QUOTA 188 - SABOTINO, NOVEMBRE 1915

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ANGELO CERIZZA

QUOTA 188

SABOTINO, NOVEMBRE 1915


ANGELO CERIZZA

QUOTA 188

PARMA 2017



A Sante Mazzoletti, 1° Reggimento Granatieri di Sardegna. A Mario Cerizza, 2° Reggimento Granatieri di Sardegna. Ringrazio le cugine Teresa Cerizza Tosoni e Teresa Lottici Omini, figlie di Angela e Maria, due delle tre “sorelline” ricordate da Sante nelle sue lettere, per la disponibilità e l’attenzione prestatami. Un grazie particolare alle pronipoti di Sante Mazzoletti, Diana Mazzoletti, dell’Archivio Storico del Comune di Lodi e Silvia Omini Ciotola (la cui tesi di laurea, citata in bibliografia, mi è stata di prezioso aiuto).

Copyright Angelo Cerizza ISBN 979-12-200-1890-6


Premessa

100.187, di cui 39.857 noti e 60.330 ignoti. Le cifre di Redipuglia. Tanti sono i soldati morti nella Grande Guerra che il più grande cimitero militare d’Italia accoglie. Al 12° gradone, loculo numero 23816, dominato dalla parola PRESENTE (che si ripete ossessiva lungo tutto il gradone e, gradone per gradone, per tutti i 22 gradoni) è ancora schierato il granatiere Mazzoletti Sante, di Codogno, classe 1894, morto per ferite ricevute in combattimento, il 24 novembre 1915 a ventuno anni appena compiuti. Schierato, ancora, per l’appello, il granatiere Sante Mazzoletti non sarà mai congedato. È uno dei tanti, seicentomila e più (il numero non è ancora oggi certo), soldati italiani morti in quella lontana e mai dimenticata guerra: la sua è una storia comune. Per i genitori, che si videro rapire l’amatissimo primogenito e per il fratello minore e per le tre “sorelline” che persero l’adorato e ammirato fratello “grande”, fu la storia di uno strazio indicibile che si prolungò nel tempo per giungere fino a me (classe 1944), il più giovane dei nipoti dello zio Sante. Di Sante Mazzoletti è rimasta la Croce al Merito di Guerra, la Medaglia commemorativa “coniata nel bronzo nemico” e la Medaglia commemorativa “Interalleata della Vittoria”. Le lettere presentate alla fine dei capitoli relativi al periodo compreso tra la fine di ottobre 1914 e il novembre 1915 sono state scelte tra le sessanta scritte da Sante Mazzoletti alla famiglia. Molte di esse sono pervenute senza la busta che le conteneva e spesso sono prive di data: la sequenza temporale è stata perciò ricostruita analizzando i contenuti e collegandoli agli avvenimenti locali e 3


nazionali noti, con tutte le incertezze che ciò comporta. Sono state riprodotte anche due lettere che la madre, Teresa, scrisse al figlio. Sante utilizzò sia cartoline postali in franchigia sia carta da lettera di piccola dimensione; al testo principale aggiunse frasi scritte, spesso a rovescio, in momenti successivi, utilizzando angoli e margini ancora disponibili. Il contenuto della corrispondenza è strettamente famigliare, piccole cose di una famiglia operaia, nel limitato orizzonte di paese, se non di quartiere. Piccole cose, piccole vicende, ma testimonianze di vita reale che per essere comprese devono essere calate nel loro, anzi nei loro contesti originari, nella famiglia, ma anche nel quartiere, nel paese, e nella piccola comunità di compaesani nata nell’esercito e nel Reggimento. Contesti sempre fra loro connessi in una rete inestricabile: Sante, al Reggimento, tramite le lettere dei genitori, vive la piccola realtà del paese e del quartiere, mentre i genitori nel paese vivono la realtà dell’esercito e della guerra, nei suoi risvolti quotidiani e minuti.

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Sante Mazzoletti, Codogno, classe 1894

Sante Mazzoletti, figlio di Giovanni Battista Mazzoletti e di Teresa Laura Pagani, nacque il 19 ottobre 1894 a Codogno in Via Milano (divenuta nel 1911 Via Dante Alighieri, oggi Via Diaz Vicolo Vodice), dove i genitori erano andati ad abitare dopo il matrimonio, e fu battezzato il 21 ottobre. Padrino e madrina furono Angelo Mazzoletti e Lucia Mazzoletti, fratelli di Giovanni Battista. Al neonato furono dati i nomi rispettivamente del nonno materno (Sante Pagani coniugato con Maddalena Ottolini) e del nonno paterno (Francesco Mazzoletti coniugato con Angela Stroppa). I genitori di Sante erano nati entrambi a Codogno in Via Po al 24 (dal 1911 Via Carducci, a poche centinaia di metri da Via Milano), meglio nota come il Guado, il Guàd, (e così la via fu detta ufficialmente fino al 1871); un quartiere popolare che doveva il suo nome all’antica presenza di un’area paludosa bonificata a metà del Seicento. L’edificio dell’antica Chiesa di San Rocco segnava l’inizio del quartiere. La Chiesa era stata sede di un’importante confraternita e, sconsacrata nel 1810, era stata adibita diversi a usi civili, per divenire da ultimo sede di un’osteria detta popolarmente La Barblina, dal dialettale barblà, tremare di freddo, ché l’osteria era priva di riscaldamento. Il Quartiere aveva una sua spiccata unità culturale sì che il 16 agosto festeggiava solennemente il giorno del suo patrono, san Rocco. Dopo Sante nacquero, nel 1895, Francesco (che morì a pochi mesi) e nel 1896 Francesco Secondo (che, nella Grande Guerra, sarebbe stato preso prigioniero dagli austriaci, sarebbe riuscito tornare, a sposarsi e ad avere due figli e sarebbe stato nominato 5


cavaliere di Vittorio Veneto). Nel 1897 nacque Romeo che morì a pochi mesi, a questo seguirono altri due Romeo, uno nato nel 1899 e morto nel 1901 e l’altro nato morto nel 1902. Vennero poi le tre “sorelline”: Angela (1903), Maddalena (1904) e Maria Carolina (1907). Nel 1911 nacque l’ultimo Romeo. Nel 1914 quindi la famiglia era composta di 8 membri: Giovanni Battista, padre, anni 47, Teresa, madre, anni 42, e sei figli - Sante di anni 20, Francesco di anni 18, Angela di anni 11, Maddalena di anni 10, Maria di anni 7, Romeo di anni 3. La vita della famiglia Mazzoletti si svolse tutta a Codogno, principalmente in Via Po nel cortile del civico 24, (anche se non nella stessa casa) dove Battista e Teresa tornarono ad abitare attorno al 1911, e ancora definitivamente nel 1915 e in questa via morì Teresa nel 1921. Battista vide un’altra guerra mondiale e morì nel 1946 in casa di Maddalena, la seconda delle tre “sorelline”. Maddalena nel 1939 aveva sposato Mario Cerizza, “ramaio”, granatiere di Sardegna, del 2° Reggimento, che fu a Porta San Paolo nel ’43 con il “suo” capitano, Giuseppe Ammassari. Per tutta la sua vita Battista di condizione fu operaio, lisciatore presso la conceria “Cattaneo”. Con Battista, allo stesso bancone a diciassette anni, dopo i soliti lavori saltuari, aveva cominciato a lavorare, «ben postato», anche Sante, che nell’elenco preparatorio della lista di leva del 1912 è registrato come conciapelli (e «letterato»). Nella Conceria Cattaneo andrà poi a lavorare anche Francesco, anche lui come Sante registrato nella lista di leva come «conciapelli» e «letterato». Delle idee politiche di Battista sappiamo poco, solo ciò che la tradizione famigliare ha tramandato: custodiva gelosamente la sciabola del padre (casaro del Guàd) che, forse nel 1860, aveva tentato di raggiungere Garibaldi, ma era stato acciuffato al Po e riportato a casa da una non particolarmente solerte polizia. Teneva, anche, una biografia di Napoleone I, suo idolo militare e politico, e fu vicino, forse, ai radicali e ai repubblicani. Comunque in famiglia una cosa era certa: Battista, nonostante la sciabola, il 6


libro e le sue simpatie napoleoniche, era uomo timido, mite e d’animo buono. Per il poco che se ne sa, Teresa era diversa. Vera popolana, era donna di “carattere”, battagliera e punto remissiva. In famiglia si diceva, sottovoce, che leggesse l’”Avanti!”, ma forse questa è storia del Primo Dopoguerra. Delle idee politiche dei figli nulla si sa (e data l’età non credo ne avessero, con l’eccezione forse di Sante, ma nulla su ciò di lui è ricordato). Per quanto riguarda i caratteri e le indoli personali, si narrava in famiglia come Sante fosse un ragazzone alto un metro e ottanta, dalla salute d’acciaio, come amava ripetere, e somigliasse alla madre: era spavaldo ed estroverso. Francesco, che non aveva la prestanza fisica di Sante, - anzi la sua salute delicata (era nato settimino) era sempre stata una delle principali preoccupazioni dei genitori e del fratellone - aveva preso dal padre l’indole timida e mansueta. Delle sorelle, Angela e Maddalena erano la copia della madre, mentre Maria era, come il padre, di carattere mite e accomodante. Di Romeo nulla ovviamente si può dire salvo la sua avversione (spinta fino a minacciare vie di fatto) per il medico che l’ebbe in cura nell’ultimo anno della sua breve vita e il linguaggio non proprio innocente che aveva mutuato dagli operai della Conceria di cui era il beniamino. Nel 1914 Codogno contava più 11000 abitanti (11208 al censimento del 1911). Il paese era ritenuto un cospicuo centro industriale e commerciale (per la media italiana ben inteso). Con sede a Codogno, in via Verdi al numero 7, nel luglio del 1900 era stata fondata, la «Società di Esportazione Polenghi – Lombardo, costituita per la fabbricazione e commercio soprattutto di esportazione di burro formaggi e di altri derivati dal latte in genere». La società operò su scala mondiale con succursali e filiali nelle principali città italiane ed europee. Nello stesso settore lattiero caseario operava anche la Antonio Zazzera, che con la direzione del vecchio garibaldino Giovanni Micheli, era divenuta un’importante realtà produttiva e commerciale, presente sul mercati nazionali e internazionali. Sempre in questo settore erano attive di7


verse aziende di minor dimensione, ma con una produzione, complesso, rilevante e altrettanto apprezzata. Tradizionale era anche la lavorazione della seta: due filande per la trattura, una in Via Cavallotti, il “Filandone” (la più grande, che nei periodi di punta poteva dar lavoro fino a 400 persone) e l’altra in Via Po, occupavano con andamento stagionale manodopera quasi esclusivamente femminile. Tra le aziende del settore abbigliamento, per dimensione, si distingueva la fabbrica dei cappelli di paglia. Attiva era anche una trafileria. Dal 1885 poi operava la Società Anonima per l’illuminazione del borgo di Codogno, con partecipazione maggioritaria del Comune, che ormai cominciava a subire la concorrenza dell’illuminazione elettrica, mentre ancora tenui erano le prospettive dell’uso del gas per riscaldamento. Di non poco conto era la produzione di materiale da costruzione per l’edilizia e quest’ultima attività era di importanza capitale soprattutto per il bracciantato occupato in agricoltura sempre precariamente. Del tessuto industriale codognese una caratteristica occorre segnalare: la presenza massiccia di manodopera femminile (e minorile), così che proprio le filande erano state teatro dei primi scioperi nel 1895. L’industria della concia, dove lavoravano Battista e il figlio Sante, aveva in Codogno solide tradizioni: nota già nel Settecento, nel 1914 era presente con due aziende: la “Bassano Goldaniga” e la “Francesco Cattaneo” (nella gamma di produzione di quest’ultima spiccavano le cinghie di trasmissione e “Conceria e cinghificio” ufficialmente era detta) che avevano sede tutte e due proprio in Via Po. Comunque l’agricoltura rimaneva evidentemente l’attività economica fondamentale: nel circondario di Lodi nel 1911 in attività agricole era occupato il 49% della popolazione attiva. Nel complesso il sistema produttivo di Codogno non era in grado di assorbire tutta l’offerta di lavoro, così che il ricorso all’emigrazione, segnatamente nella categoria bracciantile e dei giornalieri, era piuttosto diffuso; si emigrava in Francia e anche nelle Americhe (in Brasile, e la stampa locale invitava i contadini a 8


diffidare di “agenti” che arruolavano manodopera per la raccolta della gomma nella regione brasiliana del Parà). Con la comparsa degli ultimi sei fascicoli, si concluse la pubblicazione della “Storia di Codogno” di Giovanni Cairo e Francesco Giarelli che chiudeva un’epoca e ne annunciava un’altra, in apparenza, ricca di promesse. Le prospettive di progresso economico e sociale, nonostante i ciclici periodi di rallentamento e crisi, nella Codogno della belle époque erano, infatti, a dir poco ottimistiche. Si progettavano strade (Codogno – Crema) e linee tramviarie suburbane (Piacenza - Codogno - Lodi; Codogno – Crema) e collegamenti automobilistici, più o meno, sulle stesse tratte; si pensava a grandi canali navigabili (Milano - Po - Venezia), a bonifiche e canali di irrigazione; nel 1910 si prospettò una nuova ferrovia “economica” Milano – Piacenza, (parallela a quella inaugurata nel 1861). Compariva il telefono (il primo ufficio pubblico fu aperto nel 1907 nei locali del Casinò), si sperimentava con successo crescente l’illuminazione elettrica (i primi impianti furono attivati nel 1887 in alcune aziende e nel 1906 sui periodici comparve la pubblicità delle lampadine Kitson) e si progettava il ponte stabile su Po (inaugurato a Piacenza nel 1908 con una grande mostra dedicata al fiume). La vita sociale era intensa. Numerosi erano i sodalizi e le società a scopo educativo e ricreativo: la Società dei palchettisti del Teatro, la Società di ginnastica, la Società dei velocipedisti (cui fu concesso di percorrere i viali prima riservati ai pedoni), la Società del casino, la Filarmonica Caffi. In questi anni al teatro (lirico e di prosa) si era affiancato il cinema con proiezioni all’aperto in estate e poi con sale permanenti (“Tre Re”). Tra feste e festeggiamenti, svettavano la stagione lirica del Teatro sociale, in occasione della Fiera autunnale, e il carnevale in cui s’impegnavano un po’ tutte le società, compreso il Consolato operaio, ben visto dai moderati, che aveva finalità educative e cooperative. Rammentare le antiche glorie era compito della Società dei Reduci delle patrie battaglie che, nata come sede decentrata della Sezione di Lodi nel 1886, si era 9


costituita in sezione autonoma nel 1887 (la società rimase in vita fino al 1917) Luci accanto a ombre consistenti e preoccupanti. Le condizioni di lavoro rimanevano pesanti: solo nel 1906 le filandiere della filanda Keller, il “Filandone”, avevano, finalmente, ottenuto una riduzione dell’orario di lavoro: da 11 a 10 ore giornaliere. Ancora si scriveva di malaria, di pellagra (una vittima di questa malattia fu segnalata nel mandamento nel 1904), di scrofola e a tratti sulla stampa compariva l’ancora temutissima parola: “colera”. Il tifo era endemico e, come la tubercolosi, sempre in agguato. Nel 1911 il commissario prefettizio nella sua relazione denunciò le condizioni igieniche delle abitazioni, ovviamente, dei certi popolari, e in generale le condizioni sanitarie dell’area urbana, che tra l’altro consigliarono lo spostamento della storica fiera dalla Piazza del Castello, poi Cairoli, al Foro boario e ai viali adiacenti. Non che non vi fosse consapevolezza dei problemi sociali: l’Associazione monarchico costituzionale, con motto “ordine e progresso”, si appellava alla predicazione di Monsignor Bonomelli per una reale e sentita collaborazione di classe, con accenti sonniniani; i socialisti ovviamente erano per lo scontro tra le classi e la lotta aperta quale strumento di crescita della capacità politica del proletariato e i cattolici, pur duramente critici nei confronti del padronato, soprattutto agrario, prospettavano soluzioni corporative basate sulla parità tra capitale e lavoro. Comunque la sensibilità ai problemi sociali aumentò in tutti i movimenti verso l’inizio del secolo: negli ultimi anni dell’Ottocento con concorso dei Soci della Società generale operaia (che nei soci ordinari contava i maggiori possidenti del paese) si costituì la Società delle case operaie, allo scopo di migliorare le condizioni abitative delle classi popolari. Ebbe non facile vita, ma riuscì a costruire il complesso, ancora noto come “Case operaie”, in via Pallavicino. Comunque il pauperismo rimaneva fenomeno diffuso e ne è testimonianza il lungo elenco di poveri e bisognosi soccorsi con la “Sporta di Natale”. 10


La svolta liberale del governo Zanardelli (marzo 1901), con Giolitti al Ministero dell’interno, consentì, dopo la crisi reazionaria del ’98, la ripresa della dialettica politica e sindacale. Le organizzazioni dei lavoratori tornarono a nuova vita. A Codogno nel 1901 era ricostituita la Camera del Lavoro (fondata nel 1897 e travolta dalla reazione di fine secolo) e riviveva l’associazionismo operaio, che vantava a Codogno una consolidata tradizione. La rilevante, per i tempi e il luogo, presenza di artigiani e operai (e operaie) si era tradotta, infatti, già nella seconda metà dell’Ottocento nella costituzione di una serie di associazioni. Alla Società generale operaia, fondata nel 1862, con una non trascurabile e crescente presenza femminile, erano poi seguite le società di mestiere (Muratori, Falegnami, Canestrai, Pellettieri, Calzolai, Casari, Commessi di studio, Cappellai - che nel ’97 avevano tutte aderito alla Camera del lavoro) e, nel 1902, si era costituita una Società di Mutuo Soccorso tra i Codognesi residenti a Milano. Attiva era anche un’Unione Cooperativa (di consumo) fra gli operai. Sempre nel 1901, prese avvio il movimento dei cattolici che nello stesso anno, organizzato in un Fascio cattolico con forte impegno sociale a favore di piccoli proprietari e braccianti, promosse cicli di incontri e conferenze e istituì il Segretariato del lavoro. Il movimento si era raccolto intorno a popolari figure di sacerdoti: don Pietro Trabattoni, parroco della vicina Maleo, don Pietro Mezzadri, parroco di Caselle Landi e don Giovanni Quaini, coadiutore tra il 1904 e il 1908 nella stessa parrocchia di Caselle Landi. Il movimento cattolico aveva largo seguito e tra i laici già spiccava per impegno Angelo Fusari, che di Miglioli divenne collaboratore di non trascurabile importanza. Sintomaticamente, nel 1905 all’Oratorio San Luigi si tenne la festa del “Garofano bianco” e nel 1908 fu fondata la Società Cattolica di Mutuo Soccorso femminile, con 75 iscritte, che si affiancava alla Società Operaia Cattolica maschile (alle cui conferenze non erano ammesse le donne). Dal 1906 i cattolici potevano contare su un 11


proprio periodico, “Il Popolo” di cui era responsabile proprio don Quaini, nel 1908 trasferito a Codogno come cappellano del lavoro. In quell’inizio di secolo anche commercianti, proprietari e fittabili avevano iniziato a organizzarsi: nel 1886 era nata Società dei negozianti e dei commercianti e nel 1901 era stata costituita l’Associazione tra i conduttori di fondi del Basso Lodigiano. Giolitti mantenne un atteggiamento, in genere, neutrale in tutti i conflitti sociali di quel periodo, anzi in parecchi casi, soprattutto dove forte era la presenza socialista riformista, si adoprò perché i prefetti premessero sui datori di lavoro, segnatamente i fittabili, affinché fossero accolte le richieste dei lavoratori. Politicamente, il nuovo corso, a Codogno, iniziò nel febbraio del 1903 quando alle amministrative si affermò la lista dei partiti “popolari” (radicali, repubblicani, socialisti) e Roberto Pollaroli, fu eletto sindaco. Già candidato al parlamento, sostenuto da Ettore Sacchi nelle “politiche” 1900, e sconfitto dal moderato Bortolo Gattoni, il nuovo sindaco, garibaldino a Mentana con Enrico Rebora e Giovanni Micheli, era stato amico di Felice Cavallotti ed era nipote di Pietro Luigi, (fratello dell’Angelo Pollaroli dagli austriaci condannato allo Spielberg). Il 25 ottobre 1906 morì nella sua casa di Cornovecchio, Bortolo Gattoni deputato del collegio di Codogno, eletto, per la terza volta, nel 1904 con il sostegno del “Comitato liberale monarchico”, dell’Associazione dei conduttori di fondi e dei cattolici, che non avevano potuto certo votare gli altri due candidati, il socialista Angiolo Cabrini e il repubblicano Eugenio Chiesa. Per le elezioni supplettive i liberali di fatto si divisero. Fallita ogni trattativa con i moderati, il neocostituito “Comitato liberale” presentò un suo candidato: Paolo Bignami, e l’Unione cattolico – liberale (che si identificava poi sempre nel vecchio gruppo moderato) si espresse per Giovanni Cairo. I cattolici, ottenuta dal vescovo l’autorizzazione a partecipare alle elezioni, raccolti intorno al “Popolo” di don Quaini, optarono per un candidato proprio, Angelo Mauri, poiché, sostennero, erano falliti tutti i tentativi per trovare un 12


accordo con i moderati su una candidatura comune. Mauri si impose in ballottaggio su Paolo Bignami che, comunque, ottenne una cospicua affermazione. I socialisti avevano presentato un loro candidato: Rinaldo Rigola. Il Comune era stato commissariato nel 1905 e il commissario, nel 1906, indisse le elezioni amministrative; il nuovo consiglio elesse sindaco il radicale Tommaso Micheli sostenuto da una maggioranza popolare; durante il suo mandato il consiglio comunale stabilì che l’insegnamento della religone nelle scuole sarebbe stato soppresso nell’anno scolastico 1907 - 1908. Perdute le parziali, Tommaso Micheli si dimise; dopo un nuovo commissariamento ed ennesime elezioni, vinte dai cattolici, il consiglio elesse sindaco Alessandro Ortolani, che lasciò la carica nello stesso 1908, e poi Cesare Pedrazzini cattolico moderato. Nel 1909 si tennero anche le “politiche”: Paolo Bignami, candidato liberale ormai “progressista” ottenne l’appoggio sia dei democratici (espresso da personaggi come Ettore Sacchi) sia dell’Associazione conduttori di fondi del lodigiano; il liberale superò però il Mauri, ripresentato dai cattolici, di misura e in ballottaggio, con l’aiuto, recriminarono gli elettori del Mauri, dei socialisti (che al primo turno avevano presentato Amilcare Storchi). Dopo le elezioni politiche, i liberali progressisti e i democratici si unirono; “Il Risveglio”, fondato quello stesso anno come organo del Partito Liberale di Codogno, divenne il giornale dell’Associazione Liberale Democratica di Codogno che aveva in Paolo Bignami la figura di maggior spicco. Dopo l’ennesimo commissariamento, nel 1910 la coalizione di liberali progressisti, radicali e socialisti riconquistò il comune: Roberto Pollaroli fu eletto sindaco, per la terza volta (la prima volta nel 1890 era stato eletto da una maggioranza in cui accanto ai radicali figuravano anche i moderati). La giunta risultò composta di due liberali, due radicali e due socialisti, tra questi ultimi, primo degli eletti della lista di maggioranza, figurava Tranquillo Ercoli, piccolo commerciante, già segnalato in un rapporto della polizia nel 1895 come 13


«responsabile del circolo socialista di Codogno», più volte consigliere comunale, che fu eletto assessore effettivo. La crisi economica mondiale iniziata nel 1907 si prolungò nell’anno successivo e in Italia assunse un andamento particolarmente grave. Le sue conseguenze, diversamente dagli altri paesi, si assommarono alla nuova crisi del 1913 e si fecero sentire fino allo scoppio della Guerra Mondiale. Sul piano sociale, il malessere economico dei lavoratori, colpiti dal crescere della disoccupazione e dall’aumento dei prezzi, soprattutto quello del pane che nel 1911 raggiunse i 46 centesimi il chilo, ebbe gravi conseguenze politiche. Scioperi e agitazioni, in effetti, dopo una relativa stasi negli anni 1909 – 1910, erano ripresi in tutto il Regno: gli anni 1911 – 1913 furono segnati da aspri scontri sociali, che politicamente si tradussero nella crisi del riformismo. La guerra di Libia non fece che gettar olio sul fuoco: a Reggio Emilia nel 1912 l’ordine del giorno “lapidario” di Mussolini sancì la vittoria massimalista e l’espulsione dal partito della destra riformista di Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca. La Confederazione generale del lavoro rimase a maggioranza riformista, ma, nel novembre del 1912, i sindacalisti rivoluzionari costituirono l’Unione Sindacale Italiana. A Codogno, nel 1913, un altro cattolico, Stefano Cavazzoni fu contrapposto a Bignami, che però fu riconfermato deputato, superando anche Gregorio Nofri, candidato socialista. Si era votato con la nuova legge elettorale (che istituiva, di fatto, un quasi suffragio universale maschile) e il successo di Bignami fu tanto netto e sorprendente che qualcuno malignò di un altro “soccorso rosso” prestato al candidato liberal-democratico, anche se in realtà la campagna elettorale in Codogno aveva visto intemperanze socialiste proprio nei confronti dei sostenitori di Bignami. Erano i segni dei nuovi tempi.

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1914

Il 1914 non fu un anno fausto né per Codogno, né l’Italia, né per l’Europa. La guerra di Libia era ufficialmente finita il 18 ottobre 1912 con la firma del Trattato di Losanna (Ouchy) e sabato 15 giugno 1913, il Maggiore Betti per incarico del Comando della Divisione di Milano aveva consegnato la medaglia d’argento ai soldati di Codogno reduci dalla nuova colonia. Ma per tutto il 1913 i giornali avevano riportato notizie di scontri e combattimenti. “occupazioni” si scriveva, non “guerra”, ma per molti i conti comunque non tornavano. E i soldati del Regno morivano (si specificava quanti “bianchi” e quanti eritrei) e continuavano le agitazioni contro la “guerra”. Il deputato del collegio, Paolo Bignami, il 17 febbraio del 1914 aveva tenuto, alla Camera, un «ascoltatissimo discorso» dove in sostanza aveva sottolineato come la Libia non fosse la «terra promessa» e che: i problemi della Libia, per quanto importanti, non ci debbano mai far dimenticare di risolvere prima i problemi più importanti che ora abbiamo in Italia. Per esempio, sarebbe strano che ci proponessimo di risolvere nella Libia il problema della grande irrigazione, mentre ancora dobbiamo pensare a risolverlo per le Puglie […]. A risolvere, in parte, il problema dell'irrigazione in Libia penseranno eventualmente le future generazioni d'Italia. Io ho ferma convinzione, e sono in questo d'accordo con l'onorevole Mosca, che se sapremo scegliere gli uomini da mandare in Libia, prendendoli magari anche qualche volta tra gli italiani che vivono in altre colonie sorpassando tutti gli ordinamenti burocratici, se sapremo dare a poco a poco uno sviluppo organico ai servizi pubblici, potremo, se non in un periodo di tempo breve, almeno di qui a 30 o 40 anni porre 15


la Colonia in grado di darci quanto tutte le persone che hanno cercato di studiare il problema, hanno visto che si può effettivamente sperare. [Atti parlamentari, leg. XXIV, 2ͣ sessione – discussione, tornata del 17/2/1914]

L’impressione di Bignami era, più o meno, quella ricavata da una Commissione di imprenditori agricoli, nella quale erano rappresentati anche i Lodigiani, recatesi l’anno prima, in visita alla nuova colonia. Comunque, tenendo d’occhio i costi, opinava qualche moderato, sarebbe stato opportuno accontentarsi della Cirenaica e della Tripolitania lasciando perdere il deserto interno. Qualcun altro pensò – con argomenti in fondo non dissimili da quelli di Bignami – che forse anche in Italia sarebbe stato utile qualche investimento in più. Intanto la crisi economica aveva raggiunto il suo culmine e, in attesa della colonizzazione delle nuove terre oltremare, ciò che prosperava nel mandamento di Codogno era la disoccupazione: due stabilimenti serici - si notava nella Relazione di bilancio del 1913 della Banca Popolare di Codogno – avevano quasi contemporaneamente chiuso i battenti (uno di essi, il minore in Via Po, riaprirà appena dopo, ma con ritmi di lavorazione ridotti), né nelle campagne la situazione appariva rosea. «Il nostro infaticabile deputato», cioè Paolo Bignami, a Roma con interpellanze sollecitava l’avvio di lavori pubblici, segnatamente di bonifica, ma anche quelli per la tramvia Lodi – Piacenza. La situazione rimaneva grave, anzi è giusto dire, all’inglese, “drammatica”. Gli interventi pubblici erano concepiti sostanzialmente per portar sollievo ai braccianti e ai muratori, ma un’altra categoria, in difficoltà se possibile ancora più gravi, reclamava aiuto. Già “Il Po”, il 13 gennaio 1914, scriveva, in uno stelloncino: «Ieri l’altro nell’atrio del palazzo Municipale si notava un piccolo gruppo di donne che con voce alta reclamavano dall’Autorità un aiuto per le loro famiglie: “O dateci del pane o dateci lavoro, poiché siamo privi dell’uno e dell’altro”». Non era stato buon segno.

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Il 1° maggio del 1914 a Codogno fu giornata tranquilla. Almeno così raccontò (con poco sottile ironia) il solito moderato “Il Po”, il 3 maggio 1914, che però non poté negare il concorso di popolo alle manifestazioni: Anche a Codogno la tradizionale festa dei lavoratori è passata nella massima tranquillità. La fanfara dei socialisti ha dato la sveglia, nonostante il cielo vi si fosse scatenato contro con una pioggia davvero torrenziale che si alternò con qualche raggio di sole per tutta la giornata. Alla sera la Loggia Comunale era gremita di gente per udire la conferenza del compagno Orsini[Arturo della sezione del Partito Socialista di Milano n.d.R.] ma invece dovette accontentarsi della parola di altri due oratori che non destarono grandi entusiasmi. Si ebbero alcune sbornie, ma nulla di serio.

