibaldini aspettarono fuori dalle mura. Manara si sbarazzò della colonna Novi in quattro e quattr’otto, Garibaldi, in tre ore e dopo un combattimento abbastanza lungo, obbligò Lanza a ripiegare, lasciando sul campo una trentina di uomini. Nei giorni successivi, giunto a Roma de Lesseps, Oudinot fece sapere a Ferdinando II d’aver concluso una tregua fino al 4 giugno e di dover rifiutare il suo appoggio per motivi politici, perciò il 17 i Napoletani incominciarono a ripiegare. Tanto bastò perché il Triumvirato, sentendosi sicuro dal lato francese per via della tregua, decidesse l’invasione del Regno di Napoli. La mossa era aleatoria. Poteva dare dei buoni risultati a condizione d’agire con decisione e in fretta, ma non fu così. Apparentemente fu compiuto un grosso sforzo, mettendo in campagna circa 8.000 uomini, i tre quarti dell’esercito; in realtà venne fatto il solito pasticcio da politicanti, perché a capo di quelle forze non fu messo Garibaldi, ma Pietro Roselli. Roselli era un’onestissima persona. Ufficiale inferiore del Genio Pontificio, era stato capitano e poi maggiore dei volontari in Veneto. Aveva una profonda preparazione teorica, ma ben poca pratica di combattimento, come del resto era ovvio per un ufficiale del Genio. Poiché andava bene a Mazzini, era stato richiamato dalle Marche, dove la Repubblica l’aveva inizialmente mandato col grado di colonnello a combattere il brigantaggio alla testa di dieci compagnie, e, il 14 maggio, il giorno dopo il suo rientro a Roma, era stato promosso generale di divisione comandante in capo dell’Esercito, scavalcando Garibaldi, rimasto generale di brigata. Una tale improvvisata fu giustificata dalla ragione, non infondata, che, 237 Giunse a Roma il 15 maggio. 238 La sua Legione Italiana, il battaglione Universitario, il Battaglione Bersaglieri Lombardi di Luciano Manara e i Lancieri
della morte del colonnello Masina.
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essendo un ufficiale pontificio, sarebbe stato meglio accetto alle truppe regolari e che era bene avere un romano alla testa dell’esercito romano. Sia come sia, militarmente parlando, Roselli era un’incognita, Garibaldi no, per cui, in una situazione così delicata, sarebbe stato meglio andare sul militarmente sicuro, anziché sul politicamente corretto. Il 16 maggio le truppe romane uscirono dall’Urbe per agganciare e battere i Napoletani. All’alba del 19 l’avanguardia degli 8.000 romani, comandata da Garibaldi, li individuò a Velletri, in ritirata lungo l’Appia e vicini ad entrare nelle Paludi Pontine, dove sarebbe stata impossibile qualsiasi mossa. Garibaldi avvertì Roselli, il quale aveva ordinato di non attaccare se non colle forze riunite, e, nonostante la marcata inferiorità di forze, impegnò il combattimento. I 40 lancieri di Masina, assaliti da una forte colonna di cavalleria napoletana, non ressero e si sbandarono, travolgendo lo stesso Garibaldi. L’intervento dei volontari di fanteria respinse i nemici e consentì ai Romani di ricacciare i Napoletani in città e sull’altura dei Cappuccini, però non poterono fare di più, perché troppo inferiori di forze. Che era successo? Scrisse Piero Pieri: “E invano Garibaldi aspettava l’arrivo del grosso: il Roselli, inferocito per la disubbidienza del “corsaro”, aveva tardato a mandare i soccorsi e quando finalmente a sera egli si trovò col grosso sul posto di combattimento, non volle saperne né di attaccar subito la cittadina, né di procedere a una nuova minore azione avvolgente per disturbare quanto si potesse la ritirata nemica. così si perse la bella occasione d’infliggere una batosta all’esercito di “re bomba”.”CCXV Ne sarebbe nata una polemica di anni fra Roselli, poi divenuto generale dell’Esercito Italiano, e Garibaldi. Per il momento, però, nonostante l’impegno e la combattività dimostrate da entrambe le parti, le perdite erano state molto basse ed i Napoletani poterono sganciarsi senza troppi danni, ritirandosi poi ordinatamente verso Sud con una trentina di prigionieri. Roselli fu richiamato a Roma col grosso, ma si incaricò Garibaldi di invadere il Regno di Napoli. Era una buona mossa; ma quando coi suoi arrivò a Rocca d’Arce, quando: “tutto infine presagiva molta probabilità di successo nello spingersi audacemente avanti. Ebbene, un ordine del governo romano ci richiamava a Roma, minacciata nuovamente dai Francesi.... Se colui che, dietro il mio parere, mi lasciava marciare e vincere a Palestrina, se egli, poi, non so per qual motivo, mi facea marciare a Velletri agli ordini del general in capo Roselli; se Mazzini, infine, il cui voto era assolutamente incontestabile nel Triumvirato, avesse voluto capire che anch’io dovevo sapere qualche cosa di guerra, avrebbe potuto lasciarlo, il generale in capo, a Roma, incaricarmi solo dell’impresa... e lasciarmi invadere il Regno napoletano.”CCXVI Ad ogni modo, per prevenire possibili attacchi, l’esercito borbonico a fine maggio, grazie anche all’arrivo di truppe resesi disponibili dalla Sicilia, si era schierato su due divisioni, una a San Germano, vicino a Cassino, e l’altra nella zona di Gaeta, forti complessivamente di 14.500 fanti, 1.500 cavalieri e 28 pezzi d’artiglieria, in modo da poter proteggere pure lo sbarco – proprio a Gaeta – del corpo di spedizione spagnolo. Ma i Napoletani non avevano più nulla da temere, grazie ai Francesi. Mentre la Repubblica aveva circa 13.000 uomini con 108 pezzi, sparsi a presidiare 30 chilometri di fortificazioni, Oudinot aveva profittato della tregua per eseguire degli ampi lavori d’assedio e portare i suoi a 30.000 con 76 cannoni. Il 1° giugno comunicò che la tregua era scaduta ma che avrebbe attaccato la piazza solo il 4 giugno. Poi, nella notte dal 2 al 3 giugno, circa 48 ore prima della scadenza da lui indicata, Oudinot aveva assalito le posizioni del Gianicolo, dalle quali si dominava la città, prendendo 306
Villa Pamphili, il convento di San Pancrazio e Villa Corsini nota pure come Casino dei Quattro Venti, da cui, purtroppo, si dominavano le mura intorno a Porta San Pancrazio.239 Avvertito in città, Garibaldi andò prima a Porta Cavalleggeri per tentare da là un contrattacco, ma si rese conto dei rischi d’avvolgimento operando dal basso in alto verso il Gianicolo, perciò accorse sul colle e, adoperando tutte le migliori forze che via via arrivavano a sua disposizione, alle 5,30 lanciò il primo contrattacco contro Villa Corsini; quella era la chiave e fu attaccata “non con bravura, ma con eroismo, dalla prima Legione Italiana al principio, dai bersaglieri di Manara poi, e finalmente da vari altri corpi, successivamente sostenuti dalle artiglierie delle mura fino a notte chiusa... ma finalmente, sopraffatti dal numero sempre crescente, i nostri furono obbligati alla ritirata ... il 3 giugno decise della sorte di Roma.”CCXVII Alcuni hanno definito quel che successe dopo come una serie di “assalti magari eroici ma molto dispendiosi e improduttivi”, però non c’era scelta; andavano lanciati perché o si riprendevano le posizioni, o la Repubblica era perduta. Questo ai militari di entrambi gli schieramenti era chiaro, ai politici no. Forse avrebbero preferito un’altra soluzione, ma non si capisce quale potesse essere; certo non lo scontro in campo aperto con poca cavalleria e un’inferiorità numerica di 1 a 3 a vantaggio dei Francesi. Questi ultimi, che si erano estesi fino a Ponte Milvio, vedendoselo saltare davanti agli occhi, continuarono a premere con tutte le loro forze sul Gianicolo e i Romani a resistere quanto potevano, lanciando assalti d’alleggerimento e contrattacchi in tutti i modi, ma non servì a nulla, la sproporzione era troppa. Il 30 giugno cadde l’ultima posizione dominante, Il Vascello, crivellata dai colpi e ridotta ad un ammasso di macerie. Allora Oudinot poté piazzare le sue artiglierie sulla cresta del Gianicolo, all’interno della cinta di mura, così da dominare l’intera città e intimare la resa pena la distruzione. Alle 12 del medesimo giorno fu firmata la tregua; il 3 luglio i Francesi entrarono a Roma alle quattro del pomeriggio. La stessa mattina Garibaldi era uscito dalla città per la via Tiburtina, diretto a Tivoli con 4.000 uomini, deciso a non arrendersi e a raggiungere Venezia. Ma “Io m’accorsi ben presto che non c’era voglia di continuare nella gloriosa e magnifica impresa.”CCXVIII Infatti, strada facendo, la colonna si disfece, tanto da ridursi a 2.500 uomini in sei giorni, coi Francesi alle calcagna e gli Austriaci davanti. Svicolando tra le unità austriache e francesi, il 31 luglio Garibaldi raggiunse San Marino, dove sciolse la sua colonna, cercando poi di raggiungere Venezia con circa 250 uomini. Le autorità di San Marino si trovarono immediatamente gli Austriaci al confine. Ne vennero fuori nel miglior modo possibile, preservando l’integrità della Repubblica, trattando alla pari cogli Austriaci e proteggendo quanti più Garibaldini poterono, solo che quanto poterono non fu moltissimo. Garibaldi intanto si era spostato quasi subito sulla costa per imbarcarsi. Braccato dalla squadra austriaca al largo della foce del Po, riuscì a prendere terra giusto in tempo per veder morire sua moglie a Mandriole, nei pressi di Ravenna, il 4 agosto 1849.
239 Fin dal 30 aprile Garibaldi ed Avezzana avevano stabilito di far fortificare meglio quella zona, ma, dopo l’uscita di
Garibaldi da Roma, Avezzana era stato mandato ad Ancona e nulla era stato fatto. A parte questo, il 2 giugno Roselli, convinto, come molti, che i Francesi includessero villa Pamphili nella piazza, benché fosse oltre le mura, stando a Pieri disse ai 400 uomini del presidio “che non occorre vigilanza, perché i francesi hanno promesso di non attaccare che lunedì mattina!”, cfr, PIERI, op. cit., vol. 2° pag. 427. Di conseguenza quando, alle tre del mattino del 3 giugno, la colonna del generale Levaillant giunse a Villa Pamphili, trovò il cancello aperto, il presidio addormentato, salvo le sentinelle, e non dové nemmeno far saltare una parte del muro di cinta come toccò all’altra colonna del generale Mollières. Peggio: sicuri della lealtà dei Francesi, Roselli e il Triumvirato avevano tenuto le truppe negli alloggiamenti in centro città, mentre Garibaldi, sofferente per i postumi della ferita avuta il 30 aprile, era a casa a Piazza di Spagna.
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Sfuggito alla cattura con un lungo viaggio organizzatogli dalla Trafila patriottica attraverso l’Appennino e la Toscana, riparò a Genova e ricevé l’intimazione d’andare all’estero per evitare complicazioni politiche. Si sottomise e lasciò l’Italia. Sarebbe tornato nel 1854 dopo aver soggiornato in Africa ed America ed essersi recato fino in Cina e nella Nuova Zelanda. I resti dei suoi si sparpagliarono verso il Po, cercando di raggiungere Venezia. Quasi tutti furono rastrellati dagli Austriaci e molti prontamente fucilati. Giovanni Livraghi e Ugo Bassi lo sarebbero stati a Bologna l’8 agosto. Ciceruacchio nella notte del 10 agosto a Ca’ Tiepolo, insieme ad altri sette, fra cui i suoi due figli Lorenzo, di tredici anni e, Luigi, l’uccisore di Pellegrino Rossi.240
IV) La fine in Emilia e ad Ancona Mentre i Francesi erano ancora fermi davanti a Roma, Radetzky ordinò al maresciallo Wimpffen di ristabilire il potere pontificio a Bologna. Wimpffen con 8.000 uomini e un buon parco d’artiglieria si mise in movimento nella prima settimana di maggio e raggiunse la città. Il Comitato di Salute Pubblica decise di resistere, ma aveva poche forze, per cui ordinò di concentrare in città tutti i carabinieri, le guardie di finanza e le guardie nazionali dei dintorni, sottoponendoli all’appositamente costituito comitato di difesa e unendoli ai circa 2.000 regolari che aveva.241 L’8 maggio Wimpffen fece una ricognizione a Bologna sperando di poterci entrare senza combattere. Fu respinto a cannonate. Si allontanò, chiese rinforzi e nell’attesa piazzò le artiglierie e iniziò a bombardare la città. Danni e vittime nell’arco di sei giorni fecero vacillare lo spirito di resistenza. Intanto le autorità della Repubblica Romana, in particolare Zambeccari da Ancona, stavano cercando di mandare dei rinforzi ed iniziarono a concentrarli in Romagna. Saputo del loro imminente arrivo, i cittadini bolognesi improvvisarono una colonna di varie compagnie e tre cannoni per andare ad incontrarli e la fecero uscire il 14 maggio. Fu una mossa imprudente: Wimpffen la intercettò e la sconfisse, tagliando le comunicazioni fra la città e l’esterno. L’arrivo da Mantova dei rinforzi austriaci condotti dal generale Gorzowski aumentò gli assedianti a 16.000 uomini con 36 cannoni. Bologna fu bombardata con maggior violenza dalla mezzanotte del 15 maggio al primo pomeriggio del 16, quando una deputazione della città si recò a negoziare la resa. Fu imposta la consegna di tutti i cannoni e concesso il mantenimento in servizio dei carabinieri, dei civici e della linea per garantire l’ordine pubblico, a condizione che le truppe regolari giurassero a Pio IX. Wimpffen si diresse poi ad Ancona, lasciando a Bologna Gorzowski, che instaurò a Villa Spada un suo Imperial Regio Governo civile e militare e avrebbe in seguito ordinato di fucilare Bassi e Livraghi l’8 agosto, come vendetta della disfatta dell’anno prima, esattamente nel giorno del primo anniversario della Montagnola. Intanto Wimpffen, giunto rapidamente ad Ancona, la investì a partire dal 24 maggio. Aveva 11.000 uomini, articolati in tre brigate, comprendenti dieci battaglioni di fanteria, quattro squadroni di cavalleria e 43 cannoni di tre batterie a piedi e di quattro pesanti del parco d’assedio ed era appoggiato da una squadra navale.
240 Alcuni hanno ancora dei dubbi su chi abbia ucciso Pellegrino Rossi, ma l’accurata ricostruzione di Gustavo Brigante
Colonna nella sua biografia di Rossi – cfr. in bibliografia – non lascia dubbi. Pur se Luigi Brunetti non fu uno dei tre supposti assassini acclamati dalla folla subito dopo l’omicidio, in poco tempo venne indicato come l’esecutore materiale con tanta sicurezza da indurlo a cambiare nome nel lasciare Roma al seguito di Garibaldi; infatti fra i fucilati di Ca’ Tiepolo risultò come Luigi Bossi di Terni. 241 Le forze della Repubblica a Bologna comprendevano il 4° reggimento di linea e un’aliquota del 7°, la Legione Bolognese, un distaccamento del Battaglione Bersaglieri del Tebro, il Battaglione Universitario bolognese, lo squadrone di cavalleria del colonnello Boldrini e alcuni piccoli reparti civici.
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Zambeccari aveva 113 cannoni, ma solo circa 4.000 uomini242 e una lunghissima cinta difensiva da presidiare. Privo di una vera marina, cominciò col chiudere la bocca del porto con pontoni armati e catene,243 incrementandone le difese con dieci cannoni. Dal lato di terra fece riattare il campo trincerato, costruire la Batteria Dorica ed erigere una cortina a feritoia dal Gardeto al Forte dei Cappuccini. Come ho detto, l’assedio cominciò il 24 maggio, quando le brigate Pfanzelter, Arciduca Ernesto e Thun iniziarono i lavori d’approccio rispettivamente contro la Montagnola, il Posatore e le Torrette. Nell’ultima settimana di maggio, nonostante il tiro di disturbo delle artiglierie della piazza, gli Austriaci posero una batteria di sei obici sul Monte Pulito, una di sei cannoni sullo Scrima e una di racchette, cioè di razzi, su Monte Marino. Completato il lavoro il 29 maggio, il 30 tutte le batterie aprirono il fuoco d’inquadramento dei bersagli e di copertura dei piccoli attacchi d’assaggio. La città si difese bene e respinse i primi due tentativi nemici il 1° e il 2 giugno sulle alture del Gardeto. Poi Wimpffen ricevé fra il 2 e l’11 giugno altri otto mortai, dieci obici e 14 cannoni, mettendoli in azione il 12 giugno con un intenso bombardamento che danneggiò le fortificazioni. Il 15 lanciò un primo attacco, ma Zambeccari lo respinse. Il 16 riprese il bombardamento con 52 pezzi: 22 da Monte Pulito, 18 da Monte Marino e 12 da Monte Scrima e proseguì ininterrotto fino alla sera del 18, quando, visti i danni enormi e gli incendi che devastavano la città, il municipio ottenne che si trattasse la resa. La guarnigione capitolò con buoni patti: aveva perso 39 morti e 112 feriti, mentre i cittadini contavano un centinaio fra morti e feriti. Gli Austriaci entrarono in Ancona il 21 giugno, dopo l’uscita del presidio. Ci sarebbero rimasti dieci anni.
242 La guarnigione d’Ancona, comandata da Zambeccari, comprendeva l’aliquota del 7° di linea il cui resto era a Bologna, un
distaccamento dell’8° di Linea e un distaccamento dei Bersaglieri del Tebro, per un totale di quattro battaglioni (uno era quello del Comando Generale), per un totale di 19 compagnie, più un piccolo distaccamento della “Marina della Repubblica” di 31 uomini, una compagnia di Zappatori, una di Pionieri e un piccolo reparto di Guardia Nazionale di Marina al Porto. 243 La bocca del porto era allora assai diversa. Protetta dalla Batteria della Lanterna, che fu migliorata dopo il 1849 dalle truppe d’occupazione e dal Governo Pontificio e distrutta dalla Marina Sarda durante l’assedio del 1860, era più larga. Nel 1918 fu dimezzata dagli originali 300 ai più difendibili 150 metri coi lavori per ospitare la unità maggiori della Squadra da Battaglia, quando la Regia Marina prolungò i due pennelli all’ingresso e fece scavare la metà settentrionale dello specchio d’acqua del porto, aumentandone la profondità dalla massima di 8,10 e minima di 6,10 metri, con un bassofondo di 4,30 al centro, a una fissa di 8,50 metri, così da consentirvi lo stazionamento a unità anche di 8 metri di pescaggio.
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Capitolo XXIV Lo Stato e l’Esercito Pontificio dall’estate del ’49 alla guerra del ‘59
I) Lo Stato Pontificio del decennio 1849-1859 L’occupazione austriaca di Bologna e francese di Roma fu seguita da un periodo istituzionalmente complesso, in cui fu tentato un ammodernamento dello Stato con scarsi risultati. Pio IX rientrò a Roma assai tardi, nella primavera del 1850, e prima del suo ritorno la città e lo Stato furono retti da due poteri diversi. Quello politico-religioso, ricordato come “triumvirato rosso”, e da qualcuno come “terrore rosso”, dal colore delle vesti e dall’atteggiamento dei tre cardinali Altieri, Vannicelli e della Genga, che formavano la Commissione di Stato, cioè il governo provvisorio, sedeva al Quirinale e governava in nome del Papa. Quello politico-militare era esercitato dalle truppe d’occupazione, francesi a Roma e nel Lazio, austriache in Emilia, Romagna e ad Ancona. Poiché sia i cardinali che le autorità d’occupazione controllavano l’ordine pubblico, il servizio di polizia si trovò di fatto sdoppiato: da un lato quello pontificio, dall’altro quello straniero, che a Bologna avrebbe tolto lo stato d’assedio solo nel 1857. Il periodo presentava i problemi di denaro e d’ordine pubblico tipici di ogni dopoguerra, perché tale era a tutti gli effetti, ai quali si sommava quello della struttura ecclesiastica del potere civile e politico. La finanza era il tasto più dolente. La Repubblica aveva emesso sette milioni di scudi in buoni del tesoro assai deprezzati e coll’interesse nominale del 20%. A questi sette si sommava un altro milione e mezzo emesso dalla banca pontificia. Se ne annunciò il ritiro entro il mese di settembre, mediante scambio con buoni d’una nuova emissione a dieci anni, all’interesse del 5%. Chi non lo seppe o non arrivò in tempo si trovò in mano carta straccia. Poi fu inaugurata una restrizione di spese per l’epoca considerata forte, accompagnata da un altrettanto duro incremento delle tasse dirette e indirette, che comunque restarono uno scherzo in confronto a quelle imposte dopo il 1870 dal Regno d’Italia. Nell’arco di soli sei anni il bilancio dello Stato passò da un disavanzo di 1.756.745,41 scudi nel 1852 a un avanzo di 101.429 scudi nel 1858, su un’entrata salita dai 10.473.129,90 del 1852 ai 14.653.999 scudi del 1858. Per combattere l’abbondante elusione dei dazi, che incideva pesantemente sul gettito delle imposte indirette fu potenziata la Guardia di Finanza, con alcuni accorgimenti. Scalzato dalla Repubblica, il vecchio sistema amministrativo e militare era stato ripristinato in blocco dall’ordinanza del Triumvirato Rosso del 2 agosto 1849, con cui si annullava tutto quanto era stato fatto dopo il 16 novembre 1848 e si epurava la Guardia di Finanza, espellendone 500 membri e riorganizzandola completamente col nome di Truppa Doganale e la forza di 1.540 uomini. 244 Dal 15 luglio 1850 si riorganizzarono i carabinieri col nome di Gendarmeria e si creò un “Consiglio di Censura”, incaricato di valutare il comportamento degli impiegati militari e civili negli ultimi nove mesi. L’eco negativa avuta all’estero dal provvedimento si vide nello stesso mese, con la comparsa d’una lettera in apparenza privata, di fatto aperta, di Luigi Napoleone datata 18 agosto. Scrivendo prudentemente non al Papa, né all’ambasciatore straordinario e comandante del corpo d’occupazione francese a Roma generale Baraguey d’Hilliers, ma a un suo vecchio amico, il colonnello Ney, il principe-presidente diceva che l’intervento francese si sarebbe dovuto risolvere in un’amnistia generale, nella secolarizzazione dell’amministrazione pontificia, nel rientro in vigore del codice napoleonico e nella nascita d’un governo laico. 244 Avvenne cogli Ordini del giorno del Pro Ministro delle Finanze del 1° ottobre 1849 Con cui si fissano l’organico e le
competenza della Truppa Doganale e del 12 ottobre 1849 Graduale numerativo della forza che dovrà comporre il riformato Corpo della Truppa Doganale.
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Se tutto questo fosse stato imposto da Parigi a Roma, forse si sarebbe avuto qualche risultato, però al prezzo di uno scontro fra Papa e Presidente, che avrebbe potuto alienare a Napoleone l’appoggio dei cattolici francesi, perciò lo si poteva solo suggerire. La Santa Sede lo capì benissimo e si regolò di conseguenza. Prese dei provvedimenti di pura facciata e corta durata, i cui effetti furono pochi in campo economico, nulli in ambito politico e minimi in quello amministrativo civile e militare. Pio IX fece ridurre i ministeri a cinque e ne affidò quattro a dei laici, di poca esperienza e del tutto sottomessi al potere ecclesiastico. Ministro delle Armi fu il principe Domenico Orsini. Di eserciti e marina non sapeva nulla, accettò solo per spirito d’ubbidienza e, benché coadiuvato dal pro-ministro generale Guillaume de Kalbermatten, si dimise appena poté. Gli altri ministeri furono quello dell’Agricoltura, Commercio, Industria, Lavori pubblici e Belle arti, quello di Giustizia, quello delle Finanze e, unico a un ecclesiastico, e non per caso, quello dell’Interno e Polizia, affidato a monsignor Savelli. I risultati furono minimi. Il bilancio migliorò, ma l’amministrazione rimase lenta, disordinata, nepotistica e incapace. Si pensò alle comunicazioni iniziando la rete telegrafica, introducendo i francobolli nel 1852, migliorando i porti di Ravenna, Cesenatico, Senigallia e Ancona, costruendo una mezza dozzina di fari e un paio di grandi ponti, curando le strade, stabilendo il rimorchio controcorrente sul Tevere, da Fiumicino al porto di Ripagrande a Roma in sette ore, facendolo coincidere con le partenze e gli arrivi dei bastimenti a Fiumicino, cosa mai fatta prima, per cui il viaggio per mare da Roma a Napoli scese a sole 24 ore. Nel medesimo periodo si cominciarono a costruire le ferrovie, cui, per gli alti costi, lo Stato Pontificio era stato refrattario sotto papa Gregorio e nel primo decennio di Pio IX. Però proprio Pio IX era rimasto così entusiasta del viaggio in treno sulla Napoli-Portici da affermare di volerle introdurre nei suoi Stati. Poiché dirlo era una cosa e farlo un’altra, solo nell’ottobre 1857 fu inaugurata la prima linea pontificia, la RomaFrascati.245 Un anno e mezzo dopo, il 16 aprile del 1859, sarebbe stata inaugurata la Roma-Civitavecchia con testa a Porta Portese, sulla riva destra del Tevere, là dove il fiume usciva dalla città e si trovava l’antico arsenale fluviale della flotta pontificia. Aperta al pubblico il 24 aprile, di tutte le linee ferroviarie papali era l’unica veramente importante ai fini militari, perché Civitavecchia continuava ad essere il solo porto dello Stato in cui potesse sbarcare un corpo di spedizione francese di soccorso, come si era visto nel 1849 e si sarebbe rivisto nel 1867 in occasione dei fatti di Mentana. Tutto questo poteva apparire notevole, ma non riusciva a portare lo Stato Pontificio a un ammodernamento simile a quello dell’Italia centrosettentrionale. I 3.124.669 abitanti censiti nel 1853 vivevano in condizioni non floride, usufruivano di servizi e infrastrutture scarsi o inesistenti ed erano afflitti da un alto livello di criminalità, dovuto in parte ai briganti, in parte a motivi politici. Furti, rapine a mano armata, grassazioni, sequestri di persona, estorsioni e attentati erano sempre cosa abituale in tutto lo Stato.246 Per tutto il primo anno d’occupazione, a Roma di frequente si rinvennero soldati francesi morti nel Tevere: annegati, di solito; in realtà fatti prima ubriacare e poi spinti nel fiume, quando non accoltellati di notte; politica, furto o entrambi? Gli accoltellamenti continuavano in Romagna, pur se con minore intensità. Come in passato, era difficile capire fin dove fosse colpa dei Carbonari e dei Mazziniani, e da dove cominciasse la matrice delinquenziale pura e semplice. Ai primi si poteva ascrivere l’attentato con una bomba di vetro nel mazzo di fiori presentato ai giovani principi Bonaparte di Canino, in quanto cugini di chi aveva mandato i Francesi a Roma; ma era patriottica o criminale l’aggressione subita dal colonnello dei gendarmi Nardoni la mattina del 19 luglio 1850? Nell’uno e nell’altro caso le vittime erano sopravvissute. I due giovani 245 Poiché la linea partiva a Roma dalla stazione di Porta Maggiore, all’esterno delle mura,
ed arrivava a Frascati alla stazione di Campitelli a tre chilometri dal centro cittadino, Pasquino commentò che "non partiva da Roma e non arrivava a Frascati”. 246 Basta dare un’occhiata a un qualsiasi diario del tempo, come i due volumi della Cronaca di Roma di Nicola Roncalli.
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Bonaparte erano rimasti feriti non gravemente; Nardoni aveva reagito mettendo in fuga gli accoltellatori e facendone arrestare uno con due complici. In altri casi, numerosi, gli autori non venivano scoperti; così non si scoprì mai chi fece scoppiare una bomba davanti a casa di monsignor Tizzani, capo dell’autorità di polizia di Roma, né chi accoltellò a morte il cancelliere della Consulta Marco Evangelisti, certo colpito perché sottoscriveva le condanne a morte e perché – si diceva – avesse informato segretamente, colla complicità del fratello, ufficiale dei dragoni, il Consiglio di Censura su quanti, militari e civili, si erano compromessi con la Repubblica Romana. Insomma, l’aria che tirava per il governo papale non era buona in nessuna parte dello Stato e in nessuna delle tre categorie sociali, perché tutte lo intuivano morente, benché non fosse facile capire quanti gli fossero pro e quanti contro. L’aristocrazia sembrava per la massima parte leale, ma forse quella massima parte era solo attendista. La borghesia sapeva di non potersi aspettare alcun miglioramento in un futuro ragionevolmente breve, ma una parte di essa dipendeva dallo Stato che si voleva distruggere, per cui nella stessa famiglia si potevano trovare facilmente sudditi leali e cospiratori convinti. Lo stesso valeva per il popolo: alcuni erano nettamente contrari, altri fedeli all’eccesso, tutti pericolosamente instabili e violenti, come si era visto nel 1848 e di nuovo si sarebbe visto il 20 settembre 1870. In sostanza, come sempre e ovunque, a Roma e nelle città, in tutte e tre le classi, da un lato c’erano i sostenitori del Papa, dall’altro quelli dell’Italia, in mezzo una gran massa amorfa, in attesa di capire e schierarsi con chi avrebbe vinto, o semplicemente più occupata a sopravvivere che a porsi domande. Nelle campagne prevaleva invece l’attaccamento al Papa, non necessariamente identificato con la Santa Sede. Il governo reagì a Roma e in provincia con misure di polizia pesanti. Nella capitale la polizia del corpo d’occupazione fece lo stesso. Gli omicidi e i detentori di armi furono condannati alla fucilazione, ma l’insicurezza era palpabile, non bastavano le truppe d’occupazione a eliminarla, di conseguenza si decise di riorganizzare e potenziare le forze armate. II) L’Esercito pontificio del decennio 1849-1859 Appena entrati i Francesi, uno dei loro primi atti era stato l’ordine generale del 14 luglio 1849 a firma Oudinot, con cui le truppe dell’esercito pontificio, avessero o meno combattuto per la Repubblica, venivano riconosciute alleate a tutti gli effetti e messe per il momento agli ordini del generale Levaillant, comandante la 1ª Divisione francese. 247 Si trattava di circa 8.000 uomini. Molti si eran battuti in Veneto e poi per la Repubblica contro lo stesso Oudinot, il quale era abbastanza avveduto da sapere che non gli conveniva affatto né imprigionarli – erano troppi – né, specie finché erano armati, metterli in subbuglio con epurazioni che comunque non spettava a lui fare. Perciò l’esercito pontificio cadde sotto le cure del Triumvirato Rosso e subì una progressiva epurazione. Alcuni furono congedati, altri vennero tenuti ma, di nuovo, come nel 1814, 247 Una conseguenza della presenza francese fu l’aumento dei danni da incendi. Come sottolineò il principe don Michelangelo
Caetani, colonnello comandante i pompieri di Roma dal 1833 e che avrebbe portato a Vittorio Emanuele II i risultati del Plebiscito nel 1870: “Le case romane sono costruite così solidamente e con così poco legno che in genere l’incendio può essere soffocato nella casa stessa in cui scoppia e non si estende quasi mai oltre la casa. Il Genio francese, abituato ai muri relativamente sottili che hanno in Francia, di rado tenta di estinguere un incendio. Il loro sistema è di isolarlo abbattendo le case tutt’intorno, cosa che fanno specialmente in una città straniera, i cui abitanti son loro nemici senza alcun rimorso, direi con la maggiore leggerezza. Io sto cercando di convincerli a lasciarci fare da noi: almeno di non far nulla, finché il fuoco non si avvicini al loro accampamento. Poche settimane fa il colonnello del Corps du Génie fece colazione da me. io gli mostrai lo spessore delle nostre costruzioni, e spiegai il mio sistema, ed egli promise di tenere i suoi uomini tranquilli. Poco dopo scoppiò un incendio. Io andai coi miei pompieri e trovai tutte le case vicine occupate da truppe francesi che stavano abbattendo i muri e buttando mobili nella strada: ci respinsero coi soliti fiori di eloquenza militare quando noi li implorammo di desistere. Non possono resistere alla loro tendenza nazionale ad immischiarsi, né togliersi dalla testa che sanno meglio di chiunque quel che si deve fare.” Rip. in Silvio NEGRO, Roma, non basta una vita, Venezia, Neri Pozza, 1962, pag. 159.
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perdendo uno o anche due gradi, perché non furono loro riconosciute le promozioni avute dopo il 16 novembre 1848. Tanto per fare degli esempi, Fortunato Rivalta, che il 20 settembre 1870 da capo di stato maggiore della piazza di Roma avrebbe firmato la capitolazione di Villa Albani, fu retrocesso da tenente a cadetto, per risalire faticosamente a maggiore nei seguenti ventun anni; Cesare Ferri, che in Veneto era stato aiutante di campo del generale Ferrari, da capitano fu retrocesso addirittura a scrittore di seconda classe dell’Intendenza militare, riprendendo a far carriera solo dopo essersi dimostrato suddito lealissimo e assai vicino a monsignor de Mérode. Al vertice si ebbe un assestamento solo dopo due anni dalla caduta della Repubblica. All’inizio il Triumvirato Rosso aveva richiamato a capo del Ministero delle Armi il principe Gabrielli, che aveva accettato per un breve periodo. Poi c’era stato don Domenico Orsini, a cui era succeduto il barone de Kalbermatten, svizzero, venuto al servizio pontificio dopo aver comandato le truppe vallesi nella Guerra del Sonderbund, il quale emanò nel 1850 le disposizioni “Sulla nuova organizzazione e soldo dell’Armata Pontificia” e il “Piano organico dell’Armata Pontificia”, messi in atto colla nota della Segreteria di Stato del 14 giugno 1850 “Per l’arruolamento di 4.000 uomini onde completare i Corpi dell’Armata Pontificia.” In base a questa nuova regolamentazione generale, la forza doveva salire ad oltre 18.000 uomini; ma nella realtà gli effettivi, fino a Castelfidardo, sarebbero restati fra i 14.000 e i 16.000. Il 12 agosto del 1851 fu nominato sostituto al ministero delle Armi e promosso generale di brigata il ronciglionese Filippo Farina, al quale si dové quantomeno un tentativo di migliorare l’esercito pontificio. Farina era stato ufficiale napoleonico. Alla caduta dell’Impero la Restaurazione gli aveva riconosciuto il grado di tenente dei carabinieri; poi era passato in amministrazione salendo fino a colonnello. Conosceva benissimo l’esercito, sapeva dove e come intervenire e partì dalla maggior carenza di tutta l’ossatura: la mancanza d’ufficiali preparati. Cercò di mettere in atto l’ordinamento Kalbermatten, però mori prima di riuscirci, il 9 luglio 1857, per cui l’interim delle Armi sarebbe stato assunto dal cardinale Antonelli, fino alla nomina di monsignor de Mérode. I provvedimenti di Farina si susseguirono abbastanza in fretta, ma è difficile dire con quale effetto. Fu incoraggiato l’arruolamento di volontari esteri, promettendo loro paghe maggiori dei soldati indigeni. 248 Nel 1854 si emanò una nuova regolamentazione generale degli arruolamenti e nel 1855 si fondò l’Istituto dei cadetti,249 una scuola militare per formare gli ufficiali, inaugurata il 1° maggio, poi divenuta Collegio militare dei Cadetti. Posta nel Palazzo Cenci, al Ghetto, era molto piccola, poiché il suo primo corso contava sette allievi di fanteria e due d’artiglieria. Farina contava d’attirarvi i cadetti delle famiglie nobili, ma ebbe poco successo, perché preferivano la più promettente carriera di curia. Ad ogni modo per entrare alla Scuola era necessario fare domanda al Papa, il cui rescritto poteva decidere l’ammissione; dico “poteva”, perché il rescritto favorevole all’ammissione del conte Brigante Colonna – di famiglia lealissima alla Santa Sede – fu disatteso da Farina a favore del conte Mancurti, né il Papa ci trovò nulla da obiettare; e quando Giulio Brigante Colonna se ne lamentò in udienza privata, gli diede pure sulla voce. Militarmente parlando, il ritorno 250 di Pio IX il 12 aprile 1850 vide alcune novità, tra le quali la nascita della Guardia Palatina, 251 conseguenza della fusione dei Capotori e dell’ormai sciolta Guardia Civica romana, mantenendone il comando in Palazzo Alicorni a due passi da piazza San Pietro. 252 248 Nella Legge colla quale il governo Pontificio viene a determinare la condizioni ed il trattamento degli individui di nazione
estera che chiama al Servizio della Santa Sede per costituire i Corpi militari speciali, emanata dalla Segreteria di Stato li 7 Gennaro 1852, vennero indicati gli importi dei premi d’arruolamento e di rinnovo d’ingaggio e dell’ “Alta paga”, aggiuntiva. I primi erano del 50% superiori a quelli della truppa indigena, la seconda era per i soli esteri. 249 La compagnia dei Cadetti fondata nel 1832 era stata sciolta dalla riforma Lambruschini del 1845, reinviando ai reparti i suoi componenti, ridotti a 80, i quali scomparvero del tutto con la riforma del 1850. 250 Il viaggio non fu da Gaeta. Pio IX partì in treno il 4 aprile 1850 da Portici per Caserta. Da Caserta il 5 andò in carrozza col Re di Napoli a Capua, dove pranzò e proseguì fino a Sessa. Là passò la notte. Il 6 varcò il Garigliano a Traetto, pranzò a Gaeta e proseguì per Terracina, sempre accompagnato da Ferdinando II, dal quale si congedò il giorno stesso all’Epitaffio, tra Monte San Biagio e Terracina. Proseguì per Cisterna, Piperno, Ceccano e Frosinone, luoghi che visitò per la prima volta in vita sua,
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Come nel trentennio antecedente la Repubblica, anche adesso la Gendarmeria Pontificia risultò uno dei pilastri, più che del mantenimento dell’ordine, del contenimento del crescente disordine pubblico, però con molti rischi e poche soddisfazioni. L’arresto del Passator Cortese, il temuto brigante romagnolo, è esemplare. Stefano Pelloni, braccato dalla gendarmeria e dalle truppe austriache, era stato accerchiato e ucciso dalla brigata dei gendarmi del vicebrigadiere Battistini nel territorio di Russi, il 23 marzo 1851. L’operazione era costata a Battistini ferite tanto gravi da farlo morire sei giorni dopo. Il riconoscente Governo Pontificio concesse alla sua memoria la menzione nell’ordine del giorno del Ministero delle Armi e alla madre la non lauta pensione di sei scudi al mese. Considerando che in tasca al Passatore ne erano stati trovati 476 e che ce n’erano stati 3.000 di taglia su di lui, vivo o morto, non si può dire che il Governo avesse ecceduto in generosità, né che da tali esempi si fosse spronati a non accordarsi coi briganti. Per questi e per altri motivi la gente non aveva una grande opinione dei militari del Papa; basta vedere quanto scrisse Gioacchino Belli nei suoi sonetti nell’arco di quasi trent’anni, dal 1820 al 1849. Poiché i sonetti non erano destinati alla pubblicazione, possiamo supporre che vi abbia riversato le sue opinioni sincere. Quanto corrispondessero a quelle della popolazione di Roma è un altro paio di maniche, però, data la condizione sociale dell’autore e il fatto che prendesse spunto da quanto sentiva in giro, possiamo accettarle come abbastanza esemplificative della pubblica opinione delle classi media e bassa. Al tempo della repressione del ’32 Belli aveva tacciato le truppe pontificie d’una forte mancanza di disciplina, causa primaria delle violenze sulla popolazione romagnola. Aveva sottolineato che gli ufficiali portassero scritto il quinto comandamento – non uccidere – sul fodero della sciabola e lo rispettassero perché vili e incapaci, burbanzosi, inconsistenti, 253 accusandoli di rubare le paghe dei loro sottoposti254 e tacciando di viltà l’intero esercito. 255 Esagerava? Prendo qualche caso dalla Cronaca Roncalli. fermandosi pure a Valmontone, Ferentino e Alatri. La sera del 10 aprile arrivò a Velletri, dove restò tutto il giorno dopo. Il 12 pomeriggio entrò a Roma. 251 Come ho scritto in precedenza, una prima Palatina era nata il 4 settembre 1847 quando la Civica Scelta era stata tramutata in Compagnia Palatina. Nel dicembre del 1850 il cardinale Antonelli aveva poi decretato che dal 1° gennaio 1851 sarebbero state sciolte sia la Civica Scelta che la Milizia Urbana, fondendole nel nuovo corpo denominato Guardia Palatina. 252 Due passi che cambiarono direzione nel 1931. Palazzo Alicorni in origine era nella strada detta “di Borgo Vecchio” e aveva un lato su piazza Rusticucci, che era dove poi via della Conciliazione sarebbe sboccata in piazza San Pietro. Quando, dopo la Conciliazione del 1929, iniziarono i lavori per l’apertura di via della Conciliazione, il palazzo fu demolito e, nel 1938, ricostruito lungo Borgo Santo Spirito. 253 BELLI, G. G., nel Sonetto 686, Er quinto commannamento de Dio, del 29 dicembre 1832, in Sonetti, cit., vol. II, pag. 531: “Quinto nun ammazzà: così tiè scritto/su la guainella ogni ufficiar der Papa/ che se li manni in dodici ar confritto/in dodici nun tajeno una rapa/ pe via che ammazzà er prossimo e delitto/e in cammio è grolia der sarvà la capa” - [Quinto non ammazzàr: così tien scritto/sulla guaìna ogni ufficial del Papa/ che se li mandi in dodici al conflitto/in dodici non tagliano una rapa/ perché ammazzàr il prossimo è delitto/e in cambio è gloria il salvàr la capa – cioè la testa]. Gli stessi vertici non sfuggivano alla satira. Il generale Resta, comandante di tutte le truppe pontificie fino al 1847, era così noto per la sua inettitudine e poca voglia, che, essendo rimasto a Roma durante i fatti del 1831, nonostante la sua colonna fosse a Corese lo si derise dicendo e ripetendo a lungo: “il reggimento parte e il generale resta.” 254 BELLI, G. G., Sonetto 1310, Er peccato de San Luviggi, del 21 giugno 1834, in Sonetti, cit., Vol. III, pag. 1384: “E adesso un colonnello, un capitano/ scortica vivo vivo un reggimento/ e j’arrubba la paga der zovrano/ e te lo vedi annà quieto e contento/ cor zangue che je gronna da le mano/ senz’ombra de rimorzo o pentimento.” 255BELLI, G. G., a parte il già citato Sonetto 382 Li papalini del 27 gennaio 1832 in Sonetti, cit., vol. I, pag. 413: “Va’ mo a dì à li sordati che tiè Er Papa:/tu sei ‘na crapa, tu sei ‘na carogna,/tu nun sei bono da tajà una rapa,/tu nun hai core d’infilà un’assogna” [Va’ ora a dir ai soldati ch’à il Papa:/tu sei una capra, tu sei una carogna,/tu non sei buono a tagliar una rapa,/tu non hai coraggio d’infilzare una vescica di sugna] si vedano ancora il Sonetto 709, La medicina sbadata, dell’8 gennaio 1833, in Sonetti, cit., Vol. II, pag. 754: “Venti libbre de sangue! eh? che canaje!/ L’esercito der Papa nun ce tigne/ la terra manco in trentasei battaje.” e il Sonetto 2005, La partenza del primo battajione, del 22 giugno 1844, in Sonetti, cit., Vol. IV, pag. 2104: in cui, parlando della partenza del battaglione diretto a Senigallia e dei rischi corsi normalmente dai viaggiatori sulle strade dello Stato Pontificio, faceva esclamare a due popolani “Perantro co sto callo, poverini!.../ - Giàa, sta gente j’arriva mezza morta./ – Ortre er risco poi de l’assassini. / - Ah in quant’a questo no, perché a la Storta/ sibbé che nun portassino quadrini, se dice che pjaveno la scorta.” [Peraltro con ‘sto caldo, poverini!.../ - Giàa, ‘sta gente gli arriva mezza morta./ – Oltre il rischio
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Indisciplina: il 22 giugno 1844 partì da Roma per l’Umbria un battaglione di granatieri per dare il cambio ai cacciatori; già solo nei primi trenta chilometri, fino a Monterosi, abbandonarono per strada quindici fucili e vari oggetti di corredo.CCXIX Non basta? Il 13 luglio dello stesso anno, Roncalli annotò: “Ultimamente si reclutarono duemila soldati a servizio della Santa Sede. Di questi, ottocento sono attualmente in carcere per mancanza di disciplina, delitti comuni.”CCXX L’indomani: “…in Borgo vi fu una rissa tra granatieri e cacciatori. Vi furono cinque feriti, tra i quali un caporale che è in pericolo di vita. I comandanti allo scopo di divagarli ieri256 gli fecero fare delle passeggiate militari ed oggi gli daranno una merenda con fichi, prosciutto. Agli ufficiali rifreddi.”257CCXXI Ancora? Relativamente alle manovre a fuoco in campo aperto fatte il 5 maggio 1845 a ponte Milvio, Roncalli, a proposito dei granatieri, scrisse: “molti assicurano che, per formarsi delle palle, avevano rubato i piombi delle invetriate al quartiere. Ciò probabilmente per vendicarsi dei cacciatori.”CCXXII Insisto? Novembre del ’44: “Pochi giorni addietro si mise in marcia un battaglione di linea da Civitavecchia per andare in Ancona. Giunto a Foligno mostrò malumore minacciando di non andare più avanti. Quindi nel dì 19 partì da Roma il generale Zamboni, andò a Foligno, fece continuare la marcia e ieri tornò a Roma.”CCXXIII E posso aggiungere risse fra militari dello stesso corpo, o di corpi diversi e coi civili, fuori e dentro Roma, complicate da rifiuti d’obbedienza, come fecero durante dei tumulti in Trastevere – provocati da loro – alcuni cacciatori, in divisa e fuori servizio, che beffeggiarono i propri ufficiali e sottufficiali intervenuti a riportare la calma, “perché non avevano divisa alcuna e protestarono di non essere tenuti a obbedir loro.” CCXXIV Malversazione? Il 18 maggio 1844 si concluse la querela dei capitani del 2° Reggimento Svizzero contro il loro colonnello, accusato di appropriazione indebita e malversazione e a sua volta accusante i subalterni di indisciplina; e come finì? Senza processo! Il colonnello fu promosso generale e immediatamente giubilato con una pensione annua di 2.000 scudi. CCXXV Un caso? Ma nel 1843 si era aperta un’inchiesta per la sparizione di 500 scudi dalla cassa di bordo del brick San Pietro, terminata il 6 dicembre 1844 in consiglio di guerra coll’assoluzione del comandante, l’ammiraglio Reali, per non aver commesso il fatto e addossando la responsabilità della sparizione al commissario di bordo, che fra l’altro era il denunciante. E’ possibile che le cose dopo la parentesi repubblicana fossero un po’ migliorate, ma non ce n’è certezza. Come con Francesco Bal per il periodo immediatamente prima della Rivoluzione, pure per il decennio fra la Repubblica Romana e la II Guerra d’Indipendenza abbiamo le memorie d’un paio di soldati semplici, che ci danno un quadro plastico della vita quotidiana nell’esercito pontificio. Nessuno dei due accenna a poi degli assassini./ - Ah in quant’a questo no, perché a la Storta (prima stazione di posta sulla via Cassia uscendo da Roma)/ sebbene non portassero quattrini, si dice che pigliavano la scorta]. 256 Essendo l’annotazione del 16 luglio, si riferisce al 15 luglio 1844. 257 Il 10 maggio annotò che “Con un pranzo si procurarono le paci fra granatieri e cacciatori che ultimamente si questionarono. I cacciatori sono invisi agli altri siccome corpo formato dal generale Zamboni e per il quale credesi possa esservi qualche predilezione.” Cfr. Roncalli, op. cit., anno 1845, 10 maggio, pag. 85.
