STATO MAGGIORE AERONAUTICA
Ufficio Stnrico
ALDO GIC RLEO
PALESTRA AZZURRA L'AERONAUTICA MILITARE E IL PARACADUTISMO CRONISTORIA DALLE ORIGINI AD OGGI
ROMA 1975
PROPRIETA' LETTERARIA RISERVATA
(C) COPYRIGHT BY UFFICIO STORICO AERONAUTICA MILITARE 1975
PREMESSA
Paracadutismo e aviazione. Tra L'uno e l'altra, sia in campo sportivo che in quello militare, c'è un nesso inscindibile. I primi a gettarsi daLl'alto furono, nel secolo XVIII, i pionieri dell'aviazione, coloro che, come i Montgolfier, si sollevavano nell'aria per mezzo di aerostati. Ad un certo momento, fu quasi naturale per questi ardimentosi voler compiere anche L'esercizio opposto: calarsi dal cielo appesi a rudimentali paracadute. Trascorreranno molti anni - circa un secolo prima che iL paracadute entri timidamente nella sfera degli interessi militari. Infatti, a poco a poco, anche i più scettici si convinceranno dell'utilità del paracadute come mezzo di salvataggio aereo e, in un secondo tempo, iL nuovo strumento andrà anche affermandosi come mezzo di trasporto per reparti addestrati a piombare dalL' alto sul nemico. In Italia, l'attività paracadutistica si sviluppò nell' ambito dell'Aeronautica militare (i pionieri deL paracadutismo furono quasi tutti appartenenti all'Arma azzurra, e lo stesso Freri, inventore del paracadute Salvator affermatosi in tutto il mondo, era ufficiale pilota) , tanto che, allorchè si trattò di costituire la prima scuola nazionale di paracadutismo miìitare, essa venne posta sotto la giurisdizione della Regia Aeronautica, e ad organizzarla e a comandarla fu chiamato uno dei più brillanti ufficiali piloti, pioniere del paracadutismo ( aveva effettuato il suo primo lancio nel 1927), il colonnello Giuseppe Baudoin, conte de Gillette. Lo scopo di questo libro è quello di descrivere ciò che l' Aeronautica Militare ha fatto per il paracadutismo, con l'abnegazione ed iL valore dei suoi uomini e L'audacia dei suoi sperimentatori. IL CAPO UFFICIO STORICO A.M. Gen. A. CAZZAN IGA
PARTE PRIMA
CAPITOLO I
Precursori e pionieri del paracadutismo « Se un uomo ha un padiglione di panno intasato (cioè con i fori ostruiti per vernice o per colla) che sia di 12 braccia per faccia e alto 12, potrà gettarsi da -ogni grande altezza senza danno di sé}>. Così, nel 1495, Leonardo da Vinci descriveva, corredandolo di disegno, il primo paracadute della storia. Un paracadute, s'intende, molto diverso da quello moderno, un " istromento " atto a frenare la caduta dei gravi, fatto a forma di piramide. Il principio, però, era il medesimo del paracadute d'oggi: e la descrizione e i calcoli si sarebbero dimostrati esatti. L'intuizione di Leonardo fu ripresa da Fausto Veranzio, da Sebenico, filoso fo e matematico, che, secondo taluni, deve essere considerato il primo uomo che abbia sperimentato una discesa in « paracadute ». Il fatto sarebbe avvenuto a Venezia, nel 1616. Appeso a un enorme « lenzuolo », Veranzio (che sulla impresa scrisse un'opera intitolata « Machinae Novae ») si sarebbe lanciato da una torre, atterrando senza danni tra lo stupore dei presenti. Il Sette e l'Ottocento videro una schiera di coraggiosi sperimentatori della « discesa aerea ». Basti pensare a Sebastiano Fausti e Paolo Guidotti in Italia; ai Montgolfier, a Sebastien Lenormand, a Jean Pierre Blanchard e ai Garnerin in Francia. Joseph Montgolficr idea nel 1783 un paracadute costituito da vesciche di maiale gonfiate con aria calda e collegare per mezzo di funi ad una cesta di vimini. Sistema nel.la c.:esta una pecora, porta il tutto in alto con un aerostato e lo molla. Il paracadute scende sino a terra: la pecora è salva. Poco dopo, in collaborazione con il fratello, costruisce un nuovo paracadute, con una calotta di carta a forma semisferica collegata per mezzo di funi alla navicella. Sotto la calotta, per aumentarne la portanza, piazza quattro delle solite vesciche, e fa collaudare lo «strumento», questa volta, da un moncone.
Sempre nel 1783, Lenormand avrebbe compiuto un lancio affidandosi ad un paracadute semirigido, di sua concezione; mentre l'anno dopo Blanchard reaJjzza un paracadute simile ad un grande ombrello, con il manico fissato alla navicella dell'aerostato, e vi fa scendere, ripetutamente, il suo cane. Poi, il 21 novembre 1785, pare fosse costretto egli stesso a sperimentare quel paracadute: a causa di un'avaria, il pallone stava precipitando, Blanchard tagliò le funi, e la navicella, fissata al manico dell'ombrellone, scese dolcemente a terra ( 1). Ma fu una decina d'anni dopo che il paracadute cominciò a divenire familiare al pubblico. Lo si dovette ai Garnerin, André Jacques, Jean ed Elisa, che si esibirono in tutta Europa suscitando entusiasmo a ' non finire. Il primo della famiglia a provare l'ebrezza della « discesa » ( con un paracadute pesante ben 130 chili e fissato nella semisfera sòttostante l'involucro dello aerostato) fu André Jacques. Di fronte ad una folla di parigini radunata nel parco di Monceau, il 1. brumaio 1797, l'aeronauta salì a 700 metri, poi tagliò le funì che legavano la navicella all'aerostato e venne giù oscillando forremente, ma indenne, salutato da un applauso frenetico. Dopo questo collaudo, l'inventore, con la collaborazione del fratello Jean e della figlia di questi, Elisa, costruì un paracadute molto simile a quelli attuali, vale a dire a costituzione floscia, non sostenuto da intelaiature come sino ad allora si era soliti fare, del peso di 45 chili, in seguito ridotti a meno della metà, e con un foro alla sommità della calotta per farvi passare l'aria e ridurre le oscillazioni. La prima donna paracadutista del mondo fu la moglie di André Jacques, Jeanne, che riportò uno shock tale da non voler più ritentare la prova. La nipote Elisa, invece, dopo aver compiuto il primo 7
salto a 16 anni, proseguì a lanciarsi insieme con il padre e con lo zio in Francia, in Belgio, in Italia (memorabile la discesa eseguita il 29 giugno 1827 a Torino alla presenza del re Carlo Felice e della corte), in Inghilterra, in Germania, e persino in Russia (2 ).
Paracadute cii Leonardo
Paracadute di Veranzio
Paracadute di Lenormand
Paracadute di Garnerir
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L'elenco degli appassionati del paracadutismo si allunga. Dopo i Garnerin, anche l'inglese Hampton costruisce, nel 1839, un paracadute con il foro apicale che permette lo sfogo d'aria necessario ad eliminare le oscillazioni. Due anni prima, un altro inglese, Robert Cocking, si era ucciso con un paracadute di tipo rigido, a forma di cono rovesciato, cui era appesa una navicella di vimini. Si era fatto sollevare in alto dall'aeronauta Charles Green, il quale aveva quindi reciso la fune che collegava il paracadute allo aerostato. Per alcune centinaia di metri la discesa si era svolta regolarmente, poi, di colpo, il paracadute si era ripiegato, precipitando. La terza donna paracadutista fu un'altra francese, madame Poitevin, che in tre anni, dal 1849 al 1852, compì insieme con il marito, una serie di ardimentosi lanci, conquistando, tra l'altro, il record di altezza con una discesa da duemila metri a Parma E' poi la volta di altri audaci: Godard, che nel 1850 effettua un lancio da 1500 metri; Letour, che muore per le ferite riportate nell'atterraggio; Sivel; Robertson; e poi ancora Bourget e Sovis, il quale, nel 1880, a Rouen, si lancia da mille metri. Altro passo avanti nel 1887. Stavolta è un americano, il capitano Thomas Sacket Baldwin (che diverrà in seguito industriale aeronautico), ad apportare al paracadute una fondamentale innovazione: abolisce la navicella di vimini che sino a quel momento era servita da abitacolo per il paracadutista, e costruisce una vera e propria imbracatura, simile a quelle odierne. Egli applica il paracadute, con la calotta già aperta e trattenuta da funicelle, alla cesta di un pallone, afferra la parte terminale delle funi e . si lancia nel vuoto. Con il peso, le funicelle si rompono, la calotta si distacca e, grazie all'aria che vi penetra, si gonfia e scende giù. Due anni dopo il paracadute comincia ad interessare gli stati maggiori. L'esercito tedesco invita la aeronauta americano Leroux ad effettuare, presso il reparto aerostieri, prove pratiche con il suo paracadute derivato dal modello Baldwin. Leroux accetta e si esibisce a Schoneberg, presso Berlino. Il conte Schlieffen, capo di stato maggiore, dimostra molto interesse. I tecnici, nel frattempo, si danno da fare per migliorare il nuovo mezzo aereo. Il tedesco Herzberg tenta di manovrare il paracadute durante la discesa utilizzando le oscillazioni della calotta. Altrettanto fanno gli americani Leeds e Whise. In Inghilterra, il colonnello Marceroni progetta un paracadute con la calotta rovesciabile. Dal canto suo, il corso Louis Capazza collauda un modello di paracadute con la calotta reticolare, mentre il tedesco Lattemann utilizza in un lancio due paracadute. Un altro tedesco, Rose, brevetta un paracadute assai maneggevole. Con esso, il 27 maggio 1900, compie un lancio la prima donna paracadutista tedesca, la signorina Kate Paulus. Quando incominciano i primi esperimenti aerei,
quando i fratelli Wright stupiscono il mondo con il loro breve volo sul « più pesante dell'aria», quando altri audaci, da Voisin a Bleriot, danno inizio all'era dell'aviazione, il paracadutismo trova una ragione anche pratica, e non più soltanto sportiva, alla propria esistenza. Nel 1911 si lancia per la prima volta l'americano Clem Sohn, desùnato più tardi a perire in un tentativo di volo umano con ali di tela; l'anno dopo, nel cielo di Se. Louis, è la volta di un intero gruppo di uomini. Si la,pcia, nel 1913, da un aeroplano pilotato dal trasvolatore della Manica Louis Bleriot, il francese Adolphe Pegoud, famoso pilota egli stesso, morto poi nella grande guerra. Nel febbraio 1914 - l'anno di Serajevo - un altro francese, Giovanni Ors, collauda un suo funzionale paracadute con un lancio da 800 metri a J uvisy. « La discesa - dirà una cronaca dell'epoca - fu abbastanza breve. Appena la tela si aprì, l'inventore si dondolò una quarantina di secondi nello spazio e si posò quindi sul suolo, come una foglia che cade dall'alto». Seguono l'esempio di Ors, l'americano Irving, Berry, Hengler, Schmetter, Glorieux, Loyal. Con la prima guerra mondiale, le opposte aviazioni si scontrano nei cieli lungo i fronti di battaglia. E' il momento del paracadute poiché ciascun paese belligerante cerca di fornire i propri piloti di questo « congegno » che salva, di solito, chi gli si affida in caso di sinistro. . I francesi sperimentarono dapprima l'Hérviene, con apertura a molle, che si dimostrò poco pratico; quindi realizzarono il Dangy, ad apertura automatica; infine, nel 1915, decisero di adottare il paracadute inglese Calthrop. Austriaci e tedeschi affidarono la sorte dei loro piloti al modello Schmettner, anch'esso realizzato nel 1915. Il Calthrop veniva sistemato sotto la fusoliera dell'aereo ed era collegato per mezzo di una fune all'imbracatura del pilota. La sua velocità di discesa era di sei metri il secondo. Anche il modello tedesco era fissato all'esterno del velivolo, ed era collegato con una imbracatura alle spalle del pilota. Sia gli aviatori inglesi e francesi che quelli austriaci e tedeschi el-,bero in dotazione il paracadute :-iella primavera del 1916. Il primo ad adoperarlo fu un ufficiale del 14° Reparto d'aviazione dell'esercito imperiale germanico, il tenente Kurt Wieczorek, lanciatosi il 13 marzo del 1916 da un pallone frenato nel cielo di Reims. Si trattò di un esperimento, ma qualche mese dopo il paracadute salvò per la prima volta la vita ad un pilota, il sottotenente Levassor dell'aviazione francese, il cui aereo si era incendiato in volo. Poichè il Calthrop era troppo ingombrante, i francesi costruirono nel 1916 un paracadute progettato da Bonnet. Purtroppo, le prove si conclusero in maniera tragica: i collaudatori Calderon e Spiess si schiantarono al suolo a causa dell'eccessiva velocità di discesa. In seguito, con le modifiche apportatevi da Mortane, il Bonnet si rivelò un buon paracadute: i col-
laudatori Juchmes, Letourner e Duclos lo sperimentarono decine di volte. Quanto agli italiani, solo nel 1917 ebbero in consegna dagli inglesi un certo quantitativo di paracadute Calthrop, detto Angel Guardian, ma i nostri aviatori dimostrarono alquanto scetticismo verso l'ombrello di seta, quasi che, portandolo con sè in volo, fosse menomata la loro capacità di « cavalieri del cielo ». Così i primi ad esserne equipaggiati ( solo in un secondo tempo l' Angel Guardian venne « accettato» da alcune squadriglie della caccia) furono gli osservatori del genio aerostieri (3 ). Uno di questi, il tenente duca Hardouin di Gallese, decise un giorno di provarlo e si buttò dal pallone che « galleggiava » a 1200 metri di altezza. Turco funzionò a meraviglia. Quando arrivò a terra, l'ufficiale si ebbe una punizione per la sua indisciplina e una decorazione per il suo coraggio « atto ad infondere fiducia » agli altri.
Paracadute per aerostieri della prima guerra mondiale (1917). L'involucro a forma tronco-conica, veniva agganciato sotto la navicella ed era collegato all'imbracatura dell'aerostiere per mezzo di una lunga fune.
Intanto il paracadu·te veniva preso in considerazione non soltanto come mezzo di salvataggio, ma anche come mezzo di trasporto per informatori. I francesi Vedrines, Evrard, Tabuteau, lanciati al di là delle linee tedesche, portarono a termine preziose azioni informative. Altrettanto fecero i tedeschi Kossel e Findisch, calati dierro le linee russe. E gli italiani, in questo campo, non furono da meno. Nella tarda estate del 1918 si presentò la necessità di appurare l'effettiva consistenza di alcuni reparti austriaci lungo la zona del fronte, cosa che era possibile soltanto portandosi in territorio controllato dal nemico. Vennero chiesti dei volontari, e ne furono scelti tre, i tenenti Pier Arrigo Barnaba, Alessandro Tandura e Ferruccio Nicoloso, i quali, naturalmente, non avevano alcuna preparazione in fatto di lanci. L'VIII 9
Armata, da cui dipendevano, possedeva soltanto quattro paracadute Calthrop, mancavano specialisti capaci di ripiegarli, e si preferì adoperarli così come erano stati consegnati: prima missione, primo lancio. L'unica raccomandazione rivolta ai neo-paracadutisti fu: al momento del ::,alto, cenere unite le gambe e « stringere i denti ». Il particolare di « stringere i denti )> - che, tutto sommato, era parso assai strano agli interessati - derivava, si seppe poi, da un errore di traduzione delle succinte note che accompagnavano lo stock di paracadute giunto dalia Gran Bretagna in Italia. L'impresa riuscì. Gli ufficiali portarono a termi ne la missione trasmettendo ai comandi le informazioni richieste tramite piccioni viaggiatori che avevano portato con sè chiusi ìn speciali gabhierte.
Ferruccio Nicoloso (a s inistra} e Pier Arrigo Barnaba nel loro travestimento durante la missione svolta in territorio invaso (1918)
Con la fine della guerra, di paracadutismo in Italia si parlò poco. Non così all'estero, dove fu un continuo succedersi di progetti, di sperimentazioni, di invenzioni collegate al settore paracadutistico. Gli inglesi modificarono, alleggerendolo, il loro Calthrop, il capitano Meurs progettò un paracadute che portava il suo nome, c'era inoltre il paracadute Holt, denominato Autocaduta; in seguito furono costruiti il Pak, su progetto cecoslovacco, e l'Harnasuit. I francesi costruirono il Tinsonnier, il Robert, il Blanquier, l'Ors, il Cornier, il Galbé, il Providence; quindi lo Aerazur, il Vinaj e l'Aviorex. 10
In America Irvin realizzò un paracadute molto funzionale; nacquero altri prototipi: Jahn, Scott, Swi, t!ik, Sperry, Martin, Smith, Russe!; i tedeschi possedevano l'Heinecke, il Mi.ilJer; poi realizzarono lo Schroeder, il Defag, il Kostelesky, il Robur, lo Schmitt· ner-KS, il Koincke. I russi avevano il K.otdnikov ad apertura automatica, gli svedesi l'ottimo Thornblad. Ma l'ingegnosità nostrana no~ stava cerro a dormire. Ad oltre 400 anni dall'intuizione di Leonardo, altri italiani, negli Anni Venti, pensavano di poter realizzare paracadute più maneggevoli e meno complicati di quelli in uso all'estero. Il generale Umbert0 Nobile ideò un paracadute individuale per dirigibili e<l aerostati, un paracadute collettivo e, infine, un paracadute individuale per aeroplani. Dei paracadute di Nobile, solo uno, quello indi viduale per il salvataggio degli equipaggi <li <lirigihi li e degli osservatori dei palloni, fu largamen te Ìm· piegato dal Genio Acroscieri. In curti e tre i paracadute l'aria provocava il rigonfiamento della calot· ta entrando, anzichè dal foro apicale, da un certo numero di fori sicuari nella calotta stessa. Il paracadute per ao.:roplaoi, che venne sp<::rirnt:lì· tato positivamente con la zavorra, differ iva dagl i altri perchè aveva una piccola calotta secondaria che. aprendosi per prima, attenuava lo strappo derivante dall'apertura della calotta principale . Qu..:-s,u p·H<1cadute, di tipo dorsale, aveva l'apertura automatica mediante una fune di canapa lunga due metri. e n:sistente a una trazione di 300 chili, agganciata da un lato all'imbracatura del paracadutista, dall'altro alla carlinga dell'aereo. La calotta più piccola era posta a metà distanza tra la calotta principale e l'imbracatura del paracadutista. Le calotte erano provviste rispettivamente di quattro ed otto anelli di alluminio, agganciati ai bordi, che ne assicuravano l'apertura quando i due pa· racadute erano investiti dall'aria. Nello stesso periodo, un altro . italiano, Alfredo Ereno, un geniale inventore autodidatta, si dedicò allo studio di un mezzo di salvataggio aereo. Nato il 7 giugno 1899 a San Nazario Valsugana (Vicenza) , Ereno fin da ragazzo aveva mostraco di possedere una mente speculativa. Durante la guerra aveva compiuto il servizio militare prima nel 5. Reggimento Alpini, quindi nel Battaglione Aviatori. Smobilitato, aveva continuato ad interessarsi di aviazione. Insieme con Mario D'Urso e con Renato Donati, aveva costituito a Roma una compagnia aerea con lo scopo di « propagandare nel mondo l'arte del volo ». I primi due, piloti eccellenti (Donati era stato un « asso » di guerra) dovevano esibirsi alla guida di aerei, lui in lanci con paracadute. La società dovette sciogliersi poco dopo a causa della tragica morte di D'Urso, precipitato con il suo aereo, ma Ereno non abbandonò l'idea di dedicarsi al paracadutismo; anzi, dopo aver appreso della morte del paracadutista svedese Harry Larsen, avvenuta durante un lancio a Torino nel 1921, decise di costruire egli stesso un
paracadute che offrisse massima garanzia di sicurezza. Resosi conto che la parte più importante del paracadute era costituita dalla custodia, eh~ doveva permettere uno sfilamento rapido e sicuro della calotta, Ereno eseguì una serie di disegni, numerose prove di laboratorio, quindi, per farsi una esperienza nei lanci, si recò a Berlino, dove prese contatto con la ditta costruttrice dell'Heinecke. Con tale paracadute si gettò sul campo di Adlershof, il 1° ottobre 1922, da un'altezza di 450 metri. Successivamente, compl altri lanci, continuando nel contempo lo studio del suo mezzo di salvataggio. Dovette superare non poche difficoltà, ma la sua tenacia fu infine premiata: costruì con le sue sole forze, senza alcun aiuto economico, un paracadute completamente indipendente dall'aereo - cioè con custodia dorsale ed apertura comandata manualmente - col quale 1'8 luglio del 1923 riuscì a battere, in un lancio a Ponte San Pietro (Bergamo), nonostante le proibitive condizioni del tempo, il record di minima glcezza: 87 metri ! Il paracadme di Ereno aveva due caratteristiche fondamentali rispetto agli altri allora esistenti : la calotta rovesciabile ( come più tardi quella del « Lisi ») mediante una funicella tirata dal paracadutista, in modo che era possibile accrescere la velocità di discesa, e il fascio funicolare diviso in due gruppi collegaci alle bretelle dell'imbracatura all'altezza delle spalle dell'uomo: il che permetteva una discesa manovrata, così come avviene con i paracadute di oggi. Per dimostrare l'utilità del sistema di guida, lo audace paracadutista si lanciò, il 19 agosto 1923, sulla cittadina di San Pellegrino dall'altezza di 300 metri e, agendo sulle bretelle, riuscì ad evitare la linea àd alta tensione della ferrovia elettrica e ad allontanarsi dal fiume Brembo e dai caseggiati per prendere terra sulla collina. Poco dopo, il 14 settembre dello stesso anno, Ereno sfidò, attraverso la stampa, i costruttori di paracadute di tutta Europa a una singolare gara: tre lanci da compiersi nel tempo limite di un'ora. Ciascun paracadutista doveva essere in grado di lanciarsi per due volte da 70 metri ed effettuare personalmente il ripiegamento; inoltre un terzo lancio doveva essere eseguito da qualsiasi quota ma mentre l'aereo era in posizione di avvitamento o in cerchio della morte. Nessuno raccolse la sfida perchè i paracadute a quel tempo esistenti presentavano notevoli difficoltà di ripiegamento a causa dei vari congegni incorporati nella calotta e nella custodia . Nel 1924 Ereno perfezionò il suo paracadute e si mise alla ricerca di qualcuno che lo sostenesse finanziariamente, ma la sua ingegnosità non ebbe la fortuna che avrebbe meritato. Dopo numerose disillusioni, il coraggioso pioniere, che la stampa descriveva come « un giovane dall'aspetto signorile, di modi cortesissimi, elegante, quasi un po' timido, dotato da un sangue freddo da Muzio Scevola», finì con l'ar-
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Ponte S. Pietro (Bergamo) 1923. Un manifesto che annuncia un lancio di Alfredo Ereno, audace pioniere del para· caduti smo.
rendersi: raccolse i disegni della sua invenzione e ne fece dono al governo. Ricevette una lettera di ringraziamento dal Commissariato di Aeronautica, in data 14 aprile 1925. Così finì il sogno di Ereno, il quale si dedicò poi allo studio di altri problemi aeronautici, sia in Italia che in Sud America, dove emigrò nel 1948, facendo ritorno in patria solo qualche anno fa ( 4). Abbiamo visto, dunque, come, nel 1922, la gara nel campo del paracadutismo fosse finalmente aper-· ta anche tra gli italiani. Prospero Freri, allora tenente dell'Aeronautica, era da tempo anche lui assillato dall'idea di realizzare un mezzo di salvataggio per i piloti. Durante la guerra, aveva assistito in Albania all'atroce fine di un compagno di squadriglia, il sergente Cortese, il quale aveva preferito gettarsi nel vuoto piuttosto che perire nel rogo del suo aereo colpito dal nemico. In seguito era stato egli stesso protagonista di una terrificante avventura: un Caudron col quale si era alzato sull'aeroporto di Napoli per un volo di prova, era precipitato per avaria. Il motori~ta era deceduto, Freri era riuscito a cavarsela, pieno di rotture e di contusioni. « Durante la lunga degenza - ebbe poi a raccontare - il mio cervello fu costantemente martellato dal pensiero del paracadute che, come un'ossessione, mi perseguitava sempre». Il tenente Freri impiegò circa quattro anni per costruire un paracadute che presentasse certezza di funzionamento. Il problema da risolvere era: sollecita e sicura iniziale apertura della calotta, indipendentemente dall'azione dell'aria e dal ripiegamento più o meno accurato. Alla fine ci riuscì, e vedremo come. 11
CAPITOLO II
Nasce l'Aerodiscensore
Capodichino, 23 luglio 1922. Sul campo, un grup. po di persone se ne sta a naso all'insù, osserva atten· tamente uno S.V.A. che evoluisce a 300 metri d'al· tezza. Ad un tratto, dall'aereo si stacca un «coso» che prende a precipitare, ma dopo pochi metri, ecco sfilarsi una stoffa bianca - sembra un lenzuolo che subito si gonfia, assume l'aspetto di una calotta e scende giù dolcemente, con appeso un manichino. L'en· tusiasmo dei presenti - una commissione militare capeggiata dal colonnello Ernesto La Polla, le mag. giori autorità di Napoli a cominciare dal prefetto comm. Pesce, nonché il generale Albricci, gli aromi· ragli Trifori e Accinni, il presidente dell'Aero-Club comm. Luigi Di Lauro - è alle stelle. Qualcuno grida « viva l'Italia». E' l'atto di nascita dell'Aerodiscensore. « Lodi e incoraggiamenti - commenterà Freri - furono numerosi; denari spesi, molti; introi· tati, nessuno ». Per arrivare a costruire l'Aerodiscensore, Prospe· ro Freri aveva dovuto lottare a lungo contro difficol. tà economiche, contro ogni sorta di ostacoli. E, poichè non aveva trovato alcuno disposto a finanziarlo, si era dovuto accontentare di un collaboratore entu· siasta ma squattrinato, un napoletano come lui, Gen· naro Maddaluno. Insieme, i due si diedero a lavorare sodo. Furono ideatori, disegnatori, intagliatori, sarti, impiombatori e meccanici. Freri, in gioventù, aveva avuto due passioni: lo sport e la meccanica. Figlio di un alto funzionario delle Ferrovie, era stato costretto, per i continui trasferimenti del padre, a girare l'Italia. Appena decenne, a Verona, è il terrore delle vecchie signore per le cor· se pazze su una moto da lui modificata; a dodici anni, recatosi da solo a Reggio Calabria a trovare il fratello capostazione, adocchia il grosso ombrello della fantesca - uno di quegli ombrelloni dai vivaci CO· lori che usano i contadini - sale . sulla tettoia della stazione, apre l'ombrello e si butta giù da sei metri. Un lancio riuscitissimo, che lo riempe di soddisfazio12
ne anche se gli procura alcuni robusti scapaccioni d~ parte del fratello. Dai 14 ai 19 anni, a Cagliari dove la famiglia si era trasferita, il ragazzo frequenta l'istituto nautico e si dedica con passione alla ginna· stica. Socio deil' « Amsicora », partecipa a sedici concorsi ginnici nazionali ed internazionali, riporta a Troyes, in Francia, una delle migliori classifiche nel lancio del giavellotto e, nel 1912, vince in queste sport il campionato italiano nelle eliminatorie per le Olimpiadi di Stoccolma. Nello stesso tempo, con la « Rari Nantes », pratica anche il nuoto. Diciannovenne ( è l'epoca della guerra italo-turca), pianta gli studi universitari a Genova e torna a Cagliari, deciso ad arruolarsi. Ha modo di osservare un Chiribiri pilotato da Guido Paolucci e, di colpo, sente una nuova passione nascere in lui: quella del volo. Dalla leva di mare, alla quale è iscritto, si fa trasferire nell'esercito, per avere poi la possibilità di passare al Battaglione Aviatori. Sergente allievo uf. ficiale e istruttore di ginnastica al 2° Bersaglieri di Roma, viene infatti trasferito, dopo alcuni mesi, a Torino, dove Montù e Douhet addestravano, sui Farman, sui Nieuport e sui Bleriot, i futuri piloti. Il 21 gennaio 1914 riceve il battesimo dell'aria, il 7 aprile dello stesso anno porta a termine le prove di brevetto di primo grado aggiudicandosi la qualifica di allievo pilota militare. Il 25 agosto del 1914 consegue il brevetto militare nella XII Squadriglia di Verona, quindi passa alla XI Squadriglia Farman di Brescia. Il conflitto mondiale è alle porte. Il 27 maggio 1915 la squadriglia - quattro aeroplani in tutte viene trasferita in Friuli: deve operare con la III Armata. Quattro anni di guerra vedono Freri su tutti i fronti, Carso, Trentino, Macedonia, Albania. Qui egli si merita una promozione in combattimento. Alla fine della guerra viene destinato a Napoli, -:love è protagonista della brutta avventura che costa la vita al suo motorista e lo costringe in ospedale per un lungo periodo. Nasce - come abbiamo visto
- dalla forzata inattività l'idea di costruire un mezza di salvataggio sicuro per i piloti. Insieme con Maddaluno, Freri ( chiesta l' << aspettativa ») aprl un piccolo laboratorio. Per finanziare i lavori, si era messo a eseguire voli di propaganda e di trasporto passeggeri con uno $.V.A. biposto acquistato come rottame e rimesso in efficienza. A poco a poco, il paracadute cominciò a delinearsi: sedici spicchi di tela, ciascuno diviso in tre zone; sedici corde di sospensione; diametro: metri 5,25. Per il dispositivo meccanico di apertura ideato da Freri, bisognò rivolgersi ad un'officina. Alla fine, l' Aerodiscensore fu pronto. Era un paracadute semirigido che non richiedeva alcun comando per la sua apertura. Contenuto in un fodero tronco-conico con testa ogivale, veniva attaccato alla fusoliera dell'aereo. Una robusta fune lo collegava all'imbracatura del paracadutista. L'Aerodiscensore si apriva, mediante un congegno composto di stecche metalliche snodate, in due secondi e mezzo, consentendo perciò anche lanci da quota minima. La velocità di discesa era di circa 5 metri il secondo, tale da consentire di toccare il suolo senza inconvenient1. Il peso complessivo dell'Aerodiscensore, racchiuso nel fodero, era di 15 chili (5). Freri e Maddaluno provarono più volte il loro paracadute, lasciandol.o cadere da una gru alta trenta metri, nei cantieri Ilva di Bagnoli. Al primo lancio dall'aeroplano, invece, si verificò un incidente: essendo stato male installato, il sacco della zavorra che rappresentava il pesò dell'uomo si sfilò poco dopo il decollo, costringendo Freri ad atterrare con l'aereo ai limiti del campo, in .zona accidentata, scassando il carrello. Venticinque giorni dopo, riparati i guasti dello S.V .A., aveva luogo la prova ufficiale di cui abbiamo già parlato. Dopo il primo successo, Freri partì per Roma, Jcciso a far bandire un: concorso internazionale per paracadute. Tanto fece e tanto brigò che, col valido aiuto del commendator Pedace dell'Aero-Club, ci riuscì. La gara, con premi complessivi per cinquantamila lire, fu indetta dal Ministero della Guerra per 1'8 ottobre 1922 sull'aeroporto « Francesco Baracca » di Centocelle (Roma). Freri e Maddaluno si rimisero al lavoro e, in un mese, costruirono un secondo Aerodiscensore, migliore del primo in diversi particolari. Venne infine il giorno della gara. Sul campo si ritrovarono i migliori paracadutisti dell'epoca. C'erano i francesi Ors e Blanquier, lo svizzero Romaneschi, gli italiani Umberto Re e Alfredo Ereno, che usavano paracadute stranieri, n·è mancavano due rappresentanti del gentil sesso: l'americana Grey e la francese Greby. La prova consisteva in un lancio da quota prefissata (300 metri), il paracadutista doveva cercare di prendere terra entro un cerchio del diametro di 15 metri dipinto sul campo. Non era, per la verità, un regolamento che potesse ritenersi soddisfacente. Sarebbe stato più logico imperniarlo sulla qualità del paracadute (velocità di apertura e di discesa), anzichè sulla abili tà del pilota di portare il velivolo quasi fermo
sopra i bordi del cerchio prima di far lanciare il paracadutista. Ad ogni modo, nonostante qualche protesta, i concorrenti dovettero sottostare ai termini stabiliti. Eseguì per primo il lancio Romaneschi, con paracadute Ors, e prese terra a 225 metri dal cerc.hio; fu poi la volta di miss Geraldine Grey, equipaggiata con un paracadute americano, che atterrò a 155 metri dal cerchio; quindi Umberto Re, con l'Ors, cadde a 163 metri. La gara a questo punto fu sospesa e ripresa nel pomeriggio. Si lanciò la Greby (paracadute Ors), che atterrò a 212 metri dal bersaglio; poi lo stesso Ors, che cadde a 300 metri; poi ancora Maddaluno, che riuscì a scendere a 79 metri dal cerchio; Blanquier, con paracadute omonimo, che cadde a 104 metri; Ereno, con paracadute Heinecke, che prese terra a 108 metri dal cerchio. Il primo premio, trentamila lire, toccò quindi a Ma<l<laluno, mentre le altre ventimila lire furono divise tra Blanquier e Ereno, secondo e terzo classificato.
Aeroporto di Centocelle (Roma). 2 ottobre 1922. Gennaro Maddaluno sale sullo Sva pilotato da Prospero Freri per partecipare al primo concorso internazionale di paracadutismo. Maddaluno, che usava l'Aerodiscensore, si classificò primo.