C’era altro cui pensare che non gli innocui schiamazzi socialisti! Opinavano i moderati, alle prese con il problema del rilancio dell’ospedale (dove si progettava di far confluire i servizi per i mandamenti di Codogno e Maleo concentrati in Lodi) e preoccupati per il decreto prefettizio che riduceva il numero dei rappresentati dei mandamenti di Codogno e di Casalpusterlengo nel consiglio provinciale. Ma proprio tutto tranquillo non era: le mondine erano scese in sciopero e “Il Po” scrisse, il 5 giugno, «a riscaldare maggiormente l’ambiente contribuì il comizio tenutosi domenica dai socialisti Romeo Campanini segretario della Federazione circondariale dei braccianti e dei contadini e Azimonti», cioè Carlo Azimonti, altro noto organizzatore sindacale socialista, che proprio in quell’anno sarebbe stato eletto sindaco di Busto Arsizio. Le difficoltà finanziare dovute alla guerra di Libia imposero, tra gli altri provvedimenti, un forte aumento della pressione fiscale. Salandra, succeduto a Giolitti, nel marzo del 1914, dopo il ritiro dal governo dei radicali Sacchi e Credaro, dovette affrontare un’ampia serie di agitazioni (ferrovieri, operai delle manifatture dei tabacchi), nonché le manifestazioni studentesche di protesta per il comportamento antitaliano tenuto dalle autorità austriache in occasione 17


degli scontri avvenuti a Trieste tra sloveni e italiani. Il tutto culminò nella grave crisi destinata a divenir nota come la “Settimana rossa”. Il governo Salandra aveva proibito tutte le manifestazioni antimilitariste nella giornata del 7 giugno (festa dello Statuto); nonostante il divieto, manifestazioni si tennero in diverse città d’Italia, peraltro senza gravi incidenti. Ad Ancona, però, dopo un comizio in cui avevano parlato, tra altri, Errico Malatesta e il giovane Pietro Nenni, avvennero scontri tra dimostranti e forza pubblica; vi furono tre morti (tra i dimostranti) e parecchi feriti anche tra la polizia. La Confederazione Generale del Lavoro proclamò lo sciopero generale; i sindacalisti dell’Unione Sindacale Italiana, e i sindacalisti socialisti dell’ala massimalista, lanciarono proclami rivoluzionari, raccolti, in particolare nelle Marche e nelle Romagne dove (al solito) si inneggiò alla Repubblica, ma vi furono gravi disordini in tutta Italia. Benito Mussolini, dall’“Avanti!” lanciò appelli infuocati che rinnovò il 10 giugno con Corridoni nel comizio all'Arena di Milano di fronte a 60.000 manifestanti milanesi. E anche a Lodi, Mussolini, sceso dal treno per Milano, chiamò alla rivoluzione. Codogno, nel suo piccolo, fece la sua parte; la sera del 9 giugno la locale Camera del lavoro faceva affiggere un manifesto: «Lavoratori, un nuovo eccidio proletario ha insanguinato ad Ancona il cammino della libertà umana. Insorgete! Lo sciopero generale è proclamato. La Commissione Esecutiva». Martedì sera, in una dimostrazione sotto le finestre del Municipio, una folla di centinaia di persone impose l’esposizione della bandiera rossa. Il giorno dopo i fatti più gravi: squadre di attivisti obbligarono aziende, negozi e scuole a chiudere mentre altri dimostranti invadevano la sede ferroviaria cercando di impedire la partenza del treno per Pavia e (si raccontò) prendendo a sassate un convoglio in transito. Il delegato di pubblica sicurezza fece chiamare il leader dei socialisti locali, Tranquillo Ercoli, che in una lettera pubblicata da “Il Po” del 19 giugno commentò: «ho fatto quello che la mia 18


coscienza di galantuomo mi dettava e quello che ogni cittadino aveva il dovere di fare, di adoperarsi cioè con ogni mezzo per ottenere la calma ed evitare gravi disordini». La giornata si concluse con un comizio di Romeo Campanini. Il 10, quando i ferrovieri si decidevano per l’astensione dal lavoro, Rinaldo Rigola della CGdL ordinò per il giorno dopo la cessazione dello sciopero generale. Tra il 12 e il 14 giugno l’agitazione si estinse. Si contarono tredici morti tra i dimostranti, uno tra forza pubblica e molte decine furono i feriti. A Codogno non vi furono né morti né feriti; comunque nei giorni seguenti l’Associazione esercenti e commercianti, in un ordine del giorno approvato in assemblea (in risposta a un manifesto fatto affiggere dalla Camera del lavoro in cui si dichiarava la generale e «completa solidarietà della protesta contro il governo»), protestò contro le violenze e la forzata chiusura dei negozi e delle aziende, lamentò che un «ente sovversivo come la Camera del Lavoro ricevesse sussidi dal Comune e deplorò che l’autorità prefettizia non [avesse] saputo tutelare al libertà del commercio e del lavoro e l’incolumità dei cittadini». L’ordine del giorno era firmato da imprenditori e commercianti, tra i quali spiccavano i proprietari e i gestori delle principali aziende codognesi, e venne consegnato all’onorevole Paolo Bignami perché lo presentasse Governo. Va detto che la Camera del lavoro era finanziata per la sua attività di ufficio di collocamento e ciò come nella Milano moderata del ’98. Dopo le elezioni politiche, la giunta “bloccarda” che reggeva il Comune di Codogno dal 1910, entrò in crisi. Si erano dimessi, primi, i consiglieri liberali a causa, dissero, del comportamento dei socialisti durante la campagna elettorale, ma si dimisero anche i consiglieri socialisti e “Il Risveglio”, commentò «il gruppo socialista faceva pervenire le dimissioni dei propri aderenti, con la motivazione che esse erano consigliate dai risultati delle elezioni politiche». Le elezioni amministrative, infatti, erano in vista: la legge del 31 giugno 1913 aveva recepito la legge elettorale na19


zionale del 30 giugno 1912; il governo di conseguenza aveva indetto le elezioni per rinnovare i consigli comunali e provinciali. La giunta di Roberto Pollaroli, pur zoppicante, rimase in carica sollevando aspre critiche da parte moderata. Il giorno 26 luglio si tennero le elezioni amministrative: vinsero i socialisti e Romeo Campanini, che personalmente aveva partecipato alla campagna elettorale rossa, celebrò con un infiammato discorso la vittoria proletaria. La realtà forse era più complessa: i liberali, pare, si erano pronunciati per l’astensione dal voto e nessuno aveva raccolto l’invito a formare un blocco antisocialista. “Il Po”, che di questo blocco era stato appassionato promotore, desolato, il 31 luglio scrisse: «al balcone comunale ha sventolato per due giorni la rossa bandiera anticostituzionale. Ognuno si domanda se Codogno è in Italia, dove – che si sappia – non è ancora stata proclamata la repubblica sociale inneggiata dai varii Ercoli della socialisteria; e si dimanda anche se nel nostro beato paese esista un rappresentante del potere politico che si incarichi di far rispettare il sentimento e l’opinione della vera maggioranza dei cittadini». Tranquillo Ercoli fu eletto sindaco di Codogno. La nuova giunta socialista (un vero scandalo, unica in tutto il territorio) entrò in carica il 2 agosto del 1914 e subito iniziarono le difficoltà, politiche, anzitutto - come rilevò il sindaco Ercoli nella relazione di giunta, Dopo un anno di amministrazione, - pubblicata per deliberazione consigliare dell’8 agosto 1915 - poiché «l’amministrazione dovette rassegnarsi alle dimissioni della minoranza» che per quanto respinte vennero «replicatamente presentate». Affinché non venisse meno l’indispensabile funzione di controllo, fu giocoforza «sostituire ai rappresentanti i rappresentati»: il resoconto dei lavori dell’Amministrazione fu esposto al pubblico in un albo affisso sotto la Loggia comunale.

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I cannoni d’agosto

S’erano da poco acquietati i fragori della “Settimana Rossa”, quando, il 3 luglio, “Il Po” diede notizia, sostanzialmente senza commento, della “tragedia” di Sarajevo. L’indomani delle elezioni amministrative, il 31 luglio 1914 sempre “Il Po” in prima pagina e in prima colonna annunciò: Il triste dramma di Sarajevo ha dato pretesto all’Austria-Ungheria di ridestare le proprie cupidigie in Oriente alle quali a malincuore aveva dovuto rinunciare per le decisioni prese dalle altre potenze europee nella sistemazione dei rapporti dei vari Stati balcanici. È proprio il caso di ripetere che l’Aquila non perde mai i suoi artigli. Con un’azione diplomatica repentina ha rotto le sue relazioni con la Serbia, e mentre scriviamo ci giunge la notizia che l’Austria-Ungheria ha formalmente dichiarata la guerra alla piccola Serbia.

La guerra alla Serbia era stata dichiarata il 28 luglio 1914; nel giro di pochi giorni mobilitazioni, ultimatum e dichiarazioni di guerra si incrociarono tra le principali capitali europee. Il 3 agosto di fatto la Prima Guerra mondiale era iniziata. L’Italia era rimasta neutrale; la guerra avviata dall’Austria-Ungheria era a carattere aggressivo e, inoltre, il Regno d’Italia non era stato consultato come invece prevedeva il trattato della Triplice. Con la guerra europea, la situazione economica e sociale, già difficile peggiorò a Codogno come in tutta Italia; rientrarono gli emigrati e vennero meno le loro preziose rimesse. Triste era la vista, sulle banchine della Stazione ferroviaria, di gruppi di emigrati in transito, privi di tutto, e soccorsi per quanto possibile. La giunta municipale l’8 agosto 1914 deliberò di «venire in aiuto degli 21


emigranti di passaggio incaricando il capostazione di provvedere ai casi pietosi e urgenti». Ma rientrarono anche gli emigrati del mandamento di Codogno e di quelli contigui e si aggravò il problema della disoccupazione, che non era cosa nuova e già nel 1913, in alcuni settori, come quello dell’edilizia, aveva raggiunto livelli preoccupanti, per non parlare dei braccianti agricoli. Il 28 agosto “Il Po” riferiva come l’amministrazione comunale: di fronte alla disoccupazione aggravata dal ritorno degli emigranti annunzia che ha disposto che tra pochi giorni sia iniziata la costruzione del nuovo edificio scolastico [il cui progetto aveva iniziato il suo iter nel 1909 n.d.R.] e ha reclamato dai comandi militari la fornitura di lavori di biancheria; ha pure deciso di aprire il ricreatorio per accogliere i figli dei disoccupati dai 3 ai 10 anni e, riservandosi di stabilire quella somma che sarà necessaria per occorrere a sovvenire di lavoro i disoccupati, fa intanto appello alla cittadinanza, ed inspecie alle classi più abbienti, perché procurino, anche con qualche loro sacrificio, lavoro ai disoccupati, facendo eseguire quelle riparazioni che fossero richieste ai loro fabbricati, per metterli in relazione colle prescrizioni dei vigenti regolamenti municipali.

Al ricreatorio, con mensa, furono poi ammessi anche i figli degli occupati con retta di 1,50 la settimana. “Il Po”, lo stesso 28 agosto in altra parte, riferiva come «imminente la presentazione per la firma reale di diversi decreti tra i quali quello che riguarda la sospensione del divieto per il lavoro notturno delle donne e dei fanciulli» e come questo provvedimento avesse «lo scopo di restringere ed impedire più che sia possibile la disoccupazione». Pesava sulla popolazione non abbiente il continuo aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. L’Amministrazione rossa ne era più che consapevole e nella già citata relazione rimarcava: Non appena insediata l’amministrazione dovette constatare come i generi di prima necessità causa la crisi già incombente andassero aumentando di costo in modo ingiustificato. Dovette quindi subito provvedere colla 22


minaccia dell’imposizione del calmiere ed alla minaccia di far seguire la fissazione del prezzo del carbone cock, prezzo fantasticamente elevato dalla locale officina del gas, la quale per l’energia nostra si vide costretta ad adattarsi ad un provvedimento di discutibile legalità, ma indubbiamente equo ed opportuno. Di discutibile legalità perché il regolamento di polizia urbana non facoltizzava l’amministrazione all’imposizione delle assisi, esclusa la meta del pane, così come di poi non autorizzava il calmiere sul gas, dovuto imporre a tutela dei consumatori ed abbandonato in seguito agli intervenuti accordi su di un prezzo di conciliazione. Vi è noto che per rendere possibile il freno agli ingiustificati aumenti del prezzo, l’amministrazione propose dapprima due articoli aggiuntivi al vigente regolamento di polizia urbana, articoli tendenti appunto ad autorizzare l’imposizione del calmiere sui generi tutti di prima necessità, comprese le materie prime per l’illuminazione e per il riscaldamento. Ma per ben due volte la Giunta P. A. rinviava le proposte aggiunte cosicché i questi giorni è stato inoltrato contro il provvedimento definitivo dell’autorità tutoria il ricorso gerarchico al governo del Re.

Non c’era da farsi soverchie illusioni sul risultato del ricorso e si ritenne di dover almeno controllare il prezzo del pane: a inizio del 1915 la giunta comunale chiese alla Banca Popolare e al Piccolo Credito di poter accendere un mutuo di centomila lire per l’impianto di un forno per la confezione di pane da vendersi a prezzo politico, come riferì la “Libertà” di Piacenza del 3 febbraio 1915. Paolo Bignami presentò al ministro un’interpellanza scritta perché fosse avviata nei comuni della Bassa una cospicua serie di lavori pubblici. Alla fine di settembre la Sottoprefettura di Lodi rese noto il testo del decreto reale che stabiliva le modalità per procedere sollecitamente agli appalti dei lavori già autorizzati e norme particolari per favorire i comuni in cui a causa del rientro degli emigrati la disoccupazione avesse raggiunto livelli «speciali». Così per Codogno - come notò il sindaco Ercoli nella citata relazione alla giunta - «qualche vantaggio ai braccianti e ai muratori 23


poté derivare anche perché procedendo con celerità contraria ad ogni consuetudine burocratica si addivenne (il 2 settembre) all’inizio dei lavori per l’erezione dell’edificio scolastico». In novembre di quell’anno anche i più incalliti moderati dovevano prendere atto della difficile situazione, a loro modo s’intende. Il giorno 15 “Il Po” dava notizia che: «l’associazione fra gli esercenti ha deliberato di aprire una sottoscrizione fra la cittadinanza per potere, in qualche modo, alleviare i gravi inconvenienti della disoccupazione nella entrante invernata». Erano bene accetti anche «oblazioni in generi alimentari». Per “Il Po”, la colpa era dei socialisti, ben inteso, che con il loro incitamento alla lotta di classe distruggevano la «relazione tra padrone e dipendente», tanto che, di fatto, alla fine i disoccupati non erano altro che «le vittime dei loro scioperi; sono operai che, scemata la rivolta o furono respinti dal lavoro o trovarono il loro posto occupato». Si faceva però la grazia di ammettere, sempre da parte moderata, che «la nostra campagna in Libia, abbia portato delle conseguenze naturali di una guerra, ma la necessità di salvare il prestigio della Nazione era così urgente e manifesto che la proposta di un’azione guerresca fu all’unanimità approvata dalla Camera». Non era vero, non vi fu come, si sa, alcuna unanimità. Vero era che la salvaguardia del prestigio era costata e costava troppo, sì che gli stessi moderati invitarono a controllare le spese. Con una filanda chiusa, l’altra, come detto, operante a ritmi ridotti e con riduzioni di salario e la fabbrica dei cappelli di paglia in difficoltà, c’era poco da far gli idealisti schizzinosi: l’amministrazione rossa favorì, anche con un contributo diretto, la nascita, nei locali dell’Associazione per la donna, di una Scuola di confezione di sartoria dove, grazie al contratto con l’Amministrazione militare, furono occupate, in certi momenti, fino a ottanta donne. Con altro sacrificio finanziario, la giunta ottenne che fossero destinati a Codogno uno squadrone di cavalleria e un battaglione di fanteria. Così tra la fine del 1914 e primi giorni del 1915 uno squadrone di cavalleggeri del 24° Reggimento Vicenza di 24


stanza a Lodi - Crema, e un battaglione del 25° Reggimento di fanteria di linea, Brigata Bergamo, si acquartierarono in Codogno. Il primo fu alloggiato nella caserma San Giorgio (e si provvide a trovar nuovi locali per la Camera del Lavoro che lì aveva sede) e il secondo nei locali dell’ex “Filandone” di Via Cavallotti (che il Comune acquistò). Facili furono le ironie sui socialisti, antimilitaristi sfegatati, che chiamavano in soccorso, anche se solo economico, proprio il tanto deprecato Regio Esercito. In quei mesi l’”Avanti!” aveva denunciato la difficile condizione nelle caserme, spesso improvvisate, dove i soldati erano ricoverati in condizioni igieniche precarie, dove, si diceva, serpeggiassero epidemie e dove non infrequenti erano i suicidi. Forse in Codogno le condizioni dei soldati non erano così drammatiche, certo però che in pochi mesi si registrarono due tentativi di suicidio nel battaglione di fanteria e corsero voci di malattie infettive tra i soldati (morbillo poi si scrisse). I rapporti con la popolazione erano (o si pretendevano), tutto sommato, buoni: i soldati fraternizzavano con la popolazione e andavano ballare nelle osterie e gli ufficiali partecipavano alle feste danzanti organizzate dalla Società di pattinaggio. «Tra borghesi e militari l’affiatamento, l’accordo è completo», scrisse il corrispondente della “Libertà” di Piacenza nel gennaio del 1915. In verità qualche incidente vi fu: un cavalleggero schiaffeggiò una ragazza in Via Costa e un diverbio tra un ragazzino e un sottufficiale del 24° degenerò in una rissa generale tra borghesi e soldati. Il 1914 anche per i Mazzoletti non fu un anno felice: l’11 di aprile morì il piccolo Romeo, pianto da tutti, dalla famiglia ovviamente, da tutto il Guado, compresi gli sboccati operai della Conceria. In quell’anno poi Sante compiva vent’anni e, già iscritto, come tutti i giovani, nelle liste di leva a diciotto anni, era pronto a servire effettivamente nel Regio Esercito. Per la classe 1894 il Ministero, nel dicembre del 1913, aveva fissato l’apertura della sessione di leva per l’1 gennaio 1914 e aveva stabilito che tutte le operazioni previste si svolgessero tra il 12 25


marzo e il 10 luglio. Il Sottoprefetto del Circondario di Lodi, secondo quanto prescritto dal Testo unico pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 53 del 2 marzo 1912, convocò Sante con gli altri giovani di leva, il 13 maggio, giorno stabilito per il Mandamento di Codogno, a Lodi nella Caserma “Melegnano” in via Fanfulla, dove aveva sede il Distretto militare. Il Distretto di Lodi, 65°, istituito nel 1877, dipendeva dalla Divisione territoriale di Piacenza che, a sua volta, dipendeva dal IV Corpo d’Armata con sede, dal 1898 in Genova (fino al 1898 il IV corpo d’Armata aveva avuto sede in Piacenza). Davanti al Consiglio di leva del Circondario, presieduto dal Sottoprefetto di Lodi, Sante, come ogni coscritto, estrasse da un’urna la scheda con il numero che sarebbe stato abbinato al suo nome: gli toccò il 161. Fu sottoposto poi all’esame personale con cui il Consiglio, con la necessaria assistenza medica, accertava anzitutto l’idoneità fisica al servizio militare. Erano «riformati» (cioè esentati dal servizio) gli iscritti alla lista di leva che «per infermità o per difetti fisici ed intellettuali risultavano inabili al servizio militare […] oppure siano di statura minore ad un metro e 54 centimetri». Però «gli iscritti che superino la statura di un metro e 54 cm. ma non raggiungano quella di un metro e 55 cm sono rimandati alla prima successiva leva e da questa occorrendo alla leva seguente e non avendola neppure raggiunta in quel tempo debbono essere riformati». La stessa regola di rivedibilità valeva anche per gli «iscritti affetti da infermità presunte sanabili in breve spazio di tempo». Non era il caso di Sante che nel Foglio matricolare risulta alto «1,79 ½» e non presenta alcun difetto fisico. È «biondo», con gli «occhi grigi», il «colorito roseo», il «naso greco» e la «dentatura sana». Avrà la matricola numero 25064 - 65. In sede di esame personale era anche valutato l’eventuale diritto all’esenzione al servizio di 1ª categoria. Per i giovani ritenuti fisicamente abili, il testo unico stabiliva, infatti, modalità di servizio diverse in funzione essenzialmente delle condizioni famigliari del singolo coscritto. La legge riconosceva tre categorie. I giovani di 1ª categoria, composta 26


di coloro che non avevano diritto al alcuna esenzione, inviati a casa con il “Foglio provvisorio di congedo illimitato”, alla chiamata alle armi erano immediatamente arruolati per la “ferma” di due anni da passare, vestita la divisa, al reggimento. Se però gli stanziamenti previsti nel bilancio dello Stato non avessero consentito di arruolare tutti i coscritti di 1ª categoria, gli esuberi, scelti in base al numero che ogni coscritto aveva estratto all’inizio delle operazioni di leva, erano collocati in licenza straordinaria e tenuti a prendere parte alla prima chiamata della 2ª categoria e l’anno successivo ad un periodo di istruzione. Alla 2ª categoria erano assegnati i coscritti in condizioni famigliari, minuziosamente specificate, che potevano, nell’arco di due anni, essere chiamati più volte in funzione delle esigenze di armi e corpi per un massimo complessivo di sei mesi, in genere coincidenti con i periodi di forza minima dei reggimenti per l’avvicendarsi degli anziani congedanti e delle reclute chiamate per il servizio. All’atto della leva i giovani di 1ª e 2ª categoria entravano a far parte dell’esercito permanente, dove sarebbero rimasti per 8 anni, di cui come detto, i primi due in servizio effettivo ai reggimenti (quindi nel 1914 l’esercito permanente era composto delle classi dal 1885 al 1894). Poi giovani passavano nella Milizia mobile fino al 31 dicembre del dodicesimo anno di servizio per essere infine inquadrati nella Milizia territoriale (detta «la Terribile») fino al 31 dicembre dell’anno in cui avrebbero compiuto i 39 anni. Nella Milizia territoriale erano ammessi direttamente anche i coscritti della 3ª categoria con i requisiti famigliari previsti nel testo unico. Mentre tutte le classi dell’esercito permanente e della milizia mobile in caso di necessità potevano essere mobilitati, la terza categoria avrebbe dovuto svolgere, in tempo di pace, compiti di presidio e di controllo territoriale. In caso di mobilitazione il Ministero della Guerra poteva completare i ranghi dell’esercito permanente attingendo alla Milizia Mobile e prelevare dalla Territoriale elementi migliori per completare i ranghi della Milizia Mobile. I militari, dopo il servizio in divisa, infine, potevano essere 27


richiamati con decreto reale, sia nella loro totalità, sia in parte, per categoria, per arma, per provenienza, per corpo, per specialità di servizio e per distretto. I richiami non erano infrequenti: per una recluta allora incontrare anziani richiamati era tutt’altro che difficile. Sano e robusto di costituzione e poiché lo stato della famiglia non era tale da consentirgli d’essere ammesso alla 2ª categoria né tanto meno alla 3ª, Sante fu incluso nella 1ªcategoria e rimandato a casa con il “Foglio provvisorio di congedo illimitato” in attesa della chiamata. Puntualmente, la classe 1894 fu chiamata alle armi con manifesto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 191 del martedì 11 agosto 1914. Le reclute dovevano presentarsi al distretto; sarebbe loro stato riconosciuto un rimborso delle spese di viaggio a “tariffa militare” e una diaria di £ 1,20 per ogni giorno di viaggio. Così l’11 settembre 1914 Sante è chiamato al Distretto a presentarsi con il suo “Foglio provvisorio di congedo illimitato”; saluta la madre Teresa, il padre Giovanni Battista, il fratello Francesco, le tre “sorelline” e Maria la fidanzata, non ancora ufficiale, ma di famiglia, par di capire, del Guado e conosciuta in casa Mazzoletti .

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Granatieri di Sardegna

Sante avrebbe servito nel 1° Reggimento della Brigata Granatieri di Sardegna allora di stanza a Roma. Il giorno 18 settembre si presentò al Deposito e dopo, il primo addestramento, fu destinato al II Battaglione, 7ͣ Compagnia, nella Caserma Regina Margherita (oggi Luciano Manara nel quartiere “Prati”). Cucito tra la prima e la seconda asola della giubba aveva il piastrino, una lastrina di zinco con scritti a mano con inchiostro zincografico indelebile cognome e nome, anno di nascita, numero di matricola, distretto, categoria e classe d’iscrizione all’atto dell’arruolamento. La Brigata Granatieri di Sardegna, come tutte le brigate di fanteria, era su due reggimenti, 1° e 2°, ciascuno su tre battaglioni di quattro compagnie, (1° Reggimento: I Battaglione, compagnie 1ª, 2ª, 3ª, 4ª; II: 5ª, 6,ª 7ª, 8ª; III 9ª, 10ª, 11ª, 12ª). Comandava la Brigata il generale Luigi Pirzio Biroli; il 1° Reggimento era agli ordini del colonnello Umberto Gandini; il II battaglione, era affidato al maggiore Paolo Anfossi e la 7ª Compagnia, quella di Sante, inquadrata nel II Battaglione, era agli ordini del capitano Giulio Pietraccini. Tutti i Reggimenti hanno un passato glorioso, ma a sentire gli ufficiali della Brigata Granatieri, e Sante come tutte le reclute li stette a sentire, i due Reggimenti avevano un passato più glorioso degli altri. In effetti, a essere sinceri, non si poteva negare che la Brigata fosse antica e prestigiosa: Carlo Emanuele II duca di Savoia, nel quadro della riforma dell’esercito, nel 1658 aveva istituito il Régiment des Gardes su 12 compagnie. Il duca Vittorio Amedeo II, successo al padre nel 1675, introdusse il battaglione 29


(due per ogni reggimento a inquadrare le compagnie) e dall’esercito francese mutuò i Granatieri (una compagnia per battaglione di ogni reggimento di fanteria di ordinanza) che, armati di granate a mano, dovevano precedere le colonne d’assalto di battaglione. Dopo il 1815 il Reggimento Guardie divenne, la Brigata Guardie (che pur mantenendo in tempo di pace la forza di un reggimento, in caso di guerra si sarebbe costituita su due reggimenti). La Brigata dal 1816, rinforzata con compagnie di granatieri provenienti da altri reggimenti, divenne Brigata granatieri guardie. Nel 1831 l’unità incorporò un vecchio (e glorioso) reggimento, il “Sardegna Fanteria”, costituito nel 1744 e denominato nel 1814 Reggimento Cacciatori Guardie, che fu chiamato Reggimento Cacciatori. Nel 1850 Brigata prese il nome di Brigata Granatieri e il Reggimento Cacciatori fu detto Cacciatori di Sardegna. Nel 1852 il Reggimento Cacciatori di Sardegna fu sciolto e le sue armi furono incorporate nella Brigata Granatieri che al nome aggiunse “di Sardegna”. Sante dovette ben apprendere come dal lontano Seicento fino a quel 1914 non vi fosse stata guerra condotta dai duchi di Savoia, dai Re di Sardegna e dai Re d’Italia in cui non fossero sventolate le bandiere della Brigata. La festa della Brigata si celebrava il giorno 4 novembre a memoria della battaglia sostenuta a Mola di Gaeta (oggi nel comune di Formia) contro gli sfortunati (e valorosi) soldati del Regno delle due Sicilie. Qui il 1° Reggimento aveva guadagnato la medaglia d’oro al valor militare e il 2° quella d’argento. Reparto d’élite era la Brigata, sottoposto ad addestramento particolare, noto per il coraggio e la prestanza fisica dei suoi soldati. Nel 1899 la Brigata era a Piacenza, nel 1900 a Parma e nel 1902 Vittorio Emanuele III l’aveva voluta a Roma. Lo spirito di corpo era elevatissimo. Dal reggimento giungono a Codogno notizie confortanti. Sante sta benissimo, l’iniziale inappetenza (la qualità del rancio è discutibile) ha ceduto il posto a un appetito invidiabile: «mangio 30


come un orso», scrive. Ha trovato amici; in cinque vengono da Codogno o da paesi limitrofi e tre in particolare sono ricordati: su tutti Emilio Violanti, anche lui del ’94, amico d’infanzia, nato in via Milano, come Sante. Poi c’è Lino Tonani di Fombio, del 2° Reggimento, classe 1893, e Pozzoli di Codogno. Pozzoli presto verrà congedato e sicuramente andrà a trovare i Mazzoletti e «vi spiegherà come sono le cose e le fatiche che si fanno». Comunque, promette Sante, quando verrà in licenza lui stesso potrà mostrare il suo libretto personale dove sono dettagliati i servizi e le esercitazioni che «rodano l’uomo». I granatieri sono l’élite dell’esercito, per coraggio e prestanza fisica. «Non c’è altro corpo marciatore come il granatiere; tutte le mattine andiamo insieme ai richiamati, sembrano nostri padri, eppure anche loro a zaino fardellato, come noi». Faccia ben attenzione Franceschino, delicato com’è, a evitare d’essere arruolato nei granatieri! Sante poi è nell’élite dell’élite; in occasione della festa del reggimento, il 4 novembre «i capitani […] scelgono […] delle reclute i migliori per mostrarli ai loro superiori». Sante con Emilio è nei dodici selezionati della loro Compagnia e anche Pozzoli è scelto fra i soldati della sua. «Dunque contentatevi che avete un giovane scelto». Intanto si selezionano anche i soldati da mandare in Libia («dite nulla a Maria»), ma non c’è da preoccuparsi più di tanto: «non siamo certi d’andare, poi si dovesse andare esiste più pace in Libia che in Italia». La vita al reggimento non era facile: se il rancio in fondo era (appena) sufficiente dal punto di vista quantitativo, lasciava molto a desiderare per la qualità. Il vino era distribuito con grande parsimonia: a ogni soldato ne toccava un quarto ogni tre giorni. Rifocillarsi fuori nelle osterie era una prassi antica e inveterata. Ma la cinquina era misera: in teoria il soldato percepiva al giorno 89 centesimi, ma 79 erano trattenuti per il vitto e la manutenzione del vestiario, così che “alla mano” rimanevano solo 10 centesimi. In negozio il pane, per esempio, costava, ormai, 50 centesimi il chilogrammo, per non parlare del vino che costava 50 centesimi il 31


litro. La richiesta d’aiuto alle famiglie (quelle che potevano) era vecchia abitudine già riscontrabile al tempo degli eserciti napoleonici (solo 23 maggio 1915, un decreto reale assegnò a «caporali, appuntati e soldati» una supplettiva «indennità di campagna» di 40 centesimi il giorno). Il 26 si parte per il campo a Frascati; «dunque vi prego di mandarmi qualche cosa per domenica. Dovete considerare anche voi che i primi mesi, non essendo pratici ci vuole altro che dei soldi; avete visto che i soldi che avevo non li ho stragiati [sperperati, n.d.R.], e poi senza dir altro quei soldi sono andati tutti in mangiare». A Natale Sante è di guardia alle scuderie e a Capodanno (sempre di guardia) nel forte di Pietralata – non partirà per la Libia e non c’è stata licenza - ma le feste le trascorre bene. Il 5 gennaio è di nuovo a Frascati per un altro ciclo di addestramento al campo. Rimanda a casa gli abiti “borghesi”: non può indossarli per nessun motivo, né può tenerli nello zaino. Intanto briga, come tutti i soldati, per trovarsi una sistemazione che lo esenti dai servizi più gravosi: potrebbe entrare nel plotone aspiranti caporali e prendersi il “baffo”. Ma a Frascati ne combina una (che confesserà con vergogna alla famiglia in una lettera): una sera ha esagerato nella bisboccia e «dopo il silenzio commetteva disordini in camerata», guadagnandosi otto giorni di CPS, (si apprende dal suo Foglio matricolare). Il capitano riduce la punizione due giorni, ma il posto nel plotone dei caporali se l’è giocato. Pensa di riuscire a farsi prendere nei conducenti di muli: diversamente da prima, anche i conducenti ora devono portare lo zaino, ma non è affardellato. «Ha frequentato il corso per il governo di quadrupedi con la classifica di buono», dice sempre il Foglio matricolare. Scrive sempre a casa, ai genitori, e non mancano, né mancheranno mai in ogni lettera o cartolina postale accanto ai saluti affettuosissimi per i genitori, i saluti a “Franceschino”, i bacioni alle tre “sorelline”, i saluti alle zie, ai cugini, agli amici. E la preghiera di salutare Maria «se la vedete». Maria e Sante si 32


scriveranno poi a parte, ma nulla è rimasto di quella corrispondenza. In una delle prime lettere invia la cartolina con la canzone del granatiere. I soldati intanto avvertono che qualcosa bolle in pentola: «Fanno fare le fatiche come se ci fosse una mobilitazione momento a momento. […] Per nulla non l’avrà ordinata».