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ruberie sulla paga; ma quanto al resto ci sono parecchi squarci illuminanti. Uno dei due era estero, l’altro indigeno. Partiamo dal primo. Jules Bosonnet, savoiardo, lavorava a Lione quando fu convinto da un amico e si arruolò il 25 gennaio 1859. Arrivò a Roma il 10 febbraio, assegnato al 1° Reggimento Estero. Ebbe un premio d’ingaggio di 30 scudi, pari – lui scrisse – a 168 franchi, ai quali si sommava una paga netta dai 27 ai 5 bajocchi al giorno, secondo il grado.258 La recluta estera doveva essere cattolica e non francese. Si arruolava per quattro anni e alla fine del primo poteva già raffermarsi per un anno in più, cosicché tutti i soldati esteri potevano avere sempre altri quattro anni da fare. Quanto all’origine e alla religione, Bosonnet scrisse che i documenti falsi si sprecavano ed erano rilasciati a chiunque si arruolasse e comunque qualche non cattolico, ufficialmente riconosciuto come tale, c’era lo stesso. Aggiunse che gli ufficiali dei reggimenti esteri per la maggior parte avevano ottenuto il grado grazie a quante reclute avevano presentato – né più né meno il sistema del 1831 – e, benché la lingua di servizio fosse il francese, gli ordini erano dati pure in tedesco. Gli esteri erano distinti,dalle iniziali RE – reggimento estero – sul cappello. Avrebbe chiesto Marforio a Pasquino all’indomani delle stragi di Perugia del giugno 1859: “Che vuol dire quell’R e quell’E?” “Vuol dire Rifiuto Europeo.”CCXXVI L’addestramento formale e al tiro dei reparti esteri era fatto bene, ma le diserzioni fioccavano perché: “la disciplina tutta austriaca dei reggimenti stranieri infliggeva delle pene da 25 a 100 colpi di bastone per i delitti di furto, diserzione, vendita d’effetti ed atti contro natura. Solamente, alcune di queste condanne non essendo pronunciata che da un Consiglio di disciplina, non eccedevano i due mesi, la cui durata non era inclusa in quella del servizio. qualsiasi manifestazione ostile allo spirito antonelliano era punita con la traduzione davanti al Consiglio di guerra.”CCXXVII Ovviamente il precetto pasquale era obbligatorio pure per gli esteri, per cui in Quaresima dovevano fare gli esercizi spirituali due volte al giorno in una chiesa cittadina, in orari diversi a seconda della lingua da loro parlata, tedesco o francese. Poi dovevano confessarsi dal cappellano militare o con uno dei cappuccini comandati per gli esercizi spirituali. Ne avevano un biglietto di confessione, da presentare al Reggimento, che lo riscontrava sui ruoli di marcia, esentando solo i non cattolici ufficialmente riconosciuti. Chi non rispettava questi obblighi incorreva in punizioni gravissime. Passiamo agli indigeni. Il conte Giulio Brigante Colonna, nobile di Tivoli, si arruolò il 1° settembre 1857. Presentatosi a Roma in via della Penitenza, ebbe il primo soldo e cinque razioni giornaliere di pane, spettantigli per i giorni da lui trascorsi in viaggio. Restò in libertà e in borghese tutto il giorno. Dormì in caserma e la mattina seguente fu ricevuto da un capitano anziano, che, dopo averlo interrogato, scrisse una lettera e lo affidò a un sergente, che lo condusse al comando generale, in via delle Carrozze, all’angolo con via Belsiana. Lì trovò il generale De Giorgis, in borghese, che lesse la lettera, lo interrogò di nuovo e lo spedì con un’altra lettera dal colonnello Lopez. Lopez lo trovò magrolino per l’artiglieria. Brigante Colonna si disse d’accordo, spiegò di non aver chiesto l’arruolamento in quel Corpo e di non sentirvisi fisicamente adatto, di conseguenza fu rispedito con una terza lettera a De Giorgis, che gli accennò ai Cacciatori a Piedi. Brigante Colonna gli domandò l’assegnazione a un corpo meno scelto, chiedendo il 2° Reggimento Fanteria. De Giorgis accettò, scrisse una quarta lettera e finalmente, con quella in mano, la fresca recluta raggiunse il comando reggimentale, nella Caserma Serristori in via Scossacavalli, dove l’aiutante maggiore in prima lo affidò a un altro sottufficiale, il quale gli diede un biglietto per il sergente maggiore del Deposito Reggimentale, che, per fortuna, era nella stessa caserma.
258 Sergente maggiore 27 bajocchi, sergenti e furieri 18 bajocchi, caporali 11, soldati 5. Nel 1859-60 un bajocco papale valeva
sei centesimi di franco francese; uno scudo romano 5 franchi e sessanta.
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Ebbe un saccone di paglia di grano, due lenzuola ruvide, una coperta e una vecchia gamella per il rancio, fu messo insieme a cinque reclute contadine e per un certo tempo nessuno si occupò di loro. Alcuni giorni dopo il ritorno di Pio IX dalle Legazioni e dalla Toscana, “fui finalmente vestito, armato e assegnato alla quarta compagnia del primo battaglione col numero di matricola 4744.”CCXXVIII La recluta indigena a quell’epoca – e già da almeno vent’anni – doveva essere di almeno 1 metro e 62 d’altezza, celibe, senza difetti fisici né precedenti penali, firmava per due o per quattro anni e prendeva subito 20 scudi: 16 “alla mano” e altri quattro segnati direttamente nel “libretto di massa” per le spese del corredo. Dal momento della firma si cominciava a ricevere la paga: due baiocchi al giorno per i fucilieri, due e mezzo per i granatieri e i volteggiatori. “La recluta veniva assegnata a una compagnia fucilieri: dopo un anno di buona condotta, passava ai granatieri se raggiungeva la statura, altrimenti andava coi volteggiatori, compagnie scelte, queste, alle quali non si apparteneva se non si era disciplinarmente immacolati. Se un granatiere o un volteggiatore commetteva una mancanza meritevole di prigione, tornava istantaneamente tra i fucilieri; anzi, non entrava in cella se prima non aveva deposto la granata o la cornetta, ambiti distintivi di quei reparti. I quali non avevano vantaggi soltanto morali: anzitutto percepivano mezzo baiocco di più de’ due giornalieri spettanti a ogni soldato (chiamato “caposoldo” della granata o della cornetta), avevano poi una seconda divisa per parate speciali e servizi d’onore; infine intervenivano alle processioni e alle rappresentazioni teatrali e cooperavano con la gendarmeria con pattuglie sussidiarie in perlustrazioni notturne. Questi servizi eran tutti retribuiti, e poiché i sottufficiali eran correttissimi nell’equa ripartizione, ogni soldato scelto poteva far conto in un sicuro guadagno. Ma se veniva promosso caporale, perdeva tale beneficio per un anno, perché doveva tornare tra i fucilieri e trascorrervi altrettanto tempo di buona condotta col nuovo grado; e così di seguito per le nuove promozioni ai gradi superiori, sicché i quadri de’ granatieri e dei volteggiatori risultavano composti di tutti elementi singolarmente scelti.”CCXXIX Scaduta la prima ferma, se la condotta era stata buona, il militare indigeno poteva rinnovarla per la metà della sua ferma iniziale: altri due anni se aveva firmato per quattro; uno se aveva firmato per due. Se il suo equipaggiamento era in ordine, alla rafferma riscuoteva per intero il nuovo premio d’ingaggio. A firmare per due anni erano i giovani con un minimo d’istruzione, che contavano sulla promozione a caporale; per quattro i numerosi contadini che venivano da tutte le province e che per la maggior parte non si raffermavano. Il 2° Fanteria, come il 1°, aveva due battaglioni di otto compagnie l’uno: la prima di granatieri, l’ultima di volteggiatori, le sei in mezzo di fucilieri, numerate dalla 1ª alla 6ª, mentre quelle dei granatieri e dei volteggiatori erano numerate reggimentalmente come 1ª e 2ª. Si seguiva insomma l’organico francese, i cui reggimenti erano però ternari. Ogni compagnia si divideva in quattro plotoni, comandati da sergenti, e in otto squadre, agli ordini di un caporale, coadiuvato da un allievo caporale chiamato “capo”, pagato quanto un soldato semplice. Il minimo per passare caporale era due anni da soldato semplice, poi ne servivano cinque da caporale per diventare sergente. Il Reggimento, come tutti quelli pontifici, era sparso per la città, in alloggiamenti più o meno piccoli, spesso presi in affitto. Nel caso di Brigante Colonna, la 4ª compagnia cui fu assegnato stava in una casa del rione Borgo, dunque vicino alla basilica di San Pietro. Poiché entro due mesi fu dichiarato “soldato istruito”, avendo compiuto in 40 giorni l’intero addestramento cioè “tutta la scuola del soldato”, dopo un esame pratico passò ai volteggiatori del I Battaglione e di conseguenza alla nuova caserma, nel palazzetto Clarelli, dall’altra parte del Tevere, vicino alla chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Là al primo piano stavano i granatieri del battaglione, al secondo i volteggiatori. 318
Il vitto non sembra essere stato gran cosa. Brigante Colonna menziona solo le pagnotte e i documenti ufficiali confermano: l’esercito passava ai soldati due libbre di pane al giorno, pari a 678 grammi e, in estate, almeno alla guarnigione di Roma, una dose d’aceto, evidentemente per condire le verdure. Il resto del vitto era fornito dai singoli corpi, che per comprarlo ricevevano dall’Amministrazione 4 bajocchi al giorno per soldato, usati, a quanto si capisce, per carne da brodo e verdure. Dopo il rincaro dei viveri del 1860, il Governo sarebbe intervenuto, integrando la differenza fra il prezzo alla libbra, stabilito dal regolamento a 6 bajocchi, e quello di mercato ormai fra i 7 e gli 8. Si acquistavano – quantomeno negli anni dopo il 1860 – in media fra i 120 e i 150 grammi di carne cruda a testa. Comunque sembra che le malversazioni sulle forniture fossero ancora tanto all’ordine del giorno da incidere assai sulla qualità e quantità del rancio, spingendo molti alla diserzione. Se nel 1859 parecchie erano state dovute alla fuga in Piemonte per arruolarsi per la guerra imminente, le 132 diserzioni del 1861, le 171 del 1862 e le 88 del secondo semestre del 1863, nelle unità tanto estere quanto indigene, pare fossero state in buona parte motivate dalla pessima qualità del rancio dovuta alle ruberie. 259 Un discorso a parte merita la Guardia di Finanza. Dopo la radicale riorganizzazione del 1850, il Corpo Doganale, dipendente dalle Divisione Truppa del Ministero delle Finanze, con la propria Direzione a Palazzo Madama, aveva continuato ad arruolare su base volontaria sia le guardie che gli ufficiali, istituendo per questi ultimi un corso allievi ufficiali. La caserma principale si trovava a Roma, al porto di Ripa Grande, sede della dogana fluviale. Il Corpo doveva sorvegliare il movimento delle merci per acqua e per terra e per questo il milite doveva conoscere non solo il maneggio dell’arma e il tiro, ma tutto ciò che riguardava le imposte, i bollettari di pagamento e i dazi sulle merci più disparate, dai cavalli, il cui dazio variava secondo l’età, alla gomma, alle sete e ai tessuti di vario genere. Il vitto come quello dell’Esercito, ma più abbondante e consisteva in carne, da cui si ricavavano le due portate solite della razione: minestra in brodo e bollito. Rispetto a quello dell’Esercito pare fosse cucinato meglio. Gli effetti letterecci erano i soliti: due cavalletti di ferro su cui mettere tre tavole di legno, sulle quali si piazzava un saccone di paglia di grano, con due lenzuola e due coperte: cuscino niente. Usufruendo di libera uscita dalle cinque del pomeriggio in poi e di mezza giornata di libertà la domenica, col vantaggio comune a tutti i militari di pagare i biglietti di teatro la metà, l’unico vero privilegio che avessero i Doganali, ancora e spesso chiamati Finanzieri, era il permesso d’uscire dalle mura, cosa vietata a tutti i militari pontifici che non fossero ufficiali.
259 Era una storia vecchia. Aveva annotato Roncalli nella sua cronaca il 12 settembre del 1846 che il giorno prima, all’uscita di
Pio IX da una visita al Seminario romano, “Un granatiere si avvicinò al Santo Padre e presentogli un saggio del pane che si distribuisce alla truppa, osservandone la pessima qualità. Il Papa lo ricevette gentilmente e, dopo fattegli varie relative dimande, lo assicurò che avrebbe provveduto… All’istante mandò a chiamare il presidente dell’Armi e ora si attende conoscere i relativi provvedimenti.” Otto giorni, dopo, il 20 settembre, arrivò il seguito: “il Papa, cui fu presentato il pane dal granatiere, conosciuta la cattiva qualità del medesimo, ordinò che si mettesse in castello il fornitore Lario Nucci, lo che avvenne nel dì 13 del corrente. Però dappresso alcune dilucidazioni, colle quali si conobbe che il detenuto non era in sostanza che un fornitore di nome, fu rilasciato nel dì 16 ed ora si fa il processo contro i rei. La farina che si panizzava alla truppa fu acquistata dalla fornitura ad un vilissimo prezzo da Feoli. Essa fu tolta da un forte deposito trovatosi nei beni dell’appannaggio che, essendosi fermentato, aveva creato vari insetti, muffa. Il Santo Padre ordinò che a spese del fornitore per quattro giorni fosse distribuito ai soldati il pane bianco di prima qualità e che quello che era stato fatto nel giorno 14 dalla fornitura fosse distribuito ai poveri. Essendo molti i rei o complici in tale imbroglio, il Papa disse graziosamente “che il Redentore con cinque pani aveva saziato cinquemila uomini, ed il suo Vicario con un pane aveva scoperto cinquecento ladri.” Il granatiere fu passato nel corpo de’ gendarmi.” Cfr. RONCALLI, op. cit., anno 1846, 12 e 20 settembre, pag. 212. Una nota disciplinare: il granatiere, dopo aver presentato la pagnotta al Papa: “… nel congedarsi disse che ritornando al quartiere, doveva costituirsi in carcere per aver trasgredito la disciplina militare, essendosi partito da suo posto senza permesso. Il Santo Padre gli soggiunse: “Direte al capitano che vi ho chiamato io”. Quindi, meglio riflettendo, ordinò che fosse accompagnato da una guardia nobile al quartiere, con ingiunzione di parteciparli quanto sopra, aggiungendo che non fosse in alcun modo molestato.”
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III) Gli Austriaci a Bologna e l’invasione di San Marino Come si ricorderà, gli Austriaci erano rientrati a Bologna il 15 maggio 1849 e non se n’erano più andati. L’Imperial Regio Governo civile e militare era sempre a Villa Spada. Le truppe alloggiavano in caserme, quasi tutte ex conventi espropriati all’epoca Napoleonica; ufficiali e sottufficiali in alberghi e case private. La guarnigione rimase per tutto il decennio fra i 5.000 e i 6.000 uomini ed era onnipresente. Come nel 1708, gli Austriaci avevano preteso e ottenuto dal Governo Pontificio il pagamento delle spese di alloggio e vitto, che includevano, come in passato, pure l’olio da illuminazione, la legna per cucinare e scaldarsi e i pagliericci, il che, dati i prezzi, equivaleva a una cifra non indifferente. Il punto di ritrovo degli ufficiali fuori servizio era il Caffè degli Spagnoli, ma i rapporti con la popolazione non erano buoni. Mentre negli anni fino al 1832 le cose non erano andate male, pure perché gli Austriaci erano stati visti da molti come dei restauratori dell’ordine, dal 1849 in poi i Bolognesi cambiarono atteggiamento verso quelli che erano a tutti gli effetti degli occupanti. I Pontifici non erano al centro del loro cuore, ma erano sempre meglio degli Austriaci, realmente detestati e a cui si facevano dispetti di ogni genere, tanto che la loro comandata di spesa rancio andava scortata per non vedere le carrette assalite regolarmente e saccheggiate dai facchini del mercato, com’era già accaduto. Il centro dell’opposizione liberale era noto a tutti, ma inavvicinabile: palazzo Pepoli. La marchesa Letizia, la figlia di Carolina Bonaparte e Gioacchino Murat, in quanto cugina di Napoleone III era intoccabile, lo sapeva e ne approfittava, come ne profittava suo figlio, il marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, che avrebbe avuto una parte rilevantissima negli avvenimenti risorgimentali degli anni seguenti. Un altro motivo per cui i Pepoli erano intoccabili era il colonnello Kanzler, il futuro comandante dell’Esercito Pontificio. Badese, ufficiale di carriera, Hermann Kanzler, nel 1847, aveva sposato Letizia Pepoli il giorno stesso della sua nomina a sottotenente, ma dopo circa un anno erano morti sia lei che il bambino appena nato. Kanzler aveva continuato la carriera militare nell’esercito pontificio – aveva partecipato alla difesa di Vicenza del 24 maggio e a ottobre del 1848 era stato insignito del cavalierato di San Gregorio Magno – ed era rimasto in rapporti ottimi colla famiglia Pepoli. Negli oltre dieci anni di vedovanza aveva avuto l’ordine di San Silvestro – nel giugno del 1849 – e nel 1850 era divenuto aiutante del generale Kalbermatten. Dopo un triennio a Bologna dal 1851 al 1854 come aiutante della 3ª Divisione Militare pontificia, era passato al comando del II battaglione del 1° Reggimento di Fanteria di Linea indigeni e della piazza di Ravenna, per rientrare a Roma solo nel 1855 con la promozione prima a tenente colonnello e poi a colonnello. Insomma, in quelle condizioni e con quei legami di famiglia, palazzo Pepoli e quanto vi si faceva era sicuro quanto un’ambasciata e perciò il ritrovo dei patrioti. Il fatto che vi fossero Austriaci a Bologna non implicava l’assenza dei Pontifici. Gli uni e gli altri vi avevano un comando di divisione che, per i primi, nel 1858, implicava tre brigate di fanteria – una delle quali in Ancona – e due reggimenti di cavalleria, sostenuti da due battaglioni di cacciatori tirolesi, artiglieria e servizi. Il comando della 3ª Divisione Militare pontificia era retto dal generale svizzero barone Kalbermatten e comprendeva tre reggimenti di fanteria indigena ed estera, artiglieria e dragoni, In città però c’erano solo il comando, a via San Donato, insieme al comando piazza, a un reggimento di fanteria rinforzato da due compagnie d’uno degli altri due reggimenti, una sezione d’artiglieria e un’aliquota di dragoni. Il resto era sparso in tutta l’Emilia-Romagna. I dragoni fornivano un distaccamento a Ferrara. Il reggimento di fanteria che aveva due compagnie a Bologna manteneva le rimanenti quattro di un battaglione ad Imola e Faenza e l’altro battaglione al completo a Ravenna, mentre il terzo reggimento della divisione stava a Forlì e dintorni. Oltre a quei presidii, dal comando di Bologna dipendevano pure le piazze di Cesena, Rimini e Cattolica e il carcere di Castelfranco. Se i rapporti della truppa austriaca coi cittadini erano poco buoni, quelli coi militari pontifici erano appena migliori. Il conte Brigante Colonna, che per un certo tempo nel 1858-59 fu addetto all’ufficio del generale Kalbermatten, scrisse poi: 320
“Le relazioni fra il comando supremo del corpo austriaco di occupazione e la divisione pontificia si mantenevano su una linea di perfetta e fredda urbanità di modi: forma esteriore, inespresso intimo rancore. Le risse tra soldati delle due nazioni erano all’ordine del giorno, o della notte, pur restando in certo special modo limitate tra i dragoni pontifici e i cacciatori tirolesi (che parlavano veneto) con la peggio di questi ultimi, anche perché la popolazione parteggiava per i primi.”CCXXX La presenza austriaca a Bologna fornì allo Stato Pontificio la copertura internazionale per un atto di prepotenza, commesso dai due stati nei confronti d’un terzo. La Repubblica di San Marino aveva ospitato Garibaldi e i suoi per poche ore nel 1849. Garibaldi era partito subito, però parecchi seguaci erano rimasti, sperando nella protezione della Repubblica. Venne accordata, beninteso alle solite condizioni del diritto internazionale; ma Austria e Papa non si contentarono. Nel giugno del 1851 un corpo di spedizione austro-pontificio comandato dal generale Marziano passò il confine e impose alla Repubblica l’espulsione degli emigrati politici e “la consegna degli altri delinquenti.” Erano interessate circa 400 persone, alcune delle quali cittadini sanmarinesi. Il Segretario di Stato Giovan Battista Bonelli tergiversò e cercò d’opporsi, ma sarebbe poi stato ucciso e la situazione sarebbe precipitata. La Repubblica fu costretta a piegarsi. I cittadini sanmarinesi ricercati dagli austro-pontifici furono fatti uscire – e quasi tutti vennero prontamente arrestati appena oltre confine – i non sanmarinesi furono invece consegnati direttamente. IV) Il crollo del 1859, Perugia e la Lega dell’Italia Centrale A metà Ottocento era evidente a tutti che lo Stato Pontificio esisteva solo grazie al sostegno austriaco e francese. L’Austria in Italia e la Francia a Roma gli servivano come l’aria per respirare. Poi venne il ’59 finì l’immunità e cominciò il crollo. Le premesse immediate della guerra del ‘59, come si sa, van cercate nei fatti del 1858 e in particolare in uno: l’attentato di Orsini a Napoleone III; ed è proprio questo attentato a dare la prova, indiretta ma chiara, della filiazione carbonara di Carlo Luigi Napoleone. Al di là di tutte le ragioni più o meno illogiche addotte per compierlo, come l’idea che, uccidendo l’imperatore, la Francia avrebbe lasciato Roma – quando invece ci si sarebbe installata con ancor più forza – e altre amenità del genere, in base alle più elementari reazioni istintive nessuno può credere che, nel 1858, cercare d’assassinare il capo dello Stato francese fosse il modo migliore di provocare un intervento a favore dell’indipendenza italiana. Semmai l’attentato doveva avere la conseguenza – come infatti sulle prime ebbe – d’alienare qualsiasi simpatia francese e dello stesso Napoleone III verso l’Italia. Allora perché farlo? Non aveva senso. Ma per chi era carbonaro l’attentato era perfettamente logico, era ovvio, scontato, atteso e chiarissimo nei motivi e nei fini. La lettera d’Orsini all’Imperatore prima di salire sulla ghigliottina dissipava ogni dubbio in chiunque conoscesse i sistemi della Carboneria. Il Buon Cugino, il Carbonaro, all’atto dell’affiliazione giurava di dare e fare tutto per liberare l’Italia. Sapeva che, se non avesse mantenuto la parola, sarebbe stato ucciso dagli altri Buoni Cugini e sapeva pure che gli attentati si sarebbero susseguiti fino a sopprimerlo, a meno che nel frattempo non avesse adempiuto al giuramento. Questo era il senso dell’attentato d’Orsini e questo infatti diceva Orsini a Napoleone III nella sua lettera in maniera piuttosto esplicita, almeno per un carbonaro. Si può obiettare che fu un caso? No, perché c’era già stato un primo attentato: il 28 aprile 1855 Giovanni Pianori, romagnolo, aveva sparato a Napoleone III al Bois de Boulogne. Le indagini stabilirono che Pianori non era carbonaro, ma emersero suoi legami con ambienti di esuli carbonari a Parigi, evidentemente intenzionati a far pagare a Napoleone III il tradimento degli ideali del ’31.
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La reazione di Napoleone III fu da carbonaro. Avesse o meno paura d’altri attentati, che prima o poi l’avrebbero ucciso, non aveva dimenticato gli ideali della sua giovinezza e mantenne la parola. 260 Così si spiega perfettamente perché, invece d’assumere una posizione giustificatamente ostile all’unità italiana in seguito agli attentati di Pianori e Orsini, proprio Napoleone III fece del suo meglio per intervenire in Lombardia nel 1859.261 L’intervento francese consentì una campagna veloce e vittoriosa: Palestro, Magenta e Melegnano, Varese e San Fermo, furono altrettanti rintocchi funebri per lo Stato Pontificio. 262 Le Legazioni dell’Emilia e Romagna insorsero, come pure si verificarono ribellioni nelle Marche, decise a unirsi a Modena, Parma e Toscana nella Lega dell’Italia Centrale. Lo sbarco franco-sardo a Livorno e la creazione a Firenze del V Corpo d’Armata del principe Napoleone Gerolamo indussero le truppe austriache a lasciare Bologna nelle primissime ore del mattino del 12 giugno 1859. Immediatamente furono abbattute le insegne del potere papale, parte della guarnigione pontificia inneggiò all’Indipendenza e al legato, che dové accettare il fatto compiuto e partire. Con lui se ne andò pure Kalbermatten con quanto della guarnigione pontificia era rimasto fedele al Papa, raccogliendo le unità dipendenti, più o meno ridotte dalle diserzioni, man mano che si avvicinava alle Marche. Nel frattempo, saputo quanto era successo a Bologna, i 4.000 austriaci della guarnigione d’Ancona erano partiti in gran fretta, per raggiungere Ferrara al più presto e unirsi al loro esercito prima d’essere tagliati fuori. Ravenna era insorta il 13 e la marcia non si presentava sotto i migliori auspici. Entrarono a Cesena il 15 sera, si riposarono un giorno intero e il 17, mentre dietro di loro insorgevano e formavano le giunte di governo Faenza, Rimini e Cesena stessa, ripartirono per Ravenna. Al loro arrivo a Ravenna, a sera, i tricolori sparirono e ricomparvero le bandiere del Papa. Per fortuna dei preoccupatissimi cittadini, gli Austriaci, sfiniti e in cattivo stato, si accamparono fuori delle mura e ripartirono la mattina dopo. Giunsero a Ferrara appena in tempo per abbandonarla il 21 giugno, così di fretta da abbandonare i magazzini dei viveri. Con loro, ma in direzione opposta, partì la guarnigione pontificia. Intanto Kalbermatten, ingrossato il suo contingente man mano che marciava verso il mare, era stato informato delle insurrezioni di Jesi, Fano, Urbino e Fossombrone. Intendeva reagire, fermarsi nelle Marche per tenerle e, in caso di vittoria austriaca in Lombardia, usarle come base d’un eventuale riconquista delle Romagne, ma quando seppe che il 14 giugno era insorta Perugia e quattro giorni dopo Ancona, si rese conto che la partita era assai più difficile del previsto. Domò rapidamente Jesi, Fano, Urbino e Fossombrone e si avviò ad Ancona.
260 La principessa Giulia Bonaparte, poi marchesa del Gallo di Roccagiovine, raccontò a Diego Angeli che suo padre Carlo,
principe di Canino, esule in Francia dopo la caduta della Repubblica Romana, nel 1851 assisté a Parigi alla parata delle truppe di ritorno da Roma e, riprendendo la figlia, troppo entusiasta, le disse: “Verrà un giorno che vedrai altri soldati sfilare in parata e saranno i soldati dell’Italia libera e una dalle Alpi all’ultimo lembo della Sicilia! E li comanderanno ufficiali italiani ” Lo udì l’ambasciatore di Napoli e se ne lamentò con Luigi Napoleone, ancora Principe-Presidente, che convocò Giulia all’Eliseo. “Che diavolo è saltato in testa a vostro padre di fare discorsi compromettenti nella mia stessa tribuna?” Lei spiegò “… adora il suo paese, mi disse che un giorno lo avrei visto libero e unito… Era il suo pensiero Monsignore, e non vedo niente di male nell’averlo manifestato.” Napoleone non rispose, passeggiò su e giù, si fermò e la guardò “…che debbo dire a mio padre da parte vostra?” “Ditegli questo: che è ben felice a poter esprimere liberamente quello che egli pensa”, rip. in Diego ANGELI, I Bonaparte a Roma, Milano, Mondadori, 1938, pagg. 261-262. 261 A Parigi nessuno era favorevole all’intervento in Italia, a partire dall’Imperatrice Eugenia, la quale, sempre a Diego Angeli che, quarantaquattro anni dopo, nel 1903, gliene chiedeva conferma, avrebbe risposto che era: “Verissimo: bisogna però aggiungere che tutti i ministri erano contrari e che, nel consiglio che fu tenuto prima della suprema decisione, uno solo votò in favore: Napoleone. Et naturellement ce fut lui qui l’emporta” – fu lui che la spuntò. Rip. in ANGELI, op. cit. pagg. 323-324. 262 Fra il 16 aprile e il 9 maggio, Roncalli riportò la partenza di oltre 1.100 volontari in vari gruppi dalla sola Roma, ma dicendo abbastanza chiaramente che ne partivano isolati o in gruppetti ogni giorno, per cui il totale può comodamente essere raddoppiato; cfr. RONCALLI, op. cit., vol. II, anno 1859, alle date del 16 aprile, 1°, 7 e 28 maggio; 7, 8 e 11 giugno.
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Là il gonfaloniere, il quarantenne conte Michele Fazioli, il 18 giugno era riuscito ad impedire il peggio, interponendosi fra dimostranti e gendarmi e creando una giunta provvisoria di governo, così da evitare la repressione armata da parte della guarnigione pontificia, comandata da Francesco Allegrini. Formalmente Ancona non era persa e, benché importante, era abbastanza decentrata da non incidere veramente sull’eventuale linea d’operazioni contro la Romagna. Ma Perugia era un guaio serio, davvero: stando lungo la via Flaminia, cioè lungo l’arteria strategica di rifornimento delle Legazioni, perderla significava abbandonare definitivamente l’Emilia e la Romagna e mettere un croce pure sulle Marche senza speranza di riprenderle. E, se ad Ancona la situazione era stata più o meno incanalata, a Perugia era tutto diverso. Gli Umbri erano in subbuglio come e più che nel ’31. Su circa 40.000 perugini, 800 erano andati volontari nell’Armata Sarda in Lombardia; e a Perugia si era formato un comitato insurrezionale collegato alla Società Nazionale e ai comitati di Firenze e Bologna. Il 14 giugno 1859, mentre gli alleati franco-sardi giungevano all’Adda e Garibaldi era già a Brescia, il comitato di Perugia aveva intimato al delegato pontificio monsignor Luigi Giordani di aderire all’insurrezione, la quale però non sembrava molto pericolosa. Infatti, come scrisse Luigi Bonazzi, testimone oculare di tutti quei fatti: “La gente che tumultuava sotto il palazzo non solamente era senz’armi, ma era anche poca.”CCXXXI Era tanto poca da aver fatto dire al comandante dei gendarmi, Mazzotta, di poter sciogliere la manifestazione senza difficoltà; però monsignor Giordani aveva preferito andarsene. Invece era restato in città l’arcivescovo, cardinale Gioacchino Pecci, il futuro papa Leone XIII. Il comitato aveva offerto la dittatura a Vittorio Emanuele II, instaurato un governo provvisorio, assunto il controllo del comando piazza e creato un comitato di difesa. Il governo provvisorio comprendeva Francesco Guardabassi, il conte Zeffirino Faina, Giuseppe Danzetta e Tiberio Berardi segretario. Carlo Bruschi assunse il comando della piazza e, secondo Bonazzi, “non depose l’idea di resistere, non tanto per l’onore del paese, quanto perché fu presago delle utili conseguenze che da questa protesta di sangue sarebbero derivate alla causa d’Italia.”CCXXXII Il telegrafo aveva portato subito la notizia a Roma. Il cardinale Antonelli lo stesso giorno aveva ordinato a monsignor Giordani d’impedire alla truppa ogni disordine, l’aveva autorizzato a chiamare rinforzi da Spoleto e gliene aveva promessi un paio di migliaia da Roma, pontifici e forse francesi. 263 Poiché Kalbermatten e i suoi non potevano essere spostati dalle Marche in subbuglio e il comandante delle truppe francesi, Goyon, rifiutava qualsiasi aiuto, ci si rifece alle truppe papali rimaste a Roma, inviando il 1° Reggimento Estero comandato dal colonnello Anton Schmidt von Altdorf e forte di circa 1.700 uomini, con quattro pezzi d’artiglieria. La colonna Schmidt arrivò a Foligno il 19 e da là, unitasi a poche altre truppe pontificie – 60 gendarmi e 30 guardie di finanza 264 – mosse su Perugia, per arrivarci prima di qualsiasi aiuto toscano agli insorti, che avrebbe reso le cose più difficili. 265
263 Il Governo Pontificio era in difficoltà e non si fidava delle truppe indigene. Oltre alle diserzioni che in Emilia e Romagna
avevano indebolito il contingente di Kalbermatten, se ne segnalavano in tutto l’esercito, compresa la guarnigione di Roma. Roncalli fra il 3 e il 7 maggio registrò la diserzione di alcuni dragoni del presidio di Roma il 3, l’arresto di quattro cannonieri per istigazione alla diserzione il 4, la diserzione d’un gendarme della stazione di Colonna il 5 e l’arresto di vari soldati del 1° di Linea la mattina del 7 maggio perché sul punto di disertare; cfr. RONCALLI, op. cit., vol. II, anno 1859, 7 maggio. Il 20 settembre aggiunse “Da un’ultima nota della Polizia, redatta al 10 del corrente, si hanno altri 167 disertori, tanto nel reggimento di linea indigeno, quanto in quello estero.” 264 Roncalli annotò il 22 giugno 1859 che “Gli Svizzeri che erano stati inviati a Perugia presero rinforzi di linea e gendarmi dai luoghi di passaggio e proseguirono la marcia fino a colà” – cfr. RONCALLI, op. cit., vol. II, alla data – io però non ho trovato menzione di soldati della linea, bensì della Finanza, di cui invece Roncalli non parla. 265 Bosonnet faceva parte dei militari del contingente pontificio. Erano stati rilevati dalla guardia al Quirinale nel pomeriggio del 15 e fatti partire in fretta e furia, tanto da non avere nemmeno le tende. Avevano dormito a Castelnuovo di Porto, lungo la via Flaminia e il giorno seguente avevano fatto tappa a Civita Castellana, alloggiati nella chiesa e in alcune case private. La tappa seguente fu fino a Narni. Ne partirono il 17 sera, in tre ore furono a Terni – che trovarono illuminata a festa e con due
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Il 20 giugno, alle due e mezzo del pomeriggio, i poco più di 1.800 pontifici si presentarono ai piedi del ripido rilievo su cui sorge Perugia. Le quattro compagnie reggimentali di granatieri e volteggiatori si aprirono a ventaglio, cominciarono a salire il pendio e furono accolte a fucilate da un centinaio di cittadini dal monastero di San Pietro e dal Frontone. Schmidt ordinò di mettere i pezzi in batteria e d’aprire il fuoco. Il tenente d’artiglieria “rifiutò di comandare un fuoco “diretto contro i suoi fratelli” 266… Vedendo questo, il colonnello ordinò a un maresciallo d’alloggio svizzero di far bombardare la barricata drizzata dietro la Porta di San Pietro.”CCXXXIII Il governo provvisorio aveva chiamato i cittadini alla difesa, ma le armi erano poche. La proporzione fra attaccanti e difensori era di circa 2 a 1, per di più i primi erano relativamente concentrati, i secondi sparsi su tutto il circuito delle mura. L’attacco si focalizzò su Porta San Pietro e in poco tempo la difesa fu sopraffatta, anche – si disse – per il tradimento di uno che avrebbe aperto ai Pontifici l’accesso dalla parte della chiesa di San Domenico. Le truppe comunque arrivarono sulla via Regale di porta San Pietro, poi ridenominata corso Cavour, superarono le barricate improvvisate dai difensori e si sparsero nelle strade vicine, mentre dai tetti e dalle finestre i cittadini sparavano e gettavano loro addosso tutto quello che potevano. La reazione dei soldati fu ovvia: cominciarono a tirare alla cieca contro tutto e tutti e a sfondare le porte. Penetrarono in alcune case, in un monastero, un paio di chiese, un ospedale e un orfanotrofio femminile e senza andare per il sottile. Trovarono un soldato morto a casa del fabbro Passerini e uccisero lui, la moglie e una figlia. Tre case furono incendiate, parecchie saccheggiate Alcuni abitanti che non erano ancora fuggiti vennero uccisi, altri feriti, senza riguardo a età e sesso. A differenza del rapporto mandato dal cappellano del Reggimento monsignor Franz Oberson al cappellano maggiore dell’esercito, monsignor Tizzani,CCXXXIV in cui si sosteneva che gli insorti fossero stati 5 o 6.000, di cui moltissimi condotti da un generale piemontese dalla Toscana, e che nel convento di San Pietro, preso alla baionetta, se ne fossero asserragliati ben 1.500, Bosonnet, pure lui testimone oculare, scrisse: “Una banda di voraci e di saccheggiatori si precipitò nel convento di San Pietro, dove s’impadronì d’un gran numero di oggetti di valore, ne ruppe altri di valore inferiore e rese vittime del suo furore della sua sete i fiaschi di vino bianco e rosso che trovò sul suo passaggio. Un religioso e delle altre persone ricevettero la morte da questi cosacchi pontifici. … rinuncio a descrivere gli orrori che successero alla nostra entrata in quel teatro di crimini. Una folla di quei lupi voraci, divorati dalla sete di sangue e di rapina si precipitò nelle abitazioni e nei negozi della via San Pietro e delle vie adiacenti. Gli uni si riempirono di vino e di liquori che trovarono in diversi luoghi, gli altri si impadronirono di diversi effetti di vestiario di calzature che si presentarono ai loro sguardi, altri massacrarono nella loro dimora dei vecchi, delle madri e dei bambini che imploravano in ginocchio la conservazione dei loro giorni; non contenti di questa barbarie, spogliarono quegli sfortunati di tutti i valori e gli oggetti preziosi che possedevano e che spesso componevano tutta la loro fortuna… Riempiti i sacchi e le tasche del prodotto dei loro crimini, buona parte di quei barbari poi disertò; ma furono accolti in una maniera degna del loro comportamento alla frontiera della Toscana, dove la voce di quei fatti notevoli era già arrivata.”CCXXXV
grandi ritratti di Vittorio Emanuele II e Napoleone III contornati da lumini – e proseguirono subito per Spoleto e Foligno. Schmidt all’arrivo riscontrò parecchie diserzioni 266 Bosonnet aggiunse: “Dopo la presa della città questo ufficiale fu reinviato a Roma e ignoro la punizione che gli fu inflitta.”