Dopo il successo riportato a Centocelle e successivi lanci propagandistici (il 16 gennaio 1923 volle provare l'Aerodiscensore l'aviatore Giuseppe Palamenghi e il 13 maggio dello stesso anno la signorina Alba Russo, prima donna paracadutista in Italia, scese con disinvoltura da 400 metri suI campo di Capodichino) giunse a Freri, da parte della Regia Aeronautica, l'invito a presentare il paracadute dinanzi ad una commissione tecnica così composta: maggiore pilota Giulio Gavotti, capitano del Genio Aeronautico Luigi 13
Biondi, ingegnere aeronautico Guido Guidi, capitano pilota Mario De Bernardi. Il mattino del 12 giugno 1923, alla presenza della commissione, Freri eseguì sul campo di Montecelio, oggi Guidonia, il suo primo lancio. Così egli lo descrisse: « Io eseguii il lancio perché avevo deciso di provare e non ne riportai un grande stupore, anzi, provai una delusione, perché avevo immaginato di sentire molto di più la caduta e credevo di trovare più impressionante il vuoto. La discesa, poi, è cosa semplicissima e gradita. Dopo la prima prova, ebbi la convinzione che, per lanciarsi con un paracadute, non occorre proprio un coraggio straordinario, come alcuni immaginano. Tutti gli aviatori, dico tutti gli aviatori, e lo ripeto forte perchè sono aviatore anch'io, dimostrano molto più coraggio nel dominare gli elementi dello spazio con una macchina volante anziché nel cimentarsi in un salto nel vuoto col paracadute, specie quando si dispone di uno sicuro. « Basta vedere, per convincersi, decidersi e provare!... Eseguii il lancio nelle condizioni più sfavorevoli. Partii in volo con un aeroplano R.2, pilotato dal maresciallo Tettamanti. A 500 metri d'altezza mi alzai dal sediolino e, mancante di personale esperienza, mi sedetti sul bordo della fusoliera con le gambe nel vuoto. La posizione era inadatta e scomoda. Dovetti non poco lottare con l'impetuosità del vento per tenermi in quello strano equilibrio e non precipitare prima del tempo. Infine, il pilota, seguendo le mie direttive, mi portò sul campo, ma non eravamo sulla perpendicolare da me voluta e così rientrai nella fusoliera per ripetere il passaggio. La seconda volta eravamo nella direzione giusta. Io, nella solita posizione. dovevo fare sforzi inauditi per non farmi but. tar giù dal vento impetuoso; inoltre, dovevo traguardare e, in tale posa, il vuoto mi si presentava sotto un aspetto che, confesso, non era per nulla attraente.
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Non seppi scegliere una pos!Zlone migliore e, giunto sulla perpendicolare del punto prestabilito, vincendo ogni titubanza, con uno scatto felino, mi gettai. Volevo tenere aperti gli occhi, ma non ci riuscii. Brancolai nel vuoto, feci cinque salti mortali; non vedevo, ma intuivo; mi sembrava che la caduta non finisse più; quando mi sentii afferrare con forza dall'imbracatura, aprii gli occhi e vidi sopra di me il grande, fido ombrellone. Pochi secondi erano bastati perchè tutto si fosse compiuto, ed ora iniziavo la snervante, lenta e silenziosa discesa, variata fortunatamente da qualche oscillazione pendolare. Presi terra benissimo, a pochi metri dai ricoveri degli aeroplani, e fui subito circondato dagli amici entusiasti ed ammiranti ». Ormai l'idea che i piloti potessero fare uso del paracadqte in circostanze di emergenza cominciava a farsi strada. Ma Freri non dormiva sugli allori: voleva costruire un paracadute più pratico dell'Aerodiscensore, di minor peso e ingombro, vale a dire adatto all'impiego sugli aeroplani militari. Per la realizzazione del nuovo paracadute, non ebbe più la collaborazione di Maddaluno. Tra i due soci erano nate divergenze di vedute circa gli scopi del loro lavoro, e così ciascuno continuò per la propria strada. A Freri si affiancò un giovane appassionato di aviazion~, Giuseppe Furmanik, oriundo polacco, nato in Svizzèra nel 1903, divenuto poi cittadino italiano e distintosi, oltre che come paracadutista, come pilota di automobili, tanto da conquistare, nel marzo del 1935, il primato mondiale di velocità per auto sino a 1.100 eme. · Furmanik mise tutta la sua passione, tutta la sua tenacia àl servizio dell'idea perseguita da Freri, e i due riuscirono a realizzare il Salvator, un paracadute che ancora oggi, modificato, migliorato, reso atto alle moderne esigenze, equipaggia l'Aeronautica militare italiana.
CAPITOLO Ili
Il Salvator-A - Suo successo in Italia e all'estero
Il nuovo paracadute nato dalla collaborazione Freri-Furmanik, il Salvator-A, era molto diverso dallo Aerodiscensore. La calotta, di 7 metri e 30 centimetri di diametro, era in seta giapponese ed era divisa, anziché in sedici, in ventiquattro spicchi, cuciti fra loro in filo di seta e armati ciascuno di un cavetto interno. Le ventiquattro corde di sospensione erano in seta intrecciata tubolare ad alta resistenza. C'era poi una corda centrale, costituita dal proseguimento dei 24 cavi di sospensione, alla quale era attaccata l'imbracatura del paracadutista, corda che resisteva al peso di oltre 2.000 chili. L'apertura del paracadute era automatica, conseguente alla trazione esercitata dal corpo del paracadutista. Lo spiegamento della calotta era agevolato da un dispositivo meccanico costituito da stecche articolate in duralluminio ed acciaio.
Il tempo necessario per la totale apertura era di un secondo e mezzo, la velocità di discesa di 5 metri il secondo. Il peso complessivo del paracadute, racchiuso in un piccolo involucro di duralluminio da fissarsi alla carlinga dell'aereo, non raggiungeva gli otto chili ( 6 ). Le prove di lancio, con la zavorra, vengono eseguite, nell'ottobre 1923, da un antico ponte, alto sessanta metri, in località Ponti delle Valli, presso .Caserta. Tutto bene. Poi i due inventori si trasferiscono al campo di aviazione di Taliedo (Milano), dove, nel luglio 1924, il Salvator viene ripetutamente lanciato con la zavorra da un Aviatik pilotato dall'asso Doria, che era stato compagno di Freri in guerra. Infine, a Centocelle e a Montecelio, è lo stesso Freri a compiere parecchie riuscite discese di presentazione.
La scatola del Salvator-A installata sotto la fuso liera dell'Aviatik, al campo di Taliedo, per le prime prove in volo (luglio 1924).
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Una comrmss1one del Genio Aeronautico, di cui facevano parte l'allora colonnello Alessandro Guidoni, il cenence colonnello Gavotti, i maggiori Biondi e Santoro, assiste ai lanci. Particolarmente entusiasta si dimostra Guidoni, il quale esclama: « Quesco è un paracadute che invita a lanciarsi ». L'industriale Calabi, invitato a Montecelio, si convincerà più tardi a finanziare la produzione del paracadute e nascerà la Società Anonima Brevetti Aeronautici Salvator.
Freri e Furmanlk al campo d'aviazione di Montecelio per le esperienze del Salvator-A, nell'agosto del 1924.
Il 6 ottobre 1924 Freri viene invitato a Cinisello (Milano), ove erano convenute le maggiori autorità politiche e aeronautiche per assistere alla Coppa Aerea Baracca, e compie uno spettacolare lancio da 700 metri. Lo accoglie, festante, una folla di circa quarantamila persone. Poco dopo Freri e Furmanik si recano in Francia. Hanno deciso di presentare il loro paracadu te in un paese che in fatto di paracadutismo era allora all'avanguardia. Una sorta di caparbia sfida per l'affermazione di un prodotto dell'ingegno italiano. Prima a Villacoublay, davanti ai tecnici del campo sperimentale di Issy-les-Molineaux, poi al Bourget, presenti quasi tutti i deputati in redingote e cilindro, Freri compie una serie di dimostrazioni molto applaudite. Il 15 dicembre, aderendo all'invito del 16
direttore tecnico di una compagnia aerea, eh~ :,ole~a sincerarsi della possibilità di effettuare lanci 10 circostanze eccezionali, si esibisce in un salto veramente fuori dell'usuale: dalla poltrona passeggeri di un Goliath-Farman sulla quale è seduto, si alza al segnale improvviso datogli dal direttore tecnico dell' Air Union, attraversa in fretta i posti degli altri passeggeri (a bordo, oltre ai direttori di compagnie aeree, sono personalità dell'aeronautica e alcune signor~).' e, mormorando i riniali «pardon», apre la porucma, e giù a capofitto. « La sorpresa più grande ~ ebb~ poi a narrare - mi attendeva non appena ml trovai nello spazio, in posizione orizzontale, e precisamente quando ricevetti lo schiaffo podf'roso del turbine dell'aria prodotto dall'elica di uno dei motori laterali dell'aeroplano, della potenza di 350 HP, che mi fece rovesciare completamente di fianco, facendomi quindi cadere di testa ed eseguire due volte un inatteso giro su me stesso. Alla fine della seconda capriola il mio Salvator si apriva, ed io fui fermato nella violenta caduta. La discesa fu un po' movimentata, e l'atterraggio lo eseguii . con vera maestria in un campo arato». Queste audaci esibizioni fecero molto rumore, ma, all'infuori del .generoso interessamento dell'industriale Perron, non procurarono a Freri e a Furmanik alcun ordinativo. L'industria paracadutistica francese sapeva bene come difendersi dalla concorrenza ... Il 21 dicembre 1924, puntata in Belgio, con due lanci, riuscitissimi, sull'aeroporto di Evère; quindi, ritorno a Parigi, dove in uno stabilimento messo a disposizione da monsieur Perron era stata iniziata la costruzione di un secondo Salvator-A. Ma, poichè nel frattempo è scaduto per Freri il periodo di aspettativa, egli deve tornare in Italia, ed è Furmanik a collaudare il nuovo paracadute, il 2 marzo 1925, con un lancio sull'aeroporto Bourget. Di nuovo molto entusiasmo, molti elogi ; ma nessuna commissione. Intanto l'Aeronautica militare italiana aveva bandito un concorso per la fornitura di 460 paracadute. Vi parteciparono, oltre ai realizzatori del Salvator, altri cinque italiani - Maddaluno, Turri, Venturi, Zezzi, Guglielmetti - , i francesi Robert, Blanquier, Ors, lo americano Irvin . Il Salvator sbaragliò tutti, i tecnici ne erano entusiasti. Mancava ancora, per cosl dire, il suggello ufficiale. E ciò avvenne il 15 novembre 1925, in una memorabile manifestazione svoltasi sul campo di Centocelle in occasione delle gare aeronautiche della Coppa Italia. Freri si lanciò da 400 metri al cospetto del re e della sua famiglia, degli onorevoli Di Scalea, Ciano, Giu.riati, Cantalupo, Bonzani, dei generali De Pinedo, Prandoni, Armani, del corpo diplomatico al completo. Durante la discesa, tirò fuori dalla tasca una fiamma tricolore e, dopo averla agitata al vento, la issò sul cavo principale del paracadute. Fu un trionfo. Il re volle complimentarsi con lui e con Furmanik. Alcuni giorni più tardi, venne ricevuto a Palazzo Chigi da Mussolini, al quale propose la costituzione di una scuola di paracadutismo per istrui-
re gli aviatori all'uso dello strumento di salvataggio. I[ duce promise il suo interessamento, ma, come vedremo, dovranno trascorrere quasi tre lustri perchè ciò si avveri. Prima dell'apoteosi di Centocelle, Freri aveva partecipato a parecchie altre manifestazioni aviatorie. Per la chiusura della Coppa Baracca, aveva effettuato un lancio alla presenza del capo di S.M. dell'Aeronautica, gen. Piccio, e degli allievi dell'Accademia; quindi si era lanciato a Viareggio; a Bologna, dove, a causa del vento, era andato a finire su un vagone ferroviario; a Venezia, dove aveva corso una brutta avventura, che egli così descrisse: « La luce solare era quasi scomparsa e l'urgenza del lancio si faceva sempre più incalzante; il pilota, che sempre riuscì a prendere la direzione prestabilita perché potessi lanciarmi, quando arrivava sulla folla, preso da chissà quale mania, dimenticandosi di me che stavo fuori dell'idrovolante (si trattava di un M.18) aggrappato ad un montante dello scafo, eseguiva delle evoluzioni, impedendomi, con cabrate, scivolate ed impennate, di potermi gettare nel vuoto con quella precisione che la ristrettezza del campo esigeva. Così, per tre volte, dovetti fare delle vere acrobazie per rientrare ed uscire dallo scafo. La folla era inquieta: ad ogni nostro passaggio, vedendomi fuori del velivolo e credendo che mi lanciassi, si raccoglieva, allargando così lo spazio lasciato sgo111bro per l'atterraggio; poi, delusa, perdeva la sua di-
sciplina e nuovamente invadeva iJ campo, a similitudine del flusso e riflusso della marea. L'idrovolante filava a tutta velocità. La quarta volta, stanco e dell'impetuosità del vento e dell'uscire e rientrare nella fusoliera, approfittando del momento in cui si passava sulla verticale del prato, affrettatamente e senza riflettere, mi lasciai andare da un'altezza di 50 metri. Il paracadute ebbe un ris11cchio strano e due corde si attorcigliarono di tanto da far tirare più degli altri gli spicchi della calotta. Da terra ebbero l'impressione che io avessi adoperato un paracadute di nuova ideazione, a doppia "ombrella" » . Come Dio volle, la discesa andò bene lo stesso, ma Freri ebbe la sfortuna di andare a cadere su un fox-terrier sfuggito dalle mani della padroncina, e ne riportò una dolorosa distorsione alla caviglia. Un'altra brutta avventura l'ardimentoso paracadutista l'aveva vissuta qualche .tempo prima, partecipando al concorso internazionale per paracadute svoltosi in Belgio. L'applicazione del Salvator alla carlinga del velivolo era stata eseguita a troppo poca distanza dai piani di coda, per cui, dopo che Freri si fu lanciato, la calotta si impigliò nel pattino di coda esubìuno squarcio. Tuttavia, anche in quelle condizioni, la discesa si compì regolarmente. Al concorso partecipavano i soliti Ors, Blanquier, Robert e un inglese. Il Salvator stravinse.
Centocelle, 15 novembre 1925. Freri, appena atterrato dopo un lancio, raggiunge la tribuna reale: Vittorio Emanuele vuole complimentarsi con lui.
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CAPITOLO IV
Sviluppo del paracadute italiano: il Salvator-B
Sull'efficacia del Salvator non c'erano ormai più dubbi, rna Freri e Furmanik si rendevano conto che la sistemazione del paracadute all'esterno della fusoliera non era delle più razionali, soprattutto perchè esso poteva essere usato da una sola persona, mentre non mancavano velivoli con equipaggi di due-tre persone. Bisognava, quindi, realizzare un tipo di paracadute a zaino, assicurato alle spalle di ciascun membro dell'equipaggio. Ciò avvenne nel 1926 con il Salvator-B, che, oltre a questa caratteristica, ne presentava un'altra: il doppio dispositivo di apertura, automatico, vale a dire mediante fune di vincolo, e manuale, ciò comandato dal paracadutista per mezzo di una maniglia. La calotta, avente una superficie di 48 metri quadrati, era formata da 24 fusi, ciascuno dei quali tagliato e cucito in d iagonale per accrescerne l'elasticità. All'apice della calotta c'era un foro munita di corona elastica, che ammortizzava l'apertura, mentre un cerchietto di legno, che andava perduto dopo il lancio, facilitava l'introduzione dell'aria dopo lo sfilamento della calotta stessa dalla custodia a zaino, costruita in tela impermeabile. Alla corona elastica della calotta, inoltre, era collegato, mediante otto funiceUe, un calottino estrattore, chi si apriva per mezzo di una molla, e facilitava lo spiegamento della grande calotta. Il fascio funicolare , forma to da 24 fuoi di lino, ciascuna delle guaii capaci di sopportare uri'a trazione di UO chili, terminava con un occhiello al quale veniva agganciato il cinturone del paracadutista, avente un.i ~,,la brctdla. 11 peso ,;0111plessivt> Jd paracaJutc 1,;ra <li circa 6 chili, la velocità di discesa di 5-5 ,50 metri il seconJo. Proprin in quell'anno l'i\t'ronautica mil ita re han,h 1111 ~n:011du t:<>llt:<>r~<> per pararndu1<: individuai<: a Z;IÌ · 11<>, e freri e Furmanik, naturalmente, decisero di par· tec1parv.i. In accesa di essere chiamati a svolgere le prove prnr:,:hc, si rcn1rono ,, Lir cnnosct·re il nut>\'\' tip,, 18
di Salvator in Cecoslovacchia. Il 18 maggio 1926, sul campo di Kleby, alla presenza di tecnici aeronautici e di personalità militari e civili, F reri effettuò due lanci. Tanto fu l'entusiasmo dei cechi che due piloti. il sergente V rechi e il capitano Kovanda, vollero provare la discesa in paracadute. Venne alfine il momento delle prove del concorso all'aeroporto di Montecelio, comandato dal maggiore De Bernardi. Vi presenziò, per intere settimane, il capo di S.M . dell'Aeronautica, generale Piccio, e vi assistette anche il duca delle Pu~ie, che era accompagnato dall'asso Arturo Ferrarin. Tutto andò per . il meglio e al Salvator-B si affiancò, poco dopo, un modello, il Salvator-C, costruito appositamente per gli aerei da caccia. Da quel momento, mentre Furmanik si dedicava .ill,1 proJuzio ne dei p,1r;1cad11 tc, frcri partel'ipò a qu;1 ~i tutte le manifestazion i acrt·c, spiegando l'uso del Saì,·.11t>r, Jimostr.in,lt1nc il pcrk1w iunziLmamenw . h n dandosi dalle quote pita svariate. A Brescia , il 22 agosto 1926, compì il primo lancio ritardaco, azionando la maniglia d i apertura dopo 50 metri di cadut,1 libera. A Montecelio, il 16 settembre, si lanciò ,11!:1 presenza di Mussolini, del sottosegretario all' Aeronau· cica Bonzani, degli accademisti , degli addetti milir,1ri stranieri, di numerosi ufficiali dell'Aeronaut ica e della Marina. Durante la discesa, si tolse gli occhiali e il casco e, con indifferenza, si accese una sig,1retra. Un mese dopo, in occasione J ella disputa della Copp;1 I talia. compì un altro tuffo. conclusosi, ,1 causa del forte vento, con un atterrag?iO movimenrnw che gli cau~ù una leggera contusione. Al lancio assis tette il con te de la Vaulx, presiden te della Federazione Aeron,1urica Inrernazionale che si era riunirn per i lavori del la XX Conferenza, decidendo, rra L1lcro, di rendere obbli. ~atorio il paracaduk per tutri ~li avi,1rori che <1vrehbe ro rentato dei recorJs.
L'anno succesivo, 1927, lo stesso de la Vaulx consegnerà a Freri una medaglia d'oro con la seguente motivazione: « Arditamente esibendosi in numerose prove di discesa col paracadute Freri-Furmanik, ha dato all'Italia un sicuro primato nel contriouto alla sicurezza nel volo e col forte suo esempio ha saputo trasfondere la propria feJe in una giovine schiera di proseliti del paracadute». Il 1926 si chiuse con un lancio di Freri sull'aerodromo di Stag-Lane in Inghilterra. Stava per finire .sugli hangars, ma mediante opportuni movimenti di gambe e braccia, riuscì ad evitarli. « Sembrava che nuotasse nell'aria >>, scrissero gli inglesi, per un momento scossi dalla loro proverbiale imperturbabilità. Nel 1927 Freri ottiene due grosse soddisfazioni: i piloti degli aerei vengono obbligati ad indossare il paracadute (l'anno dopo anche quelli degli idro) ed egli viene autorizzato, in data 5 luglio, ad effettuare -corsi d'istruzione tra il personale navigante. Non si tratta della scuola di paracadutismo reiteratamente richiesta, ma meglio di niente è. Lo aiutano, in questa sua attività di istruttore, due piloti che avevano già sperimentato il lancio, il capitano Angelo Banchieri e il maresciallo Vittorio Moretto. Nel frattempo , prosegue le dimostrazioni pratiche. Effettua il suo primo lancio in mare ad Ostia, il 16 giugno 1927, in osçasione dell'arrivo di de Pinedo dalla crociera atlantica; poi si lancia a Ferrara; quindi, il 15 luglio 1927, nuovamente in mare, nientemeno che nella baia di Helsingfors, in Finlandia, dove sta per finire annegato perchè il vento lo trascina via con la testa sott'acqua. « Un tonfo, uno spruzzare di bianca spuma così racconterà quanto gli è accaJuto - ed eccomi sommerso per un buon metro nell'acqua fredda. Cerco di liberarmi del cinturone, ma inu tilmente ! La caloLLù. !!• 1nfiata immediatamente dal vento, fa vela ed i11 lunziono da ... sommergibile! Preso dalla disperazione, raccolgo le forze e tale è lo sforzo per liberarmi che contorco persino la leva di sganciamento che è in acqua. Ma invano. Finalmente, con stento, riesco a metter fuori la testa dall'acqua, ma non ho finito di respirare una boccata d'aria che i cordami, partenti dalla schiena ed allaccianti il cinturone aJla calotta, rni ricacciono sotto. Già lo stomaco è pieno d'acqua, e sto per perdere la fiducia nelle mie risorse. Penso con terrore alla fine meschina che mi aspetta, allorchè, non so per quale ispirazione, dalla posizione prona mi giro energicamente prendendo quella che comunemente dicesi « a morticino» . Di colpo i cordami, che prima mi costringevano sott'acqua, mi sollevano fuori con tutto il corpo e mi trascinano come una barca: è la salvezza! » La terrificante esperienza è servita a scoprire che nei lanci in acqu;1 si deve cercare, al contrario di quelli in terra, Ji caJere contro vento. Altri lanci in Finlandia, sul campo di Utti, dove viene emulato dal tenente Feittinen dell'Aeronautica svedese; q uindi a Stoccolma, a Roma, a Zurigo, questa volta in pattuglia con il capitano Reccagno e il maresciallo Moretto. Il 17 ottobre 1927 all'aeropor-
to Quatros Vientos di Madrid, il lancio forse più drammatico della lunga carriera paracadutistica di Freri. Lasciamo a lui la parola: « Partito in volo con un aeroplano Bréguet 400 HP, mi lanciai da circa 700 metri d'altezza. Appena staccatomi dal velivolo, feci funzionare il comando a mano; la fuoruscita del calottino e di una parte della calotta avvenne regolarmente, ma io seguitavo a precipitare senza sentire il (aratteristico frenaggio progressivo che, ormai abituato, sapevo benissimo dover essere già avvenuto. Mentre la caduta, sibilando, prosegue più forte, più terribile, comprendo che qualcosa di anormale è capitato, ma non riesco a darmene ragione; sento la disperazione che m'invade, prevedo l'urto, la fine. Mi ribello: immediatamente mi volto e vedo sopra di me il caloc . tino che, nel suo tiraggio, sforza fortemente per trascinare la calotta che è fuori della custodia solamente per cinquanta centimetri; un lembo è imprigionato tra il tranciaspago del comando a mano e l'ancoretta della custodia e, quanto più il calettino cerca di svincolarlo, tanto più il lembo vi si incastra. Fulmineamente, con la mano sinistra, con violenza disperata. aiuto la calotta ad uscire, la straccio, la libero: un attimo appena, e si gonfia di colpo. Mi sento frenato; è la salvezza. Ero precipitato per oltre 400 metri come corpo morto! » Freri riuscì a salvarsi grazie aUa sua prontezza di riflessi e alle sue cognizioni tecniche. Non appena atterrato apportò una piccola modifica al paracadute : eliminò la fessura fatta dal tranciaspago a mano· e dalla vicina ancoretta della custodia, e volle ripetere il lancio, da soli cento metri, per fugare ogni dubbio sulla funzionalità del Salvator. Da Madrid si recò a Lisbona, dove effettuò due lanci, quindi fu di nuovo nella capitale spagnola per dare un'altra dimostrazione pratica di fronte ad ottanta colonnelli delle varie armi che frequentavano il corso superiore d'aeronautica. l)roseguenJo il suo « giro europeo di propaganda ». ,lflJò in Grecia (sull\1eroporto di Tatoi volle lanciarsi, doro di lui , un ufficiale gn:co, il capitano Papadopolis, subito imitato da numerosi altri militari) e, nel maggio del 1968, in Ungheria, al campo-scuola di Szombately , dove diede altre dimostrazioni pratiche con il Salvator. In occasione del disastro del dirigibile « Italia », precipitato il 25 maggio 1928 in seguito ad avaria nei pressi dell'isola di Foyn, nel circolo polare Artico, Freri collaborò con Cagna e Maddalena per organizzare i soccorsi ai naufraghi della « tenda rossa». Applicò i paracadute a grossi sacchi contenenti viveri, medicinali, accumulatori, indumenti, calzature speciali, che furono poi lanciati da un S-55 sul pack. Fu, quel primo aviolancio di materiali, un avvenimento di eccezionale importanza, conosciuto in tutto il mondo; un genere di operazioni nel quale gli italiani eccelsero anche durante la guerra etiopica del 1935-36, allorché, per mezzo di paracadute e di speciali contenitori, le nostre truppe vennero rifornite di benzina, acqua, attrezzature ospedaliere, munizioni, viveri, e persino be-
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stiame vivo (pecore e buoi, ;igganciati all'ombrellone (Ìi seta con apposite imbracature).
Terminata l'operazione di soccorso ai superstiti dell' « Italia », Freri, insieme con il fido Furmanik, si recò di nuovo in Svezia per esperienze di lancio su neve e su ghiaccio; poi i due fecero una puntata in Finlandia, dove istruirono all'uso del Salvator, adottato da quella aviazione, il personale navigante. Nel frattempo si era concluso, con ben 256 allievi istruiti al lancio, il corso disposto dal Ministero dell'Aeronautica. Il Salvator continuava a fare proseliti, e numerosi piloti, compresi i migliori « assi », si erano voluti cimentare con il salto dall'aereo. Tra i più famosi, ricorderemo Guido Keller e Arturo Ferrarin. Il primo, barba al vento, si buttò da 350 metri sul campo di Montecelio. La sua impressione: « Meraviglioso, semplicissimo. Tutti dovrebbero provare; gli arditi dell'aria dovrebbero cimentarsi in una scuola del paracadute: scuola di carattere». E, nel dire cosl, cacciava fuori dalla tuta un mazzolino di fiori, e aggiungeva: << Tieni, Freri, questo mazzolino. Fanne omaggio alla signora di Mario (il comandante De Bernardi) che lo gradirà perché è l'unico omaggio sceso dal regno di Zefiro col tuo paracadute magnifico». Povero Keller, compagno prediletto di Francesco Baracca e di D'Annunzio, pilota « dalla pazzia lucida e affascinante », poeta del cielo, destinato a scomparire in ancor giovane età. Arturo Ferrarin dopo il lancio. Gli è accanto Guido Keller. Il primo a destra è Furmanik.
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Montecchio -Guido Keller. deposto felicemente a terra dal paracadute, consegna un mazzolino di fiori che ha portato con sé nella discesa a Freri affinché questi ne faccia omaggio alla moglie del comandante De Bernardi.
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Dal canto suo Ferrarin, dette il « moro di Venezia », prima di salire in aereo, aveva avvertito l'amico: « Guarda Freri, che se l'ombrello non se verze, mi te copo ». Ma l'ombrello se verze, e Ferrarin si dichiara entusiasta di questo « gioco da ragazzi ». ·un episodio un po' comico era avvenuto nel maggio del 1927 , allorché alcuni pionieri dell'aviazione si erano riuniti sul campo di Centocelle, decisi a provare il Salvate è. Erano stati sorteggiati dei nomi, ma alla resa dei conti, chi per un motivo chi per l'altro, se l'erano svignata. Affrontò baldanzosamente la prova ii cinquantottenne Riccardo Ponzelli, pilota di aerei nel 1909-191 O. Voleva lanciarsi con macchina fotografica e binocolo a tracolla per.... fare fotografie e osservare il panorama durante la discesa. Alla fine, si convinse ad abbandonare l'armamentario, e sall con decisione sull'aereo. Al segnale del pilota si buttò giù senza pensarci due voite, ma, vuoi per l'emozione, vuoi per il freddo
piuttosto intenso a quota 800, svenne e toccò terra come un fantoccio, ammaccandosi il naso. Al suo « risveglio », affermò di non ricordarsi <li niente e ci volle tutta la diplomatica fermezza di Freri per impedirgli di ripetere la prova. Il 6 novembre 1927, organizzata dal comando della I Zona Aerea Territoriale, si era svolta a Cinisello una grande manifestazione aviatoria, il cui piatto forte era stato il lancio simultaneo di nove paracadutisti tutti appartenenti allo stormo del maggiore Lordi - da altrettanti B. R. (7). Poichè un sottufficiale che doveva lanciarsi era stato colto da malore, Freri lo aveva sostituito con il sottotenente Ferraro, offertosi volontario. Durante la discesa, gli occhi di Freri erano incollati a Ferraro, e proprio questi, maledizione, veniva giù a candela, con il paracadute chiuso. Pallido in volto, Freri non riusciva a capacitarsi che cosa potesse essere accaduto, poi, di colpo, ecco la bianca calotta spalancarsi e Ferraro prendere terra prima dei compagni.
Aeroporto di Centocelle 1930 • Freri dà le ultime istruzion i a una squadra d i avieri che si accinge a compiere un lancio.
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Tutto bene quel che finisce bene: l'improvvisato paracadutista si era semplicemente dimenticato di agganciare il moschettone della fune di vincolo che provoca l'apertura automatica del paracadute. Accortosi del... piccolo inconveniente, si era ricordato delle affrettate raccomandazioni dategli da Freri prima di salire sull'aereo ed aveva tirato la maniglia p~r l'apertura comandata.
Al lancio dei « magnifici nove » fecero seguito .1lcri lanci, specialmente quelli « a strappamento », Jalle ali del Ca-7 3. Nel maggio 1929, altro lancio in gruppo, que- n,i volta in mare. Si gettarono da tre idrovolanti S 59 bis, nella rada di Taranto, gli ufficiali osserva 1 ori della Marina Virginio Rusca, Luigi Di Cossato ,. G ian Gastone Bullian .
Un lancio • a strappamento• dall'ala di un Ca-73.
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CAPITOLO V
La tragica morte del generale Guidoni
Dopo più di duemila lanci perfettamente rÌ.usciti, il Salvator fa la sua prima vittima : una delle più fulgide figure dell'aviazione, il generale capo del Genio Aeronautico ingegner Alessandro Guiq_oni, quarantottenne. Freri lo aveva conosciuto quando Guidoni aveva fatto parte della commissione tecnica chiamata a giudicare il Salvator-A; poi ne era divenuto amico quando aveva presentato il Salvator-B in Inghilterra ed era stato sovente ospite del generale, allora addetto aeronautico della nostra ambasciata. Fin da quell'occasione, Guidoni aveva espresso il desiderio di provare una discesa in paracadute. E, in seguito, ogni volta che si era incontrato con Freri aveva insistito. Il 25 aprile 1928, a Montecelio, disse all'amico: « Ho deciso assolutamente di provare. Devo compiere un lancio ... ». Aggiunse di avere alcuni dubbi sul funzionamento dell'apertura a mano, e concluse: « Domani sera portami in ufficio il paracadute e l'indomani mattina verrò a prenderti a casa per venire qui sul campo ». Freri gli spiegò come fosse semplice il comando mano, poi assicurò che avrebbe esaudito il suo desiderio. La sera dopo portò il paracadute, da lui personalmente controllaro e ripiegato, nell'ufficio del generale, gli ripetette le istruzioni e gli chiese se avesse ben compreso. Sorridendo, il generale salì sulla scrivania e saltò agilmente a terra. « Hai visto? Sono più che pronto . A domattina. Mi raccomando, non dire nulla a nessuno ». L'indomani, di buon'ora, .Guidoni, indossato il paracadute, prese posto su un R.22 ai comandi del quale c'era lo stesso Freri . Quando l'aereo raggiunse i 1.200 metri di quota, questi ridusse il motore e invitò il generale a prepararsi ad uscire dalla carlinga. « Egli uscì subito - rievoca Freri (8) - e si mise a far delle mosse come per comandare l'aper-
a
tura del paracadute. Ridussi ancora il motore e gli urlai, facendo pure cenno con la mano, di attendere, di avere calma. Il generale non mi guardava: sembrava mal sopportare il vento che lo investiva completamente e mi parve che volesse o desiderasse aprire il paracadute. Con forza e chiaramente, urlai a più riprese di attendere e con la mano sinistra ripetei i segnali caratteristici di non aver fretta, di aver calma. Ebbi l'impressione di essere compreso; provai un vero sollievo perché non solo non eravamo sulla verticale del campo ove doveva avvenire il lancio, ma eravamo addirittura ancora fuori dell'aeroporto di circa due chilometri e sopra un terreno che sapevo essere pieno di ostacoli. Mi tranquillizzai e pensai: fra poco farò il segnale convenuto ed il generale si lascerà scivolare via, poi il paracadute, con la sua immancabiJe precisione e sicurezza sistemerà il resto. Il campo ormai si avvicinava; per vecchia abitudine diedi uno sguardo agli strumenti di bordo e poi concentrai tutta la mia attenzione al terreno che si sorvolava. Volevo assicurare il generale e mi voltai; come un baleno, vidi che egli impulsivamente comandava l'apertura del paracadute senza gettarsi. .Vidi il paracadute-pilota schizzare a destra della fusoliera e la fuoruscita della calotta presa dal vento. « Istintivamente, per evitare che il paracadute investisse i piani di coda od il timone di direzione, picchiai fortemente l'aeroplano e gridai al generale di buttarsi . Fu un attimo. Egli si gettò all'indietro dando una grande spinta all'aeroplano ». Lasciando in quel modo l'aereo, Guidoni compl una serie di ruzzoloni all'indietro: una caduta di quel genere può provocare, specie a chi è al primo lancio, perdita di orientamento, obnubilamento dei sensi , per cui è istintivo che si cerchi, come avviene a chi stia per annegare, qualcosa cui aggrapparsi. 23
Fatalità volle che il generale, sentendo le funi di sospensione che si sfilavano dalla custodia passargli sotto il braccio, si afferrasse disperatamente ad esse dopo che la calotta, già dispiegatasi, era pronta a gonfiarsi. Così costretta, la calotta « fece fiamma », come si dice in gergo, e Guidoni si sfracellò
al suolo. Lo ritrovarono più di un chilometro prima
<lel campo. La sua mano sinistra serrava ancora le funi. Freri, dall'alto, aveva assistito annichilito alla tragedia. << L'aeroplano mi riportò a terra solo per l'istintiva, abituale manovra dei miei muscoli e ner\'i: non comprendevo piL1 nulla ... » (9).
11 generale del Genio Aeronautico Alessandro Guidoni, deceduto il 27 aprile 1928 in un incidente di lancio. Montecelio, per volere di .Mussolini, mutò il nome in Guidonia, a ricordo del sacrificio del generale.