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Lettere dal Reggimento novembre 1914 – gennaio 1915 carissimi genitori, vi rendo le mie notizie che presto andrò al campo a Frascati, quindi mandatemi la camicia bianca e una di colore e se le hai anche delle pezze da piedi; le mie scarpe basse, se sono ancora in buono stato, fatemi, il pacco insieme. Presto riceverete il pacco il quale contiene le scarpe gialle rotte al puntale, quindi fatele cambiare la punta; la spesa che sarà invece di mandarmi dieci lire per un mese me ne manderai cinque. Sapete genitori che potrei venire a casa dopo le feste di Natale perché l’altro giorno fecero la visita per quelli della Libia e io fui il primo. Ti raccomando di far sapere nulla a Maria per la Libia e dite a Francesco se ha qualche […] li unisca ai vostri; per ora però non ne ho bisogno. Vi saluto tutti in famiglia; saluti ai miei cugini, un bacio alle sorelline. Ciau, ciau. Vostro Sante Quando ritornerà Pozzoli lo manderò a casa nostra. Quindi non vi dovete spaventare: tutti non siamo certi d’andare; poi se si dovesse andare esiste più pace in Libia che in Italia. Sappiate che prima non mangiavo, ora mangerei i sassi; quando verrò a casa vedrete il mio libretto personale: tutte le fatiche che rodano l’uomo; alla visita feci m. 1,81 e torace 100. Roma, carissimi genitori, vi scrivo due righe soltanto per farvi noto che il giorno 26 parto al campo; dunque vi prego di mandarmi qualche cosa per domenica. Dovete considerare anche voi che i primi mesi, non essendo pratici, ci vuole altro che dei soldi; avete visto che i soldi che avevo non li ho stragiati e poi senza dir altro quei soldi sono andati tutti in mangiare. Sapete genitori non vi è altro corpo marciatore come il granatiere: tutte le mattine andiamo insieme ai richiamati; sembrano i nostri padri, eppure anche loro a zaino fardellato come noi. Dite così a Francesco che, se anche dovesse venire della mia statura, vada in qualsiasi corpo ma non qui. Madre mia ti raccomando di non pensare per me; io sto bene mangio come un orso; se mi vedessi ora sono più in vita. Sapete che il quattro novembre vi è la festa del reggimento ed i capitani delle sue 34


compagnie scelgono i giovani ben piantati, delle reclute i migliori, per mostrarli ai superiori. Dalla nostra compagnia siamo in 12: io e l’Emilio ci siamo e Pozzoli della sua. Dunque contentatevi che avete un giovane scelto. Ora vi saluto tutti in famiglia; auguro buona salute a tutti, come io; salutate tutti i cugini; quando mi scrivi, mandami l’indirizzo dello zio di Mortara, non che lo faccia per uno scopo, almeno scrivere una cartolina. Presto verrà a casa Pozzoli lo manderò da voi: vi spiegherà come sono le cose e le fatiche che qui si fanno. Mille baci a tutti, Sante. Se la trovi [Maria, n.d.R.] salutala da parte mia. Ciau, ciau, Sante. cari genitori, vi faccio sapere che martedì 5 gennaio parto di nuovo per Frascati e forse ci rimarremo due mesi a fare le fatiche d’accampamento. Sapete che i conducenti non l’hanno mai portato il zaino, ma quest’anno lo fanno portare, non è fardellato, soltanto con le cartucce. Fanno fare le fatiche come se ci fosse una mobilitazione momento a momento. Il papà l’avrà letta sul giornale per la rivista delle armi d’ogni specie ed anche del carreggio che la passò. S M per nulla non l’avrà ordinata. Sapete che il Natale lo passai di guardia alle scuderie e il Capodanno al Forte Pietralata; però mi divertii ugualmente. Quando tornerò da Frascati spedirò subito gli abiti da borghese: addosso non li posso portare, nel zaino nemmeno. Dunque, sapete che le fatiche non mi fanno paura; dunque state pure in pace che io sto bene e come spero di voi tutti. Saluti da Sante. Dentro la busta troverete la fotografia in compagnia al vestito da fatica; quando avrò la tenuta di parata, allora la farò solo e dentro troverete la cartolina con la canzone dei granatieri. Come li vedete, i veri tipi da soldato. Salutatemi i cugini, un bacio alle mie sorelline. Ciau, ciau. Sante. 13 Roma, cari genitori, vi scrivo due righe sol per dirvi che io son sempre stato onesto e in tutta la mia vita lo sarò. Riguardo a quello che dite voi che meglio dei conducenti non si sta, se non avevo mancato, potevo andare nel plotone dei caporali; io non ve l’ho mai detto, ho preso otto giorni di semplice a Frascati, Pozzoli non ve l’ha 35


detto, per ubriachezza, ma il capitano me li levò. Quindi nei caporali non posso andare. Riguardo ai muli mi hanno già fatto la spiegazione e so come devo agire. Vi raccomando genitori che quando mi manderete il vaglia per Natale sia un po’ più robusto, inviate, inviate la pecunia. Il pacchetto mandalo pure; fammi una brisolina, una bottiglia e un becco se ce l’hai. Sapete che Uggero, il nostro paesano, non finisce più la prigione perché i ricettatori sorgono come le fontane. Dunque assicuratevi che io in quegli impegni non ci voglio andare assolutamente; faccio il mio dovere e niente di più. Non offendetemi perché ho avuto 8 giorni di prigione che qui sotto si fa presto, la minima cosa si resta puniti. Ora vi dico che io sto bene come spero di voi tutti in famiglia. Dunque vi raccomando per le feste, fatemele passare bene come voi. Il pacchetto spediscilo qualche giorno prima del vaglia perché la posta dei pacchi è sempre in ritardo, dunque sappiatevi regolare. Qui a Roma siamo in cinque di Codogno e ci facciamo sempre compagnia. Saluti a tutti in famiglia, a Francesco, un bacio alle mie sorelline, saluti ai cugini. Sante. Ciau, ciau. Saluta Maria.

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13 gennaio 1915: Avezzano

Il 1915 non iniziò sotto i migliori auspici. Tremendo presagio di rovina fu il terremoto che il 13 gennaio, devastò la Marsica, tra l’Abruzzo e il Lazio meridionale: a grandi titoli i giornali scrissero di migliaia di morti. A Codogno l’Amministrazione comunale promosse la costituzione di un Comitato (apolitico si specificò) pro danneggiati dal terremoto che avviò una raccolta di offerte in denaro (fu raccolta con il concorso anche delle maggiori aziende, una cifra non “disprezzabile”), mise a disposizione del Ministero dell’interno 10 letti per i feriti e comunicò la disponibilità a ospitare 10 orfani provenienti dalle località colpite (5 bambini e 5 bambine). Paolo Bignami, infaticabile come sempre, da Roma annunciò che nella sua prossima visita a Codogno avrebbe accompagnato i dieci orfani di Avezzano. Ed effettivamente il 10 febbraio giunsero i bimbi; ne diede notizia la “Libertà” di Piacenza: 4 bambine (Restituita Gaetani di 12 anni, Carmela Gaetani di anni 5, Maria Carmine Bartolucci di anni 12, Lucia Bartolucci di anni 5) e 5 bambini (Luigi Bernardi di anni 13, Nello Buttari di anni 5, Onofrio Presciutti di anni 7, Luigi Ulani di anni 11, Leopoldo Ulani di anni 9). Anche la sezione femminile della Croce Verde, da poco costituita, si impegnò nelle iniziative di solidarietà e si tennero serate di beneficienza, mentre le offerte in denaro continuavano ad affluire generosamente. Il 13 gennaio 1° Reggimento Granatieri è appena rientrato dal “campo” di Frascati e il consueto tran tran della caserma è sconvolto dalla notizia del terremoto. Il 14 gennaio il II Battaglione - compagnie 5ª, 6ª, 7ª (quella di Sante) e 8ª, per un to37


tale di 17 ufficiali e 400 uomini -, con le compagnie 2ª e 4ª del I Battaglione del 2° Reggimento (3 ufficiali e 215 uomini) - è ad Avezzano: il disastro, immane, è un’esperienza sconvolgente; alla vista dei bambini terrorizzati i granatieri piangono. A Sante tornò in mente, come a tutti, la tragedia di Messina che da bambino aveva vissuto indirettamente. A Codogno, anche allora, le sottoscrizioni promosse dai comitati di soccorso, cui avevano aderito tutte le associazioni, erano state generose, ma più ancora Sante doveva ricordare quei poveri diavoli, rimasti senza casa, giunti in paese dietro la promessa di un tetto e di un lavoro. Ma si sopravvive. «La sera si accendono fuochi e ci si mette tutti in circolo per scaldarsi e si canta […] Delle vere signore ci hanno regalato cuffie per coprire la testa e il collo e fasce per le gambe: proprio cose necessarie». Il morale rimane alto: «Ora vedrete genitori che appena sarò a Roma ne succederà un’altra: o in Libia o qualche altro posto si andrà poiché i superiori lo dicono sempre. Ma ormai qui ci sono e sono contento d’esserci stato; e poi andrò dove mi manderanno, almeno un giorno poter dire che ho fatto il vero granatiere e non il soldato del papa». Intanto le reclute della classe 1895 cominciano a partire e Sante chiede dei suoi amici, di Bidulin in particolare. Arrivano a Roma, di ritorno dalle zone del terremoto, «sporchi, stracciati, tanto che se voi mi aveste veduto non mi avreste riconosciuto»; però alla stazione ad attenderli granatieri c’è la banda. In quattro di Codogno fanno festa insieme; la sera finalmente si dorme in branda, che non è un comodo letto, ma è pur sempre molto meglio di un giaciglio di paglia umida. Ma alle quattro del mattino Sante è svegliato, con i soliti bruschi modi della caserma: deve partire immediatamente di nuovo per Frascati, poiché cominciano ad arrivare le reclute della classe 1895. Deve lasciare Emilio e gli amici.

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Lettere dal terremoto Avezzano, gennaio 1915 cari genitori, ho ricevuto il 16 il vaglia e ora mi trovo negli Abbruzzi nei luoghi del terremoto, accampati al ciel sereno con 50 centimetri di neve, però siamo per compiere un’opera spaventosa. Qui ad Avezzano si vedono i spaventi e i morti che ci sono e un’infinità. Per ora non posso scriver di più, perché non sono i momenti. In tutta la mia vita non vedrò più un simile disastro perché questa è una seconda Messina. Voi fatemi sapere le vostre notizie, però vi prego fatelo ben spiegato l’indirizzo di Roma, perché altrimenti per la troppa lontananza potrebbe andar perduta. Non ho mai visto i granatieri piangere, ma qui in mezzo ai feriti piangono vedendo quei poveri piccini che fanno terrore. Badate che io la spedisco senza bollo perché qui non vi è nulla, dunque, se siete contenti di pagare la multa potrò farvi sapere di raro le mie notizie altrimenti no. Fammi un favore, dille a Maria che presto scriverò, per ora non posso. Salutatela da parte mia e dite le che saluti i suoi genitori, i fratelli. Per ora si deve pensare alla salvezza e a nulla. Vi saluto tutti, io sto bene; un bacio alle mie sorelline, ciau. Son venuto sotto le armi in un brutto anno; è venuto un ordine martedì [mercoledì, n.d.R.] a mezzanotte di partire per il Lazio e poi dal Lazio partimmo per Avezzano negli Abruzzi. Mamma fa bene l’indirizzo per Roma così la riceverò e dille anche a Maria che mi ricordo tanto di lei ed appena avrò un minuto di tempo sarà suo per scriverle, ma per ora bisogna pensare al disastro e non all’amore. Ciau mamma. cari genitori, non preoccupatevi per la mia salute: prima era di ferro ed ora è d’acciaio. Il vaglia l’ho ricevuto ieri; mi è molto caro poiché in questi paesi si trova pochissimo da mangiare e quindi ci vuole sempre qualche lira. Ringraziate Luigina la Gatti. Sapete genitori che qui si lavora sempre avinati perché vino

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c’è a volontà, come la grappa e il rum. E i superiori dicono di bere tutto quello che si trova nelle case. Forse il 20 si torna a Roma: non desidero altro perché ormai abbiamo fatto il più di quello che si doveva fare. La sera si accendono fuochi e ci si mette tutti in circolo per scaldarsi e si canta; vengono anche gli ufficiali anche perché qui non hanno la stanza; sono più coperti, ma sono attendati come noi. Dicono: «Fatevi coraggio, allegri» e buttano in mezzo a noi toscani e sigarette a volontà. Delle vere signore ci hanno regalato cuffie per coprire la testa e il collo e fasce per le gambe: proprio cose necessarie. L’avete letto sul Secolo che oltre al freddo ci sono anche quei maiali dei lupi; non li abbiamo visti, però di notte si dorme col fucile carico. Sono 5 mesi che sono sotto le armi ho dormito un mese in branda e gli altri in terra e sulla paglia umida. Domenica è venuta la mamma di un granatiere di Civitavecchia che si trovava nella tenda d’infermeria, ammalato di polmonite (lo porteranno a Roma). Dovevate vedere quella donna: faceva piangere i sassi. Ora vedrete genitori che appena sarò a Roma ne succederà un’altra: o in Libia o qualche altro posto si andrà poiché i superiori lo dicono sempre. Ma ormai qui ci sono e sono contento d’esserci stato; e poi andrò dove mi manderanno, almeno un giorno poter dire che ho fatto il vero granatiere e non il soldato del papa. La fanteria è ritornata ai suoi reggimenti, ma la Brigata Sardegna si trova ancora qui. Quando mi scriverai fammi sapere dove son andati i coscritti del ‘95 e anche Bidulin. Ora saluto tutti in famiglia; un bacio alle sorelline; a Francesco, che presto verrà anche lui nei granatieri e mi darà il cambio. Salutate i cugini e appena sarò a Roma scriverò anche a Eugenia e a Attilio: ci vorrebbe lui con noi, con il suo spirito. Si vedono scene strazianti: farebbero piangere anche Nerone se fosse qui. Se trovi Maria salutala da parte mia. Ciau, ciau A Codogno fa freddo? 26 Frascati 1915, carissimi Genitori, vi rendo notizie che ora mi trovo molto stanco di questa vita il perché lo sapete anche voi; tornato dal terremoto sfinito che avevo bisogno della branda per riposarmi, tornai di nuovo attendato a Frascati, a motivo che vi è sotto il ‘95 e intanto siamo sempre noi gli sfortunati. Sapete che feci tanto piangere 40


ieri, che non potete immaginarvi. Ci siamo trovati in quattro granatieri di Codogno contenti d’essere tutti in buona salute e tornati dal terremoto che venne la musica alla stazione che ci fece una bella allegria. Ma no che quel maiale e porcone di dio non mi vuol veder contento: alle quattro dovetti subito partire lasciando tutti ed anche Emilio che vi dico ancora che un simile dolore non l’ho mai provato, vel giuro. Ho ricevuto il vaglia e ora sono contento perché saprete anche voi che coi soldi andavo matto e per quello che li desideravo. Quando siamo tornati parevamo tante bestie: sporchi, stracciati, che se voi mi aveste veduto non mi avreste riconosciuto. Ma però non dovete mai pensare a me perché io sono in piena salute e per sempre spero di averla. Benché le fatiche mi stanchino, la salute l’aumento di giorno in giorno. Ora termino di scrivere salutandovi caramente tutti in famiglia, baci alle mie sorelline, a Francesco, ciau, ciau, ciau mamma. Papà, quando verrò a casa allora lo vedrai un vero lisciatore; quando ero a casa ero morto dei strapazzi, ma qui sono bel rosso e di peso aumentai di molto, Kg 84; voi direte che sono fandonie, ma se verrò a casa in permesso mi vedrete. Salutatemi i cugini, Eugenia e Attilio, e se la trovi Maria salutala. Piuttosto che niente scrivetemi anche qualche illustrata; vi ripeto non pensate a me, io sto bene. Ciau. continuerei a piangere d’aver lasciato Emilio.

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Interventisti e neutralisti

Era stata anticipata la chiamata della classe 1895 e non era buon segno: il decreto reale del 22 ottobre 1914 stabiliva che le «operazioni di leva sui giovani nati nel 1895 saranno iniziate nel corrente anno 1914». La chiamata fu anticipata al 12 gennaio 1915 sia per le prime sia per le seconde categorie. Nel corso dei mesi tra l’agosto 1914 e gli inizi del 1915 si intensificarono le chiamate delle seconde categorie per i previsti periodi di addestramento: il 21 agosto furono chiamati quelli della 2ª categoria della classe 1893, e il 10 novembre quelli della 2ª categoria della classe 1894, le cui prime categorie erano alle armi. Il 21 agosto si era anche proceduto a chiamare per sei mesi i soggetti a leva delle classi anteriori al 1893 che non avevano mai ricevuto istruzione militare. Si decise, anche, di trattenere sotto le armi la prima categoria della classe 1892 (che già si era vista rimandare il congedo in attesa del rimpatrio dei contingenti in Libia) considerandola richiamata. Nel contempo si richiamarono tra il luglio e l’agosto per un periodo di “istruzione” (15 luglio 1914 – 25 novembre 1914) le prime categorie delle classi 1891, 1890 e 1889 al completo; in novembre furono chiamate le reclute della classe 1894 in congedo illimitato perché fratelli di richiamati delle classi 1891, 1890 e 1889 (che furono congedati) e si procedette, poi, ad ampi richiami per distretti, corpi e specialità sempre per periodi di “istruzione”. E ciò alla fine serviva per aumentare, di fatto, il numero di uomini presenti alle armi in un dato momento. Premuto da un lato, dalla necessità d’esser pronto per la guerra, dall’altro di non precipitare la situazione con l’ex alleato, che per altro aveva ovviamente l’intero esercito già mobilitato, il Comando 42


italiano, che aveva già schierato truppe di copertura a ridosso del confine orientale, via via rinforzate con altri contingenti, solo il primo marzo ordinò la mobilitazione «rossa» dal colore dei documenti relativi. Come Cadorna spiegò nelle sue “Memorie” la mobilitazione «rossa» consisteva sostanzialmente nel «mobilitare nelle guarnigioni le unità che ancora non erano state inviate alla frontiera per essere poi avviate ai luoghi di destinazione» [Cadorna 54]. Il centro di mobilitazione della Brigata Granatieri era posto a Parma e ancora una lapide lo ricorda. In maggio poi si passò alla mobilitazione occulta: i soldati furono richiamati con avvisi (cartoline) personali e non con i consueti bandi affissi dai comuni. L’11 dicembre del 1914 “Il Po” aveva plaudito all’indirizzo del governo, sottolineando che sarebbe stato sostenuto il: «programma di pace e di neutralità fin che sarà possibile, pur tenendosi preparati a ogni evento [...] l’Italia deve confortarsi nel pensiero di un Ministero vigile e prudente, il quale o colla pace o colle armi [il corsivo è mio] saprà condurla al conseguimento di quelle aspirazioni che, senza tanti blateramenti, sono nelle aspirazioni del suo popolo». I moderati in sostanza avrebbero fatto il loro dovere, secondo gli interessi dell’Italia, ovviamente interpretati dal governo. La guerra comunque era un’opzione possibile, anche se al momento, non auspicabile. Simile, ma non identica la posizione de “Il Risveglio” di Paolo Bignami: «La neutralità di oggi non significa che domani noi, di fronte allo svolgersi degli eventi, non possiamo essere costretti ad una diversa attitudine […]». Si scriveva in poche parole di volere la pace, ma a certe condizioni non si escludeva la guerra. Le simpatie dei liberal democratici (ma anche dei moderati) già all’inizio, però, andarono ai paesi dell’Intesa, alla piccola Serbia, (paragonata al Piemonte del ’48 e del ’59), al Belgio invaso contro ogni diritto internazionale, con più di un pensiero alle terre irredente. Se alla Germania l’Italia doveva il Veneto e Roma e se viva era l’ammirazione per i successi tedeschi in campo scientifico ed economico, l’alleanza con l’Austria non era mai stata popolare e di fatto in contrasto con le 43


«nostre legittime aspirazioni» (almeno così opinavano i liberal democratici di Paolo Bignami), tanto che era innegabile la francofilia del nostro paese. Affisso sotto la Loggia comunale in Piazza XX Settembre e letto abitualmente da Battista, “Il Secolo” di Milano era il naturale punto di riferimento per i democratico-radicali di Codogno. Il giornale aveva in quegli anni cambiato proprietà e linea editoriale: i nuovi proprietari (il gruppo Pontremoli – La Torre) avevano affidato il quotidiano a Edgardo Pantano, ma poiché Pantano era stabilmente a Roma per i suoi impegni politico-parlamentari, la guida del quotidiano fu tenuta da Mario Borsa, nato nel 1870 in un piccolo centro vicino a Codogno, Regina Fittarezza, quando la località era ancora comune indipendente (Regina Fittarezza fu aggregata nel 1873 al comune di Somaglia). In agosto “Il Secolo” di Mario Borsa fu per una neutralità «vigile», di fatto non assoluta. Si riteneva però che il conflitto sarebbe rimasto circoscritto e comunque, se per malaugurata ipotesi si fosse generalizzato, non avrebbe potuto essere che breve se non altro per motivi economici: in Francia lo statistico ed economista Carlo Richet aveva calcolato che non sarebbe costato meno 274.000.000 di franchi senza calcolare i tremendi costi umani. Ma già il 20 luglio Mario Borsa in un editoriale aveva definito non ipotizzabile un intervento a fianco dell’Austria (la Triplice era considerata «morta») e a metà agosto Borsa stesso aprì il giornale alla collaborazione di Cesare Battisti, riparato in Italia il 12 di quel mese. L’assassinio di Jean Jaurés (alla cui famiglia il Comune di Codogno inviò le più sentite condoglianze), il fallimento della II internazionale, l’invasione del Belgio, la posizione interventista assunta dalla Massoneria (di cui si diceva che Paolo Bignami fosse membro) con l’ordine del giorno del Gran Maestro del Grande Oriente Ettore Ferrari trasmesso a Salandra il 6 settembre 1914, portarono all’ordine del giorno del 14 settembre con il quale il Partito radicale si dichiarava per l’intervento a fianco dell’Intesa. Per l’intervento si espressero anche Angiolo Cabrini e Leonida 44


Bissolati, che de “Il Secolo” era collaboratore per quanto riguarda la politica estera. In novembre in Francia si costituì il corpo dei volontari italiani, comandato da Peppino Garibaldi. Le sottoscrizioni pro Belgio ebbero anche a Codogno riscontro, né mancarono le manifestazioni di simpatia per il piccolo paese: l’inno belga si udì a Codogno, nell’agosto del 1915, quando il Comitato dell’Unione delle donne cattoliche organizzò una conferenza del padre barnabita Cesare Barzaghi, il quale sottolineò come il «furore protestante» dei germanici si fosse accanito contro innocenti civili, preti, chiese e biblioteche. Il buon conferenziere ebbe parole di fuoco per il «luterano» impero germanico (dove, però, il cattolicesimo era ben presente), cui per altro dichiarammo guerra, controvoglia, solo nel 1916. I socialisti codognesi, ligi alle risoluzioni della maggioranza del partito, si schierarono immediatamente, senza se e senza ma, si direbbe oggi, contro una guerra che il gruppo parlamentare socialista definiva «di imperialismo e dispotismo». In realtà non tutti i socialisti italiani escludevano a priori una guerra difensiva qualora il paese fosse palesemente attaccato: ma «nella pratica il vero è scrisse l’”Avanti!” il 30 gennaio 1915 - che l’Italia non è aggredita, e non si trova neppure in pericolo di esserlo [...]». Sempre secondo l’ “Avanti!”, per gli altri partiti socialisti europei, nell’agosto del 1914, la questione si era posta in altri termini: ognuno di essi aveva potuto, infatti, credere, prestando ascolto a un’opinione pubblica sovraeccitata dalla propaganda, che il proprio paese fosse stato aggredito o gravemente minacciato in quei convulsi giorni di ultimatum e mobilitazioni. I Cattolici, per parte loro, non potevano ignorare il pensiero di Benedetto XV, eletto al soglio pontificio il 3 settembre 1914, alla morte di Pio X. Il nuovo Papa si era subito mostrato ostile alla guerra ed estremamente preoccupato per un conflitto che vedeva schierate in campi avversi alcune fra le maggiori potenze cattoliche: con l’enciclica Ad Beatissini Apostolorum la Santa Sede aveva già in novembre levato un appello alla pace in Europa. 45


Tant’è che il governo tedesco aveva ritenuto possibile un’azione mediatrice del Vaticano tra Roma e Vienna volta essenzialmente a convincere gli austriaci a cedere al Vaticano il Trentino che poi il Vaticano stesso avrebbe consegnato all’Italia. Il mondo cattolico, considerato nei suoi aspetti culturali e politici, registrò posizioni diverse, complesse e spesso anche, contraddittorie. L’”Unità cattolica”, rivista che raccoglieva i vecchi intransigenti, nei quali ancora si rilevano gli echi del pensiero di Cesare Balbo, nell’Austria vedeva il baluardo contro l’irrompere nefasto dell’ortodossia slava e nella guerra i frutti della ribellione della società umana alle leggi divine, fomentata dalla massoneria rappresentata dalla Francia laica e repubblicana. C’era, però, un neutralismo assoluto dettato da preoccupazioni d’indole sociale che condannava ogni guerra poiché il «comandamento non ammazzare non ammette adulterazioni di sorta» come scrisse il 22 agosto 1914 “Il Cittadino” diretto da don Quaini, la cui posizione, a dire il vero, al tempo della guerra di Libia era stata un po’ diversa. E ancora “Il Cittadino”, il 30 gennaio 1915, proclamò che «ci vuole una buona dose di incoscienza, o di isterismo patriottico, o di audacia, per invocare una pioggia di piombo quando il popolo domanda del pane». Ma c’era anche un interventismo cattolico democratico (si pensi alla Lega democratica di Eligio Cacciaguerra e Giuseppe Donati) cui faceva da contraltare l’interventismo a tinte nazionaliste del deputato veronese Luigi Montresor. Così dal settembre del 1914 nella Chiesa di Santa Maria della Neve a Codogno, ogni venerdì, si era pregato solennemente per la pace, mentre Don Camillo Meazzini, cappellano della Croce Rossa, il 28 luglio 1915 a Caviaga poteva lanciare lo slogan «Religione e Patria» e proclamare, forzando non poco la Storia, che «a vantaggio della Patria sempre operò la religione nostra». Comunque la stragrande maggioranza dei cattolici finì per aderire a un neutralismo che, pur nel quadro del pacifismo universale della Chiesa, si dichiarava possibilista nel merito dell’intervento italiano. L’Unione popolare del conte Giuseppe Dalla Torre nel gennaio del 1915 distinse tra il 46


neutralismo della Chiesa, assoluto, e il neutralismo dei cattolici italiani, condizionato dalla «inviolabilità di quei diritti, di quelle aspirazioni, di quegli interessi che costituiscono il patrimonio morale della Nazione». Affermazioni generiche, che potevano anche sostenere l’interesse, appunto, italiano su terre che d’italiano avevano poco o nulla. Così, il deputato cattolico Filippo Meda, neutralista prima, interventista poi, poté entrare nei governi di guerra Boselli e Orlando. Ferma restando la condanna della guerra in sé, nel quadro del pensiero di Benedetto XV, in pratica nella vita quotidiana i cattolici furono esortati all’obbedienza alle leggi e alla collaborazione con le autorità governative. Alcuni sacerdoti ed ecclesiastici si spinsero molto oltre nella propaganda bellica, fino a finire, di fatto, nel nazionalismo; altri in cuor loro continuarono a ritenere la guerra un’assurdità, specie in un paese dove più che altro prosperava la miseria. Pacifisti intransigenti erano i tolstoiani, un movimento d’opinione che aveva influenzato il pensiero del dott. Aschenbrödel (Giovanni Pioli), di Gennaro Avolio e del pastore valdese Giuseppe Banchetti, tutti collaboratori del “Coenobium” di Enrico Bignami, anche quest’ultimo non indifferente al pensiero dello scrittore russo. Fra i tolstoiani, spiccava per rigore, lo zoccolaio di San Colombano al Lambro, Luigi Lué che alle idee di Tolstoi si era avvicinato nel 1901. Teresa, con il suo adorato primogenito soldato, di guerra non voleva sentir parlare. Guardava con angosciata disapprovazione Battista Mazzoletti, di cultura risorgimentale e lettore assiduo de “Il Secolo” di Milano, che riteneva almeno l’intervento contro l’Austria giustificato e necessario, per quanto doloroso. Rientrato da Frascati, Sante, in marzo, è mandato a Palestrina dove ritrova Emilio, assegnato alla 16ª Compagnia del IV battaglione, costituito in sostituzione del III inviato in Libia, e «però ci troviamo sempre, tutti quelli di Codogno, siamo sempre insieme». È molto contento: «siamo in bellissimi posti ove si sta molto bene» e poi «non passo né rivista né istruzione e quello è 47


l’importante». «le fatiche sono un po’ pesanti, ma però anche a casa ne facevo di più», ma si trova bene e attende ancora d’essere destinato ai conducenti. Non manderà fotografie: il barbiere del Reggimento l’ha «pelato come un cane» ed è proprio brutto a vedersi. A Roma col berretto e un vero fotografo sarà un’altra cosa. La posta non arriva regolarmente e dalla seconda metà di febbraio, quando ha lasciato di nuovo Roma per Frascati, non ha più notizie della famiglia (e nemmeno di Maria cui ha scritto già due volte) e perciò invia di nuovo il suo indirizzo: «al gran. Mazzoletti Sante, 1 Regg., 7 Comp., 13 Divisione, 7 Corpo d’armata». Qualche lira in tasca l’ ha ancora (ha ricevuto il vaglia) e gli serve solo la carta da lettera che al campo è introvabile; spera, se tornerà a Roma, di avere per San Rocco, una licenza. In fondo se l’è guadagnata: «quando mi vedrete direte: “questo è un granatiere che fece qualche cosa al terremoto”. La medaglia la daranno, ma non solo la medaglia, anche il premio dal Maggiore Anfossi comandante del battaglione. Ho sempre lavorato ed anche a Capistrello feci quello che gli altri non facevano». A quanto pare, è finalmente riuscito a passare nei “conducenti”, altra vita: «Sapete genitori che i conducenti sono signori; io non ho più disciplina, non ho più niente altro che debbo percorrere le vie di Roma un po’ sconcio con i muli per mano.» Il 29 aprile la famiglia Mazzoletti riceve una lettera di un commilitone di Sante, Luigi Moroni: Sante è all’ospedale per un’infezione al piede sinistro, provocata, a suo dire, dagli scarponi troppo stretti. Non è nulla di grave, ma comunque rimarrà a Palestrina, mentre il 27 il Reggimento tornerà a Roma: «È venuto il mio capitano a trovarmi prima di partire; gli rincresceva come fosse stato mio padre». Ma il giorno 28 Sante scrive dall’infermeria della caserma Regina Margherita; è già a Roma. E’stato operato, a Palestrina, e ora spera di tornare presto in Compagnia; l’infezione era meno grave del previsto (si temeva un flambone).