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Nell’arco di tre ore di combattimento i Pontifici persero dieci morti e ottanta feriti. Fra i difensori e la popolazione si contarono ventisei morti e trentatré feriti, 267 a cui si aggiunsero 120 tra prigionieri e arrestati. A sera l’ordine era stato ristabilito, Schmidt fu promosso generale con anzianità 21 giugno, sui militari piovvero le medaglie d’oro, argento e bronzo “bene merenti” – ai benemeriti268 – ma l’eco dei fatti di Perugia fu tremenda. Nella stessa Roma si parlò di settanta civili morti a fronte di soli otto pontifici e lo storico tedesco Gregorovius riportò nel suo diario: “questi mercenari stranieri, la feccia di tutt’Europa, hanno agito come in una città turca, saccheggiando per 13 ore, massacrando nelle case e, si dice, violentando anche delle monache… Se il papa avesse aspettato solamente tre giorni, Perugia si sarebbe sottomessa da sé. La voglia di fare ancora una volta il principe, gli costerà cara. I romani sono amareggiati. Se non vi fossero qui 4000 francesi, si appenderebbero parecchi preti ai pali delle lanterne.”CCXXXVI Da buon protestante, Gregorovius era nemico del Papa, perciò propenso a dar credito alle voci peggiori, ma non a ingigantirle, specie nel suo diario, che non era destinato alla pubblicazione; di conseguenza si deve pensare che abbia riportato fedelmente quanto si diceva in città almeno a proposito della repressione. Ad ogni modo le voci più allarmistiche si rincorrevano. Si parlava di ben 5.000 romani partiti per unirsi ai Piemontesi in guerra e di 18.000 Bolognesi pronti marciare su Perugia.CCXXXVII Le Legazioni padane erano ormai perse e al massimo si potevano tenere le Marche e non per molto, dipendeva da come sarebbe andata la guerra in Lombardia. Furono raggranellate tutte le truppe per spedirle verso le Legazioni, disarmando pure le torri e le fortezze costiere dei loro minimi presidii e concentrando ogni forza a Pesaro. In estate si chiese un corpo di spedizione alla Spagna, ma se ne ebbe una risposta negativa. Annotò Roncalli: “Pasquino, intesi i rapporti di Bologna e credutosi bene informato dello spirito pubblico delle altre provincie, andò a ponte Molle e scrisse “Confine dello Stato pontificio.”CCXXXVIII L’armistizio di Villafranca differì il disastro d’un altro anno. Francia e Austria, pacificate, si trovarono però davanti all’alternativa fra accettare il fatto compiuto nell’Italia centrale, o combattere, sia sul campo contro i 60.000 uomini dell’Armata Sarda e gli altrettanti della Lega, sia, diplomaticamente, contro l’intervento inglese. Napoleone III accettò allora il compromesso offertogli da Torino e appoggiato da Londra: Nizza e Savoia, in cambio non del Lombardo-Veneto ma dell’Italia centro-settentrionale bastavano a dimostrare ai Francesi che la guerra aveva portato dei risultati concreti, anche se inferiori a quelli attesi. Nel frattempo la posizione francese divenne meno favorevole al Potere Temporale e la pubblicazione dell’opuscolo Le Pape et le Congrés ebbe in Vaticano una risonanza funesta: le Grandi Potenze – diceva – avevano restituito lo Stato al Papa nel 1815, perciò adesso avevano il diritto di levarglielo, pur lasciandolo padrone del Patrimonio di San Pietro, una tesi tanto inaccettabile in diritto internazionale, quanto ottima a sostegno della politica nazionale italiana. Commentò Cavour scrivendo a Farini: “L’opuscolo Le Pape et le Congrés è il Solferino del Papa…. Fu tradotto a Milano ed inserto integralmente nella Perseveranza. Riputerei però ottima cosa il farlo ristampare su 267 Sulla lapide posta dal Comune di Perugia il 20 giugno 1888 sono elencati cinque civili morti e dodici feriti combattendo, cui
si sommano gli altri ventuno civili uccisi e undici feriti, fra cui tre donne morte e quattro ferite, nel saccheggio. 268 Bosonnet riportò che nei giorni seguenti il Reggimento ebbe da otto a quindici disertori al giorno.
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carta finissima onde poterlo spargere nelle provincie ancora sottoposte al dominio temporale.”CCXXXIX Coi plebisciti dell’11 e 12 marzo 1860 nacque un nuovo Stato. 269 Restava da vedere quanto si sarebbe accresciuto. Non c`erano invece dubbi su dove sarebbe caduto il prossimo colpo: era il turno delle Due Sicilie; e lo Stato Pontificio era proprio in mezzo.
269 Il 19
marzo 1860, San Giuseppe, la congregazione della Sapienza si riunì nella chiesa di San Giuseppe per la messa. Gli studenti dell’università parteciparono in massa alla celebrazione di ciò che fu definito “L’onomastico di Garibaldi” e alla fine, come scrisse il 20 Gregorovius, “Hanno intonato il Te Deum per lo splendido risultato delle elezioni in Toscana e nell’Italia centrale a favore dell’annessione al Piemonte ed è stato un tumulto. Era indetta per la sera una dimostrazione, ma la milizia ha occupato la via Nomentana davanti alla porta [Porta Pia] e pattuglie percorrevano il corso. Ove c’era assembramento, i gendarmi papali hanno fatto uso delle armi ed il popolo si è disperso spaventato in fuga… Stanotte sono stati arrestati diversi romani e subito esiliati,” Aggiunse due giorni dopo: “ciò che è accaduto lunedì è stato più brutto di quello che credevo. I dragoni che colpivano come indemoniati hanno ferito un centinaio di persone…. I dragoni sono stati ricompensati dal governo con cinque scudi a testa.” Cfr. GREGOROVIUS, op. cit., pagg. 140-141. Va notato che alcuni giorni prima, l’8 febbraio, “gli studenti della Sapienza fischiarono (con poco strepito) un Pacelli, studente di legge, come uno fra coloro che promuovevano le firme dell’indirizzo al Papa” – Cfr. RONCALLI, op. cit., vol. II, anno 1860, 20 febbraio – e, pur se l’annotazione di Roncalli non riporta altro, è lecito supporre che si trattasse dell’allora ventiduenne Filippo Pacelli, padre di papa Pio XII, o d’uno dei suoi fratelli.
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Capitolo XXV Da Castelfidardo a Mentana I) L’Armata del Re e quella del Papa Sbarcati in Sicilia, i Mille di Garibaldi combatterono la loro travolgente campagna mentre Cavour da Torino teneva d’occhio le reazioni estere, perché, man mano che avanzavano verso nord, aumentavano i rischi. Il primo veniva da Garibaldi: si sapeva che intendesse marciare su Roma e l’avrebbe confermato parlando a Napoli, dove sarebbe entrato il 7 settembre. I Garibaldini verso Roma avrebbero messo il Piemonte davanti a un’alternativa: non sostenerli e mandare all’aria l’unità nazionale una volta per sempre, oppure aiutarli, il che avrebbe implicato la guerra contro la Francia, col rischio d’una discesa in campo pure dell’Austria, magari col pretesto di difendere il Papa. C’era poi il problema dell’esercito borbonico. Garibaldi in passato aveva già dimostrato di essere un ottimo generale e anche in Sicilia, era passato di vittoria in vittoria; ma le truppe che si era trovato contro avevano combattuto su un terreno reso, in certi casi, pericoloso dall’ostilità popolare ed erano state utilizzate male, alla spicciolata e senza convinzione. Ora però Francesco II aveva ancora a disposizione 40.000 uomini, ai quali si opponevano solo 25.000 garibaldini; e restava l’incognita delle truppe pontificie. L’esercito del Papa stava aumentando in fretta e, secondo le ultime disposizioni, anche se al 1° giugno contava solo poco più di 20.000 effettivi, sarebbe dovuto arrivare a 24.000 entro breve tempo e a 28.000 per la fine dell’anno, si poteva aspettare? Chiaro che no. Per tutte queste ragioni Cavour decise di muoversi in settembre. Tutto stava nella velocità. I Piemontesi dovevano arrivare prima che Garibaldi battesse del tutto Francesco II. Esautorare Garibaldi finendo la campagna al posto suo significava legittimarne l’operato, incanalare la rivoluzione nell’alveo della monarchia, evitare che si instradasse verso Roma, perciò levare alla Francia l’obbligo e all’Austria il pretesto d’un intervento. Se le truppe sabaude fossero giunte in fretta, ci si riusciva. Ancora una volta era necessario l’appoggio francese, sotto forma però di non-intervento. Messo di fronte alla preoccupante possibilità, sapientemente agitata, di un’iniziativa mazziniana per spodestare il Pontefice, Napoleone III lasciò fare. Restavano due sole difficoltà. La prima era l’Austria. Il suo atteggiamento era minaccioso, però non poteva essere attaccata senza rischiare di perdere quanto guadagnato fino a quel momento. Non c’era quindi che metterla di fronte al fatto compiuto, finendo prima che avesse il tempo di organizzarsi. Tutto dipendeva dunque da quanto sarebbe occorso ad eliminare la seconda difficoltà, cioè l’esercito pontificio. I rapporti fra Torino e Roma erano tutt’altro che buoni. La secessione delle Legazioni emiliane e romagnole nell’estate del 1859 e la lettera con cui il 3 dicembre lo stesso Napoleone III aveva consigliato al Papa di rinunciare a quelle province avevano portato all’enciclica del 19 gennaio 1860, con cui Pio IX aveva risposto di non poter consentire senza violare il solenne giuramento fatto nell’ascendere al soglio pontificio. Il governo imperiale se n’era avuto a male ed era nata una crisi fra Roma e Parigi. Poi, il 12 aprile del 1860, le Legazioni avevano votato per l’unione al Piemonte, creando a Torino una situazione difficile: respingerle significava perdere la faccia, accettarle implicava la rottura col Papa. Vittorio Emanuele le aveva accolte ed era stato scomunicato. Tre mesi dopo, il 13 luglio, Pio IX aveva rincarato la dose con una nuova allocuzione che tutto si poteva definire meno che amichevole nei confronti di quella strana entità includente, oltre al Piemonte, alla Val d’Aosta, alla Liguria e alla Sardegna, pure l’Emilia, la Romagna, la Toscana e la Lombardia, per cui non era più Regno di Sardegna ma non ancora Regno d’Italia. Contemporaneamente Farini bloccava il conte Pianciani che a Genova preparava un’impresa contro Roma, mentre il barone Ricasoli proibiva a Nicotera di marciare verso sud coi volontari da lui raccolti nei pressi di Firenze e grandiosamente definiti brigata. 328
A contrastarli, i volontari avrebbero trovato le truppe del Papa, che continuavano a non godere d’una buona reputazione militare, è vero, ma da qualche tempo avevano compiuto un grosso sforzo riorganizzativo. Dotate ancora di cannoni ad anima liscia, ma di nuovi fucili; rinforzate da reparti di volontari esteri da Svizzera, Belgio, Austria, Canada, Francia e Irlanda, sembravano più efficienti. Potevano reprimere con facilità i moti rivoluzionari, come quello di Perugia, avrebbero potuto contrastare i volontari garibaldini, ma potevano competere coll’Armata Sarda? Cavour era sicuro di no e dunque contava d’arrivare a Napoli senza troppe difficoltà. Occorreva un pretesto per attaccare e quanto era successo a Perugia, dove l’insurrezione era stata domata dagli Svizzeri, ne offriva uno. Perciò il 7 settembre 1860 il governo di Torino inviò a quello di Roma una nota ultimativa, in cui chiedeva lo scioglimento dei reparti esteri, sostenendo di non poter “rimanere indifferente all’agglomerato di milizie mercenarie estere continuato dal governo Romano.”CCXL Il cardinale Antonelli, rispose di no. Allora Vittorio Emanuele, ricevendo due delegazioni, delle Marche e dell’Umbria, che domandavano protezione, affermò che gliel’avrebbe accordata e il giorno stesso ordinò di passare la frontiera, pur annunciando, col memorandum dell’indomani alle Potenze, che le truppe avrebbero scrupolosamente rispettato Roma ed il territorio circostante, corrispondente a un po’ meno di quanto sarebbe poi stato il Lazio, aderendo perciò al suggerimento dell’autore di Le pape et le congrés. Ogni cosa ora dipendeva dall’esercito papale. Se crollava era fatta, se resisteva e sbarrava la strada abbastanza a lungo, erano guai. Poteva resistere? Era dubbio. L’apparato militare pontificio era minato da un contrasto al vertice dell’organizzazione statale: il segretario di Stato Antonelli non poteva sopportare il nuovo pro-ministro delle Armi monsignor de Mérode. Nobile belga, nato nel 1820, François Xavier conte de Mérode aveva frequentato l’accademia militare di Bruxelles. Nel 1844 era stato distaccato nello stato maggiore del generale Bugeaud durante la guerra d’Algeria, dove aveva avuto la Legion d’Onore e conosciuto il generale di divisione Christophe Juchault de Lamoricière. Rimasto vedovo, aveva scelto la vita ecclesiastica, entrando nel Collegio Belga di Roma. Era restato in città durante tutto il 1848 e il 1849 e, ordinato nel settembre di quell’anno, era divenuto cappellano militare. Pio IX nell’aprile del ’50 l’aveva nominato cameriere partecipante. Notatene le capacità, se n’era servito sempre di più, fino a farlo pro-ministro delle Armi il 18 aprile 1860, levando l’interim al cardinale Antonelli. Deciso a mettere in piedi una forza armata abbastanza forte da difendere il Papa anche senza Napoleone III, de Mérode ancor prima di diventare pro-ministro aveva chiesto al suo vecchio amico de Lamoricière – o de la Moricière – di venire a comandarla. Lamoricière si gloriava d’essere un accanito e noto oppositore di Napoleone III, a cui però chiese il permesso di servire il Papa: l’ebbe senza difficoltà. Il 29 marzo 1860 circolò la voce del suo arrivo ad Ancona per prendere il comando delle truppe pontificie; il 5 aprile si seppe della sua nomina, annunciata ufficialmente il 7 dal Giornale di Roma, e il 9 che voleva creare dieci batterie d’artiglieria e due reggimenti di cavalleria, prelevando per il momento 100.000 scudi per le prime spese. Aprì gli arruolamenti pagando 40 scudi ad ogni volontario, raccolse tutte le artiglierie delle fortezze costiere pontificie per vedere quali si potessero riadoperare e Pasquino commentò: “Torlonia non è riuscito a prosciugare il lago di Fucino, ma Lamoricière prosciugherà le finanze del Papa.”CCXLI Cosa ottenne alla fine Lamoricière? Un miscuglio. Alla vigilia della campagna del 1860 la fanteria pontificia disponeva di quattro reggimenti: il 1° e 2° Reggimento Linea indigeni e il 1° e 2° Reggimento Estero. Facendo come al solito ricorso ai volontari, nel corso del primo semestre dell’anno erano stati creati col beneplacito austriaco i Bersaglieri Austriaci, su cinque battaglioni, dei quali uno solo, il V di Fuckmann, sarebbe stato a Castelfidardo, mentre gli altri quattro avrebbero difeso Ancona. 270
270 Bosonnet sottolineò che il primo degli originari tre battaglioni di cacciatori esteri venne formato prendendo ufficiali e
sottufficiali dal 1° e 2° Reggimento Estero, mentre gli altri due ebbero tutto personale austriaco e prussiano di nuova nomina.
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Poi c’erano i Carabinieri Esteri. Costituiti nel 1859 come Battaglione Cacciatori Esteri su quattro compagnie, il 18 maggio 1860 diventarono Battaglione Carabinieri. Quello stesso mese il conte Henri de Cathelineau, il cui nonno era stato un capo dell’insurrezione vandeana, organizzò un altro reparto di volontari francesi, noti come i “Crociati di Cathelineau”, ai quali presto seguì il Battaglione di San Patrizio, tutto di Irlandesi, costituito il 12 giugno 1860 su otto compagnie, delle quali quattro avrebbero partecipato alla difesa d’Ancona, una a quella di Perugia, una alla battaglia di Castelfidardo e le altre due, col maggiore O’Reilly, alla difesa di Spoleto. Completavano la fanteria i Cacciatori indigeni – due battaglioni entrambi su otto compagnie – e i Cacciatori Franco-Belgi. Questo variegato mosaico militare era sostenuto dalla Truppa Volontaria di Riserva, la stessa sciolta nel 1847, ora riattivata col decreto del 2 gennaio 1860, in base al quale ogni provincia doveva rimettere in piedi un battaglione da quattro a otto compagnie, ognuna di 100-120 uomini. I primi battaglioni ad essere riorganizzati furono quelli d’Ancona, Ascoli, Fermo, Urbino, Macerata, Pesaro, Spoleto e Viterbo, non a caso a copertura della frontiera minacciata. La cavalleria stava malissimo. Il Reggimento Dragoni secondo l’organico del 1852 aveva avuto cinque squadroni, ma nel 1860 gliene era rimasto solo uno, perché gli altri quattro a Bologna erano passati colla Lega e poi nell’Esercito regio. Lamoricière cercò di supplire coi Cavalleggeri, organizzati su uno squadrone di volontari esteri, ma servì a poco; né poteva compensare coi pochi Volontari a Cavallo, o “Guide di Lamoricière”, montati ed equipaggiati a loro spese e al comando del conte di Bourbon-Chalus, che erano troppo pochi e servivano presso il quartier generale col grado di cadetti. L’artiglieria aveva un reggimento su stato maggiore e sette batterie, di cui due a cavallo e cinque a piedi, più una sezione “fuori rango” e una Direzione del Materiale. Al principio della campagna il Reggimento Artiglieria sarebbe salito a quattro batterie a cavallo, mantenendone sempre cinque a piedi, tutte su sei pezzi e 151 uomini, più una Compagnia Operai d’Artiglieria e gli equipaggi da ponte. I cannoni da campagna erano in bronzo, da 6, rigati, sistema La Hitte e da 18; in più c’erano degli obici da 12, tutti di produzione francese. I cannoni da montagna erano smontabili e someggiabili, da 4, modello 1859. Altri pezzi dei tipi e dei secoli più disparati stavano nelle piazze e fortezze. La gendarmeria aveva sofferto parecchio della perdita delle Legazioni e nel 1860 avrebbe sofferto pure di più. Fino al 1859 aveva avuto uno stato maggiore, tre squadroni a cavallo e 14 compagnie a piedi e più o meno quella forza aveva prima di Castelfidardo. Completavano l’insieme dell’esercito i vari reparti di supporto e i servizi, la maggior parte dei quali inquadrati nel Battaglione Sedentari. Questo aveva otto compagnie. La prima era la Compagnia Veterinari, poi ne esisteva una di Infermieri che includeva il personale dell’ospedale militare di Roma, 271 e una di Travagliatori, oltre, ovviamente, a una Compagnia Veterani. I corpi e servizi comprendevano poi una Compagnia di Disciplina, sulle due sezioni “indigeni” ed “esteri”, ulteriormente divise in sottosezioni secondo la condotta dei componenti; il Genio, comandato allora da un tenente colonnello e con una dozzina d’ufficiali e altrettanto sottufficiali detti Guardie o Collaboratori del Genio. La stessa struttura senza soldati aveva lo Stato Maggiore di Piazza, i cui sergenti Non a caso, una volta ritenuta Perugia tranquilla, nell’autunno del 1859 le sei compagnie fucilieri del 1° Estero erano state mandate di guarnigione ad Ancona. 271 I militari malati erano assistiti in un’ala dell’ospedale di Santo Spirito. Nel 1841 i Cavalieri di Malta avevano ottenuto d’istituire nei loro locali detti “dei Cento Preti”, adiacenti alla chiesa di San Francesco a Ponte Sisto, un ospedale militare gestito da loro, la cui amministrazione, venuta in mano ad un domestico del Balì di Malta frà Carlo Candida, era stata un tale disastro di ruberie da provocare l’inchiesta d’una commissione di tre ufficiali superiori. La commissione esaminò i reclami e il 10 settembre del 1844 si espresse dichiarandoli fondati e suggerendo di levare l’ospedale ai Cavalieri. Il balì Candida avrebbe dovuto scrivere una rinuncia, ma, prima che le cose procedessero fino in fondo, il 27 novembre 1844 l’ospedale, ormai vuoto, fu distrutto da un incendio, colla perdita di 500 pagliericci e di tutta la biancheria. I tre cavalieri di Malta che vi dormivano furono salvati a stento. Si sospettò, ma non fu possibile provarlo, che il fuoco fosse stato appiccato dagli inservienti licenziati, per vendetta, e dagli amministratori, impossibilitati a rendere i conti senza far scoprire i loro furti. Il danno ammontò a 50.000 scudi; cfr. RONCALLI, op. cit., anno 1844, 10 settembre, pag. 41 e 30 novembre, pag. 48.
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a caporali erano però indicati come “segretari alle piazze”. Esistevano poi l’Intendenza militare, dalla quale dipendeva l’Amministrazione militare, costituita come corpo il 23 dicembre 1858; l’Uditorato militare, comprendente solo ufficiali; il Corpo Sanitario, con ufficiali divisi in Medici e Chirurghi; i Profossi di piazza cioè i sottufficiali e caporali per la guardia ai prigionieri nelle carceri militari e, infine, ovviamente i Cappellani. Come si vede, la componente estera e volontaria era forte e prevaleva nell’esercito di campagna, secondo il solito difetto dell’arruolamento di contingenza fatto in fretta e furia all’ultimo istante. In parte si doveva alla mentalità tradizionale, retaggio del regime pre-napoleonico, in parte alle idee del cardinale Antonelli. A differenza di de Mérode, Antonelli non era un idealista, non lo fu mai. Nato nel 1806 a Sonnino, lo stesso paese che nel 1819 il Papa aveva ordinato di radere al suolo come covo di briganti, era un reazionario della più bell’acqua, apprezzato da Gregorio XVI e nominato cardinale da Pio IX nel giugno del ’47 col titolo di Sant’Agata alla Suburra, lo stesso che era stato di Rivarola. Aveva incoraggiato il Papa a fuggire a Gaeta, aveva sempre guardato all’Austria più che alla Francia e al denaro più che alla teologia. Nel 1852 si era opposto al suggerimento francese di far difendere lo Stato Pontificio da volontari stranieri e per due motivi: costava troppo e avrebbe svincolato Roma dalla Francia, lasciandola alla mercé del primo venuto, chiunque fosse, non ultima l’Austria. Adesso però Pio IX era sempre più adirato con Napoleone III e dunque sempre più incline a dare ascolto a de Mérode e a far da sé. La nomina di Lamoricière sembrò un punto a svantaggio di Antonelli e costituì la base per muovergli in seguito delle accuse di non aver informato correttamente il generale dello stato degli affari internazionali, portandolo volutamente al disastro del 1860. In realtà Antonelli si limitò a passargli le informazioni a sua disposizione, così com’erano, senza dargliene alcuna valutazione d’attendibilità, ma è certo esagerato che abbia sabotato la campagna per cavarne un vantaggio politico. Per come stavano le cose, era ovvio che le truppe sabaude avrebbero vinto; e una riduzione dello Stato Pontificio non avrebbe portato alcun guadagno ad Antonelli. Lamoricière aveva assunto il comando in primavera, ottenendo di dipendere direttamente dal Papa, ma non aveva da rallegrarsi. Le spese per rendere più efficiente l’esercito pontificio erano alte e il prestito lanciato dallo Stato aveva raggranellato solo 400.000 scudi. Si pensò di domandare soldi alla banca Torlonia, ma il principe rispose suggerendo di rivolgersi agli altri principi romani e al cardinale Antonelli, i cui depositi personali ammontavano a due milioni. Intanto arrivavano volontari da tutte le parti d’Europa e occorreva armarli, alloggiarli e pagarli ed era difficile e costoso; ad esempio i 250 irlandesi, accasermati vicino a Santa Maria Maggiore, vollero 12 bajocchi al giorno invece di 5 ed essere comandati da connazionali. Alla fine dell’estate Lamoricière, su un organico complessivo di circa 20.000 uomini, compresi i gendarmi, la Finanza e i servizi, poteva metterne in campo più o meno 11.000, divisi in 16 battaglioni interi e due mezzi battaglioni e includendo le guarnigioni di Pesaro e Ancona. Mancava di ufficiali, artiglieria, munizioni e cavalli, tanto che i suoi cannoni erano trainati da buoi. La cavalleria fra Dragoni e Cavalleggeri ammontava a 300 uomini comandati dal maggiore Odescalchi e non c’erano risorse per un decente servizio d’esplorazione. In più le informazioni in arrivo da Roma sulla situazione internazionale non dicevano la verità. Infine esisteva la minaccia dei Garibaldini.
II) La Diversione Zambianchi A Maggio del 1860, durante la sosta di Garibaldi a Talamone, “Lo scellerato Zambianchi” era stato incaricato d’una diversione in Tuscia. A tutt’oggi non è per nulla chiaro né quanti uomini avesse – 76, 80 o 200? – né se dovesse veramente agire in Tuscia, o non piuttosto traversarla per andare in Abruzzo ad attrarvi le truppe borboniche, come sostenne dopo essere stato arrestato. Di certo la “Diversione Zambianchi” partì da Talamone l’8 maggio, attraversò la bassa provincia di Grosseto, passò per Scansano e Pitigliano e proseguì verso est in direzione d’Orvieto. A Grotte di Castro, 331
sulla sponda nordoccidentale del Lago di Bolsena, urtò in un gruppo di gendarmi, respinti dopo un breve scontro a fuoco prima di proseguire. Avvertito, il trentottenne colonnello pontificio Georges de Rarécourt de la Vallée marchese de Pimodan raccolse una sessantina di gendarmi e avvisò Roma. Mentre dall’Urbe partivano in treno rinforzi alla guarnigione di Civitavecchia, Pimodan mosse sulle tracce dei Garibaldini, agganciandoli nei pressi d’Orvieto. Dopo uno scontro a fuoco, Zambianchi e i suoi si ritirarono oltre frontiera e vennero arrestati dai Piemontesi, preoccupati d’una possibile reazione francese a quella violazione dei confini papali. Zambianchi sarebbe stato rilasciato nel 1861 per andare a morire in Sud America nel febbraio del 1862. Pimodan invece fu decorato, promosso generale di brigata e destinato ad un altro incarico: ci avrebbe trovato la morte in quattro mesi. III) La campagna del ‘60 Nella primavera ed estate del 1860 l’Armata Sarda aveva incorporato numerose unità, o di nuova formazione, arruolate nei territori appena liberati ed in quelli annessi, od appartenenti ai disciolti eserciti dell’Italia centrale. Già raccolta fin dai primissimi giorni di settembre, all’inizio della campagna era divisa in due corpi d’armata. Uno era il IV, comandato da Cialdini, accantonato sulla costa adriatica e composto da tre divisioni: la 4ª, brigate Regina e Savoia; la 7ª, formata dalle nuove brigate lombarde Como e Bergamo; e la 13ª, costituita dalle altrettanto nuove Parma e Pistoia. L’altro Corpo d’Armata, il V, agli ordini di Morozzo della Rocca, era schierato in provincia di Arezzo, a ridosso del confine umbro e articolato su due divisioni: la 1ª – la Divisione Granatieri – constava delle brigate Granatieri di Sardegna e Granatieri di Lombardia; la seconda era la Divisione Speciale di Riserva: Brigata Bologna e tre battaglioni di bersaglieri. A questo apparato organicamente imponente corrispondevano in realtà solo 30.000 uomini, poiché la maggior parte dei reggimenti era ridotta, invece dei quattro regolamentari, a due o tre battaglioni, che per di più avevano solo la normale forza di pace di 600 effettivi l’uno. Lamoricière aveva spezzettato le sue unità in tre colonne mobili, ognuna della forza d’una brigata, disposte sui 300 chilometri della linea Macerata-Foligno-Terni e affidate ai generali Schmidt, de Courten e Pimodan. Schmidt era a Foligno, Pimodan a Terni con un corpo staccato a Tivoli e de Courten a Macerata. A loro si aggiungeva il colonnello Zappi, incaricato di tenere Pesaro. Lamoricière col quartier generale stava a Spoleto. Se Ancona fosse stata minacciata, de Courten avrebbe dovuto rinforzarla e rimanere a guardia della frontiera dalla parte del Tronto La difesa era decisamente arretrata. Aveva alle spalle come linea di comunicazione fra le brigate la via Flaminia da Terni a Foligno e poi la via Lauretana – in seguito divenuta la statale 77 della Val Chienti – da Foligno su per la Val Nerina a Macerata e poi lungo la costa fino a Loreto; ma, se per disgrazia il nemico prendeva Foligno, tagliava l’esercito in due; se invece prendeva Terni, gli toglieva le comunicazioni con Roma. I generali sabaudi lo sapevano benissimo, perciò agirono lungo due direttrici. Il IV Corpo da nord avrebbe distrutto l’aliquota che gli sbarrava la via dell’Adriatico verso il Regno di Napoli. Il V, venendo dalla Toscana, gli avrebbe protetto la marcia sulla destra, tagliando in due l’esercito pontificio col prendere Foligno e impedire fastidi da parte di quanto restava a Terni. In tutto questo Ancona era secondaria; se si faceva in fretta, bastava anche solo neutralizzarla; se le cose andavano per le lunghe occorreva prenderla. Il 10 settembre il capitano Domenico Farini consegnò a Lamoricière una lettera in cui il generale Fanti comunicava che, d’ordine del Re, le sue truppe avrebbero occupato le Marche e l’Umbria, usando la forza se quelle papali fossero intervenute. Lamoricière rispose che avrebbe chiesto istruzioni. Telegrafò e de Mérode gli rispose d’aver saputo dall’ambasciata di Francia che Napoleone III “aveva scritto al re di 332
Piemonte, per dichiarargli che se egli aggrediva gli Stati del Papa, vi si sarebbe opposto con la forza.”CCXLII Era una menzogna, le parole “con la forza” erano state aggiunte da de Mérode. Fu il primo d’una serie di telegrammi uno più falso dell’altro, che servirono solo ad aggravare le cose. Il 12 settembre il delegato apostolico di Spoleto, monsignor Pericoli, fece affiggere il testo d’un secondo telegramma, appena ricevuto, in cui si diceva che una grande divisione francese sarebbe stata a Roma fra il 15 e il 17 settembre. Il 14 nel mondo dei sogni la divisione francese era salita a 25.000 uomini con forti artiglierie e se ne confermava l’arrivo a Roma per il 17 settembre; il 18 ci sarebbe stata invece la sconfitta di Castelfidardo. Mentre fioccavano i telegrammi, le truppe sarde si muovevano rapidamente, secondo i piani, a partire dall’11 settembre. Il IV Corpo si era diviso in due colonne. Una interna, coi volontari romagnoli, raggiunse Urbino e piegò verso la costa, l’altra scese verso Pesaro e Fano. Pesaro era presidiata dai circa 1.200 uomini di Zappi, Fano da un paio di compagnie. A Pesaro i Pontifici si ritirarono nella rocca sotto le cannonate italiane, decisi a resistere; ma, sollecitati dal vescovo in quello stile ecclesiastico inaugurato in Emilia nel 1708, si arresero l’indomani, causando la resa pure di Fano. Le due colonne del IV Corpo si riunirono a Jesi e proseguirono verso Ancona. Il 13 settembre a Sant’Angelo la cavalleria sarda in avanscoperta intercettò la Brigata de Courten, in rientro a Macerata da Fossombrone, dove era andata a reprimere una sollevazione. Non era stata l’unica, se n’erano verificate diverse a partire dal 10 settembre per favorire l’arrivo degli Italiani, perciò de Courten aveva mandato a Pergola il colonnello Kanzler con due battaglioni e due cannoni 272 e altre unità a Fossombrone. Kanzler aveva trovato Pergola vuota e gli Italiani in arrivo con forze superiori, per cui si era ritirato sul grosso, raggiungendolo appunto a Sant’Angelo. Agganciato là dalla cavalleria, de Courten aveva ordinato ai bersaglieri austriaci di proteggere la ritirata ed aveva ripiegato su Ancona, entrandoci la sera seguente. Col suo arrivo la guarnigione salì a circa 5.000 uomini, poiché già Lamoricière vi aveva mandato parecchi soldati, temendo di rimanere circondato e sperando di poter resistere per offrire Ancona come testa di sbarco ad un intervento austriaco. Adesso, preoccupatissimo, Lamoricière ordinò a Pimodan, le cui truppe avevano ora il grosso a Narni, di marciare su Ancona e a Schmidt di tenere Perugia; quanto a sé, parti per Ancona con tutto ciò che aveva. Pimodan si mise in marcia il 12 e sfilò quasi di fronte al nemico, giungendo a Macerata il 15. Intanto il V Corpo di Fanti era entrato in Umbria da San Giustino, spingendo subito la propria avanguardia a Città di Castello, difesa brevemente da una piccolissima guarnigione. Proseguendo nella sua avanzata, nella notte fra il 13 e il 14 arrivò nelle vicinanze di Perugia, tenuta dai 1.800 uomini di Schmidt. Il 1° Granatieri ed il XVI Bersaglieri si articolarono su due colonne. La più forte doveva entrare in città da Porta Sant’Antonio per attaccare la cittadella; all’altra toccava passare da Porta Santa Margherita, sfilare lungo le mura e raggiungere Porta San Pietro per tagliare la ritirata al presidio. Grazie agli insorti perugini che avevano spalancato Porta Sant’Antonio, la prima colonna entrò facilmente e all’altezza del Duomo subì un forte fuoco dei difensori dalle case e dalla cittadella. La seconda trovò Porta Santa Margherita chiusa e ben difesa e dovette combattere duramente per un’ora e mezza, lasciando sul terreno parecchi caduti prima d’entrare e cominciare la lotta nel centro abitato. Di casa in casa, ostacolati da barricate e dai tiratori nemici dietro le finestre e sui tetti, i granatieri della seconda colonna raggiunsero la Rocca Paolina, verso la quale convergeva anche la prima. Finalmente, a tarda sera, dopo una tregua seguita dalla ripresa degli scontri, la Rocca alzò definitivamente bandiera bianca; e cessarono i combattimenti, costati ai Pontifici 136 morti e feriti e circa 1.700 prigionieri, contro 90 tra morti e feriti dei Sardi.
272 Erano un battaglione del 2° reggimento di linea e un battaglione di bersaglieri austriaci.
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L’indomani il grosso del V Corpo entrò a Foligno. Morozzo staccò una colonna al comando del generale Brignone a prendere Spoleto, presidiata da un battaglione, e si volse al mare. A questo punto Lamoricière era accerchiato. Poteva scendere a sud e rischiare il tutto per tutto affrontando il V Corpo, oppure buttarsi in Ancona per aspettarvi gli Austriaci, se fossero venuti. Scelse la seconda soluzione e raggiunse Pimodan, per procedere poi su Ancona con 6.800 uomini divisi in due brigate. Cialdini lo sapeva e, mentre Morozzo marciava da Foligno a Tolentino, il 15 aveva deciso di bloccare Lamoricière prima che arrivasse ad Ancona, ordinando a Cugia di prendere Osimo e fermare i Pontifici Per tener d’occhio le salmerie coi viveri e la cassa, quello stesso giorno Lamoricière si era separato da Pimodan a Macerata e aveva proseguito lungo la via postale, per Recanati e Loreto. Questo gli fece allungare il percorso e perdere due giorni, consentendo ai Sabaudi d’occupare Osimo, Castelfidardo e il quadrivio di San Biagio, tagliando la strada da Osimo ad Ancona e, infine, per iniziativa di Cugia, la strada di Camerano. Lamoricière arrivò a Loreto il 16 sera e si accorse dell’impossibilità di proseguire, perciò fece imbarcare su un veliero la cassa dell’esercito spedendola ad Ancona, alla cui guarnigione mandò ordine d’uscirgli incontro l’indomani. Venne ubbidito, ma, trovati i Piemontesi sulla strada di Camerano e vista la flotta sarda al largo, gli uomini di de Courten furono obbligati a tornare indietro. Contemporaneamente Pimodan arrivò a Loreto e Lamoricière gli diede le istruzioni per l’indomani.
IV) Castelfidardo La mattina del 18 settembre 1860 le truppe papali uscirono da Loreto per andare ad Ancona, ma dovettero accettare battaglia nei pressi di Castelfidardo. L’idea di Lamoricière era stata di passare per la stretta strada da Umana e Sirolo, ma occorreva fingere di guadare il Musone per attirare i sabaudi alle Crocette e dare il tempo al grosso di traversare il fiume. a valle, verso la foce, per cui il 17 sera aveva incaricato Pimodan della finta. 273 La distanza fra Loreto e Castelfidardo è breve; sono su due linee di colli antistanti, separati da una vallata aperta e senza grossi ostacoli, dove la strada litoranea che viene da Ancona si biforca e sale alle due cittadine. Il combattimento vero e proprio si svolse non lontano dal bivio, alle Crocette e coinvolse solo circa 1.500 dei 6.800 pontifici e 16 cannoni delle brigate Pimodan e Lamoricière, attaccati e battuti dai 4.800 uomini e 14 pezzi della Brigata Regina, del Reggimento Lancieri di Novara, dei Battaglioni Bersaglieri XI, XII e XXVI e di due batterie e una sezione d’artiglieria. La sera prima Lamoricière diede le istruzioni ai suoi ufficiali. Erano dei professionisti e non si fecero illusioni. Pimodan illustrò gli ordini al suo stato maggiore e concluse: “Domani, o tutti in Ancona, o tutti in Paradiso.”CCXLIII Becdelièvre radunò i suoi e disse: “Io sono sempre stato franco con voi. Vi annuncio ciò che molti non oserebbero dirvi: domani avremo una calda mattina, ponete in regola i vostri passaporti per l’eternità, come io ho già fatto.”CCXLIV La mattina del 18 Lamoricière e Pimodan si comunicarono nella basilica del Santuario insieme a parecchi altri militari. Tutte le truppe ebbero l’assoluzione in articulo mortis, poi si misero in moto. Intorno alle 10 Pimodan colse di sorpresa gli avamposti piemontesi e guadò il Musone col 1° battaglione dei Cacciatori indigeni comandato da Azzanesi e 250 zuavi guidati da Charette e Becdelièvre, poi sostenuti dai carabinieri esteri di Jeannerat. Presero la prima cascina, poi la seconda e cominciarono a
273 Raffaele De Cesare sottolineò nel suo libro – op. cit., pag. 409 – d’aver appreso dai reduci di queste istruzioni, delle quali
non c’è traccia nella relazione di Lamoricière e poiché ne sentì molti e di grado pure elevato, gli si può dare intera fiducia.
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essere colpiti dall’artiglieria sarda. Cercarono d’aprirsi la strada verso le Crocette e Ancona, ma ai cannoni si aggiunse la fucileria del 10° Fanteria Regina e del XXVI Bersaglieri. Cialdini, che non si aspettava più l’attacco, saltò in carrozza e corse da Castelfidardo alle Crocette, assumendo il comando dello scontro. Dopo il breve successo iniziale, i reparti di Pimodan vennero contrattaccati dalla Brigata Regina. Pimodan fu colpito al labbro, poi all’inguine e, quando una terza palla lo prese al ventre, crollò da cavallo e con lui crollò lo schieramento. Che era successo? Lamoricière era rimasto fermo e non si era valso della sua superiorità numerica. Non aveva ordinato alla sua brigata né di passare il fiume, né d’aiutare Pimodan. Quando si decise era troppo tardi. Ordinò a un battaglione svizzero di soccorrere Pimodan, ma i soldati non si mossero. Ordinò il guado e l’avanguardia avanzò solo fino alla riva, poi, mentre uno squadrone di dragoni ripassava il Musone in preda al panico, l’esercito all’improvviso si sgretolò, lasciando 88 morti sul campo. I Piemontesi presero 600 prigionieri subito, mentre 1.500 ancora in ordine, guidati dal colonnello Coudenhove, si rifugiavano a Loreto con circa 500 sbandati, dove furono catturati la stessa notte. Altri 3.000 vennero rastrellati poi nelle campagne col concorso dei reparti del V Corpo, appena arrivati da Tolentino. I rimanenti, un migliaio, guadarono il Musone per finire in bocca al 9° Fanteria: si arresero tutti, con undici ufficiali e due bandiere. Lamoricière riuscì a salvarsi entro le mura d’Ancona con tre aiutanti di campo e 45 cavalieri. Ci arrivò al tramonto. Vedendolo, lo credettero vincitore, ma fu lui a dissipare ogni dubbio dicendo in lacrime a Fortunato Rivalta “mon cher Rivalta nous sommes foutus.”CCXLV La battaglia era durata quattr’ore e mezzo e al Papa era costata le Marche e l’Umbria. V) L’assedio d’Ancona Riunitisi dopo Castelfidardo, i due corpi sabaudi arrivarono davanti ad Ancona, la bloccarono e ne cominciarono l’assedio di conserva colla flotta. Eseguendo gli ordini di Cavour, il 16 settembre 1860 l’ammiraglio Persano si era presentato a largo di Senigallia, poi aveva preso contatto con Cialdini non lontano da Castelfidardo e si erano accordati per l’assedio d’Ancona. Il 18 settembre, mentre i due eserciti si affrontavano alle Crocette, le regie navi apparvero davanti ad Ancona, per impedire alla guarnigione d’assalire Cialdini di fianco o alle spalle mentre era impegnato lungo il Musone. Dopo un’ora di duello d’artiglieria, Persano si ritirò verso Senigallia, salvo riapparire il 20. Presi accordi col generale Menabrea, fece sbarcare ad Umana nei giorni 22 e 23 il parco d’assedio e le munizioni per l’Esercito. Contemporaneamente il Carlo Alberto, il Governolo e il Vittorio Emanuele bombardarono la piazza, colpendo specialmente il forte del Gardeto, coadiuvando i primi approcci delle truppe del IV Corpo, che si collocavano con la sinistra verso il mare. Il 24 Fanti chiuse l’anello piazzando il suo Corpo con la destra al mare ed assumendo la direzione dell’assedio. Decise però di non impegnarsi secondo gli schemi classici e di cercare di prendere la piazza d’assalto. Dal mare, preoccupato dalla mancanza di porti dove andare in caso di avarie e da un possibile intervento austriaco a sostegno del Papa, Persano agì con una circospezione che Cialdini e Fanti non avevano. Ancona era protetta verso il mare dalle batterie della Lanterna e del Lazzaretto, con un totale di 15 cannoni da 24 ad anima liscia. Ora, se è vero che i forti esterni d’Ancona furono bombardati dalla flotta il 25, il 26 e il 27 e che vennero effettuati due tentativi di incursione nel porto nelle notti dal 24 al 25 e dal 26 al 27, è pure vero che le navi non furono adoperate in massa ma singolarmente e che, solo quando vide falliti tutti i tentativi, l’Ammiraglio propose al Consiglio di guerra l’attacco con tutta la Divisione Navale. Il Consiglio si dichiarò contrario, con un solo voto a favore, ma pronto ad eseguire qualsiasi ordine; del
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resto l’Esercito stava progredendo. Col primo assalto, il 25, aveva raggiunto Monte Pelago, il più elevato dei forti della piazza, difeso, insieme a Monte Pulito, dal colonnello Kanzler. 274 L’indomani, 26 settembre, era stata respinta una sortita pontificia e, nel successivo contrattacco, la Brigata Bologna e due battaglioni di bersaglieri non solo avevano conquistato il forte di Monte Pelago, ma, proseguendo lungo il crinale, avevano preso pure quello di Monte Pulito, grazie al concorso d’un battaglione del IV Corpo. Adesso i bersaglieri occupavano Borgo Pio, Cialdini avanzava lungo il mare e per lui e le sue truppe Fanti aveva espressamente chiesto a Persano il sostegno del fuoco navale. Di conseguenza nel primo pomeriggio del 28 le navi accostarono. Avrebbe poi raccontato Augusto Vittorio Vecchi: “Sul Vittorio i memori di Ancona erano numerosi. Carlo Rossi ci narrava l’ardita manovra di Battista Albini nel pomeriggio del 28 di settembre. Il Persano aveva destinato il Vittorio, la Costituzione ed il Governolo ad imbozzarsi contro la batteria della Lanterna ed a soverchiarla. Ma il vento da scirocco era rinfrescato e non permetteva ad Albini di bersagliare a suo modo, e sicuramente, la casamatta nemica. Persano segnalò al Carlìn (nome col quale il Carlo Alberto era noto nella Marina) di Baldassarre Mantica di surrogarlo. Mantica aveva manovrato come un Dio; s’era traversato a 500 metri dalla Lanterna, mantenendosi a posto con due ancore; e per due ore circa frombolò il nemico, cui demolì l’opera in barbetta. Ma la batteria a casamatta era indarno bersagliata. Scoccavano le 3 del pomeriggio quando Albini, impaziente per l’inerzia, chiese per segnale licenza d’attacco con libertà di manovra. Ottenutala, salpa, dirige sulla batteria, gli sfila di traverso, ed a tiro di pistola gli scarica tutta la sua fiancata a granata. Rimasero illesi solo 25 artiglieri sopra 150, la polveriera saltò, l’opera del molo si mutò in una macìa. Lamoricière alzò allora bandiera bianca e mandò un parlamentario sul Carlo Alberto per aprire trattative di resa.”CCXLVI Il giorno stesso Pio IX tuonava contro la “insigne impudenza ed ipocrisia degli iniquissimi invasori”CCXLVII di cui sperava di vedere punita “la scellerata e non mai abbastanza esecrata aggressione.”CCXLVIII Parole al vento; non accettate le richieste dei Pontifici, Fanti aveva fatto cominciare il bombardamento della cittadella e del campo trincerato con tanta efficacia che, essendosi la Fanteria Marina impadronita anche dell’altura del Duomo, alle 12,30 dell’indomani, 29 settembre 1860, la piazza d’Ancona s’arrendeva a discrezione. Coll’onore delle armi tre generali, 348 ufficiali e 7.000 uomini della guarnigione si consegnavano a Fanti con 154 cannoni, 180 cavalli, 100 buoi, due piroscafi e sei trabaccoli. I prigionieri furono convogliati a Genova, da dove i militari stranieri furono rimpatriati, mentre a quelli italiani sarebbe stato concesso il rientro a Roma alla fine delle ostilità.275 Il 3 ottobre il Re assunse in Ancona il comando dell’Esercito, con Fanti come Capo di Stato Maggiore. Il 7 l’Armata Sarda, sostituita la 13ª Divisione con le Brigate Aosta e Re, 276 che però dovevano essere inviate a Napoli via mare, si divise nuovamente in due colonne e mosse verso sud. Il IV Corpo, col re Vittorio Emanuele, scese, per Pescara e Chieti, a Castel di Sangro. Là si congiunse al V che, ripassato da Città di Castello e Perugia, aveva attraversato Spoleto, Rieti e Sulmona e proseguito verso sud senza minimamente preoccuparsi di Roma. Nel frattempo l’afflusso di volontari per l’esercito papale continuava. Gregorovius, di ritorno dalla Germania, in ottobre annotò che un compatriota, incontrato sul vapore diretto a Civitavecchia, gli aveva 274 Kanzler fu promosso generale il 27 settembre. 275 Benché tedesco, dato il suo lungo servizio nell’esercito pontificio, Kanzler fu considerato italiano e rimandato a Roma. 276 La
ex-Savoia, che aveva cambiato nome in seguito alla cessione del Ducato alla Francia.