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La morte di Guidoni costituì una perdita gravissima per l'Aeronautica. Il generale, che era stato in gioventù un ottimo pilota di aerei sperimentali ( aveva preso il brevetto nel 1911) ed aveva comandato una squadriglia imbarcata sulla nave « Elba », era un tecnico di elevato ingegno e di provato valore. Laureato in ingegneria navale, si era dedicato alla progettazione e alla costruzione di aerei ( tra l'altro, un'aeronave da 30 mila metri cubi) e di navi-trasporto per idrovolanti; aveva progettato un siluro da applicare agli aerei; era stato, in collaborazione con Croceo, l'inventore della bomba aerea radiocomandata; inoltre, aveva compiuto studi e progetti di molti altri dispositivi bellici ed aveva al suo attivo parecchie pubblicazioni scientifiche. Egli volle provare il lancio dall'aereo, non solo per una sorta di orgoglio sportivo, ma soprattutto perché, come ebbe a dire allo stesso Freri, intendeva controllare il sistema di apertura comandata. E ciò è provato anche dalla seguente lettera che, la vigilia del tragico salto nel vuoto, indirizzò ad un suo diretto collaboratore, il colonnello del Genio Aeronautico Amedeo Fiore: « Ho qualche dubbio sul funzionamento di alcuni organi del paracadute Freri, ed in particolare del sistema di tranciamen~o. Perciò ho deciso di provarlo io stesso, domattina. Nel caso di esito sfavorevole, ritengo che si dovrebbe portare il comando dell'apertura più verso il centro, oppure sostituirlo con un anello da tirarsi con la destra, come nel tipo I rving. Nel complesso il paracadute è buono, ma il suo prezzo, per la nuova serie di mille, dovrebbe essere ridotto a lire 7.000 ». Alla memoria del generale fu concessa la medaglia d'oro al valore aeronautico con la seguente motivazione: « Pioniere dell'aria, tecnico insuperabile, supremo esempio di fede, di energia e di valore, trovava morte gloriosa prodigandosi oltre il dovere». Mussolini dispose che, in suo onore, Montecelio si chiamasse Guidonia. La sciagura si abbattè come una mazzata sul capo di Freri. Al dolore di aver perduto un superiore con il quale era in rapporti di sincera amicizia, si aggiunse il disappunto di vedere in pericolo tutto quanto aveva fatto in cinque durissimi anni per convincere dell'efficacia del Salvator anche i più scettici. Autorizzato dal Ministero, si mise in giro per l'Italia visitando squadriglia per squadriglia e spiegando in che modo era avvenuto l'incidente, che si era trattato di una fatalità. Ma i piloti erano restii, non volevano più sentir parlare di paracadute. Finché, il 18 giugno 1928, il maggiore pilota Francesco Cutry, alzatosi da Centocelle a bordo di un A.120 insieme con il sergente pilota Carlo Garavaglia allo scopo di provare ad alta quota una nuova combinazione di volo, si salvò, grazie _al Sah,:-tor, gettandosi dall'aereo in fiamme. Garavaglia, invece, che aveva tardato a lanciarsi nel tentativo di riportare il velivolo a terra, perse la vita.
Il salvataggio del maggiore Cutry riportò il Salvator sulla cresta dell'onda. Da quel giorno, numerosi altri furono i piloti che dovettero la vita al paracadute. Tra di essi, De Bernardi, il calligrafo del cielo, che il 28 maggio 1930, venuto a collisione con un altro aereo pilotato da Lovandina, si affidò da pochi metri al candido ombrello, e l'aspirante Aldo Remondino, futuro capo di S.M. dell'Aeronautica, lanciatosi prima che il suo Breda A.9 precipitasse sul campo della scuola di pilotaggio di Capua. Freri si ridà anima e corpo all'azione di proselitismo, che troverà terreno fertile nelle Giornate dell'ala. In seguito, perfeziona il suo paracadute per renderlo adatto a lanci anche da velivoli ad alta velocità. Il nuovo modello, Salvator-D, del peso complessivo di 6 chili, è diviso in sedici spicchi, da ciascuno dei quali si diparte una fune collegata al cerchio che si aggancia al cinturone del paracadutista. Ha una calotta, di 46 metri quadrati, ideata dal colonnello ing. Luigi Avorio, a deformazione elastica, e perciò resistentissima. Il sistema di apertura è, come quello del Salvator-B, duplice: automatico e comandato. La velocità di discesa è di circa 6 metri il secondo.
Cintura del Salvator D 30 con il sistema di agganciamento e la leva di comando a mano.
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Il Salvator D 30 rinchiuso nella sua custodia.
Ma la fervida immaginazione di Freri non si limita al campo dei paracadute individuali: egli realizza anche paracadute-giganti per il lancio di rifornimenti, paracadute-freno per velivoli veloci ( oggi tale riduttore di velocità è impiegato dagli aerei a reazione), paracadute per ricondurre in assetto gli aerei caduti in vite, piccoli paracadute per razzi.
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Inoltre, progetta una serie di attrezzature per uso aeronautico e navale (aerostati, giubbotti di salvataggio, canotti pneumatici, ecc). nonché, in collaborazione con Fiore e con Fi]pa, la motobomba F.F.F., munita di un grande paracadute che ne stabilizza la caduta ad una velocità di 35 metri il secondo, e destinata a rendere più efficace l'offesa contro navi alla fonda o in navigaiione.
CAPITOLO VI
Ivo Viscardi e il paracadute Lisi
L'8 giugno 1930 si svolge all'aeroporto di Centocelle la prima Giornata dell'ala (un'altra si svolgerà il 27 maggio 1932), alla presenza del re, di Mussolini, di autorità militari e politiche e di una numerosa folla. Da due Ca. 73 si lanciano sedici paracadutisti . E' un avvenimento inconsueto (il primo lancio in gruppo era stato, come si ricorderà, quello dei « magnifici nove » del maggiore Lordi sull'aeroporto di Cinisello, nel novembre 1927) che suscita un entusiasmo incontenibile. Tra i sedici uomini scesi col serico ombrello c'è un giovane spoletino, Ivo Viscardi, destinato a rivestire un ruolo importante nella storia del paracadutismo. Viscardi, appassionato di aviazione, non essendo riuscito a frequentare un corso di pilotaggio ( ma il brevetto lo prenderà in un secondo tempo e diventerà anche aliantista), si era arruolato ventenne come allievo motorista e aveva avuto cosl modo di volare. Erano trascorsi quasi quattro anni dallo arruolamento ed era sul punto di congedarsi, quando sentì che Freri stava cercando volontari per addestrarli al lancio. « Capitano - gli disse - so che sta reclutando elementi per la giornata dell'ala. Perché qui a Centocelle non ha interpellato nessuno? ». « Va bene, Viscardi, datti da fare. Se trovi una ventina di giovanotti in gamba in questo aeroporto, tanto di guadagnato: sarà più facile svolgere l'addestramento ». E Viscardi si dette da fare con tanto entusiasmo che di volontari ne trovò più di quanti ne occorressero. In testa a tutti, inutile dirlo, c'era lui. Alla fine del breve corso, furono sorteggiati i sedici che avrebbero partecipato alla Giornata dell'ala. II nome di Viscardi figurava di diritto nell'elenco. Poche settimane dopo que1la memorabile manifestazione, il giovane spoletino lasciò il servizio. Fu avvicinato da Freri che gli chiese: « Te la senti-
resti di recarti all'estero a continuare il mio giro di divulgazione del Salvator? ». « Ma sicuro». E così Viscardi, firmato il contratto con la Società Aerostatica Avorio (ex Anonima Invenzioni Aeronautiche), se ne andò in Germania, Belgio, Francia, Turchia, Romania e Lettonia, effettuando numerosi 'lanci al cospetto di commissioni tecniche e di ufficiali degli stati maggiori. Ebbe un grande successo perchè compiva quest'attività non certo per motivi economici, ma per pura passione: il paracadutismo lo aveva stregato. Al ritorno in Italia, continuò a tuffarsi nel vuoto per conto dell'Aero-Club, presieduto da Marcello Diaz, figlio del duca della Vittoria, partecipando a una serie di meetings paracadutistici, spesso in coppia con paracadutisti stranieri. A Mantova fece fremere il pubblico allorché, trasportato dal vento, atterrò fuori del campo evitando di un soffio i fili dell'alta tensione. A Genova, durante un lancio in acqua, per poco non fu tagliato in due dalla prora di un veloce motoscafo. All'aeroporto di Taliedo (Milano) visse un'altra drammatica avventura. Doveva gettarsi simultaneamente alla paracadutista tedesca Irmegard Kraft (destinata a morire alcuni mesi dopo in un lancio sfortunato) che si trovava su un altro aereo. Quando i due velivoli furono sulla verticale del campo, Viscardi uscì dall'abitacolo e si aggrappò all'esterno della fusoliera in attesa che la bionda tedesca facesse altrettanto. Questa. invece, non si mosse, e i piloti dei due aerei continuarono a girare. Ad un tratto la Kraft si aìzò daì seggiolino e si gettò nel vuoto. Subito Viscardi si buttò anche lui, ma non potè fare a meno di atterrare oltre la periferia del campo. Andò a finire sul lucernario di un grosso hangar. Prima di sfondare il vetro, si liberò del paracadute, unl le gambe e allargò le braccia sorreggendosi all'intelah1tura
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metallica. Rimase penzoloni per un po', mentre il sangue gli sgorgava dai polpacci, poi riuscl ad abbandonare quell'incomoda posizione e ad appollaiarsi sulle travature del tetto, in attesa di soccorsi. Dovette aspettare parecchio, perché il custode se n'era andato ad assistere ai lanci e nessuno udiva
egli viene già come un bolide, a capofitto, ed apre il secondo paracadute a meno di 200 metri. Applausi frenetici del pubblico lo accolgono non appena tocca terra. Nei mesi seguenti, ripete più volte simili prove e si merita il nomignolo di « scavf'zzacollo dell'aria ».
Aeroporto di Borgo Panigale (Bologna) 1933: Ivo Viscardi (ìn tuta) con la paracadutista tedesca lrmegard Kraft poco prima di effettuare un lancio.
le sue grida. Finalmente tornò il custude, che corse a chiamare i pompieri. Questi arrivarono con una scala, ma Viscardi, ferito com'era, non ce la faceva a scendere. Allora si fece lanciare una fune, la fissò alla travatura e venne giù a braccia. 'el 1935, durante la campagna etiopica, l':mdace spoletino, che ha trovato anche il tempo per prendersi il brevetto di pilota, va in Africa Orientale, ingaggiato da una grossa ditta milanese che sta costruendo un tronco dell'autostrada AssabAddis Abeba. Trasporta con un Caproni viveri e medicinali. Nel 1937, tornato in patria, si ridà alla attività paracadutistica. A Padova, compie il suo primo lancio ritardato: si butta da 700 metri ed apre il paracadute a soli 200 metri dal suolo. Altro lancio ritardato ad Asiago; poi, a Mantova, effettua un'impresa temeraria: si lancia da 1.000 metri con indosso due paracadute. Dopo che il primo si è aperto, se lo sgancia e lo lascia galleggiare nell'aria;
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L'Italia sta per entrare in guerra, e Viscardi viene richiamato in servizio ed assegnato a Guidonia. Qui riceve una lettera di un autonoleggiatore residente a Spoleto, un certo Lisi, il quale assicura di aver inventato qualcosa, in fatto di paracadute, che vale la pena di provare. Viscardi non è solo un coraggioso sportivo, è anche un appassionato di problemi tecnici (qualche arino prima, insieme con l'ing. De Bourcard aveva costruito un modello di paracadute ad apertura immediata, per lanci da bassissima quota), e perciò accetta di incontrarsi con Lisi. E', costui, un ometto tranquillo, dallo sguardo limpido, ma, dietro l'apparente remissività, si nascondono una tenacia a tutta prova e un'ingegnosità fuori del comune. « Ho ideato - dice a Viscardi - un nuovo dispositivo per paracadute. Esso permette di regolare la velocità in qualsiasi momento della discesa, aprendo e chiudendo la calotta. Capirà: un conto è venir giù con il paracadute aperto, quindi in balla del vento, e per di più sog-
Una discesa di Viscardl con il paracadute • Lisi • a tulipano.
getti al tiro nemico; un altro conto è poter ridurre la calotta aumentare la velocità di discesa e, soprattutto,' poter dirigere il paracadute molto m~glio di quanto sia possibile fare con i, tipi a ca~otta ~1~sa. H o interessato della faccenda 1Aeronautica militare. Ora chiedo a lei: è disposto a collaudarlo di persona? » (10). Viscardi, qualche tempo prima, aveva sollecitato il Ministero affinché gli permettesse di tentare un lancio da 14mila metri d'altezza, e la cosa non era stata possibile in quanto allora non esisteva un aereo biposto capace di raggiungere quella quota. Figurarsi se gli mancava l'ardire ~ collaudare un nuovo tipo di parac~dute! E, poi. quel Lisi gli ispirava fiducia. Indubbiamente, sapeva il fatto suo. I due trovarono un finanziatore nella persona del banchiere dott. Ugo Natali, fecero costruire una serie di manichini di vario peso, e, ottenuta l'autorizzazione dalle autorità militari, cominciarono le prove pratiche al Centro sperimentale di Guidonia. I lanci con i manichini riuscirono bene e, finalmente, il 21 novembre 1941, arrivò il gran giorno del collaudo vero e proprio. Viscardi scambiò un abbrac-
cio con Lisi e sall a bordo di un Ca.133. Ad assistere alla prova, c'era una commissione presieduta dal generale dell'Aeronautica Luigi Carnevale. « Giunto a quota 800, mi buttai - ricorda Viscardi - sulla verticale del campo. Durante la vertiginosa discesa, effettuai quattro manovre di apertura e chiusura. A nessuno poté sfuggire che il Lisi era davvero un paracadute la cui velocità poteva essere regolata a piacere; uno strumento di discesa non più alla merce delle condizioni atmosferiche, ma anzi dirigibile al punto di poter raggiungere, secondo la volontà del paracadutista, la zona d'atterraggio prestabilita. Presa terra, commissione ed ideatore si congratulano con me». Nei giorni seguenti Viscardi esegul altri due lanci, perfettamente riusciti, per dar modo ai tecnici di registrare i tempi di discesa e di compilare la relazione da presentare al Ministero. Trascorse qualche mese e fu deciso che le prescritte dieci prove di omologazione del nuovo paracadute dovessero svolgersi a Tarquinia, dove - come vedremo era sorta, dopo anni di polemiche, una scuola militare di paracadutismo. Per non venir meno alle aspettative dello Stato Maggiore dell'Esercito, dal quale dipendevano i reparti operativi di paracadutisti, Viscardi ottenne dall'Aeronautica di essere collocato in licenza illimitata e si trasferl a Tarquinia, alle dipendenze del Reparto Studi ed Esperienze della Scuola. Le prove di omologazione ebbero inizio nel gennaio 1942. Il primo lancio, purtroppo, alla presenza del capo di S.M. generale dell'Esercito, Cavallero, e del sottosegretario all'Aeronautica, geo. Fougier, non si svolse a dovere: si inceppò il comando di chiusura della calotta e la discesa avvenne come un normale paracadute. Ma, il 5 marzo, un secondo lancio, che Viscardi volle compiere nonostante le pessime condizioni del tempo, riuscl perfettamente. Mussolini si era recato a Tarquinia per assistere ad un'esercitazione militare, ma, visto che le condizioni atmosferiche non accennavano a migliorare, consigliò di non esporre i paracadutisti a rischi inutili. A Viscardi parve quella un'occasione da non lasciarsi sfuggire per presentare al capo del governo il nuovo paracadute. Si alzò in volo con un Ro.1 e si buttò da mille metri, con un vento furioso. D urante la discesa aprì e chiuse tre volte il paracadute. Mussolini guardava venir giù la calotta rovesciata a tulipano e teneva il labbro inferiore serrato tra i denti. Quando toccò terra. Viscardi fu trascinato dal vento, poi riuscì a tirare la fune e a chiudere ~a ':e· latura. Era inzaccherato di fango dalla testa ai piedi. Accorsero alcuni ufficiali paracadutisti e, alla bell'e meglio, con i pugnali, gli ripulirono la tuta: Mussolini voleva vederlo. Raggiunse il gruppo delle autorità e scattò sull'attenti. « Lui ~ narra Viscardi - si avvicinò, mi battè la mano sulla spalla e mi disse : « Bravo! ». In quel momento qualcuno mi mise in mano una matita, una cartella con so29
pra un foglio bianco, affinché pregassi il capo del governo di dare un nome al nuovo paracadute. Mussolini rimase qualche istante perplesso, poi mi restituì foglio, cartella e matita: « Ci penserò, vieni a Palazzo Venezia ». Naturalmente, io a Palazzo Venezia non ci andai. Non è nella mia indole approfittare di circostanze del genere per mettermi in evidenza, ottenere dei riconoscimenti o dei vantaggi ». Da Mussolini fu ricevuto, invece, l'ing. Latour, dirigente della ditta che costruiva il Lisi. Il nuovo paracadute fu battezzat0 « Aprile », come il quarto mese dell'anno. Viscardi proscgul i lanci di omologazione, incorrendo in qualche piccolo guaio: una volta si fece un grosso taglio al labbro con la fune di comando, un'altra volta venne giù su un terreno accidentato e riportò un'incrinatura al perone destro. Ma, a parte ciò, il paracadute funzionava bene: la rettifica apportata dopo l'inceppamento veri-
ficatosi la prima volta, era da considerarsi più che collaudata. E, invece, il 2 l marzo l 9-t2, avvenm: un incidente gravissimo che costrinse Viscardi a cessare l'attività dopo 180 discese. Era il penultimo lancio di omologazione. L'audace paracadutista era partito in volo con un Ca-133: doveva lanciarsi da duemila metri e cercare di atterrare al centro <li un telone disteso in mezzo al campo. Uscito dall'aereo e apertasi la calotta, venne giù lentamente per qualche centinaio di metri e:, con movimenti <lelle gambe e delle braccia, si diresse verso il telone; quando fu sopra di esso, tirò la fu. nicella e la calotta si rovesciò, facendo aumentare la velocità di discesa ad 80 chilometri l'ora. A circa l50 metri dal suolo, Viscar<li allentò la fune per provocare la riapertura totale, ma il Jispositivo min funzionò, la calotta restò a tulipano, ed egli piombò giù come un sasso.
Freri e Viscardi nel 1962 a Roma. nella sede dell'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia. in occasione della con cession e dei diplomi di soci benemerit i.
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Credevano di trovarlo morto, invece lo raccolsero che respirava. « Mi sento tutte le ossa rotte », mormorò ai soccorritori. Per percorrere i 5 chilometri che separano il campo d'aviazione dall'ospedale di Tarquinia, l'ambulanza impiegò oltre un'ora. Ad ogni lieve scossa, il ferito sussultava. Fu ingesseso dal collo ai piedi. Stette mesi e mesi con un busto di ferro , quindi passò alle grucce, poi al bastone, infine fece a meno anche di quello. Rimase tuttavia minorato al piede destro e sofferente per le lesioni alla colonna vertebrale. La sua indomita volontà gli permise di tornare a volare, riportò altre ferite in un atterraggio fuori campo presso Latina, poi si iscrisse ad un corso per diventare istruttore di volo a vela. Il 16 luglio 1953, a Dobbiaco, durante una prova di traino a doppio comando su un Ca.100, per un errore di manovra dell'istruttore, l'aereo precipitò. Il pilota Vecchi perse la vira, Viscardi riuscì a cavarsela ancora una volta. Aveva la lingua quasi interamente
recisa, i denti infilati in gola, il naso, le gambe ed un braccio fratturati, lesioni in tutte le parti del corpo e commozione cerebrale; ma il suo eccezionale organismo reagì bene. Ed ancora adesso, conseguito il brevetto di pilota di aliante, compie lunghi voli librati per soddisfare la sua sete di cielo. Nonostante egli abbia dedicato tutta la vita all'aviazione e al paracadutismo, nonostante le menomazioni riportate, nonostante le promesse di riconoscimenti più volte espressegli, nulla ha avuto, neppure una pensione, poiché, quando incorse nel grave incidente con il Lisi, compiva sì collaudi per conto dell'Ispettorato Tecnico Militare, ma era ufficialmente, un civile. Quanto al paracadute Lisi, ripudiato nel dopoguerra il nome di Aprile, migliorato nel funzionamento, in maniera da evitare il ripetersi di incidenti come quello capitato a Viscardi, è tuttora usato per particolari lanci dai paracadutisti militari di stanza a Pisa e a Livorno.
Sigismondo, l'immortale : il manichino con il quale veni vano effettuati i collaudi dei paracadute.
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PARTE SECONDA
CAPITOLO I
Freri addestra i libici Baudoin e la Scuola di Tarquinia
Per anni Freri aveva insistito affinché fosse costituita una scuola di paracadutismo. Mussolini aveva promesso, ma non se n'era fatto nulla. Quando Freri sosteneva la necessità di una scuola, alludeva a un istituto che addestrasse all'uso del paracadute tutto il personale navigante dell'aviazione. In seguito, però, si venne a conoscenza che all'estero (in Russia sin dal 1935 e in Germania dal 1936) erano sorti veri e propri reparti di paracadutisti, e si cominciò a parlare anche in Italia della possibilità di creare una specialità del genere. I pareri furono subito discordi: Mussolini avrebbe voluto che del paracadutismo si fosse occupata la Milizia; lo Stato Maggiore si opponeva sostenendo che avrebbe dovuto pensarci l'Esercito (e, infatti, questi, nel giugno 1936, decideva di dar vita, naturalmente sulla carta, a un 1° Reparto Paracadutisti); a ·sua volta l'Aeronautica, per mezzo del Capo di S.M. generale Valle, sosteneva a buon diritto che la faccenda la riguardava direttamente, poiché, dopotutto, il paracadutismo era nato nel suo ambito. Cosl si andò avanti per parecchio tempo senza concludere niente, finché il R.D.L. del 22 febbraio 1937 n. 220 venne a tagliare la testa al toro, stabilendo, all'art. 34, che « fanno parte della Regia Aeronatutica le Scuole di Paracadutismo ». Tutto risolto, dunque, ma di scuole per paracadutisti non ne venne istituita neppure una. A rompere gli indugi, fu, nel marzo del 1938, Italo Balbo, governatore della Libia. Visto che in Italia non ci si decideva a costituire un reparto di truppe capaci di calarsi dall'alto col paracadute, ci ~ pensò lui, in Africa. La scuola di paracadutismo creata da Balbo nell'aeroporto di Castel Benito e destinata a istruire un reggimento, poi contratto in battaglione, di pa-
racadutisti libici, i famosi « diavoli neri», inquadrati da ufficiali italiani, non ottenne mai un riconoscimento ufficiale. I nutile dire che, non appena seppe dell'iniziativa di Balbo, Freri si fece inviare in Libia. E fu grazie a lui se la scuola potè dare frutti. Egli istruì in poche settimane gli ufficiali, a cominciare dal comandante, maggiore del Genio Goffredo Tonini, medaglia d'oro, che dovevano a loro volta fare da istruttori ai libici. Per la verità, tutto venne fatto un po' alla garibaldina, troppo in fretta:· tanto che nei primi due lanci in massa (svoltisi il 16 aprile e il 18 maggio 1938) dagli S.81 (aerei da bombardamento, inadatti all'attività lancistica) si ebbero ben 15 morti ed una settantina di feriti. Ma qualche giorno dopo, il 23 maggio, in occasione delle grandi manovre nella zona desertica della Gefara, il Reggimento Fanti dell'Aria libico fu nuovamente lanciato, alla presenza del re, ed effettuò una brillantissima esercitazione tattica. Il paracadute usato dai libici era l'ultimo modello del Salvator, il D-37, normalmente assegnato ai reparti di volo dell'Aeronautica, e quindi non progettato per le particolari esigenze dei reparti paracadutisti. Aveva una insufficiente velaturn ( 46 metri quadrati) e una notevole velocità di discesa (circa 7 metri il secondo). Perciò Freri lo modificò, creando il D-39, con maggiore velatura e con velocità leggermente inferiore, ma non ancora adatto ai lanci di reparto. Più tardi, nei primi mesi del 1940, si iniziò la costituzione di un altro battaglione paracadutisti, formato da soldati nazionali, che fu posto al comando del maggiore di fanteria Arturo Calascibetta. Il battaglione eseguì l'addestramento è i lanci all' aeroporto di Barce, utilizzando trimotori SM.75 ceduti dall'Ala Littoria. Venne anche assegnato un nuovo
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paracadute, il Salvator D -40, che permetteva una discesa ancora più lenta, ma che poi non sarà più usato. A Barce fu inoltre sperimentato, positivamente, il lancio, con paracadute-gigante, di un cannone da 47 /32 . Con l'inizio delle operazioni belliche in Africa Settentrionale, i fanti dell'aria libici e quelli nazionali saranno impiegati per apprestare opere difensive all'Uadi Bakur. Il 14 gennaio 1941, j. libici, riuni ti, insieme con una incompleta compagnia di bersaglieri motociclisti e con quattro carri armati M.11, neì Grup· po Mobile Tonini, sara nno inviati alla difesa della piazzaforte di Derna. Combatteranno strenuamente sino al 2 febbraio, sopportando perdite gravose ( 158 morti e 216 feriti), e finiranno prigionieri il 6 febbraio con tutta l'autocolonna della X Armata, nella quale si trovavano anche i paracadutisti nazionali ritirati dall'Uadi Bakur. Intanto anche in Italia, e precisamente a Tarquinia, era sorta una Scuola di Paracadutismo. L 'atto di nascita ufficiale era stato il supplemento n. 12 al fo. glio d'ordini del Ministero dell'Aeronautica, pubblicato il 28 settembre 1939. Vi si legge: <~ Sorto la data del 15 ottobre corrente anno si costituisce la Scuola Paracadutisti con sede presso l'aeroporto di Tarquinia. Attribuzioni: istruzione terrestre individuale e di reparto con esercizi ginnici particolari e addestramento al lancio con paracadute frenato; istruzione e allenamento, di mil itari della Regia Aeronautica e del Regio Eserciro, al lancio con paracadute dall'aeroplano , allo scopo di addestrare speciali reparti; studi ed esperienze per determinare, in relazione allo speci fico impiego ed in parallelo all'attività addestrativa paracadutistica, quei perfezionamenti alla tecnica dei lanci e del materiale che si rendessero necessari, e per progettare, eventualmente, nuovi mezzi ». La Scuola dovrà essere ordinata su un comando, un battaglione paracadutisti, un reparto di volo, e dovrà dipendere, per la parte tecnico-professionale, dall 'Uffi cio di Stato Maggiore della Regia Aeronautica e, per la parte disciplinare territoriale, dal comando della III ZAT. L'addestramento terrestre, individuale e di reparto, del battaglione paracadutisti dovrà essere di pertinenza del Corpo di Stato Maggiore del Regio Esercito, il quale dovrà in merito prendere opportuni accordi con l'Ufficio di Stato Maggiore della Regia Aeronautica. Quest'ultimo dovrà emanare le disposizioni esecutive. Era ora! Già da due anni si era in attesa di quest'ordine, e il capo di S.M. dell'Aeronautica, gen. Valle, aveva persino scelto Viterbo quale sede della scuola, dopo aver lui stesso compiuto il 14 luglio 1937, un lancio su quell'aeroporto. Ma a Viterbo fu preferita Tarquinia, forse perché sul mare e perché attorno all'aeroporto si estendeva una vasta pianura utilizzabile per i lanci collettivi e per le esercitazioni a fuoco . In previsione del fun7. ionamenro della scuola, con circolare del 28 agosto 1939, il Ministero della Guerra aveva già dato inizio al reclutamento di allievi istrut34
tori da scegliersi tra gli ufficiali e i sottufficiali del1'Esercito, aveva stabilito le modalità richieste per la ammissione e fissato le competenze amministrative ed economiche e le speciali indennità di volo. Così, il 15 ottobre 1939, arrivò a Tarquinia il comandante della Scuola Paracadutisti, colonnello pilota dell' Aeronautica Giuseppe Bau<loin de G illette, di antica nobile fa. miglia nizzarda venuta io Italia quando Nizza fu ceduta alla Francia. Suo padre, già dei Mille, s'era immolato con tutti i suoi uomini ad Adua, comandando il 9° Battaglione Bersaglieri d'Africa, ed era stato decorato di medaglia d'oro alla memoria. I Baudoin, da pit1 di dieci secoli, hanno onorato la patria servendola in armi ed amministrando la giustizia. Nessuno meglio di Baudoin era l'uomo adatto per Tarquinia. Quarantreenne (era nato a Livorno nel 1896), aveva alle spalle oltre un ventennio di esperienza militare in guerra e in pace. Si era sempre distinto come uno dei pii:1 brillanti ufficiali dell'Esercito prima, dell 'Arma azzurra poi, ed era un pioniere dd paracadutismo. Arruolatosi volontario nel 19] 6, era stato nelle Argonne con i fratelli Garibaldi dove aveva riportato due ferite e si era meritato la Legion d'onore. Nominato aspirante nel settembre 1917, alla fine dello stesso mese era caduto prigioniero nel fatto <.1'arme di San Daniele del Friuli. Dopo la guerra, tenente di complemento di fanteria, aveva chiesto di andare in Libia. Rimpatriato nel giugno del 1921, era transitato, due mesi dopo, in servizio permanente ef. fe ttivo per merito di guerra con il grado di sottotenente. Nel marzo del 1922 era stato nominato di nuovo tenente. Poi era tornato in colonia, a Mogadiscio, « a disposizione del governo locale con incarichi speciali». Rie ntrato in Italia, nel marzo 1924 aveva chiesto ed ottenuto di passare alla Scuola di pilotaggio di Cameri (Novara), dove era stato definito dal suo comandante « primo fra i primi allievi piloti del suo corso» con questa splendida motivazione: « In quattro mesi ha conseguito il brevetto unico su apparecchio SV A (brevetto civile e militare), ed agli esami teorici ha riportato una media di diciannove ventesimi, punti raggiunti da nessun altro ufficiale del suo corso. Per la sua passione all'arte del volo ed il suo alto spirito militare, è stato a rutti di esempio e di incitamento a perseverare, proprio in quei giorni in cui si abbatterono sulla Scuola di Cameri luttuosi incidenti di volo. Parla e scrive l'inglese per aver compiuto patte dei suoi studi in Inghilterra, conosce il tedesco. Ritengo che abbia attitudine per coprire qualsiasi carica, anche superiore al grado che riveste. Nella vita civile è signore nel vero senso della parola . Lo giudico ottimo ufficiale di squadriglia in S.A.P. ». Da allora, sino al marzo del 1938, quando era stato promosso colonnello , aveva prestato servizio nelle specialità ricognizione, caccia, bombardamento, alternando i periodi di comando con lo svolgimento di incarichi speciali presso lo Stato Maggiore della Aeronautica ed altri enti superiori. Prima di essere nominato comandante della Scuola di Paracadutismo,
Paracadutisti libici della Scuola di Castel Benito (Tripoli}, creata da Balbo nel 1938 e comandata dal maggiore del Genio medaglia d'oro Goffredo Tonini. I paracadutisti libici furono addestrati da Freri all 'uso del paracadute.
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1; colonnello Giuseppe Baudoin, primo comandante la Scuola Paracadutisti di Tarqumia.
28 marzo 1940: i primi ufficiali e sottufficiali giunti alla Scuola Paracadutisti di Tarquinia, destinati a diventare istruttori.
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Il serg. pilota Angelo de Poi, vittima di un lancio il 13-8-1930. Faceva parte di una squadriglia da ricognizione comandata da Baudoin.