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Lettere dal campo Palestrina, marzo - aprile 1915 12 Roma 1915, cari genitori vi faccio sapere che domani mattina parto al campo a Palestrina ove si rimarrà per quindici giorni, appena sarò al posto di nuovo vi scriverò. Sapete che il campo lo faccio insieme ad Emilio e perciò sono molto contento passar un po’ di tempo insieme. Sapete o genitori che a Roma si sta molto male: i picchetti armati per la città erano una quantità; tutti vogliono la guerra, la miseria che c’è non vi potete far un’idea: infinità di disoccupati, bambini malvestiti vengono alle finestre della caserma a chieder pane; vedendoli mi vien da piangere; non è basta neanche per noi il pane, ma per quei piccinini ce n’è sempre a volontà. Sono contento che avete ricevuto il pacco però credo che non avete pagato perché la condotta la pagai io. Ora vi dico che parto per il campo contento che non vi potete immaginare, benché si dormirà malissimo sotto la tenda, ma con più fatiche faccio aumento sempre la salute; i superiori mi vogliono bene, mi portano in palmo di mano quando c’è da lavorare sono io e quando c’è da prendere qualche cosa sono io. In quanto alle fotografie quando tornerò me le farò fare, quella di Luigion mettila a parte al mio […] Ora termino col salutarvi di vero cuore tutti in famiglia; mille baci alle miei sorelline ringrazio Francesco quando sarà lui io lo ricompenserò. Saluti ai cugini, salutami Maria ciau. Se andavo in un altro corpo vi facevo vedere che fotografia. Quand’ero a casa non sembrava, ma qui lo conoscono bene Mazzoletti e Mancini di Lodi. La salute che godo non ve lo posso dire e anche la lena. Sono un granatiere di Sardegna. Ciau mamma, arrivederci presto. 10 cari genitori, vi scrivo queste due righe per farvi sapere che mi trovo in perfetta salute e come spero di voi. Sapete che Emilio si trova al quarto battaglione, però ci troviamo sempre tutti quelli di Codogno; siamo sempre insieme perciò non dovete pensar male; io vi dico che siamo in bellissimi posti ove si sta molto bene. Io vi scrissi due volte e voi non avete risposto; da quando son partito da Roma non ebbi 49


più notizie di voi. Questo è il mio indirizzo: al gran. Mazzoletti Sante 1 Regg. 7 Comp. 13 Divisione 7 Corpo d’armata. Ora termino di scrivere; quando avrò più tempo vi scriverò. Fammi il favore a dire a Maria che presto le scriverò. Saluta tutti i cugini; saluti a tutti in famiglia. Un bacio alle mie sorelline, a Francesco. A Maria scrissi anche se non ebbi nulla risposta. Appena ricevete la cartolina datemi pronta risposta. Vostro Sante. Ciau mamma, arrivederci presto. Caro padre non pensare a me che sto meglio di voi. Quando scrivete mandatemi la carta colla busta perché qui non ce n’é. Saluti a Eugenia e Attilio Il granatiere Luigi Moroni a Battista Mazzoletti Palestrina 26 aprile 1915, Gentilissimo Mazzoletti Battista, le scrivo queste due righe che mi ha incaricato suo figlio per farle sapere sue notizie. Lui di salute al presente sta bene, altro che si è fatto male un piede con le scarpe un po’ strette e con queste si è formato un piccolo foruncolo e con questo è andato alla visita medica e il capitano medico l’ha mandato all’ospedale. Ma mi ha detto suo figlio di non pensare pur male che non è niente. Quindi noi il giorno 27 andiamo a Roma e lui si ferma all’ospedale di Palestrina; ha detto il tenente medico che in tre giorni è guaribile. Quindi appena guarito ci raggiungerà anche lui a Roma. Per ora termino di scrivere; le lascio tanti saluti da parte di suo figlio e le lascio tanti saluti anche da parte mia, se ha piacere. E mi dichiaro con mia stima, sono unico suo aff.mo amico Moroni Luigi. Mi scusa della brutta calligrafia. Addio. 28 Aprile Roma 1915, cari genitori, vi faccio sapere che ora mi hanno tagliato e non sono più all’ospedale di Palestrina, mi trovo all’infermeria di Roma. Le scarpe strette mi causarono una vescica morela [violacea, n.d.R.] sul collo del piede sinistro, ma ora sto bene, sono all’infermeria, ma presto voglio sortire. Sapete genitori che provai un male quando mi tagliò che non ho mai provato in vita mia e poi mi raschiò dentro la ferita. Feci scrivere da un mio amico a 50


motivo che credevo di rimanere all’ospedale di Palestrina sino quando ero perfettamente guarito e allora non potevo più darvi notizie; pensai di far bene così. Mi rincresce molto che la mamma di Maria è ammalata però spero che non sarà nulla. È venuto il mio capitano a trovarmi prima di partire; gli rincresceva come fosse stato mio padre. Ora termino di scrivere col dirvi di non pensare a me; il vaglia e la lettera l’ho ricevuti e sono contento; la mia salute è d’acciaio; ho altro che il piede, ma mangio per quattro. Credevo che fosse stato, e come anche il medico credeva, un flambone, ma invece meglio così che presto si andrà. Saluti a tutti in famiglia, mille baci alle mie sorelline, a Francesco, salutatemi i cugini, salutami tanto Maria. Ciau, ciau In tutto ce ne avrò per una ventina di giorni e poi sarò come prima. Mamma quando ero all’ospedale non mangiavo mai, ero come te, avevo schifo di tutte le cose, ma ora faccio per quattro. Mamma io sto bene non pensare a me. Ciau Ciau.

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In guerra

In tutta Italia la situazione economica e sociale rimaneva grave e frequenti erano le agitazioni e le manifestazioni di protesta per il prezzo del pane e per invocare provvedimenti contro la disoccupazione. A Codogno, l’8 aprile le filandiere della “Biancardi e Bosisio”, quella in Via Carducci (Via Po), entrarono in sciopero contro le riduzioni della paga minacciate dall’azienda e motivate dalla crisi del settore serico - la filanda a detta dei responsabili aziendali era ampiamente in passivo, sì che ne era stata proposta la chiusura (e chiuse nel 1916). Quell’aprile, la parrocchia, preoccupatissima per il livello di disoccupazione femminile, accanto alla scuola di cucito aprì un laboratorio di maglieria che avrebbe dovuto contare su commesse dall’estero. Ma ormai si precipitava verso l’intervento dell’Italia in guerra. Alle manifestazioni interventiste – memorabile fu l’intervento di Cesare Battisti a Lodi il 17 gennaio del 1915 - rispondevano le mobilitazioni socialiste per la pace. A Codogno, il 24 gennaio 1915 nel cinematografo dell’Albergo “Tre Re”, Giacinto Menotti Serrati, dal dicembre del 1914 direttore dell’“Avanti!”, tenne una conferenza contro la guerra in un salone gremito da più di cinquecento persone. L’oratore fu molto applaudito; nelle adiacenze del locale il delegato di pubblica sicurezza teneva d’occhio la situazione, ma non vi furono incidenti. Pochi giorni dopo al “Teatro Sociale” parlò l’on. Innocenzo Cappa, deputato di Corteolona, interventista di parte democratica: vi furono disordini fuori del Teatro per una manifestazione improvvisata da una folla di operai «ostilissimi alla guerra» e su richiesta dei carabinieri dovette intervenire il sindaco Tranquillo 52


Ercoli. Il 22 febbraio al cinema “Tre Re” parlò, ancora contro la guerra, Nino Turati, «segretario propagandista del riparto provinciale delle biblioteche provinciali» dell’Umanitaria di Milano; alla manifestazione aderì ufficialmente anche il sindaco di Codogno e un telegramma fu inviato al presidente del consiglio. Comunque tra i socialisti codognesi vi furono discussioni e dissidi; alla fine del marzo 1915 Oscar Groppi, consigliere comunale e assessore (all’istruzione, macello, dazio, igiene) si dimise dalle cariche pubbliche e contemporaneamente restituì la tessera del Partito Socialista. La vicenda non è completamente chiara, ma in sintesi par di capire che il segretario della sezione del Partito Socialista di Codogno in una corrispondenza comparsa sulla “Battaglia” di Milano (n. 12 dell’aprile 1915) avesse accusato Groppi di aver «pronunciato frasi contro i compagni dell’Avanti!» e di aver aderito «all’opera disgregatrice di Mussolini nel Popolo d’Italia». Le dimissioni furono subito accettate e all’atto si volle dare carattere di espulsione. Groppi si difese con una lettera inviata alla stessa Battaglia e pubblicata sul n. 14 dell’aprile 1915. Il 12 aprile a Milano, dimostrazioni neutraliste, organizzate dai socialisti, furono sciolte con la forza; negli scontri rimase ucciso un giovane operaio, Innocente Marcora, e il 14 aprile la città fu paralizzata dallo sciopero generale di protesta. A Codogno, il 22 aprile, le donne cattoliche istituirono (e ne diedero annuncio con un manifesto) «il Comitato locale di preparazione» che «sull’esempio di quanto è stato fatto in molte città d’Italia, si occupi di organizzare e allenare tutte le buone energie per quelle opere di assistenza e di vigilanza da esplicarsi tanto presso le famiglie dei richiamati quanto ad impedire l’arresto della vita civile causato dalla chiamata dei cittadini alle armi». Il 28 aprile, nell’aula principale dell’Asilo Garibaldi, parlò la signora Rosalia Gwis Adami, del Comitato di Propaganda del Comitato Lombardo. La Adami, leader della gioventù italiana pacifista (aveva fondato nel 1909 la “Società della gioventù italiana per la pace”) e direttrice del periodico pacifista la “Giovane Europa”, 53


era stretta collaboratrice di Teodoro Moneta, Premio Nobel per la pace nel 1907 e fondatore dell’Unione lombarda per la pace e l’arbitrato. Come Teodoro Moneta era stata favorevole all’intervento italiano in Libia e come Moneta, finirà poi per sostenere la «guerra patriottica». La relatrice illustrò le finalità dei Comitati di preparazione, ma soprattutto richiamò le donne, nella triste eventualità di un conflitto, a occuparsi attivamente delle miserie che la guerra avrebbe generato istituendo ricoveri per uomini, donne e bambini, con ruoli autonomi (che potevano implicare ricadute se non politiche, almeno giuridiche), non limitati alle figure delle infermiere o delle volonterose sostitute della manodopera maschile in indispensabili lavori e servizi. Il discorso non piacque gran che; vi furono proteste vivaci e alla fine poco convincenti risultarono gli interventi fatti a precisazione di quanto detto dalla Gwis. Alla costituzione del comitato, comunque, si giunse: Antonio Rapelli presidente, Vittorio Zanoncelli e Lena Fantoni vicepresidenti, segretario Ervino Capra, Angelo Baiocchi cassiere. Ne fecero parte come consiglieri: Guido Rezzovaglio, Edoardo Rapelli, l’avvocato Marchesi, Giuseppe Monti, Clementina Tarra, Carolina Zaninoni e Giulia Dragoni. Dalla Libia (avevano ragione quelli che dicevano che lì la guerra non era mai finita) giunse notizia che una colonna di soldati (la colonna Miani) in marcia per “riconquistare” il Fezzan era stata annientata dai “ribelli” a Gasr Bu Hàdi il 29 aprile: morirono 479 soldati di cui 237 “bianchi”. Il 26 aprile il governo Salandra aveva firmato a Londra il Patto che impegnava l’Italia a entrare in guerra entro maggio. Il Patto era segreto, ma in realtà i suoi contenuti erano noti, anche se non nel dettaglio: le popolazioni slave sapevano che l’Italia aveva ottenuto dall’Intesa terre che essi consideravano (ed erano), dal punto di vista della nazionalità e della cultura, loro. Al parlamento serbo, trasferitosi a Niš, la questione fu sollevata. Per gli slavi dell’impero la guerra contro l’Italia fu forse l’unica guerra sentita come nazionale. Il 3 maggio il Regno d’Italia disdisse la Triplice. Il primo 54


maggio in Italia era stato celebrato con massicce manifestazioni contro la guerra, ma il 5 maggio a Genova, nella ricorrenza della partenza dei mille, una “oceanica” manifestazione, culminata con un discorso di Gabriele Dannunzio, avviò le “radiose giornate”. Su “Il Secolo”, il 15 maggio, appena prima di arruolarsi volontario, Leonida Bissolati aveva scritto un articolo intitolato Nessuna conciliazione. Nella prima metà di maggio, manifestazioni neutraliste si svolsero in molte città; a Torino il 17 fu proclamato lo sciopero generale. Il patto di Londra era stato firmato in aprile, in una situazione militare che pareva favorevole ai paesi dell’Intesa. Il 19 febbraio Australiani e Neozelandesi erano sbarcati a Gallipoli (e l’Italia era interessata alla spartizione dell’Impero ottomano, giunto, si pensava, alla fine); poi il 22 marzo i russi avevano sconfitto gli austriaci e presa l’importante città fortificata di Przemyśl nei Carpazi e pareva possibile l’intervento a fianco dell’Intesa della Romania. Si trattava, per l’Italia, con truppe fresche, di dare il colpo di grazia e poi sedersi al tavolo della pace dalle parte dei vincitori. Pochi mesi. Ne erano tutti convinti; gli interventisti in particolare, sia quelli di destra sia quelli di sinistra. “Il Secolo” proprio il 24 maggio aveva inviato al fonte come corrispondenti Mariani, Agnelli e Bontempelli e costituito una delle prime redazioni di guerra. Battista, che leggeva il quotidiano affisso ogni giorno sotto la loggia comunale ripeteva: «è una guerra necessaria». Teresa scuoteva il capo. In effetti, rispetto ad aprile, a maggio la situazione era mutata: lo sbarco a Gallipoli si era impantanato; la Romania aveva deciso, per il momento, di rimanere fuori dal conflitto; infine il 2 maggio l’11ª armata tedesca (inviata in aiuto all’esercito austriaco) e la 4ª armata austriaca, sotto il comando di August von Mackensen, avevano iniziato, tra Gorlice e Tarnow, una poderosa offensiva: i russi erano stati travolti. Il quadro era radicalmente mutato. Il giorno 15 maggio il consiglio comunale di Codogno (decimato oltre che dalle dimissioni di minoranza anche 55


dal richiamo alle armi di diversi consiglieri), «esprimeva un voto contro la guerra e deplorava il contegno tenuto da un funzionario delle ferrovie», nei confronti di alcuni richiamati in occasione di un incidente occorso ai primi di maggio. Ribadiva, poi, il documento che «di fronte alla minaccia che la borghesia capitalista, ogni giorno più acutizza, il consiglio delibera ancora e sempre un voto contro la guerra e contro il militarismo». Il testo dell’ordine del giorno fu inviato al presidente della camera dei deputati e all’onorevole Paolo Bignami. Il 7 giugno però la Sottoprefettura di Lodi comunicava che il commissario civile reggente la Prefettura di Milano aveva, il 4 giugno, annullato l’atto poiché «pel disposto dell’art. 326 della legge Comunale e Provinciale, i consigli comunali non possono occuparsi di oggetti estranei alle attribuzioni del Consiglio» e stigmatizzava «il linguaggio scorretto nella motivazione del provvedimento verso funzionari che meritavano la più ampia lode per aver compiuto scrupolosamente il loro dovere». Che i richiamati, in pena per le loro famiglie, non fossero né tranquilli né felici è comprensibile. Molti di questi nuclei famigliari, pur in difficoltà, rimasero esclusi dal sussidio che comunque era considerato esiguo. In effetti, i sussidi giornalieri, previsti dal Regio decreto del 13 maggio 1915, per Comuni non capoluogo di provincia (per i capoluoghi di provincia erano previsti importi superiori), ammontavano a 60 centesimi per la moglie, 30 centesimi per ogni figlio «legittimo o legittimato» con età inferiore a 12 anni o inabile al lavoro, 60 centesimi per un genitore con età superiore ai sessanta anni o inabile al lavoro (per entrambi i genitori era prevista una cifra cumulativa di 1 lira). Per un fratello o sorella orfani di entrambi i genitori con età inferiore ai 12 anni o inabili al lavoro erano corrisposti 60 centesimi che scendevano a 30 per ogni altro fratello orfano dello stesso nucleo famigliare; però per i fratelli o le sorelle orfani non era previsto alcun aiuto se il richiamato fosse stato ammogliato o vedovo con figli ammessi al sussidio. Tutti quanti ovviamente avrebbero dovuto essere totalmente a carico del richiamato e in «condizione di bisogno»; in 56


quell’anno un chilogrammo di pane costava, come detto, circa 50 centesimi. Da una lettera dei genitori Sante apprende che Olimpio, un suo amico, è stato richiamato e gliene dispiace: «chissà quando lo manderanno a casa. Sono momenti tristi anche qui vi sono i richiamati. […] Quando mi scrivi – aggiunge - mandami l’indirizzo di Olimpio», gli scriverà. E chiede alla mamma di mandargli qualche lira, magari di nascosto dal padre. Ma Teresa conosce bene Battista e il risultato è scontato: a Sante, Battista non negherà mai nulla. Anche Pozzoli è stato richiamato dal congedo, potrà fare il corso ufficiali. Tra breve sarà richiamato anche Attilio Previ, fidanzato dell’amica Eugenia; si incontreranno alla frontiera, si augura Sante. Tonani, in licenza, è andato dai Mazzoletti, accolto come un figlio: Sante dimesso dall’infermeria sta bene e già fa «qualche marcetta». È il 12 maggio 1915 e i Reggimenti iniziano a partire. Le manifestazioni interventiste non erano certo popolari tra i richiamati, sempre più preoccupati per la piega che andavano prendendo gli eventi. Il 13 maggio le dimissioni del governo Salandra diedero avvio a una serie di dimostrazioni interventiste: a Roma cortei percorsero le vie del centro e si gridò «morte a Giolitti» e un gruppo di studenti universitari tentò di dar l’assalto al Parlamento. A Milano si mosse in particolare l’ala sinistra dell’interventismo: Mussolini, Corridoni, De Ambris, Battisti. Si gridò: «Guerra o rivoluzione». «Abbasso Giolitti, evviva la guerra» strepitarono anche gli studenti di Lodi che diedero vita a una serie di manifestazioni. La sera un corteo interventista in Piazza Maggiore venne intercettato da soldati richiamati in libera uscita, punto entusiasti delle prospettive di guerra e ci furono scontri. L’amministrazione comunale di Codogno, riunitasi il 10 maggio 1915, ritenne suo dovere intervenire in aiuto delle famiglie dei richiamati in gravi difficoltà e accese un mutuo di diecimila lire. Il sussidio comunale sarebbe stato distribuito direttamente dalla giunta, che ogni settimana avrebbe esaminato richieste sia delle 57


famiglie escluse dal sussidio statale sia di quelle, che pur percependolo, venissero comunque a trovarsi in stato di particolare indigenza. Il 20 maggio il parlamento votò i poteri straordinari al governo (407 favorevoli e 74 contrari). Il giorno dopo dalla stazione Tuscolana di Roma il granatiere Sante Mazzoletti del 1° Reggimento, II Battaglione, 7ª Compagnia, in partenza per il fronte, trova il tempo di spedire una cartolina al suo papà: «Cordiali saluti da chi sempre ti ricorda, tuo figlio Sante. Ciau, ciau. Saluti alla famiglia». Il timbro dell’ufficio postale Roma - ferrovia indica 21 maggio 1915. Il 23 maggio scattò la mobilitazione generale e in tutti i comuni fu affisso il manifesto che elencava le classi di congedati o di collocati in congedo illimitato provvisorio soggette a richiamo suddivise per armi e corpi dell’Esercito permanente, della Milizia mobile e della Territoriale, con a piede la «tabella indicante dove devono presentarsi i richiamati dal congedo presenti in questo comune». Il giorno prima alla stazione ferroviaria di Codogno era stato arrestato un “disertore”, un poveraccio di Pietramonte, provincia di Foggia, in forza al 160° Fanteria di stanza a Lecco. La guerra contro l’Austria-Ungheria sarebbe stata breve, si ribadiva. A Codogno si costituì il “Comitato di assistenza pubblica” che, nel quadro di una più che doverosa concordia e solidarietà nazionale, ben inteso, si sarebbe adoprato per assicurare che «coloro che dalla guerra avranno inevitabilmente danni e dolori, ricevano soccorso e conforto». I compiti erano molteplici: dall’aiuto alle famiglie dei soldati, all’assistenza dei feriti e dei soldati di passaggio, alla disponibilità (se richiesto dall’autorità pubblica) ad assicurare la continuità dei servizi essenziali e, genericamente, «contribuire alla pubblica incolumità e alla difesa del paese» e a «esplicitare tutte quelle provvidenze morali e materiali di aiuto che si rendessero necessarie». Nel comitato figuravano importanti cittadini: Paolo Bignami, Ettore Fornaroli, don Vittorio Grossi parroco di Codogno, Antonio Scamarone, Ambrogio Ramelli, Giovanni 58


Cartolina inviata da Sante Mazzoletti al padre il 21 maggio 1915 dalla Stazione di Roma – Tuscolana .


Cairo, Giovanni Micheli, Eugenio Novello, Guido Rezzovaglio, Vittorio Zanoncelli, Enrico Capra, Emilio Callegari, Arturo Sala, Marianna Rinaldi-Tosi, Lidia Fantoni-Grecchi, Roberto Pollaroli. E si faceva appello alla generosità di tutti precisando che «le oblazioni» potevano essere versate presso la Banca Popolare di Codogno, la Banca del piccolo credito del basso lodigiano, la Croce Verde (via Dante 14), l’Associazione generale operaia (via Cavour 8), l’Associazione per la donna e l’Unione delle donne cattoliche (via Garibaldi 2). Il 24 eravamo in guerra e il 26 maggio, con un manifesto, la giunta rossa illustrava la sua concezione dell’amministrazione pubblica particolarmente «negli attuali difficili frangenti» e si appellava a tutti, indistintamente, i cittadini perché offrissero la loro collaborazione; il manifesto concludeva: Cittadini, non soltanto soccorso e assistenza, ma anche consiglio, aiuto morale, informazioni troveranno tutti indistintamente i cittadini nella Casa del Comune. Casa di tutti, ove amministratori ed impiegati si adopreranno perché il popolo possa invocare con fiducia e far valere il proprio diritto all’assistenza. Ciascuno di voi, compreso dalla gravità del momento, sappia con concorde volere agevolare il compito umanitario che l’Amministrazione si impone facendo tacere ogni dissidio di parte ed ogni competizione politica.

Codogno si trovò unita, almeno apparentemente, nell’assistenza a tutti coloro, fossero soldati, civili, uomini, donne e bambini che stavano per essere, o già erano, travolti dalla guerra. Scrisse la “Libertà” di Piacenza in una corrispondenza da Codogno del 30 maggio 1915: […] La nostra giunta comunale per tutto il periodo che durerà la guerra si adunerà tutti i giorni alle 15 per essere pronta a prendere tutti quei provvedimenti che saranno necessari. Anzi ha fatto avvertire il Comitato di pubblica assistenza che sarà ben lieta se manderà alle dette adunanze qualche suo rappresentante per suggerire iniziative, provvedimenti o altro [...] 59


Il segretario capo del Municipio, avvocato Bongiankino, dotato com’è di un animo squisitamente gentile e di un cuore d’oro, si è messo a disposizione delle famiglie dei richiamati, le quali spesso ricorrono a lui per schiarimenti, per consigli, per aiuti. Il Collegio delle Suore Salesiane è disposto ad accogliere cento ragazzetti; il Collegio della Provvidenza mette a disposizione degli Asili i propri locali se i locali dei detti Asili si dovessero adoperare per altri usi. La congregazione di carità, presieduta dall’ottimo benemerito, Dr. Scamarone procurerà di dare il contributo maggiore possibile pei soccorsi; terrà aperti, per tutta l’estate gli Asili, aumentando anche il limiti d’età; l’Associazione per la donna provvederà per la custodia dei lattanti e la “Croce Verde” si è messa a disposizione del Comune, disposta a qualunque servizio, a qualunque sacrificio E poi vi saranno le offerte in denaro e non saranno poche.

Così la giunta rossa decise di collaborare con il Comitato codognese di assistenza, che rosso non era. Fu Istituito un “Comitato centrale di assistenza” per la guerra di 8 membri, quattro nominati dalla giunta e quattro dal Comitato di assistenza pubblica, articolato in quattro commissioni: I assistenza alle famiglie bisognose dei militari (Tranquillo Ercoli, sindaco Antonio Scamarone); II assistenza alla fanciullezza (Antonio Gambazza, assessore - Eugenio Novello); III assistenza ai disoccupati e ai profughi, e tutela degli interessi dei militari (Pietro Ferrari, assessore - Vittorio Zanoncelli); IV Assistenza sanitaria (Enrico Lombardi, assessore- Guido Rezzovaglio). L’Unione donne cattoliche negli uffici della sede in via Giordano Bruno ogni giorno dalle 14 alle 18 avrebbe dato assistenza per inoltrare richiesta di sussidi, per ottenere informazioni sui mobilitati, e comunque per qualsiasi servizio attinente la guerra.

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Lettere alla partenza per il fronte Roma, maggio 1915 12 M Roma 1915, amati genitori, sono molto contento del vostro buon cuore che chiedendovi qualche cosa avete aumentato la cifra che a me furono tanto care, tanto più che feci quel piccolo debito; non l’ho fatto per smorbità [capriccio, n.d.R.], ma per il puro mangiare che qualunque l’avrebbe fatto. Sapete che sortii ieri; ora sto bene col piede e faccio già qualche marcetta. Genitori sapete che ora siamo agli estremi: se per caso partirò ve lo farò sapere subito. Sapete che l’altro giorno è partita l’artiglieria da F 76 77 78; andavano ai confini. Benché loro non sono in prima linea, ma dovevate vederli a piangere come bambini. Quelli poi di Roma avevano le mogli coi bambini alla porta della caserma: facevano piangere anche noi. Posso ringraziare il papà che verso di me ebbe sempre un gran cuore tanto di più che ora mi trovo molto lontano ed anche lui lo può giudicare cos’è la vita del soldato. Ti dissi mamma di non dirlo al papà, ma non per far le cose di nascosto perché, senza che tu me lo dici, so io di già che per tutto bisogna dipendere da lui. Ma io non avevo il coraggio di chiederli a lui; avevo paura che mi avrebbe mortificato, mentre, invece, tutt’altro. Sono molto contento che è venuto Tonani a trovarvi il quale mi ha fatto una bella compagnia nei giorni passati al campo. Anzi sono contento dell’accoglienza che gli avete fatto; a giorni vedrò anche Pozzoli che ora sarà richiamato. Ora mi resta che salutare di vero cuore tutti in famiglia, ringrazio Francesco, un bacio alle mie sorelline; il vostro Sante. Salutami i cugini e la zia. Attilio presto lo troverò ai confini e lo saluterò là. Salutami Maria e sua madre. Ringrazio tanto il papà del suo buon cuore. La mia salute nessun dio può spezzare: è d’acciaio. La brigata Sardegna è l’ultima a muoversi, ma quando si muove fa terrore. A Roma quando ci sono i picchetti armati sono sempre i granatieri e fanno paura a tutti. Ciau papà. Arvedos mamma a presto. Ciau. A Olimpio ci scrissi oggi. È come essere a casa tutti mi vogliono bene; guai con Mazzoletti tutta la compagnia. Mi vedrai papà che uomo quando verrò a casa. 61


20 M 1915 Roma, amati genitori, scrivo queste due righe facendovi sapere che domani parto ai confini di Monte Belluna, il giorno 17 è partita la classe ‘88 per la Libia. La quale prima di partire ebbe una bella soddisfazione: il generale della nostra brigata le fece un discorso impagabile rammentandole anche, che se verrà l’occasione, di vendicare suo fratello che fu morto laggiù pochi giorni orsono, era il tenente colonnello Pirzio Biroli [caduto a Gasr Bu Hàdi il 29 aprile, n.d.R.], l’avrete letto. In quanto a noi, hanno cominciato un mese prima a far raccomandazioni e domani verrà anche da noi il generale a fare anche lui le sue. Sapete che è venuto il granatiere Tonani, il quale fece una giornata di cammino per trovarmi: mi portò i vostri saluti, mi baciò come se fossi stato suo fratello ed abbiamo passato una giornata che più bella non ne passeremo più. Vi prego genitori di non pensare male; anzi dovete essere tranquilli più del solito perché tutte le armi sono ai confini e noi no che siamo i soldati più scelti dell’Italia. Domani si vedranno alla nostra partenza le bandiere a sventolare alle finestre e frammezzo a quelle ci passerà anche quella della nostra brigata che da seimila granatieri è circondata. Tutte le classi ‘89, ‘90 e ‘91 domani vengono con noi. Io non sento più nulla né piede né gambe; ho una salute che ci vuole un cannone a spezzarla. Io parto più contento che se avessi vinto la lotteria; dunque immaginatevi. Ora non mi resta di salutarvi di vero cuore tutti in famiglia, un bacio alle mie sorelline, a Francesco; salutate i cugini, saluta Maria, sua mamma. Ciau. Quando sarò al posto deciso, subito vi scriverò; l’ho detto che volevo salutate Attilio ai confini: ora lo troverò. Dicono che si passa da Piacenza: non sarà vero, ma se fosse farei una corsa a casa. Genitori ora ci siamo mossi: presto si vedrà il risultato. La brigata deve trionfare. Ciau papà, ciau mamma, ciau.