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raccontato d’arruolare 80 uomini ogni settimana. Roma era piena di Francesi. La guarnigione era salita a 10.000 uomini e le truppe di Napoleone III dal 12 ottobre presidiavano Viterbo, estendendosi poi a Montefiascone, Ronciglione, Sutri, Nepi e Narni. La paura d’un’occupazione piemontese era enorme e si temeva quanto poteva capitare dopo la resa di Gaeta. Lamoricière rientrò a Roma il 14 ottobre, accolto come un eroe sfortunato e un martire. Mise mano al rapporto sulla campagna e in due settimane redasse un atto d’accusa alla Francia e ad Antonelli, poi lasciò l’Italia. VI) L’esercito pontificio degli ultimi dieci anni Lo sfascio del 1860 fu tale che la Santa Sede non se ne riebbe praticamente più. Aveva perso quindici provincie su venti, riducendosi a Roma, Comarca e Patrimonio di San Pietro, cioè quella che sarebbe poi stata la regione Lazio meno la provincia di Rieti e la metà meridionale di quella di Frosinone. Gli abitanti erano diminuiti da 3.124.668 a 684.791 e con essi era calato il gettito fiscale. L’obolo di San Pietro aveva fruttato fino a quel momento 1.600.000 scudi, però adesso doveva tappare tutti i buchi e nutrire gli impiegati laici e i religiosi fuggiti dalle provincie occupate, nonché i militari prigionieri dei Piemontesi che tornavano a centinaia dal nord dopo il rilascio. Le spese furono ulteriormente aggravate dal crollo dei Napoletani. Mentre Lamoricière lasciava Roma il 6 novembre, 30.000 soldati borbonici, battuti al Volturno e premuti dai Piemontesi, invece di raggiungere Gaeta avevano varcato il confine pontificio consegnandosi ai Francesi. Erano stati distribuiti in varie località, a Frascati, nei comuni dei Colli Albani, a Frosinone, Sacrofano, Ronciglione, 2.000 a Roma e bisognava mantenere sia loro sia i fedeli ai Borboni che li avevano seguiti. Si calcolava che costassero alle finanze pontificie 6.000 scudi al giorno e d’avere risorse solo fino al 31 dicembre; e poi? Poi fu peggio. La caduta di Gaeta, l’arrivo della famiglia reale di Napoli, accompagnata da numerosi profughi e l’assestamento della situazione dei rifugiati dalle provincie perdute, a febbraio del 1861 aveva già fatto lievitare la spesa giornaliera dello Stato a 35.000 scudi. e si prevedeva che a marzo non ci sarebbe stato più un soldo in cassa. Per fortuna il gettito dell’obolo di San Pietro aumentò a dismisura e nel maggio del 1861 il Papa si trovò ad avere ricevuto 60 milioni di lire, pari ad oltre undici milioni di scudi, potendo far fronte ai debiti e alle spese correnti. Intanto la situazione interna era tesa. Le comunità della Tuscia premevano per staccarsi dal Papa ed unirsi al Piemonte e Pio IX non trovava di meglio che insignire tutti i reduci di Castelfidardo della nuova medaglia “Pro Petri Sede” – per la Sede di Pietro277 – e creare alla Scala Santa una cappellania di Castelfidardo incaricata di celebrare cento messe all’anno per le anime dei caduti. L’esercito voluto da de Mérode era costato 12 milioni e a Castelfidardo si era rivelato raffazzonato, piccolo e insufficiente. 278 Dopo Castelfidardo forse sarebbe potuto bastare, finché c’erano i Francesi, ma nel 1864 la Francia e l’Italia firmarono la Convenzione di Settembre e non bastò più. Conclusa per l’Italia da Costantino Nigra e dal marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, plenipotenziario del Re, prevedeva che i Francesi avrebbero lasciato Roma e lo Stato Pontificio alla protezione esterna degli Italiani. Adesso la sola speranza restava l’appoggio straniero, cioè francese e austriaco, ma il primo era ormai visto con sospetto, il secondo, per quanto sincero, era sempre più arduo da ottenere per le crescenti
277 Era d’oro, o argento, o metallo bianco, secondo il grado del ricevente,
e consisteva in un nastrino rosso con due righe verticali parallele bianche bordate di giallo a cui era appesa una croce di San Pietro – quindi capovolta – in una cornice di foglie d’alloro,a sua volta inscritta in un cerchietto riportante l’iscrizione. Ovviamente gli scomunicati liberali la ribattezzarono subito “ciambellone”, perché al centro era bucata, o, come riportò Gregorovius – cfr. GREGOROVIUS, op. cit., pag. 190, anno 1861, 6 gennaio – “scacciapensieri”, perché nell’insieme somigliava al piccolo strumento musicale siciliano. 278 Gli stessi scomunicati di cui alla nota precedente non si peritarono di soprannominare i reduci di Castelfidardo “la truppa di Gambe-fidando”, alludendo alla loro rotta; cfr. GREGOROVIUS, op. cit., pag. 190, anno 1861, 6 gennaio.
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difficoltà in cui si dibatteva l’Austria; e comunque, in caso d’aggressione, l’uno o l’altro sarebbero giunti in tempo solo se il Papa fosse riuscito a difendersi abbastanza a lungo. La Crisi d’Aspromonte dimostrò che, almeno in apparenza, l’Italia manteneva gli impegni; ma Antonelli era una volpe troppo vecchia e de Mérode troppo prevenuto per crederci, dunque l’esercito non smise d’aumentare. La coscrizione restava fuori discussione, perciò si continuò a ricorrere ai volontari e de Mérode fece di nuovo appello ai cattolici legittimisti d’Europa.. Spariti i Bersaglieri Austriaci, ridotti gli Irlandesi del San Patrizio a una compagnia sciolta dopo un po’ più d’un anno, finita la campagna del ‘60 furono sciolti i reggimenti esteri, mentre la fanteria di linea indigena veniva ridotta a un solo reggimento su stato maggiore, due battaglioni di otto compagnie l’uno e una compagnia deposito. Una parte dei soldati stranieri della disciolta Brigata Estera fu convogliata nel Battaglione dei Carabinieri Esteri, che fu elevato a Reggimento. I Cacciatori indigeni, sciolti a fine campagna, furono ricostituiti su un solo battaglione, poi adoperato nel Lazio contro i briganti. Gli altri cacciatori, quelli franco-belgi, accolsero i superstiti dei “crociati di Cathelineau” e dal gennaio del 1861 divennero Reggimento Zuavi, adottando la divisa, simile a quella degli zuavi francesi, disegnata dal visconte Louis de Becdelièvre. L’arruolamento per loro prevedeva una ferma minima di sei mesi, a condizione, in quel caso, di versare ben 11 scudi – poi divenuti 60 lire romane – di fondo di massa per l’equipaggiamento, scelta che, a detta d’un veterano, data la loro ricchezza, veniva preferita da molti volontari per il solo periodo da giugno a dicembre di ogni anno, perché lo si riteneva il più probabile per un’impresa garibaldina. L’artiglieria mantenne sulla carta più o meno l’organico precedente, ma le perdite erano state sensibili e furono ratificate quando, nel 1866, fu riorganizzata su due batterie a cavallo e tre a piedi, ognuna sempre su sei pezzi, più una Batteria Deposito a Cavallo, una Batteria Deposito a Piedi e una Sezione Treno, che poi si sviluppò nella Compagnia del Treno di Equipaggio. Nel 1868 sarebbe stata costituita una sezione da montagna, della forza di quattro ufficiali e 166 sottufficiali e artiglieri, con pezzi rigati da 6 someggiati, 24 cavalli e 70 muli, tutto – pezzi, animali ed equipaggiamento – offerto dai cattolici francesi. La cavalleria tornò sui soli dragoni, che assorbirono i cavalleggeri come loro II squadrone, poi, nel 1867, videro la nascita del III e infine, nel gennaio del 1870, del IV, tutti di cinque ufficiali e 140 dragoni, con un grande e un piccolo stato maggiore reggimentale, e una “suddivisione deposito.” Il Treno fu riorganizzato e, nel 1868, in base all’ordine del Giorno del 5 febbraio, passò ad occuparsi del trasporto dei rifornimenti e dei feriti, con tre ufficiali e 117 soldati, 120 cavalli da traino e 31 da sella, più 65 carri da foraggio, da trasporto, da parco, per generali e Stato Maggiore e ambulanza. Nell’agosto del 1868 sarebbe salito a quattro ufficiali e 196 uomini, divisi in quattro plotoni: tre di treno degli equipaggi e uno di treno leggero di ambulanza, con 176 cavalli da tiro e 136 carri diversi, 64 dei quali usati solo per i servizi straordinari. Il Genio il 1° gennaio 1866 fu riorganizzato su uno stato maggiore comandato da un colonnello e una Compagnia Zappatori o Travagliatori. L’Amministrazione, sempre dipendente dall’Intendenza, nel 1863, arrivò a includere 34 ufficiali e allievi, il cui grado equivaleva a sottufficiale. Il Corpo Sanitario incluse due farmacisti oltre ai medici e chirurghi, che nel 1866 erano 26. La Truppa Volontaria di Riserva vide sciogliere nel 1861 tutti i battaglioni, conservando solo un Deposito a Roma, in cui furono convogliati i sottufficiali e gli ufficiali che non volevano o potevano tornare in Umbria e nelle Marche. La Gendarmeria, dopo il 1859, usando il personale ritirato dalle Legazioni, si era riorganizzata sulle due legioni territoriali di Roma e delle Marche e un nucleo mobile formato da un battaglione a piedi e due squadroni a cavallo; dopo il 1860 si contrasse ancor di più. Infine il collegio dei Cadetti venne chiuso nel 1863. Il resto dell’esercito rimase come prima. Tornando ai volontari, erano tanto più graditi in quanto nell’estate del 1861, temendo colpi di mano italiani attraverso il Lazio meridionale, Kanzler, nuovo comandante dell’esercito pontificio, si preoccupò 338
di proteggere Roma da sud. Come disse a Gregorovius il 28 giugno 1861, l’esercito ammontava adesso a 8.000 uomini, di cui 5.000 fanti italiani ed esteri e lui, oltre a far avanzare l’artiglieria fino a Frosinone, aveva organizzato un campo nelle vicinanze di Roma ed era pronto a contrattaccare. 279 In luglio il castello di Genazzano era guarnito da cento artiglieri pontifici, rinforzati a fine mese da una compagnia di cacciatori indigeni, mentre 500 zuavi stavano ad Anagni e i Francesi tenevano Palestrina, Valmontone, Cisterna e Terracina, venendo rilevati ogni tre mesi. Ci se ne poteva fidare? Dei Francesi si, di Napoleone III no. L’Imperatore aveva un programma in mente e nel 1862 aveva nominato un suo fedelissimo, il generale Lannes conte di Montebello, a comandare le truppe a Roma; poi aveva cominciato a ridurle: già in quell’estate furono dimezzate a 10.000 uomini, lasciando tre brigate e un reggimento di cavalleria. Quando nel 1864 cadde sullo Stato Pontificio il fulmine della Convenzione di Settembre, ci si cominciò a preoccupare sul serio, perché prevedeva l’impegno francese di ritirare le truppe da Roma entro due anni. Da parte sua, l’Italia prometteva di non attaccare, né lasciar attaccare lo Stato Pontificio e d’aprire trattative per assumersi la parte di debito pubblico papale proporzionale alle province annesse di Marche, Umbria, Emilia e Romagna; infine accettava di spostare la capitale da Torino, come avrebbe fatto subito scegliendo Firenze. Infine, ad evitare pretesti come quello del 1860 per giustificare l’invasione di Marche ed Umbria, allo Stato Pontificio era consentito un esercito includente volontari anche non italiani. In sostanza la sorte di uno Stato era stata decisa da altri due senza opposizione di parte di alcuna Potenza europea od extraeuropea e questo significava che la Santa Sede aveva cessato d’esistere come entità politica internazionale. Il Papa reagì col Sillabo. Napoleone ne consentì la pubblicazione solo parziale in Francia; Vittorio Emanuele l’autorizzò completa in Italia e non andò a vantaggio del Vaticano. In novembre Lannes, sostenuto dall’ambasciatore francese de Sartiges, fece di tutto per convincere Pio IX ad arruolare altri 15.000 uomini e ad introdurre delle riforme almeno in campo giudiziario prima della partenza dei Francesi; non ebbe successo. Scrisse Gregorovius il 13 novembre 1864 “…che De Mérode rispose: “Far uso di riforme nello Stato della Chiesa sarebbe come consigliare al Pascià d’Egitto di pulire la piramide di Cheope con uno spazzolino da denti.”CCXLIX Il 3 marzo 1865 de Sartiges andò in Vaticano a comunicare la partenza dei Francesi entro la fine dell’anno. Al principio d’ottobre la confermò. Due settimane dopo, il 20 ottobre 1865, Pio IX esonerò de Mérode dall’incarico di ministro e lo sostituì con Kanzler. A Roma la si considerò la definitiva vittoria d’Antonelli e del partito nazionale contro quello straniero. Il Papa – si disse – era stato convinto che, insistendo nella politica di de Mérode, avrebbe perso pure quanto gli era rimasto; per di più la Spagna aveva riconosciuto il Regno d’Italia, l’Austria non era intenzionata a scendere in guerra, che restava se non evitare d’offrire pretesti? Nella seconda decade di novembre i primi 3.000 Francesi si imbarcarono a Civitavecchia. Kanzler, come nel 1861, spiegò le sue truppe nel Lazio, cioè a sud di Roma, dislocando il grosso, comandato dal colonnello Azzanesi, fino a Ceprano e sei compagnie di Zuavi agli ordini del maggiore Charette a Velletri. La progressiva partenza dei Francesi aumentò l’attività dei briganti e gli scontri coi Pontifici. Ricchi e benestanti si chiusero nelle città laziali e ne uscirono solo sotto scorta armata. La situazione peggiorò fino al punto d’indurre il governo ad emanare, il 7 dicembre, un editto con cui si demandava il giudizio sui briganti a un tribunale militare, istituendo un premio da 500 a 1.000 scudi a chi ne avrebbe catturati. L’11 279 Gregorovius annotò il 28 giugno 1861. “il generale Kanzler mi ha detto oggi che l’esercito papalino ammonta adesso a
8.000 uomini agguerriti, di cui 5.000 di fanteria, cioè tre battaglioni d’italiani, un battaglione di zuavi francesi e belgi e un battaglione svizzero. L’artiglieria è andata a Frosinone, nelle vicinanze di Roma ha piantato un campo, i soldati sono sicuri: si andrà incontro al nemico”, op. cit., pag. 212.
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dicembre 1865 partì da Civitavecchia l’ultimo reggimento francese, il 17 se ne andò Lannes, però nel gennaio del 1866 Napoleone III consentì formalmente l’arruolamento di 2.000 volontari francesi, in uniforme a sotto bandiera pontificia nella cosiddetta Légion d’Antibes, italianizzata in Legione d’Antibo. Man mano che arrivavano i volontari, l’esercito papale aumentava. Gli Zuavi, agli ordini del colonnello Allet,280 salirono progressivamente fino alla forza di cinque battaglioni per un totale di oltre 2.000 uomini, col deposito a Tivoli comandato dal capitano de la Toquenaye. La Legione Romana, cioè la Legione d’Antibes del tenente colonnello conte Charles d’Argy, formatasi a partire dal mese di marzo del 1866 e giunta a Roma a fine settembre,281 più o meno aveva la stessa forza degli zuavi e passò dai 1.096 uomini che aveva al momento di Mentana ai circa 2.000 del 1870. Il colonnello Azzanesi comandava i circa 2.000 nazionali del Reggimento di Fanteria di Linea indigeni; il tenente colonnello Jeannerat il Battaglione dei Carabinieri Esteri, mentre il tenente colonnello Sparagana era alla testa dei Cacciatori indigeni. Gli ormai circa 500 uomini del Reggimento Dragoni del colonnello marchese Lepri, il Reggimento Artiglieria del colonnello Caimi282 e le due compagnie del Corpo del Genio, agli ordini del tenente colonnello Lana costituivano il resto delle forze combattenti dell’esercito di campagna. A loro si sommava una congerie di altri corpi, dalle mansioni più diverse. I corpi di palazzo includevano sempre la Guardia Nobile di Sua Santità, di 70 uomini, la Guardia Palatina, di circa 500 e la Guardia Svizzera. C’erano poi i Volontari Pontifici di riserva, equivalenti a un mezzo battaglione da mobilitare, e ancora i gendarmi, le guardie di finanza, la Pubblica Sicurezza – divisa in guardie di polizia se a cavallo e agenti di polizia se a piedi – la Compagnia di Disciplina con sede a Civita Castellana, gli Squadriglieri, 283 il Treno, i Veterani, o Sedentari, o Invalidi col comando ad Anagni, gli Infermieri, il Corpo di Piazza e quello d’Amministrazione, nonché la Marina. Naturalmente le spese lievitarono; l’argento e l’oro divennero rari e furono sostituiti da cartamoneta; i prezzi salirono. La partenza dei Francesi aveva lasciato l’esercito da solo a proteggere il Papa; perciò a Roma furono concentrati 7.000 uomini: gli zuavi in Borgo, accantonati nella Caserma Serristori e in Castel Sant’Angelo; gli Antiboini dall’altro lato del fiume, a piazza Barberini e nel rione Monti. La Guardia Svizzera si preparò ad abbandonare Roma in qualsiasi momento scortando il Papa e ci si preoccupò d’una possibile insurrezione a Viterbo, ma non successe nulla fino a Mentana. Dopo Mentana si curò sempre di più l’addestramento. Si era effettuato un campo dell’artiglieria nel 1861 a Fiumicino, se n’era fatto uno dell’intero esercito con intervento della Marina a Porto d’Anzio nell’aprile
280 Come il tedesco Kanzler, Allet, svizzero, era ufficiale pontificio da più di trent’anni, per la precisione dal
6 maggio 1832, e aveva più volte rifiutato la promozione a generale perché, diceva: “Ci sono molti generali al mondo, ma non c’è che un colonnello degli zuavi pontifici.” 281 Parecchi legionari erano reduci della Crimea e del 1859. La Legione venne subito mandata di presidio a Viterbo. 282 Allo sforzo di de Mérode per il riarmo pontificio partecipò il popolo e la nobiltà cattolica legittimista di tutta Europa, con cospicui versamenti in denaro e con doni. In particolare il duca de la Rochefoucauld regalò al Papa dodici obici. ognuno dei quali portava il nome d’uno dei Dodici Apostoli. 283 Gli Squadriglieri erano un corpo di supporto alle forze di polizia, organizzato dal conte Leopoldo Lauri quando era maggiore della Gendarmeria. Inizialmente cento e operanti nella Ciociaria, salirono in breve a 250 a furono impiegati pure in Tuscia. Obbedivano a ufficiali e sottufficiali della gendarmeria, della quale erano ausiliari. Secondo quanto apparso il 16 maggio 1889 su la “Fedeltà”, giornale dei reduci dell’esercito pontificio, “erano onesti contadini ed ex-soldati della provincia di Frosinone, che col loro pittoresco costume vennero organizzati dal quel fior di gentiluomo e soldato che fu il Conte Leopoldo Lauri, Maggiore della Gendarmeria, molto apprezzato anche dalle autorità militari italiane; e resero eccellenti servigi, contribuendo efficacemente a liberare del tutto la provincia suddetta dal brigantaggio, importatovi dalle vicine provincie napoletane.“
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1862 e ne sarebbe stato organizzato un terzo ai Campi d’Annibale, nei pressi di Rocca di Papa, nel 1869, ma la qualità sarebbe rimasta scarsa. 284 Ne fa fede quest’esempio del 1870. Le unità continuavano a far turni di guarnigione fuori Roma. Per la rotazione estiva nel Viterbese, dall’aprile del 1870 il IV Battaglione Zuavi del maggiore de Saisy fu destinato a presidiare Montefiascone, Acquapendente, Valentano, Ronciglione, Soriano e Orte, mentre altri zuavi andavano Civita Castellana. Il Battaglione uscì da Roma alle 4 del mattino del 27 aprile e marciò fino alla Storta, dove si fermò per la notte. L’indomani, 28, marciò fino a Monterosi, il 29 fino a Ronciglione, il 30 si diresse a Viterbo per la via del lago di Vico. Secondo uno degli zuavi, d’Argence, fu una marcia durissima e la prima tappa fu di 30 miglia; ma dalla loro caserma al Gesù a La Storta, data la viabilità della Roma d’allora, non c’erano più di 15 chilometri285 per cui evidentemente la fatica inusitata glieli aveva fatti sembrare di più; quanto al resto del percorso, nel 1938 il 2° Granatieri di Sardegna avrebbe fatto i 65 chilometri da Viterbo alla caserma romana di piazza Santa Croce in Gerusalemme in una sola marcia di circa quattordici ore, colle armi e gli zaini affardellati. Che si può pensare allora dell’addestramento di base degli zuavi? D’altra parte non c’era scelta: i volontari servivano; se no, per esistere, lo Stato Pontificio avrebbe dovuto fare affidamento sulle proprie forze, ma ce n’erano poche, non tanto perché la popolazione fosse ormai scarsa, quanto per il ridotto appoggio che dava. Di nuovo, come nel 1814, l’aristocrazia forniva la misura del consenso. A fronte di decine e decine di giovani di nobili famiglie olandesi, francesi, belghe, spagnole, ungheresi, austriache e tedesche, la nobiltà romana prima di Castelfidardo fornì esattamente quattro volontari: don Giulio Borghese, don Camillo Rospigliosi, don Girolamo Theodoli e il conte Vincenzo Macchi. Presentatisi tutti insieme al Ministero delle Armi a piazza della Pilotta, erano stati mandati al Deposito d’Artiglieria e arruolati come soldati semplici nel Reggimento Artiglieria del colonnello Caimi, di cui era colonnello onorario il conte di Caserta, fratello del Re di Napoli. Così pochi? Il messaggio era chiaro: si voleva bene al Papa, ma non al punto di preferirlo all’Italia
VII) La Marina pontificia La Marina era la grande dimenticata. Lontana ormai dai fasti di Lepanto, di Candia e della Morea, anch’essa, come tutti gli organismi assai anziani, si era indebolita sempre più e sarebbe sparita insieme allo Stato di cui batteva la bandiera. L’ultima menzione che ne ho fatto risale al periodo fra i 1802 e il 1808, poi quel poco che era rimasto fu inglobato dai Francesi all’atto dell’annessione e nel 1814 si dové ricominciare da zero, con pochi soldi e pochissimi mezzi. Nel 1823, nel decimo anno della Restaurazione, la Marina allineava solo una goletta, la San Pietro, armata con dodici pezzi, un cutter guardaporto a Civitavecchia, una feluca ed uno scampavia. Gli equipaggi comprendevano in tutto nove ufficiali, venti sottufficiali e sessanta marinai, agli ordini del colonnello Falzacappa, già al comando della Marina Pontificia fino al 1808. Per completare il quadro si potevano aggiungere dieci impiegati del Dipartimento Economico della Marina, con incarichi amministrativi, e, in caso di improbabile crociera armata, trentatré tra sottufficiali e soldati della guarnigione di Civitavecchia. Le pessime condizioni finanziarie dello Stato e la crescente sicurezza delle acque del Tirreno e dell’Adriatico dovuta alla progressiva scomparsa della pirateria nordafricana, piegata dagli Inglesi nel 284 Le esercitazioni a fuoco in campo aperto erano rare nell’esercito pontificio. L’unica di cui abbia trovato traccia prima del
1848 è quella del 5 maggio 1845 a Ponte Milvio, coll’impiego d’un battaglione di cacciatori a cavallo, uno di granatieri e tre pezzi da campagna, riportata da RONCALLI, in op. cit., anno 1845, 10 maggio, pag. 85. 285 Riferendosi allo spostamento del 1° Reggimento Estero da Roma per domare l’insurrezione di Perugia nel 1859, Bosonnet aveva scritto che la marcia fu lentissima, perché il Reggimento non ne aveva fatte da tempo e la truppa era estenuata, cfr. GUICHONNET, op. cit., pag, 87,
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1814, fiaccata dalle spedizioni sarde a Tripoli nel 1825, contro i pirati greci nel 1826, a Tunisi nel 1830 e nel 1833 e sostanzialmente eliminata dopo la presa francese di Algeri nel 1830, levarono al Papa quasi tutti i motivi di tenere una marina militare. Le minime forze della Marina consentivano a malapena il controllo dei due porti maggiori, Civitavecchia ed Ancona, cosicché per reprimere il contrabbando, assai attivo specie lungo le coste adriatiche, si dové ricorrere alla Finanza, che, coi suoi uomini, distinti in Timonieri, Sottotimonieri e Marinai, armò dodici barche guardacoste, dotate di due spingarde ciascuna e le ripartì in due squadriglie agli ordini di due ufficiali di Marina: otto in Adriatico e quattro nel Tirreno. Negli anni Quaranta si ebbe un accenno di miglioramento grazie alla politica di Gregorio XVI ed all’opera del civitavecchiese Alessandro Cialdi, una delle più rilevanti figure della nautica italiana ottocentesca. Uscito dalla Scuola di Marina di Genova, dopo una certa pratica come secondo su legni sardi, passò alla Marina da Guerra pontificia. Nel settembre del 1840 comandò la spedizione in Egitto, risalendo il Nilo per ricevere le colonne d’alabastro donate dal viceré d’Egitto al Papa, dati i buoni rapporti col mondo islamico iniziati proprio da Gregorio XVI nella seconda metà degli Anni ‘30. Rientrato ad agosto del 1841, nel 1842 Cialdi andò in Inghilterra a prelevare tre navi a ruota, per sostituire i vaporini da rimorchio in servizio sul Tevere, e le condusse a Roma per via fluviale attraverso la Francia e via mare dalle bocche del Rodano a Fiumicino. A questi tre piroscafi a ruote se ne aggiunse poco dopo un quarto, il Roma che abbiamo visto prender parte alla Campagna del ’48, facilitando il passaggio del Po alle truppe pontificie, poi provvedendo ai collegamenti di Venezia assediata ed infine, dopo un periodo ai lavori in Arsenale a Venezia, partecipando con legni sardi e veneti al bombardamento dei forti di Caorle. Secondo l’organico del 1844, la Marina doveva avere 46 uomini solamente: otto ufficiali di guerra, tredici ufficiali di mare, due uomini di maestranza e 23 “componenti la marineria” divisi in 13 marinai di prima classe, sette di seconda classe e tre mozzi. Non c’era da scialare né in forze né in paghe, visto che fin dal 1828 il colonnello comandante aveva uno stipendio pari alla metà di quello del parigrado di fanteria (il quale a sua volta prendeva la metà del parigrado di cavalleria o dei carabinieri), mentre l’unico ufficiale comandante in mare prendeva meno d’un sottotenente dei dragoni. Ad ogni modo nella seconda decade di settembre del 1845 il San Pietro e due barche scorridore uscirono da Civitavecchia e per due giorni perlustrarono le coste tirreniche, nel periodo d’allarme per un paventato sbarco di “settari”, in concomitanza coll’insurrezione di Rimini. La Repubblica Romana nei pochi mesi della sua vita aveva visto il Roma nelle acque d’Ancona fronteggiare la flottiglia a vela austriaca che assediava dal mare la città, ma fu tutto, perché il governo romano aveva avuto solo il tempo far progetti, non di metterli in pratica. Bandì un concorso per nuovi ufficiali e progettò di riunire le diverse marine, che contavano in tutto nei tre Dipartimenti del Mediterraneo, dell’Adriatico e del Tevere, soltanto 250 uomini, sotto il comando di Cialdi, al quale però l’adesione alla Repubblica costò, al ritorno del Papa, l’allontanamento dal servizio per qualche tempo. La presenza a Roma dei Francesi demandava potenzialmente alla loro marina la sicurezza costiera dello Stato. La Marina pontificia dopo la Repubblica Romana fu nuovamente suddivisa in Marina da Guerra, Marina di Finanza e Marina del Tevere, ma nel 1856, in un tentativo di riorganizzazione, le tre amministrazioni si fusero nella Marina Militare Pontificia, che però per il servizio ordinario era alle dipendenze del Ministero delle Finanze e solo in caso di guerra passava a quello delle Armi. Nel 1860, con equipaggi ridotti complessivamente a meno di cento uomini, la Marina non poté fare nulla per difendere Ancona. Nei dieci anni successivi, limitata ormai alle sole coste tirreniche e sempre agli ordini di Cialdi, ebbe un certo miglioramento, grazie all’entrata in servizio il 12 agosto 1859 della
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pirocorvetta Immacolata Concezione, ordinata in Inghilterra nel 1858 e con un equipaggio di 40 uomini: sei ufficiali - tre ufficiali e tre aspiranti – e 34 tra sottufficiali e marinai, invece dei 92 previsti. 286 Le altre sue navi rimaste erano i due piroscafi San Pietro e Roma, con un equipaggio di diciannove uomini ciascuno. Altri diciassette erano sul guardaporto Santa Firmina a Civitavecchia, città in cui la Marina doveva pure guarnire tre posti fissi, mentre sei soli uomini equipaggiavano ognuna delle sette scorridore ed il guardaporto Santa Teresa a Roma. Nella tarda estate del 1870, durante la notte, sul Tevere vegliava una lancia a vapore, mentre pattuglie della gendarmeria ispezionavano l’esterno della cinta muraria cittadina, in particolare i Prati di Castello. Per evitare scontri a fuoco accidentali tra i gendarmi e le sentinelle di Castel Sant’Angelo, o tra queste e la pirolancia, vigeva un sistema di riconoscimento mediante segnali luminosi colorati. Lancia, pattuglie e sentinelle avevano in dotazione, a quanto si ricava dai rapporti, la prima un fanale, le seconde una lanterna a cui veniva cambiato giornalmente, secondo le disposizioni ricevute, il vetro frontale colorato che, paradossalmente per lo Stato Pontificio, poteva essere verde, o bianco, o rosso, i tre colori di posizione delle navi ed anche i tre colori dell’incombente nemico. Infine l’Immacolata Concezione era basata a Civitavecchia Se ne muoveva per brevi missioni o per partecipare alle manovre come quelle ad Anzio nel 1862; e a Civitavecchia sarebbe rimasta bloccata nel settembre del 1870 dalla Regia Marina italiana al momento della caduta dello Stato Pontificio. VIII) Castel Sant’Angelo e le fortezze pontificie Dopo il 1860 allo Stato Pontificio erano rimaste in pratica tre sole fortezze degne di questo nome: Castel Sant’Angelo, Civita Castellana e Civitavecchia. Quale fosse il loro valore come punti di forza difensivi è presto detto: zero. L’importanza di Civitavecchia risiedeva tutto nel porto, inteso come punto di sbarco d’un corpo straniero di soccorso, ormai per forza di cose solo francese, e a condizione che fosse libero il collegamento con Roma. Tagliato quello, il valore di Civitavecchia, meno fortificata d’Ancona sia da mare che da terra, crollava a zero. Civita Castellana era un po’ meglio, ma serviva a poco. Su un alto sperone tufaceo a dominare la via Flaminia e un tratto della valle del Tevere, ostacolava un nemico in arrivo dall’Umbria, ma nella realtà poteva tranquillamente essere aggirata. La rocca del Sangallo che ne costituiva la cittadella si trovava sul lato dello sperone opposto alla via Flaminia, per cui, ad averli, non poteva batterla altro che con dei mortai, il cui tiro sarebbe passato sopra il centro abitato. Per di più la città era facilmente evitabile da chi voleva seguire il tracciato della ferrovia nella valle del Tevere, o da chi, venendo dall’Umbria, per Orte raggiungesse Viterbo e scendesse per la Cassia fino a Roma. Ne conseguiva che l’unica fortezza rimasta al Papa che potesse ancora valere qualcosa e solo per un’estrema difesa era Castel Sant’Angelo, ma anche là c’era poco da farsi illusioni. Castel Sant’Angelo era stato presidiato dall’estate del 1849 per diciassette anni dai Francesi. Venne formalmente reso ai Pontifici alle diciassette del 10 dicembre 1866 e di fatto issò bandiera papale alle otto del mattino dell’11 dicembre 1866, quando gli ultimi soldati del presidio francese lasciarono Roma. La guarnigione pontificia del Castello era minima; ed i servizi di piazza, cioè le guardie, venivano assicurati a rotazione dai reparti di fanteria nazionali ed esteri di guarnigione in città. Le mura medievali costruite intorno all’antico Mausoleo d’Adriano erano state rinforzate nel Rinascimento da una bastionatura esterna stellata e da un fossato corredato di terrapieni. Il fossato si poteva riempire coll’acqua del Tevere e i terrapieni si dovevano tenere sgombri dalla vegetazione, ma né l’una né l’altra cosa venivano fatte. 286 Tre timonieri, tre timonieri cannonieri, due maestri d’ascia, un capo meccanico, due macchinisti, cinque fuochisti e ventotto
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Con una dotazione d’artiglieria che variò nel tempo, il castello serviva più che altro come carcere civile e militare, come del resto pure Civita Castellana. Negli anni fra Mentana e Porta Pia i bastioni erano in pessime condizioni. Le porte, continuamente urtate dai traini d’artiglieria in transito, non si chiudevano e comunque cadevano a pezzi. L’amministrazione era trascurata e in disordine, il ponte levatoio da rifare e lo stesso valeva per le travature e le opere murarie del fossato. Dall’estate del 1868 iniziarono dei miglioramenti, si fecero parecchi lavori a cura del Genio, ma l’inerzia delle autorità centrali non consentì di mettere il castello in condizioni militarmente valide. Le opere esterne erano in terra, perciò si coprivano d’erba, che intralciava la visuale e il campo di tiro dei fucilieri, per cui andava tagliata periodicamente e l’ultimo taglio sarebbe stato fatto il 25 agosto 1870, proprio per mettere il castello in stato di resistere ad un attacco, ormai non più tanto ipotetico. Poiché a zapparla sarebbero prima venute via le radici e poi franati i terrapieni alle prime piogge e poiché falciarla era lungo, il comando aveva un accordo con un pastore, per farci pascolare le pecore. Le infrastrutture che richiedevano la maggior attenzione erano i sei “Magazzeni a polveriera”, in fabbricati di buona capacità, isolati, in corrispondenza di ogni bastione. Sotto il baluardo San Marco c’era un altro magazzino di munizioni per la seconda cinta; un terzo, piccolo, con pochissime munizioni, era alla così detta tenaglia, per i due pezzi a guardia di ponte Sant’Angelo. Il presidio stabile del castello comprendeva un po’ di sedentari, i Profossi di Piazza necessari al carcere e un certo numero d’artiglieri, più, a rotazione, le guardie fornite dagli altri reparti, compresi la Legione Romana e gli zuavi.
IX) Le carceri militari Il carcere militare nello Stato Pontificio era sotto la supervisione dell’aiutante del Castello, un ufficiale, di solito un capitano, del Comando di Piazza, dal quale dipendevano direttamente i Profossi di Piazza, cioè i custodi, mentre lui rispondeva sia al Comando di Piazza che all’Uditore Generale Militare, avvocato Giovazzini. Come era organizzato in generale il sistema carcerario militare pontificio? Gli stabilimenti di pena erano di due generi, uno per i detenuti sotto processo, chiamato Carcere di prevenzione, mentre l’altro, d’espiazione, dove i detenuti scontavano la condanna, era chiamato generalmente Darsena, o Galera. Era un’evidente reminiscenza di quando, fino al periodo napoleonico, i condannati erano mandati a remare sulle galere della squadra a Civitavecchia, dov’era pure ormeggiata la galera, detta “lo scarto”, in cui erano alloggiati i detenuti inabili al remo per malattia o per età. L’unico carcere militare vero e proprio era Castel Sant’Angelo ed era una prigione d’espiazione, non di prevenzione. La differenza era che le carceri di prevenzione dovevano garantire la sicurezza personale e l’isolamento del detenuto, privandolo d’ogni comunicazione sia diretta sia indiretta cogli estranei alla Custodia, tanto per l’interno quanto per l’esterno. Le prigioni d’espiazione, o di Darsena, dovevano garantire la sola sicurezza personale e la nessuna comunicazione cogli esterni, e questo era quanto si aveva a Castel Sant’Angelo, che però l’amministrazione militare si ostinava a far funzionare pure per la carcerazione preventiva. La custodia esterna era affidata alla truppa regolare, a rotazione, tanto nelle carceri civili quanto in quelle militari. A Roma le prigioni civili erano tre; altre erano sparse nelle varie cittadine dello Stato, come a Civita Castellana, dove il carcere era nella rocca del Sangallo, presidiata da una compagnia regolare a rotazione e, non a caso, in pianta stabile dalla Compagnia di Disciplina, ma ve n’erano pure in centri più piccoli, come Soriano nel Cimino, nella cui Cittadella della Rocca c’era il carcere con dentro i Garibaldini presi nel 1867 La custodia interna dei detenuti e delle celle era esercitata dai profossi e, per mancanza di mezzi, era diversa da quella regolamentare in uso nelle carceri civili di prevenzione. Nelle carceri civili il detenuto “prevenuto”, fosse sotto processo, o ristretto da solo in segreta, era sottoposto a sorveglianza raddoppiata 344
quando si veniva a sapere dal tribunale che avrebbe avuto una condanna pesante e non lasciava la “prevenzione” se non quando si doveva eseguire la sentenza, tanto di morte, quanto alla galera, dove, al suo primo ingresso, veniva messo ai ferri. A Castel Sant’Angelo non c’era niente del genere. Non si riceveva alcun avvertimento di quale condanna avrebbe avuto il detenuto; segrete per restringerlo in isolamento non ce n’erano e la custodia era quello che poteva essere. La mancanza di locali faceva sì che i prigionieri del carcere militare fossero troppo stipati. Nel giugno del 1868 c’erano in castello 360 prigionieri, tutti militari,287 il che è comunque una cifra enorme per le ridotte dimensioni dell’Esercito Pontificio, e questo comportava parecchi disagi, il principale dei quali era il dormire per terra su un pagliericcio. La pulizia era assai limitata. La biancheria, fornita dal corpo d’appartenenza del detenuto, constava di due paia di mutande e due camicie, indossate a settimane alterne; perché alla fine di ogni settimana il paio di mutande e la camicia usati fino allora venivano consegnati alla lavandaia, che li doveva restituire puliti la settimana dopo. Ma quando c’era un ritardo, o la lavandaia non puliva bene, capitava che la biancheria sporcasse anche il letto. Catini, brocche, bacinelle e asciugamani erano spesso insufficienti, tanto da indurre il comando piazza a chiederne all’Intendenza. Problemi c’erano pure per il taglio dei capelli, effettuato troppo di rado, almeno per i canoni militari, ed eseguito da un barbiere civile, cosa che non garantiva la necessaria sicurezza. Infine le prigioni erano infestate da parassiti e in estate occorreva pulirle a fondo e rimbiancarle. Quasi lo stesso discorso valeva per le rancerie. Del resto quella del rancio era una questione non indifferente, perché, se non li si sorvegliava, i profossi preposti all’acquisto dei viveri e alla confezione del rancio spesso rubavano e l’Intendenza altrettanto spesso era accusata di non versare tutto il denaro che avrebbe dovuto; in più c’era la complicazione che, da regolamento, il rancio delle truppe estere andava confezionato separatamente da quello per le truppe indigene. I prigionieri continuavano a vestire la divisa del loro reparto, ma spesso non avevano il necessario per le piccole riparazioni, a meno che non glielo passasse l’Intendenza. D’altra parte loro stessi, oltre a non avere una gran voglia di tenersi in ordine, avevano l’abitudine di vendere ai civili i loro capi di vestiario, cosa che la dice lunga su quanto fosse grande la povertà dei ceti umili di quel tempo e quanto alto per loro il costo dei vestiti o della biancheria; basti pensare che le mutande militari usate trovavano talmente tanti acquirenti da rendere necessarie delle riviste del corredo ai detenuti per vedere se e chi se le fosse vendute, seguite, almeno a Roma, da indagini serrate, fino a identificare i colpevoli – venditori ed acquirenti – ed a recuperare il maltolto. Questo dipendeva, oltre che dalle infrastrutture inadatte, anche dalla scarsa attenzione dei custodi. Si trattava di invalidi, o per età, o per danni fisici, o per entrambe le cose. Quasi tutti erano analfabeti. Ai profossi stabili del carcere se ne aggiungevano altri, i “piantoni profosso” inviati dai corpi, i quali però mancavano d’ogni attitudine a svolgere un incarico che richiedeva astuzia e intelligenza tali da superare “la consumata malizia del detenuto.” Le evasioni erano rarissime. Da Castel Sant’Angelo nel triennio 1868-1870 riuscì a fuggire un solo prigioniero, aggiuntosi a un gruppo che stava passando da un cortile all’altro. I custodi non si accorsero di scortare undici persone anziché dieci – e come potevano se erano analfabeti ? – e il detenuto riuscì a passare dall’area carceraria a quella militare della fortezza, a sottrarsi alla sorveglianza, unirsi agli operai civili a lavoro per conto del Genio militare e uscire dal Castello insieme a loro.
287 Dopo la restituzione del castello ai Pontifici l’11 dicembre, i primi prigionieri del carcere militare furono quattro zuavi,
arrestati dai cacciatori indigeni a Roma nel pomeriggio di quello stesso giorno. Si noti che gli zuavi erano entrati a Roma da Porta San Lorenzo appena alle 15,00.