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era al comando della Scuola di Osservazione Aeroplani terrestri. In campo paracadutistico, Baudoin aveva un « anzianità» di oltre dieci anni. Aveva compiuto il suo primo lancio il 12 aprile 1927 sul campo di Montecelio, e tre anni dopo, il 13 agosto 1930, si era calato dall'ala di un biplano Ca.3, nel cielo di Aviano, alla testa di tutta la sua venticinquesima squadriglia da ricognizione (in quell'occasione morì, in un incidente analogo a quello del generale Guidoni, un sergente triestino, Angelo de Poi). Nel maggio 1932, Baudoin, allora maggiore, era stato l'ufficiale più alto in grado a partecipare al lancio collettivo della seconda Giornata dell'ala, svoltosi a Roma all'aeroporto del Littorio, alla presenza di Balbo. Questi aveva fatto coniare una medaglia-ricordo dell'avvenimento, rilasciando un encomio a ciascuno dei ventidue partecipanti al lancio. Quando gli venne comunicato di essere stato scelto a comandare la Scuola Nazionale di Paracadutismo - questa era la denominazione ufficiale - Baudoin si recò in volo a T arquinia. Pensava di trovare un campo già attrezzato. Delusione. Non c'era nulla 1 L'aeroporto era un modesto campo di fortuna largo 450 metri e lungo 650, un « fazzoletto>> di erba contornato dalla ferrovia e dal mare. Le attrezzature consistevano in un hangar, un piccolo edificio destinato originariamente ad ospitare eventuali forze aeree, la casupola del custode, una manica a vento, la T di segnalazione. Tutto qui. Chiunque, al posto di Baudoin, si sarebbe perso di animo, avrebbe, se non altro, fatto presenti le enormi difficoltà che si frapponevano all'iniziativa. Lui, no: si buttò a corpo morto nell'improba impresa, e di 11 a non molto il Regio Aeroporto « Sostegni » si svegliò dal suo torpore, fu colto da una animazione insolita. Per cominciare, Baudoin dovette provvedere al riattamento del campo, il cui terreno argilloso s'inondava ad ogni piccola pioggia. Furono, perciò, svolti lavori di drenaggio e, in un secondo tempo, la superficie dell' aeroporto venne ampliata previa requisizione di adiacenti appez:zamenti. Mentre fervevano questi lavori, Baudoin affrontava altri problemi: i teloni per i lanci se li procurò dai vigili del fuoco di Roma; da una ditta che fabbricava poltrone si fece costruire varie attrezzature; da un'industria di Perugia 50 tavoli per il ripiegamento dei paracadute (il Ministero ne aveva assegnati soltanto due); quindi pensò all'allestimento dei servizi tecnici per la manutenzione dei velivoli destinati a trasportare gli allievi (in dicembre arrivarono i primi aerei, due Ca.1 H per i voli di ambientamento, poi fu. tono assegnati tre Ca.13.3 per i lanci); all'alloggiamento degli allievi e del personale di volo, alla sistemazione dei magazzini, del reparto sanitario, del reparto studi ed esperienze, e via dicendo. Poiché la piccola caserma non era in grado di ospitare più di cento uomini, si dovettero costruire solide baracche, in attesa
che venissero edificate opere in muratura. I primi allievi - ufficiali e sottufficiali - saranno addirittura sistemati in abitazioni civili e nel vecchio ospedale di Tarquinia. Una scuola di paracadutismo ha inoltre bisogno di una torre metallica per l'addestramento ai lanci. Dove procurarsela ipso facto? Per fortuna, nella capitale, a Villa Glori, c'era proprio una torre del genere. Apparteneva ai vigili del fuoco del Genio militare. Era alta 52 metti e, in cima, disponeva di un braccio a falcone e di un motore destinato a far vento e a gonfiare la calotta di un paracadute frenato. Vi si esercitavano alla discesa un sergente maggiore e una decina di genieri. In men che non si dica, la torre venne smontata e trasportata a Tarquinia. Baudoin era riuscito a spuntarla ancora una volta. La scuola - che tra poco passerà alle dipendenze di Esercitavia, cioè il Comando Superiore dell'Aviazione per l'Esercì to, alla cui testa c'è il generale Giulio Del Lupo - comincia così a prender vita. Oltre al personale addetto ai servizi d'aeroporto, il comandante ha alle sue dipendenze un ufficiale di collegamento con l'Esercito, il maggiore Giorgio Lo Bianco; un comandante del reparto di volo, il capitano pilota Dante Salverat: cinque ufficiali piloti e sei sottufficiali addetti al comando; due tenenti medici responsabili dei servizi sani tari . Più tardi, ci sarà anche un vice-comandante della Scuola: il tenente colonnello di fanteria osservatore dall'aereo Augusto Saltalamacchia. Uno dei riù validi cooperatori di Baudoin per lo sviluppo della Scuola sarà il colonnello dell'Esercito Giacinto Valente, capo di S.M. di Esercitavia. Il 28 marzo 1940 arrivano i primi volontari. Sono una sessantina era ufficiali e sottufficiali, destinati a divenire isttuttori degli allievi che giungeranno in un secondo tempo. Il corso comprende: addestramento fisico generale (salti in alto, dall'alto, in lungo, con l'asta, con capovolta, corsa, volteggi, arrampicata alle pertiche e alle funi ) e addestramento fisico particolare (scherma di pugnale, pugilato, lotta giapponese, marcia, motociclismo, equitazione, nuoto, voga, salti e discese dalla torre); esercitazioni di tiro e con il lanciafiamme; orientamento, raccolta e trasmissione di notizie; telegrafia, intercettazione telegrafica e trasmissione di notizie marconigrafoniche; difesa antigas ; pronto soccorso. A ciò si aggiunga l'addestramento propriamente paracadutistico: spiegamento e rigamento del paracadute, caricamento dei velivoli, aerorifornimento, voli di ambientamento, lanci individuali, collettivi e susseguenti manovre a fuoco, tecnica dell'impossessamento di basi aere nemiche. Come si vede, un programma molto impegnativo, per il cui svolgimento sono previsti otto mesi. In realtà, il corso dura due mesi, perché spira aria di guerra, il tempo stringe, e si comincia a capire che un solo battaglione di paracadutisti (cosi come era stato programmato dallo Stato Maggiore dell'Esercito) è troppo poco. Della sessantina di allievi istruttori, soltanto 36 potranno essere abilitati; ma non importa, bisogna 39
sbrigarsi a dare inizio ai corsi per la truppa, anche se qualche Solone - come commentò Baudoin - si sarebbe accontentato di due battaglioni e, in via occasionale, di un terzo formato esclusivamente di carabimen. Allorché, il 10 giugno 1940, l'Italia entrò in guerra, il comandante della Scuola, sul quale, in quel tempo, gravava anche la responsabilità operativa dei reparti in addestramento, inviò a Roma un rapporto che terminava con queste parole: « Non aver pronti per l'impiego entro novembre otto battaglioni, significa tradire la Patria ». Ma, quando arrivò la fine di novembre, avevamo a Tarquinia, e non certo per colpa d el comandante e dei suoi istruttori, che si prodigavano oltre ogni limite, un battaglione impiegabile, uno a metà addestrato ed uno che aveva appena cominciato l'addestramento. « Avendo avuto - dirà poi Baudoin - completa conoscenza del problema logistico ed operativo, e della situazione nostra e del nemico, ho la possibilità, e quindi il diritto e il dovere, di affermare categoricamente che, se nel novembre 1940 avessimo avuto otto battaglioni paracadutisti pronti all'impiego, il tricolore d'Italia, in quel mese, avrebbe sventolato su Malta, e forse l'esito della guerra certamente di quella condotta nel Mediterraneo sarebbe stato diverso da quello che fu ». L'addestramento degli allievi - arrivati alla spic<:iolata da tutti i corpi e le specialità e sottoposti a una severa visita medica selezionatrice - cominciò il 10 luglio 1940. Esso era diviso in due periodi. Il primo ,comprendeva voli di ambientamento, discesa dalla torre con paracadute frenato e a caduta libera con funi frenanti, salti sul telone da altezze varie (da 5 sino a 20 metri) e una accurata, rigorosa preparazione atletica (corse, salti, flessioni, sospensioni, lunghe « passeggiate » con la bicicletta da bersagliere, e via dicendo). Ad ogni discesa dalla torre, il tenente medico Micaleff controllava le pulsazioni cardiache; un ero-
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nometrista registrava i tempi delle prove atletiche. Il secondo periodo comprendeva esercitazioni di uscita da sagome di ·Jelivoli; esercitazioni di «presa di terra» con capovolta a comando; esercitazioni di indossamento, sganciamento e ripiegamento del paracadute; tre lanci dall'aereo, il primo da 250 metri, il secondo da 200, il terzo da 150 metri. Alla fine dei due periodi, che duravano complessivamente cinquanta giorni, aveva inizio, sotto la guida degli ufficiali dei reparti, l'addestramento tattico che si concludeva con altri tre lanci collettivi, seguiti da esercitazioni a fuoco. Alcuni reparti speciali che sorsero in un secondo tempo (compagnie paracadutisti del X Reggimento Arditi, nuotatori-paracadutisti del « San Marco », battaglione Arditi Distruttori della Regia Aeronautica) effettuarono anche lanci in acqua e lanci notturni. La parola d'ordine, a Tarquinia, era « far presto» (i tedeschi stavano progettando l'invasione dell'In. ghilterra e noi dovevamo parteciparvi con una « rappresentanza» di truppe di élite). Ma, dopo solo due settimane dall'inizio dell'addestramento, un destino avverso si abbatté sulla Scuola: durante un lancio perse la vita il tenente Adolfo Angeloni, un reduce dalle formazioni paracadutistiche della Libia; il giorno dopo morirono il soldato De Pantis e il carabiniere Caimi; non erano trascorse ventiquattro'ore e si sfra. cellava al suolo il maresciallo dei carabinieri Gennaro Ventura. L'impressione, negli alti comandi, fu enorme. Si ordinò la sospensione dei lanci, venne disposta una inchiesta. Invano Baudoin protestò: « E' doloroso, dispiace a tutti, ma siamo in guerra, bisogna continuare l'istruzione ... ». Non ci fu nulla da fare: i lanci vennero ripresi solo a settembre, ma il giorno 22 si verificava un altro incidente mortale:. decedeva, per mancata apertura della calotta, il sergente Luigi Di Battista. Nuova sospensione dei lanci, poi il maltempo impediva agli aerei di alzarsi in volo. Finalmente, 1'8 novembre, riprendeva l'addestramento lancistico.
CAPITOLO II
Il paracadute IF 41 - SP
Nasce, intanto, un nuovo paracadute. Quello usato sinora è il Salvator D-39, lo stesso che adoperarono i fanti dell'aria libici, un paracadute, lo abbiamo già detto, che, studiato originariamente per il salvataggio degli aviatori, doveva essere di minimo peso e di minimo ingombro e richiedeva una perfetta manutenzione e una accurata ripiegatura. Cose, queste, sovente impedite dalla fretta con la quale bisognava procedere all'addestramento. Il nuovo paracadute, denominato 1F 41-SP (cioè Imbracatura Fanteria mod. 1941 Scuola Paracadutisti), viene realizzato dal Reparto Studi ed Esperienze, diretto dal colonnello di S.M. Alberto Bettica, del Genio, inventore del famoso omonimo lanciabombe della prima guerra mondiale, il quale, prima di essere assegnato a Tarquinia, stava compiendo particolari studi sul volo umano manovrato per conto dello Stato Maggiore dell'Esercito. Sperimentato più volte con il manichino (Sigismondo lo avevano battezzato i paracadutisti), poi collaudato dal capitano Leonida Turrini, capo-istruttore della scuola, il paracadute IF. 41 si dimostra più che idoneo. Esso ha l'im-
bracatura costituita da due bretelle e due cosciali; una calotta di 56 metri quadrati, divisa in venti settori diagonali, ciascuno dei quali, a sua volta, diviso in cinque zone allo scopo di aumentarne la resistenza; un fasdo funicolare composto di venti funi di canapa capaci, ognuna, di resistere a una trazione di 130 chili; una fune di vincolo per l'apertura automatica, avente una resistenza di 750 chili. La calotta, anziché essere espulsa con un dispositivo meccanico - il pilotino estrattore a molla - come nel D-39, è costretta a sfilarsi dalla custodia in seguito alla tensione della fune di vincolo - un capo della quale viene agganciata all'aereo mediante un moschettone scorrente su un filo d'acciaio - determinata dal peso del paracadutista. La velocità di discesa è di circa 5 metri e mezzo il secondo. Sorge anche una nuova tecnica di lancio: non più a perpendicolo, con la mano destra sulla maniglia dell'apertura di sicurezza, ma ad « angelo », proiettandosi fuori della fusoliera con le braccia e le gambe aperte, il corpo arcuato ed il capo eretto.
Una perfetta uscita • ad angelo •.
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A distanza di tempo dalla nascita dell'IP. 41 giungerà a Baudoin il seguente encomio ministeriale: « Incaricato del comando della Regia Scuola Paracadutisti, di nuova costituzione, con opera appassionata e infaticabile, di studioso, di animatore e di organizzatore, e con chiara realizzatrice visione degli importanti nuovi problemi, in breve tempo creava un organismo vitale e capace di rispondere, in difficili circostanze di guerra, a tutte le incalzanti necessità contingenti. Realizzava inoltre, con originale concetto e rifiutando ogni vantaggio personale, numerose attrezzature ed un nuovo tipo di paracadute che, in oltre quindicimila lanci umani, dimostrava assoluta sicurezza a tutte le esigenze del paracadutismo militare. Esempio di appassionata dedizione al dovere e di intelligente capacità di organizzatore e di comandante ». Fabbricato in serie, l'IP. 41 fu distribuito agli allievi per i lanci, e a Tarquinia riprese un'attività frenetica. Baudoin era onnipresente, girava per il campo su una moto « Alce» con un paio di pantaloncini e una maglietta, sempre pronto a suggerire, a correggere, a dare l'esempio. I paracadutisti lo adoravano, Io consideravano un po' il loro padre. E lui voleva bene a quei ragazzi scanzonati, fin troppo vivaci, e, pur pretendendo da loro una ferrea disciplina, sia pure tutt'altro che formale, ne prendeva le difese, quando era il caso. Una volta vide l'autista di un'ambulanza che, ai margini del campo, si sbellicava dalle risa perchè un paracadutista, dopo l'atterraggio, veniva trascinato dal vento. Subito Io afferrò per la collottola, ordinò a un istruttore di fargli indossare un paracadute, e lo fece gettar giù da un aereo. Quando l'autiere, pallido dalla paura, toccò terra, gli si avvicinò, lo aiutò ad alzarsi, e gli disse : « Così imparerai a non ridere quando un paracadutista atterra malamente». Un'altra volta fu chiamato a rapporto a Palazzo Venezia. Era successo che alcuni paracadutisti, in permesso a Roma, avevano ingaggiato, in un caffè sotto i portici dell'Esedra, una discussione con un gruppo di giovanotti curiosi di sapere chi fossero quei baldi ragazzi cosl chiassosi. Ad un certo punto la discussione s'era fatta vivace e qualcuno aveva azzardato una frase poco ortodossa nei riguardi dei paracadutisti. Questi avevano chiesto agli elegantoni come mai, nonostante avessero l'età giusta per essere sotto le armi, fossero in borghese e, alla risposta ironica, avevano tirato fuori un paio di forbici ed avevano loro tagliato le cravatte. Il giorno dopo Baudoin aveva trovato sul tavolo del suo ufficio una scatola contenente lembi di cravatte e un biglietto che diceva: « Al loro comandante, omaggio di alcuni suoi ragazzi che hanno scovato a Roma una serie di imboscati. Con umile e viva preghiera che non siano presi provvedimenti disciplinari verso i paracadutisti allorché scoppierà l'inevitabile grana ». E la grana scoppiò perché sfortuna volle che tra i danneggiati fosse il figlio di un « pezzo grosso ». 42
Quando Baudoin si presentò a Mussolini, lo trovò accigliato ( 11 ). << Sapete che i vostri paracadutisti hanno tagliato la cravatta al figlio del generale tal dei tali? >>. Il colonnello non si scompose: « Se il ventiquattrenne signorino - rispose figlio del signor generale che avete nominato, anziché bighellonare in giro, indossasse la divisa del paracadutista, nessuno gli taglierebbe la cravatta. E vi dirò di più: secondo informazioni in mio possesso, risulta che non solo la cravatta fu tagliata al signorino in questione, ma, allorché egli disse, in tono minaccioso, di essere figlio di una eccellenza, oltrechè la cravatta, i paracadutisti gli tagliarono anche il biondo ciuffo che vezzosamente adornava la sua fronte. Vi dirò anche che mi meraviglia molto che i miei uomini non lo abbiano preso a ceffoni, il che vi dimostra quanto longanimi siano i paracadutisti verso questi figli di papà, i quali, anziché spassarsela nei caffè, come evidentemente si permette loro di fare, avrebbero il dovere di vender cara la porca pellaccia su di un qualsiasi campo di battaglia ». Nessuno aveva mai parlato con tan ta franchezza e rudezza al Duce, l'allusione a chi permetteva gli imboscamenti era fin troppo palese, c'era da aspettarsi chissà quale reazione. Invece, Mussolini, evidentemente colpito da un linguaggio per lui così inusuale, disse: « Mi rendo conto ... Non bisogna però drammatizzare ... E' necessario spianare, non inasprire, molte situazioni ... }>. E, ovviamente, di sanzioni per i paracadutisti non si parlò neppure. Anzi, in quell'occasione, Baudoin riuscì persino ad ottenere che da Palazzo Venezia fosse richiesto al Ministero dei Trasporti di far fermare alla stazione di Tarquinia tutti i treni, dato che i paracadutisti che tornavano da Roma erano stati sino ad allora costretti a buttarsi dai convogli in corsa, mettendo in pratica gli insegnamenti ricevuti per l'atterraggio ... Continuavano, nel frattempo, ad affluire alla scuola scaglioni di allievi. Furono aumentati i velivoli in dotazione. Agli iniziali tre Ca.133 (i paracadutisti chiamavano questo tipo di aereo « la vacca ») se ne aggiunsero altri trentatré, ciascuno dei quali poteva trasportare una squadra di nove uomini più il direttore di lancio e due aerorifornitori a materasso di 50 chili l'uno installati a perpendicolo sulla botola posteriore; giunsero poi quattro S.82, i cosiddetti « Marsupiali », ciascuno dei quali era in grado di avere a bordo ventiquattro paracadutisti più il direttore di lancio e poteva portare, nell'alloggiamento bombe, quattro aerorifornitori. Ai due Ca.111 adibiti ai voli di ambientamento si aggiunsero due S.81. Anche l'organico degli istruttori fu aumentato: se ne ebbero 127, tuttavia insufficienti al sempre crescente numero di allievi.
Uno degli istruttori, il tenente Enzo Baggioni fu protagonista di una paurosa avventura, fortun ..ta· mente risoltasi per il meglio grazie all'intervento di Baudoin. Mentre illustrava « dal vero >> l'uscita « ad angelo », diede con i piedi una spinta troppo energica e troppo verso l'alto e rimase impigliato con il paracadute ai piani di coda dell'aereo. A bordo, accortisi di quello che era successo, tentarono in tutti i modi Ji tirarlo su, ma non vi riuscirono. Allora il
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pilota, per prendere tempo, si mise a girare sul campo. Il comandante la scuola, che, come il solito seguiva le esercitazioni, si alzò subito in volo col suo Caproncino, si portò davanti all'altro aereo e lo condusse verso il mare. L'unico tentativo da fare . infatti, non essendo in uso, come lo è invece oggi, il paracadute di emergenza, era di sganciarsi l'imbracatura e tuffarsi in acqua. Sia il pilota che l'ufficiale, appeso e sballottato fuori dell'aereo, compresero
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Il colonnello Baudoin parla agli allievi paracadutisti della Scuola di Tarquinia.
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l'iniziativa del colonnello Baudoin. Il primo rallentò per quanto possibile la velocità e scese sino a pochi metri dal pelo dell'acqua, il secondo ebbe il coraggio di affidarsi alla sorte. L'impatto fu piuttosto violento, tanto che Baggioni rimbalzò più volte sulla superficie liquida e svenne. Fu ripescato, portato a ri-
Tarquinia, 1941 • la vacca •.
Paracadutisti in procinto di imbarcarsi sui Ca-133. Questo tipo di aereo era scherzosamente chiamato
Il colonnello Settica, capo del Reparto Studi ed Esperienze della Scuola di Tarquinia.
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va e ricoverato in ospedale, dove rimase pm giorni tra la vita e la morte per lesioni interne. Ma aveva una fibra eccezionale, si riprese completamente e tornò ai lanci. Per questo suo intervento, Baudoin ricevette, dal Capo di S.M. dell'Esercito, un altro encomio.
Mentre proseguiva l'addestramento dei battaglioni (all'inizio del 1941 ne erano pronti tre e un quarto era in fase formativa), dal Reparto Studi ed Esperienze uscivano una serie di novità tecniche. Tra l'altro: un nuovo tipo di bomba a mano; una sorta di bazooka autarchico ante litteram, consistente in un tubo di cartone pressato; una minuscola moto aviolanciabile - il volugrafo - con un piccolo motore simile a quelli che saranno, anni dopo, usati dall'industria civile per i moto-scooters. E, poichè eravamo in guerra ed avremmo potuto rimanere sprovvisti della seta necessaria per i paracadute, si progettò persino una calotta di carta, gratuitamente fornita dalle Cartiere Burgo.
In quel periodo, un commando inglese paracadutato tentò di far saltare l'acquedotto pugliese. L'azione si risolse in un mezzo fallimento, i danni furono riparati in pochi giorni e l'intero gruppo di commandos fu catturato. Baudoin inviò sul posto uno dei suoi più brillanti ufficiali, il maggiore Alberto Bechi Luserna, comandante il IV Battaglione. Egli interrogò i prigionieri ed apprese interessanti particolari: gli inglesi stavano approntando più divisioni di reparti paracadutisti ed aviotrasportati, con l'intento di arrivare sino a due Corpi d'armata. Baudoin trasmise il rapporto allo Stato Maggiore, insistendo sulla necessità di potenziare anche in Italia i reparti di fanti dell'aria. Cavallero, capo di Stato Maggiore generale, dispose (marzo 1941) la formazione del 1° Reggimento Paracadutisti, che venne infatti costituito in data 1° aprile con i battaglioni II, III e IV (il I era quello dei carabinieri) e affidato al comando del colonnello Riccardo Bignami, che sarà poi in Africa vice-comandante della divisione « Folgore ». In più, Cavallero si impegnò a costituire un altro reggimento entro cinque-sei mesi. In aprile si ebbe anche la prima azione bellica dei paracadutisti italiani: due compagnie del II Battaglione, al comando del maggiore Zanninovich, furono inviate alla conquista di Cefalonia. Baudoin accompagnò i « suoi ragazzi» all'aeroporto di Galatina, e, prima che s'imbarcassero sugli S.82, consegnò loro una bandiera da far sventolare sull'isola. I paracadutisti si calarono su Cefalonia ed ebbero ben presto ragione, senza colpo ferire, degli esigui reparti greci, quindi si imbarcarano su alcuni pescherecci ed occuparono anche le isole di Zante ed Itaca. Nel luglio del 1941 partì anche il I Battaglione, quello formato di carabinieri. Fu scaraventato in Africa, privato dei paracadute e mandato a contenere sulla Balbia l'avanzata inglese. Si coprì di gloria ad Eluet El Asel e al bivio di Lamluda, conquistando una medaglia d'argento alla bandiera dell'Arma. Con l'affluire di sempre più folti gruppi di allievi, la Scuola Paracadutisti si stava avviando allà congestione. Baudoin ne informò a voce Mussolini, poi, visto che non succedeva nulla, inviò al capo del governo una polemica relazione, elencando tutte le difficoltà e chiedendo che fosse affrontata urgentemente la radicale trasformazione di Tarquinia, .ops . pure che la scuola venisse trasferita a Viterbo. « I ripieghi adottati - concludeva la relazione - sono pur sempre ripieghi, che vanno a scapito dell'efficienza complessiva dei reparti e della condotta della guerra paracadutistica». Il rapporto ottenne qualche risultato: Mussolini dispose che fossero migliorate le attrezzature di Tarquinia, che fosse ampliato il « parco velivoli », che si studiasse la possibilità di costituire una seconda scuola all'aeroporto di Viterbo. Pretese però da Baudoin che entro la fine dell'anno fosse pronta all'impiego la 1• Divisione Paracadutisti. Proseguì pertanto a Tarquinia, a ritmo acce-
lerato, l'addestramento dei battaglioni V, VI e VII che avrebbero costituito il 2° Reggimento, e dei gruppi di artiglieria; poi, si passò ai battaglioni VIII, IX, X e XI. Il 1° settembre 1941 poteva essere costituita la 1a Divisione (che successivamente prenderà il nome di « Folgore » ). La divisione, dapprima su due reggimenti di fanteria ed uno d'artiglieria, venne poi integrata da un terzo reggimento di fanteria, oltre ai servizi. Chiese di comandarla uno dei più preparati generali dell'Esercito, Enrico Frattini, sino ad allora addetto all'ufficio del Capo di S.M., Roatta. L'addestramento per i reggimenti 2° e 3° fu addirittura vertiginoso. Si svolsero in media seicento lanci il giorno, e, per carenza di istruttori, si fu costretti a ricorrere agli ufficiali dei reparti, i quali, pur animati da un alto senso del dovere, non potevano certo avere quelle cognizioni tecniche che invece possedevano coloro che da due anni erano preposti all'istruzione lancistica degli allievi. Quando la I" Divisione è pronta, si comincia l'addestramento della costituenda za Divisione, la futura «Nembo>>. Su Baudoin gravano enormi responsabilità, soprattutto in vista dell'operazione C-3, vale a dire la conquista di Malta. Non basta avere nove battaglioni di ragazzi in gamba, occorrono rifornimenti, armi, · aerei, ufficiali osservatori e direttori di lancio. Egli si dà da fare, batte i pugni, tempesta gli alti comandi, ancora una volta ottiene qualcosa; ma di Malta - come vedremo - non si parlerà più e, di lì a qualche mese, a causa anche del suo linguaggio troppo schietto, il dinamico colonnello verrà trasferito.
Il capitano Leonida Turrini, capo-istruttore della Scuola di Tarquinia.
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~~ ..._\. Un lancio dalla torre di Tarquinia con paracadute frenato
Esercizio di lancio nel telo dalla torre della Scuola Paracadutisti di Viterbo.
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la famosa torre della Scuola Paracadutisti di Tarquinia. Era alta 52 metrì.
CAPITOLO III
Sfuma l'operazione C-3 La Scuola Paracadutisti di Viterbo
Il 18 aprile 1942 il capo di S.M., generale Cavallero, con il foglio d'ordini 1.5014, dispone l'approntamento dei direttori di lancio necessari allo impiego di 220 aerei operanti in formazione. I direttori di lancio dovranno essere almeno 145, comprese le riserve. Duecentoventi aerei possono trasportare 4.400 militari, con 75 ufficiali osservatori per paracadutisti, l'equivalente - grosso modo di una divisione. Secondo il foglio d'ordini firmato da Cavallero, tutto deve essere pronto per il 30 maggio 1942: il che sta a significare che l'occupazione di Malta verrà attuata verso i primi di giugno. Ma a Tarquinia, in quel momento, non sono disponibili più di una settantina di direttori di lancio e non è certamente pensabile di raddoppiarne il numero in un solo mese e mezzo. Baudoin decide di addestrare a ritmo accelerato alle funzioni di direttori di lancio tutti gli ufficiali e i sottufficiali istruttori. Non c'è altro da fare, anche se, così, la scuola rimane senza istruttori. Nel frattempo ha inizio la trasformazione in direttori di lancio di vecchi piloti dell'Aeronautica non più idonei a stare ai comandi di un aereo. Come osservatori vengono utilizzati ufficiali già qualificati « osservatori dall'aereo», che ricevono una infarinatura sulla tecnica degli aviosbarchi. L'operazione C-3 prevedeva il lancio su Malta di due divisioni paracadutiste, una tedesca e una italiana, successivi aviosbarchi e sbarchi dal mare. Degli italiani, oltre alla 1• Divisione, dovevano venire paracadutati due reparti speciali, e precisamente il Battaglione Nuotatori-Paracadutisti « San Marco » della Marina e il I Battaglione-Paracadutisti dell'Aeronautica. Il primo, lanciato in mare, avrebbe conquistato con un colpo di mano lo storico forte di San Luca, posto all'imbocco della Valletta; il secondo sarebbe piombato sugli aeroporti, impadronendosene di sor!)~esa allo scopo di permettere l'arrivo della divisione di fanteria aviotrasportabile « La Spezia » e dei primi rifornimenti. Un altro reparto dell 'Aeronautica, il Battaglione Riattatori « Loreto >>, sarebbe, subito dopo, sbarcato dal cielo per rendere
operativi i campi d'aviazione e per provvedere alla loro difesa. Altre divisioni italiane avrebbero partecipato all'azione sbarcando dal mare. Mentre la 1a Divisione veniva inviata in Puglia per un ciclo tattico - addestrativo in collaborazione con i tedeschi, Tarquinia continuava a sfornare paracadutisti e, nel contempo, entrava in funzione una seconda scuola a Viterbo, dove i battaglioni già costituiti proseguivano l'addestramento lancis.tico . A Tarquinia vennero forgiati i battaglioni che avrebbero poi formato la «Nembo» , i dut battaglioni della Marina è dell'Aeronautica destinati a prendere parte alla conquista di Malta, nonché le compagnie paracadutisti del X Arditi ( uno speciale reggimento dell'Esercito comprendente anche nuotatori e camionettisti per operazioni t ipo còmmandos) e un secondo battaglione dell'Aeronautica, l' ADRA (Arditi Distruttori Regia Aeronautica), anch'esso specializzato in azioni di sabotaggio in territorio nemico. Inoltre furono addestrati al lancio con paracadute nuclei di informatori dipendenti dal SIM, un gruppo di giovani fascisti inviati dalle federazioni provinciali, e persino una compagnia di indiani ex-prigionieri di guerra. Il mese di giugno 1942 vide l'avanzata di Rommel in Cirenaica, e dell'operazione C-3 cominciò a parlarsi sempre meno. Il 20 cadde Tobruk, Rommel chiese di continuare l'inseguimento delle colonne inglesi, e il permesso gli fu accordato, nonostante l 'opposizione di Cavallero e di Kesselring, i quali avrebbero voluto anteporre alla corsa verso l'Egitto la conquista di Malta allo scopo di garantire la regolarità nell'afflusso di rifornimenti al fronte dell'Africa Settentrionale. L'operazione C-3 finì con l'essere annullata. Il sogno di raggiungere Alessandria sfumerà ad El Alamein e sarà in questa località desertica, divenuta famosa per la battaglia che vi si combatté che la 1a Divisione Paracadutisti italiana, la quale 'aveva preso il nome di « Folgore » ed 'era stata inviata in Africa nel mese di luglio, scriverà una pagina di gloria talmente sublime da suscitare l'am-
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Pic-nic sull'erba al campo di aviazione di Tarquinia. Da sinistra: il capitano Salvetat, il colonnello Settica e il colonnello Baudoin.
mirazione persino del nemico. Quella che era stata definita « la più bella divisione del mondo » e per il cui addestramento erano state profuse tante energie, si sacrificherà nel compito impossibile di contenere l'avanzata del carri armati britannici. E solo parecchi anni dopo la guerra tanto stacrificio verrà ricompensato con la concessione di tre medaglie d'oro ai .reggimenti. Proprio nei giorni in cui, nel deserto eg1z1ano, si compiva l'epopea della «Folgore», giunse per Baudoin il momento di lasciare Tarquinia. Già una volta Mussolini aveva respinto la proposta di sostituire il comandante della Scuola Paracadutisti. Questa volta pare non ne sapesse nulla perché, il giorno stesso del trasferimento, il 7 novembre 1942, lo mandò a chiamare e gli chiese le ultime novità sui reparti di paracadutisti. « Non sapevo che lo ignoraste ... - rispose Baudoin - Io non sto più a Tarquinia. Mi hanno sbolognato ... ». Qualche settimana dopo il « papà del paracadutismo » assumeva il comando delle Forze Aeree della Corsica. Nel gennaio del 1947 veniva collocato in ausiliaria, nel marzo del '53 era nominato generale di brigata aerea e, alla fine del 1958, collocato nella riserva. Si spense improvvisamente a Roma, il 4 marzo 1963, rimpianto da tutti i « ragazzi » formatisi alla sua scuola.
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A succedere al colonnello Baudoin fu chiamato
il colonnello pilota Renato Di Jorio, il quale non era paracadutìsta. Alla fine di febbraio del 194 3, Di Jorio passò a comandare la Scuola di Viterbo, e a Tarquinia subentrò il colonnello pilota Luigi Gori Savellini, decorato di due medaglie d'argento e un.1 di bronzo al V .M. sul campo, insignito della medaglia d'oro di lunga navigazione aerea (oltre 1300 ore di volo di guerra). Nel periodo in cui era comandata da Gori Savellini, la scuola fu visitata per la prima volta dal re. Avvenne il 16 aprile 1943: Vittorio Emanuele si intrattenne due ore intere ad ammirare lo spettacolo di circa tremila soldati che si lanciavano con paracadute di vario colore e con ogni genere d'armamento, impegnati alla fine in una esercitazione tattica. Il nuovo comandante di Tarquinia non volle essere da meno degli uomini che dipendevano da lui, e si brevettò paracadutista, lanciandosi insieme con il tenente colonnello Umberto Klinger - altra bella figura dell'Aeronautica - e qualche giorno dopo di Erminio Spalla, ex campione di Europa di pugilato categoria pesi massimi, accorso ad arruolarsi volontario tra gli arditi del cielo. Il primo lancio del gigantesco Spalla fu un avvenimento. Data la sua mole eccezionale, bisognò ricorrere ad un paracadute usato per i contenitori da duecento chili. L'aereo, per maggiore precauzione, si alzò sino a duemila metri, e il buon Erminio si proiettò, senza alcuna esitazione, fuori dalle carlinga. Stette ad aspettare lo
strappo d'apertura ad occhi chiusi, poi prese a dondolare nell'azzurro, guardandosi attorno pieno di meraviglia e avvertendo dentro di sè un gran senso di pace, un'euforica gioia. Stava talmente bene in aria, che non si accorse di essere arrivato a terra, e non pensò a fare la capovolta. A Gori Savellini, che gli si faceva incontrò,· gridò « Mi scusi, signor colonnello, ho dimenticato la capriola; ma, se vuole, gliene faccio subito una ... ». E il comandante: « Non importa, non importa... Bravo Spalla!... La capovolta la farai la prossima volta ... ». Prima che, il 10 luglio 1943, per ordine del generale Cassiani Ingoni, che aveva sostituito il generale Del Lupo a capo di Esercitavia, la scuola fosse chiusa (rimase solo come campo d'appoggio), in un paio di settimane furono freneticamente brevettati paracadutisti, in un mare di ribollente entusiasmo, 147 ufficiali, 249 sottufficiali e 2.239 soldati di tutte le specialità. Così finì Tarquinia, fucina dell'ardimento, sorta dal nulla grazie alla tenacia di un uomo come Baudoin. Nei tre anni in cui egli fu a capo della scuola, furono eseguiti 56.170 lanci e brevettati paracadu-
tisti 10.728 militari. Circa altri cinquemila conquistarono l'agognato brevetto nei mesi successivi. Il 19 luglio 1943, nella luce obliqua del tramonto, un bombardamento « a tappeto » effettuato dagli americani distrusse l'aeroporto di Tarquinia. Presero fuoco i velivoli e un grosso deposito di benzina; vennero distrutti hangars, edifici, baraccamenti. A Viterbo prosegui l'addestramento dei complementi della «Nembo», del X Arditi e dell'ADRA (era in formazione un secondo battaglione di arditi distruttori, dopo che del primo battaglione, come vedremo, erano state impiegate varie pattuglie in azioni di sabotaggio). Inoltre vi furono brevettati altri battaglioni che avrebbero dovuto costituire la terza divisione di paracadutisti, « Ciclone ». Ma anche su Viterbo, qualche settimana dopo il bombardamento di Tarquinia, giunsero gli aerei americani che danneggiarono parte delle installazioni della scuola e dell'aeroporto. I danni furono riparati alla meglio, così da poter proseguire, seppure in condizioni critiche, sino alla fine del mese di settembre, allorquando sopraggiunse l'armistizio ed ogni attività venne sospesa. '
Tarquinia • Una pecora appena atterrata. Alla Scuola Paracadutisti vennero compiuti esperimenti di lanci di animali.
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Il generale Ramcke, comandante la divisione di paracadutisti tedeschi che avrebbe dovuto partecipare, insieme con la • Folgore •, all'occupazione di Malta. osserva sul campo di aviazione di Tarquinia il si:;tema di agganciamento del cannone da 47 /32 lanciato con un grappolo di paracadute.
Tarquinia, aprile 1942 • Il lancio di u11 cannone anticarro da 47 /32 sostenuto da cinque paracadute.