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L’Isonzo a Monfalcone

Il 23 maggio i granatieri erano presso Codroipo, luogo della radunata; a Flumignano furono raggiunti dal carreggio e dai richiamati del deposito di Parma subito assegnati alle compagnie. Il 24 maggio la Brigata venne inquadrata nella 13ª Divisione, VII° Corpo d’Armata, 3ª Armata; il giorno dopo era attendata tra Palmanova e Visco, lungo la riva destra del torrente Torre, con avamposti stabiliti sulla riva sinistra, oltre il confine del 1866. Quella stessa notte un fortunale provocò una piena improvvisa che distrusse il ponte, provvisorio, appena il giorno prima gettato dai genieri, e gli avamposti sulla riva sinistra dovettero essere richiamati. Da parte imperiale al fronte dell’Isonzo era stata destinata la 5ª armata, composta per la massima parte di soldati croati, sloveni e ungheresi, al comando, dal 27 maggio, di Svetozar Boroëvić von Bojna. Boroëvić, nato nel 1856 a Umetic (oggi in Croazia), allora ancora nella Militärgrenze, da famiglia serbo-ortodossa era, di tradizione, un vecchio grenzer, fedelissimo agli Asburgo, e assunse il comando con l’impegno di non cedere un palmo delle terre imperiali. Nel settore di Monfalcone, la 5 ª Armata schierava la VI Gebirgsbrigade con in prima linea il II Battaglione del 101° Reggimento (arruolato a Békéscsaba in Ungheria), il IV del 42° (arruolato a Theresienstadt oggi Terezin nella Repubblica Ceca) e il I del 6° (arruolato a Ujvidék allora Ungheria, oggi Novi Sad in Serbia). In seconda linea era il II del 38° (arruolato a Kecskemét in Ungheria). La VI Gebirgsbrigade apparteneva alla 57ª Divisione austriaca rinforzata al comando del Feldmarschallieutenant Hermann Göiginger, che per inciso era nato a Verona nel 1861. Il Monte 63


Cosich rimaneva nel settore della II Gebirgsbrigade (che iniziava a Sdraussina, oggi Poggio dei Granatieri). Il 31 maggio la Brigata Granatieri si spostò verso il basso Isonzo tra Belliconda e Caorlina, sulla destra del fiume nel settore di Monfalcone: ad attenderla non c’era nessuno, tantomeno popolazioni festanti. Vuoi che gli austriaci avessero già “bonificato” la zona dai filoitaliani, vuoi che, in effetti, non si volesse esser “liberati”, tanto meno con una guerra, nessuno preparò tappeti di fiori. Il giorno della dichiarazione di guerra, 23 maggio, molto tempestivamente, i genieri imperiali avevano fatto saltare i ponti e i traghetti sull’Isonzo. Il grosso delle truppe imperiali si era già ritirato sulla riva sinistra del fiume. Davanti all’Isonzo, sulla riva destra: […] si era appostato il CLII battaglione della territoriale [CLII Battaglione Landsturm della 60ª Gebirgsbrigade, allora nella 57ª Divisione della k. u. k Armee, n.d.R.] con il compito di tener lontano l’avversario il più a lungo possibile dalle posizioni ai margini dell’altopiano carsico. Due vecchi cannoni da campagna simularono una postazione di artiglieria, e quindi l’intenzione di una tenace resistenza, con un notevole consumo di munizioni. Fecero fuoco sulle strade e sulle borgate, sui traghetti, nelle vigne e nei campi. Tutto lasciava credere che una battaglia si sarebbe scatenata sul Basso Isonzo, a dieci chilometri dalla presunta prima linea di resistenza austriaca. Nel frattempo alle spalle di questa piccola schiera veniva portata a temine un’opera che diede un bel da fare agli italiani: i soldati del genio avevano ostruito il canale dell’Isonzo [il Canale de’ Dottori, n.d.R.], sicché le acque allagarono la zona compresa fra Monfalcone e il braccio principale del fiume. Ma ci volle un bel po’ prima che il terreno si imbevesse d’acqua al punto da consentire di procedere solo lungo le strade. L’inondazione avanzava quasi inavvertitamente, trasformando i campi in acquitrini e i prati in altrettanti stagni. E i bravi territoriali rimasero dodici giorni nei pressi di Peiris, fronteggiando un nemico cento volte superiore, finché ricevettero l’ordine di ritirarsi sul Carso sulle posizioni prestabilite. [Fritz Weber 38 – 39]

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I granatieri rimasero in attesa, occupati in esercitazioni con i barconi del genio sul canale Molinella. Solo il 4 giugno giunse l’ordine di varcare l’Isonzo: alle 17 il IV Battaglione del 1° Reggimento Granatieri passò il fiume a protezione dei genieri che dovevano gettare un ponte. La reazione austriaca fu piuttosto vivace; comunque, dopo le tre della mattina successiva, il IV era riuscito a costituire una testa di ponte consolidata, così da permettere ai genieri di completare il loro lavoro. Il II Battaglione del 1° Reggimento (quello di Sante Mazzoletti) e il I Battaglione del 2° Reggimento estesero l’occupazione sulla riva sinistra e alle 9 del 5 giugno i granatieri entravano in Pieris. Sotto il tiro dell’artiglieria austriaca ben posizionata sulle alture di Sagrado e Monfalcone, la Brigata si attestò tra Pieris, Turriaco e Fornace per proseguire poi per Beliano – San Canziano. Il 6 giugno giunsero da Roma i volontari, tra quali erano Scipio Slataper e Carlo e Giani Stuparich, assegnati alla 2ª Compagnia del I Battaglione. Come i loro, meno entusiasti, commilitoni pensavano a una guerra gloriosa e, soprattutto, breve: Il più, il passaggio dell’Isonzo, era fatto: l’aveva compiuto la nostra compagnia e c’era stato un morto solo e un ferito. Bisognava superare la pianura e varcar l’altipiano, per essere in quindici giorni a Trieste. Senza tirar neppure un colpo di fucile - assicurava un grosso torinese col suo parlar lento e basso - aveva affermato il capitano di voler che la nostra compagnia arrivasse a Trieste. E a Trieste i granatieri si fermeranno, sosteneva con la sua chiacchiera veloce un toscano biondo e scarno, l’ingresso trionfale lo faremo noi e poi vi resteremo di guarnigione! O perché il colonnello ci ha raccomandato di tenere in ordine il vestiario e le cravatte pulite? È chiaro: i granatieri hanno a far figura! [Stuparich, 22]

La Brigata Granatieri, alle 15,40 dell’8 giugno 1915, era schierata tra Begliano e San Canziano; alla sua immediata destra era la Brigata Messina, con il 93° e il 94° Fanteria. Obiettivo delle due Brigate erano le alture sovrastanti Monfalcone (Quota 61 – obiettivo dei granatieri - La Rocca, Quota 121). Il Battaglione di

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Sante doveva dirigersi verso San Polo e superare il Canale de’ Dottori; dietro il II, avanzava il IV Battaglione, dove, nella 16ª Compagnia, era Emilio Violanti. Il I Battaglione rimase in riserva, come scrisse Carlo Stuparich: tocca al quarto quest’oggi ad andare avanti. […] Ci siamo gettati a terra, in un campo. Le zolle sono secche per l’aridità, ridotte in polvere grigia. Le facce congestionate dei miei compagni si rovesciano indietro, succhiando le borracce. Il sole s’annebbia. Poco lontano, oltre i campi, c’è una lunga e alta fascia di polvere: là ci dev’essere la strada maestra. Tutta l’aria è pregna di polvere. [Stuparich,23]

Il II Battaglione avanzò verso il Canale de’ Dottori in formazione di combattimento: due compagnie in prima linea (5ª e 6ª) con due plotoni distesi e due di rincalzo; la 7ª Compagnia e l’8ª erano in seconda linea. All’altezza della strada Ronchi - Staranzano il reparto si fermò per prendere contatto a sinistra con il 2° Granatieri e a destra con il 93° Fanteria, Brigata Messina. Alle 18 il Battaglione era all’altezza di San Nicolò e sotto un improvviso violento temporale fu inquadrato dall’artiglieria austriaca; un’ora e mezza dopo il Battaglione era di fronte a San Polo e fu fatto segno di nutrita fucileria proveniente dalle case del paese e dalla riva sinistra del Canale de’ Dottori. Le due compagnie di prima linea, arrestati alcuni abitanti ritenuti sospetti, presero posizione a nord est dell’abitato, di fronte all’altura a sud di Seltz, subito raggiunte dalle altre due compagnie del Battaglione e più tardi dalla 13ª Compagnia del IV Battaglione, mentre le altre compagnie dello stesso IV si spiegavano lungo la strada Ronchi – San Polo. Di nuovo sotto il fuoco nemico, il II Battaglione raggiunse l’argine del Canale de’ Dottori; nella notte la Compagnia del genio allestì un ponte provvisorio, mentre un plotone della 6ª Compagnia passava il canale sulle rotaie del Ponte della linea ferroviaria Cervignano – Monfalcone, rimaste intatte nonostante le brecce nelle arcate. All’alba del 9 giugno il IV Battaglione, protetto dal II, passò sulla riva sinistra del Canale, risalì le pendici a sud di Seltz, sotto un 66


nutrito fuoco di fucileria e occupò Quota 61. Qui fu bombardato dall’artiglieria austriaca e, per sbaglio, da quella italiana. Il 1° Reggimento Granatieri perse così un centinaio di uomini; il Maggiore Pietro Manfredi comandante del IV rimase ucciso. Intanto, alle 5 del mattino, il IV Battaglione del 93°, seguito dal III del 94°, della Brigata Messina, aveva passato il canale ed era entrato in Monfalcone dirigendosi verso la Rocca. Alle 8 del mattino reparti delle due brigate si incontrarono poco a est di Quota 61. A Quota 61 la situazione della Brigata Granatieri divenne presto insostenibile e, poiché parve necessario consentire alla Brigata Messina di schierarsi in linee più robuste di fronte alle Quote 121 e 85 (che gli austriaci parevano voler ostinatamente difendere), il I Battaglione del 1° Granatieri ricevette l’ordine di rilevare le truppe della Messina alla Rocca, mentre il grosso della Brigata Granatieri era trasferita in Monfalcone. Così raccontò Giani Stuparich del I Battaglione: Sera. Rocca di Monfalcone. Non so neppure come siamo arrivati quassù Una gran corsa, curvi, finché abbiamo raggiunto la pineta, poi, salendo nel profumo di resina dei giovani pini, mescolato col fumo e con l’odore di polvere bruciata, tra gli schianti, sdrucciolando sul sentiero coperto di foglie secche, col cuore in gola e sudati, siamo giunti sotto i muraglioni in rovina della Rocca e ci siamo distesi in cerchio sul ciglio. [Stuparich, 23]

Vista la difficoltà di procedere nell’attacco verso le quote 121 e 85 contro un avversario saldamente attestato, il Comando della 13ª Divisione arrestò l’azione. I fanti della Messina tornarono, il 10 giugno, sulla Rocca; il 1° Granatieri si dispose tra Ronchi e Dobbia e il 2° a Staranzano. Mentre dalla Rocca i granatieri del I Battaglione si avviano verso Dobbia, la storia del fuoco amico circolò tra le loro fila: In quest’atmosfera prendono colore cupo tutte le notizie e le dicerie che cominciano a circolare. La Brigata si ritira, l’artiglieria ieri invece di sparare sul nemico ha sparato sui nostri, il Battaglione del maggiore 67


Manfredi è stato decimato, il maggiore Manfredi ha dovuto far sventolare la bandiera del Reggimento perché gli artiglieri, dietro, s’accorgessero ch’erano italiani, ma troppo tardi; uno shrapnel, proprio in quel punto lo colpiva, in pieno; il comandante della batteria s’è ammazzato. Difficile è controllare la verità di queste notizie, c’è in qualcuna di esse un’evidente esagerazione. [Stuparich, 29]

A Dobbia ancora notizie, forse più precise: Nel pomeriggio scorgiamo il capitano che dalla sera prima non avevamo più visto. Forse s’è accorto della nostra tristezza e ci chiama. Non è affatto vero che ci ritiriamo, molte cose udite per la strada sono esagerate; ma egli ci conferma la notizia che l’artiglieria ha sparato sui nostri e aggiunge che per causa di quell’errore si dovette sospendere l’avanzata: altrimenti, nel primo impeto, avremmo raggiunto, oltre il valloncello, tutte quelle quote che ora ci stanno dirimpetto e dove gli austriaci si fortificano. [Stuparich, 30 – 31]

Non è però che a Dobbia si stia tranquilli; il giorno 12 il villaggio è investito da un pesante bombardamento: 12 giugno. Dobbia. Nel sole. Bombardano il villaggio e la campagna vicina. La terra sollevata da qualche granata schizza fin dentro nei nostri ricoveri, poveri ricoveri di frasche innalzate su un debole terrapieno. […] Mamma, se ritorno, rinuncio a tutto, pur di tenerti le mani nelle mie mani e d’averti sempre vicina! «Forse lassù, lontano lontano, la tua mamma pensa a te»: ho il cuore gonfio quest’oggi e questa reminiscenza di parole e di canto, con l’immagine della camerata, a Roma, dove cantavamo quella canzone prima di partire per il fronte, me lo fa traboccare. E dire che, prima, in certi momenti il pensiero di prendere parte alla guerra mi si accompagnava con l’idea d’avventure, di vagabondaggio, con l’idea di sganciarmi dalla mia famiglia! Abbiamo preso le palette e scavato, per farci un po’ di riparo. Il bombardamento ha ripreso più forte. Alcune granate partono con rabbia; gnau! Rotolano, le più grosse, nell’aria: l’udito presta il senso alla vista, perché par di vederle rotolare a spirale. Quelle che arrivano, avanzano stanche e lente. Ma c’è una batteria austriaca vicina: bot-gnau, bot-gnau, bot-gnau, con ritmo regolare, un pezzo dietro l’altro. [Stuparich, 33] 68


Il giorno 13 giugno ripresero le operazioni verso Quota 121, Quota 85 e Quota 77. Alla Brigata Messina fu affiancato il 2° Granatieri. I reggimenti che si erano mossi verso Monfalcone lungo la strada di Ronchi avevano traversato una campagna desolata con case e casolari intatti e abbandonati: Nel muro, dove è addossata la nostra compagnia, s’apre la finestra d'una cucina. Alzandosi sulle punte dei piedi, si può vederne l’interno. Si vede il focolare con la cappa friulana, e sulla cornice, ornata in giro da una carta velina rosa, chicchere e boccaletti; un armadiolo coi vetri; sulla tavola, nel mezzo, dei piatti e un bicchiere. Tutto il luogo ha il calore della vita. Aspetto, da un momento all'altro, di vedere aprirsi l'uscio ed entrare una donna. Me lo desidero quasi, perché sento come una minaccia dietro le mie spalle. Difatti un granatiere suggerisce di forzare la finestra e “farci una visitina”, ché quell'abitazione ha tutta l'aria d'essere abbandonata. Mentre cerco di persuaderlo a non farlo, un altro, con un pugno, ha già spalancato le fragili imposte. Due, tre scavalcano la finestra. Anch'io, non so per quale impulso, se per curiosità o per esser pronto a impedire qualche atto vandalico, faccio lo stesso. In quella cucina di povera gente, mi sento prendere da una grande commozione. Sui piatti c'è ancora del cibo raffreddato e rappreso, nel bicchiere un fondo di vino; sul focolare una bottiglia, vuota, d'acqua minerale Giesshiibler; in una cassetta alcuni stracci, più in là una scarpa; appese alle pareti, l'asse della pasta e le gratelle. Immagino la vita di quella famigliola pacifica, sorpresa dalla guerra e costretta ad abbandonare in fretta e furia la sua casa. Chi sa quanta intimità e quanti litigi, quante sere di dolce raccolta intorno alla mensa, in quest'aria, ora morta e disperata. I granatieri hanno aperto l’armadiolo e frugano: hanno trovato cinque bighete e due uova. Sopra un cestino da lavoro vedo un romanzo: Angelo di bontà del Nievo, un libretto d'opera: Lucia di Lammermoor e alcune cartoline; ne leggo qualche frase: «come sta la Giulia?» [Stuparich, 37]

Anche Monfalcone è desolata e semidistrutta, colpita prima dall’artiglieria italiana, poi da quella austriaca. Gli austriaci avevano fatto evacuare la città, internando la maggioranza degli abitanti nei campi profughi, ma alcuni erano rimasti nelle loro case a sfidare i 69


bombardamenti e sui balconi avevano steso lenzuola bianche a significare che in quelle case non c’erano né truppe né installazioni militari. Non servì poi a gran che; le bombe fioccavano. E ancora c’erano in Monfalcone bambini: Quanta pena mi fanno questi bambini cenciosi che risbucano, non si sa di dove, a ogni rancio e s'avvicinano timidi, con dei pentolini o dei vecchi vasi di conserva, alle marmitte, nel momento in cui i soldati sfollano con in mano le loro gavette piene di brodo grasso e fumante, su cui affiora il pezzo di carne! Mi fermo a guardarli: non han coraggio di chiedere con la voce, ma pregano con gli occhi. I nostri cucinieri sono buoni, e non ne lasciano andar via nessuno senza aver riempito di brodo i loro recipienti e, qualche volta, senza aver messo nelle loro mani dei rimasugli di carne o delle mezze pagnotte. [Stuparich,, 42]

Da Quota 98 gli italiani avevano iniziato lo scavo di una trincea, detta poi la Trincea Joffre, che doveva scendere verso la Stazione ferroviaria (trasformata in fortino) e proseguire fronteggiando la linea austriaca attestata a Quota 77, 85 e 121. Appena a Nord della stazione fu realizzato, sfruttando una caverna naturale scoperta nel corso degli scavi, un ampio ricovero attrezzato. Dal centro cittadino era poi possibile raggiungere il fortino della stazione attraverso un valloncello riparato. Gli austriaci in Monfalcone tenevano ancora la grande area dei cantieri dell’Adria Werke, confinante con la vasta distesa paludosa del Lisert. Il giorno 14 alle 2,45 le batterie natanti della marina dislocate a Punta Sdobba iniziarono il bombardamento, seguite dalle batterie di medio calibro di Bestrigna. Il 2° Granatieri, in posizione presso la stazione ferroviaria di Monfalcone, iniziò, intorno alle 16, dopo il fuoco di preparazione, ad avanzare verso gli obiettivi assegnati; l’artiglieria austriaca che fino ad allora aveva taciuto, si fece improvvisamente viva con la solita efficacia. Le compagnie avanzate del I Battaglione, superata la pineta della Rocca, proseguirono sul terreno scoperto fino a giungere a contatto con i reticolati e qui dovettero arrestarsi. Solo allora gli austriaci aprirono il fuoco 70


con raffiche di mitragliatrici e nutrita fucileria. Alle 20 circa si scatenò anche un temporale; dopo un’ora non rimase che ordinare ai granatieri di ripiegare su Monfalcone, sotto la pioggia che continuava a cadere fitta e violenta. Delle profonde fasce dei reticolati austriaci, i granatieri avevano già fatto triste e tragica esperienza: il bombardamento dell’artiglieria italiana era risultato inefficace. A ogni compagnia furono distribuite venti cesoie da giardiniere (per iniziativa dei comandi delle unità poiché ai reparti non erano giunti attrezzi più adatti) con le quali le pattuglie, di notte, strisciando avrebbero dovuto tagliare il groviglio del filo spinato. Poi i tubi di gelatina. Ogni tubo di 5 o 6 cm di diametro, lungo da 6 a 8 metri «contiene dei pacchetti di gelatina esplosiva; all'estremità c'è la miccia; bisogna portarlo in due e andar cauti per non batterlo contro qualche sasso, infilarlo tutto nel reticolato nemico, accender con uno zolfanello la miccia, accertarsi che questa arda e, se non arde, riaccenderla un'altra volta; poi, se ne ha tutto il tempo perché la miccia si consuma lentamente, ritirarsi dietro un riparo: un albero, un sasso, una piega del terreno» [Stuparich, 66]. Ma anche i tubi di gelatina alla fine si rivelarono insufficienti a rompere fasce di reticolati profonde anche 25 metri e disposte in più ordini. Il 15 di giugno la Brigata Granatieri rilevò la Messina e prese posizione con il 1° Reggimento che partendo dalle alture della Rocca si saldava al III Battaglione del 2° Granatieri, le cui linee raggiungevano la ferrovia per Trieste. Il resto delle truppe rimase nel piano (II/2°) e accantonate in città (I/2°). Il 23 giugno, a conclusione delle azioni del 18, 20 e 21, che sostanzialmente non avevano consentito risultati apprezzabili, il I Battaglione del 2° Granatieri riuscì a prendere i cantieri dell’Adria Werke. Quel giorno furono diramati gli ordini per la prima battaglia dell’Isonzo. L’assalto principale nel settore di Monfalcone fu ordinato il 29 giugno: alla Brigata Granatieri furono assegnate le Quote 21, 77, 85 e 121 (quest’ultima era lo specifico obiettivo del II Battaglione del 1° Granatieri, il battaglione di Sante); la Messina 71


avrebbe attaccato la linea Debeli – Cosich per poi avanzare verso Quota 144. Il 30, alle 2,30, sotto un violento temporale, volontari (sei giorni di licenza) strisciarono, fra il Cosich e il Debeli e alle quote 121, 85, 77 e 21, fino ai reticolati austriaci, arrestandosi, immobili, al comparire del fascio di luce o di un riflettore o di un razzo: furono così collocati una trentina di tubi di gelatina. Ne scoppiarono circa la metà e la loro esplosione aprì varchi d’ampiezza limitata, appena sufficiente per permettere il passaggio di un uomo. In corrispondenza dei varchi gli austriaci puntarono tempestivamente le mitragliatrici. A Quota 121, l’8ª Compagnia del II battaglione del 1° Granatieri giunse al varco nel reticolato, che si rivelò non completamente aperto: in quattro tentarono di passare comunque e furono falciati dal fuoco austriaco. La Compagnia non poté che ripiegare. Non miglior risultato ebbero gli assalti alle altre quote. A Monfalcone, dalla casa ove ha trovato riparo, Giani Stuparich vede Quota 121: Grigie nuvole immobili dànno all’aria un colore spettrale. Sotto questo cielo Quota 121 appare ancora più brulla del solito: sassi, cespugli, pochi pini schiantati; è veramente truce. Così dall’alto non l’ho vista mai. Sul suo dorso è un fiorire continuo di nuvolette bianche di shrapnels. Aguzzo gli occhi; mi par di scorgere delle piccole macchie grigioverdi sotto un gruppo di pietre bruciacchiate; sono i nostri? Nessun movimento. Cerco la linea, un segno delle trincee nemiche; non vedo nulla. Vampe, coni di fumo nero, nuvolette bianche: ecco la battaglia; e così, misteriosamente, rimanendo invisibili, soffrono e muoiono gli uomini. [Stuparich, 71]

Verso le sei l’artiglieria italiana rinnovò il bombardamento delle posizioni austriache; di nuovo furono posati i tubi di gelatina e rinnovato l’assalto. Verso l’imbrunire il II Battaglione del 1° Granatieri ritentò l’attacco a Quota 121: la 5ª Compagnia giunse a ridosso dei reticolati e lì rimase inchiodata poiché non trovò varchi sufficienti; anche la 7ª Compagnia tentò l’assalto, con la 6ª. Così Giani Stuparich riassunse quella terribile giornata: 72


Non so quanto tempo abbiamo impiegato ad arrivare al ricovero del Comando di compagnia. Sembra vuoto; ma una voce da un angolo dice: - Buon giorno, capitano -. Con la schiena addossata al parapetto, sporco di fango da confondersi con la terra, sta seduto un tenente. Nella sua faccia smorta splendono due occhi accesi dalla febbre e da un disperato coraggio: sono le uniche cose vive in quel corpo che, si vede, non ha la forza di muoversi, neppure d'alzare un braccio. La sua voce è limpida, ma tenue.- Dov'è il suo capitano? - gli domanda il nostro. Ferito; feriti o - morti tutti gli altri ufficiali della settima; egli è rimasto l'unico superstite a comandare, di nome, la settima che non esiste più. Dopo il terzo battaglione, il secondo; ieri notte, fallita l'azione della nona, sono andate all'assalto la quinta e la settima; la fucileria e le mitragliatrici le hanno decimate; il reticolato nemico è ancora intatto: i varchi fatti dai tubi di gelatina vengono ostruiti immediatamente dagli austriaci con pochi cavalli di Frisia; al reticolato sono rimasti aggrappati parecchi dei nostri; dei reparti si trovano ancora giù, nel fondo della valle, e non possono ritirarsi finché non annotta. [Stuparich, 74]

Sante scrive a casa preoccupato che dal 17 maggio non ha più notizie dei suoi. A casa invece la posta arriva e Teresa risponde, sollecita, il 16 giugno con una cartolina postale e una busta con la carta da lettera e i francobolli perché Sante possa subito scrivere: ha mandato un’assicurata il giorno 31 maggio con 10 lire e una cartolina postale in data 7 giugno. Ma la missiva è tornata inspiegabilmente al mittente. Deve aver fatto un bel giro: era indirizzata, in origine . «Al Granatiere Mazzoletti Sante 1° Reggimento, 7ª compagnia, 13ª Divisione, 7° Corpo d’armata». Sopra l’indirizzo compare il timbro «verificato per censura»; sotto l’indirizzo è scritto a matita «Pieris» In angolo a sinistra con andamento trasversale a salire destrorso è scritto a matita «ospedale». La ricevuta di ritorno è indirizzata: «Al signor Mazzoletti Battista - via Dante Alighieri n. 50 – Codogno Prov. di Milano». A sinistra dell’indirizzo in verticale è scritto a matita «Corrispondenza militare respinta dalla zona di guerra» e sotto compare il timbro «Visto dal deposito 1° Reggimento 73


Granatieri si rimette al» con aggiunta a mano e in matita la scritta «la famiglia» La sera del 28 giugno nella chiesa delle Grazie a Codogno si tenne solenne funzione religiosa per la vittoria (italiana s’intende) e perché i nostri soldati potessero contare sulla celeste protezione (evidentemente negata ai soldati del cattolicissimo Impero d’Austria). L’Unione delle donne cattoliche, nell’occasione, promosse una conferenza “patriottica” tenuta dal parroco di Sant’Eustorgio di Milano. Intanto le famiglie dei mobilitati erano in comprensibile ansia, né giovava loro il continuo rincorrersi di voci tanto allarmanti, quanto prive di fondamento, sull’andamento della guerra, così che il sindaco in un manifesto annunciò che «per impedire gli allarmi e le ingiustificate apprensioni derivanti da voci prive di fondamento l’autorità» avrebbe provveduto «all’immediato arresto dei propalatori di qualsiasi notizia tendenziosa» e invitava «tutti indistintamente i cittadini a denunciare chi con leggerezza divulga notizie false intorno alla guerra, tali denunzie dovendosi ritenere compimento di un ‘dovere civico’.» Era un problema nazionale, cui cercò di porre riparo anche il Governo con il decreto del 22 giugno 1915. In quella non molto felice estate ci si mise anche il tifo. L’allarme fu grande e furono fatte disinfezioni e attuate misure rigorose perché fossero rispettate tutte le norme igieniche e sanitarie, soprattutto per i generi alimentari, frutta e verdura in particolare. Il 1° luglio si iniziò a distribuire il sussidio alle famiglie dei richiamati. A fine giugno un gruppo di signore, costituite in Comitato, propose di portare assistenza ai soldati in transito alla Stazione ferroviaria; la proposta, recepita dal Comitato centrale di assistenza, portò all’istituzione di un servizio articolato operante 24 ore su 24. L’ordine di servizio prevedeva turni di due ore ripartiti su 12 squadre formate da un capoposto e quattro militi, per lo più donne. L’iniziativa ebbe discreto successo tanto che 74


ancora oggi una targa in bronzo, nella stazione di Codogno, la ricorda: «Dono di un cittadino di Codogno alle dame del Ristoro che grate del plauso gentile nella loro sede di guerra vollero collocarlo – giugno 1915 – marzo 1919». La prima battaglia dell’Isonzo riprese il 4 luglio per esaurirsi nei giorni 6 e 7 luglio. I combattimenti, lo stesso gen. Boroevic osserverà, «malgrado tutte le vittime e la rara energia dei grandi attacchi, non avevano fruttato al nemico successi decisivi». [Pieropan, 129]. Il 15 luglio il colonnello Umberto Gandini, lasciò il comando del 1° Granatieri, sostituito ad interim dal tenente colonnello Stefano D’Onofrio, che dalla morte del tenente colonnello Manfredi su Quota 61 aveva comandato il IV Battaglione. Il 24 luglio – durante la Seconda Battaglia dell’Isonzo - furono distribuite per la prima volta le maschere antigas: l’arma chimica era stata sperimentata dai tedeschi il 31 gennaio contro i russi a Bolimòw (oggi in Polonia) senza “soddisfacenti” risultati. I risultati non erano mancati il 22 aprile a Ypres. Quella guerra era “diversa”. Scriverà in una lettera agli zii il tenente Rainaldi comandante dell’8ª Compagnia del II/1° Granatieri in procinto d’essere nominato capitano: «adesso gli ufficiali vanno vestiti anch’essi en soldat, stellette al braccio e basta! Abbiamo imparato a nostre spese che l’argento al bavero e l’eleganza della linea non piacciono ai croati che li prendono di mira». [Rainaldi, 67] Tra la fine di giugno e i primi giorni di Luglio, non è possibile dalle sue lettere sapere il giorno esatto (né alcuna registrazione in proposito compare sul Foglio matricolare), Sante fu ricoverato nell’Ospedaletto da campo n.119, ancora per infezione al piede e, questa volta, l’infezione fu giudicata grave. Scrisse a casa lamentando l’assenza di notizie da Codogno: ha ricevuto l’assicurata del 31 maggio e poi più nulla. Il 2 agosto, quando le sue condizioni sono di fatto migliorate Sante rivelerà che il suo ricovero era motivato da un’affezione piuttosto grave: «doppio flambone con una specie di sciatica». All’ospedale, Sante rimase fino alla fine 75


d’agosto, un tempo eterno. La posta funzionava a intermittenza e lettere e vaglia erano recapitati con inspiegabili ritardi: un battibecco tra Sante e Teresa fu inevitabile. A ben guardare, Sante non aveva tutti torti: si rendeva ben conto dei sacrifici che chiedeva alla famiglia e non li chiedeva oltre il possibile, ma un volta inviato, il denaro doveva giungere in tempi ragionevoli al destinatario e non bloccarsi in qualche ingorgo postale. Di qui la preghiera di controllare che l’indirizzo fosse corretto e se possibile di scriverlo direttamente e di non fidarsi di «quelli della posta». Maria infila un suo biglietto in una lettera di Teresa e Battista: ha scritto dice sette volte; Sante vuol sapere di questo che è un contatto ufficiale con la famiglia, di cui è felice. Il piede migliora di giorno in giorno, ma per guarire completamente occorre tempo. Almeno fosse stato ricoverato in un ospedale dell’interno, già sarebbe a casa, in convalescenza, ma è in zona di guerra «quasi al fronte e [la convalescenza] non posso averla». I genitori provano qualche strada per farlo tornare, ma forse è tardi, forse occorreva tentare prima. Ma il granatiere Mazzoletti non è dispiaciuto più di tanto. Tornerà al Reggimento, (ora al comando del colonnello Giovanni Albertazzi) dai suoi amici, da Emilio, Pozzoli, Tonani che sono andati a trovarlo all’ospedale. Dimesso il 25 agosto, il 30 scrive a casa e tranquillizza Teresa. In guerra si moriva. Negli ultimi giorni di luglio morì nell’ospedale di Codogno il soldato Mario Banfi di Pernate (Novara), classe 1892, 18° Reggimento di fanteria, Brigata Acqui, 3ª Armata. Il 18° Reggimento tra il giugno e il luglio di quell’anno era impegnato nel settore di Ronchi – Cave di Seltz, là dove era impegnata anche la Brigata Granatieri. Mario Banfi, gravemente ferito in combattimento, era destinato a un ospedale militare, ma durante il viaggio le sue condizioni erano peggiorate, sì che si era reso necessario il ricovero. Dal paese natale giunsero il padre, la madre, una sorella e il cognato; al passaggio del corteo funebre, scortato da un picchetto di soldati, ogni attività si arrestò e i negozi chiusero i battenti. Dopo i discorsi, inevitabili, delle autorità, 76