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X) Brigantaggio Una delle attività dell’esercito nell’ultimo decennio del potere temporale fu la repressione del brigantaggio, fatta con poco impegno e quasi nessun risultato. E’ ovvio che in un periodo in cui il controllo del territorio richiedeva un continuo pattugliamento e operazioni di colonne mobili, leggere, numerose ed aggressive, l’attività svolta da un esercito piccolo e poco bellicoso come quello pontificio e in un’area vasta e disabitata come il Lazio, specie meridionale, non poteva avere grandi effetti. Qualcuno, forse per ignoranza, forse per mancanza d‘una visione oggettiva dei fatti, ha scritto che il brigantaggio nello Stato Pontificio sarebbe stato un’estensione, un effetto di ritorno, di quello alimentato da Roma nell’ex-Regno di Napoli dopo il 1861. Un’asserzione di questo genere, che istilla nel lettore l’impressione che il territorio papale ne fosse stato miracolosamente esente fino agli anni ’60, riprende la più vieta propaganda pontificia288 e non risponde alla realtà. 289 I briganti c’erano stati prima, come ho narrato, e continuavano ad esistere, tanto in Ciociaria quanto a nord di Roma, refrattari alla caccia data loro dai reparti pontifici, come ad esempio fecero gli zuavi nel maggio del 1869 contro la banda Caino, che infestava i dintorni di Ronciglione. Caso mai dopo il 1861, pure grazie all’arruolamento e finanziamento dei briganti fatto a Roma dalla autorità napoletane in esilio, ci fu un riacutizzarsi del fenomeno, che però non era mai scomparso, sia nel Lazio vero e proprio, a sud del Tevere, sia nella Tuscia. Gregorovius nel giugno del 1868 annotò nel suo diario d’aver dovuto rinunciare a una gita a Bracciano a causa del rischio di briganti. D’Argence, degli zuavi pontifici, parlando del suo servizio in Tuscia nel 1870, scrisse che di briganti ce n’erano già a Monterosi, poi che la strada da Ronciglione a Soriano nel Cimino era costellata di piccoli posti di gendarmeria proprio contro i briganti e che da Soriano gli zuavi andavano in pattugliamento in aiuto alla gendarmeria e agli squadriglieri contro i briganti della banda Mattioli. Come ho scritto prima, in base all’edito del 7 dicembre 1865 ogni pattuglia che prendeva un brigante aveva un premio in denaro e una decorazione a chi lo arrestava: croce all’ufficiale e sottufficiale, medaglia al caporale o al soldato. Le autorità della provincia di Frosinone elevarono le taglie del 600% nel marzo del 1867 e offrirono di nuovo patteggiamenti e perdoni, ma nel frattempo, nonostante le asserzioni di Kanzler che le bande trattassero col governo per aver salva la vita e la libertà, il fenomeno aveva raggiunto i Colli Albani e le strade erano insicure appena si usciva dall’Urbe. Quanto era efficace l’impiego della truppa? Bella domanda! Un diario che ho avuto modo di vedere molti anni fa, ma che il proprietario non mi ha permesso di citare, riguarda una lunga operazione svolta sotto la direzione del generale de Courten dal 1° Reggimento di Linea e da unità minori di volteggiatori, zuavi, gendarmi e finanza dall’inizio di febbraio alla fine di marzo del 1866 nella zona tra Filettino e Arcinazzo. Operavano in colonne, mediamente di due compagnie l’una, rinforzate da plotoni di truppe scelte – volteggiatori e zuavi – e dalla gendarmeria. Gli otto servizi che vi sono descritti danno un quadro a dir poco deprimente delle truppe pontificie, perfettamente in linea con quanto ne avevano scritto un secolo prima Montesquieu e De Brosses. Non entro in particolari perché dovrei citare il diario e non posso. Basta dire che in otto servizi di colonna mobile e rastrellamento, in una zona in cui esistevano due bande, le truppe riuscirono a venire in contatto coi briganti solo tre volte e, pur sparando migliaia di colpi, non ne uccisero nemmeno uno, perché non eseguirono correttamente gli ordini, o si spararono addosso fra 288 Come già riportato, il 16 maggio 1889 “Fedeltà”, giornale dei reduci dell’esercito pontificio, aveva parlato del brigantaggio
in Ciociaria come “importatovi dalle vicine provincie napoletane“, dimenticando che vi esisteva da prima e sorvolando sul fatto che nel Napoletano era stato proditoriamente esportato proprio da Roma. 289 Si veda la voce “Hermann Kanzler”, del Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 62, consultabile al collegamento http://www.treccani.it/enciclopedia/hermann-kanzler_(Dizionario-Biografico), il cui estensore ha scritto “Venne anche iniziata una decisa campagna contro il brigantaggio che, favorito dapprima per motivi politici a cavallo del confine meridionale, aveva finito per colpire i sudditi pontifici della zona” come se di brigantaggio al di qua della frontiera pontificia non ce ne fosse mai stato, o non ne esistesse in altre parti dello Stato Pontificio, a cominciare dal Patrimonio di San Pietro. Per avere un’idea dell’eventuale origine di questa non condivisibile quanto infondata opinione, basta la nota precedente.
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colonne in pieno giorno, o arrivarono a rimandare un’uscita perché pioveva. Terminarono sentendosi riferire da un’ostessa che i briganti le avevano detto d’essere fuggiti credendo d’avere di fronte i bersaglieri italiani, perché dei papalini non avevano alcuna paura. Se questo era l’esercito pontificio, viene da chiedersi come abbia potuto reggere a Monterotondo e vincere a Mentana l’anno seguente, forse riteneva i Garibaldini meno pericolosi dei briganti, o li odiava di più?
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Capitolo XXVI Mentana
I) La premessa Parlando della Campagna dell’Agro Romano del 1867, Garibaldi avrebbe scritto poi, significativamente, “Io ne assumo... la maggior parte delle responsabilità.”CCL Già; ma l’esperienza mi ha insegnato che ogni volta che qualcuno dice o scrive questa frase sta mentendo per coprire qualcun altro. Qui Garibaldi lo fece nobilmente, ammettendo implicitamente l’accordo col Governo. Ancora una volta, l’ultima, aveva rivestito i panni dell’avventuriero incontrollabile, pronto a farsi da parte se avesse vinto, a pagare di persona se avesse perso. Per il pubblico tutto cominciò in aprile. Ai primissimi del mese fu diffusa a Roma una lettera con cui Garibaldi, in data 22 marzo, da Fiorano, si dichiarava pronto ad accorre all’appello del popolo. Il Centro dell’insurrezione di Roma in un volantino datato 1° aprile 1867 incitò i Romani a sollevarsi e nominò Garibaldi capo della rivolta. Rattazzi sarebbe stato pronto a chiudere tutti e due gli occhi, ma quando seppe della concentrazione di 40.000 francesi a Tolone, segno sicuro d’un intervento a favore del Papa ove necessario, corse ai ripari facendo arrestare Garibaldi a Sinalunga e trasferendolo a Caprera. Garibaldi ne fuggì di notte, scivolando in una barchetta tra le navi incaricate di sorvegliarlo. Raggiunse Livorno, poi, tra grandi acclamazioni del popolo, Firenze e, su un treno speciale, Terni, da dove arrivò il 23 a Passo Corese. Là erano i volontari guidati da suo figlio Menotti e là cominciò l’impresa che poi finì male. Perché? Perché il tentativo di prendere Roma in quel 1867 era basato tutto sulla velocità e fallì poiché questa mancò. Lasciando perdere i resoconti ufficiali, a quanto si può ricostruire dai fatti il piano era abbastanza ben congegnato: varie colonne di Garibaldini dovevano entrare nel Lazio da tutte le parti per fissare le forze pontificie. Subito dopo si sarebbe messa in azione la colonna principale, comandata da Garibaldi, che, scendendo la valle del Tevere tenendosi sulla riva sinistra, avrebbe raggiunto Mentana, traversato l’Aniene a ponte Nomentano e ponte Salario e sarebbe entrata a Roma dalle vie Nomentana e Salaria. Contemporaneamente in città doveva scoppiare la rivolta, articolata su un insieme di azioni. Le sentinelle alle porte urbane andavano aggredite e le porte conquistate. Un gruppo di insorti con armi ed esplosivi avrebbe fatto scoppiare l’insurrezione all’interno, la guarnigione sarebbe stata oggetto di attacchi e, infine, un altro gruppo esterno, guidato dai fratelli Cairoli, sarebbe giunto lungo il fiume e sarebbe dovuto entrare da Porta Salaria unendosi ai patrioti, mentre, secondo la polizia pontificia, intendeva discendere la corrente fino al porto di Ripa Grande, unendosi là agli insorgenti romani. Destabilizzata del tutto, Roma avrebbe accolto Garibaldi con le porte spalancate. Poi sarebbe intervenuto di corsa l’Esercito regio col pretesto di riportare l’ordine e, una volta entrato, non se sarebbe più andato, accogliendo i voti della popolazione. Se tutto fosse andato bene, in 48 ore al massimo la partita sarebbe stata chiusa e tutte le Potenze europee, specialmente la Francia, si sarebbero trovate davanti al fatto compiuto; fatto compiuto che serviva più di tutti a Napoleone III per giustificare la propria inazione davanti ai cattolici francesi. Andò tutto storto. Le prime bande garibaldine entrarono nello Stato Pontificio il 28 settembre, irraggiandosi verso vari obbiettivi. Le piccole guarnigioni papali reagirono, di solito con una difesa di primo tempo sostenuta dai gendarmi locali fino all’arrivo di rinforzi dell’esercito. Un primo tentativo contro Acquapendente fu contenuto dai 30 gendarmi del posto, i quali, barricatisi in caserma, ressero fino all’arrivo della truppa, condotta dal tenente Ramerini. 349
Sganciatisi perdendo 16 prigionieri, i Garibaldini si unirono ad un’altra banda e in circa 600 presero Bagnorea, cioè Bagnoregio. Il 3 ottobre, le truppe pontificie vi fecero una ricognizione e riferirono al grosso. Il 5 con due cannoni mossero da Viterbo, lasciandovi il presidio ridotto a soli sessanta gendarmi e, lo stesso giorno ripresero Bagnorea con un combattimento di meno di due ore, perdendo quattro morti e un ferito, ma uccidendo – si disse – 70 Garibaldini e catturandone 110, tradotti in Castel Sant’Angelo. Lo stesso giorno ci furono piccoli scontri in Sabina, col disarmo di alcun posti di gendarmi, però l’intervento dell’esercito fece ripiegare i Garibaldini; e un tentativo di Menotti Garibaldi verso le alture fra Monterotondo e Palombara fu sventato da due compagnie di zuavi e una di antiboini. Corse voce che fossero stati visti oltre 400 garibaldini accampati nei pressi della ferrovia vero Ceprano, la cui stazione era presidiata da una sessantina di gendarmi, che fosse stata occupata Veroli e minacciata Frosinone; perciò le truppe papali si dilatarono in tutte le direzioni. L’11 ottobre Menotti Garibaldi prese Nerola con 900 uomini, poi si avvicinò a Subiaco e vi entrò, profittando dell’uscita della locale guarnigione di cinquanta zuavi, direttasi a Cervara contro un’altra colonna garibaldina di 150 uomini circa, che non si fece trovare e arrivò anch’essa a Subiaco per un’altra strada. Tornati a Subiaco da Cervara, i Pontifici attaccarono e, dopo un combattimento abbastanza vivace, cacciarono i Garibaldini, i quali persero cinque morti e 15 prigionieri contro i quattro feriti degli zuavi. Mentre alcune centinaia di Garibaldini entravano nello Stato Pontificio da sud, cominciando col prendere Falvaterra e spingendo 200 uomini il 15 a Vallecorsa, dove i dodici gendarmi locali si barricarono nella caserma resistendo fino all’arrivo dei soccorsi, 290 il 13 ottobre un’avanguardia pontificia di ottanta zuavi e dieci gendarmi aveva provato ad assalire Montelibretti e, dopo un’ora di scontro, era stata respinta perdendo dieci zuavi e due ufficiali, ma ritirandosi con quindici prigionieri. Lo scontro aveva indotto comunque i Garibaldini a lasciare Montelibretti ripiegando su Nerola, dove, secondo i Pontifici, avevano preparato un campo trincerato con ben 4.000 uomini. Il 18 Charette riprese Nerola alla testa di 2.000 fra zuavi e antiboini dopo un’ora e mezzo di combattimento, perdendo dodici morti e alcuni feriti e facendo 134 prigionieri, mentre i Garibaldini ripiegavano verso Tivoli. Il 19 ottobre le truppe papali interruppero la ferrovia a Ponte Corese, per impedire ai Garibaldini d’usarla e il 22 asportarono le rotaie anche vicino alla stazione di Borghetto, sotto Civita Castellana. A Roma, dove la polizia supponeva la presenza di 400 persone pronte a insorgere, la prima azione fu l’attentato alla Caserma Serristori, a neanche 300 metri da piazza San Pietro e nella stessa strada del comando della Guardia Palatina: Monti e Tognetti la fecero saltare alle sette di sera del 22 ottobre. Morirono 25 zuavi e due civili, 291 ma la polizia rintracciò i due patrioti, che furono arrestati, processati e condannati a morte. Sarebbero stati ghigliottinati tredici mesi dopo. Contemporaneamente si verificarono tentativi di sommossa a Piazza Navona, alla Basilica di San Paolo fuori le Mura e nei pressi del Campidoglio e si scoprì che pure la Caserma di San Crisogono era minata. L’indomani sera, il 23 ottobre, il gruppo dei Cairoli, di circa 75 uomini, venne intercettato a Villa Glori da una mezza compagnia di 46 Carabinieri Esteri comandata dal capitano Mayer. Impegnato il 290 I Pontifici ammisero la morte di due gendarmi e dichiararono d’aver catturato 35 garibaldini, uccidendone altri quattro.
Il conte d’Ideville, che nel suo libro sostenne d’essere stato minutamente informato di tutto da un suo corrispondente dell’ambasciata francese a Roma, dove lui aveva servito fino a pochi mesi prima e dove non sarebbe più tornato, ma che, più probabilmente collazionò tutti i bollettini ufficiali pontifici dai quali trasse le sue informazioni, condendole con una visione a dir poco soggettiva, commentò lo scontro di Vallecorsa, scrivendo: “Questi bravi gendarmi sono ammirevoli sotto il fuoco, resistono come vecchi guerrieri, sopportano fatiche incredibili e sono di una dedizione a tutta prova,” Aggiunse col solito smaccato sciovinismo francese:“valgono i nostri gendarmi francesi.”, cfr. D’IDEVILLE, Henry, I Piemontesi a Roma, Milano, Longanesi, 1982, pagg. 49-50. 291 Il numero relativamente basso dei morti si dové al fatto che tutti gli zuavi erano fuori, in servizio d’ordine pubblico, e in caserma erano restati solo i musicanti e i puniti.
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combattimento, i Garibaldini si trovarono davanti complessivamente 300 Carabinieri Esteri e, inferiori per 1 a 4, dopo un’ora e mezzo di scontri vennero costretti a ritirarsi. Enrico Cairoli vi lasciò la vita. Il fratello, Giacomo, gravemente ferito, raggiunse coi superstiti il grosso di Garibaldi. Il giorno dopo, 24 ottobre, esplosero varie bombe in città, ferendo civili e militari e ci furono molti arresti. L’indomani, intorno a mezzogiorno, la polizia pontificia con zuavi e gendarmi piombò sul lanificio Ajani, dove si trovavano una quarantina di patrioti con armi e bombe. Nel successivo scontro a fuoco ne rimasero uccisi nove, fra cui una donna, Giuditta Tavani Arquati. A questo punto l’insurrezione romana era decapitata, la prima parte del piano fallita, ma tutto era ancora in gioco, poi il destino calò la sua carta: Monterotondo.
II) Monterotondo Il grosso dei Garibaldini era entrato dall’Umbria nello Stato Pontificio. Il 23 ottobre, mentre i Cairoli si trovavano a Villa Glori, Garibaldi era a Rieti, gli Zuavi si stavano ritirando da Corese e un’avanguardia di 308 Garibaldini, spintasi fino alla stazione di Monterotondo, vi aveva tagliato i fili del telegrafo e catturato i due telegrafisti e i cinque soldati di guardia. Il 24, messa sull’avviso da voci e dal taglio del telegrafo, la guarnigione di Monterotondo si preparò. La comandava il capitano de Castres, della Legione Romana, cioè la Légion d’Antibes, e aveva con sé due compagnie di antiboini – la sua 2ª e la 5ª – e una dei Carabinieri Esteri. La piazza era comandata dal capitano Federer e disponeva anche d’un drappello di dragoni, uno di gendarmi e una sezione d’artiglieria di due pezzi, per un totale di 336 uomini, ufficiali inclusi. Il 25 Garibaldi arrivò alla stazione di Monterotondo e invece di proseguire su Roma staccò Menotti a impadronirsi della cittadina. Fu l’errore che gli costò l’impresa. Se avesse marciato subito su Roma, la partita era vinta. Così, invece, la resistenza di Monterotondo, durata più del previsto, lo rallentò di quasi due giorni e diede tempo ai Francesi d’arrivare e ai Pontifici di far saltare il ponte Salario sull’Aniene. Quest ultimo è un fiume relativamente piccolo, ma non è guadabile, è più o meno perpendicolare al Tevere, grossomodo parallelo a Roma per decine di chilometri ed è un ostacolo per chiunque le si avvicini da nord stando sulla riva sinistra del Tevere. L’attacco a Monterotondo iniziò all’alba. Le truppe di de Castres resisterono tutta la giornata del 25 e si ritirarono nel castello quando i Garibaldini riuscirono a dar fuoco a Porta Romana. Nel frattempo Kanzler aveva spedito la 7ª compagnia della Legione Romana – tre ufficiali, 56 uomini e tre dragoni – a vedere che succedeva a Monterotondo. Uscita da Roma all’1,30 del mattino del 26, la compagnia andò a sbattere negli avamposti garibaldini alla Marsiliana, perse sei prigionieri e ripiegò. Poche ore dopo, a Monterotondo, il cappellano militare del presidio, il domenicano fra’ Vincenzo Vannutelli,292 secondo il solito stile ecclesiastico che abbiamo già visto far danni dal 1708 in poi, convinse de Castres ad arrendersi. 293 Il castello alzò bandiera bianca alle nove e mezzo, ma l’uscita della guarnigione fu seguita da un saccheggio sfrenato del castello stesso e delle chiese cittadine e dal maltrattamento di alcuni prigionieri, uno dei quali fu ucciso. Il disordine fu tale che, nonostante le insistenze del colonnello Pianciani, Garibaldi, preoccupato dalla mancata insurrezione di Roma, dové tener fermi i suoi tutta la notte a Monterotondo, per riordinarli, cercare qualcosa da mangiare e spedire a Corese i 321 prigionieri fatti.
292 Al secolo Alessandro Cesare Vannutelli, era cugino dei fratelli e futuri cardinali Vincenzo e Serafino Vannutelli, in quel
momento addetti alle nunziature rispettivamente del Belgio e del Messico. 293 D’Ideville favoleggiò d’una strenua resistenza fino all’ultima cartuccia, seguita da un’eroica sortita alla baionetta, smentito dalle fonti pontificie, che ho seguito qui.
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Informato di quanto aveva trovato la 7ª compagnia, Kanzler aveva intanto raggranellato altri 1.140 uomini fra cacciatori, linea, zuavi, carabinieri esteri e dragoni e, messili al comando del colonnello Allet con quattro pezzi, li aveva mandati a Monterotondo. Giunti alla Marsiliana dopo il tramonto, gli uomini d’Allet urtarono negli avamposti garibaldini. Ne seguirono due scaramucce con impiego dei cannoni, una a Fornonovo, l’altra, più verso Monterotondo, a Fonte di Papa, che consentirono ad Allet d’arrivare alla stazione di Monterotondo e accamparvisi, ma a mezzanotte fu raggiunto dall’ordine di Kanzler di tornare a Roma. Al mattino del 27 i Garibaldini, rifocillatisi alla meglio con quanto avevano requisito in tutti i paesi circostanti, sotto la pioggia arrivarono a Santa Colomba e vi si accamparono. Le cose non stavano andando bene. Prevedendo un’avanzata rapida, erano partiti praticamente senza nulla, contando di mangiare a Roma il 25, cosa impedita dal tempo perso a Monterotondo. Nel frattempo i presidii pontifici della Tuscia e del Lazio avevano respinto tutti gli attacchi. A nord le truppe di de Courten e del colonnello Azzanesi, dopo aver cacciato le bande di Acerbi da Acquapendente e Bagnorea, le avevano respinte pure da Valentano, San Lorenzo Nuovo, Ischia di Castro,294 Farnese, Grotte di Castro e Montefiascone, grazie all’intervento delle colonne piccole e grandi di Ramerini e dei capitani Zannetti, Fabiani e de Gonidec. A sud e ad est il tenente colonnello Giorgi e il maggiore Lauri avevano tenuto Subiaco e Frosinone, come pure erano state tenute Vallecorsa, Falvaterra e Velletri. Nel complesso i Pontifici dichiaravano d’aver perso solo sei uomini a fronte dei 134 garibaldini catturati e delle varie decine uccisi. Adesso però le guarnigioni papali vennero richiamate da Kanzler a Roma. Allora Nicotera tornò nel Velletrano con 800 uomini, Acerbi nel Viterbese e Pianciani entrò a Tivoli. Garibaldi sembrava pronto a prendere Roma, ma era troppo tardi, stavano arrivando i Francesi: infatti a livello internazionale le cose si erano complicate. Per giorni e giorni Napoleone III aveva fatto finta di niente, tenendo ferme le truppe in procinto di partire. Mostrando di dare fede alle affermazioni italiane che non stesse accadendo nulla di grave nello Stato Pontificio, il 26 aveva fissato una dilazione d’altre 24 ore; ma il rallentamento di Monterotondo era stato fatale. Alla scadenza del termine, Napoleone, pressato dalle camere, aveva dovuto dare l’ordine di partenza alla flotta e Vittorio Emanuele II si era ufficialmente dissociato dall’impresa garibaldina con un proclama uscito lo stesso giorno, 27 ottobre 1867, domenica. Mentre il convoglio francese solcava il Tirreno, il 28 ottobre Garibaldi scrisse a Nicotera e ad Acerbi di unirsi a lui per poi avanzare su Roma. Era in ritardo già di tre giorni rispetto ai piani, ma in base a quegli ordini il ritardo sarebbe salito ad almeno cinque. I suoi Garibaldini, ordinati su 22 battaglioni, erano valutati dai Pontifici a 14.000 uomini e si trovavano sempre più in difficoltà: continuavano a mancare di vettovaglie e il nemico aveva pure fatto saltare ponte Salario per rallentarli ancora di più. Al mattino del 29 i primi trasporti coll’avanguardia del corpo di spedizione francese entrarono in rada a Civitavecchia e i soldati si prepararono al trasferimento a Roma in ferrovia. Alla stazione Termini di Roma c’era abbastanza da formare tre treni da 50 vagoni e tre da 30; e le varie linee dello Stato Pontificio potevano mettere insieme una trentina di locomotive.295 Considerando che a Termini esistevano 15 piani caricatori 296 con tre binari principali e sei di ricovero, ce n’era più che a sufficienza per muovere celermente il contingente francese. Il viaggio era semplice: si andava da Civitavecchia a Roma Porta Portese e, attraverso il ponte girevole, fino a Termini, poi, volendo, da 294 All’epoca e fino al 1872 semplicemente Ischia. 295 Le ferrovie pontificie avevano complessivamente 189 vetture passeggeri - una vettura salone, 40 di prima classe, nove miste
di prima e seconda classe, 40 di seconda classe e 100 di terza - e due breaks, 25 bagagliai, cinque cavallai e una piattaforma, nonché 300 carri coperti per merci e bestiame, 120 carri scoperti a cassetta, 120 pianali, 24 a bilico e 12 per materiali vari. Senza contare i tre carri di soccorso e le tre vetture del treno papale 296 Il piano caricatore è la banchina su cui fare le operazioni di carico e scarico del convoglio ed è alta quanto il pavimento dei vagoni che le si affiancano; maggiori la lunghezza e il numero dei piani caricatori, più rapidi il carico e lo scarico.
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Termini, senza nemmeno scendere, si poteva proseguire per un tratto della Roma-Orte fino all’intersezione con la via Nomentana e da là ci si sarebbe potuti mettere in marcia lungo la Nomentana verso Mentana. Da Civitavecchia alla Nomentana potevano bastare quattro ore di treno, ma si decise d’agire con maggior cautela.
III) Mentana Nella notte dal 29 al 30 ottobre Kanzler ordinò al colonnello Jeannerat di attaccare i Garibaldini ovunque si fossero presentati lungo l’Aniene. La mattina seguente Jeannerat passò l’ordine al maggiore De Castella che, con una colonna mista di zuavi, linea, carabinieri esteri e due cannoni si presentò sul fiume e ingaggiò uno scambio di colpi cogli avamposti avversari; poi traversò l’Aniene all’estremità della propria ala destra, sul ponte Mammolo, e per sei ore fece scorrerie sull’altra riva. Ci fu un gran fracasso, ma nessuna perdita da entrambe le parti. Nel frattempo le truppe italiane passavano il confine e si attestavano a Frosinone, Acquapendente e Civita Castellana, ufficialmente per tenere d’occhio la situazione, di fatto per coprire un eventuale ripiegamento dei Garibaldini Nel pomeriggio del 30 i Francesi arrivarono in treno a Roma, mentre a Civitavecchia giungeva la pirofregata spagnola ad elica da 46 cannoni Villa de Madrid, messa a disposizione del Papa. La vicinanza di Garibaldi rendeva tesa la situazione nell’Urbe. La sera del 27 era stata lanciata un bomba a piazza di Spagna. Nella notte ne erano esplose molte altre, mentre le campane suonavano a stormo, contribuendo a innervosire i cittadini. Presidii erano stati piazzati – ognuno con un cannone – al Campidoglio, a piazza Colonna e a piazza del Popolo. Il 30 ci fu uno scontro fra popolani e soldati all’osteria di villa Cecchini, alle falde del Gianicolo, finito con un ufficiale morto e due soldati feriti a fronte di cinque popolani morti, tre feriti e quattro arrestati, seguito in serata da un altro scontro senza perdite a Porta San Giovanni. Kanzler, temendo infiltrazioni di Garibaldini in uniforme pontificia, diede disposizioni riservate per modificare le divise, così da riconoscere i soldati veri da quelli finti. Nella notte Garibaldi arrivò a mettere il suo quartier generale a Cecchina, non lontano da ponte Nomentano e fu informato dello sbarco francese. Data la situazione, decise di tornare a Monterotondo con tutti i suoi e all’alba del 31 erano alla stazione di Monterotondo. Qui per mancanza di scarpe 297 e viveri si verificò un tale tumulto, che Menotti Garibaldi fece disarmare 500 volontari e li rispedì indietro, mentre ne giungevano altri 200 dalla Lombardia 298 insieme a consiglieri ed emissari del governo italiano che spingevano Garibaldi a lasciar perdere e ritirarsi. In dubbio, lui decise di spostarsi coi suoi a Tivoli, per imboccare la via Tiburtina e ritirarsi in Abruzzo invece di consegnarsi alle truppe regie Frattanto, alle prime luci del giorno, i Pontifici in riva all’Aniene si erano accorti della scomparsa del nemico e avevano informato Kanzler, al quale era stata pure comunicata la partenza da Tolone della seconda aliquota francese, forte di 16.000 uomini, imbarcati su undici trasporti e scortati da sei corazzate e cinque avvisi. 297 A Nino Costa, che lo raggiunse il 1° novembre per avvertirlo che sarebbe stato attaccato entro due giorni, Garibaldi disse
tristemente che i suoi uomini mancavano di tutto “Non son nemmeno calzati. Si devono distribuire scarpe.” 298 Questo afflusso e deflusso di volontari, aggravato da parecchie diserzioni continuò per tutta la durata dell’impresa e rese quasi impossibile il calcolo delle forze garibaldine. Costa scrisse: “L’eroe non poteva esser sicuro dei suoi uomini. Non eran più gli uomini di Roma, di Sicilia, del Volturno. Nemmeno eran quali avea avuto l’anno prima nel Trentino. Frequenti eran le defezioni, molto il malcontento e l’indisciplina. Ho sentito dire, in seguito, che Garibaldi abbia attribuito le tante defezioni di quei tristi giorni a Mazzini. Ma la verità è che le file dei Garibaldini, in quella campagna per Roma, erano composte di pugni di eroi frammisti a gentaglia, tra cui per numero primeggiava la schiuma toscana, massime fiorentina, che vi aveano addensata emissari della Consorteria. E, caduto Rattazzi, si trovava Garibaldi con simil gente, del tutto abbandonato dal Governo Nazionale. Quanti di quelle migliaia di uomini eran capaci dell’estremo sacrificio? Ben pochi!”, rip. in ORIOLI, op. cit., pag. 205.
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Temendo che i Garibaldini avessero il tempo di concentrarsi e stimandone la forza sempre a 14.000 uomini, il 2 novembre Kanzler decise d’attaccare prima dell’arrivo dei Francesi, ottenne dal Papa il permesso e diramò gli ordini necessari: avrebbe marciato con 3.000 uomini, seguiti da 2.000 francesi, lasciando tutti gli altri a guardia della città. Garibaldi ne fu informato alle otto della stessa sera, quando i Pontifici si stavano a malapena concentrando nella caserma del Macao, a Castro Pretorio. 299 Alle 4 del mattino del 3 novembre la colonna pontificia uscì da Porta Pia. Al comando di Kanzler e di de Courten, includeva 1.550 Zuavi, 520 carabinieri esteri, 540 cacciatori della Legione Romana, otto pezzi da campagna, uno squadrone e mezzo di dragoni, una compagnia di zappatori del genio e 50 gendarmi a custodia delle salmerie. 300 La seguiva una seconda colonna di circa 2.000 francesi, 301 comandati dal generale de Polhes e rinforzati da un altro drappello di dragoni papali, un drappello del genio e un’altra sezione d’artiglieria pontificia di due pezzi. All’alba le truppe traversarono l’Aniene a ponte Nomentano e proseguirono verso Mentana, staccando a sinistra tre compagnie di zuavi a seguire la Salaria fino a Monterotondo. Il piano era semplicissimo. Credendo che Garibaldi fosse ancora là, Kanzler voleva sorprenderlo a Monterotondo prima che le altre aliquote garibaldine lo raggiungessero, sbarrandogli la via di Mentana e Tivoli col grosso e usando la colonna appena distaccata per impedirgli la ritirata verso Corese. Ignorava però che Garibaldi, cambiati i suoi piani, si stava muovendo per attraversare Mentana e proseguire su Tivoli, per cui i Pontifici stavano puntando dritti sul suo fianco destro, cogliendolo in crisi di movimento. Ne nacque una battaglia d’incontro del tutto inaspettata; e fu tanto più inaspettata perché gli uni e gli altri erano in ritardo sulle loro stesse tabelle di marcia. I Garibaldini, a corto di munizioni perché un vagone era andato a fuoco il giorno prima alla stazione di Corese, avevano ricevuto un treno di viveri, scarpe e coperte, la cui distribuzione aveva fatto loro differire la partenza fino alle 11,15. I Pontifici, già ritardati dall’imbizzarrimento dei cavalli dei traini all’uscita da Porta Pia, all’alba si erano fermati di nuovo perché era domenica e dovevano assistere alla Messa, dopo la quale avevano potuto fare la colazione, prima impossibile perché a quell’epoca, e fino al Concilio Vaticano II, non ci si poteva comunicare se non si era digiuni dalla mezzanotte. Se i Garibaldini avessero rispettato la loro tabella di marcia, sarebbero passati da Mentana almeno due prima dell’arrivo dei Pontifici. Se invece non fosse stata domenica e non ci fossero stati l’intoppo dei cavalli e il ritardo per la messa e la colazione, Kanzler avrebbe sorpreso Garibaldi prima che uscisse da Monterotondo. Garibaldi aveva studiato attentamente l’itinerario e preso tutte le necessarie misure di sicurezza. Da Monterotondo a Mentana il passo era breve e facile; poi, da Mentana a Tivoli, la strada era naturalmente protetta da alcune colline verso Roma, perciò fu lasciato un battaglione a Monterotondo a proteggere la retroguardia e tre altri vennero dislocati sulle alture che proteggevano la strada da Mentana a Tivoli. Mentana era allora un paesetto di 700 abitanti, dominato da un castello baronale, il quale era a sua volta dominato da una coppia di alture in mezzo a cui serpeggiava la via Nomentana in arrivo da Roma. Venendo verso il paese, i Pontifici avevano a destra la più alta delle due, su cui si trovava la Vigna Santucci e a sinistra l’altra, il Colle della Torretta. Poco prima di mezzogiorno Garibaldi entrò a Mentana. Nemmeno un’ora dopo le tre compagnie di zuavi dell’avanguardia pontificia urtarono gli avamposti di sicurezza sul fianco destro garibaldino al Romitorio, 299 Costruita per volere di monsignor de Mérode sul sito dell’antico Castrum Praetorium, l’accantonamento dei Pretoriani dove
nel XVII secolo erano state acquartierate le corazze pontificie, la caserma del Macao, ultimata nel 1864, esiste ancora, con qualche modifica. Divisa in due dalla Biblioteca Nazionale Centrale, ospita il Ra.Lo,Ce. – Raggruppamento Logistico Centrale – dello Stato Maggiore Esercito e, nell’altra parte, la foresteria. La parte adibita a foresteria si chiama ancora Caserma Pio IX. 300 Gli zuavi erano comandati dal colonnello Allet, i carabinieri esteri dal parigrado Jeannerat, gli antiboini dal colonnello d’Argy, l’artiglieria dal capitano Polani, i dragoni dal capitano Cremona, gli zappatori dal parigrado Fabri. L’avanguardia era agli ordini d’Allet e comprendeva tutti gli zuavi, una sezione d’artiglieria di sei pezzi e un drappello di dragoni. 301 Un battaglione di cacciatori a piedi, quattro di fanteria di linea e una squadra di cacciatori a cavallo.
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praticamente alle falde della collina di Vigna Santucci e partirono all’attacco. Gli spari allarmarono entrambi gli eserciti. Garibaldi piazzò i due pezzi d’artiglieria che aveva, riempi le due alture di uomini e ne mise parecchi altri nel castello di Mentana e a costruire delle barricate agli accessi del paese. Kanzler invece spiegò i suoi, dirigendoli contro le due alture e la strada in mezzo: Allet cogli zuavi contro Vigna Santucci, gli Antiboini contro la Torretta, i carabinieri esteri a sostegno di entrambi. Respinto una prima volta, dopo un’ora di scontri il battaglione zuavi di Charette raggiunse il recinto di Vigna Santucci, lo superò e prese la posizione, mentre Jeannerat si assicurava la Torretta. Kanzler fece avanzare l’artiglieria sui due rilievi e alle 14,30 fece aprire il fuoco sulle retrostanti posizioni nemiche, cercando di non colpire l’abitato di Mentana e, incendiando casa Santucci e il fabbricato adiacente il castello. Nel frattempo de Courten, accortosi d’un movimento aggirante dei Garibaldini ad est, verso la Rocca, vi diresse una colonna mista, sventò la minaccia d’aggiramento e poi, alimentando l’attacco colla Legione d’Antibo, si volse all’altura su cui erano le artiglierie garibaldine e le prese. Più o meno a quell’ora Garibaldi lasciò il campo di battaglia e tornò a Monterotondo, dove tenne consiglio di guerra. Intanto, dopo tre ore di scontri, intorno alle quattro del pomeriggio, Kanzler, deciso a farla finita prima del tramonto, segnalò a de Polhes d’intervenire. I Francesi entrarono in azione freschi e contro i Garibaldini stanchi, affamati e a corto di munizioni, per cui i nuovissimi fucili chassepots “fecero miracoli” colla loro elevata cadenza di tiro. Al tramonto arrivarono pure gli zuavi mandati al mattino contro Monterotondo, dunque Mentana si trovò circondata e, mentre una parte di Garibaldini ripiegava su Monterotondo, circa 700 restarono barricati nel paese, passando poi, sotto il tiro dell’artiglieria nemica, a chiudersi nel castello. A Monterotondo Garibaldi si trovò ad essere l’unico a voler resistere. Tutti, anche i più fedeli, gli dissero che la partita era persa e bisognava tornare subito a Corese e così fecero. Garibaldi vi arrivò alle sette di sera alla testa di 5.000 uomini, come poi disse Crispi. Dietro di lui restava il disastro. I Pontifici giubilarono. Annunciarono d’aver ucciso 600 garibaldini, d’averne catturati 1.400 e che un migliaio di feriti erano giunti a Corese in treno o su carretti, sostenendo che in 5.000 avevano affrontato e battuto almeno 10.000 garibaldini, calcolando gli altri distaccamenti sfuggiti. Ai Francesi la battaglia era costata due morti e 38 feriti, ai pontifici 30 e 103, ai Garibaldini, al di là delle esagerazioni della parte opposta, 150 morti, 240 feriti e ben 1.600 prigionieri: comunque un disastro. A Corese Garibaldi fu accolto dalle truppe italiane con molta deferenza, il che non impedì al Governo di farlo arrestare dai Carabinieri Reali a Figline Valdarno. I Pontifici radunarono i prigionieri e le armi e li portarono a Roma. Le truppe vittoriose rientrarono il 4 novembre. I primi 400 prigionieri arrivarono a piedi a mezzogiorno. Gregorovius li vide e annotò: “sono andato nel pomeriggio sino al ponte Nomentano per vedere l’ingresso degli altri prigionieri. Migliaia di persone a cavallo, a piedi, in vettura, erano in moto per S. Agnese, per quattro chilometri le milizie formavan cordoni sino alla porta. Folla sempre più grande.”CCLI E aggiunse: “Oggi alle 4 pomeridiane sono ritornate da Mentana le truppe del papa e di Napoleone. Il loro ingresso viene annunciato come un trionfo dall’Osservatore.302 Le ho viste a malincuore passando per il Quirinale ove sono stato avvolto dalla folla. Erano circa 4.000. Innumerevoli carrozze piene di preti e di legittimisti, molte migliaia di curiosi e di
302 Si tratta, ovviamente, de “L’Osservatore Romano”, che si pubblicava dal 1° luglio del 1861 e costava quanto la paga
giornaliera d’un soldato, 5 bajocchi.
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gente ottusa o bigotta, facevano ala, sventolavano i fazzoletti e gridavano. Molti di questi mercenari portavano dei mazzi di fiori che erano stati loro gettati.” CCLII Per ridurre al minimo i rischi di disordini, Kanzler ebbe cura di far arrivare il grosso dei prigionieri col buio. Finirono in carcere. Le loro armi vennero invece orgogliosamente esposte, sormontate da cartelli recanti la scritta evangelica “Non praevalebunt.”CCLIII Tre anni di pazienza e avrebbero prevalso.
IV) Fra Mentana e Porta Pia Nel 1868 le forze del Papa, fra professionisti e volontari, esteri e indigeni, pure grazie all’abbassamento a 17 anni dell’età minima per l’arruolamento, stabilito il 20 maggio di quell’anno, erano risalite a circa 15.000 uomini, articolati in vari corpi, alle dipendenza dello Stato Maggiore Generale L’unità più forte era il Reggimento Zuavi, sempre comandato dal colonnello Allet, su cinque battaglioni per un totale di oltre 2.000 uomini, tutti volontari, come i circa altrettanti della Legione Romana o Legione d’Antibo ora del colonnello Filiberto Perreaux. Il colonnello Azzanesi comandava sempre i circa altrettanti nazionali del Reggimento di Fanteria di Linea indigeni; i Carabinieri Esteri del colonnello Jeannerat erano cresciuti da battaglione a reggimento ed allineavano un migliaio di uomini, mentre di poco più forte – circa 1.200 uomini – era il Reggimento Cacciatori indigeni del tenente colonnello Sparagana. I 550 uomini del Reggimento Dragoni del colonnello marchese Lepri, il Reggimento Artiglieria del colonnello Caimi e le due compagnie del Corpo del Genio, agli ordini del tenente colonnello Lana, costituivano il resto delle forze combattenti dell’esercito di campagna. Sempre presenti e di forza sostanzialmente invariata i corpi di palazzo: la Guardia Nobile di Sua Santità, di 70 uomini, comandata dai principi Barberini e Altieri, la Guardia Svizzera e la Guardia Palatina, sempre di circa 500 uomini. A completamento delle truppe di campagna c’erano ancora i Volontari Pontifici di Riserva, costituenti un battaglione quaternario di circa 400 uomini, al comando del capitano Fiaschetti del 1° Reggimento di Linea,303 i gendarmi, comandati dal colonnello Evangelisti, coadiuvato dal tenente colonnello Eligi, le Guardie di Finanza, la guardia di polizia, la compagnia di disciplina, disarmata e sempre a Civita Castellana, gli Squadriglieri, il Treno, i Veterani, o Sedentari, o Invalidi col comando ad Anagni ma in servizio pure in Castel Sant’Angelo, gli Infermieri, il Corpo di Piazza e quello d’Amministrazione e la Marina.
303 Già nei giorni di Mentana parecchi nobili e borghesi si erano messi a
disposizione, ricevendo armi e una fascia bianca e gialla da portare a tracolla. L’11 febbraio 1869 erano stati inquadrati nel nuovo Corpo dei Volontari Pontifici della Riserva. Inizialmente su tre compagnie, poi salite a sei e infine a otto, era destinato ad essere mobilitato per la sola sicurezza di Roma e per la difesa della persona del Papa. Furono mobilitati nel 1870 e, causa la loro scarsa abilità nel tiro, erano soprannominati “Caccialepri.”, come gli Zampitti. Le quattro compagnie formate nel 1867 erano comandate rispettivamente dal principe di Sarsina, dal principe Lancellotti, dal duca Salviati e dal marchese Giovanni Naro Patrizi Montoro, vessillifero ereditario di Santa Chiesa, grado pari a quello di tenente generale.
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Capitolo XXVII Il Concilio e la presa di Roma I) Il Concilio uccide l’Esercito Il Concilio Vaticano I ebbe un’origine che si potrebbe definire casuale. Le prima idea di tenerlo sembrerebbe essere apparsa nel 1863, in occasione della celebrazione a Trento del tricentenario della fine del Concilio Tridentino, fatta con grandissima partecipazione del clero austriaco e ungherese. Il fine però era diverso: il nuovo concilio avrebbe dovuto proclamare il dogma del Potere Temporale. 304 L’idea non era nuova e un primo indirizzo in cui si dichiarava necessario il Potere Temporale era stato presentato a Pio IX il 9 giugno 1862 da 390 vescovi di tutto il mondo, convenuti in occasione del concistoro e della canonizzazione dei martiri giapponesi. L’anno seguente i legittimisti più estremi avevano sostenuto di nuovo l’idea; la Curia un po’ meno: non disse di no, ma nemmeno di si e prese tempo. Al 1863 seguirono la Convenzione di Settembre, l’indebolimento dell’Austria, sconfitta nel 1866 con la sua esclusione dalla Germania e la perdita del Friuli e del Veneto; l’indebolimento della Francia, col fallimento della spedizione in Messico e il crescente potere della Prussia; il riconoscimento e 304 La validità dogmatica del Potere Temporale di per sé non è mai esistita, perché non se ne trova alcuna traccia in nessuno dei
quattro Vangeli, nei quali, caso mai, c’è l’esatto contrario col famoso “date a Cesare quel ch’è di Cesare, a Dio quel ch’è di Dio” (Matteo XXII, 21) cioè la netta separazione fra Stato e Chiesa: ognuno nella sua sfera. Lo stesso Pio IX, parlando il 25 marzo 1862 agli ecclesiastici della Minerva, aveva detto che il Potere Temporale non costituiva un articolo di Fede, ma era necessario all’indipendenza della Sede Apostolica. Esisteva però un insieme di fonti, che i fautori del Potere Temporale avevano raccolto per costituire una base giuridicamente valida. Si partiva dai versetti 11 e 12 del capo IX della Prima Lettera ai Corinzi, in cui San Paolo scriveva: “Si nos vobis spiritualia seminavimus, magnum est, si nos carnalia vestra metamus? Si alii potestatis vestrae participes sunt, quare non potius nos? [Se noi abbiamo seminato per voi semenza spirituale, è essa una gran cosa se mieteremo del vostro temporale? Se altri godono di questo diritto sopra di voi, perché non piuttosto noi?]” A questa citazione veniva unita la Donazione di Costantino, sulla cui falsità si sorvolava, e ci si appoggiava poi alla Costituzione di Niccolò III Fundamenta militantis Ecclesiae del 18 luglio 1278, che però era viziata nella sostanza poiché si rifaceva alla Donazione di Costantino e la prendeva a fondamento giuridico per riaffermare l’autorità della Chiesa sulla città di Roma e il suo governo. A ciò veniva sommata l’autorità di San Tommaso, il quale. nel secondo libro del suo Scriptum super Sententiis, [liber II, Distinctio XLIV, quaestio 2 (o articulus 2) “Utrum Christiani teneantur obedire potestatibus saecularibus, et maxime tyrannis”, ad 4 in fine], diceva Ad quartum dicendum, quod potestas spiritualis et saecularis, utraque deducitur a potestate divina; et ideo intantum saecularis potestas est sub spirituali, inquantum est ei a Deo supposita, scilicet in his quae ad salutem animae pertinent; et ideo in his magis est obediendum potestati spirituali quam saeculari. In his autem quae ad bonum civile pertinent, est magis obediendum potestati saeculari quam spirituali, secundum illud Matth. XXII, 21: reddite quae sunt Caesaris Caesari. Nisi forte potestati spirituali etiam saecularis potestas conjungatur, sicut in Papa, qui utriusque potestatis apicem tenet, scilicet spiritualis et saecularis, hoc illo disponente qui est sacerdos et rex in aeternum, secundum ordinem Melchisedech, rex regum, et dominus dominantium, cujus potestas non auferetur et regnum non corrumpetur in saecula saeculorum. Amen (al quarto punto si deve dire [che] poiché la potestà spirituale e secolare, vengono entrambe dalla potestà divina, perciò la potestà temporale è sotto quella spirituale, in quanto ad essa è sottomessa da Dio, cioè in quelle cose che appartengono alla salvezza dell’anima; e perciò in quelle bisogna obbedire di più alla potestà spirituale che alla secolare. In quelle, pure, che pertengono al bene civile, bisogna obbedire di più alla potestà secolare che alla spirituale, secondo quello [che riporta] Matteo, 22, 21: date a Cesare quello che è di Cesare. Se non nel caso siano coniugate la potestà secolare alla spirituale, come nel Papa, che detiene il vertice di entrambe, cioè della spirituale e della secolare, questo, disponendone lui che è sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedec, re dei re e dominatore dei dominatori , di cui la potestà non sarà rimossa e il regno non si corromperà nei secoli dei secoli, Amen.). Il quarto pilastro era San Roberto Bellarmino che nel suo Tractatus de potestate Summi Pontificis in rebus temporalibus, adversus Gulielmum Barclay del 1610 aveva scritto “Etsi absolute forte praestaret Pontifices tractare solum spiritualia et reges termporalia, tamen propter malitiam temporum experientia clamat: non solum utiliter, sed etiam necessarie, et ex singulari Dei providentia donatos fuisse Pontifici aliisque episcopis temporales aiiquos principatus” e di questo periodo si prendeva la seconda parte, dove si diceva, dopo “propter malitiam temporum”: “l’esperienza dimostra: che non solo utilmente ma anche necessariamente e per una singolare provvidenza di Dio fossero donati certi principati temporali al Pontefice e ad altri vescovi.”, il che significava solo che il potere temporale era stato utile, non che fosse un articolo di Fede.