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PARTE TERZA
CAPITOLO I
Il I Battaglione Paracadutisti e il Battaglione «Loreto» dell'Aeronautica Loro sacrificio in Tunisia
Abbiamo già detto che, in vista dell'azione di Malta, l'Aeronautica aveva approntato due speciali reparti, il I Battaglione Paracadutisti e il Battaglione Riattatori « Loreto », aviotrasportato. Il Battaglione Paracadutisti della R.A. aveva il compito di: << agire su determinati campi d'aviazione nemici, in concomitanza con le truppe terrestri, per l'occupazione dei campi stessi e per il loro riattamento, necessario per l'atterraggio dei reparti aerei destinati al trasporto delle truppe aviotrasportabili )>; il Battaglione « Loreto » doveva « occupare i campi non appena le azioni terrestri ne avessero provocato lo sgombero da parte del ncmirn, e costituire, sugli aeroporti stessi, un nucleo servizi per il primo funzionamento e per la difesa ». Il Battaglione Paracadutisti si costitul a Tarquinia il 12 maggio 1942 e si chiamava inizialmente 1°
Reparto Paracadutisti Regia Aeronautica. L'addestramento degli avieri-paracadutisti ed cominciato ai primi di gennaio. Quando erano stati aperti gli arruolamenti per la specialità, si erano presentati oltre duemila volontari, ma solo quattrocento erano stati scelti e sottoposti ad un duro tirocinio. Dopo il corso paracadutistico, conclusosi con l'effettuazione di sei lanci, erano stati trasferiti alla Scuola del Genio di Civitavecchia, dove avevano fatto un corso completo di guastatori e di cacciatori di carri. Poi avevano effettuato una serie di esercitazioni a fuoco nelle campagne laziali. Al termine Jd lungo ciclo addestrativo, attendevano di essere impiegati nell'operazione C \ ma, sfumata l'occupazione Ji Malta, vennero « relegati » sul piccolo campo d'aviazione di Are7.zo.
Tarquinia, marzo 1942 • Addestramento al comb~ttimento dei paracadutist i del 1" Battaglione dell'Aeronautica.
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Paracadutisti del 1° Battaglione dell'Aeronautica durante il corso di guastatori alla Scuola del Genio di Civitavecchia, nell'aprile 1942.
La costituzione del « Loreto » avvenne a Cameri (Novara) il 10 giugno 1942. Quelli del «Loreto», a differenza dei paracadutisti che portavano sulla sahariana grigio- azzurra le mostrine blu con il gladio alato uguali a quelle dei fanti dell'aria dell'Esercito, avevano sul bavero « fiamme » di colore azzurro. Sulla manica sinistra della giubba avevano il distintivo di ardito, un gladio romano contornato da rami d'alloro. Essi rimasero a Cameri sino al novembre del 1942, poi furono trasferiti in Sicilia, a Marsala, da dove due compagnie raggiunsero in seguito la Tunisia. Il 16 novembre è la data in cui i due battaglioni formarono il Reggimento d'Assalto « Duca d'Aosta », posto al comando del colonnello pilota Donatello Gabrielli. Del reggimento fece parte all'inizio, sulla
Lancio di paracadutisti dell'Aeronautica alla Scuola di Tarquinia.
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carta, anche il Battaglione Distruttori, divenuto poi un battaglione autonomo, denominato ADRA (Arditi Distruttori Regia Aeronautica) e addestrato a Tarquinia con compiti completamente diversi dagli altri due battaglioni. Singolare sorte, quella del reggimento « Duca d'Aosta», il quale non vide mai riuniti tutti i suoi reparti: essi furono mandati in combattimento a spizzichi, vennero rinsanguati con elementi tratti dal personale di governo del!' Aeroi;iautica della Tunisia, si comportarono bravamente al fuoco, e, alla fine caddero prigionieri con la I Armata comandata dal maresciallo Messe.
Il primo a partire per l'Africa fu il Battaglione Paracadutisti, composto di quattro compagnie. Il comandante, tenente colonnello pilota Edvino Dalmas, ardito della grande guerra, transitato poi nell'Arma azzurra, aveva pensato di risollevare il morale dei suoi ragazzi, delusi per il mancato impiego, mandandoli in massa in licenza. Cosicché, nel momento in cui giunse l'ordine di partenza, ad Arezzo c'erano solo i piantoni e qualche scritturale. Il colonnello Dalmas si affrettò a spedire telegrammi e, nel giro di poche ore, tutti i paracadutisti accorrevano alla base I .308 parà azzurri - a tanto ammontava la forza del battaglione - lasciarono Arezzo in treno, diretti a Trapani. Qui s'imbarcarono su due vecchie « carrette ». Destinazione: Biserta ( 12 ). Infatti, i primi di novembre, dopo la vittoria di El Alamein, gli anglo-americani erano sbarcati in Marocco ed in Algeria e, avuto ragione della sporadica « dimostrativa » resistenza francese, si erano diretti a marce forzate verso la Tunisia, estremo baluardo africano per le truppe italo-tedesche. Di fronte alla grave minaccia che si profilava, il comando supremo aveva deciso l'invio immediato di rinforzi dall'Italia . Tra i reparti fatti affluire in Tunisia c'era, appunto, il Battaglione Paracadutisti dell'Aeronautica, che avrebbe dovuto occupare e difendere i campi di aviazione. A Biserta, i .308 di Arezzo furono accolti, il 16 novembre 1942, da una violenta incursione aerea. Passata la « buriana» , si inquadrarono sulla banchina. Si presentò l'ammiraglio Biancheri, che, salito su un bidone vuoto · di benzina, fece ai paracadutisti press'a poco questo discorso: « Ragazzi, qui tutti ci guardano: italiani, tedeschi, francesi , inglesi, americani e tunisini. E' una buona occasione per farsi onore. Sotto, dunque, e viva l'Italia! ». Con tale viatico, i parà azzurri vengono avviati a piedi verso il nodo stradale di Menzel Djemil, a sud di Biserta, donde si presume debbano passare le avanguardie anglo-americane. E' arrivato, dunque, il momento dell'impiego; un impiego ben diverso da quello per il quale s'erano con tanto ardore preparati. Iiente paracadute, niente attacchi al nemico con lanci dal cielo: armati soltanto di mitra, bombe a mano e pugnali, sprovvisti persino di elmetti, hanno un compito molto semplice: fermare in qualche modo, se li avvisteranno, i carri nemici. Si schierano a difesa, secondo gli ordini. Ma a Menzel Djemil non c'è nessuno, e a Dalmas pare assurdo dover aspettare l'avversario, senza andargli incontro per contrastargli il passo. L'indomani, 17 novembre, infatti, dopo un incontro tra il generale Benigni, il generale Nehring, l'ammiraglio Biancheri e un rappresentante francese, il battaglione, con camion requisiti, si sposta a sud-ovest di Biserta, in prossimità del villaggio di Djebel Abiod, dove si sta avvicinando una colonna della I Armata inglese. Nell'abitato ci sono alcune casermette occupate dai
francesi, i quali assumono un atteggiamento ambiguo: non si riesce a capire da che parte stiano, se con Petain o con De Gaulle, sinché non aprono il fuoco contro i paracadutisti. Breve scontro, e susseguente cattura di un gruppetto di gollisti. Poi si va avanti, sino a prendere posizione di fronte a tre collinette. Qui i nostri incontrano un piccolo reparto di pionieri-paracadutisti tedeschi, al comando del maggiore Witzig, resosi celebre all'inizio del conflitto per aver conquistato con un'ottantina di uomini scesi in aliante il munitissimo forte belga di Eben Emael. I tedeschi dispongono di due semoventi: è già qualcosa. Ma cominciano a piovere le cannonate inglesi, e bisogna cercare riparo. Dalmas fa scavare buche, distanti l'una dall'altra una ventina di metri, e fa attestare i suoi uomini, due in ogni buca. I due comandanti, l'italiano e il tedesco, si trovano d'accordo: non attenderanno l'attacco nemico, ma lo preverranno. Il giorno prima, infatti, 20 novembre, erano state avvistate le avanguardie britanniche della 783 Brigata di fanteria appoggiata da due reggimenti di artiglieria da campagna, che avevano preso posizione di fronte a loro. Paracadutisti italiani e tedeschi sono, in tutto, 350, ma si tratta di soldati scelti, abituati all'azione rapida e irruenta. Ai nostri viene assegnato il compito più gravoso: occupare le tre collinette sulle quali sono attestati gli inglesi; gli uomini del maggiore Wiczig debbono prendere d'assalto, e conquistarlo, il villaggio. Tre plotoni del battaglione di Dalmas condurranno l'attacco, al comando dei tenenti Messina, Carfagnini e Silvestri; gli altri rimarranno schierati nelle improvvisate trincee, per contenere la reazione nemica, in caso di fallimento. Il pomeriggio del 21 novembre i tre ufficiali . compiono una ricognizione del terreno. Viene deciso che l'azione avrà inizio aUe 21. Ed a quell'ora, alla lùce spettrale di una luna calante, i paracadutisti cominciano a muoversi cautamente, scendono strisciando nel valloncello che separa le loro posizioni da quelle nemiche. E' inteso che il tenente Silvestri occupi col suo plotone la collina di centro e coordini l'avanzata degli altri due plotoni. Prima dell'alba i paracadutisti azzurri sono lanciati all'assalto. Piombano nelle posizioni nemiche, sorprendono i tommies, che tentano invano di abbozzare una difesa. L'azione frutta la cattura di 150 prigionieri. Durante la notte anche i pionieri tedeschi erano partiti alla conquista del villaggio, ma erano dovuti tornare indietro a causa della resistenza di soverchianti forze avversarie che operavano al coperto dell'artiglieria. Il fallimento dell'attacco tedesco non fa desistere gli italiani dal condurre a termine la loro missione. Stabiliti i collegamenti con i plotoni di Messina e di Carfagnini, il tenente Silvestri dispone per la sistemazione a difesa delle posizioni conquistate. Ma, mentre i paracadutisti
5.3
stanno ancora rastrellando il terreno, s1 scatena, furiosa, la reazione avversaria. Granate da 105 attivano sulle posizioni italiane di partenza, sull'avvallamento intermedio e sulle colline appena occupa te, che vengono anche martellate ai fianchi dal fuoco di armi automatiche pesanti. Uno dei primi a cadere è il paracadutista triestino Giovanni Raengo, colpito da una scheggia e dilaniato dall'esplosione delle bombe che aveva nel tascapane. Poi cade Bargellesi, altri sono feriti. Uno di essi, il paracadutista Giacomazzi, colpito al ventre, non può essere subito soccorso e muore dissanguato. Da!Ie colline, il tenente Silvestri chiede che i due semoventi aprano il fuoco, ma ciò non è possibile per manca1,za di munizioni. Dopo l'azione dell'artiglieria, gli inglesi passano al contrattacco, la pressione è forte, specialmente sulla collina di mezzo. Vengono chiesti rinforzi, ma non si può sganciare la sottile linea di difesa arretrata italo-tedesca. Il combattimento prosegue, incalzante, violento. Ad un certo punto i plotoni dei tenenti Carfagnini e Messina, non riuscendo più a contenere la reazione nemica, sono costretti a ripiegare sulla collina di centro. E qui la lotta si fa sanguinosissima. Rifulge il valore del primo avlere paracadutista Enzo Albertazzi, da Savona. Sebbene addetto al comando, aveva voluto partecipare all'azione. Quando si scatena il contrattacco, egli si apposta dietro una roccia, imbracciando il mitra, e, con una calma impressionante, abbatte tutti i nemici che gli si presentano a tiro. E' circondato, continua a sparare brevi raffiche, poi tira fuori dal tascapane le bombe a mano e si difende con quelle. Viene visto l'ultima volta mentre, in una feroce lotta a corpo a corpo, brandisce il mitr!l' per la canna, come una clava. Cade da eroe anche il tenente Michelangelo Messina. Si batte coraggiosamente sino a quando è colpito da una raffica al ventre. I suoi soldati lo trascinano al riparo; ed egli, conscio della fine imminente, chiede che gli mettano in bocca una sigaretta, che gliel'accendano. Tira una boccata, e spira. Muoiono un sottufficiale e tre paracadutisti. Il tenente Emilio Carfagnini e i sergenti Mantovani e Paroni vengono visti cadere tra i nemici. Li credono morti; invece, gravemente feriti, saranno raccolti dagli inglesi e curati in un ospedale da campo. Rientreranno nel dopoguerra in Italia, dopo anni di prigionia. Cadono in mano nemica anche il resto degli uomini del tenente Messina e quasi l'intero plotone del tenente Carfagnini. Rimasto con pochi superstiti, il tenente Silvestri, manovrando brillantemente, contiene la preponderanza nemica; quindi, vista l'impossibilità di mantenere la posizione, decide di ripiegare, mentre il nemico intensifica il fuoco e fa entrare in azione anche i mezzi corazzati. Silvestri riesce a rientrare nelle nostre linee, nonostante sia stordito da una granata scoppiatagli vicinissima, recando in salvo i superstiti, tra cui sette ferì ti. 54
Gli inglesi continuano ad avanzare e la lotta si riaccende. Anche il comandante di battaglione rimane ferito. Portatosi in posizione avanzata, scende in una buca occupata da due uomini, ove cade una granata che provoca l'esplosione di una quarantina di bombe a mano, ferendo Dalmas e i due paracadutisti. Accorre, in loro soccorso, saltando fuori da una buca vicina, il tenente Riello, della compag1.i~ comando; l'atto generoso gli salva la vita perché un'aitra granata esplode nella sua buca subito dopo che l'ha abbandonata. Dopo il ferimento di Dalmas, ci fu un momento in cui sembrò che i paracadutisti stessero per essere sopraffatti. Ma l'intervento coraggioso del tenente Mario Rinaldi valse ancora una volta a contenere il nemico. Ricevuta una sommaria medicazione, Dalmas tornò tra i suoi uomini e, con l'aiuto del tenente Rinaldi, ricostituì la linea difensiva. Parecchi arabi si unirono volontariamente ai paracadutisti. Il combattimento si spezzettò in decine di episodi. Si distinse in particolar modo il personale sanitario del reparto. Il capitano medico Alberto Verona, trasformatosi da soccorritore in combattente, sostituì un ufficiale caduto e galvanizzò con il suo esempio i paracadutisti. Un altro medico, il sottotenente Franco Bini, già campione italiano di salto triplo, usd allo scoperto sotto il fuoco intenso quando vide un arabo che stava faticosamente trascinando un ferito, e portò entrambi in salvo entro le linee. Il sergente di sanità Francesco Flumero, mentre stava recuperando i feriti, venne fatto segno ad un fuoco concentrato. Continuò nella sua opera pietosa, fu colpito da numerose schegge e catturato. Il battaglione riuscl a fermare per parecchie ore gli inglesi, poi arretrò, formando un'altra linea difensiva. Le perdite erano state pesanti: u n centinaio di uomini tra morti e dispersi, molti i feriti, tra i quali lo stesso tenente colonnello Dalmas, che .fu costretto a separarsi dai suoi uomini. Il comando venne assunto dal capitano Aldo Molino, già comandante di battaglione. Sulle nuove posizioni, nella zona di Djebel el Azag-Djebel el Ajred, dove trovarono due compagnie del battaglione Witzig, i paracadutisti azzurri resistettero altri sei giorni, compiendo miracoli per contenere la pressione nemica. Si ebbero altri caduti, altri feriti; ma il loro sacrificio concorse validamente a consentire ai reparti giunti in tutta fretta dall'Italia di costituire quella solida linea difensiva grazie alla quale le forze italo-tedesche potettero resistere sino al 13 marzo 1943. Il 28 novembre arrivò l'ordine di arretrare sulle posizioni di Jefna, per difendere l'accesso alla rotabile per Biserta. Successivamente il battaglione fu a Mediez el Bab e a Medjerda, quindi venne destinato alla difesa delle basi aeree. Fu inviato prima a Tripoli, poi a Gabes, infine a Sfax, dove giunse all'inizio del gennaio 1943.
In quei giorni anche il Battaglione « Loreto » che, come abbiamo visto, era di stanza a Marsala, ebbe l'ordine di trasferirsi in Tunisia. Ma soltanto due compagnie, la l.a e la 2.a, poterono partire; la partenza delle altre due fu procrastinata e poi, per sopravvenute difficoltà di trasporto, annullata. Rt dotte di personale, mancanti quasi al completo di ufficiali, le compagnie 3.a e 4.a saranno, dopo alcuni mesi, mandate in Sardegna dove rimarranno sino al1'8 settembre. In seguito, alcuni elementi di queste due compagnie concorsero a formare un reparto di avieri-fanti ( il Battaglione Azzurro) che si costituì nel Sud e prese parte alla guerra di Liberazione. Le compagnie del « Loreto» giunte in Tunisia nel gennaio I 94 3 furono adibite alla difesa costiera e antiparacadutistica, oltre che dei campo di aviazione, con dislocamento la l .a compagnia a Enfìdaville, la 2.a a La Marsa. Quest'ultima fornl anche i distaccamenti per gli aeroporti di Gammarth e di Hiserta. In quel periodo venne deciso di ricostituire organicamente il Reggimento d'Assalto della R. A. « Amedeo d'Aosta», riunendo i due battaglioni che lo componevano -il I O Paracadutisti e il « Loreto )> - e ricoprendone i vuoti con personale tratto dalla 5 .a Squadra Aerea, comandata dal generale Bernasconi. E, poiché era previsto l'impiego del reggimento in prima linea, venne sollecitata allo Stato Maggiore del Regio Esercito la fornitura di mitragliatrici, cannoni da 42 per il tiro di accompagnamento, cannoni anticarro da 47 /32 e relativo muntztonamento. A tale proposito, con dispaccio IB/4266 del 1° marzo 1943, Superaereo proponeva di far integrare l'armamento del reggimento a cura della I Armata di Messe e di far compiere ai due battaglioni, prima di inviarli in linea, addestramento di fanteria nelle retrovie. Ciò, tuttavia, non fu possibile per l'incalzare degli avvenimenti bellici, e, all 'atto pratico, il reggimento (7 compagnie più la compagnia comando) ebbe, alla sua costituzione, l'organico incompleto e un armamento assolutamente deficiente. Il Battaglione Paracadutisti (comandante: cap. Aldo Molino) era basato su tre compagnie (la quarta - si disse - sarebbe stata costituita in futuro con ex-avieri di governo): le prime due di fu. cilieri, composte di 196 paracadutisti superstiti dei combattimenti dell'inverno precedente; la terza, di
mitraglieri, formata da 119 avieri forniti dalla 5.a Squadra Aerea. I sottufficiali erano undici, gli ufficiali sette (2 capitani, 4 subalterni e un medico ). L'armamento era costituito da: 12 mitragliatrici Fiat cal. 8, 12 fucili mitragliatori, 196 moschetti mod. 91, 2.532 bombe a mano. Il Battaglione «Loreto» (comandante: magg. Dal Masso) disponeva, invece, di quattro compagnie (le prime due di fucilieri , arrivate in Tunisia dalla Sicilia, le altre due di mitraglieri, con personale tratto dalla 5 .a Squadra Aerea), per un totale di 389 militari di truppa, 21 sottufficiali e 9 ufficiali ( 1 ufficiale superiore, 3 capitani, 4 subalterni, 1 medico). L'armamento era il seguente: 10 mitragliatrici Fiat cal. 8, 6 mitragliatrici Breda 32 cal. 8, 30 fucili mitragliatori, 450 moschetti, 1926 bombe a mano. Prima di essere inviato in linea, all'inizio di aprile, il reggimento fu però infoltito sino ad avere una forza di 1.545 uomini di truppa, 85 sottufficiali e 49 ufficiali, alcuni dei quali provenienti dal Regio Esercito. Anche l'armamento migliorò, pur rimanendo sempre al di sotto delle necessità. L'll aprile I 943 ebbero il battesimo del fuoco gli avieri-fanti del « Loreto», nella zona di Enfidaville. Qui le forze italiane - divisioni « Trieste » e «Pistoia» e Reggimento « Amedeo d'Aosta» della R. A., quest'ultimo aggregato alla « Pistoia » Jal 18 aprile - si batterono tenacemente per circa un mese, sino al I 3 maggio, nelle due battaglie d ifensive di Enfidaville. Per giorni e notti il fu t) co nemico 11011 dette tregua alle nostre posizioni, al punto da rendere spesso impossibile far giungere il rancio in linea. Ma gli avieri, sebbene costretti a nutrirsi con qualche galletta e a far a meno dell'acqua, sempre si distinsero per spirito combattivo. I vuoti si fecero più sensibili: dei « vecchi » paracadutisti che avevano preso parte al fatto d'arme di Djebel Abiod non era rimasta cì1c una sparuta pattuglietta; ma le posizioni furono mantenute sino all'ultimo. Sin quando, cioè, avvenuta, alle ore 14 del 13 maggio 1943, la capitolazione della I Armata, anche le truppe schierate sulla linea di Enfidaville cessarono il fuoco. I superstiti del Reggimento d'Assalto « Amedeo d'Aosta» della Regia Aekmautica caddero così prigionieri, seguendo la sorte degli altri sfortunati difensori del!' ultimo nostro lembo d'Africa.
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Tunisia. 1943 - Una rara fotografia di paracadutisti del 1° Battaglione dell'Aeronautica in azione.
CAPITOLO II
Il Battaglione ADRA Le azioni da commandos in Africa Settentrionale'
Una circolare della Stato Maggiore della Regia Aeronautica, in data 28 luglio 1942, a firma del generale Santoro, sottocapo di S.M., diceva: « Avrà prossimamente inizio a Tarquinia un corso di "arditi distruttori R.A.", le cui finalità sono della più alta importanza, e richiedono la partecipazione di elementi sceltissimi, sia nel fisico che nello spirito, per il complesso di difficili operazioni che possono essere chiamati a compiere in gruppi di consistenza limitata e superando difficoltà di ordine molto elevato. « La forma normale d'impiego di questi reparti di distn1ttori sarà principalmente con il lancio con paracadute, ma è previsto altresì che possano essere impiegati con altri mezzi di trasporto, come sommergibili, battellini, alianti, ecc. « La loro azione dovrà principalmente essere diretta contro gli impianti aeronautici nemici e contro il materiale di volo. « I partecipanti al corso, tutti volontari, dovranno essere tratti dal personale della Regia Aeronautica attualmente alle armi ... ». E, più avanti: « I partecipanti a questo speciale corso di arditi paracadutisti, oltre alla prestanza fisica, dovranno possedere le seguenti caratteristiche: volontarismo puro, carattere spregiudicato, arditismo, spirito di iniziativa e di avventura, uniti ad un elevato senso di disciplina e di dedizione alla Patria ... ». La decisione di costituire un reparto di arditi capaci di portare a termine audaci missioni in territorio nemico fu presa dallo Stato Maggiore del1'Aeronautica (come del resto da quello dell'Esercito che diede vita ad una formazione militare analoga all'ADRA, il X Reggimento Arditi) dopo i frequenti tentativi di sabotaggio effettuati ai nostri danni dai « commandos >> e da altri speciali nuclei inglesi, quali il « Long Range Desert Group » e il « Sas ». Si pensò di inviare anche noi pattuglie di sabotatori ali'attacco di obiettivi lungo le coste controllate dal nemico, e anche all'interno con lo scopo di colpire
campi di avìazione, depositi di carburante e di munizioni, ecc. Così come era stato per il I Battaglione Paracadutisti, anche per l'ADRA l'afflusso di volontari fu maggiore di quanto si potesse prevedere: coloro che furono scelti, erano veramente l'élite sia per prestanza fisica che per doti morali. L'addestramento venne curato sin nei minimi particolari: atletica, lotta giapponese, nuoto, voga, esercitazioni col pugnale, lanci di bombe a mano, tiri con la pistola, con il moschetto, con il mitra, uso del lanciafiamme, ecc. Inoltre : addestramento alla forma di lotta propria dei larmente ad una forma di combattimento propria dei reparti sabotatori: combattimenti di notte e nella nebbia, negli abitati; passaggi di corsi d'acqua; guerriglia; danneggiamento di campi d'aviazione; distruzione di velivoli, di ponti, acquedotti, depositi; interruzioni stradali e ferroviarie. Ciascun ardito doveva essere in grado di orientarsi con la bussola, di leggere alla perfezione le carte topografiche e di interpretare le aerofotografie; avere cognizioni pratiche di aggressivi chimici, conoscere la tecnica dei collegamenti. Doveva anche saper guidare motociclette, automezzi, camionette e cavarsela alla guida di carri armati. , A ciò si aggiungano le esercitazioni al nuoto con indosso l'intero equipaggiamento, le esercitazioni di sbarco marittimo e di sbarchi aerei da velivoli e da alianti, oltre, ovviamente, alle esercitazioni di lancio con il paracadute (quattro lanci diurni terrestri e due diurni in acqua, due notturni terrestri e due notturni in acqua, da altezze veriabili dai 250 ai 120 metri). Dopo il corso di Tarquinia un aviere-paracadutista poteva essere considerato veramente un soldato eccezionale, capace di affrontare ogni situazione. Pur tuttavia ·detta preparazione non veniva ritenuta completa; infatti, conclusa questa fase aàdestrativa, gli arditi venivano inviati alla Scuola del Genio di Civitavecchia, ove seguivano un altro cor-
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so: quello di guastatori, perfezionando gli insegnamenti appresi a Tarquinia in fatto di esplosivi e di tecniche distruttive. G li uomini dell'ADRA furono riuniti, nel febbraio 19·0, in un battaglione, comandato dal capitano Araldo De Angelis e composto di tre compagnie ciascuna su nove squadre, o pattuglie, di nove avieri e un graduato, in tutto 270 mi litari di truppa, piì:i 24 sottufficiali e 11 ufficiali. Comandavano le
compagnie i tenenti Enrico Cinquepalmi, Giuseppe Vosca e Franco Maffei. Nell'aprile assunse il comando <lei reparto il tenente colonndln Dalmas, già comandante del 1° Battaglione: Paracadutisti dell'Aeronautica, il quale era stato ferito. come si ricorderà, nel combattimento di Djcbcl Abiod ed aveva trascorso un lungo periodo in ospedale e nel convalescenziario di San Remo. ( 1.3)
Un ardito paracadutista dell'ADRA mentre scaglia una bom(( ba a mano durante l'addestramento a Civitavecchia, nel marzo 1943.
lancio di paracadut isti l'ADRA da un SM-82.
del- ))
dell'ADRA in addestraa Tarquinia. nel febb raio
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Nella primavera del 1943 il Battaglione era, dunque, pronto per l'impiego. Fu stabilito che nelle azioni sarebbero state lanciate pattuglie di nove arditi ciascuna, al comando di un ufficiale o di un sottufficiale. L'equipaggiamento individuale di questi speciali soldati era, naturalmente, alquanto più pesante di quello degli altri paracadutisti. Ogni ardito, infatti, doveva portare con sé, oltre al normale armamento, uno zainetto pieno di esplosivi. Tale carico avrebbe richiesto un paracadute di maggiore portanza: per ovviare all'inconveniente, venne allora escogitato un piccolo paracadute suppletivo da applicare allo zainetto e trattenuto dal paracadutista mediante una apposita funicella, lunga una decina di metri, legata alla cintura. Lo zainetto, al momento del lancio, veniva fissato al petto. Una volta apertosi il paracadute principale, l'uomo si liberava dello zainetto facendone nel contempo funzionare il paracadute suppletivo, quindi, per impedire che il vento lo trascinasse lontano, se lo portava appeso « al guinzaglio». Ciascun ardito disponeva, inoltre, di una bussola in plastica, a perfetta tenuta d'acqua, fosforescente, con liquido interno per frenare le oscillazioni del piatto indicante il nord magnetico.
Ad ogni pattuglia venivano, di volta in volta, consegnate carte topografiche, spesso in seta, delle zone in cui venivano lanciate, orologi impermeabili fo. sforescenti, binocoli, monete dei paesi nei quali dovevano operare. Per i mezzi di sostentamento, gli arditi ricevevano, prima della partenza, tre giornate di viveri speciali, altamente vitaminici, e portavano appesa alla cintura una borraccia piena d'acqua. Mediante contenitori, venivano, inoltre, lanciate altre provviste di viveri e di acqua. Nel giugno 1943 arrivò il momento dell'azione per gli arditi dell'ADRA. Sin dai mesi precedenti era stato studiato dallo Stato Maggiore dell'Aeronautica un piano di distruzione di aerei e di attrezzature aeroportuali in alcune basi nemiche dell'Algeria, della Tunisia e della Libia. Fra tutti i campi africani fo. tografati dai ricognitori, erano stati scelti quelli dove era concentrato un maggior numero di velivoli angloamericani, e precisamente: La Senia e Tafaraui, Blida, Biskra, Oulmene (Algeria); El Diem (Tunisia ); Castel Benito (Tripolitania); Bengasi e Benina (Cirenaica).
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li generale pilota Cappa, ispettore dei reparti aviotrasportati della R.A., in visita al Battaglione ADRA, nel 1943, a Tarquinia.
Tarquinia, 1943 - Il comandante del Battaglione ADRA. tenente colonnello Edvino Dalmas (al )) centro) durante la visita di un gruppo di alti ufficiali dell'aeronautica.
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A fine maggio dieci pattuglie di arditi, personalmente scelte dal tenente colonnello Dalmas, che aveva coordinato l'azione insieme con il tenente colonnello Klinger sotto la direzione del generale Cappa, furono trasferite da Tarquinia a Rimini. Qui vennero raggiunte da quattro pattuglie del X Arditi del R.E. destinate ad operare insieme con l' ADRA. Nella cittadina adriatica i 140 uomini trascorsero un breve periodo di riposo, mentre gli ufficiali superiori mettevano a punto gli ultimi dettagli. Venne fatto di tutto per mantenere il massimo segreto sullo scopo delle missioni e sui paesi ove si sarebbero svolte. Soltanto 1'11 giugno, un giorno prima della partenza
ti le pattuglie ebbero la sensazione - e lo riferirono al loro ritorno dalla prigionia - di essere « attesi » quando atterrarono in territorio nemico. Un paracadutista affermò perfino di aver riconosciuto in uno degli ufficiali inglesi che lo interrogarono dopo la cattura un tizio che qualche giorno prima egli aveva visto a Rimini. Altri dichiararono che gli inglesi conoscevano i nomi dei capipattuglia. Il 12 giugno, da Rimini, le quattordici pattuglie raggiunsero le seguenti basi di partenza approntate dallo Stato Maggiore dell'Aeronautica: Salon en Provence (Francia Meridionale), Decimomannu (Sardegna), Gerbini (Sicilia), Iraklion (Creta). Alla prima
Tarquinia, 1943 - Paracadutisti dell 'ADRA. Al centro, (( con la croce sul petto, il cappellano del reparto, don Zinaghi, detto l'aeroprete.