sindaco incluso, il povero ragazzo venne sepolto nel cimitero di Codogno. Non era più tempo d’allegria (né di consumi sfrenati): la prefettura limitò gli orari d’apertura di bar, trattorie e osterie e revocò tutti i permessi per feste e balli. Ma alla morte ci si doveva ben abituare. Nella chiesa di Santa Maria della neve, per iniziativa delle donne cattoliche, si stabilì di celebrare, ogni lunedì alle 16,30, una messa a suffragio di coloro che erano morti in guerra. E anche quelli di Codogno cominciarono a morire. Dal fronte giungevano tristi notizie. L’8 agosto si seppe che Adolfo Becilli del 111° Reggimento di fanteria Brigata Piacenza (appena costituita, il 15 marzo 1915) era morto il 26 luglio nell’Ospedaletto da campo n.77 per ferite riportate in combattimento: era nato a Urbino nel 1890, ma la sua famiglia risiedeva a Codogno. Poi toccò Luigi Franzini, nato a Marudo nel 1893, soldato del 23° Fanteria Brigata Como, morto il 17 agosto nella 2ª sezione di sanità per ferite riportate (si seppe il 10 settembre); Mario Trabacchi fu vittima, a Cividale, di un incidente durante un'esercitazione del 19° Reggimento di artiglieria campale, il 4 settembre, e si seppe il 17 settembre. Di Severo Zambelloni, classe 1889, 25° Reggimento di fanteria Brigata Bergamo, che lasciava la moglie e un figlio, Luigi, nato nel giugno del 1914, si seppe il 18 settembre: era morto il 19 agosto nell’Ospedaletto da campo n. 30 a Tolmino, per ferite riportate in combattimento. Carlo Imbimbo, era nato a Bagnolo Irpino nel 1882; funzionario della Ferrovia aveva sposato Maria Dansi, maestra elementare, aveva due figli, Angelo (1910) e Francesco (1912). Era partito volontario come sottotenente del 111° Fanteria, Brigata Piacenza; mori il 26 luglio sul San Michele e si seppe un mese dopo. Il 21 settembre si seppe che Emilio Reggiori, classe 1889, del 37° Reggimento di fanteria, della martoriata Brigata Ravenna, era morto 17 agosto, per malattia contratta al fronte, nella 15ª sezione di sanità. Lasciava la compagna (diremmo oggi), Giacoma Soffientini, e due figli, Maria di due anni e Pierino di sei mesi. Gian Battista Aleardi era morto nella caserma del 7° Lanceri in uno sciocco litigio con un commilitone, il 19 settembre; 77


il suo nome non trovò spazio sull’”Albo d’Oro”, ma la pietà lo volle, poi, sulla lapide con gli altri caduti. I nomi di coloro che non sarebbero mai tornati correvano ogni giorno di casa in casa; altri già erano morti, ma ancora nulla si sapeva e nelle loro famiglie si sperava e si aspettava con crescente angoscia. La scuola di confezione lavorava a pieno regime: circa 5000 erano le divise spedite ai magazzini militari, ma ancora erano necessarie iniziative per procurar lavoro e reddito alle famiglie dei richiamati e il sindaco avviò trattative per impiantare una fabbrica di bottoni (che aprì nel 1916 per chiudere nel 1917, dopo travagliata esistenza). Nei primi giorni di ottobre si costituì la sottocommissione mandamentale per la confezione degli indumenti militari; ne fecero parte, tra gli altri, anche il sindaco di Codogno e quello di San Rocco. Battista ogni sera andava in Piazza, sotto la Loggia e leggeva «Il Secolo». Teresa aspettava: «Allora, Battista?». E Battista scuoteva il capo: «Bombe, bombe, bombe». Le «sorelline», dopo alcuni giorni, al suo comparire in fondo al cortile, strillavano ridendo inconsapevoli: «Bombe, bombe, bombe». Teresa, già di suo non molto paziente, non era nella miglior disposizione d’animo e gli scapaccioni fioccavano (anche sulla povera Maria, la più giovane delle sorelline, che a dire il vero poco partecipava al chiasso).

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Lettere dall’Ospedaletto da campo n. 119 giugno – agosto 1915 16 1915, cari genitori, vi scrivo queste poche righe con le lacrime agli occhi dal dispiacere; sapete che poco tempo fa entrai all’ospedale con una specie di flambone e sortii subito. Ora vi dico che di nuovo oggi ho dovuto entrare all’ospedale e mi faranno quello che dovevano fare alla nostra Angiolina anni fa. Il medesimo piede si è formato un ascesso all’osso e mi faranno la raschiatura. Ora immaginatevi, cari genitori, come sono sfortunato. Ho passato dei giorni bruttissimi in un mese di guerra, specialmente il giorno 9 e 12 che l’avrete letto anche nei giornali che è successo ai granatieri; ora mi trovo qui. […] dico che feci appena attempo a ricevere l’assicurata ieri e subito entrai. Vi prego di non pensare a me che io presto sortirò; voi sapete che lo spirito non mi manca. Per me non dovete badare; guardate di star bene in famiglia. Cari genitori quando ero a casa io che andava un po’ bene morì il nostro caro Romeo che tanto era amato. Ora che Francesco è ben postato e la famiglia andrebbe bene ci sono io che ho sempre qualche cosa. Io non volevo scrivervi ma sono costretto a tenervi al corrente a motivo della posta che voi mi manderete. Almeno dovessi sortire presto e non tornare mai più in prima linea. Ora vi saluto di vero cuore, un bacio alle mie sorelline, a Francesco. Il vostro Sante. La posta inviatela ancora come prima che sono d’accordo col furiere. Ho saputo che Cigolini è sotto le armi: mi rincresce molto. Il vaglia non l’ho ricevuto. Salutatemi i cugini, le zie; salutatemi tanto Maria e sua madre. Io mangio per quattro; papà non pensare e tu, mamma, stai in pace. Ciau, Sante. Luglio 1915, cari genitori ho ricevuto la vostra lettera, che da molto tempo la desideravo, lei mi esprime il dispiacere che avete provato sentendo le parole che vi mandai in quella famosa cartolina. Io vi voglio dire una cosa: essendo molto tempo che non ricevevo nulla da casa, da Maria nemmeno, dato i momenti in cui mi sono trovato, ero agitato dalla disperazione. Dunque giudicate voi se io avevo ragione a scrivervi tali parole d’offesa; pur credo che non sarete in collera con Sante. 79


Genitori quando mi scrivete di nuovo, fatemi sapere e non mancate di dirmi se dopo l’assicurata avete spedito ancora dei vaglia fuori da quello di £ 15, perché io dal 15 giugno non ho avuto più nemmeno una riga. Ora vi dico che la lettera l’ho ricevuta, e il vaglia no, però non appena l’avrò ricevuto vi manderò una cartolina per segno. Io non vi dico nulla se dopo l’assicurata non avete spedito altri soldi, ma non vorrei fossero fermi in posta. Il primo vaglia lo riceverò sarà questo dopo l’assicurata. Genitori vi posso dire questo, per ora che il piede al presente mi va bene: quei taglietti che m’ha fatto si sono rimarginati, ma però speriamo che non sia per sempre così debole. Dovevo entrare in compagnia l’altro giorno, essendo che è non ancora perfettamente guarito, mi tiene ancora per qualche settimana qui. Se non fossi stato in un ospedale da campo che è quasi al fronte, forse sarei stato sicuro della convalescenza. Però non pensate male: speriamo che tutto vada bene e che il mio piede riprenda di nuovo la forza come l’aveva prima. Voi tenete sempre il medesimo indirizzo fino a che lo dirò io. Ora termino di scrivervi col dirvi di non pensare a me che io sto bene. Vi saluto di cuore tutti in famiglia; un bacio alle mie sorelline, a Francesco; saluta tanto Maria, tutti i cugini e amici. E v’avverto, appena riceverete questa lettera datemi subito risposta. Credete pure genitori che non appena son guarito torno subito al corpo e dell’ospedale sono stanco. Mamma ti prego di farmi sapere per la posta spedita e non ricevuta e quando mi scrivi mandami i bolli e fa sapere a Maria l’indirizzo e dille che le scriverò ed a me non ci pensate. Ciau mamma e arrivederci papà: scusate la mia impazienza. Sante. Senza bolli perché soldi non ci sono. 2 agosto 1915, cari genitori, oggi provai una contentezza che non vi potete immaginare: ricevetti il vaglia e la lettera che dopo tanti giorni aspettavo. Non vi dissi mai nulla per non rendervi molto dispiacere, ma ora che sono quasi fuori della malattia ve lo posso dire. Il mio male era un doppio flambone con una specie di sciatica. Ma come voi lo potete dire che Sante non è mai stato piagnone e nemmeno lo sarà, ho fegato abbondante. Io vi dico altro che appena il fotografo avrà tempo vedrete che vi manderò un quadro che vi darà un effetto di [...] vedrete che uomo. Mi rincresce che vi faccio pagare i bolli, ma contenti voi contenti tutti. 80


Io vi dico altro che la mia guarigione è lunga che se ero in Italia ero in convalescenza da un mese, ma essendo quasi al fronte non posso averla. Sapete genitori che scrissi a Morani, che ora si trova a casa e se verrà a trovarvi, vi dirà quello che feci per lui il 9 giugno e cosa è Mazzoletti Sante in compagnia. Ora termino col salutarvi di vero cuore tutta la famiglia; un bacio alle sorelline, a Francesco. Salutate i cugini; salutami tanto Maria che da molto tempo aspetto sua posta e non ne posso avere. Mamma scusa della calligrafia, scrissi quasi colle dita. Ciau 10 - 8 – 1915, caro padre, son colmo di gioia vedendo la premura, il cuore che tieni verso di me. Sappi caro che desidero altro che tornare a casa per essere un po’ al fianco tuo ed aiutarti nei lavori pesanti che noi pratichiamo. Speriamo che presto sia finita sta guerra, che almeno potrò venire a passare un po’ d’allegria in famiglia. Io termino col augurarti di passare felicissime feste in famiglia che al pensare San Rocco e trovandomi in un ospedale mi viene da piangere. Ora ricevi un affettuoso saluto. Tuo Sante. Saluti di nuovo alla famiglia, baci alle mie sorelline, a Francesco e non pensate che quando verrò a casa sarò molto riconoscente. Ciau. Sante 19 agosto 1915, cari genitori, non so spiegarmi nemmeno io il motivo per il quale la vostra posta abbia così tanto ritardo. Come voi già lo sapete, che il giorno 9 agosto m’avete spedito una lettera la quale mi diceva che il medesimo giorno avevate spedito anche il vaglia. La lettera l’ho ricevuta dopo tre giorni, il vaglia nemmeno ora. Io che volevo passare almeno le feste di San Rocco, con quei soldi che mi avete spedito, mentre invece dovetti farmeli prestare da un altro ammalato. Come voi direte che ne ho ricevuto uno che è una quindicina di giorni ma dovete sapere che quello più di mezzo era da dare a un mio amico che me li aveva prestati. Io non vi dico nulla, anzi tutt’altro vi posso ringraziare del vostro buon cuore che ne usate verso di me, ma vi prego quando mi spedite ancora i soldi dite a quelli della posta di non sbagliare a fare l’indirizzo oppure facciano urgente, come sulle lettere, che almeno potrò averli in tempo massimo come tutti gli altri. Ora vi saluto di cuore tutti in famiglia; un bacio alle sorelline, a Francesco. Vostro 81


aff. Sante. Mamma quando di nuovo mi scriverai, la data del giorno e del mese sia giusta: ora siamo agosto e non luglio hai capito? Con molto piacere vi dico che la mia gamba riprende la forza come prima e perciò non dovete pensar male. State pur tranquilli che io sto benissimo e appena potrò subito vado in compagnia. Sarà ancora per poco. Saluta i cugini, le zie e chi domanda di me. Sante. Ciau papà, arrivederci presto mamma. 24 agosto 1915, cari genitori, rispondo alla vostra lettera che tanto la bramavo e sento che volete far di tutto per farmi venire a casa. Questa genitori era una cosa che si doveva far prima, un mese fa, ma ora sono già guarito e domani me ne vado a trovare tutti i miei amici in compagnia. Vi potete levar dalla testa che tal domanda vi sia concessa, magari fosse. Ho ricevuto anche il biglietto di Maria che trovai unito alla vostra lettera, col quale si scusa e mi dice che mi ha scritto sette volte. Io mi trovo in ottima salute; il vaglia, dopo tanto, l’ebbi ieri sera, e mi scuserete per quello che vi dissi. Ora vi saluto ricevete un affettuoso bacio. Vostro Sante; baci alle sorelline e a Francesco. Voi desiderate tanto di vedermi, ma io di più di voi. Però portiamo pazienza che verrà un giorno che ci rivedremo. Saluta i cugini e chi domanda di me, ciau. Addio Sante. Scrivetemi sempre, ciau. Sante. I mei amici domani li trovo tutti, ma Tonani fu ferito e ora si troverà in ospedale. 30 – 8 – 1915, cari genitori, proprio sto momento ho ricevuto la vostra lettera che avete spedito il 27 e me n’approfittai d’un fil di tempo per rispondervi. Io rimasi molto dispiaciuto per quello che mi disse la mamma che per lei fu un colpo al cuore perché dovevo andare al reggimento. Lei chissà cosa si crede ad essere al reggimento. Secondo me sarà meglio il reggimento che l’ospedale, tanto più che ora il mio reggimento si trova a riposo e poi è inutile pensare, doveva venire quel giorno di sortire dall’ospedale, piuttosto è la fortuna che non è mai con noi che dopo settanta giorni di soffrire nemmeno ebbi un giorno di licenza. Se era un altro chissà quanta n’aveva. Ma però non mi lamento; mi trovo qui con gli amici, tutte le sere si beve qualche fiaschetto e poi non state in pensiero la salute che ho è di ferro e poi tutte le sere quando ci troviamo seduti sull’erba tutti noi di Codogno 82


si canta e le ultime parole vanno sempre a finire ai genitori che abbiamo lontano, ma che ci confortano sempre. Pozzoli dice che noi di Codogno non si muore mai e di questo state certi che presto ci vedremo. Ora vi dico che il vaglia non l’ho ricevuto, ma spero di ricevere quello del 21. Mi dispiace che dopo tanti passi che avete fatto non siete riusciti a nulla. A me non importa, basta che la salute m’accompagni; farò delle fatiche ma a casa ci voglio venire. Ora vi saluto di cuore tutti in famiglia; riceverete mille baci dal vostro Sante. Un bacio alle mie sorelline, a Francesco. Saluti ai cugini, alle zie, a chi domanda di me. Saluta Maria e vi raccomando non pensateci se mi trovo al reggimento, la mia salute è di ferro e come credo la vostra. Mille bacioni al papà che tanto mi ricorda. Io la carta non la posso avere e perciò dovresti mandarmela te la carta e i bolli per scrivere a Maria. Io credo che me la manderai per poco tempo e poi la potrò comprare. Quando mi scrivi mandami sempre la busta coi bolli e il foglio. Ti prego mamma non pensare a niente specialmente a me che io sto bene […]. Ti saluto di nuovo, riceverai un bacio, tuo Sante. Ciau. […].

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Monte Sabotino, Quota 188

La Brigata Granatieri aveva lasciato Monfalcone il 23 agosto e si era accampata a Clauiano; il 29 agosto furono commemorati i granatieri caduti in combattimento, rimpiazzati da nuove reclute. Secondo le istruzioni del Comando supremo, dopo i primi, pochi, giorni di riposo effettivo, disturbati dall’aviazione austrica, la truppa fu impegnata in esercitazioni, marce, addestramento formale. Il tempo è pessimo: piove sempre e per i soldati attendati non è certo un bel vivere. Ma poi, in fine: «vi voglio dire che non si passa male la vita: con dei fiaschetti di vino si sta sani […]. Le cantate che abbiamo fatto non vi potete immaginare con Dosio, Pozzoli, Tonani ed Emilio; il più che vi posso dire è che godo una salute di ferro [anzi d’acciaio, tale è sempre nelle lettere del granatiere Mazzoletti] e sapete anche voi che della fatica non ho mai avuto paura, qualche lira l’ho sempre in tasca dunque non va male». La guerra finirà, si spera presto, e allora: «col tempo tutto passerà e verrà anche quel giorno che vi potrò vedere ed abbracciarvi che dopo molto tempo che sono da voi lontano, e tutto quello che ho sofferto, potrò vivere in vostra compagnia felice». Intanto circola la voce che tra i granatieri sceglieranno elementi da trasferire nell’artiglieria da montagna: ci pensano tutti, Pozzoli (che ci ride su), Tonani e Sante, che è sicuro d’essere scelto. Ci pensano, ma in fondo se ne dispiacciono. «I granatieri – dicono i superiori - non andranno più avanti». Però il «nostro reggimento ha sofferto anche troppo e soffre molto ancora il tempo cattivissimo, delle fatiche se ne fanno molte. Voi direte sono a riposo, ma vedeste le marce che si fanno e poi a dirvi la pura verità tra il tempo e il vitto e marce ci fanno crescere le ossa perché di carne 84


non ne abbiamo più attaccata». E piove, piove sempre: si dorme in tenda, sulla paglia umida, tormentati dai pudgarin [pulci e pidocchi, n.d.R.]. «Siamo sempre in terra e per forza bisogna tenerli […]. Sapete che siamo al medesimo posto; del tempo non ne parliamo, tutti i giorni è pioggia. Il vitto già vel dissi; che volete portiamo pazienza è un debito che dobbiamo pagare e lo pagheremo. Speriamo tutto vada bene e di tornare presto ad abbracciar le nostre care famiglie». Raccomanda ai genitori (ma non era proprio il caso) di accogliere bene il padre di Tonani, che presto andrà a trovarli. Da Codogno giungono alla Brigata altri richiamati, classe 1886: ce ne è uno che lavorava con Secondo, zio di Sante, che sarà anche lui mobilitato, poi ci sono Maiatuc e Grassi al Lirin, due macchiette che fan ridere con le loro trovate l’intera Brigata: «La sera poi la passiamo come in famiglia con qualche fiaschetto di vino e si canta a volontà che anche quei due lì cantano bene, non per vanto, ma gli altri fanno dei cerchi per sentire la squadra volante a cantare». Gira voce che il Reggimento verrà mandato in «centro d’Italia; sarebbe una gran fortuna per noi e se invece sarà l’opposto cioè di andare un su si farà il nostro dovere». È preoccupato per Franceschino; tra poco la classe 1896 sarà chiamata e toccherà anche a lui indossare la divisa. «Cecu fam savè quant’atvè a la visita», scrive in una lettera ai genitori. Al fratello aveva scritto anche direttamente con sempre gli stessi pressanti suggerimenti perché, se possibile, cercasse di farsi arruolare in artiglieria o in cavalleria. È delicato e cagionevole di salute, fin da piccolo, Francesco. Poi c’è già lui a combattere, Sante, più robusto e con la salute «di ferro anzi d’acciaio»; tutte e due non devono andare, «c’è anche il pericolo della pelle; rimanerne senza uno sarebbe una disgrazia per voi, ma tutti e due sarebbe un crepacuore che non vi passerebbe più per tutta la vita». Sante poi è anche pratico. I figli sotto le armi sono una spesa: se sono in due occorre dividere e ce ne sarà meno per lui e poco per l’altro. I soldi occorrono comunque e Sante sa che la sua è famiglia d’operai: «Caro papà e mamma conosco di 85


darvi molti sacrifici, so che di levargli il pane alle mie sorelline, ma credetemi che se avessi la fortuna di tornare a casa vi voglio aiutare tanto che non potete immaginarvi». Anche Attilio è sotto le armi, non è più giovane, ma raggiungerà il suo reggimento in un «posto molto brutto». Con Sante ci sono soldati della classe 1882 e «ne sono morti parecchi […]». Lo zio Secondo scrive che «è quattro mesi che dorme per terra e non sa nemmeno lui come ha fatto a non ammalarsi.». Il primo ottobre la Brigata si era spostata, per strade in pessime condizioni, a Cialla; il freddo cominciava a farsi sentire e fu distribuito l’equipaggiamento invernale. Quel giorno il Comando supremo impartì alla 2° e 3° Armata l’ordine esecutivo per quella che sarebbe stata detta la Terza battaglia dell’Isonzo, che iniziò il 18 ottobre. Il 3 ottobre Sante è sul Monte Nero, in una zona non particolarmente esposta: Francesco è abile e destinato alla fanteria. Da casa scrivono della Conceria: sono stati assunti nuovi operai, per la lavorazione del cuoio nero. Battista deve lasciare la casa in via Dante Alighieri al 50, di proprietà dei fratelli Cattaneo; Teresa, se ne è occupata lei, ha già trovato un’altra sistemazione, in Via Carducci, cioè in Via Po, dove già la famiglia Mazzoletti aveva abitato. Sante è furibondo: «se fossi vicino vorrei agir colle mani e allora passerebbe momenti tristi. Io da Cattaneo non metterò più piede dato l’affronto che gli ha fatto al papà. Se ero a casa io, la pagava, ma che è Francesco, una pezza da piedi». La mamma, il 10 novembre, tranquillizza quel figlio dal carattere, come il suo del resto, non proprio remissivo. La Brigata Granatieri era passata dalla 13ª Divisione della 3ª Armata alla 4ª Divisione della 2ª Armata; il 26 ottobre i granatieri erano a Podsenica e nella notte del 27 rilevarono le posizioni del 27° Reggimento della decimata Brigata Pavia nelle trincee sotto il Sabotino; il 2° granatieri si schierò alla destra della Brigata Livorno (24° e 25° Fanteria), mentre il 1°occupò le posizioni a sinistra del il 73° Reggimento fanteria Brigata Lombardia (un 86


tempo Granatieri di Lombardia) dell’11ª Divisione. Tra le truppe intanto si erano già manifestati casi di colera, epidemia portata sul fronte dell’Isonzo dai soldati del VII Corpo d’Armata austroungarico proveniente dai Carpazi. Il Sabotino, uno dei pilastri della linea settentrionale di difesa del campo trincerato austriaco di Gorizia, era collegato al Podgora che guardava il lato occidentale della città. «Ora vi voglio dire che quel benedetto Monte Nero siamo tornati per andare su quel maledetto Monte Sabotino: è bruttissimo». Brutto il monte, brutto il presagio; brullo, alto alla massima quota 609 metri, il Sabotino scende con ripidi versanti verso l’Isonzo e con declivi ondulati e morbidi verso il torrente Pneumica. Ma «siamo noi i primi soldati d’Italia e faremo vedere a quei testoni, siamo granatieri e basta». Sono testoni, loro, ma Sante capisce sul Sabotino che non sono soldati da poco e la guerra da orrenda, si fa atroce. Sante narra di leggende di valore: «Il mio reggimento ha dato prova sul campo che dovendo arrendersi un sol battaglione, non più i fucili, ma la fecero a vanghettate». Storie vere, ma la realtà è più cruda e prosaica: gli assalti si trasformano in corpo a corpo simili a risse; alla baionetta, cara agli illustratori dei periodici, i granatieri spesso preferiscono le vanghette più pratiche e facili da maneggiare. Sante sta bene; la sua salute è «di ferro anzi d’acciaio», «ma forse era meglio genitori che fossi stato alto un metro e 20 e non 1,82, che queste fatiche non le facevo». E «loro» son duri non cedono, nemmeno alla Brigata: «Voialtri direte: ma loro sono 15 mesi che sono in guerra, dovete sapere che loro sono nelle trincee coperte e aspettano noi e noi invece dobbiamo cacciarli e dove si occupa bisogna dormire con qualsiasi tempo e sotto il fuoco. Immaginate com’è la guerra: tanti farebbero dei romanzi e chissà quante ne direbbero, ma io con meno vel fo sapere è meglio, se state in pace voi che più sono tranquillo io». A Romeo, il fratellino morto anzitempo, che gli appare spesso in sogno, Sante si affida.

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Le linee italiane sul Sabotino, nell’ottobre 1915, da quota 513 (il 23 ottobre la “Pavia” e la “Livorno” avevano occupato alcuni elementi delle fortificazioni del sentiero di Quota 609, ma ne erano poi state respinte) procedevano in un tracciato continuo, in gran parte protetto da un reticolato, fino a Podsabotino e al torrente Pneumica. Circa settecento metri dietro, tra quota 507 e Quota 352, era il cosiddetto Trincerone: un semplice muro senza trincea e non protetto da reticolati. Le trincee erano, se considerate come base di partenza per azioni offensive, troppo distanti dalle posizioni austriache: le fanterie dovevano avanzare a lungo su terreno scoperto. La difesa austriaca era, indubbiamente, ben organizzata. Il versante Nord, facilmente difendibile, era protetto da una trincea continua, che risaliva dall’Isonzo verso Quota 520 per superare la linea di cresta e collegarsi alle difese del settore Sud, meno favorevole alla difesa. Queste ultime si appoggiavano al caposaldo detto “il Dentino” (Quota 500), sostenuto dal retrostante “Fortino alto”, (collegato alle posizioni di vetta, Quota 609, dove era l’osservatorio per l’artiglieria), per scendere fino al “Fortino basso” a Quota 200 e giungere alla mulattiera di Villa Vasi, con un percorso di circa 2 chilometri. L’ultimo settore trincerato superava il torrente Pneumica per collegarsi a Quota 188 e di qui al caposaldo del Podgora. L’andamento delle trincee, protette da fasce di reticolati stese in profondità, era stato studiato per consentire tiri d’infilata da mitragliatrici opportunamente posizionate e da pezzi d’artiglieria ben protetti in caverna. Il General Major Erwin Zeidler, un viennese di 50 anni che parlava perfettamente l’italiano, proveniente dal Genio e nominato a fine maggio comandante della 58ª Divisione Imperiale (VI Corpo, 5ª Armata), aveva personalmente diretto la realizzazione delle opere difensive dell’intero suo settore, dal Sabotino al Podgora. Era un ufficiale molto stimato e fra le altre decorazioni, sarà insignito del titolo di Freiherr von Görz (Barone di Gorizia). Le linee del Sabotino erano tenute da reparti della LX Infanteriegebrirgs88


Linee italiane e austriache sul Sabotino, novembre 1915. (Rielaborazione da Efisio Marras, «Sabotino», schizzo 1.)


brigade, 30° e 80° Reggimento di fanteria arruolati nei distretti galiziani di Lemberg e di Zloczów (Leopoli e Zolochiv - oggi in Ucraina). La sera del 27 ottobre al I Battaglione del 1° Reggimento e al I Battaglione del 2° Granatieri, furono distribuite 300 bombe a mano, 6 tubi di gelatina e 8 pinze tagliafili e 40 elmetti, i primi, gli Adrian, che ancora portavano in rilievo le lettere R F (Repubblique française). Alle prime luci dell’alba del giorno dopo l’artiglieria italiana investì le posizioni austriache del “Fortino basso” con un violento bombardamento. Intorno al mezzogiorno i volontari iniziarono a posizionare i tubi esplosivi sotto i reticolati, con i soliti scarsi risultati: alcuni portatori furono uccisi dal fuoco dei difensori, alcune micce non si accesero. Erano circa le 13 e 15 quando i due primi battaglioni della Brigata iniziarono l’attacco; i reticolati erano praticamente intatti, così che i reparti dovettero arrestarsi sotto il fuoco austriaco. Altri volontari con i tubi riuscirono ad aprire alcuni varchi e penosamente strisciando al riparo di ogni sasso e gobba del terreno i granatieri tentarono di avanzare. Ma le perdite elevate e la lentezza dei progressi consigliarono al Comando di divisione di sospendere l’attacco. Il giorno dopo toccò al II Battaglione del 1° e al III del 2°; avanzarono lentamente per avvicinarsi il più possibile alle trincee austriache, prima che l’artiglierai italiana cessasse il fuoco di copertura. Ancora però fu ordinato di sospendere l’azione e il II Battaglione rientrò; erano le 19 circa del 29 ottobre, nuclei di granatieri erano rimasti di vedetta nei posti avanzati. Altri complementi giunsero a riempire i vuoti nelle fila dei reggimenti. Il 31 ottobre il comando supremo, convinto che gli austriaci fossero ormai prossimi al collasso, ordinò «che domani 1° novembre la 2ª e la 3ª Armata riprendano nelle prime ore del mattino l’attacco alle posizioni del Sabotino, del Podgora, di San Michele, di San Martino […]» Sull’alto Sabotino, aggregato alla “Livorno”, era entrato in linea il 55° Fanteria della Brigata Marche, alla sinistra della Brigata Granatieri che teneva sempre il basso 89


Sabotino, con alla sua destra il 73° della Brigata Lombardia. L’obiettivo dei granatieri era ancora il “Fortino basso”. Sulla destra toccò al I Battaglione del 1° andare avanti, mentre il II/1° rimaneva di rincalzo a nord di Podsabotino. A sinistra, con obiettivo il lato nord del fortino, avanzò il III Battaglione del 2°, mentre il I/2° rimaneva di rincalzo e il II/2° di riserva. Si doveva agire di sorpresa e di slancio, ma la sorpresa fallì e i granatieri avanzarono lentamente sotto il fuoco austriaco, sul terreno in salita, reso sdrucciolevole dalla pioggia. Né si era riusciti a distruggere completamente i reticolati: la gran parte di essi era intatta. La 4ª Compagnia del 1° e le compagnie del III del 2° che operavano in settori adiacenti, si trovarono in grave difficoltà così che vennero chiamati in linea rincalzi dal I Battaglione del 2° e dal II Battaglione del 1°. È in questa fase dei combattimenti al “Fortino” che fu mortalmente ferito il capitano Attone Rainaldi dell’8ª Compagnia del Battaglione di Sante Mazzoletti. L’allievo ufficiale Mario Cuneo nella sua relazione diede una drammatica quanto precisa descrizione del fatto d’arme, come si diceva un tempo: Alla mattina del 1° novembre il nostro battaglione doveva andare all’assalto di un fortino [il Fortino basso, n.d.R.]. Alle sei eravamo già tutti pronti con il rancio consumato. Pioveva a dirotto: alle otto ci portarono alle trincee coperte di riserva; alle dieci in quelle di prima linea, seguendo in ciò il movimento delle altre compagnie, che dovevano avanzare prima di noi. Il capitano era calmissimo, canterellava continuamente e discuteva con me che lo seguivo dappertutto come portaordini. Verso le dieci e mezzo venne l’ordine di passare alle trincee di prima linea; ciò si fece attraverso un vallone sotto il fuoco di shrapnels austriaci, ma fortunatamente senza perdite. Nella trincea di prima linea c’era pure il colonnello [tenente colonnello, n.d.R.] Anfossi che dirigeva l’azione, anche lui di una calma meravigliosa, tanto che stava ritto in piedi tra il grandinare dei proiettili ad osservare le altre compagnie che già avanzavano: lui e Rainaldi, ricordo, l’uno vicino all’altro, col petto quasi fuori dalla trincea.