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l’ammissione del Regno d’Italia nel concerto europeo fra il 1861 e il 1867, la perdita del trono da parte della regina Isabella di Spagna, durante il cui regno, nel ’49, gli Spagnoli erano venuti in soccorso del Papa. Furono tutti cambiamenti a vantaggio diretto del nuovo ordine di cose e, indiretto, del neonato Regno d’Italia. La “Civiltà Cattolica” se ne rese conto e suggerì – o le venne suggerito di suggerire – che il Concilio considerasse il dogma dell’infallibilità. A quello, apparve chiaro, avrebbe potuto far seguito la dogmaticità del Potere Temporale. L’allocuzione Pericunda annunciò il Concilio e ne fissò l’inizio all’8 dicembre 1869. Non avrebbe dovuto trattare – e non trattò – solo dell’infallibilità, ma quella fu il fulcro di ogni discussione. Nessuno metteva in dubbio l’infallibilità del Papa e del resto già Sant’Agostino aveva chiaramente indicato il primato del vescovo di Roma e l’obbligo di doversi rimettere a quanto da lui stabilito, però molti dubitavano che fosse possibile, e conveniente, definire l’infallibilità in modo chiaro e stabilito. C’era comunque un aspetto che alla fine rese opportuno quel dogma per la vita della Chiesa. Nella prima metà del secolo XIX l’indipendenza del Sud e del Centro America aveva creato tanti interlocutori della Santa Sede quanti erano i nuovi Stati indipendenti. Pure in Europa c’era stato un cambiamento dalla portata mondiale. La Gran Bretagna nel 1829 aveva messo fine a tre secoli d’emarginazione dei Cattolici dalla vita pubblica, consentendo loro l’accesso all’amministrazione civile e militare, pur mantenendo delle restrizioni in alcuni campi. Poi era venuto il Movimento di Oxford e, grazie soprattutto a John Henry Newman e all’arcivescovo Wiseman, in pochi anni fra il 1845 e il 1850 si era verificato un imponente ritorno degli Inglesi verso Roma, era stata ristabilita la gerarchia cattolica in Gran Bretagna e reinsediato un primate – Wiseman, ora cardinale – a Westminster. Questo aveva finito d’aprire alle missioni cattoliche l’Impero Britannico che, di lì a poco e fino alla fine della II Guerra Mondiale, avrebbe incluso un terzo delle terre emerse nel mondo. Contemporaneamente, negli anni ’40, la famosa carestia delle patate aveva incrementato l’emigrazione irlandese, spingendo centinaia di migliaia d’Irlandesi cattolici verso gli Stati Uniti, ancora quasi completamente protestanti e anti-cattolici. La Chiesa si era trovata dunque davanti a un mondo profondamente mutato nell’arco d’una generazione. Intanto i problemi dell’America Latina, che prima dovevano esser risolti solo a Madrid e Lisbona, andavano trattati ora in diciotto diverse capitali oltre oceano. Poi la conversione degli Inglesi si era innestata su una legge che implicava il giuramento di negare ogni autorità politica diretta o indiretta del Papa, autorità che negli Stati Uniti sarebbe stata temuta e sospettata fino alla Seconda Guerra Mondiale. Si trattava di elementi nuovi che ponevano il problema d’una nuova forma dell’ubbidienza. Per il cattolico, politica e Fede potevano non essere più la stessa cosa, perché adesso anche nei Paesi cattolici l’altare poteva non essere più il sodale del trono. L’Illuminismo aveva tracciato un primo solco fra i due, il giurisdizionalismo settecentesco l’aveva approfondito ma, per quanto geloso delle sue prerogative, nessun sovrano cattolico del XVIII secolo avrebbe mai agito contro la Fede e ben pochi contro la Chiesa. La Rivoluzione Francese aveva però spezzato il binomio, portando al potere degli atei dichiarati. La Restaurazione aveva cercato di ricomporre l’unione fra trono e altare, ma adesso l’espansione dei cattolici in terre protestanti rendeva quell’unione controproducente. Se i cattolici volevano esistere in certe aree del mondo, Roma non doveva cercare d’imporvi la sua visione politica, ma limitarsi a tutelarvi quella religiosa; e Gregorio XVI l’aveva capito e detto già trent’anni prima. La presenza dei Cattolici passava da verticale a orizzontale, cioè da istituzionalmente parallela e affine alla struttura dello Stato di residenza e in essa compenetrata, a sparsa e non necessariamente collegata alle istituzioni del Paese in cui si trovava, come del resto era stata nell’Impero Romano prima di Costantino. Privata del sostegno del potere secolare, Roma doveva curare l’obbedienza spirituale molto più che in passato e, per farlo, doveva ribadire esplicitamente e dogmaticamente alcuni punti che in precedenza potevano anche essere dati per scontati, innanzitutto l’infallibilità del Papa. E’ difficile dire fino a che punto Pio IX si sia reso conto della transizione che la Chiesa stava vivendo, in un mondo in cui la velocità dei cambiamenti era proporzionale a quella delle notizie e dunque di giorno in 359
giorno crescente. Certo, come tutti in Curia, se avesse potuto avrebbe mantenuto le cose come nel buon tempo antico, ma poiché conosceva un po’ il mondo, essendo il primo papa che fosse mai stato in America – in Cile, da giovane305 – e poiché doveva assicurare la continuità della Chiesa e la trasmissione della Tradizione e del Vangelo nella loro integrità, ripiegò su posizioni più spirituali e convocò il Concilio, perché a tutti i vescovi fosse spiegata e da tutti approvata la trasformazione esteriore grazie a cui la Verità avrebbe continuato a vivere e diffondersi. Non credo sia un caso che il Concilio sia stato annunciato ai cardinali di Curia nel dicembre del 1864, l’anno della Convenzione di Settembre. A chiunque avesse un minimo di freddezza – e il Papa ne aveva molta, per impulsivo che fosse – era chiaro che la protezione esterna prima o poi sarebbe finita, come sembrava esserlo quella francese in quel momento, e che la Chiesa avrebbe potuto perdere i suoi Stati; e se l’apertura dei lavori, originariamente fissata al 29 giugno 1867, ritardò fino all’8 dicembre 1869, la III Guerra d’Indipendenza e poi la crisi di Mentana ebbero la loro parte di responsabilità. Le discussioni romane furono seguite attentamente da tutti gli Stati. Voci discordi si levavano fra i padri conciliari proprio riguardo all’infallibilità, ma le varie Potenze quasi non si interessarono a quella che per il momento era una pura questione dottrinale e rimandarono un eventuale intervento a se e quando avesse toccato la sfera temporale. La sola Gran Bretagna poteva essere un ostacolo e manifestò qualche perplessità, ma a tenerla tranquilla pensarono l’abilità e le relazioni sociali dell’arcivescovo Manning, il prossimo primate d’Inghilterra. Il Concilio s’interruppe bruscamente nel luglio del 1870 per lo scoppio della Guerra Franco-Prussiana.306 Roma si svuotò in un batter d’occhio e l’eventuale esame e proclamazione del dogma del Potere Temporale svanì coi prelati francesi e tedeschi che tornavano di corsa alle loro sedi. Ci furono due conseguenze del Concilio sul piano militare. Traslato dal piano temporale e spirituale a quello meramente spirituale, il potere pontificio avrebbe adesso usato solo le armi morali, immateriali, ideali; dunque l’esercito a che sarebbe più servito? Se poi si considerava che il Concilio non aveva proceduto verso il dogma di quel Potere Temporale, che proprio l’esercito avrebbe dovuto difendere, si può concludere che il luglio 1870 segnò la fine delle Forze Armate Pontificie, perché furono private della loro ragion d’essere: non servivano più. II) L’invasione Il vento di tempesta che soffiava sul Reno arrivò fin sul Tevere. Le unità italiane si attestarono al confine papale a partire dal 14 agosto, mentre il Governo del Re dal 17 iniziò richiamare sei classi, per un complesso di circa 105.000 uomini, che portarono in pochissimo tempo l’Esercito a una forza complessiva di 340.000. Tutti gli ufficiali e i sottufficiali, parte dei soldati già in servizio e tutti i richiamati avevano esperienza di guerra. Nel frattempo, a cominciare dal mese di luglio, le truppe papali erano state ritirate dai centri minori per rimpiazzare le guarnigioni francesi che lasciavano Viterbo e Civitavecchia, dalla quale gli ultimi Francesi sarebbero partiti il 19 agosto. Il I Battaglione del Reggimento Zuavi di de Lambilly andò a Viterbo, seguito il 10 agosto dal IV di Charette, nominato comandante militare della provincia, per cui tutta la guarnigione di Viterbo ammontò a due battaglioni di zuavi, uno squadrone di dragoni, un corpo di gendarmeria e una sezione d’artiglieria con due pezzi. Il 12 Charette distaccò una sezione di zuavi col tenente Morin a San Lorenzo in avamposto. Altre piccole guarnigioni vennero messe a Bagnorea, Tuscania, Acquapendente e Montefiascone, dov’erano due 305 Questo fu pure il motivo con cui in seguito spiegò perché avrebbe consacrato un cardinale americano: toccava a lui perché
era il primo di tutti i papi ad essere mai stato in America. 306 Sarebbe stato dichiarato ufficialmente sospeso solo il 20 ottobre 1870, un mese dopo Porta Pia.
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compagnie. Il dispositivo, ispezionato da Kanzler dopo Ferragosto, nella prima settimana di settembre fu ritirato a Viterbo insieme a quasi tutti i gendarmi, a partire dall’avamposto di Morin. La guarnigione di Montefiascone coprì il movimento e poi ripiegò anch’essa su Viterbo, cosicché Charette si trovò con 1.500 uomini, compresi i gendarmi e i dragoni e due cannoni, a difendere una città che sarebbe stata indifendibile pure con 10.000, data l’estensione e la condizione delle mura. Per questo Charette decise di tenere fino all’attacco e poi di ritirarsi verso Roma o Tarquinia, secondo la situazione, e preparò una ridotta dal lato di Montefiascone, a Porta Fiorentina. Non c’era molto altro da fare e coincideva con quanto si pensava a Roma. Kanzler era inferiore di forze per circa 1 a 4, perché al 1° maggio aveva avuto alle armi 13.190 uomini e il 18 settembre, inclusi pure gli infermieri, ne aveva 13.624. 307 Era troppo debole per poter prendere l’iniziativa e doveva comunque cercare di presidiare Civitavecchia, Viterbo e Civita Castellana, la prima come unico sbocco al mare, le altre due in funzione ritardatrice. Se le avesse perse tutt’e tre, gli sarebbe rimasta solo una disperata resistenza a Roma. Dall’altra parte il generale conte Raffaele Cadorna aveva cinque divisioni la 2ª di Bixio, la 9ª di Angioletti, l’11ª la 12ª e la 13ª, rispettivamente di Cosenz, Mazé de la Roche e Ferrero L’unica lontana era quella d’Angioletti, in arrivo dalla Campania; le altre quattro erano in Umbria. Cadorna avrebbe voluto seguire la strada di Garibaldi nel 1867, perché da Corese a Roma avrebbe marciato lungo la Salaria e la Nomentana, colla ferrovia per i rifornimenti e soltanto l’Aniene da traversare; invece il ministro, generale Ricotti, appena succeduto a Govone, da Firenze gli ordinò di far passare la 12ª e l’11ª da ponte Felice, per prendere Civita Castellana. La 13ª invece avrebbe superato il confine più a nord, ad Orte, avviandosi a Viterbo e cooperando con Bixio nella presa della città. Da là, per Ronciglione, sarebbe scesa a unirsi alle altre due a Monterosi per passare tutte sulla Salaria, traversando il Tevere. Bixio invece, presa Viterbo, doveva occupare Civitavecchia e calare su Roma lungo l’Aurelia. L’11 settembre la 2ª Divisione di Bixio mosse da Orvieto e varcò il confine alle cinque del pomeriggio, arrivando a Montefiascone a mezzanotte. Un’avanguardia di tre battaglioni di bersaglieri, una batteria e due squadroni fu staccata verso ovest per raggiungere Tarquinia e da là bloccare la strada da Vetralla per Monte Romano a Civitavecchia. Il colonnello comandante, Crispo, giunto a Tarquinia, ordinò una sosta per il rancio. Bixio arrivò, mandò all’aria il rancio e ordinò di riprendere subito la marcia. La sera di quell’11 settembre Charette seppe che gli Italiani avevano accerchiato Montefiascone. Durante la notte staccò un pattuglione di 40 uomini a tenerli d’occhio e fece lavorare alla ridotta. Poiché a Viterbo si calcolava che gli Italiani sarebbero venuti da Montefiascone, si capì che avevano catturato i 40 uomini del presidio di Bagnoregio, ma non si pensò a cosa stesse facendo la loro 13ª Divisione, la quale era venuta per la via Amerina, aveva passato il confine al ponte di Orte il 12 e avuto un piccolissimo scontro a fuoco coi quattro gendarmi del posto, che si erano sganciati senza vittime. Nonostante questo, Charette considerò solo un attacco da nord e fece presidiare Porta San Pietro, a sud di Viterbo per garantirsi la ritirata. Contava infatti d’abbandonare Porta Fiorentina appena non fosse stata più tenibile, per traversare la città e ripiegare a sud appunto da Porta San Pietro. Da quella porta fece uscire subito le salmerie con 20 uomini di scorta, avviandole a Tarquinia per valersi della ferrovia di Civitavecchia. Al contempo fece fare delle abbattute sulla Cassia a sud di Viterbo: avrebbero ritardato l’avanzata italiana verso l’Urbe, ma non la sua, perché aveva scelto l’itinerario verso sud fino a Vetralla e poi a ovest per Monte Romano e Tarquinia. Tutte le sue previsioni saltarono quando il 12 settembre il presidio a Porta Fiorentina, concentrato su chi veniva da nord, da Montefiascone, si fece sorprendere dai Lancieri di Milano della 13ª Divisione, in
307 Linea 1.691; Cacciatori 1.174; Zuavi 3.040, Legione Romana o Legione d’Antibo 1089; Carabinieri Esteri 1.195; Dragoni
567; Gendarmi 1.363; Squadriglieri 1.023; Artiglieria, 969; Genio 157, Treno 166; Sedentari 544; Infermieri 119; totale 13.624, di cui circa 9.000 due terzi italiani e il resto stranieri.
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arrivo da est, dalla strada di Orte. L’artiglieria non provò nemmeno a sparare, attaccò i pezzi e scappò. La fanteria seguì a ruota, con tutta la guarnigione dietro. Charette uscì per ultimo, disse ai quattro zuavi a Porta San Pietro di ritirarsi, poi tenendo in retroguardia la 6ª compagnia del IV Battaglione degli zuavi in ordine sparso, ripiegò a Vetralla e ci passò la notte. Il 13 mattina si mise in marcia coi suoi uomini per Monte Romano, dove sapeva che i 3.000 italiani di Crispo coll’artiglieria gli sbarravano la via di Tarquinia, mentre altri distaccamenti lo stavano prendendo in mezzo. Grazie al tenente dei dragoni che aveva con sé e conosceva bene i luoghi, sfuggì all’accerchiamento per sentieri semi-impraticabili. Marciando tutta la notte, passate le quattro del mattino del 14 settembre le sue truppe videro i razzi di segnalazione lanciati da Civitavecchia e alle 5 entrarono in città dopo tredici ore di marcia. Alle nove li caricarono in treno e li fecero partire per Roma. 308 Arrivati a Porta Portese, scesero e rientrarono a piedi.309 Arrivano alla Caserma al Gesù alle nove di sera del 14 settembre. Contemporaneamente il generale Ferrero, lasciato un battaglione solo a Viterbo e a Bixio il compito di prendere Charette, il 13 imboccò la Cassia verso Roma via Ronciglione per riunirsi al grosso.
III) La presa di Civita Castellana Le altre due divisioni di Cadorna intanto avevano passato il confine e il Tevere a ponte Felice il 12 settembre e si erano avvicinate a Civita Castellana, difesa da una compagnia di zuavi e dalla compagnia di disciplina, per un totale di poco più di 200 uomini. Due battaglioni di bersaglieri furono mandati ad aggirare la città per tagliare ai Pontifici la ritirata su Roma, poi, alle nove del mattino del 13 settembre, l’artiglieria da campagna del IV Corpo aprì il fuoco sulla fortezza e sulle mura. Nel frattempo una compagnia del XXXV Bersaglieri guadò il Treja e s’inerpicò fino alla città, raggiungendo la piazza, seguita da un battaglione del 39° Fanteria. Fanti e bersaglieri si infilarono nelle case adiacenti al Forte del Sangallo e cominciarono a tirare dalle finestre. Dopo un po’ il forte issò bandiera bianca e mandò un capitano dei cacciatori a parlamentare. Si raggiunse subito un accordo e il comandante la piazza, il capitano conte Papi, si arrese con tutto il presidio, con grande scorno del capitano de Résimont, comandante la 4ª compagnia degli zuavi, che avrebbe voluto resistere più a lungo. Inaugurando la lunga serie di lamentevoli querimonie che avrebbe costellato i resoconti dei reduci nei sessant’anni seguenti, mentre il generale Mazé de la Roche, savoiardo, comandante la 12ª Divisione, ispezionava la fortezza, uno zuavo esclamò tra ironico e seccato: “Belle gloire, dix mille contre deux cent!” – bella gloria diecimila contro duecento “e il generale pronto di rimando: “Aussi n’en sommes nous nullement glorieux” – e infatti non ce ne gloriamo per niente.”CCLIV I Pontifici non ebbero perdite; gli Italiani sette feriti, uno dei quali morì nella notte. Presa la città, Cadorna, informato dell’uscita di Charette da Viterbo, staccò otto squadroni e due sezioni d’artiglieria a tagliargli la strada a Monterosi. Ricevuto l’ordine del ministro Ricotti d’essere a Roma in serata, alle 13,30 le due divisioni partirono seguendo non la Flaminia, ma l’itinerario postale, da Nepi a Monterosi e poi giù per la Cassia fino alla stazione di posta della Storta. Là si accamparono. “Ma verso sera cominciarono a venire soldati da tutte le parti, a due, a tre, a quattro, a drappelli intieri, fantaccini, cavalieri, artiglieri s’avviavano come attratti da una forza D’Argence scrisse nelle sue memorie che appena i treni partirono, tre fregate italiane arrivarono a tutto vapore e cominciarono a sparare sulla città, però la prima Regia Nave entrò in rada solo il 16 settembre. 309 D’Argence affermò che rientrarono da Porta San Pancrazio, ma è improbabile, perché potevano entrare più in fretta e comodamente da Porta Portese, senza bisogno d’inerpicarsi sul Gianicolo e ridiscenderne per arrivare allo stesso posto dove sarebbero giunti seguendo il fiume. 308
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invisibile verso un rialzo di terra arida e scura a destra della strada, lo ascendevano per cento sentieri e si spingevano avanti fra l’erbe brulle e gli spinosi cardi selvatici… avanti fin quando, fatti un centocinquanta passi, appariva loro all’orizzonte, circonfuso nei gravi vapori, il profilo della cupola di San Pietro. I soldati si affollavano a centinaia, a migliaia… ma pure, nell’allegria di quel momento, vi era qualcosa di composto, di solenne.”CCLV
IV) Attesa Nella piana a sinistra del Tevere la mattina del 15 settembre i Pontifici fecero saltare ponte Salario. Sulle colline a destra del Tevere lo stesso giorno il II squadrone dei Lancieri di Novara, spintosi in ricognizione per la via Trionfale, che poco dopo la Storta si stacca dalla Cassia per arrivare dritta al Vaticano, ebbe una scaramuccia al borgo di Sant’Onofrio con una compagnia di zuavi, prendendo un prigioniero e perdendo un morto, un ferito e un prigioniero, restituito da Kanzler l’indomani. Castel Sant’Angelo, le cui fortificazioni davano direttamente all’esterno della città, dal 7 sera aveva raddoppiato il picchetto all’ingresso e le vedette e stabilito l’obbligo di pernottamento in castello dell’ufficiale comandante della guardia. Comunque la sorveglianza non era gran cosa: scarse le sentinelle – solo quattro su tutto il circuito delle mura del castello – e a secco il fossato. I primi giorni di settembre a Roma erano passati tra falsi allarmi. Poi, dal 13, cogli Italiani che si avvicinavano, l’atmosfera in città si era fatta sempre più tesa, ma la situazione in castello non era cambiata, anzi, al mattino del 20 settembre la guarnigione era ridotta a due sole compagnie, insufficienti anche solo al presidio, non parliamo di difesa. I Pontifici, ritenute le pattuglie esterne non bastanti a raccogliere informazioni, la notte dal 15 al 16 stabilirono un osservatorio sulla cupola di San Pietro, mettendoci il tenente Carletti come ufficiale osservatore e un telegrafo servito da due telegrafisti civili in comunicazione diretta col Ministero delle Armi. Altri ne avrebbero poi installati a Santa Maria Maggiore, dov’era il tenente de Buttet, e a San Giovanni in Laterano, con posti telegrafici pure a Piazza del Popolo e a Porta Portese. Alle 6,25 del mattino del 16 settembre l’osservatorio della cupola vaticana mandò il suo primo messaggio e, dovendo seguire le vicissitudini delle truppe pontificie, tanto vale riportarlo insieme a tutti i successivi. Diceva: “Ministro Armi Comando Piazza Fino a questo momento, vedesi solo truppa accampata con tende Sugare, Capannelle e Monti di Grotta Rossa. Dai Colli Albani alla Colonna, libero. Montemario fino ai Montiparioli libero. Tenente Carletti 16 settembre Ore 7,30 ant. Ministro Armi Comando Piazza Un distaccamento 10 uomini Cavalleria si è spinto fino Pineta Sacchetti in prossimità Casale Braschi. Carletti 16 settembre ore 2,45 pom. Uffiziale Osservatorio Vaticano L’avamposto di Ponte Nomentano segnala un’avanguardia di Cavalleria Italiana dalla parte di Tor Tre Teste che si dirige verso Porta Maggiore – Osservi e dia schiarimenti. Rivalta 363
16 settembre ore 2,55 pom. Ministro Armi Comando Piazza Ponte Molle libero – Fuori Porta Maggiore verso la Tenuta Lunghezza vedonsi dei piccoli gruppi di Cavalleria in ricognizione. Carletti 16 settembre ore 3,40 pom Ministro Armi Comando Piazza Verso Ponticelli truppa attendata – Sulla destra del Teverone310 a valle di Ponte Nomentano altra truppa. Carletti 16 settembre ore 6,50 pom. Ministro Armi Comando Piazza Nulla di nuovo da quanto fu indicato ore 3,40 Carletti.”CCLVI Il 16 il IV Corpo seppe che Bixio aveva preso Civitavecchia e che ponte Milvio era gabbionato e protetto da due pezzi in batteria, per cui Cadorna decise di gittare un ponte più a monte per passare sulla Salaria. Il gittamento, a Saxa Rubra, dove, secondo la tradizione, Costantino aveva sconfitto Massenzio, prese sette ore, poi le tre divisioni dalla Storta, per la via di Grotta Rossa, il 17 andarono all’attraversamento e si spiegarono verso la Salaria e la Nomentana. Carletti dalla Cupola comunicò: “17 settembre ore 6,50 ant. Ministro Armi Comando Piazza Aumentato accampamento di Grotta Rossa. Dalla Colonna a tutti i Colli Albani libero. Dalla parte di Civitavecchia nulla. Carletti 17 settembre ore 8,20 ant. Ministro Armi Comando Piazza La truppa segnalata a Grotta Rossa si estende fino ferrovia Firenze – è fanteria, Cavalleria, Artiglieria – Giunge ora lungo treno con fanteria – sulla Via Salaria a circa tre miglia dal Ponte – forte colonna con avamposti prossimi al Ponte. Carletti 17 settembre ore 8,50 ant. Ministro Armi Comando Piazza Una forte Colonna ha oltrepassato Ponte Nomentano e s’inoltra occupando piani Sant’Agnese in comunicazione con la colonna proveniente da Via Salaria. Dalle posizioni che vanno occupando sembra minaccino seriamente la linea tra Porta Pia e Porta Salaria ove concentrano maggior forza. Carletti 310 Nome colloquiale dato a Roma all’Aniene.
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17 settembre ore 10,40 ant. Ministro Armi Comando Piazza Un forte accampamento si è formato alla Serpentara, ove fermasi lungo treno con viveri e foraggi – arriva nuova Cavalleria. Carletti 17 settembre ore 12,55 pom. Ministro Armi Comando Piazza Monti Parioli occupati circa un Battaglione. Carletti 17 settembre ore 4,40 pom. Ministro Armi Comando Piazza Aumento truppa sulle Vie Nomentana e Salaria. Carletti 17 settembre ore 6,20 pom. Ministro Armi Comando Piazza Circa tre compagnie Bersaglieri si sono portate al di qua di S. Agnese distribuendosi in estremi avamposti. Carletti.”CCLVII Bixio intanto, dopo aver accampato i suoi a Marta, non lontano da Viterbo, nella notte dal 12 al 13 settembre, era giunto a Civitavecchia. La giornata del 15 era trascorsa in trattative e a sera il colonnello Serra, comandante la città, presidiata prevalentemente dagli uomini del Reggimento di linea indigeni, aveva accettato di arrendersi a varie condizioni, fra cui quella di considerare la corvetta Immacolata Concezione di proprietà privata del Papa per evitarne il sequestro. L’ingresso in porto della Regia Nave Terribile col gran pavese era stato seguito alle dieci da quello della 2ª Divisione. Gli zuavi e i fanti del presidio, prigionieri, erano stati imbarcati per Genova da dove avrebbero proseguito su Alessandria. Bixio si era avviato verso Roma lungo l’Aurelia, caricando sui treni quanta più fanteria aveva potuto e avviandola alla stazione di Palo, a una ventina di chilometri a nord del Vaticano. Era la stessa strada fatta dai Francesi nel 1849. All’alba del 18 lo schieramento italiano intorno a Roma era pressoché completo. L’11ª Divisione stava contro la città da nord, avendo alla propria destra il Tevere in entrata in città, la Porta Salaria di fronte e la 12ª Divisione a sinistra. La 12ª stava a cavallo della via Nomentana, fronte a Porta Pia, che distava circa 300 metri da Porta Salaria, ed estendeva la propria sinistra oltre la via Tiburtina, fino a toccare la destra della 9ª Divisione in arrivo. Quest’ultima, una volta terminato l’afflusso, avrebbe occupato un lungo settore lungo i lati est e sud delle mura, dalla sinistra della 12ª Divisione fino a Porta San Paolo e al Tevere in uscita dalla città. Il 16, 17 e 18 settembre gendarmi e squadriglieri fecero dei pattugliamenti esterni e ci fu qualche scambio di colpi cogli Italiani. La mattina del 18 settembre il tenente Carletti aprì il servizio con notizie sempre più allarmanti: “ore 8,10 ant. Ministro Armi Comando Piazza A Prima Porta accampamento che ieri sera non esisteva. 365
Monte Mario e Villa Pamphily liberi. Sembra verso Albano, sulla Via Appia Nuova, dei piccoli distaccamenti. Dalla parte di Civitavecchia nulla. Carletti 18 settembre ore 9,15 ant. Ministro Armi Comando Piazza Molta Artiglieria è venuta nei piani di S. Agnese, le disposizioni sembrano per un attacco verso Porta Pia. Carletti 18 settembre ore 10 ant. Ministro Armi Comando Piazza La colonna segnalata sulla Via Salaria va a occupare anche Monti Parioli. Carletti 18 settembre ore 11,35 antim. Ministro Armi Comando Piazza Sulla Via Appia Nuova proveniente da Albano scende una forte colonna occupante un’estensione di circa tre miglia. Trovasi a circa dieci miglia da Roma. Carletti 18 settembre ore 1,18 pom. Ministro Armi Comando Piazza L’avanguardia della colonna proveniente dalla Via Appia nuova – trovasi al Tavolato. Carletti 18 settembre ore 2,40 pom. Ministro Armi Comando Piazza Nei prati della Ranocchia presso S. Lorenzo vi è Cavalleria. Colonna Via Appia Nuova spinge avamposti cavalleria Acqua Santa. Carletti”CCLVIII Questi dell’Appia Nuova erano i soldati d’Angioletti. La sua 9ª Divisione aveva passato il confine meridionale il 12 avanzando fino a Ceprano, dove aveva catturato 43 pontifici. Fu un caso. La zona di Frosinone aveva concentrato anch’essa le proprie truppe non appena iniziata l’offensiva, formando un colonna agli ordini del comandante la zona, il maggiore Lauri della gendarmeria, e ripiegando su Roma. Accampatisi a Pofi, i soldati italiani avevano proseguito l’avanzata su due direttrici parallele. Il 14, mentre Lauri si avvicinava a Roma, dove sarebbe rientrato nella notte, avevano preso Terracina, sulla costa, e Anagni lungo la via Casilina. Il 15 era stata raggiunta Valmontone. Il 16 sulla costa era stata presa Civita Lavinia e nell’interno Velletri. Da quale momento l’avanzata sarebbe stata direttamente su Roma lungo la Tuscolana e la Casilina fino a Porta San Giovanni e a Porta Maggiore. E infatti nel pomeriggio inoltrato Carletti dalla cupola avvertì: “18 settembre ore 6,25. Ministro Armi Comando Piazza 366
Colonna Appia nuova – occupa Roma Vecchia – Tavolato – Acqua Santa, estremi avamposti Osteria Spiriti – ed estendendosi gli accampamenti fino Tor Pignattara. Colonna proveniente Tivoli accampata presso Campo Verano – Colline presso Ponte Fomentano e piani S. Agnese occupati molta Fanteria – Artiglieria e Cavalleria, con avamposti prossimi città. Carletti.” CCLIX Il movimento italiano era stato meno veloce di quanto sperato, perché le ferrovie pontificie erano state messe fuori uso, il materiale concentrato a Roma e la linea da Corese interrotta, facendo saltare il 15 settembre il ponte ferroviario sull’Aniene prima della confluenza nel Tevere, fra le vie Salaria e Nomentana. Anche la linea da Napoli era stata interrotta, asportando diversi tratti di binario vicino a Ceprano, Sgurgola e Velletri. Lo stesso per quella di Civitavecchia, poco dopo l’uscita dalla città. Così le unità di Cadorna avanzarono da sud e da nord senza potersi completamente valere della ferrovia, sia a causa delle interruzioni, sia perché bisognava adoperare i treni provenienti dalle reti italiane. I ferrovieri pontifici fecero del loro meglio per favorire le truppe italiane, le quali, riparate le interruzioni e fatto avanzare il loro materiale, scendendo da Civitavecchia arrivarono fino a Ponte Galeria, stazione prossima a Porta Portese e a una quindicina di chilometri da Porta San Pancrazio. Pure sulla linea da Orte fu fatto avanzare il materiale italiano dall’Umbria, ma l’interruzione sull’Aniene non poteva essere riparata in poco tempo e i treni rimasero a sei chilometri buoni dalle mura cittadine. Di conseguenza i convogli dall’Umbria coi rifornimenti per le divisioni di Cadorna arrivavano fino all’Aniene a scaricare, o si fermavano a Monterotondo, perché la passerella gittata dal Genio consentiva il transito degli uomini, ma non il ripristino del traffico, anche se i soldati riuscirono a impossessarsi di una locomotiva pontificia e a usarla per spingersi in ricognizione fino allo scalo di Portonaccio, vicino alla stazione Termini. Falliti tutti i tentativi d’ottenere la resa senza spargimento di sangue, Cadorna lasciò ai suoi uomini ventiquattr’ore d’assestamento in attesa dell’arrivo di Bixio; e Carletti l’indomani segnalò: “19 settembre ore 6,45 ant. Ministro Armi Comando Piazza Tutti conservano posizioni ieri sera. Da S. Paolo a Ponte Molle fronte a Civitavecchia nulla. Carletti 19 settembre ore 7,25 ant. Tenente Carletti - Osservatorio Vaticano Il Colonnello Perreaux dice che ieri ha veduto lavorare ad una Batteria verso S. Paolo contro Testaccio. Non mi sembra ancora possibile – Osservi bene, riferisca. Il Capo di Stato Maggiore Rivalta 19 settembre ore 7,45 ant. Capo Stato Maggiore Rivalta Dalla parte di S. Paolo nulla esiste – vedrò meglio cessata nebbia – darò notizie – però ieri sera nessuno era diretto quella parte. Carletti 19 settembre ore 8,15 ant. Tenente Carletti 367
Mandi a Azzanesi – Carta dintorni Roma di MoIk segnata F.M. Rivalta 19 settembre ore 9,50 ant. Ministro Armi Comando Piazza Tutti stessi posti segnalati – Spingono forti distaccamenti verso Roma – Verso Civitavecchia nulla. Carletti 19 settembre ore 10,50 Ministro Armi Comando Piazza La colonna Via Appia Nuova trasporta Artiglieria nelle colline dominanti porta S. Giovanni fra le Vie Appia Nuova e Tusculana. Carletti 19 settembre ore 12,10 Ministro Armi Comando Piazza Colonna Appia Nuova manda vero Porta S. Sebastiano per la Via Pignattelli. Carletti 19 settembre ore 1,45 pom. Ministro Armi Comando Piazza Artiglieria dirigesi per la Via Tusculana verso Porta Furba. Sulla destra di Porta S. Sebastiano sono stati tirati vari colpi di cannone; forse contro truppa distaccata colonna Appia Nuova. Carletti 19 settembre ore 4,50 pom. Ministro Armi Comando Piazza Tutti conservano posizioni ieri sera. Sulla strada di Civitavecchia a circa 10 miglia vedesi forte Colonna Artiglieria, Fanteria e Cavalleria. Carletti 19 settembre ore 6,45 ant. Ministro Armi Comando Piazza Tutti occupano i posti segnalati con avamposti prossimi alla città. La colonna proveniente da Civitavecchia continua la sua marcia in avanti e trovasi circa 8 miglia distante – Giunta questa è completo l’accerchiamento della città. Carletti”CCLX
V) La Breccia di Porta Pia La sera del 19 settembre Kanzler aveva a disposizione i due generali de Courten e Zappi, 342 ufficiali e 8.428 sottufficiali e soldati per un totale di 8.770 uomini così divisi: Cacciatori indigeni: 30 ufficiali e 760 sottufficiali e truppa; 1° Reggimento indigeno: 62 e 1.535; Carabinieri Esteri: 40 e 940; Reggimento Zuavi 66 e 1.784, Legione Romana o d’Antibo: 35 e 714; Reggimento Dragoni 7 e 139; Squadriglieri e 368
Gendarmi: 11 e 430; Artiglieria: 32 e 456; militari di Corpi diversi 311 raggruppati e posti agli ordini del tenente colonnello de Charette: 59 e 1.670. La difesa di Roma era stata divisa in un settore e quattro zone. Il Castello doveva difendersi da solo. Le mura vaticane erano affidate al Distinto Battaglione Volontari di Riserva, alla Gendarmeria di Palazzo, alla Guardia Palatina e ad una sezione d’artiglieria. La Guardia Nobile era in Vaticano, quella Svizzera divisa fra il Vaticano e il Quirinale. Le quattro zone erano: Zona 1, riva destra del Tevere – tutta dal Castello a Porta Portese, comandante colonnello Azzanesi, forza 114 ufficiali e 2.945 sottufficiali e soldati, così suddivisi: • Reggimento Cacciatori indigeni: 30 ufficiali e 760 sottufficiali e soldati; • 1° Reggimento indigeno; 50 e 1.250; • aliquota Reggimento Zuavi di guardia al Papa in Vaticano: 17 e 587; • Dragoni: 1 ufficiale e 14 sottufficiali e dragoni; • Squadriglieri e Gendarmi: 1 e 150; • Artiglieria: 15 e 184; Zona 2, Da Porta del Popolo a Porta San Lorenzo, comandante colonnello Allet, forza 37 ufficiali e 1.070 sottufficiali e soldati • Reggimento Zuavi: 29 ufficiali e 883 sottufficiali e zuavi; • Reggimento Dragoni: 2 ufficiali e 45 dragoni; • Squadriglieri e Gendarmi: 3 e 80; • Artiglieria: 3 e 62. Zona 3, da Porta San Lorenzo a Porta San Giovanni, comandante tenente colonnello Jeannerat, forza 62 ufficiali e 1.443 sottufficiali e soldati • 1° Reggimento indigeno: 12 e 285; • Reggimento Carabinieri Esteri: 40 e 940; • Dragoni: 1 ufficiale e 30 dragoni; • Squadriglieri e Gendarmi: 3 e 100; • Artiglieria: 6 e 88; Zona 4 da Porta Latina al Tevere, comandante colonnello Perreaux (della Legione d’Antibo), forza 70 ufficiali e 1.300 sottufficiali e soldati • Reggimento Zuavi: 20 ufficiali e 314 sottufficiali e zuavi; • Legione Romana, o Legione d’Antibo: 35 e 714; • Dragoni: 3 ufficiale e 50 dragoni; • Squadriglieri e Gendarmi: 4 e 100; • Artiglieria: 8 e 122. Poco dopo le cinque del mattino 312 del 20 settembre Cadorna fece aprire il fuoco alle artiglierie, concentrandone lo sforzo maggiore sulle mura fra le vie Salaria e Nomentana. Secondo il marchese
311 Capo servizio religioso: monsignor Tizzani, arcivescovo di Nisibi; capo servizio sanitario: professor Costantini; capo
servizio ambulanze: professor Ceccarelli, poi archiatra pontificio; capo servizi amministrativi: Intendente Giovacchino Monari.
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Guiccioli, le truppe pontificie avevano già cominciato a sparare da prima, quantomeno lungo la Nomentana, bersagliando con razzi e fucilate il gruppo in cui si trovavano lui e il colonnello Calandrelli vicino a Sant’Agnese. Poiché coi fucili dell’epoca un tiro del genere era impossibile dalle mura e sarebbe stato difficile pure nei due secoli seguenti,313 considerando che Nino Costa ricordò nelle sue memorie d’aver sorpreso un gruppetto di soldati pontifici in un giardino mentre si avvicinava alle mura attraverso gli orti prospicienti Porta Pia, è possibile che vi fossero pattuglie e tiratori isolati all’esterno della cinta, ma certo non vi rimasero molto a lungo e non ne ho trovato traccia nei documenti ufficiali. Al quartier generale pontificio il maggiore Fortunato Rivalta redasse il diario della giornata, riportando le notizie dai vari osservatori e dalle diverse zone: “Ore 5,15 a. Tenente De Buttet dall’Osservatorio di Santa Maria Maggiore previene che batteria nemica apre il fuoco conto i Tre Archi 314 e Porta Maggiore. Altra batteria tira verso Santa Croce. Ore 5.25 a. Dall’Osservatorio San Giovanni Charette previene che i fuochi da parte di San Giovanni sono estinti. Ore 5,40 a. Osservatorio Santa Maria Maggiore avverte che i tre punti attaccati dal nemico sono Porta Pia, Porta San Giovanni e Tre Archi. Ore 5,45 a. Osservatorio della cupola Vaticana avverte che villa Pamphili è occupata dal nemico, che trovasi nascosto dietro quella collina. Per ora null’altro.”CCLXI E infatti nel suo primo rapporto della giornata, Carletti aveva riferito: “20 settembre ore 5,45 ant. Ministro Armi Comando Piazza Colonna proveniente Civitavecchia occupa Villa Pamphily. Ore 5¼ cominciato fuoco in tutta la linea da Porta Salara a Porta S. Giovanni – il fuoco impedisce vedere movimenti. La colonna occupante Villa Pamphily si estende fino al Tevere verso Porta Portese Carletti.”CCLXII Annotava Rivalta pochi minuti dopo:
312 Costa scrisse che le operazioni cominciarono alle quattro. Gli Italiani furono quasi tutti concordi nel dire che il fuoco venne
aperto esattamente alle 5,30, però il marchese Guiccioli, addetto diplomatico al quartier generale di Cadorna, nel suo diario l’anticipò alle 5,20, pur indicando, come Costa, la sveglia alle 4 del mattino. Rivalta, come si vede sotto, anticipa il primo tiro d’un quarto d’ora; impossibile sapere chi ha ragione. 313 Nel suo diario, alla data del 20 settembre 1877, ricordando la presa di Roma, Guiccioli descrisse il suo avvicinamento dalla Cecchina alla città lungo la Nomentana dicendo: “Vado a piedi a una villa vicina a Sant’Agnese con Blanc e il colonnello Calandrelli. I Pontifici tirano sul nostro gruppo razzi e fucilate. Mi accorgo che mirano a un certo cappotto giallo che indosso.” cfr. GUICCIOLI, op. cit., pag. 24. Sant’Agnese sta a due chilometri da Porta Pia, esattamente due chilometri e cento metri, tutti in linea retta e, con tutto il rispetto per Guiccioli, sapendo che i Pontifici non erano più in là di Porta Pia, io, da fante, faccio veramente fatica a immaginare non solo che coi fucili dell’epoca si potesse far arrivare così lontano qualcosa che non fosse una palla morta e per caso, ma che alle cinque del mattino, un’ora prima del sorgere del sole (a quell’epoca non esisteva l’ora legale, per cui si levava poco dopo le 5,50), per di più guardando a nord-est, dunque con negli occhi quel minimo di luce che c’è a quell’ora, un qualsiasi tiratore potesse da due chilometri di distanza mirare decentemente a qualunque cosa più piccola d’una casa. Di conseguenza, o gli spararono quando s’era lasciato Sant’Agnese alle spalle d’almeno un chilometro, o c’erano dei tiratori all’esterno delle mura. 314 I Tre Archi erano le tre arcate aperte una accanto all’altra nella Mura Aureliane dove passavano i treni da e per la stazione Termini delle tre linee per Civitavecchia, per Ceprano e Napoli, per Corese, Orte e Firenze.