Pattuglia di paracadutisti dell 'ADRA aviolanciata per azione )) di sabotaggio in Africa Settentrionale.
da Rimini, i componenti le pattuglie furono messi al corrente di ciò che avrebbero dovuto fare e p9terono studiare su carte topografiche le zone di lancio e le eventuali rotte da seguire. Eppure, non è da escludere che lo spionaggio anglo-americano fosse venuto a conoscenza dell'operazione. Infatti, molti componen60
base affluirono tre pattuglie, rispettivamente al comando del ten. Giuliattini (X Arditi), del sottotenente Marvulli (ADRA), del sottotenente Confetto (ADRA); alla seconda base, tre pattuglie, comandate dal sottotenente Rizzo (X Arditi), dal sergente maggiore Stramaccioni (ADRA), dal sergente mag-
giore Pennacchiotti (ADRA); alla terza base, quattro pattuglie, al comando del sergente Carraretto (ADRA), del sergente Di Giusto (ADRA), del sottotenente Pizzianico (X Arditi), del sottotenente Degli Effetti (ADRA); alla quarta base, quattro pattuglie, comandate dal tenente Baccaro (ADRA), dal sottotenente Di Tommaso (X Arditi), dal sottotenente Balmas (ADRA) e dal sottotenente Comis (ADRA). Da questi campi-trampolino le pattuglie furono poi trasportate, per mezzo di undici SM.82, la notte fra il 13 e il 14 giugno, sui vari obiettivi. Le partenze si susseguirono nell'arco di tempo di due ore, dalle 19,30 alle 21 ,30, ed entro le 2,10 del 14 giugno tutte le pattuglie erano state lanciate ed avevano preso terra ad eccezione di tre che non erano potute partire da Gerbini in quanto un improvviso attacco aereo '{la cosa parve molto strana trattandosi di un campo d'aviazione da tempo abbandonato e quasi fuori uso) distrusse un SM.82 e ne danneggiò un altro. Ecco, in dettaglio, come avvennero le partenze. Dalla base di Salon en Provence: partenza alle ore 20,05 di un SM.82 con la pattuglia del tenente Giuliattini, lanciata alle ore 2,10 a sud della Sebca di Orano (obiettivo dell'azione: aeroporto di La Senia e Tafaraui); partenza alle 20,10 di un SM.82 con la pattuglia Marvulli, lancio effettuato alle 2,10 ( obiettivo: lo stesso della precedente pattuglia); partenza alle 20,15 di un SM.82 con la pattuglia Confetto, lanciata alle 2,05 (obiettivo : aeroporto di Blida). Dalla base di Decimomannu : partenza alle ore 20,40 di un SM. 82 con la pattuglia Stramaccioni, lanciata alle 0,15 (obiettivo: aeroporto di Biskra); partenza alle ore 21 di un SM.82 con la pattuglia Pennacchiotti, lanciata alle ore 1,15 (obiettivo: aeroporto di Biskra); partenza alle 21,30 di un SM.82 con la pattuglia Rizzo, lanciata alle ore 0,05 (obiettivo: aeroporto di Oulmene). Dalla base di Gerbini: partenza alle 20,55 di un SM. 82 con la pat tuglia Di Giusto, lanciata alle 0,30 (obiettivo: aeroporto di El Diem). Le pattuglie Pizzianico, Degli Effetti e Carraretto, destinate all'aeroporto di Castel Benito (Tripoli), non poterono partire per il bombardamento di cui abbiamo detto, Dalla base di Iraklion partì alle ore 19 ,30 un SM.82 con le pattuglie Baccaro e Di Tommaso. Nello stesso apparecchio presero posto il maggiore del!'Aeronautica Marco Beltramo e un radiotelegrafista dell'Esercito, i quali parteciparono alla missione non in veste di guastatori, ma per comunicare in Italia con la radiotrasmittente i risultati delle azioni. Il lancio avvenne alle ore 0,10 del 14 giugno. Obiettivo: gli aeroporti di Bengasi. Dalla stessa base, mezz'ora dopo, alle 20, partì un secondo SM.82 con le
pattuglie Balmas e Comis, lanciate alle 23,15 (obiettivo: aeroporti di Benina). « Purtroppo, quasi tutti gli aerei si legge nella relazione compilata parecchi anni dopo dal colonnello Dalmas - si allontanarono dalla rotta designata per i lanci, che furono così effettuati in zone molto distanti dalle località prescelte, con l'effetto di determinare un grave disorientamento tra le nostre formazioni che non riuscivano a stabilire i necessari punti di riferimento per l'esatta determinazione delle località dove avevano preso terra e la successiva localizzazione degli obiettivi. Oltre a ciò, un fortissimo vento a raffiche, che imperversava su tutte le zone di lancio, rese estremamente difficile l'atterraggio degli arditi. Molti furono i contusi e i feriti, e, poiché la furia del vento aveva tutto disperso su largo fronte, lenta fu la ricomposizione delle pattuglie e lunga e faticosa, e talvolta inutile, la ricerca dei contenitori e di altro materiale spazzato via dal vento». E, più avanti, si legge ancora: « Alcuni arditi, durante la ricerca del materiale disperso, s'imbatterono in bande di arabi armati con le quali non poterono evitare il conflitto a fuoco. Ci furono feriti da entrambe le parti. Tutto ciò provocò in campo nemico vivo allarme che si diffuse subito in tutto il territorio dell'Africa Settentrionale. Venne così a mancare l'elemento fondamentale per il buon esito dell'azione : la sorpresa». Ed, infatti, dalle intercettazioni delle trasmissioni radio nemiche, i nostri comandi appresero ben presto che la missione degli arditi era destinata al fallimento. Fin dal mattino del 15 giugno la stazione radio inglese di Apollonia aveva trasmesso in chiaro a tutti i reparti alleati: << Ore 9 ,11 . Circa cento cacciatori-paracadutisti nemici atterrati tra Bu Amud e Bengasi. Ci vuole massima vigilanza. Ammazzate o catturate ogni paracadutista >>. Lo stesso giorno era stata intercettata la . seguente comunicazione effettuata dalla stazione radio di Apollonia a un posto di avvistamento imprecisato: « Un cacciatore-paracadutista visto nella strada ad ovest della vostra posizione. State bene attenti ». Quindi, dal 99° sottosettore era stato comunicato alla 38a batteria della 17 Brigata antiaerea: « Il 14.6, di notte, fra Bu Amud e Bengasi, hanno atterrato cacciatori-paracadutisti nemici, vestiti con lunghi calzoni gonfi, giacche color sabbia e scarpe color marrone e bianche. Debbono essere uccisi o catturati>>. Un'altra intercettazione, nei giorni successivi, lasciava chiaramente comprendere che ormai la caccia all'uomo stava per concludersi: « Due dei paracadutisti atterrati fra Bu Amud e Bengasi durante noite fra 1.3 e 14 giugno non sono stati ancora catturati. Uno di essi veste uniforme inglese che habet rubato ». Come si vede, non soltanto la sorpresa era mancata, ma gli anglo-americani avev_ano potuto organizzare in poco tempo un'operazione di rastrellamento a vasto raggio usando aerei ricognitori, camionette, reparti appiedati e persino carri armati. A ciò aggiun61
gasi la sfortuna di alcune pattuglie scese in bocca al nemico, per rendersi conto della difficoltà che gli arditi dovettero affrontare, difficoltà tali da far praticamente considerare impossibile ogni riuscita della loro missione. La pattuglia del :;01w1u1cnte Marvulli, che don:,·a operare nei pressi Ji Orano insieme con quella del X Arditi comandata dal sottotenente Giulianini, finì fuori zona e atterrò in una fattoria. Un paracadutista andò a cadere addirittura su un cavallo. Accorsero alcuni arabi, gli arditi tentarono di ammansirli offrendo loro denaro, ma, purtroppo, la valuta della quale erano stati provvisti prima della partenza non aveva più corso legale in Algeria fin da quando erano sbarcati gli americani. « Fummo circondati - rifed poi l'ardito Carlo Zanni - e vi fu un breve conflitto a fuoco. Uno dei nostri, Ettore Mignani , un ragazzo di Pola, rimase ucciso. Venimmo catturati. In campo di concentramento perdemmo un altro commilitone, il primo aviere Valenzano, torinese, morto per malattia ». Anche gli arditi della pattuglia Giuliattini e quelli della pattuglia Confetto ( quest'ultima aveva come obiettivo l'aeroporto di Blida, presso Algeri), furono catturati non molto tempo dopo l'atterraggio. Nella relazione compilata al ritorno dalla prigionia in America, il tenente Confetto riferì che, non appena arrivato a terra, si accorse dell'assenza del primo aviere Costantino Garbutto e della mancanza di un sacco rifornitore. Le più accurate ricerche diedero esito negativo. Inoltre, dallo studio del terreno e della carta topografica, l'ufficiale si rese conto che il lancio era avvenuto a circa 70 chilometri di distanza in linea d'aria ad ovest deUa zona prescelta (circa 100 chilometri da percorrere a piedi). Così stando le cose e nel timore che l'ardito Garbutto fosse stato catturato e costretto a parlare, il tenente Confetto decise di tentare un attacco all'aeroporto di fortuna di Affreville, distante una decina di chilometri. La pattuglia (oltre a Confetto, il sergente maggiore Alberto Giannini, i primi avieri Rodolfo Casini e Senio Protei, gli avieri scelti Luigi Ingrosso e Giovanni Pezza, gli avieri Luigi Fanzago, Elio Riccò a Franco Turcovich ) si pose in cammino, guadò il fiume, poi, sopraggiunta l'alba, si nascose in una distesa di grano, vicino ad un canale di irrigazione. Da quella posizione si scorgeva il campo di Affreville. Il tenente tirò fuori il binocolo e cominciò ad osservare l'obiettivo dell'attacco, ma restò subito deluso: non c'erano impianti o depositi di alcun genere e non vi si svolgeva alcuna attività di volo. Due arditi compirono una perlustrazione, che confermò l'assenza di aerei e di impianti di interesse bellico. Non restava, quindi, altro da fare che tentare di raggiungere a marce forzate l'aeroporto di Blida. Al crepuscolo, gli arditi si rimisero in cammino seguendo una rotta parallela alla strada per Medea, percorsa, nei due sensi, da parecchi automezzi militari inglesi. Ad un certo punto si imbatterono in due
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arabi, i quali, dietro compenso <li duemila franchi , rivelarono che gli allcati avevano lungo Ja strada depositi di carburanti e munizioni. Inol tre gli arabi, che avevano scambiato gli arditi per prigionieri italiani evasi, allettati dalla promessa di centomila franchi ciascuno, accettarono cli far loro da guida. All'alba, Jopo aver percorso una ventina di chilometri, la pattuglia si fermò su una collinetta, accampandosi presso un corso d'acqua. Furono stabiliti turni di guardia e di riposo. I due arabi erano controllati a vista. Dopo un paio d'ore, un ardito di guardia scorse sulla strada uno strano movimento di automezzi. Una perlustrazione diede la conferma: un'autocolonna militare era in sosta, consistenti reparti francesi a piedi e uno di spahis a cavallo, stavano per occupare le collinette circostanti quella dove si erano rifugiati i paracadutisti. Per evitare l'accerchiamento, Confetto fece spostare i suoi uomini su un'altra collina che dominava tutta la vallata. Qui, nascosti dietro rocce e cespugli, videro che Ja strada era completamente sbarrata, che i reparti appiedati stavano avanzando a semicerchio e che sulle alture circostanti venivano messe in posizione alcune mitragliatrici. Approfittando della situazione, i due arabi fuggirono lungo un canalone: gli arditi non spararono per non farsi individuare dal nemico. Intanto l'accerchiamento andava restringendosi. Considerata l'impossibilità di difendersi con le poche armi e munizioni di cui i suoi uomini erano in possesso, il tenente Confetto fece minare la posizione con le cariche di esplosivo e le bombe a mano, poi ordinò di rendere inservibili i mitra, i binocoli, le bussole ed ogni altro materiale e di abbandonare, isolatamente o a coppie, la collina, portando con sé le razioni viveri, il grafico della rotta e dell'obiettivo e le bombette incendiarie ed esplosive. Coloro che fossero riusciti a fuggire ed a raggiungere l'aeroporto di Blida, avrebbero dovuto cercare di farvi « più danno possibile ». Ma, prima ancora che gli ardici potessero eseguire l'ordine, la posizione fu investita da raffiche di mitragliatrici. Al coperto delle armi automatiche, i reparti francesi continuavano ad avanzare. Arrivati a 200 metri dai nostri, presero a gridare: « Arrendetevi! ». E, poiché nessuno degli arditi si mosse, intensificarono il fuoco. Allora il tenente Confetto diede ordine ai suoi di rispondere. Le brevi, rabbiose raffiche dei mitra fecero eco a quelle ben più lunghe delle mitragliatrici: alcuni francesi caddero feriti, nessuno dei nostri fu colpito. Ma le scarse munizioni ( tre caricatori da quaranta colpi per ciascun mitra) finirono in un baleno, e per gli arditi non ci fu alternativa: dovettero arrendersi. Uscirono dai loro ripari, dopo aver spezzato i mitra ormai inservibili, e furono immediatamente perquisiti e condotti ad Affreville. Vennero fatti marciare velocemente, per 15 chilometri, al passo dei cavalli degli spahis. Il tenente Confetto subì pesanti interrogatori da parte della gendarmeria, ma si rifiutò sempre di rispondere. Dopo due giorni fu trasferito in un campo di concentramento. In seguito
venne internato in Tnghilterra, quindi negli Stati Uniti. Le tre pattuglie lanciate nei pressi di Biskra, invece, riuscirono per diversi giorni a sfuggire alla catmra e misero lo scompiglio nella zona. Non cc la fecero però ad arrivare sugli obiettivi. Rimasti senza acqua perché i contenitori si erano rotti nell'atterraggio, gli arditi soffrirono atrocemente la sete, ma continuarono la marcia , disseminando mine lungo le piste. Braccati dagli anglo-americani che si spostavano a bordo di veloci camionette, alla fine, quando erano ormai stremati, vennero raggiunti e fatti prigio nieri. Era il 19 giugno.
L'unica pattuglia partita da Gerbini, e lanciata nella zona di Sfax per operare contro l'aeroporto di El Diem, non fece, si può dire, a tempo a prender terra che già era stata circondata. Uno degli arditi, quando rimpatriò dalla prigionia, riferl che, durante l'interrogatorio, gli venne chiesto: « Come mai Carraretto non è con voi? ... ». Il sergente Carraretto era uno dei comandanti le tre pattuglie che non erano partite a causa del bombardamento del campo di Gerbini. Gli inglesi conoscevano, dunque, il suo nome ...
Un gruppo di paracadutisti dell'ADRA che prese parte all'azione di aviolancio in Sicilia svoltasi dal 21 al 31 luglio 1943.
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CAPITOLO III
L'eroismo di Vito Procida e Franco Cargnel
Quanto alle quattro pattuglie partite da Iraklion
e dirette agli aeroporti di Bengasi e di Benina, non ebbero sorte molto diversa dalle altre; ma due arditi, come vedremo, riuscirono, filtrando attraverso le maglie del dispositivo d'allarme avversario, ad arrivare sull'obiettivo ed a portare a termine la missione, prima di cadere prigionieri. I due aerei, uno pilotato dal cap. Fugazzola, portante venti arditi più il maggiore Beltramo, l'altro, pilotato dal maresciallo Glauser, con a bordo venti arditi, non compirono il volo in coppia, come era in programma. Sulla sorte delle pattuglie Baccaro e Di Tommaso esistono due relazioni, una dello stesso Baccaro e l'altra del maggiore Beltramo. « A terra scrive quest'ultimo - mi ritrovai subito con il tenente Baccaro, che lamentava una contusione alla spalla sinistra. L'incidente non presentava gravità. Poco dopo ero raggiunto dal sergente Capponi, il quale mi avvertiva che la radio si era staccata in volo dal paracadute che la sorreggeva e si era frantumata a terra. Mentre attorno a me e al tenente Baccaro cominciavano a radunarsi gli uomini lanciatisi dopo di noi, da molti di essi venivo interrogato circa l'ubicazione del Gebel, dove avremmo dovuto dirigerci per occultare il materiale. Purtroppo non ero in condizione di rispondere. Nonostante la chiara notte lunare, non si riusciva a scorgere il caratteristico profilo del Gebel. Dopo circa venti minuti, mentre continuava la raccolta dei materiali dispersi dal forte vento, avvertivo il tenente Baccaro che mi sarei diretto in direzione nord, lungo la direttrice di lancio, per cercare il tenente Di Tommaso (ultimo a lanciarsi) e conoscere da lui l'andamento firde del lancio. Trovai, infatti, il tenente, il quale mi disse che gli ultimi suoi uomini erano finiti nel mezzo di un accampamento arabo. La cosa non aveva, però, presentato pericoli. Di Tommaso mi rifed pure che durante la discesa il vento gli aveva strappato lo zainetto portaesplosivi e l'aveva trascinato lontano dalle sue possibilità di ricerca. Lo stesso inconveniente era pure successo ad altri tre paracadutisti. Raccomandai al tenente Di Tommaso di radunare tutti gli uomini assieme al materiale, e di portarsi con essi verso sud dove era rimasto il tenente
Baccaro. Io mi sarei diretto verso est per cercare di riconoscere in qualche modo la zona in cui eravamo caduti ». Poco dopo il maggiore Beltramo veniva fatto prigioniero. Così, egli ha descritto i particolari della sua cattura: « Camminai per circa trenta minuti con retta 90° e trovai una linea ferroviaria. Compresi che doveva trattarsi della linea Bengasi-Solluch. Calcolai quindi che eravamo stati lanciati con uno spostamento di almeno venti chilometri verso ovest. Per misurare anche lo spostamento verso sud, mi incamminai lungo la ferrovia in direzione nord per cercare un qualche pumo d'indicazione. Camminavo a 40-50 metri dal binario. Dopo circa un'ora di marcia, vidi il profilo di un fabbricato, costruito sul lato ovest della ferrovia. Pensai che fosse una stazione, e volli avvicinarmi per leggerne il nome. Mentre distavo una trentina di metri dal fabbricato, echeggiarono alcuni colpi di moschetto, sparati all'incirca dalla direzione sud-ovest. Seppi più cardi, in prigionia, che quei colpi etano stati scambiati fra arabi del luogo e paracadutisti. Al ruqiore dei colpi, si apd una porta della stazione ed uscirono di corsa alcuni militari. Mi cacciai a terra e rimasi immobile. Udii che parlavano francese. Dopo circa cinque minuti, mentre rientravano al chiuso ed io già udivo le loro imerecazioni contro gli arabi disturbatori, uno di essi, che camminava un po' discosto dagli altri, mi vide bocconi a terra, mi puntò col moschetto, chiamò gli altri compagni. Fui così catturato da una pattuglia di francesi gollisti composta da un sergente e cinque soldati». Il maggiore Beltramo dapprima fu accompagnato a un comando di zona, quindi portato con una camionetta a Bengasi e da qui, il 15 giugno, trasferito in volo al Cairo e rinchiuso nel campo di Meadi, dove, dopo una quindicina di giorni, rivide i tenenti Baccaro e Di Tommaso e i sottotenenti Balmas e Comis, anch'essi prigionieri . Le pattuglie con le quali s'era lanciato il maggiore Beltramo erano andate in parte a cadere, come abbiamo detto, su un accampamento arabo. Vi fu uno
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scambio di fucilate (l'ardito Celestino Rossi, del!'ADRA, riuscì a catturare due arabi) e l'accampamento venne ,accerchiato e occupato. Mentre alcuni arditi montavano la guardia, altri perlustravano la zona cercando di recuperare gli aerorifornitori sganciati molti chilometri prima. Mancavano all'appello il sergente Francesco Carrupato, il primo aviere Guido Oradini, l'aviere scelto Alessio Rivellini e l'ardito dell'Esercito Francesco Oliva. Alle 4,10 Oradini e Rivellini, che si erano sperduti dopo l'atterraggio, riuscivano a ricongiungersi ai compagni . La prolungata assenza del maggiore Beltramo cominciava, intanto, a preoccupare vivamente i due tenenti, i quali, dall'interrogatorio degli arabi e dalla consultazione delle carte topografiche, avevano accertato che la zona ove si trovavano distava circa quaranta chilometri da quella prestabilita e che per raggiungere il costone del Gebel, dove avrebbero dovuto nascondersi durante il giorno, bisognava fare una trentina di chilometri. « Date le enormi distanze da percorrere e il sopraggiungere del nuovo giorno dice il tenente Baccaro nella sua relazione - io e il tenente Di T ommaso decidemmo di non abbandonare gli attendamenti arabi nella speranza di restare occultati in essi tutto il giorno. Contavamo di iniziare alle prime ore della sera la marcia di avvicinamento allo obiettivo, per effettuare l'operazione la notte stessa. All'alba la situazione si presentava come segue: assenti il maggiore Beltramo, il sergente Carrupato, l'ardito Oliva. Inoltre, durante tutte le ricognizioni fatte sul terreno, entro un raggio di circa dieci chilometri, non era stato possibile rintracciare i quattro sacchi rifornitori . L'ardito Rampinelli si assumeva volontariamente il difficile compito di trovarli. Travestitosi da arabo e cavalcando un asinello, iniziava la sua missione. Servendoci di un carretto e della protezione di una catasta di legna, improvvisammo un osservatorio che ci doveva servire per studiare il terreno durante tutto il giorno e per essere in guardia da ogni imprevisto. Verso le ore 9 una massa bianca ondeggiante sull'orizzonte, intravista col binocolo dal tenente Di Tommaso, osservata poi da me e da altri arditi, ci indusse subito a pensare al paracadute di qualche rifornitore. Immediatamente tre arditi, e precisamente il sergente maggiore Seggia, il sergente Soggi e l'aviere Chierico, camuffatisi anche loro alla meglio, si diressero verso la massa bianca che sventolava. La piana era deserta. Dopo un'ora, dalla stessa direzione, si videro sulla linea dell'orizzonte sei uomini. Osservando col binocolo, vedemmo trattarsi dei nostri tre uomini, che malauguratamente erano stati catturati da tre indiani armati di Thompson. Senza por tempo in mezzo, si effettuò una sortita allo scopo di liberare i tre compagni e catturare i tre indiani. L'assoluta mancanza di appigli sul terreno fece intuire a distanza il nostro movimento, per cui gli indiani scapparono,
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lasciando i nostri compagni liberi ». Vistisi scoperti, gli arditi si allontanarono immediatamente dalla zona, senza attendere il calar delle tenebre, e si incamminarono verso il Gebel. Dopo qualche chilometro raggiunsero una linea ferroviaria accanto alla quale correva una pista camionabile. Videro venir loro incontro parecchi arabi, evidentemente fedeli all'Italia, che li salutavano e li acclamavano. Continuare a piedi su quella pianura aperta era pazzesco. Decisero perciò di appostarsi ai margini della pista per tentare di impossessarsi con la forza del primo automezzo che fosse transitato di lì a dileguarsi con quello verso il costone del Gebel. Con lo stesso automezzo intendevano poi raggiungere l'obiettivo, gli aeroporti di Bengasi, e recarsi, una volta effettuato il sabotaggio, nella zona in cui li avrebbe attesi un SM.7 5 per riportarli in Italia. Un vecchio sciumbasci delle nostre truppe di colore ed un giovane muntaz li informarono che la pista era di solito poco controllata dagli anglo-americani e invece molto percorsa da autocarri privati facenti servizio passeggeri per gli indigeni. Si misero inoltre a loro disposizione: il muntaz si offrì di far da guida, lo sciumbasci assicurò che avrebbe procurato viveri ed acqua e che li avrebbe conservati in attesa del loro ritorno dall'azione. Sarebbero serviti agli arditi per sostenersi fino al giorno del recupero. << Verso le ore 13,30 prosegue la rel~zione del tenente Baccaro - in lontananza un polverone ci avvertì che qualche macchina stava per sopraggiungere. Però, invece della macchina salvatrice, scoprimmo una punta avanzata di camionette che precedeva tutto uno schieramento di automezzi blindati e corazzati. Il nemico, notata la nostra presenza, si schierò subito per il combattimento dietro le corazze protettrici. Riconosciuta l'impossibilità di qualsiasi resistenza, ordinammo di distruggere tutto il materiale prima che il nemico potesse impossessarsene. Assieme al tenente Di Tommaso, bruciammo tutte le carte e qualsiasi altro documento in nostro possesso. Radunati armi, strumenti ed esplosivi, facemmo esplodere tutto, insieme con un largo tratto di ferrovia. Dopo qualche minuto eravamc gi~ prigionieri. Nulla del materiale affidatoci cadde in mano al nemico ». Le altre due pattuglie, quelle dei sottotenenti Balmas e Comis, furono più fortunate, almeno nella prima fase. L'aereo che le trasportava aveva come osservatore il capitano di artiglieria Pasquale Varone, il quale possedeva una notevole esperienza avendo volato a lungo in Cirenaica con gli aeroplani da ricognizione. Egli seppe individuare perfettamente la zona prestabilita e fece lanciare gli uomini e gli aerorifornitori in modo che toccassero terra assieme. Purtroppo, il fortissimo vento trascinò via un contenitore e due piccoli paracadute con gli zainetti pieni di esplosivo. Per il brusco atterraggio il sotto-
tenente Balmas e un ardito si infortunarono. Tuttavia, le pattuglie iniziarono la marcia verso il Gebel. Il mattino seguente scorsero alcuni aerei nemici che sorvolavano a bassa quota il costone. Fortunatamente, il terreno pieno di anfratti e di caverne permetteva di sottrarsi alla vista dei ricognitori. I due ufficiali si consultarono sul da farsi: la certezza che la zona sarebbe stata presto rastrellata da truppe nemiche li convinse della necessità di adottare provvedimenti di sicurezza. Due arditi, il primo aviere Vito Procida e l'aviere Franco Cargnel, furono inviati in perlustrazione in direzione di Benina, altri ·due sul versante nord del Gebel per osservare col binocolo la piana di Bengasi. Questi ultimi tornarono poco dopo per avvertire che avevano avvistato nella valle un concentramento di uomini e mezzi, diretti verso la zona collinosa .Ci si rimise immediatamente in marcia, una marcia particolarmente faticosa per l'irregolarità del terreno e per il carico che ciascun ardito portava . Il giorno successivo, 15 giugno, essendosi esaurite le riserve di acqua (un contenitore, come già detto, era andato perduto ed alcune borracce di un altro contenitore erano state trovate vuote per difettosa chiusura), quattro arditi, Mario Capurro, Amerigo Menichetti, Modesto Venturini e Carlo Orlandi, si caricano di tutte le borracce vuote e scesero a valle. Riuscirono audacemente ad eludere la sorveglianza nemica, a raggiungere un pozzo, a rifornirsi d'acqua ed a far ritorno dai compagni. Intanto le ricerche si erano intensificate, e le truppe nemiche avevano ormai circondato la zona collinosa. Ad un certo momento gli arditi dell'ADRA scorsero una pattuglia venire verso di loro; non c'era il tempo di nascondersi, ed allora aprirono il fuoco, uccidendo un soldato e mettendo in fuga gli altri. A questo punto, non rimaneva che dividersi in piccoli gruppi di due-tre arditi, ciascuno dei quali avrebbe per conto suo tentato di raggiungere Benina e di portare a termine la missione. Cominciò cosl la caccia all'uomo. Gli inglesi si misero a battere la zona metro per metro e, ad uno ad uno, gli arditi furono catturati. Gli unici che riuscirono a sfuggire alla cattura furono Procida e Cargnel, un tenace palermitano ed un ardimentoso veneto. Essendo stati inviati in perlustrazione verso Benina, si trovarono distanti dagli altri nel momento in cui l'accerchiamento si fece stretto. Udirono colpi di fucile , capirono che i compagni, ormai impegnati in combattimento, difficilmente avrebbero potuto sganciarsi dal nemico, e decisero di proseguire verso l'obiettivo: in caso estremo, avrebbero compiuto da soli l'impresa. Marciarono tre giorni e due notti superando difficoltà d'ogni genere, riuscendo ad eludere la sorveglianza nemica e i predoni arabi che, allettati dalle ricompense promesse dagli alleati, davano loro una caccia accanita. Giunsero al luogo d'appuntamento con le altre pattuglie, fecero, con i fischietti che erano stati dati loro in dotazione, il segnale di chiama-
ta ( il verso della civetta), ma non ottennero risposta. Si misero allora a ispezionare in lungo e in largo l'uadi. Il tormento della sete era tremendo e già stavano per cadere a terra sfiniti quando avvistarono un cammello isolato e lo uccisero per dissetarsi succhiandone il siero e il sangue. La sera del 17 giugno i due arditi presero posizione sulle alture dominanti la pianura di Bengasif, nelle immediate vicinanze dell'aeroporto di Benina Nord. Avevano terminato anche i viveri, ma decisero ugualmente di attendere ancora ventiquattr'ore prima di iniziare la azione. Il piano prevedeva, infatti, che l'operazione dovesse essere effettuata la notte del 18, ed essi non volevano compromettere l'operato di altri arditi che fossero eventualmente sfuggiti alla cattura e che per una serie di circostanze non si fossero potuti collegare con loro. L'attesa, nelle condizioni in cui erano, fu veramente penosa, ma seppero resistere; ingoiarono pasticche di simpamina e vegliarono tutta la notte; di tanto in tanto fischiavano nella speranza di ricevere una risposta. Il 18 giugno, al tramonto, per quanto prostrati dalla sete, da.Ila farne, dalla fatica, dal sonno, cominciarono cautamente ad avvicinarsi all'aeroporto, distante circa sette chilometri . A mezzanotte sono ai limiti del campo e fissano con spasmodica attenzione il reticolato. Al di là di esso scorgono gli aerei parcheggiati, grossi aerei che forse domani decolleranno con il loro carico di bombe verso l'Italia. Ogni cinque minuti le piste di lancio e di raccordo vengono percorse da camionette piene di uomini armati che :sciabolano con i fari tutto il campo. Bisogna agire tra un intervallo e l'altro del servizio di vigilanza. Un cenno con la mano, e via. Ora Procida e Cargnel sono nell'interno del campo, lo percorrono velocemente per tutta la sua lunghezza, piazzano le cariche esplosive con i detonatori a tempo su una ventina di apparecchi, quasi tutti quadrimotori stracolmi di carburante e di bombe, e si affrettano a tornare indietro. Ma hanno ancora una carica da utilizzare, e con ammirevole sprezzo del pericolo, la depositano su una bomba di grosso calibro, posta sopra un carrello, ~ pochi metri di distanza da un attendamento in cui dormono gli equipaggi nemici. Poi si dileguano. Mentre i due arditi stavano arrancando verso il Gebel - avevano percorso meno di un chilometro - udirono la prima esplosione. Dà quel momento gli scoppi si susseguirono ad intervalli regolari e, poco prima che essi raggiungessero ,un rifugio sulle alture, esplose anche l'ultima caridi piazzata sulla grossa bomba d'aereo, che - si seppe poi - , deflagrata a sua volta, provocò la marte di una quarantina di avieri degli equipaggi, ferendone molti altri. Il mattino dopo Procida e Cargnel si misero in . cammino per raggiungere la località fissata per il recupero, distante più di sessanta 'c hilometri. Non 67
avevano viveri, nè acqua. Tutto il loro armamento era costituito da un mitra con un caricatore e una pistola, che peraltro non funzionava. Camminarono ancora un giorno e una notte. Il 20 giugno, al limite della resistenza, incontrato un pastore arabo, gli chiesero un po' di latte di pecora. Questi acconsentl, e i due, rifocillati, ripresero la marcia, ma s'erano appena allontanati che lo stesso arabo che li aveva poco prima soccorsi tirò fuori un vecchio fucile e sparò contro di loro. Cargnel fu colpito da due fucilate alla gamba <lestra e al polso sinistro. Non erano ferite gravi, ma non poteva proseguire il cammino. Procida non ce l'avrebbe fatta, nelle condizioni di estrema debo-
santi interrogatori. Ma non aprirono bocca. Vennero divisi e si perdettero nel calderone dei prigionieri italiani. Cargnel, nel 1944, mentre era a Latrun, in Palestina, riuscì con uno stratagemma ad unirsi a un gruppo di marinai italiani ex-prigionieri divenuti « cooperatori » dopo 1'8 settembre e ad imbarcarsi sotto il nome di Guido Carrer, secondo capo di Marina. Sbarcò a Taranto; poco dopo era a Roma dove fu scelto per svolgere una missione informativa nell'Italia del Nord occupata dai tedeschi; ma l'azione sfumò con l'approssimarsi della fine della guerra. Proposti nel dopoguerra per la massima decorazione, i due arditi dell'ADRA ricevetteto la medaglia d'argento al valor militare (14 ). Nei giorni in cui Procida e Cargnel venivano
La pattuglia dell'ADRA del ten. Balmas (a destra, indicato con la freccia) che operò in Libia nel maggio 1943. La freccia a sinistra indica il primo aviere Vito Procida che, insieme al l'aviere Cargnel, appartenente alla pattuglia del ten. Comis, riuscì a portare a termine l'azione di sabotaggio all'aeroporto di Benina.
lezza in cui si trovava, a caricarselo sulle spalle, e a trascinarselo dietro; nè, d'altro canto, voleva abbandonarlo. Così i due ·si rifugiarono in un anfratto, tenendo a bada l'arabo con il mitra. Ma gli spari avevano richiamato l'attenzione di una pattuglia nemica, che, dopo un paio di ore, giunse sul posto, li circondò e intimò loro di arrendersi. Non c'era più nulla da fare. Sfiniti, si lasciarono catturare. Cargnel fu portato a Bengasi per essere medicato in ospedale. Il giorno dopo raggiunse Procida a Benina e i due riuscirono a scorgere il disastro provocato dalle esplosioni delle loro cariche. Fatti saUre su un aereo, vennero trasferiti in Egitto, dove subirono maltrattamenti e furono sottoposti a pe-
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trascinati m pngtonia e interrogati dagli inglesi che volevano sapere come avessero fatto i due « dannati paracadutisti >> ad eludere la sorveglianza, a penetrare nel campo d'aviazione di Benina Nord e a causare quello sconquasso, altri uomini dell'Aeronautica stavano rischiando la vita nel tentativo di recuperare le pattuglie lanciate la notte del 13 giugno. Lo Stato Maggiore aveva, infatti, elaborato un dettagliato piano che prevedeva diversi appuntamenti tra gli arditi che fossero riusciti a sfuggire alla cattura e i loro soccorritori. Se le speranze di recuperare le pattuglie lanciate in Algeria e Tunisia erano minime, fondato ottimismo si nutriva sulla possibilità di recupero degli arditi destinati ad operare in Libia, in un territorio cioè dove essi potevano riceve-
re l'aiuto non solo degli indigeni rimastici fedeli, ma anche degli italiani che vivevano ancora laggiù. Per recuperare le quattro pattuglie partite da Iraklion, era stato stabilito che dieci giorni dopo il lancio un aereo si sarebbe portato sul campo di fortuna di Aisilan e lo avrebbe sorvolato in attesa di scorgere eventuali segnalazioni. In caso positivo, sarebbe atterrato per prendere a bordo gli arditi. Se questo appuntamento fosse, invece, andato a vuoto, un altro aereo avrebbe ripetuto, tre giorni dopo, il viaggio, atterrando, questa volta, in una località deserta situata a sud di El Carruba. Il 23 giugno, pertanto, un SM.75 bis, al comando del capitano pilota Marco Fugazzola (lo stesso ufficiale che aveva trasportato le pattuglie Baccaro e Di Tommaso sulla località di lancio), e avente a bordo, oltre all'equipaggio, il tenente colonnello Umberto Klinger quale comandante la spedizione di recupero, il capitano Bruno Velani quale direttore tecnico, un capitano e tre arditi paracadutisti della ADRA, decollò da Iraklion, raggiunse il campo di Aisilan, lo sorvolò a lungo, poi, non avendo scorto alcun segnale, tornò indietro. Il 26 giugno, alle ore 1,20, partì da Iraklion un secondo SM.75, pilotato dal capitano Emilio Cervi, con a bordo Klinger, Velani, il capitano dell'ADRA Appoggi, gli arditi Fedeli, Greco e Motta, oltre all'equipaggio, composto dal secondo pilota tenente Giuseppe Ognibene, dal motorista sergente maggiore Umberto D'Ovidio, dal radiotelegrafista aviere
scelto Franco Oppedisano, dall'armiere aviere scelto Emilio Luisi. Quando giunsero sulla zona convenuta, non scorsero segnali di sorta, ma Klinger decise, d'accordo col capitano Cervi, di atterrare ugualmente, nella speranza che qualche componente le pattuglie giungesse, sia pure in ritardo, all'appuntamento. L'atterraggio fuori campo riusci bene, e i militari che erano a bordo saltarono subito fuori dell'aereo, con le armi in pugno, pronti ad ogni evenienza. La giornata in territorio nemico fu lunga a trascorrere. Cinque volte vennero sorvolati da aeroplani nemici che, per fortuna, data l'alta quota, non avvistarono il trimotore italiano. Klinger non si dava pace: possibile che nessuno dei quaranta arditi fosse riuscito a sfuggire alla cattura? Dopo l'imbrunire, alle 19,50, ci si dovette decidere a rientrare. Il decollo, in uno spazio utile alquanto ristretto, fu facilitato dal vento che soffiava a circa quaranta chilometri orari. Alle 20,10 l'aereo ripassava sul luogo dell'appuntamento, vi compiva un paio di giri; poi, visto che da terra non veniva fatto alcun segnale, puntava decisamente verso Creta. Cosl si concludeva l' « operazione campi africani » che aveva visto prodigarsi, con scarsa fortuna ma con molto ardimento, un centinaio di paracadutisti dell'Aeronautica. Altre pattuglie dell'ADRA vennero in seguito lanciate, senza che riuscissero a realizzare lo scopo delle loro missioni, nella Sicilia invasa, quando già gravava sull'Italia l'incubo della resa incondizionata.
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CAPITOLO IV
L'8 settembre - La Scuola di Tradate - Il dopoguerra
L'8 settembre 194 3 il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, che dopo il 25 luglio aveva sostituito Mussolini a capo del governo, comunica, in nome del Re, che l'Italia, impossibilitata a proseguire la guerra, ha chiesto un armistizio agli anglo-americani ed invita i reparti militari a difendersi da chiunque, se attaccati. Gli alleati, peraltro, continuano a bombardare città ed installazioni militari, provocando nuove distruzioni e molte vittime, soprattutto tra la popolazione civile, mentre i tedeschi, dal canto loro, reagiscono rabbiosamente disarmando i nostri soldati e inviandoli verso la prigionia in Germania, occupando i gangli vitali del sistema di comunicazioni, sostituendosi ai pubblici poteri. L'avvenimento coglie di sorpresa la Nazione e il fatto che le comunicazioni siano rese sempre più difficili a causa della situazione venutasi a determinare, rende spesso impossibile ogni chiarimento sulla interpretazione dello spirito del comunicato del governo. Si crea, così, uno stato di confusione generale, non solo nelle attività civili e militari, ma anche neglì animi dei singoli. Ciò porta per conseguenza che ciascun comandante di reparto, ciascun soldato agisca secondo quanto dettatogli dalla propria coscienza: c'è chi prende le armi contro i tedeschi, chi continua a combattere al loro fianco, chi preferisce attendere gli eventi. I paracadutisti non hanno esitazioni: tutti scelgono la strada dell' azione, schierandosi dalla parte che ognuno ritiene sia la giusta. La politica, in tale scelta, non c'entra affatto, o comunque non ne è la causa determinante : essi vogliono soprattutto dimostrare che il soldato italiano è in grado di opporsi alla sopraffazione e alla violenza, di chi - secondo le proprie scelte - viene considerato uno straniero contro cui combattere. Perciò, negli opposti campi, i paracadutisti fanno sino all'ultimo il proprio dovere, senza mai abbandonarsi a scontri fratricidi; e, non appena la guerra sarà finita, si ritroveranno uniti come prima, accomunati dallo stesso amore per l'azzurro del cielo.