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Alle 12,30 cominciò l’assalto al grido di “Savoia” ed il colonnello Anfossi ordinò di uscire fuori e di attaccare la destra del fortino. Il capitano, sebbene non gli spettasse perché dapprima uscì solo un plotone soltanto, volle guidare i suoi uomini; egli balzò per primo dalla trincea, alzò gli occhi al cielo, lo fissò per un secondo … appena; e, correndo poi per circa centocinquanta metri si spinse fino sotto ai reticolati. Noi uscimmo appresso a lui e fummo salutati da una grandine di pallottole, tantoché parecchi furono colpiti a pochi passi dalla trincea. Il terreno, che dalle trincee pareva unito, era invece rotto sulla destra da un piccolo burrone molto ripido, boscoso dalla parte nostra, ma libero dalla parte nemica, coi lati di grande pendenza quasi come a V; così avvenne che molti di noi, dopo di essere passati dietro le altre compagnie per la velocità che si aveva nella corsa, rotolarono nel burrone e ciò capitò anche a me; ma arrampicandomi con le mani e con i piedi raggiunsi il capitano dall’altro lato. Egli si era spinto a un sei metri dal reticolato e stava lungo disteso al riparo da un masso in attesa che la compagnia lo raggiungesse; un po’ più indietro al riparo di un pezzo di roccia stavamo in quattro Perretti, il furiere Angelini, l’attendente e io, un altro, un certo Trombetta era pure venuto lassù e stava poco discosto a sinistra. La fucileria aveva rallentato, ma gli austriaci gettavano bombe a mano con frastuono assordante; ma noi non sparavamo perché l’ordine era di arrivare sotto con la baionetta, senza far fuoco. Si attendeva quindi che venissero gli altri ed il capitano si volgeva indietro per incitare l’ottava compagnia ad avanzare. Quel che avvenne non saprei dire con precisione, ma dopo un certo tempo vidi il capitano che cominciava a strisciare indietro e gli chiesi: capitano ci ritiriamo? Lui rispose Eh sì, se ne vanno tutti! – difatti le altre compagnie ripiegavano. [Rainaldi, 11- 12 ]

Il capitano Rainaldi, che già si era meritato l’encomio solenne il 9 giugno a Monfalcone, fu insignito della medaglia d’argento al valor militare alla memoria. Alle 18, dopo un bombardamento dell’artiglieria italiana, che sembrava preludere a un nuovo tentativo, giunse l’ordine di fermare l’azione e di tenersi pronti per il giorno successivo. Alle 11 del 2 novembre, avvicendate le truppe più provate con altre ma comunque malridotte per i combattimenti affrontati, nonostante il 91


freddo, la pioggia e il colera si tornò all’attacco, senza risultato; di nuovo alle 14 i granatieri si fecero sotto anche per impedire che gli austriaci potessero correre in soccorso delle loro posizioni di Oslavia attaccate dalla Brigata Lombardia. Un plotone della 15ª Compagnia (1° Reggimento, IV Battaglione) riuscì a penetrare nelle linee austriache e a portarsi a ridosso del ridotto del “Fortino basso”. Il plotone fu subito sopraffatto: solo pochi soldati riuscirono fortunosamente a scampare alla morte o alla prigionia. In queste condizioni, con un doppio ordine di reticolati ancora praticamente intatti, presi di infilata dalle trincee del Sabotino, con la certezza che ormai dietro il fortino gli austriaci avevano ammassato numerose truppe, ai granatieri non rimaneva che ritornare nelle trincee di partenza. Erano le 21,30; pioveva, i soldati erano sfiniti; i ranghi degli ufficiali erano stati falcidiati durante i combattimenti di quei giorni. Il 2 novembre il 74° Fanteria della Brigata Lombardia riuscì a prendere il costone di Oslavia, ma ne fu respinto da un contrattacco austriaco. Il 4 novembre, giorno in cui cadeva la festa della Brigata, terminò la Terza Battaglia dell’Isonzo. Le truppe erano in terribili condizioni; le trincee erano allagate per la pioggia continua e il freddo notturno causava congelamenti. Poi il colera: il numero dei casi, con ricovero negli ospedali, raggiunse il numero di cinquanta il giorno. Il 10 di novembre la 2ª e la 3ª armata iniziarono la IV Battaglia dell’Isonzo su un fronte esteso dal Sabotino al mare. La Brigata Lombardia riprese gli attacchi nel settore di Oslavia - Quota 188. Con alla sua sinistra il 34° Fanteria (Brigata Livorno), il II Battaglione del 1° Reggimento Granatieri doveva condurre un’azione dimostrativa contro il “Fortino Basso”, pronto comunque a mutarla, se le condizioni si fossero rivelate favorevoli, in un attacco a fondo. Il IV Battaglione doveva spingersi all’offensiva lungo la valle del Torrente Peumica in appoggio al III Battaglione del 2° Granatieri, il quale, con il I/2° di rincalzo, doveva assalire Quota 188 sul fianco orientale. Durante l’attacco due compagnie del I/1° si affiancarono alle quattro del III/2° Battaglione, ma non 92


si riuscì a superare gli intatti reticolati e alle 21 l’attacco fu sospeso. I granatieri si apprestarono a passare la notte a un centinaio di metri dal filo spinato: le compagnie non contavano più di cento uomini, fradici di pioggia, stanchi, affamati (quel giorno il rancio non poté essere distribuito); il colera continuava a infierire. Nei giorni successivi si tentò di nuovo, e di nuovo con scarsi risultati, di rompere i reticolati con i tubi esplosivi. La sera del 10 il Comando di divisione aveva deciso di concentrare su Quota 188 l’intera Brigata Granatieri con il rinforzo del I Battaglione del 71° Fanteria, Brigata Puglie e del II e del III Battaglione del 127° Fanteria, Brigata Firenze; tutto il fronte fino a Oslavia passò sotto il comando della Brigata Granatieri. Il 18 le batterie di medio calibro italiane aprirono il fuoco e le truppe si prepararono per l’ennesima azione su Quota 188: anche questa volta le profonde fasce di reticolati saldamente fissati a paletti di ferro cementati nel terreno risultarono intatte. I soldati con le pinze tagliafili erano falciati inesorabilmente dal fuoco austriaco e ancora una volta l’azione fu interrotta. Nella notte squadre di genieri e di granatieri, i volontari del capitano Ugo Guala e del capitano Luraschi, fecero brillare sotto i reticolati i tubi esplosivi e il Comando di divisione decise di far bombardare le barriere di filo spinato per tutta la giornata da tutti i cannoni di medio calibro disponibili, senza grandi risultati apparenti. Nella notte sul 20 novembre, con l’esplosione di quaranta tubi di gelatina, si riuscì ad aprire e rendere agibili cinque varchi; il generale Luca Montuori, in procinto di assumere il Comando della 4° Divisione e che teneva in quel momento il comando della Brigata, assente per malattia il Generale Pirzio Biroli, decise un attacco a sorpresa. Toccò al I Battaglione del 2° Granatieri muovere per primo, in silenzio alla baionetta, il Maggiore Ugo Bignami in testa. La 3ª e 4ª Compagnia giunsero celermente sulla sommità della Quota e la oltrepassarono procedendo sul rovescio, mentre la 1ª Compagnia stabiliva il contatto sul lato di Oslavia con il 71° Fanteria. Ma la posizione del I/2° granatieri, martellato dal tiro di repressione dell’artiglieria austriaca 93


ed esposto a un contrattacco divenne presto critica; il Maggiore Bignami, due volte ferito, si trascinò fino al Comando di divisione a sollecitare i rinforzi, secondo quanto previsto nel piano d’attacco. In tempo giunsero il II Battaglione del 1° granatieri e il II Battaglione del 2° che presero rapidamente posizione. Sulla quota continuò il bombardamento dell’artiglieria austriaca che provocò tra le truppe italiane perdite sensibili. Alle 19 scattò il contrattacco avversario che conseguì limitati risultati; a mezzanotte fu respinto un ennesimo contrattacco austriaco. A Quota 188 i granatieri incontrarono i fanti del 27°, Brigata Pavia, (che avevano rilevato il 27 ottobre) che era tornati in linea già il 10 novembre e da Lucinico erano stati inviati a sostenere l’azione della Granatieri sulla linea Quota 188 – Oslavia - Quota 133. Il 21 novembre, mentre la 4° Divisione continuava l’avanzata per completare l’occupazione della Val Peumica, la Brigata granatieri rimaneva a Quota 188: aveva subito gravissime perdite, i ranghi erano ridottissimi. Di rinforzo alla Brigata venne inviato il I Battaglione del 56° della Brigata Marche, che aveva avuto, anch’esso, i ranghi falciati, sul Sabotino, dal colera e dal fuoco austriaco. Verso le 13 del 21 novembre gli austriaci si rifecero sotto: l’attacco fu fermato, ma l’azione austriaca si spostò sulla destra riuscendo a togliere posizioni in Oslavia a reparti dell’11ª Divisione. Di nuovo alle 16, ancora dopo una intensa preparazione di artiglieria, gli austriaci attaccarono il II Battaglione del 1° Granatieri e il I Battaglione del 2°, dislocati sul fianco sinistro delle posizioni della brigata a Quota 188, che dettero segni di cedimento. Alle 16,30 un violento contrattacco condotto dal IV Battaglione del 1° Granatieri, dal II Battaglione del 56° e dal II Battaglione del 71° ristabilì la situazione. In tutto sette furono gli attacchi austriaci, ma la Brigata tenne la posizione, come si suol dire, con le unghie e con i denti. Nei giorni successivi i due reggimenti di granatieri furono ritirati da Quota 188 e acquartierati il 1° nei valloni della strada di San Floriano, il 2° nei camminamenti coperti del Vallone del Pneumica. Il 28 partirono per 94


Manzano per un periodo di quarantena; prima di partire avevano sistemato i piccoli cimiteri dei loro reggimenti. Nel gennaio del 1916 la 58ª Divisione dell’Armata imperiale, dopo aspri combattimenti, favorita dalla nebbia, riprese la tragica Quota. Si ricominciava da capo. Il 30 agosto 1915 col treno delle 10 erano transitati dalla Stazione ferroviaria di Codogno, diretti a Pavia, undici prigionieri “austriaci”, poveri cristi, male in arnese, stanchi e abbattuti. Il 12 settembre un manifesto dell’Amministrazione comunale dava notizia che Angelo Zanin, richiamato di 27 anni, originario di Ozzolo, in provincia di Treviso, era morto nell’ospedale di Codogno gno. Ammalatosi al fronte, di passaggio alla nostra Stazione ferroviaria, era stato ricoverato per l’aggravarsi delle sue condizioni. Al funerale, alle 7,30 del mattino, parteciparono il sindaco con membri della giunta e una nutrita rappresentanza delle istituzioni cittadine. Ma dalla lontana Ozzolo non poté venire nessuno. Anche i nostri continuavano a morire: il 23 ottobre giunse conferma che Gaetano Cipelletti, classe 1888, 25° Reggimento di fanteria era morto il 16 agosto a Tolmino per ferite riportate in combattimento. E l’elenco dei caduti si allungava via via che passavano i giorni: il 22 ottobre per ferite riportate sul San Michele morì Giovanni Novelli, 1884, 111°Fanteria e si seppe il 31 ottobre. Il 4 novembre giunse notizia della morte di Filippo Vignati del 54°, di Brembio, avvenuta il 22 ottobre sul Monte Piana; il 20 novembre si seppe del caporale Stefano Rocca, classe 1888, 111° Fanteria, caduto il 20 ottobre sul San Michele; poi fu la volta di Luigi Polledri, un “vecchietto” del 1877, del 203° Battaglione della “Territoriale”, Brigata Tanaro, morto per malattia il 17 novembre nell’ospedale di guerra n. 35; lasciava la moglie e un figlio, Mario, nato nel 1906. Il 19 novembre si seppe di Celeste Fugazza, del 25° Fanteria, morto il 24 ottobre nel settore di Tolmino. Il 28 ottobre sul Carso morì Enrico Euristi (Enristi per l’”Albo d’oro”), nato a Milano nel 1885, bersagliere del 1° Reggimento e si seppe solo il 22 novembre. Lasciava la moglie, 95


Carolina Salvatori, e due figli, Gemma (1912) e Zelino (1913). Il 26 novembre fu comunicata la morte di Luigi Contardi, nato a Maleo nel 1883, 25° Reggimento di fanteria, disperso dal 26 ottobre nel settore di Tolmino. Nella seconda metà di ottobre Emilio Violanti era tornato a Codogno, in licenza; come Sante aveva scritto, non mancò di far visita ai Mazzoletti. Era allegro come sempre. Impugnata una scopa a mo’ di fucile diceva ridendo: «Teresa! Nessuna, paura ci pensiamo noi granatieri, andiamo noi a “schiopetare” … pum …pum … ». Teresa scuoteva il capo con una gran voglia di accarezzarlo e di prenderlo a scapaccioni, come un tempo quando Emilio e Sante erano bambini. Il 12 novembre un reparto del 42° Fanteria, Brigata Modena, dell’8ª Divisione, IV Corpo d’armata - che reclutava anche nel 65° Distretto militare di Lodi dove era il centro di mobilitazione - si acquartierò nel “Filandone” di Codogno. I soldati dopo un rapido inquadramento sarebbero stati inviati al fronte: il 42° Reggimento in quei mesi di ottobre e novembre era impegnato in combattimento sul Mrzli vrh, nella terza e quarta battaglia dell’Isonzo. I padri Giuseppini istituirono presso l’Oratorio San Luigi una ”Casa del soldato” dove i militari «oltre ai divertimenti onesti potranno trovare anche appoggi morali e con maggior facilità potranno mandar notizie alle loro famiglie». Francesco fu chiamato alle armi il 28 novembre e si presentò, il 2 dicembre, al deposito del 24° Fanteria, Brigata Como, a Novara. Il 2 dicembre Teresa preoccupatissima scrisse a Sante, ma il Granatiere Sante Mazzoletti non avrebbe mai letto quella lettera. L’anno millenovecentoquindici ed alli ventiquattro del mese di Novembre nell’Ospedaletto da campo N 219 in Cormons mancava ai vivi alle ore 18 in età [di anni ventuno] il granatiere Mazzoletti Sante della 7ª Compagnia del 1° Reggimento, al N. 25064-65 di matricola, della classe 1894, nativo di Codogno provincia di [Milano] figlio di G. Battista e di Pagani Teresa morto in seguito a ferita penetrante nella spalla destra, per causa di guerra, sepolto Cormons, cim. com.le come risulta dall’at96


testazione al piè del presente sottoscritte: f.to Francesco Pallaroni, Capitano Medico; f.to Monica Carmine; f.to Antonio Rodini, teste; Gervasio Migelli, teste. [Archivio di Stato di Milano, Foglio Matricolare di Mazzoletti Sante, allegato estratto dall’atto di morte del granatiere Mazzoletti Sante iscritto sul registro tenuto dall’Ospedale da campo N. 219 a pag. 155 N. 153 d’ordine]

A Quota 188 era morto il capitano della 7ª Compagnia, Gulio Pietraccini (medaglia di bronzo), classe 1885, di Roma. Anche il capitano Ugo Guala (medaglia d’argento), di Biella, sempre del II Battaglione, era morto nell’Ospedaletto da campo n. 11 per ferite riportate a Quota 188. I suoi Volontari della morte del 1° Granatieri, con quelli del 2° del capitano Luraschi, avevano aperto e tenuto aperti i varchi nei reticolati austriaci. In dieci giorni la Brigata aveva perduto (tra morti, feriti e dispersi) 854 uomini. Sante in totale aveva vissuto 21 anni, un mese e cinque giorni. La notizia giunse a Codogno l’11 dicembre e fu comunicata alla famiglia il giorno dopo, 12 dicembre 1915. Era la sedicesima comunicazione di morte che perveniva a Codogno: la diciassettesima giunse il 31 dicembre e riguardava il fante Pietro Mosconi del 67° Fanteria, nato a Santo Stefano, morto il 13 dicembre. Il 12 dicembre la maggioranza socialista del consiglio comunale aveva approvato un ordine giorno in cui si «esprime[va] un voto di solidarietà col gruppo parlamentare socialista per l’energico suo atteggiamento assunto alla camera augurandosi presto di salutare un’aurora di Pace fra i popoli, ponendo così fine alla sanguinosa lotta che disonora il mondo civile». Il giorno 20 dicembre 1915 Battista Mazzoletti riceveva la seguente lettera: Ufficio per le notizie alle famiglie dei soldati di terra e di mare; Sezione III – Milano - Università Bocconi – tel. 35 – 25, Milano, li 20 dicembre 1915. Egregio Signor Mazzoletti 97


Comunicazione ufficiale della morte di Sante Mazzoletti. Lettera dell’Ufficio Notizie alle famiglie dei militari di terra e di mare – Sezione III, Milano, Università Bocconi


Via Carducci 24 - Codogno Adempio al doloroso incarico di parteciparle che il soldato Mazzoletti Sante è morto in seguito a ferite riportate in combattimento. Coll’animo profondamente angosciato non osiamo inviarle parole di conforto. Pace all’anima del valoroso soldato che immolò la sua vita per la maggior grandezza d’Italia! A lei i sensi delle nostre più sentite condoglianze. Con stima Carla Avelli

Si avvicinava il Natale: Domenica 19 dicembre alle 14,30 la banda del 42° aveva tenuto un concerto in Piazza XX Settembre; il 25 il Circolo femminile di Cultura organizzò nel Teatro dell’Oratorio, sotto l’albero di Natale, una festa in onore dei militari: iniziò alle tredici, presenti tutti i soldati del “Filandone”, con un breve discorso della maestra, Enrichetta Monti, cui rispose ringraziando il comandante del reparto. Poi furono distribuiti ai soldati i doni: bottiglie di vino, formaggi (immancabili), dolci, scatole di lucido, spazzole e altri «utili» oggetti. Fu quello il primo Natale di guerra a Codogno.

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Ultime lettere dal fronte Sabotino, autunno 1915 10 – 9 – 1915, carissimi genitori, proprio stamattina ricevetti l’assicurata; non potete immaginare come sono contento sapendo che voi siete in ottima salute. Le cose non vanno male e poi non parliamo della mia salute che è di ferro. Però di nuovo vi posso ringraziare tanto che siete voi che mi tenete in salute, non mi fate mai mancare nulla perché altrimenti sarebbe una vita meschina, però, genitori, non pensate che quando verrò a casa vi ricompenserò di tutto ciò che avete fatto per me. Se il posto mio ci sarà ancora vedrete che lisciatore, altrimenti si girerà. Sapete che siamo al medesimo posto; del tempo non ne parliamo, tutti i giorni è pioggia. Il vitto già vel dissi; che volete portiamo pazienza è un debito che dobbiamo pagare e lo pagheremo. Speriamo tutto vada bene e di tornare presto ad abbracciar le nostre care famiglie. Sono contento che mi scrivete di frequente. Dite a Francesco che quando passerà la visita non venga qui nei granatieri. Quando mi scriverete fatemi sapere se Adriano Dansi è sotto le armi. Il più che mi dispiacerebbe se ci dovessimo trovare in due sotto le armi, io e poi anche Francesco; sofrir io è niente ma tutti e due mi dispiace molto. Ora ringrazio tanto il papà che mi ha sempre voluto bene e anche in questi momenti ci arriva in tutto; posso di altro che bene della mia cara mamma che tutti i giorni mi appare avanti tanto che la ricordo. Ora vi saluto; mille bacioni a tutti, alle sorelline, a Francesco, l’amato vostro Sante. Saluterò tutti gli amici da parte vostra. Ciau. Saluti ai cugini, tanti a Maria e state tranquilli che io sto bene. Il vaglia da 5 £ l’ho ricevuto. Saluti a chi domanda di me. Arrivederci presto, ciau, ciau. Genitori presto ci vedremo. Ciau. Non pensate per quello che vi dissi per l’artiglieria da Montagna, se ci sarà da andare ci andrò contento e se no sarà meglio. caro papà, se tu sapessi come mi stai a cuore: è una cosa incredibile tanto più che si lavorava assieme, eravamo sempre vicini anche di banco ed ora è più di un anno che non ti vedo. Son cose che quando le rammento piango, benché qui in

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compagnia son ben visto da tutti, quei richiamati lì che sembrano i nostri padri mi vogliono bene come se fossi loro figlio. Ma di questo se ci penso a te papà e alla mamma che la baciai il giorno della mia partenza e le parole da lei pronunziate dicendomi: «Sante tu parti e chissà per quanto tempo rimarremo senza vederci». E di questo fu vero. Papà ora siamo in riposo; le fatiche non si fa calcolo: siamo esposti a tutte le intemperie e si sapeva prima quello che deve soffrire un soldato in guerra. Speriamo che non si torni più in linea, ma anche se si dovesse tornare non fatevi nessuna impressione: s’andrà e si tornerà. Compiremo il nostro dovere come nel passato. Per l’artiglieria da montagna non si parla più; chissà quando noi ci muoveremo; però è meglio certe cose farvele sapere. Vi saluto Sante. Salutate Maria. Son contento che non c’è più l’aria infetta e così starò più in pace. Francesco se sarai abile fa domanda alla Cavalleria. Ho saputo anche che ne morirono tanti di Codogno in guerra, mi dispiace. State sani come sono io. Arrivederci presto. 22 – 9 – 1915, cari genitori, proprio sto momento ho ricevuto la vostra lettera; non posso esprimervi la gioia che provo quando ricevo un vostro scritto. Oggi poi ho ricevuto anche una cartolina dallo zio Secondo la quale mi rallegrò di più sentendo che la salute l’ha buona e si trova molto distante dal pericolo. Ora dovete sapere che la famiglia dei granatieri è aumentata perché l’altro ieri colla classe del 1886 ne arrivarono parecchi fra i quali vi è uno che lavorava insieme a Secondo e a Ingilotu l’altro è il Maiatuc e Grassi al Lirin. Sono due buffoni di prima sfera. La sera poi la passiamo come in famiglia con qualche fiaschetto di vino e si canta a volontà che anche quei due lì cantano bene, non per vanto, ma gli altri fanno dei cerchi per sentire la squadra volante a cantare. Genitori cari non prendetevi spasimi per me che io sono ben coperto che anche ieri distribuirono uno scialle di lana per essere ben riparati dalle intemperie; roba che la regalarono le signorine della Sardegna, facendo onore alla loro brigata, che anche al terremoto fecero uguale. Voi mi dite se ho bisogno della biancheria: ma io non la voglio nemmeno per sogno perché sarebbe roba

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consumata; ormai di quello che vi dissi ne abbiamo già tanti che anche a cambiarsi tutti i giorni ce n’é sempre; di più è inutile, siamo per terra. Sapete che Pozzoli forse passerà ufficiale e avrà qualche giorno di licenza. V’assicuro che non mancherà di venir a trovarvi e vi dirà come m’ha lasciato: secco ma di ossa doppio da quando ero a casa. Se avrò la fortuna di tornare, papà, allora potrai dire che sul lavoro avrai una sponda e che lena. La mia salute è insuperabile e di acciaio. Ciau. Speriamo che nessuno si ammali a casa nostra; che la guerra finisca presto; di più vorrei che Francesco lo riformassero, perché le fatiche in questi momenti son dure e son certo che s’ammala se dovesse faticar e soffrir una mezza volta di quello che soffro io, colla scusa che noi siamo giovani robusti e poi bisognerebbe provare. Voi genitori dite i soldi non mi mancheranno mai; quando era tempo di pace sulle lettere non ci mettevo mai per i soldi, ma credete che io non sappia che sono sacrifici per voi e li fate più che volentieri; non volete far soffrir un vostro figlio che si trova lontano esposto a qualunque intemperia, a pericoli, ma non per altro. Io vi saluto abbracciandovi di cuore. Vostro figlio Sante. Un bacio alle sorelline, a Francesco. Saluta i cugini, Maria e chi domanda di me. Domani darò risposta a Secondo. La vostra salute è buona ma ci vuol tutta la vostra per fare la mia. Ora siamo al medesimo posto, saluti dai miei amici e di più da Tonani, saluti alla sua famiglia. Pozzoli fece il corso da ufficiale e data la buona condotta potrà ottenere il grado. Noi di Codogno specialmente la fiamma I grande non lasciamo qui la pelle che è venuta dura ad essere sempre in terra e le pallottole non la forano di certo. Non pensateci a me state tranquilli; comperate l’ uva quest’anno? 3 – 10 – 1915, cari genitori, ho ricevuto le vostre due lettere per le quali m’accontentarono poco. Quella d’oggi poi mi fa piangere sentendo che anche il mio caro fratello è abile. Sapete genitori che ora mi trovo al fronte sul Monte Nero a Gorizia, però non spaventatevi per questo, sia come il destino vuole, siamo in guerra e non siamo a teatro. M’importerebbe poco soffrire anch’io la parte che deve soffrir Francesco. Ormai ne feci troppo delle fatiche: al terremoto, in guerra esposto ai pericoli che bisogna vederli per credere, all’ospedale con un male al piede gamba, 101


su un banco di paglia umida, esposto a tempi bruttissimi; ora c’è anche la neve, che volete di più. Pregate Iddio genitori che Francesco non debba venir in guerra e non soffrir quel che soffro io, pregate per lui. Quel che vi posso dir io che godo di una salute d’acciaio e pregate che si mantenga e poi vada come vuole. Ora vi dirò che Pozzoli per un brutto rapporto del suo capitano non fu promosso ufficiale però presto passa sergente maggiore e la sera la passiamo insieme a Tonani, a Maiatuc, al Lirin; ora ci pensiamo di più che nei giorni passati quando si era a riposo. Sapete che Emilio si trova all’ospedale colla febbre sempre alta: è tutta l’umidità presa accampati e presto lo manderanno in Italia, buono per lui. In quanto ai riformati, credete pure che se sono abili vengono anche loro in prima linea. Senti Francesco, quando dovrai partire bada di non fare come ho fatto io, fa bene; che se io i primi mesi facevo bene a quest’ora ero in un altro posto, ma che vuoi il mio carattere tu lo conosci bene e tu che lo sai fa bene ti troverai contento. Ciau. Ora genitori non posso più darvi di frequente le mie notizie però conosco il mio dovere e appena ho un po’ di tempo vi scriverò anche due righe tanto per farvi sapere come mi trovo. State pur tranquilli genitori e non pensate a me; fate di tutto per stare in salute voi e sia salvo Francesco che io ormai ci sono, soffro e sarei pronto a soffrir di più pur che presto finisca questa catastrofe. Ora vi saluto di cuore; ricevete mille bacioni da chi sempre vi rammenta. L’aff. vostro Sante. Mille baci alle mie sorelline, a Francesco che credo che per ora non sarà chiamato. Salutate i cugini, le zie e chi domanda di me. Saluti a Maria. Caro padre e mamma, non dovete mai e poi mai perdervi di fede, tutto il mondo è in guerra, tante povere famiglie rimarranno prive dei suoi cari figli, le mogli prive di marito che io le vidi queste cose e che volete bisogna rassegnarsi a tutto, ma voi vi dovete rallegrare che avete un figlio pieno di salute che ci vuole il cannone per spezzarla. Voi non dovete mai pensare a me, pensate a quei piccini che sono a casa nostra e a Francesco e a me no. Ciau. Poi che c’è l’artiglieria da montagna, l’artiglieria da fortezza, i cavalleggeri, c’è l’esercito intero. I granatieri; si può assediare un paese da soli, che volete di più? Scrivetemi sempre genitori vi prego. Ciau mamma, addio papà. Papà ciau. Se avrò fortuna di tornare chissà che festa in famiglia; all’otto aspetto i soldi, ciau

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11- 10 – 1915, amati genitori, rispondo alla vostra assicurata la quale l’ho ricevuta stamattina; n’avevo estrema necessità al motivo che, sapete anche voi, che è da un mese che ho avuto i soldi e questi non son momenti di star senza. Voi non potete immaginarvi, bisogna provare per credere che fatiche si fanno qui: il vitto è da maiali e se non si ha qualche soldo per bere qualche bicchiere di vino e un po’ di pane ci sarebbe da star male. Non pensate a me che io sono in piena salute. Qui fa freddo, ma sono ben coperto; si sa genitori sono al fronte è un dovere che devo compiere come tutti gli altri. Sia come il destino vuole: se avrò fortuna verrò a casa altrimenti rimarrò qui sul Monte Nero, la sorte è uguale. Il più che mi da pensiero è per Francesco e null’altro: capo primo si sta male in due per i soldi e poi c’è il pericolo; io solo non importa ma lui no. La mente mia è sempre a voi giorno e notte; sto allegro perché è inutile pensare: sono venuto e spero di tornare. Ho saputo per mezzo del figlio di Posté, Luigi che i lavoranti del nero sono arrivati: il figlio di Marinoni, Nino e quello di Postè; io non verrò a casa dato i posti in cui mi trovo, ma se vengo con quei lavoranti non mi fermo un’ora, ma sapete che i granatieri sono uomini e non bambini. Ieri sera è venuto Posté a trovarmi ha visto l’accampamento nostro ai piedi del monte e noi di Codogno abbiamo fatto buona compagnia. Le parole che diceva: se ti vedessero i tuoi genitori chissà come sarebbero contenti. In mezzo a noi sembrava un bambino; m’ha visto in rango, non mi ha riconosciuto, senza baffi, bianco e rosso, alto, sembravo un montanaro; facevo due di lui; ci vuole il cannone per il mio petto. Lo zio Secondo mi scrive sempre e anch’io gli rispondo: anche lui dice che sta male sempre accampato a quell’età. Caro papà e mamma conosco di darvi molti sacrifici, so di levargli il pane alle mie sorelline, ma credetemi che se avessi la fortuna di tornare a casa vi voglio aiutare tanto che non dovete immaginarvi. Dite a Francesco che faccia economia perché qui ci vogliono i soldi. Ora vi saluto di cuore mille bacioni a voi, alle mie care sorelline, a Francesco. Vostro figlio Sante. Mamma non devi pensar a me, ma sai che io sono di ferro: se tu mi vedi in compagnia non mi conosci: più alto, più vita di tutto. Ci vorrebbe che Francesco fosse riformato così starei bene anch’io avrei qualche lira di più e invece no. Ciau ciau. Appena ricevi questa lettera scrivimi subito. Saluta Maria, ciau. 103


15 – 10 – 1915, cari genitori, stamattina ho ricevuto la vostra lettera e sono contento della bella premura che avete verso di me; il più che mi dispiace è che state troppo in pensiero per me. Voi mi dite se ho freddo e io vi dico di no; il pacco del comitato non lo voglio nemmeno per sogno perché il governo mi ha coperto bene che non vi potete immaginare. Ho saputo che Attilio è sotto le armi, son tristi momenti ed anche lui potrà andare in prima linea. Qui ce ne sono anche della classe 1882 fanteria e ne sono morti parecchi. Il mio pensiero è sempre a voi, non passa un minuto senza rammentarvi e a Francesco di più ancora perché non vorrei che dovesse fare queste fatiche e poi non solo, ma c’è anche il pericolo della pelle; rimanerne senza uno sarebbe una disgrazia per voi, ma tutti e due sarebbe un crepacuore che non vi passerebbe più per tutta la vita. Di Codogno, per quel che si sente, ne son morti qualcuno. Credete pure che loro, [gli austriaci, n.d.R.], son ben fortificati e per prenderli vedrete le vittime; in ultimo si vedrà, son guerrieri e non storie; perdono, ma che fatiche, che disastri bisogna vedere. Di me non dovete mai pensare: io sono d’acciaio bevo qualche bicchiere di vino, la bocca è spietata [riarsa, n.d.R.], tutto il giorno e in moto, però non finirò mai di ringraziarvi che se non avessi voi, o miei cari genitori, che mi mandate qualche cosa dovrei molto soffrire la persona; l’aria è buona e perciò mangio come un orso. In poche parole Posté non mi ha conosciuto, sembrava un bambino confronto a noi. Quando verrà a casa ve lo dirà. Siamo andati in una cantina dove c’era l’artiglieria da montagna come sapete che lui ha un po’ del bulu, per scherzo go mis una sanfa [mano, n.d.R.] in sulla spalla, le stai lì immobil m’è una statua. Badate di star bene voi in famiglia; io, sono 13 mesi che son lontano e colla pazienza passeranno gli altri perché io non muoio son certo. La gamba è più forte di prima; ci vuole il cannone per me. State in pace, vedrete quando tornerò. Ciau. Vi saluto con tutto l’affetto, mille bacioni vostro figlio Sante. Baci alle mie care sorelline, a Francesco e speriamo che per ora non sia chiamato. Saluti a Eugenia e a Attilio e a chi domanda di me; saluti a tutti, ciau. Quel giorno che ci vedremo sarà una gran consolazione e come sarete contenti, ciau, ciau. Romeo, tutte le notti massogno [mi sogno, n.d.R.] poverino.