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“Ore 5.50 a. Si domanda agli Osservatori di San Giovanni e Santa Maria Maggiore come vanno le cose: si risponde che i nostri cannoni tuonano spessissimo. Ore 5.55 a. Osservatorio Santa Maria Maggiore previene che nemico attacca ancora Porta San Sebastiano. Osservatorio Vaticano ragguaglia che il fuoco è intenso da Porta Salara a Porta San Giovanni;315 dalla parte San Pancrazio il nemico eseguisce dei movimenti al coperto delle colline, occupando dalla vigna Carpegna alla villa Pamphili.”CCLXIII Kanzler salì sulla loggia di palazzo Rospigliosi per farsi un’idea della situazione. Da là si dominava tutta Roma e si vedevano bene le linee d’attacco, la più importante delle quali appariva chiaramente quella da Porta Salaria a Castro Pretorio, perciò il generale non faticò ad identificare il tratto fra porta Salaria e Porta Pia come quello dell’attacco principale e comprese che gli altri servivano solo ad attrarre la guarnigione in diversi punti per impedirne la concentrazione a Porta Pia. A San Giovanni sotto le prime cannonate i Pontifici erano corsi a chiudere la porta, fino a quel momento socchiusa. Alcuni erano rimasti feriti dalle macerie dell’architrave, danneggiato da un colpo di cannone; tra loro il conte Macchi, che però aveva ripreso il comando della sua sezione d’artiglieria e controbattuto il fuoco avversario per due ore, guadagnandosi nel pomeriggio i complimenti di Cadorna a Caimi per gli ufficiali che avevano comandato i pezzi davanti al Laterano. “Ore 6.35 a. Osservatorio Vaticano previene che si è aperto il fuoco tra villa Pamphili e Porta San Pancrazio e Batteria dei Giardini. Ore 6.45 a. Maresciallo Sterbini dei dragoni annuncia che a Porta Pia è stato smontato un pezzo, e che detta posizione è in pericolo. Si spedisce al Comitato di difesa perché provveda altra artiglieria e rinforzo. Ore 6.45 a. Osservatorio Santa Maria Maggiore previene che nemico ha aperto il fuoco Porta San Pancrazio. Ore 7.10 a. Charette previene che l’artiglieria Daudier è giunta a San Giovanni, che tutti fanno ammirabilmente il loro dovere. Tenente Macchi magnifico per sangue freddo, fa male alla batteria nemica. Ore 7.35 a. Osservatorio Vaticano dice che il nemico da Villa Pamphili sembra accennare a Porta Portese. Libero da Monte Mario fino a Porta del Popolo; dalla parte della Lungara verso Villa Corsini e Barberini vi sono tre forti incendi di case.”CCLXIV Questo più o meno corrispondeva a quanto Carletti avrebbe annotato d’aver trasmesso cinque minuti dopo e cioè: “20 settembre ore 7,40 ant. Ministro Armi Comando Piazza Batteria Giardino del Papa sulla destra di Porta Cavalleggeri – risponde attacco Villa Pamphily contro Porta S. Pancrazio – obbliga truppa di Villa Pamphily coprirsi dietro le colline. Monte Mario occupato. Nelle vicinanze di Villa Corsini presso la Longara vi sono tre incendi causati dal fuoco della Batteria di Villa Pamphily. 315 Va notato che nella pubblicazione fatta nel 1888 da Bonetti del giornale dell’osservatorio vaticano, avuto dall’ancora vivo
Carletti, questo messaggio a cui si riferisce Rivalta non c’è, anzi, non ne è riportato alcuno prima di quello spedito da Carletti alle 7,40, al cui contenuto evidentemente si riferisce Rivalta nella sua annotazione delle 6,35.
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Carletti.”CCLXV Magari gli orologi non coincidevano, ma non coincideva nemmeno l’informazione su Porta Portese. Continuava Rivalta: “Ore 7.37 a. Generale Zappi da Santa Maria Maggiore previene che a Porta San Giovanni la Porta brucia per causa dei materassi posti a difesa; che vi sono vari feriti, ma che lo spirito è eccellente. Capitano Ubaldini dal telegrafo di Porta Portese annuncia nulla di nuovo alla Porta Portese, ma Porta San Pancrazio attaccata. Ore 7,55 a. Capitano Du Bourg dal telegrafo del Popolo previene che bersaglieri nemici si vedono nella villa Borghese e minacciano Porta del Popolo. il capitano Kersabieck ha cominciato il fuoco. Ore 8.13 a. Generale Zappi dall’osservatorio di Santa Maria Maggiore dice che Porta Pia è perduta, che la nostra artiglieria è ritirata, cioè un pezzo è smontato; l’altro mandato a Monte Cavallo perché difendano la strada di Porta Pia, ove nemico ha impostato artiglieria; nulla di nuovo sulla sua ala dritta. Ore 8.20 a. Osservatorio Santa Maria Maggiore previene che al Macao e alla Porta Pia vi è un vivo fuoco di fucileria. Ore 8.35 a. Generale Zappi dall’Osservatorio di Santa Maria Maggiore dice indispensabile mandare un buon rinforzo al colonnello Jeannerat per il Macao, che comincia già a ritirarsi, si manda una compagnia Zuavi della riserva. Ore 8.45 a. Il colonnello Azzanesi previene di serio attacco alla Porta San Pancrazio, col doppio scopo di abbattere porta e incendiare caseggiati di Trastevere, essendo già in fiamme una mola e il panificio del monastero Monachelle, e altre case nonché Trinità dei Pellegrini e via Giulia. Smontato un pezzo rigato alla dritta di Porta San Pancrazio, ma già rimpiazzato: fanteria sul posto pronta. Ore 8.55 a. Si riceve avviso per mezzo di spedizione che fra Porta Pia e Salara la breccia è quasi fatta: il generale proministro Kanzler con il suo capo di Stato Maggiore cav. Rivalta si recò al Comitato di difesa, onde decidere sul da farsi. Ore 9.15 a. Osservatorio Santa Maria Maggiore previene che verso Porta San Giovanni l’artiglieria nemica cambia posizione, tendendo verso la via di Albano. Ore 9.15 a. Tenente Boccanera dall’Osservatorio di Santa Maria Maggiore previene che la truppa ai Tre Archi si ritira: un pezzo smontato, altro si procura salvarlo, truppa Termini ancora in posto. Ore 9.20 a. Tenente Boccanera da Santa Maria Maggiore previene che il capitano Fiorelli è giunto con tre sezioni artiglieria, due cassoni abbandonati. Ore 9.20 a. Capitano de Bouttet da Santa Maria Maggiore telegrafa che nemico ha rettificato il suo tiro su Porta Pia, che era troppo alto, ha stabilito nuova batteria a Sant’Agnese con la quale batte il Macao: ai Tre Archi cannoneggiamento alquanto rallentato: sembra che il nemico va ravvicinando suoi pezzi. A Porta San Giovanni medesima posizione e medesima vivacità di fuoco: a San Sebastiano non sembra attacco serio: a Porta San Pancrazio si sente vivo cannoneggiamento.”CCLXVI La 2ª Divisione di Bixio doveva impedire la ritirata verso il mare ai Pontifici, coll’ordine di sparare su Porta San Pancrazio e non sul Vaticano o su Roma, qualsiasi cosa succedesse. Ovviamente i Pontifici ne avevano approfittato per maltrattarla a sufficienza e per poi vantarsi d’averla “obbligata a retrocedere.” 372
Dopo quattro ore di bombardamento lungo tutta la cinta muraria, la difesa era ridotta a tre centri di fuoco di fanteria, la cui attività non pregiudicava l’assalto finale. Fu informato il Papa. In Vaticano c’era con lui tutto il corpo diplomatico. Alcuni giorni avanti Pio IX aveva chiesto ad ambasciatori e ministri di volersi recare da lui al principio del bombardamento e ci andarono. Furono invitati ad assistere alla sua messa nella cappella privata. Poi furono serviti cioccolata e gelati e il Papa, che era rimasto a pregare nel suo oratorio, rientrò nella sala del Trono solo più tardi. S’intrattenne cogli ambasciatori, raccomandò loro d’ottenere delle buone condizioni di rimpatrio dei connazionali in servizio nell’esercito pontificio e si preoccupò di chi potesse pensare ai volontari canadesi. Quando gli fu portato l’avviso di Kanzler che la braccia era stata aperta nelle mura di villa Bonaparte, a sinistra di Porta Pia, Pio IX insisté per la resa e la ordinò formalmente. Annotò Rivalta: “Ore 9.20 a. Il Comitato di difesa, udita lettura della lettera del Santo Padre, che ordina la durata della difesa dover consistere in una protesta, atta a constatare la violenza e nulla più, conviene di far inalberare bandiera bianca, inviando subito parlamentari a Cadorna. Nel mentre si sta redigendo il processo verbale giunge il generale Zappi con il capitano de Cristen e tenente de Maljgiai. Questi dicono sospendere decisione: i Zuavi essere al loro posto sulla breccia che può benissimo difendersi, ed essendo le truppe bene animate ed in buona posizione. Ripetono: “La brèche est faite, nous sommes là pour la défendre”. Si spedisce il colonnello del genio Lana, ed il capo di Stato Maggiore Rivalta a riconoscere la breccia ; questi al ritorno espongono essere la breccia praticabilissima al nemico, a meno di forte lavoro, che bisognerebbe fare per difenderla, osservando pure che nei dintorni non vi è alcun punto saliente per controbatterla. Si dà allora ordine a tutt’i posti d’inalberare bandiera bianca, e si ordina al colonnello Carpegna, maggiore Rivalta e capitano de Maistre di portarsi a parlamentare, ed ai medesimi si dà lettera per il generale Cadorna. Ore 9,50 a. Capitano De Kersabieck telegrafa che, secondo ordine superiore, è innalzata bandiera bianca sulla cupola di San Pietro, e si sta in attesa di ordini.”CCLXVII Questo non coincide affatto coll’ultima coppia di messaggi del giornale di Carletti pubblicati nel 1888, perché il suo penultimo, di venticinque minuti dopo, diceva: “20 settembre ore 10,15 ant. Ministro Armi Comando Piazza Due altri incendi – uno verso la Bocca della Verità ed uno verso Ponte Sisto. Aumenta Artiglieria contro Porta S. Pancrazio. Dalle altre parti nulla distinguesi causa il fumo. Carletti.”CCLXVIII Mentre l’ultimo mandatogli dal comando alle 10,00 e segnato alle 10,15, ordinava: “20 settembre ore 10,15 ant. Tenente – Carletti Ore 10 antim. Alzate bandiera bianca. Azzanesi”CCLXIX Inutile chiedersi chi sbagliò fra Kersabieck, Rivalta, Azzanesi, Carletti e Bonetti. L’ordine non fu eseguito subito, un po’ perché dove si combatteva non si vide o non si notò la bandiera bianca – lontana, 373
non visibile attraverso le case, il fumo e gli alberi – e un po’ perché i volontari esteri non avevano troppe intenzioni di cedere tanto in fretta. Nel settore di Porta Salaria e Porta Pia gli Italiani avevano tirato 835 cannonate e alle 10,20, aperta una breccia larga 30 metri nelle mura a destra di Porta Pia – a destra se viste dall’esterno – Cadorna lanciò all’attacco la 12ª Divisione, 316 sfondò le difese, penetrò in città e i Pontifici alzarono bandiera bianca. Cadorna aveva perso 32 morti e 143 feriti; Kanzler 20 e 49. L’Esercito Italiano, entrato dalla strada da cui tre anni prima era venuto Garibaldi, era stato lo strumento grazie al quale la Chiesa Cattolica perdeva ogni pastoia temporale e – nolente – diventava assai più evangelica, riducendosi alla sfera meramente spirituale. Le vie del Signore sono imperscrutabili.
316 La Divisione attaccò su due colonne. La prima era formata dal 39° Fanteria, la seconda dal XII Battaglione Bersaglieri e dal
II del 41° Fanteria. Contemporaneamente intervenne una terza colonna, fornita dall’11ª Divisione e composta dal XXXIV Battaglione Bersaglieri e dal 19° Fanteria.
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Capitolo XXVIII Dalla presa di Roma al Vaticano II, 1870-1970
I) La capitolazione di Villa Albani I parlamentari pontifici arrivarono a Porta Pia quando gli Italiani erano già entrati. Furono scortati al quartier generale posto a Villa Albani, all’inizio della via Salaria, e Cadorna ammise il solo colonnello conte di Carpegna. La cessazione del fuoco fu seguita da un tentativo dei membri del corpo diplomatico, guidati dal ministro di Prussia presso la Santa Sede conte von Arnim, d’intrufolarsi nelle trattative. Cadorna li ricevé dopo Carpegna, e li rispedì gentilmente indietro. L’incontro fra Cadorna e Kanzler a Villa Albani avvenne alle tre del pomeriggio. Ognuno dei due aveva una bozza di capitolazione. Quella italiana era più generosa della pontificia; comunque si discusse parecchio e alla fine si convenne un testo, poi firmato dai rispettivi capi di stato maggiore, colonnello Primerano e maggiore Rivalta e ratificato dai due generali. Diceva: “I la città di Roma tranne la parte che è limitata al sud dai bastioni Santo Spirito, e che comprende il monte Vaticano e Castel Sant’Angelo costituenti la città Leonina; il suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini da polvere, tutti gli oggetti di aspettazione governativa, saranno consegnati alle truppe di S.M. il Re d’Italia. II Tutta la guarnigione della piazza escirà con gli onori della guerra, con bandiere, in armi e bagaglio. Resi gli onori militari, deporrà le bandiere e le armi, ad eccezione degli ufficiali, i quali conserveranno la loro spada, e tutto ciò che loro appartiene. Esciranno prima le truppe straniere, e le altre in seguito, secondo il loro ordine di battaglia colla sinistra in testa. L’uscita della guarnigione avrà luogo domattina alle sette. III Tutte le truppe straniere saranno sciolte e subito rimpatriate per cura del governo italiano, mandandole fino da domani per ferrovia al confine del loro paese. E’ in facoltà del governo di prendere in considerazione i diritti di pensione che potrebbero avere regolarmente stipulati col governo pontificio. IV Le truppe indigene saranno costituite in deposito senza armi, con le competenze che attualmente hanno, mentre è riservato al governo del Re di determinare sulla loro posizione futura. V Nella giornata di domani saranno inviate a Civitavecchia. VI Sarà nominata da ambo le parti una commissione, composta di un ufficiale d’artiglieria, uno del genio e un funzionario d’intendenza, per la consegna di cui all’articolo I. Per la piazza di Roma il capo di stato maggiore Rivalta Per l’esercito italiano il capo di stato maggiore D. Primerano visto, ratificato ed approvato il luogotenente generale comandante il quarto corpo d’esercito 375
Cadorna il generale comandante le armi di Roma Kanzler.”CCLXX Un articolo aggiuntivo concedeva alle Guardie Nobili, Svizzere e Palatine il riconoscimento di guardie speciali presso la persona del Pontefice, trasferendole nella Città Leonina. Annotò infine Rivalta: “Ore 4 p. Si rientra in città e direttamente si va nella città leonina, ove si concentrano le truppe pontificie. Si danno disposizioni per il concentramento, e si ordina ai vari comandanti che l’indomani le truppe si trovino fuori Porta San Pancrazio per la consegna delle armi, a base della capitolazione.”CCLXXI II) Lo scioglimento dell’Esercito Pontificio Come stabilito, l’esercito papale si concentrò in Piazza San Pietro e nel Vaticano e ci passò la notte dal 20 al 21 settembre, bruciando le cartucce che non si volevano consegnare al nemico.317 Ugo Pesci si spinse fin là in una carrozzella di piazza e poi scrisse: “Tutt’intorno alla parte della piazza compresa dentro i porticati del Bernini erano schierati dai 6000 ai 7000 uomini di tutte le armi. Una batteria da campagna di sei pezzi stava davanti all’obelisco con la fronte verso la città; un’altra batteria e uno squadrone di dragoni ai piedi della scalinata per la quale si ascende alla Basilica. Il reggimento zuavi – ne riconobbi a prima vista l’uniforme grigia – era davanti al portico a sinistra di chi guarda la facciata, al di là della fontana. I dragoni erano appiedati, con i cavalli sotto la mano; i pezzi e i cassoni delle batterie con i cavali attaccati; le truppe a piedi avevano fatti i fasci. Le file non eran rotte per ordine dato; ma apparivano scomposte per la permanenza forse già lunga e per la scarsa disciplina. Sotto i portici si vedevano fumare de’fuochi di legna: probabilmente cuocevano il rancio.”CCLXXII Il 21 settembre i due eserciti si misero in moto. Benché la capitolazione avesse parlato delle sette del mattino, alle dieci quello italiano fece fare, alle due brigate e agli altri reparti dell’11ª e 12ª Divisione non entrati a Roma il 20, la parata della vittoria da Porta Pia, traversando la città e uscendone da Porta San Pancrazio, dove avrebbero reso gli onori ai Pontifici che se ne andavano. Dall’altro lato dell’Urbe i soldati papali entrarono in San Pietro sciolti, per un’ultima preghiera, poi le guardie Nobile, Svizzera e Palatina barricarono tutti gli ingressi del Vaticano e della Basilica, temendo un assalto della folla dopo la partenza delle truppe. In piazza San Pietro Allet, come colonnello più anziano, ebbe il comando dello schieramento dell’intero esercito inquadrato in ordine di battaglia. Ricordò d’Argence:
317 La
giornata del 20 settembre obbligò le truppe italiane a spiegare una notevole energia contro i primi tumulti che si verificarono appena si capì che il potere pontificio era caduto. Le testimonianze di parte pontificia sono corroborate, almeno nelle linee generali, da testimoni oculari italiani e non c’è dubbio che alcuni militari papali – circa una mezza dozzina – furono uccisi, almeno due torturati e parecchi feriti, o malmenati e derubati. Profittando della confusione, parecchi ladri si introdussero in abitazioni private dichiarandosi patrioti in cerca di militari pontifici e fecero man bassa di quanto trovarono.
376
“montò a cavallo, le trombe suonarono. Si fece un silenzio di morte. Il colonnello estrasse la sua spada “Portate le armi” – disse – “Presentate armi! Chiamiamo Viva Pio nono!” E subito tutti in un solo accordo noi gridammo tre volte “Viva Pio nono!” E tutti gridarono con le lacrime nella voce. Un’emozione dolorosa aveva fatto vibrare tutti i nostri cuori Queste grida non erano uscite dai nostri petti che vedemmo il Santo Padre apparire alla sua finestra ed aprirla lui stesso. Si, fu proprio questa augusta e santa figura che si volse a noi carica di dolore. Fu il Papa venerato che, anche lui tremante d’emozione, stese le sue braccia verso di noi per benedirci. Oh! Allora l’entusiasmo non ebbe più limiti, si gridò, si pianse. Ma questa visione non ebbe che la durata d’un attimo. Il Santo Padre non poté sostenere più a lungo la disperazione degli ultimi addii. Lo portarono via scosso dalla sua finestra.”CCLXXIII Riporterò adesso il resto nella descrizione di d’Argence. Combacia con quello di Bonetti, appartenente come lui agli Zuavi. L’integrerò e correggerò alla fine e dico subito che la riporto perché serve a dare un’idea di quanto poco, a volte, ci si possa basare sui ricordi personali, per di più scritti dopo anni e anni. “Partimmo da Roma per Porta Angelica e seguimmo le mura che dominano il Vaticano. La strada era letteralmente coperta di cartucce. Incontrammo gli Italiani un po’ dopo la Porta Cavalleggeri, per metà bruciata. Trentamila uomini di fanteria erano schierati su quattro file su ogni lato della strada. Traversammo baionetta in canna, trombe in testa e loro ci presentarono le armi. Nessuna parola ostile contro di noi; quelle truppe si stupirono solo del nostro piccolo numero. Di fronte a Porta San Pancrazio passammo davanti ai generali. Cadorna e Bixio erano a cavallo, attorniati da un brillante stato maggiore. A qualche passo la musica dei bersaglieri suonava l’inno nazionale italiano. Davanti a Cadorna si tenevano ritti ed a piedi i nostri generali pontifici de Courten e Zappi, perché Kanzler era rimasto presso il Papa. I nostri generali presentarono ai vincitori le loro spade sguainate Fu inoltre stupefacente notare nello stato maggiore di Cadorna il signor d’Arnim, ambasciatore di Germania presso il Papa.”CCLXXIV Ugo Pesci era lì, uno dei due soli civili presenti, e vide tutto dal principio alla fine. Vide uscire i Pontifici alle 12,30 da Porta Cavalleggeri, non da Porta Angelica; non avrebbe avuto senso farli uscire dalla parte opposta a quella dove dovevano andare, obbligandoli a seguire le mura girando intorno a tutta la Città del Vaticano. Da Porta Cavalleggeri, seguendo le falde del Gianicolo, una strada che ora si chiama viale delle Mura Aurelie s’inerpica fino al piazzale antistante Porta San Pancrazio, costeggiando nell’ultimo tratto, sulla sua sinistra, la villa Giraud, detta “il Vascello”, simbolo dell’eroica resistenza del 1849. In fondo c’è uno spiazzo. Là, svoltando a sinistra si entra in Porta San Pancrazio e si torna in città, a destra s’imbocca l’Aurelia in uscita da Roma, dritto si scende alla via Portuense e alla ferrovia per Civitavecchia. Pure Bonetti disse d’aver visto Cadorna a Porta San Pancrazio e parlò d’uno sfilamento impeccabile, condotto dai generali de Courten e Zappi, comandanti la piazza e la guarnigione, i quali marciarono alla testa delle truppe e poi si posero colla spada sguainata ai fianchi del generale Cadorna. Cadorna però non era a Porta San Pancrazio; era in una rientranza delle mura a mezza strada e Bixio stava un centinaio di metri più su. Pesci ricordò che lo sfilamento degli zuavi fu accettabile, ma quello della Légion d’Antibes rischiò di finir male, però Cadorna non lo ammise e né d’Argence né Bonetti poterono rendersene conto, perché erano già passati. Scrisse Pesci: 377
“Il generale Cadorna stava in uno dei rientranti della cinta bastionata, fra le due porte, circondato dal suo stato maggiore, a una settantina di metri a sinistra da lui il generale Mazè, quale comandante le nostre truppe che rendevano gli onori. Il generale Bixio, che aveva il suo quartier generale poco discosto – a villa Corsini – … era venuto egli pure ad assistere alla sfilata, mettendosi ad una trentina di metri più a sinistra del generale Mazè, sicché fra Bixio e Cadorna v’era la distanza d’un centinaio di metri. Il generale Bixio era accompagnato dal colonnello San Marzano e da altri ufficiali del quartier generale della seconda divisione. Insisto in questi minuti particolari perché si riferiscono ad un episodio del quale si è molto parlato e quasi sempre inesattamente. Aggiungo che agli spettatori borghesi era assolutamente impossibile avvicinarsi, essendo chiusi gli accessi alla strada di circonvallazione esterna dalle due parti, ma le medaglie da deputato del conte Carlo Arrivabene avevano aperto la strada a lui ed anche a me. Sfilarono primi gli zuavi assai dignitosamente ed abbastanza bene ordinati. Ho detto dello strano aspetto di quella truppa parlando di Civita-Castellana. Saranno stati un migliaio: alla testa del reggimento cavalcava il tenente colonnello Charrette – bell’uomo che in Francia poco dopo mostrò d’essere anche un valoroso – ed il capitano aiutante maggiore Ferron. Il grosso colonnello Allet non aveva forse voluto procurarci lo spettacolo di vederlo in lotta col suo cavallo. Alcuni plotoni di zuavi, passando davanti al generale Cadorna, a fianco del quale stava, ma a piedi, il generale Zappi, avevano gridato Vive le Pape. Vive Pie IX; ma nessuno ne aveva fatto gran caso. Dopo gli zuavi arrivò la legione d’Antibo, un grosso reggimento vestito alla francese, con i pantaloni garance e le ghette bianche, il berretto alla francese messo alla sgherra. Qui cominciarono le dolenti note. Gli antiboini, che non erano mai stati veduti al fuoco, si presentarono in attitudine provocante, contraria a qualunque buona regola di disciplina e di educazione militare. Le loro grida alte e fioche avevano un tono d’insolenza assolutamente intollerabile. Gridavano au revoir bientôt ed anche à bas la canaille. Gli ufficiali degli stati maggiori e quelli sotto le armi, obbligati a salutare tale gentaglia, fremevano. Fu allora che il Bixio si avvicinò al generale Cadorna dal quale, come ho detto, si trovava distante un centinaio di metri e gli fece notare con parole vivaci, la scena disgustosa… non parve punto che il generale Bixio desse “in iscandescenze” come il Cadorna ha narrato. …La sfilata continuò senz’altri episodi notevoli, Passarono composti i cacciatori esteri, quasi tutti tedeschi del Baden, della Baviera e del Virtemberg; sfilarono i resti del reggimento di linea indigeno, alcune compagnie del quale erano rimaste prigioniere a Civitavecchia, passarono i carabinieri esteri ed i cacciatori indigeni, i dragoni, anche quelli tutti italiani e finalmente l’artiglieria da campagna.”CCLXXV Lo sfilamento delle truppe durò fino alle tre del pomeriggio. Riprendiamo d‘Argence: “Allorché avemmo superato la spianata delle truppe, ci si fece passare per una piccola prateria, dove si compì l’ultimo atto del dramma. Era là che bisognava lasciare le proprie armi, che si gettavano come veniva in mucchio. Un ufficiale superiore dei lancieri con una debole scorta era il solo presente a questa suprema umiliazione. Da quel momento marciammo alla spicciolata e come un vero gregge, senza sapere dove andavamo. Senza viveri, oppressi dal caldo, avanzammo lentamente ed in disordine. Le 378
pianure si succedevano alle pianure e le colline alle colline e si avanzava sempre in quella triste campagna romana. Infine, era scesa la notte allorché un plotone di lancieri che ci scortava ci fece far l’alt vicino a una stazione ferroviaria, era, credo, Ponte Corese. Là attendemmo ancora a lungo. Nulla era più triste della massa che formavano. Era uno spettacolo lamentevole. Seduti sulla nuda terra, attendemmo, soffrendo la fame e la sete, tristi e desolati. Infine ci si chiamò dieci a dieci e fummo ficcati entro dei carri bestiame. Poi il treno partì. Era più tardi dell’una del mattino quando il treno entrò nella stazione di Civitavecchia. Ci si fece scendere e trovammo la stazione bordata da un cordone di sentinelle. Solo a malapena qualche dama caritatevole poté farci passare dei pezzetti di pane. Allorché tutte le truppe prigioniere furono scese alla stazione, si cominciò a separarci per nazionalità; i Francesi furono quelli che vennero chiamati subito.”CCLXXVI . Premesso che, come sa chi ha letto il capitolo su Mentana, quella di Corese era dalla parte opposta della città, verso l’Appennino e non verso il mare, i prigionieri furono scortati a Ponte Galeria, la più vicina stazione della Roma - Civitavecchia, ancora esistente e funzionante, a circa 15 chilometri da Porta San Pancrazio e fatti partire in tre ondate. All’arrivo vennero ripartiti fra il lazzaretto – i Francesi, più numerosi – il bagno penale e le prigioni, mettendo tutti gli ufficiali al campo trincerato. Secondo d’Argence non ebbero da mangiare per tutto il 22. La sera fu consentito agli ufficiali francesi, su richiesta del comandante della fregata francese l’Orénoque, di salire a bordo portandosi dietro un attendente. La fregata rimase a Civitavecchia fino al 25, quando arrivò il piroscafo delle Méssageries Maritimes incaricato di trasportare in Patria i Francesi, che sbarcarono il 27 mattina, a Tolone. La truppe delle varie guarnigioni pontificie radunate prigioniere a Civitavecchia furono fatte andare verso nord e lungo il viaggio ebbero qualche dimostrazione ostile e non pochi insulti dalla gente. I militari stranieri furono rimpatriati; quelli italiani furono inviati a un breve periodo di detenzione nelle fortezze di Alessandria, Verona, Como, Mantova e Peschiera. Poi poterono scegliere fra il congedo e il passaggio nell’Esercito Regio, passaggio che, a detta di chi come Bonetti se lo sentì proporre, fu caldamente sollecitato dall’amministrazione militare italiana. III) L’occupazione di Castel Sant’Angelo e Borgo Pio Castel Sant’Angelo e Borgo Pio, cioè tutta la parte di Roma compresa nel triangolo composto sulla destra del Tevere dal castello, dalla basilica e dall’ospedale di Santo Spirito, secondo la capitolazione doveva rimanere al Papa; come mai non ci restò? Appena iniziata l’uscita dei Pontifici il 21 settembre, il XXI Bersaglieri che dal giorno prima era alla testa del ponte Sant’Angelo dalla parte del castello, non pensò minimamente d’entrare nella Città Leonina, ma non impedì ai civili di farlo; eppure il più elementare buonsenso lo suggeriva. Non aveva ordini in merito? Si, li aveva: quelli datigli il 20, che stabilivano di vietare l’ingresso alla Città Leonina ai militari italiani, ma non ai civili. Cadorna scrisse nel suo La Liberazione di Roma esattamente quanto Ugo Pesci candidamente – o almeno spero – riportò alcuni anni dopo nel suo libro, cioè che: “La guardia nobile, la palatina, la guardia svizzera, i gendarmi erano stati lasciati al Papa a guardia del Vaticano; la capitolazione di villa Albani, escludendo che quella parte della città fosse consegnata alle truppe di Sua Maestà, dava adito a supporre che la tutela del buon ordine vi fosse affidata ai gendarmi pontifici, come dire a quelli che avrebbero dato occasione o pretesto per far nascere confusione o disordine.”CCLXXVII 379
Ma, a differenza di Cadorna, Pesci ammise che: “La capitolazione di Villa Albani, come ho accennato, aveva creato una condizione di cose piena di pericoli.”CCLXXVIII per cui, onestamente, dopo ventiquattr’ore passate in città, vedendo la caccia dei civili ai pontifici, salvati dal reiterato intervento della truppa italiana, sapendo che caos era successo in Campidoglio e che si era evitata di poco l’apertura indiscriminata delle carceri, supporre che i pochi militari pontifici rimasti in Borgo potessero mantenere l’ordine era quantomeno aleatorio; pensare poi che il popolo vi si intrufolasse “per curiosità” e senza cattive intenzione era invece del tutto risibile. La confusione era iniziata subito e dal castello. Dai resoconti di testimoni oculari sappiamo con assoluta certezza che la resa aveva lasciato Castel Sant’Angelo e il suo piccolo presidio in una sorta di limbo e nel caos più completo: tutto era stato abbandonato, materiali bellici e di casermaggio, effetti personali e d’arredo; nessuno era più responsabile di nulla e quasi tutti avevano tagliato la corda, possibilmente con qualche oggetto di valore e facilmente commerciabile. Il 21 settembre fu qualcosa di spiacevolmente disastroso: anarchia completa, impunità assoluta e bottino assicurato in castello come in città. Nel castello era rimasto il capitano aiutante di piazza, che cercò di salvare il salvabile, e pochi sedentari che non sapevano che fare e dove andare. Dai soldati stessi venne buttata roba a chi stava di sotto. La fortezza fu depredata da cima a fondo e intanto la gente, fatta passare dai bersaglieri, si incanalò verso la Basilica di San Pietro. Sempre in una poco credibile visione angelica di buone intenzioni in tutti e per tutti, Pesci aggiunse: “Non voglio supporre che alcuno andasse nella città Leonina con cattive intenzioni. Per farle venire però bastò incontrare per Borgo alcuni gendarmi, che vista la mala parata fecero dietro front e corsero verso il Vaticano. Raggiunti, alcuni furono malmenati, senza conseguenze gravi: tre o quattro centinaia di persone, inseguendoli fino alla porta di bronzo del palazzo, non commisero vere violenze, ma si udirono in piazza grida di ostilità e di minaccia contro il Pontefice, mentre un altro gruppo di gente s’avviava alla caserma Serristori rimasta vuota.”CCLXXIX Cadorna scrisse – e Pesci poi ripeté – che il ministro di Prussia, conte von Arnim – la Prussia e l’Italia erano formalmente ancora alleate dal 1866 – lasciò il Vaticano, lo raggiunse durante lo sfilamento dei Pontifici e gli chiese d’intervenire. Cadorna rispose di poterlo fare solo dietro richiesta scritta del Papa, trattandosi d’una deroga alla capitolazione già siglata. Arnim tornò con una lettera di Kanzler in cui si chiedeva l’intervento e venne dato ordine al XXI Bersaglieri di disperdere la dimostrazione, coll’aiuto d’un battaglione di fanteria: fu eseguito in pochi minuti. Però, stando a Rivalta, che citerò qui per l’ultima volta, la lettera del Papa era pronta fin dal giorno prima. Alla data del 20 settembre scrisse infatti nel diario storico come ultima annotazione, subito dopo quella delle quattro del pomeriggio: “Sera. Il ministro e il capo dello stato maggiore sono ricevuti dal Papa e dal cardinale Antonelli. Si comunica la lettera del generale Cadorna relativamente agli onori da rendersi, e al modo di defilare delle truppe capitolate, e la nomina della commissione per la consegna del materiale e magazzini. Si nomina detta commissione, e d’ordine di Sua Santità si scrive al generale Cadorna, invitandolo ad occupare la città Leonina, Questa lettera è portata l’indomani dal barone Arnim a Cadorna, mentre questi assiste allo sfilamento delle truppe pontificie. Cadorna ordina che il desiderio del Papa sia esaudito e occupa la città Leonina.”CCLXXX Dati i fatti riportati nell’annotazione, è ovvio che questa fu scritta non il 20 ma almeno il 21 settembre pomeriggio, se no non avrebbe potuto menzionare quanto fatto da Arnim. Può darsi che l’intero diario 380
storico sia stato un po’ rimaneggiato da Rivalta dopo il 20 settembre e ciò spiegherebbe le discordanze col giornale telegrafico di Carletti, ma non ha importanza. In Castel Sant’Angelo gli Italiani comparvero il 28 settembre, lo ispezionarono e dal 1° ottobre vi stanziarono la 5ª Batteria del 9° Artiglieria, l’11ª del 7° e il II battaglione del 3° Granatieri di Lombardia. La convivenza tra loro e i pochi Pontifici rimasti fu pacifica. Il 20 ottobre, dopo un mese esatto dall’entrata degli Italiani in Roma, si profilò per i militari pontifici di ogni grado la possibilità di prendere servizio nell’esercito regio, facendo domanda all’apposita commissione installata a piazza Colonna. Il 28 ottobre gli Italiani chiesero le chiavi del castello. Le ebbero il 20 novembre in seguito agli accordi col Vaticano e, colla fine del mese di novembre, gli ultimi militari del presidio pontificio che non erano passati nell’Esercito Italiano se ne andarono in congedo definitivo. Quando poi si svolse il Plebiscito di Roma, la popolazione di Borgo non accettò d’esserne esclusa, votò e andò in corteo a presentare le urne alle autorità, che non ebbero cuore di dar loro una delusione, per cui tutto Borgo Pio e il castello, già occupati, entrarono ufficialmente a far parte del Regno d‘Italia, lasciando al Papa solo i 44 ettari del Vaticano. IV) La sopravvivenza dei corpi armati nei centocinquant’anni seguenti Ceduto il Castello e persa la Marina, la cui corvetta, considerata, come sappiamo, proprietà privata del Papa e non inserita fra le prede di guerra, fu poi venduta senza troppo rumore, rimasero a Pio IX i soli militari che il 20 settembre 1870 erano stati espressamente previsti nella capitolazione, cioè il ministro delle Armi, generale Kanzler, la Guardia Palatina, la Guardia Svizzera e la Guardia Nobile. A loro si sommarono, quasi per caso se non per sbaglio, un reparto di Gendarmeria – la compagnia scelta di guardia ai sacri palazzi apostolici – e qualche soldato d’artiglieria e dei dragoni rimasto in Vaticano. Di conseguenza gli Svizzeri continuarono a vigilare le porte e a montare di guardia nella Sala Clementina, la Guardia Nobile a far servizio nell’anticamera del Papa ed a scortarlo, i Gendarmi a garantire l’ordine e la sicurezza in Vaticano, la Palatina a fornire i cordoni in San Pietro nei giorni delle grandi funzioni; e la Santa Sede ben presto – assai prima della Conciliazione del 1929 – stabilì che potessero entrare nella Gendarmeria solo quanti avessero prestato servizio senza demerito nei Carabinieri Reali italiani. Per le armi non c’erano problemi, poiché nell’Armeria Vaticana, che era sotto ai locali della Biblioteca, nei magazzini del Cortile del Belvedere, erano rimasti 20.000 fucili Remington nuovissimi e in perfette condizioni. Per le paghe invece qualche problema alla lunga ci sarebbe stato, visto che Svizzeri e Gendarmeria continuarono a percepire il soldo e, al congedo, la pensione. La Nobile e la Palatina servivano invece quasi gratis. 318 Si trattava nel complesso d’un migliaio di militari e, pur se la maggioranza era nella Guardia Palatina, che aveva la forza d’un battaglione, questo piccolo esercito era per le casse papali un ulteriore aggravio, che, dopo una sessantina d’anni, in vista dell’esaurimento, contribuì a spingere la Santa Sede ad accettare la Conciliazione e i conseguenti lauti indennizzi da parte dello Stato Italiano. 319 Degli altri Corpi dell’Esercito ce ne furono due che in un certo senso continuarono a funzionare finché non morirono per esaurimento: l’Intendenza e l’Artiglieria. L’Intendenza si contrasse proporzionalmente all’Esercito e conservò per altri cinquant’anni un ufficio preposto al pagamento delle pensioni, che Pio IX aveva decretato di continuare a dare agli ex-militari e impiegati pontifici non passati a servire il Regno 318 Le guardie nobili avevano uno stipendio e una piccola pensione, che, per le guardie semplici, nel 1870 era di 40 scudi.
Intorno al 1950 un milite della Palatina percepiva un’indennità annua di 20.000 lire. 319 Entrati gli Italiani a Roma, la liquidità del Tesoro dello Stato Pontificio venne presa in consegna dai consiglieri di finanza della Regia Luogotenenza in Roma, ritirando 700.000 lire in Campidoglio e sei milioni alla Zecca. Pio IX batté moneta fino ad esaurimento delle verghe d’oro e d’argento che aveva in Vaticano e le ultime monete con la sua effigie furono coniate nel 1874.
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d’Italia. All’ufficio, il cui ultimo segretario fu il conte Gustavo di Carpegna, faceva riscontro l’Associazione di Fedeltà, che durò fino agli Anni ‘20 del Novecento e comprendeva tutti i veterani civili e militari rimasti fedeli al Papa, beneficiari o meno di pensione. Primo presidente ne fu il generale Kanzler; gli successero un conte Pianciani, poi il conte Blumensthil e, infine, il conte Vincenzo Macchi, che, oltre a raccogliere quanti più cimeli poté dello scomparso Esercito Pontificio, fu l’ultimo presidente, perché l’Associazione contava ormai così pochi membri da essere sciolta, passando le proprie carte alla Guardia Nobile Anche l’Artiglieria morì per esaurimento. Il 20 settembre, come abbiamo visto, pure le mura del Vaticano erano dotate di pezzi. Cessate le ostilità, furono radunati nel prato del Belvedere e tra loro c’erano alcuni dei dodici obici regalati al Papa dal duca de la Rochefoucauld, ognuno dei quali portava il nome d’uno dei Dodici Apostoli. Custoditi da alcuni artiglieri, restarono lì alle intemperie. Se gli ultimi anni di Pio IX videro la maggior parte dei Remington dell’Armeria venduti a poco a poco a 20 lire l’uno, videro pure la pioggia infradiciare gli affusti, facendo cadere a terra le bocche da fuoco, prima che finissero quasi tutte in fonderia. Se ne salvarono poche e per caso. Nel 1932, quando si costruì il Palazzo delle Poste, furono tirati fuori dal terreno, in cui erano ficcati a bocca in giù e usati come paracarri, tre vecchi cannoni Creusot, che, ripuliti, vennero incavalcati su dei cubi di travertino in un cortile della caserma degli Svizzeri. Un quarto cannone e due piccoli mortai portati da Civitavecchia nel 1870 furono tratti dai magazzini dopo quasi sessant’anni per ordine del comandante la Guardia Palatina, colonnello Vuilleminot. Ripuliti dalla Direzione d’Artiglieria dell’VIII Corpo d’Armata di Roma, 320 che ricostruì loro gli affusti secondo i disegni originali, vennero dal Regio Esercito restituiti alla Guardia Palatina, che li custodì nella propria armeria. Infine un quinto cannone, ancora carico, appartenente alla batteria dei Dodici Apostoli, fu rinvenuto nel terreno nel 1933 durante i lavori di risistemazione del giardino vicino a Porta Pertusa e anch’esso fu restaurato e rimesso in sito. Di conseguenza dopo la Conciliazione lo Stato della Città del Vaticano avrebbe potuto vantare un parco d’artiglieria di sette pezzi, tutti inefficienti. L’elezione di Leone XIII nel 1878 portò qualche minimo cambiamento alle forze armate. Poiché si mormorava che volesse adattarsi al nuovo stato di cose,321 il Papa smentì quelle voci con alcuni provvedimenti minimi ma formalmente chiari. Gli artiglieri a custodia delle bocche da fuoco nel prato del Belvedere, visto che prendevano la paga, dovettero rimettere regolarmente l’uniforme, smessa da anni. Poi Papa Leone fece vestire da dragoni i due incaricati di portare le lettere della Segreteria di Stato, perché quell’incarico era stato sempre svolto da due soldati di quel Corpo. Nel 1892 un dispaccio del cardinale segretario di Stato, all’epoca Mariano Rampolla del Tindaro, ridusse la Palatina a un battaglione su quattro compagnie. Poi, almeno sotto Leone XIII, non successe altro di 320 La Direzione d’Artiglieria dell’VIII Corpo d’Armata era allora a Roma nella caserma di via Etruria, poi intitolata alla
M.O.V.M. Goffredo Zignani e divenuta, dopo il 2000, la sede dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito. 321 Scrisse il marchese Guiccioli il 9 febbraio 1878 a proposito dell’apertura del conclave: “Sembra che le discussioni tra i cardinali, per sapere dove si dovrà tenere il Conclave, siano state vivacissime. Quelli che erano per Roma hanno vinto per tre o quattro voti. I contrari erano quindici, dei quali quattro stranieri. I francesi si sono mantenuti molto moderati. Quell’intrigante di Manning è alla testa degli intransigenti. Si dice che i Cardinali italiani saranno per Di Pietro e i Tedeschi per Canossa. Gli intransigenti sono per Panebianco. I ragionevoli per Pecci. Ritengo che la decisione del Conclave a Roma sia stata conseguita per gli sforzi dei diplomatici sopra tutto dell’Ambasciatore d’Austria, al quale l’Imperatore aveva telegrafato di fare ogni sforzo con la maggiore energia possibile in questo senso. Quando i suoi sforzi sono stati coronati dal successo, egli ha avvertito il nostro governo per provargli l’interesse che metteva perché le cose andassero nel modo migliore”, aggiungendo alcuni giorni dopo, il 27 febbraio: “Faccio colazione da Sella. Quando andò a Vienna nel 1876, Andrassy gli chiese quali fossero le nostre idee circa il prossimo conclave. Egli disse che per noi il più desiderabile era il Pecci, il meno il Riario Sforza, L’Andrassy gli rispose: “Sta bene, il Pecci sarà il nostro candidato” e mantenne la parola.” cfr. GUICCIOLI, op. cit., pagg. 31-33, alle date. Per ironia della sorte, la scelta si rivelò assai lontana dalle aspettative. Commentandone la morte il 20 luglio 1903, il marchese avrebbe detto infatti di Leone XIII. “…egli indirizzò tutta la sua azione a un fine solo: a preparare una specie di coalizione o di crociata, che a un dato momento obbligasse l’Italia a restituire Roma al Papa…. con Leone XIII scompare il più pericoloso nemico della nostra Patria.”, idem, pag. 287, alla data.