Alla Scuola di Viterbo, 1'8 settembre, c'erano in formazione alcuni battaglioni, tra i quali un secondo battaglione ADRA, comandato dal maggiore Trepiedi . Dopo aver resistito agli attacchi condotti dalla 33 Divisione tedesca Panzer-Grenadieren, e dopo che il comando del Presidio militare ebbe disposto lo scioglimento della scuola e del deposito paracadutisti e dei reparti da essi dipendenti, alcuni allievi decisero di schierarsi con i tedeschi, altri si diedero alla macchia per combattere contro le truppe germaniche, oppure tentarono di passare le linee per poi congiungersi con i reparti italiani del governo del Sud ( tra i quali figuravano anche le dtìe compagnie del « Loreto» che non avevano potuto raggiungere la Tunisia). (15). Oltre al Battaglione ADRA di nuova formazione, si trovavano a Viterbo circa duecento arditi del vecchio ADRA, di cui non tutte le pattuglie erano state impiegate. Il giorno 8 il tenente colonnello Dalmas fu convocato a Roma dal generale Eraldo Ilari, comandante la Y Squadra aerea, che gli ordinò di recarsi con i suoi uomini a Centocelle Sud per assicurare la « difesa degli aerei che vi atterreranno». Era chiaro che gli arditi dell' ADRA dovevano tenere saldamente l'aeroporto allo scopo di permettere Io. sbarco della 82a Divisione Airoborne americana. Ma il lancio dei parà USA su Roma venne - come si sa - annullato, e i nostri attesero inutilmente sino al giorno 10. Invece degli americani, arrivarono i tedeschi, paracadutisti anche loro. Il comandante della 2• Divisione Fallschirmjager, che aveva occupato Roma, era il generale Barenthein, il quale conosceva Dalmas avendo i due combattuto a fianco a fianco in Tunisia; perciò lasciò liberi l'ufficiale italiano e i suoi uomini. Edvino Dalmas, di italianissma famiglia zaratina, che, da giovane, nel 1915-18, aveva rischiato l'impiccagione da parte degli austriaci per essere accorso a combattere nel nostro esercito, non nutriva eccessiva simpatia per i tedeschi, tuttavia si decise ad aderire alla RSI dopo il « bando Botto » 71
che chiamava a raccolta gli aviatori. Influì sulla decisione di Dalmas la figura adamantina di Botto ( tenente colonnello pilota dal passato leggendario, medaglia d'oro al valor militare. conosciuto in aviazione come « Gamba di ferro >> per aver perduto un arto in un combattimento aereo in Spagna) sul quale era caduta la scelta di Mussolini quando si era trattato di nominare il Sottosegretario per l 'Aeronautica nel governo repubblicano. Recatosi al Nord, Dalmas ebbe l'incarico di ricostituire i reparti paracadutisti dell'Arma azzurra. A Tradate (Varese), in un vecchio castello, l'ex-comandante dell'ADRA, avvalendosi della collaborazione di un gruppo di istruttori di Tarquinia, riuscì a impiantare una scuola modello ed a costituì-
La faccenda del fronte di Nettuno costitui uno dei motivi di maggiore attrito (altri ne vennero in seguiw.} tra Botto e i comandi germanici. Il Sottosegretario all'Aeronautica della RSI esigeva che i paracadutisti italiani combattessero sotto insegne italiane e ron divise italiane. mentre i tedeschi parevano intenzionati a far indossare ai giovani volon· tari divise della Luftwaffe e a inquadrarli in reparti comandati da loro ufficiali e sottufficiali. Alla fine « Gamba di ferro >> la spuntò, le divise italiane vennero scovate, e con quelle indosso, i paracadutisti della RSI combatterono bravamente, meritandosi l'elogio del generale paracadutista tedesco StuJent, che li definì in un ordine del giorno « i più valorosi soldati del fronte di Nettuno » ( 17 ).
Paracadutisti azzurri della Scuola di Tradate, poco prima di un lancio, nell'aprile 1944. Tra di loro, la « mascotte • del reparto.
re un Raggruppamento Arditi Paracadutisti della RSI. A Milano fu bandito l'arruolamento di cinquecento allievi. Si presentarono oltre tremila volontari, quasi tutti studenti. Fu giocoforza procedere ad una severa selezione. Quelli che vennero ammessi, sostenennero il corso, al fine del quale, nell'aprile 1944, fu effettuato sul campo di Venegono, dagli SM.82 -del Gruppo Trasporto dell'Aeronautica repubblicana, un lancio collettivo di circa 400 paracadutisti ( 16 ). Venne _subito costituito il Battaglione « Azzurro », che raggiunse al fronte di Nettuno altri due battaglioni, già dell'Esercito, - il « Folgore » e il « Nembo » - che combattevano a fianco della 4a Divisione Paracadutisti tedesca. 72
Dei 1.441 ragazzi del Reggimento Arditi Paracadutisti « Folgore » (i tre battaglioni erano stati riuniti in un reggimento ed era stato disposto che tutti i paracadutisti, anche quelli provenienti dallo Esercito, dipendessero dall'Aeronautica e vestissero l'uniforme grigio-azzurra) ne caddero 113, circa 200 furono feriti, molti risultarono dispersi. A Tradate continuò, a ritmo serrato, l'attività addestrativa, nonostante le gravi difficoltà derivanti dalla penuria di aerei e di benzina e in parte anche dovute all'ostruzionismo dei tedeschi che non vedevano di buon occhio l'insorgere di un'autonomia giudicata pericolosa, facilitata dall'affermarsi tra i paracadutisti di una mentalità scanzonata e indi-
... Scuola Paracadutisti di Tradate, marzo 1944; una fase dell'addestramento: il comportamento in volo.
vidualistica. In poco piu di un anno furono brevettati circa tremila allievi, che formarono compagnie e battaglioni autonomi. Il Reggimento « Folgore », rinfoltito nell'organico, venne inviato sul fronte francese (Monginevro, Moncenisio e Piccolo San Bernardo), ove lo colse il crollo finale. Le attrezzature della Scuola Paracadutisti furono consegnate, intatte, da Dalmas al generale Virgilio Sala, della Regia Aeronautica, appositamente recatosi da Roma a Tradate prima che vi giungessero gli americani. Nel dopoguerra le restrizioni del trattato di pace, la dispersione del personale e dei materiali di lancio, la scarsa disponibilità di velivoli, resero lenta ed irta di difficoltà la ripresa del paracadutismo militare, ripresa che fu possibile soprattutto per la leale collaborazione instauratasi tra Esercito e Aeronautica. Il primo istituì un Ufficio Studi ed Esperienze dove ·confluirono, poco alla volta, gli ufficiali della specialità ancora in servizio ed un gruppo esiguo di istruttori delle vecchie scuole di Tarquinia e di Viterbo; la seconda, dal canto suo, riusci a salvare un gruppo di trimotori SM.82 destinati alla demolizione trasferendoli in blocco, con i relativi equi-
paggi, al Sovrano Ordine Militare di Malta, che venne in tal modo a trovarsi inaspettatamente in possesso di una flotta di aerei per l'assolvimento dei suoi alti scopo umanitari, aerei che, fra l'altro, alla occorrenza, avrebbero potuto essere Ìfl1piegati per i lanci. Nel 1946 si riuscì a recuperare alcuni vecchi paracadute, che vennero accuratamente revisionati, e con un SM.82 un gruppo di paracadutisti in congedo cominciò a lanciarsi. Nacque un piccolo nucleo sperimentale di paracadutisti militari (Centro Studi ed Esperienze di Paracadutismo Militare), organizzato dall'Esercito e ospitato nei locali di Palazzo Salviati a Roma, dove era stata allestita una modesta palestra. I lanci venivano eseguiti a Guidonia, sotto la guida del maggiore Turrini, vecchio capo-istruttore di Tarquinia. Nel 1947 venne costituito il C.M.P. (Centro Militare di Paracadutismo), affidato al tenente colonnello paracadutista dell'Esercito Giuseppe Izzo, reduce di El Alamein e medaglia d'oro della guerra di liberazione. Lentamente, il reparto si ingrandì, aumentò l'attività lancistica e si rese necessaria, nel 1949, una sede più idonea. Venne scelta Viterbo, la città che durante la guerra era stata sede della seconda scuola di paracadutismo. La nuova scuola, anziché dipendere, come nel passato, per la parte tecnico-professionale, dall'Aeronautica, fu affidata all'Esercito. Nel 1950 al colonnello Izzo subentrò il colonnello Michele Caforio e, tre anni dopo, il vecchio paracadute IP 41 fu sostituito dal nuovo, moderno ed efficiente CMP 53, un paracadute simile a quelli delle aviotruppe americane, ma di concezione e realizzazione italiana, dalla calotta in nylon molto ampia - 73 metri quadrati - e dotato di bretelle direzionali. Quindi venne adottato il paracadute ausiliario I 53, che dava un'eccezionale garanzia ai lanci. Due anni dopo, a questi paracadute subentrarono modelli ancora più perfezionati, tuttora in uso: il CMP 55, dalla calotta a basco di ben 90 metri quadrati, che consente al paracadutista di portare con sè pesi non indifferenti e di scendere tuttavia a non più di 5 metri il secondo, e l'I 56 ausiliario. Nel 1956 il C.M.P. (poi ribattezzato C.A.P.A.R. - Centro Addestramento Paracadutisti - ed infine S.M.I.PAR. - Scuola Militare di Paracadutismo), passato al comando del colonnello Carlo Mautino, si trasferì nell'attuale sede di Pisa. Nello stesso anno 1956 i vecchi, gloriosi SM.82, che erano stati « ringiovaniti » con motori americani Pratt e Whitney, vennero definitivamente messi in disarmo e sostituiti dai Fairchild C.119. Cominciarono a risorgere i reparti organici (ad oltre venti anni di distanza fu ricostituito il 1° Reggimento Paracadutisti, e quindi la Brigata « Folgore » ); nacquero nuove specialità, come gli alpini-paracadutisti e i paracadutisti della Brigata Missili, e si riformarono, magari con mutata etichetta, vecchi reparti speciali: sabotatori (ex-arditi dell'Esercito), incursori della Ma73
rina (ex-N.P. del « San Marco» ), carabinieri-paracadutisti. L'Arma azzurra, peraltro, non ricostituì reparti paracadutisti, sebbene essa conti tra le sue fila elementi di prim'ordine, discesisti famosi come il colonnello Enrico Milani e l'aiutante di battaglia Sauro Rinaldi, che si sono esibiti centinaia di volte in arditissimi lanci. (Il ,2 5 febbraio 1953 Rinaldi conquistava il record italiano di altezza, lanciandosi con inalatore da ben 8.261 metri e compiendo, con un paracadute Salvator-50, una caduta libera di 150 se-
condi; l'anno dopo batteva il suo stesso primato effettuando un altro lancio da 9 .800 metri con 2 minuti e 47 secondi di caduta libera!) Far rivivere, se possibile anche nel nome, uno dei reparti paracadutisti dell'Aeronautica che si sono battuti nell'ultimo conflitto, rappresenta un Joveroso atto di omaggio agli arditi azzurri immolatisi sui campi di battaglia e su quelli di lancio. Il segno tangibile che è sempre vivo, in seno ali' Arma, il loro ricordo.
Guidonia, 25 febbraio 1953 - L'aiutant e di battaglia Sauro Rinaldi appena atterrat o dopo av er conquistato il con un lancio da 8.261 metri e una caduta libera di cessivo Rinaldi migliorava il suo record lanciandosi da una caduta libera di 2 minuti e 47 secondi.
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dell'A eronautica M iliare record italiano di altezza 150 secondi. L'anno suc9.800 metri e compiendo
PARTE TECNICA
CAPITOLO I
Com'è fatto il paracadute
. Nelle sue linee generali, la definizione del paracadute è la seguente: « Il paracadute è un apparecchio atto a frenare la caduta di un corpo nella spazio sfruttando la resistenza opposta all'aria da una calotta di tessuto di conveniente forma e di adeguate dimensioni ». Ma quali sono gli elementi principali che compongono il paracadute? di quale materiale sono costruiti? qual'è la loro funzione? La calotta, o velatura, normalmente di forma semisferica, ha lo scopo di trattenere l'aria e di frenare la caduta; è in tessuto di seta o di nylon (oggi, in pratica, quasi sempre di nylon) ad alta resistenza, costruita a fusi, o spicchi (in genere ventiquattro) -diagonali, cuciti e rinforzati tra di loro da bordi antistrappo (che permettono cioè di bloccare ogni eventuale lacerazione) sino al punto di attacco e di rinforzo del fuso adiacente. Ogni spicchio, a sua volta, è diviso in quattro o cinque sezioni, o pannelli, che presentano la trama in senso diverso l'uno dall'altro, in modo da essere più resistenti. Oltre che forma semisferica, la calotta può avere forma triangolare, quadrata, oppure essere a superficie riducibile. Normalmente la superficie della velatura di un paracadute varia dai 50 ai 90 metri quadrati. Alla sommità della calotta è posto il foro apicale, una specie di « valvola » costituita da una corona elastica fissata con robusti passanti al tessuto della calotta. Il foro apicale ha due specifiche funzioni: contenere, mediante l'espansione degli elastici, lo sforzo notevole che si ripercuote sulla calotta al momento dell'apertura, ed agire da sfogo dell'aria durante la fase della discesa. La circonferenza del foro apicale durante tale azione di espansione si dilata dai normali 30-35 centimetri a circa un metro e quindici - un metro e trenta, cioè subisce una dilata-
zione pari a circa quattro volte la sua normale circonferenza. Ai bordi della calotta, i paracadute di modello piì1 recente hanno una fascia di rinforzo che elimina in buona parte il movimento pendolare durante la discesa. Attaccato al bordo inferiore della calotta vi è il fascio funicolare, composto di venti o ventiquattro funicelle in nylon ad alta elasticità ed elevato coefficiente di resistenza (circa 200 chili per ciascuna fu, nicella). Tale sistema di sospensioni assicura un uniforme equilibrio della calotta portante e termina alla base inferiore con l'imbracatura, costruita in robusta tela, composta di: bretelle; cosciali; pettorali, muniti di attacchi metallici a molla (scrocchi di sicurezza), per fissare il paracadute al corpo dell'uomo. Da precisare, altresl, che ogni funicella di sospensione parte dall'attaccatura dorsale, attraversa tutta la calotta e termina nella parte opposta della predetta attaccatura. A seconda del sistema di apertura, si hanno i seguenti tipi di paracadute: a) ad apertura automatica con fune di vincolo (avviene per gravità); b) ad apertura comandata con maniglia (viene manovrato manualmente); c) ad apertura mista (fune di vincolo più maniglia di comando); d) ad apertura barometrica (funziona automatièamente per mezzo di una cellula tarata ad una prestabilita pressione atmosferica); e) ad espulsione (funziona per mezzo di una carica esplosiva che catapulta in alto seggiolino e pilota. E' installato su aviogetti). A seconda di come vengono indossati o adattati, i paracadute sono cosl definiti: a) paracadute dorsale 75
(forma rettangolare per paracadutisti o piloti); b) paracadute ventrale, staccabile per specialisti, o fisso per casi di emergenza (forma quadrata per piloti o specialisti cli bordo; rettangolare - paracadute ausiliario o d'emergenza - per paracadutisti); c) paracadute a seggiolino ( forma quadrata per piloti: è usato come cuscino o adattato in un apposito vano del seggiolino). Tutti i paracadute elencati sono racchiusi in un sacco-custodia, dopo essere stati opportunamente ripiegati. Il sacco-custodia è in tela, e alla sua sommità è fissata, nei paracadute ad apertura automatica o mista, la fune cli vincolo. Questa fune, un nastro in robusta tela, è lunga circa cinque metri e termina · con un moschettone· di aggancio, metallico, con chiusura <li sicurezza a scatto. Nella parte più vicina all'imbracatura, la fune di vincolo ha un'appendice in canapa alla quale è collegata una chiavetta che tiene uniti i quattro lembi della tela contenente la borsa portacalotta; su un lato esterno di questa è ripiegato il fascio funicolare. I paracadute ad apertura comandata non dispongono, ovviamente, cli fune di vincolo, ma cli una maniglia di comando situata nella parte superiore sinistra àell'imbracatura, alla quale imbracatura è direttamente fissata la borsa portacalotta. La maniglia è collegata
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al congegno cli espulsione della calotta da un cavetto in acciaio scorrente all'interno di una guaina metalli:ca. Lo spiegamento della calotta viene agevolato da un piccolo paracadute-pilota, o calottino-estrattore, che si apre, per effetto di un complesso a molle, quando viene tirata la maniglia. I vari tipi di paracadute possono essere impiegati, oltre che per il salvataggio in caso cli incidenti o avarie durante il volo delJ'aereo, ed oltre che per il lancio di paracadutisti, per una serie cli altri scopi: a) aviolancio cli materiale leggeri e pesanti (armi, apparati radio, munizioni, viveri, carburante, materiali sanitari, liquidi in genere, cannoni, automezzi, carri armati leggeri}; b) recupero di bersagli radiocomandati per batterie antiaeree; c) paracadute-freno per aviogetti, sia militari che commerciali; d) paracadute anti-vite per aerei (vengono applicati alle estremità delle ali); e) paracadute, speciali per il recupero di capsule spaziali; ' f ) paracadute per competizioni sportive (a fenditure, o direzionali); g) paracadute ascensionali a trazione (per diporto o allenamento).
CAPITOLO II
Il funzionamento del paracadute
L'apertura del paracadute, pur essendo una delicata operazione, è di una elementare semplicità. Il paracadute con fune di vincolo, in base al principio fisico della gravità, si apre sempre, in qualsiasi circostanza. Ma, per difetto di ripiegamento, o per altre cause accidentali, la calotta può non gonfiarsi, o gonfiarsi solo parzialmente qualora le funi si attorciglino intorno a un suo lembo: ecco perché è fatto obbligo ai paracadutisti di indossare, oltre al normale paracadute, un paracadute ventrale di emergenza, con · comando di apertura a mano. Le qualità fondamentali che un paracadute deve possedere sono le seguenti: semplicità di costruzione e di impiego, sicurezza assoluta di funzionamento, minimo tempo di apertura della calotta, facilità di indossamento, pesi e ingombri ridotti al minimo, imbracatura facilmente regolabile, minima velocità di discesa, buona manovrabilità. Nel caso di lancio ad apertura automatica, il paracadutista, che avrà avuto l'accortezza di adattare alla sua corporatura l'imbracatura agendo sulle cinghie regolabili, nel momento in cui l'aereo s'invola per arrivare alla quota prestabilita ( di solito 400 metri), aggancia il moschettone della fune di vincolo all'apposito cavo di ancoraggio situato nella carlinga, o fusoliera, e si assicura che stia a posto tirando più volte il terminale della fune . Quando l'aereo è arrivato sulla verticale del campo, al segnale del direttore di lancio si approssima alla porta disponendosi con un piede ( meglio il sinistro) sul bordo della porta stessa e con l'altro piede in posizione leggermente arretrata, atta a bilanciare il corpo; le mani appoggiate all'esterno della porta, con le dita distese e riunite e le braccia tese verso il basso;il corpo un po' raccolto, con le ginocchia piegate, in posizione di scattare in avanti; il tronco e il capo eretti. Al segnale di « fuori >> ( di solito accompagnato da un leggero colpo sulla spalla da parte del direttore di lancio), il paracadutista salta senza esitazione nella prescritta posizione: gambe unite e rigide; gomiti stretti ai fianchi; mani poggiate sulla parte anteriore del paracadute ausiliario, con la palma della mano destra sulla maniglia di apertura, ma senza afferrarla; testa in avanti, con il mento piegato sullo sterno.
Allorché lascia l'aereo, i1 corpo del paracadutista è soggetto all'azione di tre forze: 1·) l'inerzia, che tende a trascinarlo nella direzione dell'aereo; 23 ) l'attrazione terrestre ( detta « potenziale di quota » ), che lo attira verso il suolo; 3a) la resistenza dell'aria, che si oppone al suo movimento. Le prime due di queste forze si possono immaginare concentrate nel centro di gravità del corpo, vale a ·dire all'incirca all'altezza dell'ombelico; la terza è idealmente concentrata in un punto detto « centro di pressione», punto che è sempre diverso dal centro di gravità e che muta a seconda della posizione assunta dal paracadutista durante la caduta. L'inerzia e il potenziale di quota, combinandosi, fanno sl che la caduta del paracadutista avvenga, prima che la calotta si dispieghi, lungo una traiettoria obliqua. La resistenza dell'aria, invece, agendo in senso opposto alla risultanza delle altre due forze, tende non solo a ridurre l'ampiezza di tale traiettoria, ma, per il fatto che essa non è concentrata nello stesso punto delle altre due, anche a provocare il cosiddetto « momento di rovesciamento», cioè la tendenza a far rotolare il corpo su se stesso. Di qui l'importanza, nei lanci ad apertura ritardata, che il paracadutista, prima di tirare la maniglia di comando, abbia assunto una posizione stabilizzata. A questo proposito sono stati fatti enormi progressi nell'ultimo ventennio: oggi ogni buon paracadutista sportivo è in grado non soltanto di controllare la propria caduta, ma di spostarsi a piacimento nell'aria mediante appropriati movimenti degli arti e di compiere persino vere e proprie figure acrobatiche (i cosiddetti esercizi di stile). Tornando al lancio normale, cioè con paracadute ad apertura automatica, bisogna tener conto di una quarta forza che agisce, sia pure modestamente, sul paracadutista e che ha il suo punto di applicazione . alla sommità del sacco-custodia. Si tratta della forza necessaria a far sì che la fune di vincolo, entrata in trazione, provochi la rottura del cordino che tiene chiusi i lembi della custodia. Anche questa forza tende a causare un momento di rovesciamento, che si somma all'altro, e che può essere superato facendo assumere al corpo la posizione più opportuna.
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E vediamo, ora, come si svolgono, in pratica, le varie fasi dell'apertura automatica del paracadute. Quando il paracadutista abbandona l'aereo, la fune di vincolo si stende per tutta la sua lunghezza, strappa la chiavetta di fermo della custodia del paracadute , i cui lembi si aprono provocando lo sfilamento del fa. scio funicolare e quello della calotta, che, per effetto della penetrazione dell'aria, si gonfia. Da questo momento ha inizio l'azione frenante che può considerarsi completa in circa due secondi. Ma la discesa non avviene ancora del tutto verticalmente: data la differenza enorme degli effetti dell'aria sulla calotta e sul corpo del paracadutista, si verificano infatti quelle oscillazioni che vanno sotto il nome di « moto pendolare » e che possono essere facilmente eliminate agendo sulle bretelle. Una volta cessato il moto pendolare, ha inizio la discesa. La velocità varia, naturalmente in assenza cli vento, da 5 a 7 metri il secondo, cioè da 18 a 25,200 chilometri l'ora, a seconda del!~ dimer: sioni della calotta. La velocità in caduta libera, cioè a paracadute chiuso, invece, aumenta progressivamente fino al dl >· dicesimo secondo (vale a dire fino a 450 metri circa) per poi stabilizzarsi su una media di 53 metri il se· condo, pari a 191 chilometri orari, ma questa velocità può variare sensibilmente in rapporto alla posizione assunta dal paracadutista (nella posizione a X, con braccia e gambe divaricate, diminuisce intorno ai
170 chilometri l 'ora, in quella a freccia può raggiungere i 300 chilometri l'ora ). I lanci ad apertura comandata avvengono normalmente a quote più elevate di quelli ad apertura automatica, e ciò allo scopo di dare al paracadutista un buon margine di sicurezza. Abbandonato l'aereo, l'uomo precipita nel vuoto, assumendo una posizione stabilizzata (a banana, a T, a X, a tridente, a freccia) sino a raggiungere la velocità costante. In base alle norme intt:rnazionali, il paracadute deve essere aperto a non meno di 600 metri dal suolo. L'apertura avviene nel seguente modo: il cavetto della maniglia sblocca i perni del calottino-estrattore, o paracadutino-pilota, che, liberato dalla sua molla compressa, scatta nel vuoto, si gonfia d'aria e trascina fuori del sacco-custodia la calotta e, successivamente, il fascio funicolare, provocando l'apertura del paracadute. Nei paracadute più moderni si usa una lunga guaina in nylon, chiamata «calza», alla cui estremità è fissato il paracadutino- pilota. In questa guaina è infilata la velatura, e, nella sua parte bassa, è ripiegato il fascio funicolare . Quando quest'ultimo è completamente disteso, la velatura viene trascinata fuori della guaina dal calottino-estrattore. In tal modo lo spiegamento e il gonfiamento della calotta viene ammortizzato e si raggiunge lo scopo di contenere in misura più accettabile lo shock d'apertura e di non sottoporre il tessuto ad eccessive soliecitazioni.
uscita dall 'aereo in un (( laricio ad apertura au tomat ica
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CAPITOLO III
L'uomo paracadutista
Come deve essere l'uomo che si accinge a fare il paracadutista? Dev'essere essenzialmente sano, possedere doti di coraggio e padronanza assoluta dei propri nervi. Nel paracadutismo non sono ammessi sbagli, perché chi sbaglia non ha più alcuna possibilità di riprovare. Il paracadutista deve avere il controllo di se stesso, un forte dominio della propria volontà soprattutto per sorvegliare le reazioni spesso irrazionali che l'uomo ha istintivamente di fronte a certe manifestazioni per lui innaturali. Infatti, il lanciarsi da un aereo è un fatto innaturale, come tentare di camminare sott'acqua, o stare sulla terra a testa in giù. L'ingegno umano ha però trovato il modo di lanciarsi nel vuoto senza subire alcun danno. Basta osservare determinate regole atte a controllare ogni più intimo impulso del sistema nervoso, coordinandoè le in maniera razionale. L'organismo umano stato scientificamente accertato - può resistere a forti sollecitazioni senza riportare danni. Si pensi alla potente sollecitazione della forza di gravità che agisce in alcuni particolari casi dell'organismo dei piloti di aerei supersonici. Anche nel paracadutista, per una frazione insignificante di tempo, avviene tale fenomeno, durante il cosiddetto shock d'apertura. Non succede nulla, purché lo si sappia affrontare nel modo migliore. Dicevamo del dominio del sistema nervoso. Possono verificarsi, per fortuna molto raramente, momenti critici in cui è necessario calcolare probabilità, prendere immediate decisioni, attuare rapidamente misure
d'emergenza, utilizzando ragione e senso logico con la velocità di frazioni di secondo. Basti pensare alla possibilità di collisioni in aria tra due paracadutisti, che richiedono, per essere sventate, rapidità di riflessi e di opportuni movimenti. C'è, inoltre, da controllare la regolare apertura della calotta, ci sono da effettuare le manovre con le bretelle per atterrare nel punto prestabilito, o per evitare ostacoli di varia natura( cavi elettrici, alberi, zone accidentate). Particolare attenzione bisogna porre nella fase, la più critica dell'incero lancio, dell'atterraggio. Saper atterrare senza proc.lursi distorsioni o lesioni è indice di ottimo addestramento fisico-atletico e di capacità di ragionamento. Adattare l'organismo all'impatto col terreno ed abituare soprattutto gli arti inferiori ad attutire il colpo è quanto si richiede ad un buon paracadutista. Ma la preparazione atletica, ovviamente, non basta per fare il paracadutista: è necessario possedere anche doti naturali psico-fisiche. I sistemi vascolare, circolatorio, respiratorio, visivo e auditivo debbono essere ottimi, poiché le accelerazioni cui è sottoposto l'organismo si riflettono su tali organi che devono essere in grado di resistere e di reagire. Inoltre, importantissimo è il grado di emotività dell'individuo. Come accennavamo prima, i tipi troppo emotivi, suggestionabili, non sono adatti a fare i paracadutisti, poiché in definitiva il lancio è un grande fatto emotivo che l'uomo deve essere in grado di controllare e contenere in una giusta misura.
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Le fasi di uscita dall'aereo e dell'apertura del paracadute.
CAPITOLO IV
L'addestramento al lancio
Esso ha inizio dopo l'accertamento, da parte dei medici, dell'idoneità psico-fisica dell'aspirante paracadutista, e si svolge in due direzioni : addestramento fisico-atletico e addestramento tecnico. Il primo serve soprattutto ad abituare l'organismo alle attività muscolari insite nel lancio: e, poiché in generale nel paracadutista tutto il corpo è interessato a tali attività, avremo uno sviluppo armonico dei muscoli dorsali ed addominali mediante torsioni del tronco, del dorso in avanti e indietro, un miglioramento della muscolatura degli arti inferiori mediante corse, flessioni, salti di vario genere e da altezze progressive. Successivamente, si passa alla preparazione specifica per il lancio. L'allievo deve apprendere le prescritte posizioni di: abbandono aereo, comportamento in volo, capovolta per ammortizzare l'impatto col terre-
Nella fase d'atterraggio è necessario ( dato che la struttura muscolare e non quella ossea è la più idonea . ad assorbire l'urto col terreno) che le gambe siano tenute unite, leggermente stese, con i muscoli tesi ma non rigidi. Bisogna prendere contatto con i piedi paralleli al suolo, tenere i gomiti aderenti ai fianchi, le mani che reggono le bretelle del paracadute, il mento
Il momento de lla presa di contatto col terreno.
no; posizioni opportunamente studiate e «codificate)> da una pluriennale esperienza. Al momento di saltare dalla fusoliera - lo abbiamo già detto - ci si colloca con un piede sul bordo della porta, l'altro leggermente arretrato, le braccia tese in avanti. Il salto - abolita ormai la figura << ad angelo » adottata, per le particolari caratteristiche del paracadute IF 41-SP, alla Scuola di Tarquinia - si effettua nella cosiddetta posizione « a piombo », o verticale. Ci si lancia, cioè, con il corpo raccolto ma non abbandonato, gambe e piedi uniti, braccia aderenti strettamente ai fianchi , mani poggiate sulla parte anteriore del paracadute ausiliario, testa poggiata sul petto e rigidamente fissata, particolare questo di grande importanza perché salvaguarda da eventuali lesioni alle vertebre cervicali durante lo shock d'apertura.
abbassato sul petto come nella fase di lancio, eseguire la capovolta poggiando a terra la parte posteriore sinistra del corpo ed effettuando la rotazione in senso contrario. In tal modo si assorbe l'urto, lo si sposta lateralmente, lo si distribuisce alla parte opposta da yuella di caduta, frazionandone la forza.
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Le varie fasi della capovolta dopo aver preso contatto col terreno .
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L'addestramento tecnico comprende poi, oltre alle spiegazioni sulla costruzione del paracadute principale e di quello ausiliario, l'insegnamento dei comandi preliminari delle operazioni di lancio. Nell'ipotesi che il lancio sia ad apertura automatica e che avvenga da bordo di grossi aerei da trasporto per esercitazioni lancistiche, i comandi sono i seguenti: 1) preparatevi: il direttore di lancio alza il braccio destro e invita i paracadutisti a tenersi pronti; 2) in piedi: segnale dato col movimento del braccio dal basso verso l'alto. I paracadutisti si alzano e ripiegano i seggiolini fissandoli alla parete della fusoliera; 3) agganciate: piegando ad uncino l'indice destro, il direttore di lancio indica di fissare le funi di vincolo. I paracadutisti aprono lo scatto a molla del moschettone, lo fissano al cavo di ancoraggio e lo richiudono avendo cura di controllare la chiusura ed il bloccaggio del bottone a molla; tirando un paio di volte il moschettone per assicurarsi che sia fissato saldamente; 4) controllate l'equipaggiamento: ordine accompagna to dalla battuta del palmo della mano sulla parte superiore del paracadute ausiliario. Ciascun paracadutista ispeziona la propria fune di vincolo, il proprio paracadute ausiliario, il paracadute dorsale del compagno davanti a lui; 5) chiamata di controllo : ogni paracadutista, al momento dell'imbarco, riceve un numero progressivo. Quando ha inizio la chiamata di controllo, il paracadutista che ha il numero più alto lo pronuncia ad alta voce, aggiungendo « bene » e battendo con la mano sulla spalla di chi Io precede. E così di seguito fino al numero uno. Se
durante la chiamata di controllo ci si accorge che qualcosa non è regolare nell'equipaggiamento, si alza la mano destra e si avverte il direttore di lancio, il quale effettua un ulteriore controllo eliminando l'anormalità o escludendo dal lancio il paracadutista non a posto col materiale. A controllo ultimato, il paracadutista col numero uno va avanti, fa una piccola conversione a destra, si pone nella prescritta posizione sul vano della porta; 6) alla porta: il paracadutista si sposta in avanti col piede e lo punta leggermente fuori della porta, equilibra il corpo con l'altro piede, rimanendo in posizione di attesa; 7 ) via: al comando dato dal direttore di lancio ed accompagnato spesso da una battuta sulla spalla, il paracadutista si lancia in fuori nella posizione verticale già descritta, cominciando a contare da milleuno. Se a millecinque, - il tempo calcolato per l'esecuzione di tutte le fasi di apertura non si sarà avvertito lo strappo provocato dalla apertura del paracadute dorsale, si provvederà senza indugi a far funzionare quello di emergenza.
I lanci da due porte, una a destra e una a sinistra, prevedono un intervallo di uscita di un secondo, allo scopo di ridurre il pericolo di collisioni in aria fra paracadutisti. Quanto ai sistemi per evitare collisioni a paracadute aperto, o ostacoli durante la fase d'atterraggio, uno dei più comuni è il cosiddetto scivolamento, una manovra manuale ..!a compiersi mediante il tiraggio delle bretelle, cne spostano in tal modo l'assetto della calotta provocando una traslazione laterale.
Paracadutisti della Brigata • Folgore. di stanza a Livorno si lanciano dalla porta caudale di un C-119.