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18 – 10 – 1915, amati genitori, stamattina ho ricevuto la vostra lettera e m’avete proprio accontentato, perché un vostro scritto per me è una gran cosa. Sono molto dispiacente per Attilio che presto dovrà partire per il fronte e se avrà la sfortuna di andare, sentirete da lui come sarà la vita della guerra. Capo principale non ha più 20 anni, l’inverno per terra son sofferenze indescrivibili. Lo zio Secondo mi scrisse anche lui che è 4 mesi, che è per terra e non sa nemmeno lui come fa a non ammalarsi. Io come già vel dissi son 13 mesi che dormo per terra ed ho sofferto quello che non vi potete immaginare, però la salute si raddoppia. Per tutta la vita mi ricorderò sempre quello che m’hanno fatto soffrire all’ospedale: un mese mi lasciarono sulla paglia con un piede morello uguale la gamba, ma ora non mi prendono più a motivo che sono sano come l’acciaio. Ora mi trovo su questo bel monte che lo sentivo a rammentar alle marionette sull’agosto, ora mi trovo davvero. Genitori se verrò a casa allora potrò dir che sono soldato: guerra, terremoto, campi e se lavorerò insieme a Fortuna gliela voglio dare la bala che fece 110 giorni senza andare in licenza. Il mio reggimento ha dato prova sul campo che dovendo arrendersi un sol battaglione, non più i fucili, ma la fecero a vanghettate e se la svincolarono e batteva i suoi granatieri e noi, ma i pappini non sarebbero stati buoni. Quando mi scriverete per una sola volta non mandatemi i bolli perché ne ho ancora due. Saluti da Dosio, Pozzoli, Maiatuc, Lirin e tanti da Tonani. Io son più di vita; sto proprio bene. Ci vorrebbe che voialtri foste signori, son diventato regolare quanto mai, non credete genitori che io abbia a sprecarli [i soldi, n.d.R.] che se dovessi guardar alla bocca, ma pane solo, no salame, i soldi in 8 giorni erano finiti ed invece no. Mille baci dal vostro amato Sante, bacioni alle sorelline, a Francesco; saluti alle zie, ad Eugenia poverina e a chi domanda di me. Scusate del mal scritto per terra, Mamma ciau papà e […]. State tranquilli per me, ciau. 26 – 10 - 1915, amati genitori, stamattina ho ricevuto la vostra lettera la quale mi rallegra sentendo le vostre care parole. Ora vi voglio dire che da quel benedetto Monte Nero siamo tornati per andare su quel maledetto Monte Sabotino: è bruttissimo e anche qualche volta si farà il topo che continuando girare cade in trappola. Qui c’è Adriano 105


Dansi nel 26 artiglieria e a giorni lo voglio trovare; lui vi può spiegare che posto è. A me nessuna posizione fa temere; ormai ho già visto spettacoli formidabili, ho sofferto un po’ di tutto e per questo che non penso più a nulla. In tutti i posti cattivi sempre noi colla scusa che siamo forti e robusti e sempre si riposa in terra. Genitori godo una salute che per quanto le fatiche, il dormir per terra, freddo, pioggia, neve non mi fa nulla; tutti i giorni l’aumento, ci vuole il cannone a spezzarla: è d’acciaio, la mia salute. Vi ripeto però per la milionesima volta che io dovrei baciare la terra dove posate i piedi che mi mandate sempre qualche cosa, altrimenti se non avessi voi soffrirei molto. Mangio come un bue; […] ci vogliono in mangiare e di questo non badate a qualche giorno anticipato. Sapete genitori che Attilio se ha raggiunto il suo reggimento al fronte vi dico che è molto quasi tutto in un posto brutto. Dite niente a Eugenia; a Cavali scriverò, ma sapete che qui a due mila metri c’è la neve e non le cartoline illustrate; farò di tutto per scrivergli. Scusate del mal scritto; mi dite che anche due righe vi sono grate e io ve le mando; voi capirete uguale. Se potessi vederti papà e la mamma sarei il più signore del mondo; siamo noi i primi soldati d’Italia e faremo vedere a quei testoni, siamo granatieri e basta. Ciau. Farò di tutto per trovare Attilio a Santa Lucia. Quando riceverò l’assicurata vi scriverò. Ciau mamma. Era meglio genitori che fossi stato alto un metro e venti e non 1,82 che queste fatiche non le facevo. Termino perché sono in fretta: la mia salute è di ferro, buonissime e spero la vostra. Vi bacio con tutto l’affetto, vostro amato figlio Sante. Mille baci alle mie care sorelline, a Francesco. Saluti alle zie, ai cugini e a chi domanda di me. Son contento che è venuto a casa Emilio; salutate i suoi genitori; saluti da tutti i miei amici. Vi raccomando non pensate a me: non muoio, sono un uomo d’acciaio; state in pace. Ciau mamma arrivederci a presto, arrivederci presto, addio papà. 30 1915, cari genitori, ho ricevuto la vostra lettera e anche quella di Eugenia dalla quale voi volete sapere se sto bene: vi dirò che sono quattro giorni che noi granatieri si combatte, però io e nemmeno i miei amici non moriamo. Vi dirò anche che trovai Adriano Dansi e sta benissimo; quando ci siamo visti fu come vedersi due 106


fratelli; ci baciavamo, insomma non vi descrivo la gran gioia. Oh genitori, Attilio che era a Cividale e che sapeva che tornavo dal Monte Nero per andare sul Monte Sabotino, era distante un chilometro non si degnò nemmeno di venir a trovarmi che se lo sapevo io benché ero pronto a partire ci sarei andato a Cividale. Io sono in piena salute e spero di voi tutti; non pensate a me, io mi trovo qui con i miei amici a compiere il nostro dovere. Se Adriano verrà in licenza mi ha detto lui solo vi racconterà che hanno fatto i granatieri: bombardamenti, valanghe di fuoco, ma nessuno di noi si ritirava, sempre avanti: sono duri loro, ma con noi devono cedere. Se avrò la fortuna di trovare Attilio qualche cosa gli dirò. Presto vi scriverò di nuovo, però non state così in pensiero: sapete già che io non muoio. Quello che vi posso dire è altro che questo chi non ha provato la vita di guerra non a provato nulla. Voialtri direte: ma loro sono 15 mesi che sono in guerra, dovete sapere che loro sono nelle trincee coperte e aspettano noi e noi invece dobbiamo cacciarli e dove si occupa bisogna dormire con qualsiasi tempo e sotto il fuoco. Immaginate com’è la guerra: tanti farebbero dei romanzi e chissà quante ne direbbero, ma io con meno ve ne fo sapere è meglio, state in pace voi e di più sono io. Ora vi saluto con tutto l’affetto; mille baci vostro figlio Sante. Baci alle mie sorelline, a Francesco; saluti a Eugenia e ditele se scrive a Attilio gli dia i miei saluti. Salutate tutti i miei amici e chi domanda di me. Io sto bene, sono di ferro; state sani voi e non pensate a me. Arrivederci presto, ciau. Saluta Maria. Il posto del reggimento di Attilio è brutto però speriamo non accada una disgrazia; ora gli scrivo anche a lui e si faccia animo e non quando si vede un morto sul campo si intimorisca; più animo ci vuole e così si va avanti. Ciau, di nuovo vi saluto. Sante. Appena avrò un fil di tempo scriverò anche a Eugenia. Ciao papà e mamma. Scusate della calligrafia per terra non si può. 5 – 1915, cari genitori, stamamattina ho ricevuto la vostra assicurata ed ora m’approfitto di un fil di tempo per rispondervi. Per ora son contento, voi già sapete dove mi trovo che per credere bisognerebbe vedere che se leggete i giornali sentirete le batoste che si prende su questo monte; però non bisogna mai temere. Qui si vede la guerra: i campi coperti di cadaveri, nostri e suoi. È dodici giorni che piove e si dorme 107


sempre all’aperta campagna, ma che volete è destino e sia come vuole. Io sono in piena salute che voi non vi potete immaginare, l’acquisto giorno in giorno: a me non dovete pensare badate di star bene voialtri e non fatevi un’idea della guerra, lasciatela a parte. Da Attilio non ho ricevuto alcun scritto e di questo ne temo molto a motivo che in questi giorni il suo reggimento ebbe una sconfitta terribile. Oppure sia ammalato perché se dovesse far le fatiche che faccio io, non per vanto, per lui sarebbe una disgrazia certo. Vivo colla speranza che al fianco mio ci sia il mio caro fratello Romeo e che mi aiuti e che mi liberi da questa valanga di pericoli; io però non temo mai, basta che la salute mi guida, io son d’acciaio e non muoio e i miei amici nemmeno. Penso per Attilio poverino: quando gli scriverete fategli coraggio e che non tema di nulla: è un dovere che bisogna compiere e basta. Scusate della calligrafia; sol che noi perché siamo robusti ci fanno dormir nel fango allo scoperto. Ma gli altri corpi in questo monte ci stettero 5 giorni, ma noi granatieri chissà quando torneremo; ora sono [tutt’] ossa, ma non importa nulla ci rimarremo […]. Ora vi saluto con tutto l’affetto, mille bacioni dal vostro amato Sante; mille baci alle mie care ed amate sorelline che tanto bramo di vederle, baci a Francesco, saluti alle zie, ai cugini a Maria, a compagni e a chi domanda di me. Ad Attilio gli scrissi […]. Caro papà ormai ho provato un po’ di tutto e sono contento di provare anche ste viste, spero di vedervi presto. Arrivederci, ciau mamma e papà; son di ferro, d’acciaio tutt’osso, ma sano. Saluta Eugenia e tutti. Ciau. Quando mi scriverete di nuovo non mandatemi la busta che l’ho. Ciau mamma. 6 – 11 – 1915, cari genitori, ora ho ricevuto la vostra lettera la quale m’esprime quel che è successo a casa. Mi dispiace che avete cambiato casa, però a pensar bene è quasi meglio averla cambiata così non abbiamo più impicci. Ma voi non avete scritto che Peppino Pesce era morto. Ma chi è sto Peppino: quando mi scriverete spiegatevi meglio. Genitori io presto spero di vedervi e se verrò a casa ne parleremo; prima di lavorar il suo cuoio nero parlerà con Sante di quel che è successo che se fossi vicino vorrei agir colle mani e allora passerebbe momenti tristi. Io da Cattaneo 108


non metterò più piede dato l’affronto che gli ha fatto al papà. Se ero a casa io, la pagava, ma che è Francesco, una pezza da piedi. Per noi non è una gran casa, ci siamo sempre stati nelle case di Biancardi e sempre ci staremo. Quando mi scriverete fatemi sapere se è ancora la casa dove si stava prima oppure non è il medesimo locale. Vi prego. Io non ci penso neanche di questo a motivo che son lontano, ma credete pure che appena lessi la lettera fu un colpo al cuore e me ne risentii molto, ma molto. Il papà ha fatto bene a dirgli quello che meritava, ma tutt’insieme, ci fu Zucchelli che vi trattò bene, di questo son contento. Quando verrò a casa per voi sarò una sponda, ma lì non lavoro più, più. Saluti e mille baci, vostro Sante; baci alle sorelline, a Francesco; saluti a chi domanda di me. Arrivederci Fatemi sapere notizie precise in tutto; quando verrò a casa ne parleremo; ditemi se la casa è ancora quella di prima, ciau. Addio papà, ciau mamma. Non verrò a casa la Pasqua son troppo lontano. Saluta Maria. Voglio girar il mondo, v’aiuterò uguale, ma lì non vengo più. Attilio non mi diede risposta e ci penso molto. Sono d’acciaio. Teresa al figlio Sante Lì 10 novembre 1915, carissimo Sante, ho ricevuto ora le tue lettere: una del 5 e una del 6. Siamo sempre ansiosi di ricevere un tuo scritto appunto perché tutte le mattine per tempo prendo il giornale e ci facciamo un’idea del posto in cui ti trovi e puoi immaginarti l’esigenza che abbiamo d’aver notizie; il nostro pensiero è a te giorno e notte; pensando al posto in cui ti trovi non posso esser tranquilla né io né tutti noi. Sii pure fiducioso che il tuo caro Romeo ti sarà custode fino alla fine e le mie preghiere siano esaudite, che continuamente prego di preservarti dal pericolo e ritornar nelle braccia dei tuoi cari e consolarci entrambi. Ma che giorni saranno quando verrai a casa, non mi sembrerà vero o mio caro Sante. Eugenia ti ha scritto e io ci ho messo un biglietto con la busta dicendoti di scrivere, ma sempre perché si sentono disastri nei giornali e noi siamo sempre in attesa. Caro Sante nella lettera che ti ho spedito il 31 come vedo tu non mi hai ben compresa. Sai quando ti ho scritto che era morto Peppino Pesce, il figlio di Giovanni il portinaio, dal tifo, che anzi tu mi hai risposto. Anzi, nello stesso 109


tempo ti fo sapere che un mese prima di morir Peppino è morto anche il sig. Antonio Cattaneo; il sig. Emanuele Folli è ufficiale e fa parte dello stato maggiore, anzi un tre settimane fa è venuto a casa, è andato dal papà a domandare di te e ha detto che se dovesse venire in quella zona verrà a trovarti; Pagani è a soldato, Tansini è abile, quindi noi non abbiamo ricevuto affronti da nessuno. Per ora non c’è nessuno che viene nella nostra casa, ma non si sa come la penseranno perché come vedi mancano gli impiegati. Anzi noi come ti ho scritto ne siamo alquanto persuasi e contenti di tutto: non è proprio la nostra casa che c’è ancora Pagani il meccanico ma nella medesima fila. Ora ti dico invece di essere contento; senza che nessuno lo sappia ci ha dato £ 350 che intanto abbiamo rimesso la nostra casa benissimo e poi voglio dirti una cosa però quando scrivi di questo [ricorda che] lo sappiamo io, il papà, Zucchelli e nessun altro in casa. Ci ha detto al papà, lui Battista avrà un centesimo per pelle, ne vengono fuori 600 alla settimana, sicché è una lira al giorno; più che aver chiaro e legna e non abbiamo impicci.[…] 15 1915, amati genitori, ho ricevuto la vostra lettera la quale m’accontentò di molto: ora ho capito bene come fu per la casa e di quanto saremo più tranquilli e non avremo più impicci: siamo in casa nuova e ci resteremo. Genitori non impauritevi se alle volte tardo a scrivervi perché questi non son posti da fare i suoi comodi, bisogna aspettare il momento propizio come oggi. Sapete che Eugenia mi scrisse dicendomi che Attilio è a riposo però dorme in tenda, piove sempre, ha una copertina sola, in quattro per tenda. Oh genitori lui confronto a me è in paradiso: dice che non ci sta, noi granatieri uomini di 1,82 fino in 6 per tenda e come io, caro papà, dal giorno 20 ottobre ad ora non ho più vista la tenda: sempre sotto l’acqua e dormir per terra colla mantellina a tracolla e che momenti tristi, son 12 giorni che si dorme con in mano il fucile. Ma allora io cosa dovrei dire eppure sopporto con pazienza, che devo fare, verrà un giorno che tutto finirà ed allora verrò a rivedervi tutti in famiglia, ma se vi rivedo ancora deve essere una cosa per me, che io nemmeno posso esprimere: veder le mie sorelline, tutti voi, dato le tristi ore che ho passate e disagi. E vi rivedo son 110


certo. Qui genitori si vede la guerra: i cuori inferociti, ma che volete abbiamo due nemici il tempo e loro. Immaginatevi appena si ha un fil di tempo si va a trovare gli amici se son feriti o morti, mentre invece se troviamo tutti sani per noi è una gran festa. Siamo sfiniti capirete anche voi: dormire mai, sempre nel fango, piove, ma il coraggio non ci manca. Quando verrò a casa vi spiegherò a bocca; termino col baciarvi di cuore, bacioni alle mie sorelline, a Francesco, vostro figlio Sante. Saluta Eugenia e presto scriverò anche a lei, saluta le zie, cugini e chi domanda di me. Saluta Maria. Non pensate a me state in pace io sono d’acciaio, non muoio, la mia salute trionfa. Arrivederci mamma e papà baci, Sante, ciau. Teresa al figlio Sante Li 2 dicembre, carissimo Sante il giorno 21 ho ricevuto la tua lettera del 15 colla quale mi dicevi di non pensare se alle volte tarderai a scrivere; ma dato i furiosi combattimenti sostenuti in questi giorni, come si lesse anche sui giornali, noi pensiamo proprio male, siamo in gran pensiero. Se hai ricevuto la mia lettera del giorno 20 ti dice che Francesco si presentava a Lodi il 28, è partito ieri nel 24° fanteria a Novara: non ha potuto ottenere un altro corpo. Era assai dispiacente perché non sapeva più tue notizie. Tutti i giorni aspettavo tuo scritto, ma oggi vedo questo gran ritardo. Ti mando l’assicurata di £ 10. Noi siamo in gran pensiero per te pensando i tristi momenti che devi traversare. Tutti i giorni aspetto tue notizie. Noi di salute stiamo bene; il papà lavora, non pensare che faremo tutto quello che potremo per tutti e due. Questa maledetta guerra non sarà eterna e poter un giorno ritornare con noi e cessare questo martirio per te e per noi un crepacuore. Ciau Sante. Ti raccomando appena ai un fil di tempo scrivi. Tanti saluti da tutti da Eugenia, dalle zie, saluta Tonani e Dosio. Sappi che Attilio è a Verona con un male a un piede e ti fo sapere che è morto il fratello di Maria, il terzo che stava a Milano, era richiamato. Tanti saluti da Maria e la sua famiglia. Mille baci dalle tue sorelline, Francesco ti scriverà. Mille baci dal papà e bacioni da me.Tua mamma.

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Credo che una tua lettera sia in viaggio perché questo ritardo mi inquieta molto, ma molto. Ciau, appena la ricevi se hai tempo scrivi.

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Epilogo

Emilio Violanti della 16ª Compagnia, IV Battaglione, 1° Reggimento Granatieri di Sardegna, classe 1894, morì il 24 maggio 1917 «sul Carso per ferite riportate»; Lino Tonani, del 2° Reggimento Granatieri di Sardegna, classe 1893, di Fombio, morì sul Piave, «per ferite riportare in combattimento», il 2 luglio 1918. Francesco Mazzoletti, il Franceschino, che Sante non voleva vedere nei granatieri per il troppo pesante addestramento, coscritto di 1ª categoria, si presentò al Distretto di Lodi il 28 settembre 1915: dalla 1ª venne fatto passare alla 2ª categoria e inviato in congedo illimitato. Chiamato alle armi il 28 novembre di quell’anno, fu mandato, il 2 dicembre, al deposito del 24° Fanteria, Brigata Como. Il 15 dicembre era assegnato al 202° Reggimento di fanteria e giungeva in zona di guerra il 10 marzo 1916. Nel maggio era dichiarato in stato di malattia e il 19 giugno inviato in licenza straordinaria di convalescenza; rientrato al deposito del 23° Reggimento di fanteria a Novara il 7 agosto del 1916 e rimandato in zona di guerra, fu assegnato il 20 gennaio 1917 al 207° Fanteria per poi essere trasferito l’8 marzo 1917 al 272° Fanteria, Brigata Potenza costituita nel 1917 nella 2ªArmata. Fu preso prigioniero, è scritto nel suo ruolo matricolare, nel «fatto d’arme della Bainsizza». In realtà se si accetta la data di cattura scritta nello stesso ruolo matricolare il 29 ottobre 1917 e tenendo presente la storia della brigata Francesco fu probabilmente catturato tra i giorni 26 – 31 ottobre 1917 durante il ripiegamento dalle posizioni del Monte Carnizza, a Quota 961. Francesco Mazzoletti fu inviato nel campo di prigionia di Kleis-

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berg (ora Langes Feld), nel quartiere di Niederzwehren della città di Cassel (Kassel). Ai prigionieri, per una nota decisione, il governo italiano non inviò soccorsi, a differenza di quanto facevano gli altri governi europei; le famiglie e le organizzazioni private avrebbero potuto provvedere, ma non senza qualche difficoltà. A Teresa che intendeva inviare al suo Franceschino “qualche cosa da mangiare e per coprirsi”, un eroico impiegato delle Regie poste oppose un sarcastico rifiuto: «Niente ai vili della 2ª armata». Teresa, furibonda, (Come osava, quell’imboscato, trattare così una donna che aveva già perso un figlio e rischiava perderne un altro?) lo denunciò; le dovettero fare, tra pianti e implorazioni, le più sentite scuse, poiché se la denuncia avesse avuto corso, il prode avrebbe dovuto dimostrare al fronte il suo patriottico coraggio. Franceschino tornò dalla prigionia il 4 dicembre 1918; probabilmente trattenuto in uno dei campi specificamente allestiti per gli ex prigionieri, giunse infine al deposito del 42° Reggimento fanteria a Piacenza e inviato in licenza illimitata. A Battista Mazzoletti venne assegnata, nel 1926 con decreto ministeriale del 6 ottobre, la pensione privilegiata di guerra a partire dal 27 luglio 1924 (certificato di iscrizione 1442964) per un importo annuo di £ 990, corrispondenti a £ 82,50 mensili lorde (nette 75,10). Sante Mazzoletti non era più tornato a casa, ma aveva mantenuta la promessa di aiutare la famiglia.

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Note finali

I nomi dei soldati caduti al fronte nel 1915 sono stati desunti dagli elenchi conservati nell’archivio comunale di Codogno; in questi documenti sono elencati i soldati le cui famiglie erano residenti in Codogno e, quindi, destinatarie della comunicazione di morte. Vi compaiono perciò soldati nati in altri paesi e città, in diversi distretti militari, mentre mancano i nomi dei soldati nati a Codogno, del Distretto di Lodi, le cui famiglie erano residenti altrove. Ovviamente ciò vale per i caduti di tutta la guerra, così che nell’”Albo d’Oro” dei caduti nella Grande guerra risultano nomi di nati a Codogno non inclusi nelle lapidi erette in città, mentre in queste stesse lapidi compaiono nomi che l’”Albo d’Oro” elenca sotto altri comuni, distretti e province (o non elenca affatto). A Codogno, come in moltissime città, alcuni nomi presenti sulle lapidi cittadine non compaiono nell’”Albo d’Oro” perché di soldati morti per cause estranee alla guerra o comunque non in zona di guerra (è il caso di Gianbattista Aleardi morto in una rissa in caserma nel 1915). Le registrazioni dell’archivio comunale non sempre coincidono con le registrazioni dell’”Albo d’Oro”: è il caso di Luigi Fadori di Piacenza che negli elenchi comunali risulta morto il 19 novembre 1915, mentre per l’”Albo d’Oro” cadde il 9 novembre 1916. Così anche Filippo Vignati di Brembio, classe 1895, per le registrazioni del Comune di Codogno morì in combattimento il 22 ottobre 1915, mentre per l’”Albo d’Oro” cadde il 15 agosto 1917. Nell’”Albo” non furono poi iscritti i militari morti dopo il 20 ottobre 1920, ma poiché anche dopo quella data di guerra si 115


continuò a morire, i loro nomi furono aggiunti sulle lapidi cittadine. Di alcuni i cui nomi sono riportati sulle lapidi non si seppe poi mai nulla.

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Bibliografia

Archivio privato Lettere del Granatiere Sante Mazzoletti alla famiglia. Archivio di Stato di Milano Distretto Militare di Lodi: Ruoli e Fogli matricolari di Sante Mazzoletti (classe 1894) e di Francesco Mazzoletti, (classe 1896). L’estratto dell’atto di morte del Granatiere Mazzoletti Sante è inserito nel relativo Foglio matricolare. Archivio Storico del Comune di Codogno Cart. 440 f. 1, 16/5/1915 voto del Consiglio Comunale contro la Guerra. Cart. 440 f. 9, 11/12/1915, ODG di plauso al Gruppo Parlamentare Socialista. Cart. 471, f. 14, 1919, elenco prigionieri di guerra. Cart. 479, f. 7, 1920, elenco prigionieri di guerra. Cart. 478, f. 9, 1920, orfani di guerra. Cart. 479, f. 8, 1920, elenco caduti in guerra. Cart. 488, f.7, 1921 elenco prigionieri di guerra. Cart. 488, f. 21, lapide per i caduti in guerra. Cart. 506, f. 17, 1924, elenco caduti in guerra. Cart. 531, f. 10, 1928, elenco caduti in guerra, luogo, motivazione (caduti in guerra domiciliati in Codogno). Giornali periodici locali “Il Cittadino”, settimanale dei cattolici lodigiani; fondato nel 1890. “Libertà”, quotidiano di Piacenza, anno 1915, rubrica “Corriere di Codogno”. 117


“Il Po – Gazzetta di Codogno”; settimanale. Primo numero: 1 agosto 1885; cessa le pubblicazioni il 24 dicembre 1914. Dal 4 gennaio 1902 al 27 febbraio 1909 si qualifica come organo della Associazione tra proprietari e conduttori di fondi del Lodigiano. Cessa le pubblicazioni il 24 -12 – 1914. “Il Risveglio - organo settimanale del Partito Liberale di Codogno”. Primo numero 6 aprile 1909; dal 19 ottobre 1909 – organo settimanale del Partito Liberal Democratico di Codogno. Cessa le pubblicazioni il 22 – 12 – 1914. Opere generali Militari caduti nella Guerra Nazionale 1915 – 1918, Albo d’Oro, Roma, Ministero della Guerra, vol. X (1931), XI (1932), XII (1932). Ambrosoli Luigi, Né aderire né sabotare, Milano, Ed. Avanti!, 1961. Arfé Gaetano, Storia del Partito Socialista Italiano, Torino, Einaudi, 1965. Bencivenga Roberto, Il periodo della neutralità, Udine, Gaspari Editore, 2014. Bencivenga Roberto, La campagna del 1915, Udine, Gaspari Editore, 2015 Cadorna Luigi, La guerra alla fronte italiana, vol. I, Milano, Treves, 1921. Cardini Franco, Valzania Sergio, La scintilla, Milano, Mondadori, 2015. Ceva Lucio, Storia delle Forze Armate in Italia, Torino, UTET Libreria, 1999. Del Boca Angelo, La disfatta di Gasr bu Hàdi, Milano, Mondadori, 2004. De Rosa Gabriele, Il movimento cattolico in Italia, Bari, Laterza, 1972. Di Brazzano Orio, La grande guerra sulla Fronte Giulia, Trento, Edizioni Panorama, 2002. Faldella Emilio, La Grande Guerra, Chiari (BS), Nordpress, 2004. Forcella Enzo, Monticone Alberto, Plotone di esecuzione, Bari, Laterza, 1972. 118


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Dopo un anno di amministrazione (dall’agosto 1914 all’agosto 1915) – Relazione della giunta pubblicata per deliberazione consigliare dell’8 agosto 1915, Codogno, Tipografia Galluzzi, 1915. Fava Sara (a cura di), Storie di casa, la Grande Guerra nei ricordi delle famiglie lodigiane, Lodi, Comune di Lodi, 2015; catalogo della mostra tenuta nei locali dell’Archivio Storico Comunale di Lodi, 6 novembre 2015 – 30 gennaio 2016. Omini Silvia, Lodi in guerra: 1915 – 1918, tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze Politiche, anno accademico 1996 – 1997. Ongaro Ercole, No alla grande guerra, Bologna, I libri di Emil, 2015. Ongaro Ercole (a cura di), Il Lodigiano nel Novecento – la politica, Milano, Franco Angeli, 2003. Pallavera Ferruccio – Stroppa Angelo, Il Piave Mormorava – il Lodigiano nella Prima Guerra Mondiale, Lodi, Quaderni di Studi Lodigiani, 2015.

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Indice Premessa: pag. 3 Sante Mazzoletti, Codogno, Classe 1894: pag. 5 1914: pag. 15 I cannoni d’agosto: pag. 21 Granatieri di Sardegna: pag. 29 Lettere dal Reggimento: pag. 34 13 gennaio 1915, Avezzano: pag.37 Lettere dal terremoto: pag. 39 Interventisti e neutralisti: pag 42 Lettere dal campo: pag. 49 In guerra: pag. 52 Lettere alla partenza per il fronte: pag. 61 L’Isonzo a Monfalcone: 63 Lettere dall’Ospedaletto da campo n. 119: pag. 79 Monte Sabotino, Quota 188: pag. 84 Ultime lettere dal fronte: pag. 99 Epilogo: pag. 113 Note finali: pag. 115 Bibliografia: pag. 117

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ISBN 979-12-200-1890-6


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