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notevole: la Palatina continuò a prestare servizio nelle grandi cerimonie e la Nobile a scortare la persona del Papa. Fino alla morte di Leone XIII, accompagnava ogni giorno la carrozza del Pontefice in tutte le uscite nei giardini del Vaticano ed entro le mura. Papa Pecci infatti teneva molto ai giardini, vi aveva fatto molte migliorie e impiantare pure una vigna e, una volta che la vendemmia non fu all’altezza delle promesse e lui, deluso, se ne lamentò col vignaiolo, si sentì rispondere: “Avevo fatto i conti senza i gendarmi di Vostra Santità.”CCLXXXI La Guardia Svizzera, oltre alla guardia all’Arco delle Campane, al Portone di Bronzo e all’ingresso del Vaticano in via di Porta Angelica, aveva una fazione nella Sala di Papa Clemente dell’Appartamento d’onore, al secondo piano del Palazzo Apostolico e una sentinella nella Sala dello Svizzero, sostituita da due gendarmi in gran tenuta nelle ore d’udienza. Chi aveva la possibilità d’andare dal Papa, procedendo incontrava un drappello della Guardia Palatina nella Sala d’Angolo dell’Appartamento d’onore, poi una Guardia Nobile a sciabola sguainata fuori dell’Anticamera Segreta dell’appartamento del Papa e infine, nella prima stanza d’angolo, l’Esente della Guardia Nobile, che comandava tutto il servizio d’onore del Pontefice. Quando il visitatore era un capo di Stato, era la Palatina ad accoglierlo nel Cortile di San Damaso con un picchetto, banda e bandiera. Se sotto Leone XIII nulla sembrò cambiare, Pio X invece andò a un passo dal sopprimere la Guardia Svizzera. Secondo Silvio Negro, lo si rischiò per via della mancata corresponsione della gratifica, per tradizione pagata da ogni nuovo Papa alle truppe. “Dopo il Settanta… fu abolita anche la gratifica. Non la diede Leone XIII e gli svizzeri tumultuarono, la negò Pio X e quella volta essi minacciarono addirittura di rivoltarsi. Allora Papa Sarto, che mal comprendeva le ragioni del fasto decise senz’altro di mandare gli svizzeri a casa e di sopprimere il corpo armato.”CCLXXXII L’interposizione dei Cantoni Cattolici evitò lo scioglimento e originò la riorganizzazione della Guardia, il cui organico nel 1914 sarebbe stato comunque ridotto a 100 uomini e sei ufficiali. Fu chiamato a comandarla nel 1910 il colonnello Jules Repond che l’avrebbe retta fino al 1921. Proveniente dall’Esercito Svizzero, serio e competente, cominciò coll’eliminare tutti quelli che non erano svizzeri di nascita, tra i quali le guardie nate a Roma da genitori svizzeri, tornando al reclutamento solo nei Cantoni. Il passo seguente fu il ripristino delle esercitazioni, con delle piccole manovre nei Giardini Vaticani. La disciplina fu rafforzata, non senza contrasti, e l’armamento migliorato, abbandonando i Remington per i Mauser a sei colpi donati da Guglielmo II di Germania. Repond agì così non solo per ragioni formali, ma perché riteneva che le manifestazioni anticlericali – come quella violentissima che nel luglio 1881 aveva accompagnato la traslazione della salma di Pio IX a San Lorenzo fuori le Mura, all’entrata del cimitero del Verano – costituissero una minaccia alla quale occorreva poter reagire. Poi studiò la storia del Corpo, raccolse quanti cimeli poté trovare e restituì all’uniforme della Guardia l’antico morione, al posto dell’elmetto ottocentesco che portava da anni. In sostanza, fece rinascere la Guardia Svizzera. Intanto anche la Guardia Nobile era caduta sotto l’attenzione di Papa Sarto e non ne era uscita del tutto incolume: fu appiedata. La Grande Guerra toccò pure i corpi armati pontifici. In assenza di accordi, le guardie nobili e palatine erano soggette alla leva militare italiana e di conseguenza, una volta richiamate, andarono al fronte. Della Guardia Nobile vale la pena ricordare il marchese Lepri, divenuto aiutante di campo del generale Badoglio. La Palatina ebbe due morti e vari decorati al valor militare. La Conciliazione dell’11 febbraio 1929 esentò dal servizio nel Regio Esercito gli appartenenti alla Guardia Nobile, ma non quelli della Palatina, che ebbe fra i suoi una Medaglia d’Argento al Valor Militare: il tenente Giuseppe Marini, in Russia. 383
La Resistenza coinvolse gli appartenenti ad entrambe le guardie e la reazione tedesca colpì, uccidendo alle Ardeatine il professor Salvatore Canalis, della Palatina, e, in trasferimento da Dachau a Buchenwald, il principe Leopoldo Torlonia della Nobile, deportato il 24 aprile del 1944 per aver nascosto dei militari alleati. L’occupazione tedesca di Roma e le voci di un complotto nazista per rapire Pio XII indussero la Santa Sede ad aumentare la Guardia Svizzera a 300 uomini, la Palatina ad oltre 1.400 e a far loro pattugliare il confine, specie a Piazza San Pietro, più che altro come dimostrazione e per non incoraggiare i Tedeschi a tentare colpi di mano. Il tutto durò fino all’ingresso degli Alleati il 4 giugno 1944. Intanto la Chiesa aveva iniziato ad adeguarsi al mondo contemporaneo. Il primo passo fu l’aumento dei cardinali non italiani. Col concistoro annunciato il 24 dicembre 1945 e tenuto nel febbraio 1946, i cardinali italiani passarono da 24 su 38 a 28 su 70. Sparirono alcune tradizionali promozioni in Curia ed entrarono nel Sacro Collegio per la prima volta gli arcivescovi del Cile, del Perù, della Cina e dell’Africa. Poi vennero Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, con tutti i suoi cambiamenti, più o meno capiti e dunque meglio o peggio attuati dal clero e dal popolo cristiano. Finito il Concilio, il nuovo papa, Paolo VI, col breve del 14 settembre 1970. annunciò lo scioglimento di tre dei quattro corpi armati: la Gendarmeria, la Guardia Palatina e la Guardia Nobile, lasciando in vita la sola Guardia Svizzera e lo rese esecutivo con la legge numero LXVII del successivo 15 dicembre. La Palatina fu la prima. Venne sciolta il 12 gennaio 1971. Il 20 toccò alla Gendarmeria, trasformata in Ufficio Centrale di Vigilanza e infine, nove mesi dopo, il 14 settembre 1971, alla Guardia Nobile, le cui mansioni passarono alla Guardia Svizzera. Nel giugno del 1976 Paolo VI ridusse l’organico della Guardia Svizzera a 90 uomini. Giovanni Paolo II nel 1979 lo rielevò a 100, saliti poi a 110 e infine, nell’ottobre 2019, a 135, sempre al comando d’un colonnello, con un tenente colonnello, un cappellano anch’egli col grado di tenente colonnello, un maggiore, due capitani e vari sottufficiali e caporali. Nel 1991, con la legge numero CLXVIII del 25 marzo, l’Ufficio Centrale di Vigilanza divenne il “Corpo di Vigilanza dello Stato della Città del Vaticano”, tornando infine, il 2 gennaio 2002, all’antica denominazione di Gendarmeria, quando, in base alla legge numero CCCLXXIV, assunse il nome di “Corpo della Gendarmeria dello Stato della Città del Vaticano”, con un organico di 130 uomini, dislocati in Vaticano e nelle sedi extraterritoriali. Al Corpo, dal 2007, si affiancò la banda musicale, composta da circa 100 musicisti volontari. A questo simulacro di forze armate, dall’antico retaggio, dall’alta valenza simbolica e dall’elevata professionalità, spetta presidiare uno Stato, la cui autonomia è asserzione dell’indipendenza necessaria a garantire l’integrità del Messaggio della Fede e della Tradizione cristiana in un Continente e in un mondo sempre più nemico e scristianizzato.
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Note bibliografiche I SACCHETTI, Franco, Novelle, (a cura di Bruto Fabricatore), Napoli, Società Editrice dei Novellieri Italiani, 1868, Novella
CLXXXI, Messere Giovanni Augut a due frati minori, che dicono, che Dio gli dia pace, fa una subita e piacevole risposta, pag. 383. II Rip. in GORANI, Giuseppe, Memorie, 3 Voll., Milano, Mondadori, 1936, vol. I, pag. 172. III Rip. in BOERI, Giancarlo - CROCIANI, Piero - PAOLETTI, Ciro, Uniformi delle marine militari italiane nel Seicento e nel Settecento, Roma, SMM - V Reparto, 1995, pag. 54. IV Ibidem. V Cfr. Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), fondo Soldatesche e Galere, busta 646, Istruzioni a Monsig, Matteucci sulle ritenute da farsi ai soldati per le armi. VI Cfr. in ASR, fondo Soldatesche e Galere, busta 646, l’elenco delle paghe per le truppe di terra nel 1598, a cui segue il pagamento mensile delle truppe di Avignone del febbraio 1599. VII Cfr. in ASR, fondo Soldatesche e Galere, busta 646, Denari pagati in Napoli alle Genti di Capo delle galere, del 30 giugno 1590. VIII Cfr. in ASR, fondo Soldatesche e Galere, busta 646, riguardo al corpo di spedizione in Ungheria, le Paghe alle truppe di fanteria rassegnata in Ala et imbarcati per Vienna, del 1595. IX Cfr. in ASR, fondo Soldatesche e Galere, busta 646, la lista delle razioni distribuite a ufficiali e truppa del presidio di Castel Sant’Angelo durante la sede vacante del 1590 dopo la morte di Sisto V. X Cfr. in ASR, fondo Soldatesche e Galere, busta 646 il dettaglio delle paghe settimanali per grado su ogni galera del luglio 1590. XI Rip. in VOLPE, Gioacchino, voce “Italia”, in Enciclopedia Italiana Treccani, vol. XIX, pag. 853. XII MURATORI, Ludovico Antonio, Annali d’Italia, 13 voll., Napoli, Lombardi, 1870, vol. X, anno MCCCXCVIII, pag. 573 XIII Rip. in CATALANO, C., Dall’equilibrio alla crisi italiana del Rinascimento, in Storia d’Italia, Torino, UTET, 1965, vol. 2, pag. 191. XIV Rip. in SASSO, G., L’Italia del Machiavelli, in Storia d’Italia, Torino, UTET, 1965, vol. 2, pag. 197. XV Rip. in GUERRIERI, Ottorino, Cesare Borgia, Torino, Paravia , 1941, pag. 179. XVI Rip. in GUERRIERI, op. cit., pag. 201. XVII MURATORI, op. cit., vol. XI, anno MDII, pag. 16. XVIII Idem, pag. 21. XIX MURATORI, op. cit., vol. XI, anno MDIX, pag. 77 XX MURATORI, op. cit., vol. XI, anno MDIX, pag. 65. XXI Rip. in “Fuori i Barbari”, su “Historia”, anno II, n. 10, ottobre 1959, pag. 21. XXII Idem. XXIII MURATORI, op. cit., vol. XI, anno MDXII, pag. 90. XXIV MURATORI, op. cit., vol. XI, anno MDXVII, pag. 153. XXV LEONE X papa (Giovanni de’ Medici), Bolla Exurge Domine, rip. in TOMASSETTI, Luigi (a cura di), Bullarium Romanum, XXIV tomi, Torino, 1857-1872, tomo V, 1860, pagg. 746-757. Il Bullarium Romanum completo è consultabile su http://www.icar.beniculturali.it/biblio/_view_volume.asp?ID_VOLUME=2120 . XXVI LEONE X papa (Giovanni de’ Medici), Bolla Decet Romanum Pontificem, rip. in TOMASSETTI, Luigi (a cura di), Bullarium… cit., tomo V, 1860, pagg. 761 e segg. XXVII MURATORI, op. cit., vol. XI, anno MDXXI, pag. 174. XXVIII LUCA, I, 74. XXIX Rip. in, “Tutto è perduto”, su “Historia”, anno II, n. 7, luglio 1959, pag. 75. XXX Rip. in VOLPE, op. cit., pag. 56. XXXI Idem. XXXII Rip. in BOTTA, Carlo, Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789, 10 voll., Parigi, Baudry, 1832, vol. I, pag. XXXIII PAOLO III papa (Farnese), Bolla Licet ab initio, rip. in TOMASSETTI, op. cit., tomo VI, 1860, pagg. 344-346. XXXIV PAOLO III papa (Farnese), Bolla Initio nostri, rip. in TOMASSETTI, op. cit., pagg. 337-344. XXXV BRUNELLI, Giampiero, Soldati del Papa – politica militare e nobiltà nello Stato della Chiesa (1560-1644), Roma, Carocci, 2003, pag. 5. XXXVI Rip. in BOTTA, op. cit., vol. I, libro decimoterzo, 1569, pag. 213. XXXVII Rip. in GRENTE, Georges, Lepanto salva l’Occidente, su “Historia”, anno II, n. 16, Marzo 1959, pag. 64. XXXVIII Rip. in GRENTE, op. cit., pag. 66. XXXIX Idem, ivi.
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XL Rip. in Vita di Sisto Quinto, che fu al secolo Felice Peretti, nato nel paese delle Grotte di Montalto, Roma, Tipografia
Volpiani, 1849, pag. 86. XLI SISTO V papa (Felice Peretti), Costituzione Immensa Aeterni Dei, rip. in TOMASSETTI, op. cit., tomo VIII, 1863, pag. 990; per le notizie sulla successiva In quantas, cfr. anche DE RE, Niccolò, La Curia romana – lineamenti storico-giuridici. Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1952, pagg. 175-176. XLII Idem, pag. 111. XLIII Per avere un’idea dei costi della spedizione, cfr. in ASR fondo Soldatesche e Galere, busta 646, Guerra in Francia. Instruttion per Pietro Grosso Colaterale nel esercito di N. Sig.re in Francia, che, pur emanata nel brevissimo pontificato di Innocenzo IX,, eletto il 3 novembre 1591e morto il 30 dicembre dello stesso anno, in sostanza vale per tutto il periodo. XLIV ASR, fondo Soldatesche e Galere, Conti straordinari, buste 11 e 12. XLV GRILLO, Giulio Cesare, Relazione sulle fortificazioni litoranee dello Stato Ecclesiastico (1618-1624), (a cura di Fabrizio M. Apolloni Ghetti) Roma, Arti Grafiche Pedanesi, 1979, pagg.100-104. XLVI Rip. in BOTTA, op. cit., libro. cit., 1624 - 1625, pag. 299. XLVII GIGLI, Giacinto, Diario romano, (a cura di Giuseppe Ricciotti), Roma, Tumminelli, 1958, Aprile 1625, pagg. 86. XLVIII GIGLI, op. cit., Aprile 1625, tutte e tre le citazioni sono da pag. 87. XLIX GIGLI, op. cit., Decembre 1625, pag. 93. L WEDGWOOD, Cecily Veronica, La Guerra dei Trent’Anni, Cles, Mondadori, 1995, pag. 250. LI GIGLI, op. cit., Marzo 1630, pag. 110. LII GIGLI, op. cit., ivi. LIII “Lecta, data et in his scriptis promulgata fuit supradicta Sententiam Anno à Nativitate D.N. IESU CHISTI Millesimo sexcentesimo quadrigesimo secundo Indictione decima die vero 13 mensis januarii, Ex tipographia Rev.Cam. Apost. MDCXLII.”, Roma, 1642; inserita in ASR, Archivio Cartari Febei, Effemeridi Cartari, (Volume primo), busta 73, anno 1642., come pag. 3. LIV Idem, pag. 7. LV Editto del 2 gennaio 1642, “d’ordine dell’Eminentissimo e Reverendissimo Sig.r Cardinale Antonio Barberini” per la messa all’asta dei beni allodiali di Casa Farnese nello Stato Pontificio - Patrimonio di San Pietro - “in Roma, nella Stamparia della Rev. Cam. Apost. 1642.” LVI “Lecta, data et in his scriptis promulgata fuit supradicta Sententiam Anno à Nativitate D.N. IESU CHISTI Millesimo sexcentesimo quadrigesimo secundo Indictione decima die vero 13 mensis januarii, Ex tipographia Rev.Cam. Apost. MDCXLII.”, Roma, 1642. Inserita in ASR, Archivio Cartari Febei, Effemeridi Cartari, (Volume primo), busta 73, anno 1642., come pag. 9 e segg. LVII GIGLI, op. cit, Aprile 1642, pag. 204. LVIII GIGLI, op. cit., Gennaro 1644, pag. 241. LIX PASTOR, Ludwig von, Storia dei Papi, Roma, Desclée, 1961, vol. XIII, pag. 888. LX GIGLI, op. cit., Settembre 1642, pag. 212. LXI GIGLI, op. cit., Settembre 1642, pag. 213. LXII GIGLI, op. cit., Settembre 1642, pag. 220. LXIII GIGLI, op. cit., ivi. LXIV GIGLI, op. cit., Settembre 1642, pag. 215. LXV GIGLI, op. cit., Settembre 1642, pag. 212. LXVI Rip. in ASR, Archivio Cartari Febei, Effemeridi Cartari, (Volume primo), busta 73, anno 1642, pag. 12, recto e verso. LXVII Idem, pag. 12, verso. LXVIII GIGLI, op. cit., Ottobre 1642, pag. 221. LXIX GIGLI in, op. cit., Dicembre 1642, pag. 223-224. LXX GIGLI in, op. cit., Dicembre 1642, pag. 225. LXXI ASR, Archivio Cartari Febei, Effemeridi Cartari, (Volume primo), busta 73, anno 1642, pag. 74 verso e 75 recto. LXXII MONTECUCCOLI, Raimondo, Lettera al Ser.mo Principe Mattias de’Medici dal campo di Modena”, del 22 luglio 1643. LXXIII ASR, Archivio Cartari Febei, Effemeridi Cartari, (Volume primo), busta 73, anno 1642., pag. 112 verso. LXXIVGIGLI, op. cit., Luglio 1643, pag. 234. LXXV “S. Mi. D. N. D. Urbani Divina Providentia papae VIII. Declaratio. Quod Odoardus Farnesius olim Dux Parmae, et Placentiae, alijque ei auxilium & c. praestantes incurrerint in Excommunicationem maiorem aliasque censuras, & poenas, cum appositione interdicti”, Romae, ex Typographia Reverendae Camerae Apostolicae MDCXXXXIII. LXXVI Relazione da Perugia del 17 ottobre 1643, In Perugia, Per Angelo Bartoli e ristampata in Roma, per il Grignani Con licenza de’ Superiori. 1643, pag. 1. LXXVII Idem, pag. 3. LXXVIII Ivi.
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LXXIX Relazione da Perugia del 20 ottobre 1643, In Perugia, Per Angelo Bartoli e ristampata in Roma, per il Grignani Con
licenza de’ Superiori. 1643, pag. 3. LXXX Ivi. LXXXI Ivi. LXXXII Relazione da Perugia del 17 ottobre 1643, cit., pag. 4. LXXXIII WEDGWOOD, op. cit., pag. 250. LXXXIV Cfr. il dispaccio di Foscolo al Senato del 6 agosto 1647, menzionato da DA MOSTO, Andrea, Milizie dello Stato Romano, 1600-1797, in “Memorie Storiche Militari”, Roma, Vol. X, 1914, pag. 483, nota 2. LXXXV DE RIENCOURT, Simon, Histoire de Louis XIV roi de France et de Navarre, à Paris, chez Claude Barbin, 1695, pag. 337. LXXXVI VOLTAIRE, Le siècle de Louis XIV, 2 voll., Paris, Stoupe, 1792, vol. I, pag. 129. LXXXVII DE RIENCOURT, op. cit., ivi. LXXXVIII VOLTAIRE, op. cit., ivi. LXXXIX INNOCENZO XI papa (Benedetto Odescalchi), Bolla Cum alias, rip. in TOMASSETTI, op. cit, tomo XIX, 1870, pagg. 759762. XC MONTESQUIEU, Charles Louis de SECONDAT baron de LA BREDE et de, Viaggio in Italia, Bari, Laterza, 1971, pag. 208. XCI ASR, Soldatesche e Galere, busta 657, “Relazione del Signor Abramo Paris e del Capitano Stefano Bladi sulle ispezioni fatte alle fortezze di Ascoli, Ancona, Senigallia, Pesaro e Rimini nel 1702”. XCII ASR fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 656, 7 l, “Elenco dei letti forniti alle truppe dalle Comunità ed Ebrei alle Guardie di N.S” del 14 agosto 1704, o la “Concessione dell’Armeria Vaticana” dal 1701 al 1709. XCIII ASR, fondo Congregazioni Particolari Deputate 1600-1760, T. 18, foglio 18, “Tassa del Milione.” XCIV ASR, fondo Congregazioni Particolari Deputate 1600-1760, T. 38, foglio 12, “Germanorum Militum.” XCV ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea busta 656, numero 2, “Questioni relative all’arrivo e passaggio degli Imperiali.” e numero 3, “Verbale della Congregazione del 9 maggio 1707” che era stata deputata a decidere che fare se il cardinal Grimani avesse chiesto il passaggio per il contingente imperiale diretto a Napoli. XCVI ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 656, numero 3, “Verbale della congregazione del 9 maggio 1707.” XCVII ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 656, numero 4, “Invasione dello Stato Ecclesiastico anno 1708” A) “Invasione di Comacchio e del Ducato di Ferrara dalle Truppe Cesaree et Armamento dello Stato Ecclesiastico in Difesa 1708” XCVIII ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 656, numero 4, “Invasione dello Stato Ecclesiastico anno 1708” 2) congregazione “sopra tanti insulti inferiti alla S. Sede 1708” XCIX ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 656, numero 4, “Invasione dello Stato Ecclesiastico anno 1708” - 4) “congregazione del mercoledì 20 giugno 1708 sulle provvisioni economiche e d’armamento da farsi”. E’ in realtà un riassunto fatto in seguito. Il testo originale manca, ma si può capire cosa i cardinali intendessero fare grazie alla lista delle congregazioni successive e degli atti nel verbale. C ASR, fondo Congregazioni Particolari Deputate 1600-1760, T. 37, foglio 5, “Congregazione sulle Armi del 1705”. CI OTTIERI, Francesco Maria, Istoria delle guerre avvenute in Europa e particolarmente in Italia per la successione della monarchia delle Spagne dall’anno 1696 all’anno 1725, Roma, 1753,. vol. 3, Libro 13°, pag. 64. CII ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 656, numero 4, “Invasione dello Stato Ecclesiastico anno 1708” “Editto per la leva d’Uomini scelti da farsi dalle Comunità dello Stato Ecclesiastico.” CIII ASR, fondo Soldatesche e Galere, cit., Ordine di rimpatrio a tutti i sudditi Pontifici, del 19 giugno 1708. CIV ASR, fondo Soldatesche e Galere, cit., “Capitoli e leggi da osservarsi per ordine espresso della Santità di Nostro Signore dagli Ufficiali e Soldati tanto di Cavalleria, e di Fanteria dell’Armamento fatto nelle presenti emergenze”. CV ASR, fondo Soldatesche e Galere, cit., lista delle paghe, emanata il 24 agosto 1708. CVI ASR, fondo Soldatesche e Galere, cit., “notificazione per l’aumento della Cavalleria” del 29 settembre 1708. CVII ASR, fondo Soldatesche e Galere, cit., Congregazione in data non menzionata, probabilmente in luglio, p. 86. CVIII ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 657, vedere, oltre al citato “Elenco dei letti forniti alle truppe dalle Comunità ed Ebrei alle Guardie di N.S. à tutto maggio del 1708”, anche il “Memoriale sulla fornitura di letti alle Truppe”, del 10 ottobre 1708. CIX ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, cit. “accettazione della levata del Rgt Malvezzi”, 8 settembre 1708. CX ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 656, numero 4, “Nota dell’Artiglieria da Campagna con il suo treno per servizio d’un Corpo d’Armata di 12000 uomini”, emanato il 10 ottobre 1708. CXI ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 657, “danni subiti e spese fatte per il passaggio delle truppe pontificie”, relativo alle città di Cantiano, Gubbio, Sinigaglia, Mondolfo, Fossombrone e Rimini. CXII ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 656, “Passaggio delle Truppe Cesaree per lo Stato ecclesiastico nel 1708”, relativo alle città di Cantiano, Gubbio, Sinigaglia, Mondolfo, Fossombrone, e Rimini, e busta 658 “Danni e spese patite dalle Comunità dello Stato ecclesiastico a causa delle truppe imperiali - 1709”. La busta contiene le cedole presentate dalle Comunità all’amministrazione pontificia per il rimborso del cibo ed alloggio fornito alle truppe pontificie in ritirata verso
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Roma nell’autunno del 1708, benché la lista dei centri abitati – tutti lungo la via Flaminia – segua l’itinerario da sud a nord, cioè dell’avanzata verso l’Emilia, anziché il contrario. CXIII Storia dell’anno 1734, Venezia, Pitteri, 1735, libro I, pag. 39. CXIV ASR, Fondo Congregazioni particolari, Tomo 23, f. 11, “Congregazione particolare sulle spese militari per il 1734”, prima pagina, premessa. CXV ASR, Fondo Congregazioni particolari, Tomo 23, f. 11, cit., ultima pagina: conclusioni. CXVI Idem, ivi. CXVII Rip. in MONTANARI, Francesco, Il Cardinale Lambertini (Benedetto XIV), Milano, Fratelli Bocca, 1943, pag. 108. CXVIII MONTESQUIEU, op. cit., pag. 184. CXIX De BROSSES, Charles, Viaggio in Italia, Bari, Laterza, 1973, Lettera L, al Signor de Quintin, pag. 501. CXX ASR, fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea,. CXXI Le notizie su questo reparto sono tratte dall’Archivio di Stato di Roma, fondo Congregazioni particolari deputate 1600 1760, Tomo 37, fascicolo 5: Congregazione sulle armi del 1705, in cui al quarto punto dell’ordine del giorno figura la questione della bandiera della Compagnia di Manino. Di conseguenza, considerato che il fascicolo in questione è di quattro facciate, ove le citazioni non abbiano riferimenti indicanti fonti diverse, tutte le citazioni che da ora in poi si troveranno senza indicata la fonte sono prese dal fondo citato e non si farà altro riferimento documentale che questo. Lo stesso testo, in copia manoscritta, è conservato nella Biblioteca Comunale di Bologna, come ms. numero B 2191, ex 17 c. Mss - Storia Civica Politica – Cart. M 97.10, col titolo, lievemente diverso dal testo romano, di Compagnia de’Soldati Carabini Rinforzati a cavallo detti = Soldati di Manino= . Il memoriale di Luca Mengarelli era già stato stampato nella Stamperia della Reverenda Camera Apostolica a Roma nel 1702, come alla Sacra Congregazione Militare per il Capitano Luca Mengarelli, Memoriale; ma il testo era diverso, fornendo meno dati sulla costituzione della Compagnia e illustrandone i compiti e le mansioni, cosa che il memoriale manoscritto invece non fa. CXXII GUIDICINI, Giuseppe, Vestiari, usi e costumi di Bologna cessati nel 1796, Soldato del Manino a piedi, soldato del Manino a cavallo, ms. conservato nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. CXXIII E’ il citato Alla Sacra Congregazione Militare per il Capitano Luca Mengarelli, Memoriale in Roma, nella Stamperia della Reverenda Camera Apostolica, con Licenza de’ Superiori, 1702. CXXIV Alla Sacra Congregazione Militare per il Capitano Luca Mengarelli… cit., pag. 4. CXXV Archivio Alberoni, Fondo Carte di San Marino, Istromenti delle Dedizioni allo Stato della Chiesa, allegati: Dedizione del Popolo di Faetano, Dedizione del Popolo di Acquaviva, Dedizione del Popolo di Monte Giardino e Dedizione del Popolo della Chiesa Nuova. CXXVI Papa Benedetto XIV al cardinal Pierre Guerin de Tencin, Roma 7 novembre 1744, in Lettere di Benedetto XIV al Cardinal de Tencin, (a cura di Emilia Morelli), 3 voll., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1955, vol. 1, alla data. CXXVII SALZANO, Tommaso Michele, Storia Ecclesiastica, 2 voll., Roma, per cura di una società ecclesiastica, 1861, 2° vol., pag. 500. CXXVIII LAMBERTI, Maria Carla, (a cura di), Vita di Francesco Bal scritta da lui medesimo, Milano, 1994, pag. 114. CXXIX LAMBERTI, op. cit., ivi. CXXX Ibidem. CXXXI BELLI, Giuseppe Gioachino, Li sordati d’una vorta, in BELLI, Giuseppe Gioachino, I sonetti, (a cura di MariaTeresa Lanza), 4 voll., Milano, Feltrinelli, 1963, vol. I, pag. 444, sonetto 411. CXXXII LEOPARDI, Monaldo, Autobiografia, cap. XXX, rip. in DA M OSTO, Andrea, Milizie dello Stato Romano 1600-1797, in “Memorie Storiche Militari”, Roma, Comando del Corpo di Stato Maggiore del Regio Esercito, fasc. X, 1914, pag. 551, nota 6 e ripubblicato a cura di Giulio Cattaneo, dalle Edizioni dell'Altana nel 1997. CXXXIII LEOPARDI, Monaldo, Autobiografia, cit. cap. XXXIII. CXXXIV LABAT, Jean-Baptiste, Un monaco francese nell’Italia del Settecento, Tivoli, Aldo Chicca, 1951, pag. CXXXV COLLETTA, Pietro, Storia del reame di Napoli, Milano, Casini, 1989, pag. 224. CXXXVI Cfr. ROSSI, Mario, “L’occupazione napoletana di Roma 1799-1801”, in « Rassegna Storica del Risorgimento », anno XIX, fasc. III, luglio-settembre 1932, pag. 712. CXXXVII ASR, Fondo Soldatesche e Galere, Miscellanea, busta 762, fascicolo Scandagli delle Spese del Militare per l’Anno 1805. CXXXVIII SALZANO, op. cit., pag. 553. CXXXIX SALZANO, op. cit., pag. 354. CXL SALZANO, op. cit., pag. 360. CXLI Il cardinale segretario di Stato Ercole Consalvi al cardinal Pacca, Londra 17 agosto 1814, rip. in BREZZI, Paolo, La diplomazia pontificia, Milano, ISPI, 1942, pag. 359. CXLII Consalvi a Pacca, Vienna, s.d, ma autunno 1814, rip. in BREZZI, op. cit., pag. 362. CXLIII Consalvi a Pacca, Vienna, s.d, ma autunno 1814, rip. in BREZZI, op. cit., pag. 364.
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CXLIV Consalvi a Pacca, Vienna, 19 maggio 1815, rip. in BREZZI, op. cit., pagg. 382-383. CXLV Consalvi a Pacca, Vienna, 12 giugno 1815, rip. in BREZZI, op. cit., pagg. 387-388. CXLVI Consalvi a Pacca, Vienna, 19 maggio 1815, rip. in BREZZI, op. cit., pagg. 382-383. CXLVII Consalvi a Pacca, Vienna, 12 giugno 1815, rip. in BREZZI, op. cit., pag. 388. CXLVIII D’AZEGLIO, Massimo TAPARELLI, I miei ricordi, Varese, Feltrinelli, 1963, pag. 111. CXLIX Ignoto informatore da Roma in data 3 aprile 1819, trasmesso dal direttore generale di polizia Raab al viceré del Regno
Lombardo-Veneto conte di Strassoldo il 16 aprile 1819, rip. in LUZIO, Alessandro, Il processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti ufficiali segreti , Milano, Cogliati, 1903, pag. 270. CL Ignoto informatore da Roma, cit., in LUZIO, op. cit., pag. 268. CLI D’AZEGLIO, op. cit. pag. 258. CLII D’AZEGLIO, op. cit. pag. 317. CLIII GREGOROVIUS, Ferdinand, Diari romani (1852-1874), (a cura di Alberto Maria Arpino), Roma, F.lli Melita, 1982, pag. 62, Anno 1856, “primo giorno di Pasqua, 24 marzo.” CLIV D’AZEGLIO, op. cit., pag. 288. CLV ASR, Soldatesche e Galere buste n. 641, 642, 805 CLVI Come previsto dal documento “Ordini del Comando Generale” del 20 maggio 1814, in cui si dice “Li comandanti de battaglioni daranno nel rapporto di domani il discarico di quell’individui che hanno servito nell’artiglieria.”, in ASR, Soldatesche e Galere, busta n. 805 CLVII ASR, Soldatesche e Galere busta n. 805, “Ordini del Comando Generale del 13 maggio 1814.” CLVIII ASR, Soldatesche e Galere, busta n. 641. CLIX D’AZEGLIO, op. cit. pag. 349 CLX MAESTRI, Giacomo L’Esercito Pontificio tra il 1° novembre 1814 e il 1° settembre 1815, tesi di laurea in Scienze Politiche, discussa a Roma, Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi Roma 1 “La Sapienza”, 2006. CLXI Ignoto informatore da Roma, cit., pag. 267. CLXII D’AZEGLIO, op. cit. pag. 112. CLXIII Rip. in FRIZ, Giuliano, Burocrati e soldati dello Stato pontificio 1800-1870, Roma, Edindustria editoriale, 1974, pag. 83, nota 4. CLXIV MENGHI SARTORIO, Arturo, ...Inchinàti al bacio della Sacra Porpora... - La stagione delle congiure nelle Legazioni, Rimini, Pazzini, 1995, pag. 36. CLXV Tanti e così fieri nemici – lettere apostoliche della Santità di nostro Signore Papa Pio Settimo, con le quali si condanna la società detta de’Carbonari, Roma, Stamperia della Reverenda Camera Apostolica, 1821, pag. 7. CLXVI Rip. in MENGHI SARTORIO, op. cit., pag. 63. CLXVII D’AZEGLIO, op. cit., pag. 334. CLXVIII Rip. in MENGHI SARTORIO, op. cit., pag. 80. CLXIX D’AZEGLIO, op. cit., pag. 462. CLXX Notificazione del Presidente delle Armi G. Ugolini, Sull’arruolamento volontario per le Truppe di Linea, del 7 giugno 1831, capo 2°, rip. in FRIZ, Giuliano, Burocrati e soldati dello Stato pontificio 1800-1870, Roma, Edindustria editoriale, 1974, pag. 74, nota 1. CLXXI Notificazione cit., capo 3°, in FRIZ, op. cit., ivi CLXXII Rip in MENGHI SARTORIO, op. cit., pagg. 111-112. CLXXIII GHISALBERTI, Alberto Maria, “Il ritorno delle truppe pontificie a Bologna nel 1832 in una narrazione contemporanea”, in «Rassegna Storica del Risorgimento», anno XI, fasc. IV, ottobre-dicembre 1924. CLXXIV L’ordine del giorno è riportato da GHISALBERTI, in op. cit., pag. 989, nota 1. CLXXV BRIGANTE COLONNA, Giulio, Ottocento romano, (a cura di Gustavo BRIGANTE COLONNA), Roma, F.lli Palombi, s.d., ma 1945 ca., pagg. 80-81. CLXXVI BRIGANTE COLONNA, Giulio, op. cit., pag. 81. CLXXVII D’AZEGLIO, op. cit., pag. 458. CLXXVIII Rip. in BRIGANTE COLONNA, Gustavo, L’uccisione di Pellegrino Rossi (15 Novembre 1848), Verona, Mondadori, 1938, pag. 73. CLXXIX L’ambasciatore di Francia conte Rossi al ministro Guizot, Roma 18 luglio 1847, rip. in BRIGANTE COLONNA, Gustavo, L’uccisione di Pellegrino Rossi cit., pag. 99 CLXXX ASV, Segreteria di Stato, Rubricelle, 1847, prot. n. 69220. CLXXXI Proclama di Pio IX del 10 febbraio 1848, appendice 5 a BRIGANTE COLONNA, Gustavo, L’uccisione di Pellegrino Rossi cit., pagg. 262-263. CLXXXII Proclama di Pio IX del 10 febbraio 1848, appendice 5 a BRIGANTE COLONNA, Gustavo, op. cit. ivi. CLXXXIII Idem.
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CLXXXIV Discorso di Pio IX del 12 febbraio 1848,
rip. in BRIGANTE COLONNA, Gustavo, op. cit., pag. 109. BRIGANTE COLONNA, Gustavo, op. cit., pag. 112. CLXXXVI Rip. in vari, tra cui BRIGANTE COLONNA, Gustavo, op. cit., e GIBELLINI, Valerio, “Le uniformi militari nello Stato della Chiesa dal 1831 al 1849”, su “Rivista Militare”, anno CII, n. 6, novembre-dicembre 1979, pag. 114. CLXXXVII Pio IX, Non Semel, allocuzione del 29 aprile 1848, rip. parzialmente in BRIGANTE COLONNA, Gustavo, op. cit., appendice 6, pag. 264. Il testo completo è reperibile su http://www.totustuustools.net/magistero/ Pio IX, Non semel. CLXXXVIII Non semel, cit. CLXXXIX Idem. CXC FERRARI, rapporto al pro-ministro delle Armi del 16 maggio 1848, rip. integralmente in TAMBLÉ, Donato, Le truppe romane in Veneto e alla difesa di Venezia, in, Le armi di San Marco, atti del convegno di Venezia e Verona del 29-30 settembre 2011, Roma, SISM, 2012, pag. 298, nota 418. CXCI Lettera aperta a firma Olivi, A sua Eccel.za il Generale Durando, Comandante in capo le truppe pontificie, Treviso 16 Maggio 1848 ore 10 pomeridiane, Treviso, dalla Tipografia Dipartimentale. CXCII COMITATO PROVVISORIO DIPARTIMENTALE IN TREVISO, Al Governo provvisorio della Repub: Veneta, Treviso, 16 Maggio 1848 alle ore 10 pomeridiane, a firma del presidente G. Olivi, Tipografia Dipartimentale di G. Longo. CXCIII Rip. in TAMBLÉ, op.cit., pag. 297. CXCIV Lettera aperta a firma del presidente G. D. Olivi, A sua Eccel.za il Generale Durando Comandante in capo le truppe pontificie, Treviso 18 Maggio 1848, ore 3 pomeridiane, Tipografia Dipartimentale di G. Longo. CXCV IL GENERALE COMANDANTE DURANDO, Ordine del Giorno Alla guarnigione di Vicenza, Treviso, dalla Tipografia Dipartimentale di G. Longo, 25 maggio 1848. CXCVI COMITATO PROVISORIO DIPARTIMENTALE DI VICENZA, Bullettino della Guerra, Vicenza il 24 Maggio [1848], ore 11 Pom. CXCVII GOVERNO PROVVISORIO DELLA REPUBBLICA VENETA, Bullettino della guerra, Vicenza il 24 Maggio,.1 pom. 1848, a firma “Per incarico del governo provvisorio, Il Segretario Generale, Zennari” CXCVIII IL GENERALE COMANDANTE DURANDO, Ordine del Giorno Alla guarnigione di Vicenza, Treviso, dalla Tipografia Dipartimentale di G. Longo, 25 maggio 1848. CXCIX Manifestino, Gli Studenti Lettere e Belle Arti della 3ª. Comp.a Tiragliuoli Pontificii Ai fratelli d’armi e di patria, a firma di Federico Landriani Comandante, Treviso 31 maggio 1848. CC RONCALLI, Nicola, Cronaca di Roma 1844-1870, 2 voll., (a cura di Maria Luisa Trebiliani), Roma, Istituto centrale per la Storia del Risorgimento Italiano, 1972,. vol. I, anno 1848, 30 luglio, pag. 302. CCI GARIBALDI, Giuseppe, Memorie, Torino, Einaudi, pag. 215. CCII GARIBALDI, op. cit., pag. 215. CCIII BADO, Luigi, Fatti atroci dello spirito demagogico negli Stati Romani – racconto estratto dai processi originali, Firenze, Campolini, 1853, pag. 110. CCIV Bollettino officiale della Commissione incaricata dall’Assemblea alla visita agli ospedali, del 1° maggio 1849, in Bollettino delle Leggi, proclami, circolari, regolamenti ed altre disposizioni della Repubblica Romana, cit., pag. 569. CCV BADO, op. cit., pag. 110 CCVI ABBA, Giuseppe Cesare, Da Quarto al Volturno, Firenze, Casini, 1966, pag. 29. CCVII BANDI, Giuseppe, I Mille: da Genova a Capua, Milano, Garzanti, 1977, pag. 31. CCVIII Cfr. Bollettino delle Leggi, proclami, circolari, regolamenti ed altre disposizioni della Repubblica Romana, cit., dal Ministero dell’Interno, circolare Saffi del 28 aprile 1849, p. 510. CCIX Triumvirato, proclama del 30 aprile 1849 a firma Armellini, Mazzini, Saffi, nel Bollettino n. 29, in Bollettino delle Leggi, proclami, circolari, regolamenti ed altre disposizioni della Repubblica Romana, cit., pag. 509-510. CCX KOELMAN, Jan Philip, Memorie romane, (a cura di Maria Luisa Trebiliani), 2 voll., Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1965, vol. I, pag. 203 a proposito del Santo Bambino dell’Ara Coeli portato ad una morente con la carrozza del Papa per ordine del Triumvirato. CCXI Cfr., tutti gli atti contenuti nel Bollettino n. 30 del 30 aprile 1849, in Bollettino delle Leggi, proclami, circolari, regolamenti ed altre disposizioni della Repubblica Romana, cit., pagg. 547 e seguenti. CCXII Idem, pag. 222 - 223. CCXIII Idem, ivi. CCXIV Idem, pag. 233 - 234. CCXV PIERI, Piero, Storia militare del Risorgimento, 2 voll., Milano, il Giornale, 2003, vol. II, pag. 425. CCXVI Idem, pag. 227. CCXVII Idem, pag. 232. CCXVIII Idem, pag. 236. CLXXXV Proclama di Camillo Aldobrandini del 20 marzo 1848, rip. in
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CCXIX RONCALLI, Nicola, Cronaca di Roma 1844-1870, 2 voll., a cura di Maria Luisa Trebiliani, Roma, Istituto centrale per la
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CCLXVI RIVALTA, cit., rip in DE CESARE, op. cit., pagg. 739-740. CCLXVII RIVALTA, cit., rip in DE CESARE, op. cit., pagg. 740-741. CCLXVIII CARLETTI, in BONETTI, op. cit., pagg. 205. CCLXIX CARLETTI, in BONETTI, op. cit., pagg. 205. CCLXX Rip, in DE CESARE, op. cit. pag. 735. CCLXXI RIVALTA, cit., rip in DE CESARE, op. cit., pagg. 740-741. CCLXXII PESCI, op.cit., pagg. 160-161. CCLXXIII D’ARGENCE, R., Six mois aux Zouaves Pontificaux, ou les derniers jours des Etats Pontificaux, Basilea, S.S.T.P., 2000,
pag. 101. CCLXXIV D’ARGENCE, ivi. CCLXXV PESCI, op. cit., pag. 171. CCLXXVI D’ARGENCE, op. cit., pag. 102. CCLXXVII PESCI, op. cit., pag. 174. CCLXXVIII PESCI, op. cit., pag. 157. CCLXXIX PESCI, op. cit., pag. 174. CCLXXX RIVALTA, cit., rip. in DE CESARE, op. cit., pag. 742. CCLXXXI NEGRO, Silvio, Vaticano minore, Roma, Neri Pozza editore, 1963, pag. 171. CCLXXXII NEGRO, op cit., pag. 210-211.
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