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Per le discese in acqua sono previste alcune manovre preliminari, consistenti nello sganciare il moschettone sinistro del paracadute ausiliario, nello sganciare il cosciale destro e successivamente quello sinistro, nello sganciare il pettorale al moment~ dell'impatto con la superficie liquida. In tal modo il paracadutista è libero nei movimenti e può risolvere ogni situazione critica, in attesa di essere recuperato.
AVVITAMENTO Questo fenomeno, dovuto all'attorcigliamento del fascio funicolare, può verificarsi in fase di discesa per due motivi: difettoso ripiegamento, o erronea posizione delle gambe al momento di abbandonare l'aereo. Si elimina afferrando le bretelle di sospensione nella parte posteriore, allargandole con forza e facilitando l'operazione tenendo le gambe divaricMe.
Una discesa con un CM P 55 a Tassignano.
Per l'atterraggio fra gli alberi occorre: chiudere strettamente le gambe e unire rigidamente i piedi; incrociare le braccia sul viso, che deve essere tenuto chinato sul petto per evitare abrasioni. Nell'ipotesi di atterraggio su linee elettriche, è necessario adottare le seguenti precauzioni: evitare di venire a contatto con i fili; unire i piedi ed alzare le braccia aggrappandosi alle bretelle di sospensione; inclinare leggermente il capo in avanti controllando costantemente la distanza dai fili. TRASCINAMENTO Questo inconveniente si verifica quando a terra spira un forte vento che agisce sulla calotta come se fosse una vela. Per evitare ogni pericolo, è necessario adottare le seguenti misure di sicurezza: eseguire la capovolta, girare sul dorso, procedere allo sganciamento dei moschettoni, dell'imbracatura (prima le gambe, poi le spalle, infine i pettorali); oppure afferrare la bretella più vicina e tirarla energicamente sino ad ottenere il rovesciamento sotto vento della calotta, liberarsi quindi dell'imbracatura .
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IMPIEGO DEL PARACADUTE AUSILIARIO Un cattivo funzionamento del paracadute dorsale implica una irregolare apertura della calotta, e di conseguenza una riduzione della portanza, con aumento della velocità di discesa. Tale inconveniente, che può produrre gravissime conseguenze, impone l'uso del paracadute ausiliario, o d'emergenza, la cui manovra d'apertura, pur essendo quanto mai semplice, richiede tuttavia alcu' ne precauzioni. Vediamole. Il paracadutista costretto ad · usate l'ausiliario tira la maniglia metallica d'apertura e facilita la fuoruscita della calotta lanciando verso l'esterno il pacco della velatura e agitando il fascio funicolare in modo che l'ingolfamento dell'aria avvenga più raridamente. Durante queste manovre è necessario che il paracadutista tenga le gambe ben unite per evitare impigliature. Il paracadute si apnra con estrema facilità, e lo depositerà a terra incolume.
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Un paracadute da competizione, a fenditura.
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Scuola Militare di Parac,,dut;smo di Pisa: esercitazione di lancio dalla falsa carlinga.
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Un lancio in massa di paracadutisti it aliani.
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Un perfetto atterraggìo con paracadute CMP 55, uno dei più sicuri tra quelli in dotazìone alle aviotruppe.
Dopo aver descritto tutte le operazioni necessarie per il lancio, non rimane che provare a saltare. La meravigliosa sensazione che si prova durante il primo lancio è qualcosa di indescrivibile; certo è che non potrà mai essere cancellata dall'animo. Il lancio, e la susseguente discesa, fanno sentire l'uomo pienamente libero, immensamente felice, al
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di sopra di ogni meschinità, più vicino - non sembri esagerato - a Dio. Il lancio col paracadute rende un individuo psicologicamente diverso dagli altri, più maturo; gli dà un'impronta nuova di consapevolezza, di sicurezza, di capacità fisiche e morali.
APPENDICE
I paracadute usati dai reparti italiani: da Castel Benito a Pisa
Paracadute Salvator
Il Salvator modello D.37 fu il primo paracadute usato per l'addestramento dei paracadutisti libici alla Scuola di Castel Benito. Esso era già in dotazione ai reparti di volo della Regia Aeronautica, e non poteva essere considerato un paracadute specifico per truppe aviotrasportare, in quanto il suo uso era di « emergenza », per il salvataggio degli equipaggi in caso di avaria all'aereo. Era del tipo dorsale (D), monobretella, con cinturone regolabile, ed aveva un doppio comando di apertura: manuale, o comandata, ed automatica. Poteva cioè, a seconda delle circostanze, essere azionato con una maniglia dal paracadutista, oppure aprirsi automaticamente mediante la trazione della fune di vincolo agganciata da un lato all'aereo, dal1'altro all'imbracatura del paracadutista. La velatura (calotta), in seta, aveva una superficie di 46 metri quadrati; il peso era di circa 8 chili. Il lancio veniva effettuato in posizione verticale, le braccia aderenti all'imbracatura, con la mano destra che impugnava la maniglia d'apertura, da tirarsi nell'eventualità del mancato funzionamento dell'apertura automatica. Quest'ultima avveniva così: quando l'uomo si lanciava, la fune di vincolo, lunga circa 5 metri, entrando in trazione, azionava un meccanismo tranciaspago che liberava i lembi deUa borsa portacalotta facendo fuoruscire un paracadu·tino (estrattore) azionato da una molla in acciaio. L'estrattore, gonfiandosi, trascinava fuori della sua custodia la calotta principale, che, sotto l'azione dell'aria, si spiegava, gonfY.1ndosi e frenando in tal modo la caduta. Per facilitare l'ingolfamento dell'aria nella calotta, all'imboccatura di questa era disposto un cerchietto in legno, che nella fase di discesa andava perduto. L'operazione avveniva in circa due secondi e dopo che il paracadutista aveva percorso una ventina di metri. La discesa a paracadute aperto, piuttosto veloce, era di circa 7 metri il secondo. A tale velo-
cità, l'impatto col terreno provocava spesso distorsioni e fratture agli arti inferiori. Identica operazione avveniva col sistema comandato: mediante azione sulla maniglia, si verificavano le operazioni sopra descritte e la conseguente apertura del paracadute. Per ovviare agli incidenti derivanti dall'eccessiva velocità di discesa, il Salvator D.37 subl una variante: fu creato il D.39 (usato poi anche alla Scuola di Tarquinia, nel primo anno di attività) con una calotta di maggiori dimensioni (52 metri quadrati) che consentiva una discesa più lenta. Fu anche realizzato un modello D .40 che permetteva una discesa ancor meno veloce ( 6 ,5 metri il secondo): lo usarono principalmente i paracadutisti del Battaglione Nazionale, m Libia . .,.I paracadute D.39 subì, invece, una modifica al,a Scuola di Tarquinia, consistente in un'imbracatura più efficiente, con due bretelle e due cosciali. Fu chiarnato IF.40 (imbracatura fanteria mod. 1940). Paracadute IF.41-SP Questo paracadute fu realizzato dal Reparto Studi ed Esperienze della Scuola di Tarquinia appositamente per le truppe paracadutiste, dopo che ebbero a lamentarsi alcuni incidenti mortali con il Salvator D.39. L'IP. 41-SP (cioè: imbracatura fanteria mod. 1941 - Scuola Paracadu risti) er& completamer1te diverso dai precedenti modelli. Aveva un'imbracatura con due bretelle, due cosciali e un cinturone regolabile; un fascio funicolare unico con attaccatura dorsale; una calotta in seta di 56 metri quadrati, contenuta in un sacco-custodia nella cui parte posteriore era adattato, opportunamente ripiegato a zig-zag, il fascio funicolare; una robusta fune di vincolo lunga 5 metri e terminante con un moschettone di aggancio. Col nuovo paracadute, la tecnica di uscita dallo aereo fu modificata. Non più verticale, ma a gambe e braccia aperte, « ad angelo », in modo da facilitare lo spiegamento del fascio funicolare e della calotta .
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La velocità di discesa diminuì a circa 5 metri e mezzo il secondo. L'IF.41 , che diede ottimi risultati, subì una modifica nel dopoguerra: furono aggiunte al fascio funicolare due bretelle direzionali, che consentivano una maggiore manovrabilità durante la discesa. Questo paracadute rimase in servizio presso il Centro Militare di Paracadutismo fino al 1952-53, allorché venne adottato un nuovo tipo, il CMP.53. Paracadute CMP. 53 e 55 Il CMP.53, un paracadute di moderna concezione, adattissimo per i lanci di reparto, fu realizzato dal Centro Militare di Paracadutismo di Viterbo. In esso comparve per la prima volta il nylon con le sue eccezionali doti di robustezza e di elasticità ; la velatura, aumentata a 73 metri quadrati, consentiva una discesa lenta, manovrabile per mezzo delle bretelle direzionali; l'imbracatura, molto razionale, era perfettamente adattabile alle diverse taglie. Con il CMP.53 veniva anche realizzato un paracadute ausiliario, o d'emergenza, modello I.53, mediante il quale il lancio veniva ad avere una grande garanzia di sicurezza. L'adozione del nuovo tipo di paracadute ha comportato il ritorno in auge dell'uscita verticale. Il paracadutista si lancia « a piombo », raccolto, con gambe unite e braccia aderenti all'ausiliario, la testa aderente allo sterno per proteggere le vertebre cervicali durante lo shock d'apertura.
Il paracadute CMP 55.
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Quanto all'ausiliario (velatura di 54 metri quadrati, velocità di discesa di 7 metri il secondo), esso si apre mediante una maniglia che, tirata dal paracadutista, fa scattare un paracadutino-estrattore, il quale sfila dalla custodia la calotta principale. Al CMP.53 fece seguito, a qualche anno di distanza, il modello CMP.55, e cosl pure l'ausiliario I.53 fu sostituito dall'I.56. Il nuovo modello dorsale, con calotta di 90 metri quadrati, avente una conformazione « a basco», permette una discesa di 5 metri il secondo. Inoltre, l'eccezionale portanza del nuovo paracadute, uno dei più sicuri ed efficienti fra quelli in dotazione alle aviotruppe in tutto il mondo, consente al paracadutista di portare con sè notevoli carichi: apparati radio, bazooka, mitragliatori ed altri materiali bellici di uso immediato possono essere sistemati in appositi contenitori. Il paracadutista, ad una gamba del quale viene agganciato il contenitore, una volta apertosi il paracadute, sfila un cavo lungo 5 metri agganciato a sua volta al contenitore, in modo che il carico possa precederlo nell'atterraggio. In altri casi, il contenitore usufruisce di un piccolo paracadute, la cui apertura viene azionata dal paracadutista dopo che si è aperto il paracadute principale. In tal modo, mediante un cavo di 10-15 metri, il materiale segue l'uomo nella discesa e viene recuperato dopo l'atterraggio . Con il nuovo efficientissimo paracadute CMP.55, le percentuali di incidenti sono scese ad indici molto bassi.
L'ausiliario I 56.
GLI AEREI USATI DAI PARACADUTISTI MILITARI ITALI ANI
Anno 1915-18 - S.P./4 - (Savoia Pomilio 4) bimotore - lanci informatori. Anno 1922 - S.V.A. - (Savoia Verduzio Ansaldo) monomotore - lanci sperimentali. Anno 1924 - Aviatik - bimotore - lanci sperimentali. Anno 1928 - B.R./2 - (bombardiere Rosatelli) monomotore - lanci in gruppo. Anno 1930 - CA/73 - (Caproni) bimotore - lanci in gruppo. Anno 1938 - SIAI SM/81 - (Savoia Marchetti) trimotore - lanci in massa. Scuola Paracadutisti della Libia (Castel Benito). Anno 1940 - SIAI SM/75 - (Savoia Marchetti) trimotore - lanci in massa. Btg. paracadutisti nazionali della Libia (Scuola di Barce). Anno 1941-43 - CA/133 - (Caproni) trimotore - lanci in massa. Scuola paracadutisti di Tarquinia e Viterbo. Anno 1941-53 - SIAI SM/82 - (Savoia Marchetti} trimotore - lanci in massa. Scuola paracadutisti di Tarquinia, Viterbo, Tra-
date. CMP di Viterbo - Plotoni paracadutisti brigate alpine. Anno 1944 - JU/52 - (Junkers) trimotore - lanci in massa paracadutisti RSI. Scuola paracadutisti tedesca di Friburgo. Anno 1944 - He/111 - (Einkel) bimotore - lanci in gruppo paracadutisti RSI. Scuola paracadutisti tedesca di Friburgo. Anno 1944/45 - C.47 - (Douglas) bimotore - lanci in massa paracadutisti R.E. del Sud. Scuola paracadutisti inglese di Gioia del Colle - S. Vito dei Normanni. Anno 1944/45 - Halifax - (Handley Page) quadrimotore - lanci in gruppo paracadutisti del Sud. S.A.S. - Brindisi. Anno 1959 - C.119/ G - (Fairchild) bimotore - lanci in massa. C.M.P.S.MI.PAR. di Pisa - Brigata «Folgore» - Plotoni paracadutisti alpini - Gruppo incursori subacquei Marina Militare. Anno 1960 - U-1-A - « Otter » - (Canadair) monomotore - l:mri in gruppo - Reparti paracadutisti della Brigata Missili (G.A.0.). Anno 1972 - C130/E - « Hercules » - (Lockheed) quadrimotore a turbina - lanci in massa. S.M.I.PAR. di Pisa.
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GLI AEREI DELLA SCUOLA DI TARQUINIA
Caproni Ca.13 3 La « Caprona», o « Vacca», come scherzosamente l'aereo era stato battezzato dai paracadutisti, fu assegnato alla Scuola di Tarquinia allorchè questa cominciò a funzionare, nel 1940. Era un trimotore ad ala alta, in tubi di acciaio saldato e con rivestimento in tela. Aveva il carrello fisso e motori Piaggio con potenza ciascuno di 460 cavalli. Apertura alare: m. 21,24; lunghezza: m. 15,36; altezza: m. 4; peso a vuoto: kg. 3.900; peso a pieno carico: kg. 6.700; velocità massima: km/h 280; autonomia: km. 1.350; tangenza: m . 5.500. SIAI S.M.82 « Marsupiale >> Classico aereo da trasporto militare, fu tuttavia
impiegato anche in alcune missioni di bombardamento a lungo raggio. A Tarquinia fu assegnato nel 1941 e venne usato per i lanci d'addestramento in massa e per quelli di guerra ( Cefalonia e azioni di sabotaggio in Africa Settentrionale). Trimotore monoplano ad ala media, di costruzione mista (metallo, legno e tela), montava motori Alfa Romeo 128 da 860 cavalli che nel dopoguerra vennero sostituiti con i Pratt e Whitney da 1.250 cavalli. Poteva portare 40 paracadutisti. Apertura alare: m. 29,68; mnghezza: m . 22,90; altezza: m. 6; peso a vuoto: kg. 8.500; peso a pieno carico: kg. 15.500; velocità massima: km/h 370; autonomia: km. 2190; tangenza: m. 6.000.
Caproni CA133 (prototipo) .
SIAI SM-82.
C).., . L.
I COMANDANTI
SCUOLA PARACADUTISTI DI TARQUINIA Col. pilota paracadutista Giuseppe Baudoin dal 15 ottobre 1939 al 6 novembre 1942 Col. pilota Renato Di Jorio dal 7 novembre 1942 al 24 febbraio 1943 Col. pilota paracadutista Luigi Gori Savellini dal 25 febbraio 194 3 al 1O luglio 194 3
SCUOLA PARACADUTISTI DI VITERBO Col. pilota Renato Di Jorio dal 25 febbraio 1943 all'8 settembre 1943
SCUOLA PARACADUTISTI DI TRADATE Ten. col. pilota paracadutista Edvino Dalmas dal 1° nov-.:mbre 1943 al 3 maggio 1945
(Dal dopoguerra le scuole militari di paracadutismo non dipendono più dall' Aeronautic,:;).
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I BREVETTATI
Scuola Paracadutisti di Tarquinia (15.10.1939 - 10.7.1943) n. 15.008 (10.728 durante il periodo di comando di Baudoin).
Scuola Paracadutisti di Viterbo (25.2.1943 - 8.9.1943) . n. 4.880 totale n. 19 .888 .... così suddivisi ....
Esercito: 18.238 Divisione Folgore Divisione Nembo Divisione Ciclone Carabinieri X Rgt. Arditi Indiani ex prigionieri
6.656 8.644
2.100 400 350 88
Aeronautica: 850 1° Btg. Paracadutisti 350 . . ADRA 300 Complementi ADRA ( 2° Btg. in formaz. 1'8 sete. 194 3) 200 Marina: 600 Btg. N.P. « San Marco» Reparti vari: 200 Ufficiali e sottufficiali S.I.M.
=
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I REPARTI
1° Btg. Paracadutisti R.A. (alla partenza per la Tunisia) TRUPPA = .308 SOTTUFFICIALI = 28 UFFICIALI 9 { 1 uff. super., 1 capit., 5 subalterni, 2 uff. medici) Comandante di battaglione ten. col. Edvino Dalmas Vice-comandante di bàttaglione cap. Aldo Molino Comandante la compagnia ten. Michelangelo Messina Comandante 2a compagnia ten. Emilio Carfagnini Comandante .3a compagnia ten. Carlo Silvestri ·Comandante compagnia comando ten. Riello Ufficiali medici cap. Alberto Verona, s. ten. Franco Bini.
=
Btg. ADRA (febbraio '4.3)
=
TRUPPA 270 SOTTUFFICIALI 24 UFFICIALI 14 (1 uff. sup., 1 capit.,11 subalterni, 1 ten. cappellano) Comandante di battaglione: cap. Araldo De Angelis sino all'aprile 194.3); ten. col. Edvino Dalmas (dall'aprile al settembre '4.3) Comandante la compagnia: ten. Enrico Cinquepalmi Comandante 2 3 compagnia: ten. Giuseppe Vasca Comandante .3a compagnia: ten. Franco Maffei Tenente cappellapo: don Ovidio Zinaghi
=
l O Battaglione Paracadutisti Battaglione ADRA Rgt. d'assalto della R.A. « Amedeo d'Aosta» (alla ricostituzione in Tunisia, aprile 194 3) TRUPPA 704 SOTTUFFICIALI = 33 UFFICIALI 17 Comandante di reggimento: col. pil. Donatello Gabrielli 1° Btg. Paracadutisti (comandante cap . Aldo Molino) su tre compagnie (due di fucilieri, per un totale di 196 uomini di truppa, e una di mitraglieri, per un totale di 119 uomini di truppa) Sottufficiali: 11 Ufficiali: 7 (2 cap., 4 subalterni, 1 medico ). Btg. «Loreto» (comandante : magg. Dal Masso) su quattro compagnie (due di fucilieri e due di mitraglieri, per un totale di .389 uomini di truppa) · Sottufficiali: 21 Ufficiali: 9 (1 uff. sup., 3 capit., 4 subalterni, 1 medico).
=
=
n. 92 n. 18 Btg. « Azzurro » (R.S.I. )
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TRUPPA .350 SOTTUFFICIALI .38 UFFICIALI = 18 (2 capit., 13 subalterni, 2 uff. medici, 1 cappellano) Comandante di battaglione: cap. Alfredo Bussoli Comandante 9a compagnia: ten. Giuseppe Dassi (distrutta a Nettuno, la compagnia non fu ricostituita) Comandante 10a compagnia: ten. Leonida Ortelli; cap. Guido Capozzo (dopo Nettuno) Comandante 11 a compagnia: ten. Max Carriere Comandante 12a compagnia: s. ten. Franco Mataloni (fino all'ottobre '44) Comandante compagnia comando: s. ten. Aldo Salvo Tenente cappellano: don Ovidio Zinaghi Paracadutisti R.A. caduti in combattimento
=
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Discesa rawicinata. Da notare 11 contenitore individuale per il trasporto dell'armamento che precede l 'arrivo a terra del paracadute.
Distintivo di ardito portato sul braccio sinistro, sotto al distintivo da ::iaracadutista, dai mil itari del Battaglfone ADRA.
Questo distintivo. da portarsi sul petto in sostituzione di quelli che si portavano sul braccio, venne fatto coniare, su disegno del maresciallo Ghiringhelli, e fu chiesta, tramite via gerarchica, l'a'.ltorizzazione al Ministero dell'Aeronautica. L'8 settembre 1943 tale autorizzazione non era ancora giunta, ma parecchi paracadutist: dell'ADRA usavano già fregiarsi del nuovo distintivo.
I
=
)
l
Distintìvo di brevetto paracaduti sta del 1° Battaglione RA e dell'ADRA (sul braccio).
Distintivo di brevetto dei paracadutisti del Battaglione Azzurro (RSIJ (sul hr~rl"inl
Mostrina del 1° Btg. Paracadutisti RA e del Battaglione ADRA.
Paracadutista del Battaglione ADRA in tenuta da lancio con divisa estiva, prima della partenza per una missione in Africa Settentrionale. Il piccolo paracadute ventrale serviva per sostenere lo zainetto con l'esplosivo (agganciato al petto del paracadutista) e, durante la discesa, veniva portato "al guinzaglio,. dal paracadutista. Ciascun ardito, inoltre, teneva agganciato alla gamba sinistra il contenitore del mitra, come è ben visibile nel disegno.
Tenente del 1° Battaglione Paracadutisti dell 'Aeronautica.
Mostrina del Btg. • Azzurro • della R.S.I.
Fiamma del Btg. • Loreto • della RA
Mostrina dei repart i paracadutisti odierni (E.I.).
Di<-l•nt1vo di breve tto dei paracadutisti odierni (si porta sul petto)
Distintivo • fuor: ordinanza • portato dai primi militari dell' Aeronautica che avevano eseguito lanci col paracadute .
GLI IMPIEGHI DEL PARACADUTE NELL'ERA SUPERSONICA L'avvento del velivolo a reazione negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale creò, oltre ad una rivoluzionaria applicazione d'impiego, nuovi problemi per ciò che concerneva la possibilità di salvezza dei piloti nell'ipotesi di avaria meccanica o di offesa nemica. Come saltare e come salvarsi con aerei volanti ad oltre 1000 chilometri l'ora? questo fu il quesito che si pose ai tecnici incaricati di studiare la possibilità di sopravvivenza dei piloti degli aerei a getto in caso di emergenza. Il problema, studiato a lungo, fu risolto solo nel dopoguerra con il seggiolino eiettabile a propulsione esplosiva, collaudato nel 1956. In verità, vi erano stati in precedenza esperimenti sia in Svezia (1943) che in Inghilterra (1944), ma senza apprezzabili risultati. Anche in Germania si erano avuti durante la guerra alcuni tentativi da parte della Heinkel, ma le prove vennero effettuate con aerei volanti a basse velocità (18). Nel 1956, dunque, la società britannica MartinBaker costrul e sperimentò con successo il primo seggiolino eiettabile per aerei a reazione. Le prove, effettuate con aerei Gloster-Meteor a reazione, vertevano su tre basilari presupposti: 1) alta velocità; 2) notevole altitudine di espulsione; 3) apertura del paracadute a quota di sopravvivenza. In pratica, il sistema, che salvo alcune varianti è tuttora in uso, prevede le seguenti operazioni: per abbandonare l'aereo, il pilota provvede a liberarsi delle cinghie di sicurezza esterne, stringe quelle del seggiolino-paracadute, distacca i collegamenti radiofonici e il tubo d'alimentazione dell'ossigeno applicandolo alla bombola di emergenza, aziona il congegno di apertura del tettuccio mobile e mette in azione una carica esplosiva di limitata potenza che lo « spara» verso l'alto permettendogli di evitare eventuali urti contro i piani di coda dell'aereo. Una volta in aria, il seggiolino si stacca automaticamente e l'uomo discende a paracadute chiuso fino all'altezza prestabilita per l'apertura. Nell'ipotesi di malore, il paracadute si apre automaticamente per mezzo di una cellula a pressione barometrica, tarata ad altezza prestabilita. Moltissimi sono i piloti salvatisi con tale dispositivo che ha il pregio di funzionare anche a bassissima quota, o ad altissima velocità, anche supersonica. Tipi similari vennero costruiti anche in Francia dalia Sud-Aviation con la denominazione di S.A.E. 95
e S.A.E. 96, seguiri dalle versioni S.A.-105E e S.A.120E, studiate particolarmente per velivoli a decollo verticale. Il paracadute trova però altra utile applicazione negli aerei a reazione, rendendo possibile la riduzione di velocità per i grossi jet commerciali e per aerei costruiti per atterraggi su piste corte o erbose. Costruiscono tali speciali paracadute la Irving e Co., l'E.F.A., l'Aerazur, l'Aerostatica Avorio, la Pioneer Co., la G. & Q. Ltd. L'adozione di un paracadute caudale a nastri rende più facili l'arresto ed il controllo direzionale, agendo come un potente freno. Il modello USA Vortex Ring ha un dispositivo rotatorio che permette un più perfetto equilibrio dello sfogo dell'aria consentendo una migl,iore stabilità. Notevole anche l'applicazione del paracadute per il recupero dei missili da esperimento o dei bersagli volanti. radio-comandati. In tal caso vengono usati paracadute bicolori per una più facile identificazione nell'atmosfera. Al termine della ttaicttoria parabolica, nel caso dei missili da esercitazione, o dopo l'esaurimento del carburante per i bersagli volanti, uno speciale dispositivo barometrico provoca l'automatica fuoruscita del paracadute e il suo spiegamento.
Infine, per concludere il discorso sugli impieghi del paracadute nell'era della velocità supersonica, dobbiamo soffermarci un attimo a riflettere sulla mirabolante gara ingaggiata dall'uomQ e dalle sue macchine per la conquista degli spazi celesti. Come restituire all'umanità uomini coraggiosi e temerari come gli astronauti?, in che modo recuperare strumenti costosi, dati scientifici di immenso valore, elementi cosmici di importanza fondamentale? La risposta non può essere che una sola: con l'ausilio del paracadute, che riporta sulla madre terra uomini e navicelle spaziali con dokezza, delicatamente. Il paracadute usato dagli americani per il recupero delle capsule spaziali è il Ringsail della Ventura Corp. a cui è stata applicata la modifica Glide Sail a sistema guidante. Tutti gli astronauti sovietici sono brevettati paracadutisti, e, fino a non molto tempo addietro, era il paracadute che fedelmente li depositava a terra, dopo una strabiliante cavalcata nello spazio. Oggi essi atterrano, come gli americani, dentro la capsula, la cui discesa, naturalmente, viene frenata da speciali paracadute. •
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NOTE
( 1) I lanci <l i Lc normand e di Blanchard non sono storicamente accertaci. Secondo alcuni autori il primo paracadutista della storia sarebbe André Jacques Garnerin. (21 Dopo essersi esibita in Europa, Elisa Garnerin panl per l'America, dove peraltro non avrebbe compiuto discese in paracadute. Tornata in Francia , morl a Parigi, nel 1855, a 64 anni, in un « ospizio per vecchi » chiamato « Maison du bois ». OJ Un ufficiale italiano del Genio, Usuelli, realizzò poco dopo un ripo di paracadute molto simile all'Angel Guardian, che venne dato in dotazione ai nostri aerostieri. (4) Ereno, era l 'alcro, progettò nel 1924 un aeroplanodicottero, capace di portare nove passeggeri e tre membri di equipaggio, che presentava soluzioni, per quell'epoca, avvenirisciche e che furono a distanza di 40 anni adottate da ere grandi case americane di costruzioni aewnautiche. (5) Prospero Freri: « Scendendo dal cielo», pag. 42. (6) Prospero Freri: « Scendendo dal cielo», pagg. 58, 60, 61 e 62. (7) Ecco i nomi dei « magnifici nove»: magg. Lordi; tenente Ranieri; sottoten. Ferraro, Fruttini, Zambaldi; sergen· ti Gallone, Mambrini, Nava; primo aviere Marastoni. (8) Prospero Freri: « Scendendo dal cielo», pagg. 2.31 e
2.32. (9) La spiegazione tecnica dell' incidente viene così r icostruita dallo stesso Freri nell'opera citata {pag. 233). (10) Tale principio era stato già applicato da Alfredo Eremo, nel paracadute di sua in venzione, che egli, come abbiamo visto, colJaudò nel 1923, ma che poi, per una serie d i circostanze avverse, non fu sfruttato industrialme nte. (11) L'episodio venne narrato all'au tore dallo stesso generale Baudoin. (12) Un paracadutista di Chioggia, sposatosi da tre giorni, era in viaggio di nozze, ma fu rintracciato, salu tò la spo· sina e arrivò in tempo per la partenza. (1.3) Per l'azione di Djebel Abiod il ten. col. D almas fu decorato di medaglia d'argento. ( 14 ) La Gazzetta Ufficiale n. 173 del 12 luglio 1965 pubhlicava il decreto presidenziale del 5 aprile 1965 con il quale n:niva110 concesse le medaglie d'argento al V.t,. I. all'avic11.. Jrdito paracadutista Cargnel Franco, da Feltre (Bellu no), classe 192 1, e al primo avie re riaracad11ti ~rn P rocida Vito, da 1\k~,111.1 . da~sc 1917. E<.:<:onc le ri~J)l·ttive motivazioni: « Componente una pattuglia di arditi paracadutisti d,·1' .\nonautirn, aviolanciaco in Africa Settentrionale orrnai 111 mano avversada, con compiti di sabotaggio in aeroporÙ nemici, insieme con un compagno, e dopo che il propno repa r·
to, diviso, era sta to ca tturato, riusciva a penetrare nell'aero· porto di Benina Nord e a collocare l'esplosivo in sua dotazione su velivoli in sosta provocandone la distruzione. Soltanto due giorni dopo l'azione, ormai esausto per aver respinto un attacco a fuoco di elementi locali ed essere stato due volte ferito, veniva cat turato . .Benina Nord (Ci renaica), 19 giugno 1943 ». « Componente una pattuglia di arditi paracadutisti dcUa Aeronautica, aviolanciato in Africa Settentrionale ormai in mano avversaria, con compiti di sabotaggio in aeroporti nemici, insieme con un compagno, e dopo che il proprio reparto, diviso, era stato cattura to , riusciva a penetrare nell'aeroporto di Benina Nord e a collocare l'esplosivo in sua dotazione su velivoli in sosta provocandone la distruzione. Solo dopç due giorni dalla compiurn azione, ormai esausto, per non abban· donare il compagno ferito durante un attacco a fuoco, ve9iva catturato dal nemico. Benina Nord (Cirenaica), 19 giugno 194.3 ». (15) Queste due compagnie, con altri elementi dell'Aero· nautica, formarono poi il Battaglione Azzurro che, al comando del col. Mastragostino, prese parte alla guerra di liberazione sul fronte terrestre. (16) Altri 150 paracadutisti app.. rtenti al battaglione « Nembo» effettuaro no lanci in Germa1,;a, e precisamente all a Scuola Paracadutisti di Friburgo, nei mesi di gennaio e febbraio 194-1. {17) Nel suo libro « Storia del paracadutismo» Dante Pariset riporta, a pag. .347, la seguente lettera che il Sottosegretario Botto inviò al comandante dei paracadutisti tedeschi a Net tuno: « Noi lotteremo strenuamente sul fronte di Nettuno, ma esigiamo che costantemente ufficiali e soldati icaliani indossino la divisa italiana e rechino il tricolore ita· liano senza scudo monarchico. Percanto io chiedo al generale tedesco che fornisca divise italiane ai militari italiani impegnati d in anzi alla resta d i ponte di Nettuno e guidati da nostri ufficiali ». Il generale rispose: « Le divise di cui posso disporre sono divise tedesche. Se gli italiani non intendono indossarle, possono anche combattere in mutandine da b~gno, visto che hanno il mare a due passi ». « D'accordo - nbattè Rotto - ma a cond izione che anche i tedeschi combattano in mutand ine da bagno». ( 18) In Italia, sin dal 1924 Alfredo Ereno aveva stu· <liJtO questo problema, ma la mancanza di mezzi finanziari e l'incomprensione degli uomini gli impedirono di passare alla fase di realizzazione pratica.
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BIBLIOGRAFIA
« Scendendo dal cielo», di Prospero Freri, ed. Hoe-
pli, 1930, Milano. « Le meduse del cielo», di Prospero Freri, ed. Ae-
ronautica, 1939, Roma. « Storia del Paracadutismo » , di Dante Pariset, ed.
Vito Bianco, 1962, Roma. « Arditi del cielo», di Umberto Bruzzese, edizione
G.E.B., 1952, Roma. « Aquile senza ali», di Nino Arena, ed. Mursia,
1970, Milano. « Parà - Storia e battaglie dei paracadutisti di tutto
il mondo», di Edoardo Sala e Nino Arena, 2 voli., ed. F.P.E., 1967, Milano. « Folgore - Soria del paracadutismo militare italiano», di Nino Arena, ed. CEN., 1965, Roma. « Paracadutismo», di Nicola Morelli, ed. Sperling e Kupfer, 1956, Milano. « Il paracadutismo sportivo », di Sergio Andoly, ed. Calderini, 1970, Bologna.
It\TDICE
Premessa
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5
PARTE PRIMA Cap. I Cap. II Cap. III Cap. IV Cap. V Cap. VI
· Precursori e pionieri del paracadutismo - Nasce l'Aerodiscensore · Il Salvator-A - Suo successo in Italia e all'estero · Sviluppo del paracadute italiano: il Salvator-B - La tragica morte del generale Guidoni · Ivo Viscard i e il paracadute Lisi
pag. 7 pag. 12 pag.
15
pag.
18
pag. pag.
23 27
PARTE SECONDA Cap. I
- Fred addestra i libici . Baudoin e la Scuola di Tarquinia Cap. II - Il paracadute IP 41-SP Cap. III · Sfuma l'operazione C-3 - La Scuola paracadutisti di Viterbo
pag. 33 pag. 41 pag. 47
PARTE TERZA - Il I Battaglione Paracadutisti e il Battaglione «Loreto» dell'Aeronautica - Loro sacrificio in Tunisia Cap. II - Il Battaglione ADRA - Le azioni da « commandos » in Africa Settentrionale Cap. III · L'eroismo di Vito Procida e Carlo Cargnel Cap. IV - L'8 settembre - La Scuola di Tradate . Il dopoguerra Cap. I
pag. 51 pag.
57
pag. 65 pag.
71
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75 77 79 81
PARTE TECNICA Cap. Cap. Cap. Cap.
I II III IV
- Come è fatto il paracadute - Il funzionamento del paracadute - L'uomo paracadutista - L'addestramento al lancio
APPENDICE I paracadute usati dai reparti italiani: da Castel Benito a Pisa Gli aerei usati dai paracadutisti italiani Gli aerei della Scuola di Tarquinia I comandanti I brevettati I reparti Gli im pieghi del paracadute nell'era st.ç,ersonica Note Bibliografia
pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag.
89 91
92 93 94 95 97 99 100