STORIA DELLE FANTERIE ITALIANE VOL II

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STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO UFFICIO STORICO

EDOARDO SCALA

STORIA DELLE

FANTERIE ITALIANE VOLUME II

LE FANTERIE NEL MEDIOEVO E NELL'ERA MODERNA

ESERCITO IL GIORNALE· BIBLIOTECA STORICA


Sto.-ia <lcllc fanterie italiane Volume II. Le fanterie nel Mc<liocvo e nell'era moderna Edoardo Scala Edizione speciale Ristampa anastatica dell'e<lizionc del 1950-1956 In collaborazione con Ufficio Storico dello Stato Magi;iorc dell'Esercito © 2020 Difesa Servizi S.p.A., Roma Supplemento al numero odierno de il Giornale. Direttore Responsabile: Alessandro Sallusti Rt.-g. Trib. Milano n. 215 del 29.05.1982 Tutti i diritti riservati lv-d assolta dall'editore

Nessuna parte di questo volume potrà essere pubblicata, riprodotta, archiviata su supporto elettronico, né trasmessa con alcuna forma o alcun mez:w meccanico o ek-ttronico, né fotocopiata o registrata, o in altro modo divulgata, sen,.a il pennesso scritto <ldla casa L'<iitrice.


STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO UFFICIO STORICO

EDOARDO SCALA

STORIA DELLE

FANTERIE ITALIANE VOLUME II

LE FANTERIE NEL MEDIOEVO E NELL'ERA MODERNA

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ESERCITO IL GIORNALE• BIBLIOTECA STORICA



PREFAZIONE

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Storia delle Fanterie Italiane » è già stat;z autorevolmente

presentata al comparire del I uolume. L'Autore, che molto stimo come soldato e come storico, mi ha fatto l'onore di richieàermi una prefazione al Il uolume, prossimo alla stampa, e così si esprime: « A.urei caro di vedere il St4o 11ome 11el-

l' opera, alla quale ho dedicato tanti anni di studio ». Ed eccomi, caro Generale Scala, di fronte a tanta affettuosa esigenza, con tm solo pensiero: quello Ji ringraziarl.A, per tutti i Fanti e per me, Fante, della grande, appassionata fatica cui Ella attende con sapienza di orafo, per far riscintillari. attraverso la ganga dei secoli e delle genti italiche, quella gemma eterna che è il cuore indomito delle Fanterie. Ella, che conosce il valore profondo delle parole semplici_. uoglia di questo mio grazie esser pago. L'ISPETTORE DELL'ARMA DI FANTERIA

Generale V . Babini



PREMESSA

Se quest'opera avesse uno scopo semplicemente etico o morale e dovesse servire soltanto ad incitare le nostre Fanterie presenti e future al culto delle gloriose tradizioni dell'Arma, noi potremmo forse risparmiarci il non facile compito di ricordare le Fanterie dell'alto medioevo, le quali rimasero prive di ogni importanza, non soltanto nella formazione organica e nell'impiego tattico delle forze militari del tempo; ma anche nel campo politico e sociale. Le Fanterie feudali costituirono, infatti, sotto le leggi dei barbari, soltanto un'accozzaglia di uomini che, non più sorretti dal s~ntimento della dignità personale e non più legati da alcuna coesione morale, non avevano altro compito che quello di portare le armi e di essere di aiuto ai Cavalieri o, tutt'al più, dopo un fatto d'arme fortunato, quello, non certo glorioso, di finire i nemici feriti e di raccogliere il bottino. Ma la Storia, se non vuole rinunziare alle sue più necessarie virtù, non può tralasciare alcun anello della lunga catena delle umane vicende e deve registrare, con lo stesso spirito obiettivo, tutti i progressi e tutte !e wste nel faticoso cammino dell'umanità, le vittorie come le sconfitte, gli avvenimenti favorevoli come quelli contrari. Del resto, se il lungo periodo che prenderemo in esame .in questo volume fu, almeno per i primi secoli, quello della maggiore decadenza ddlc Fanterie, non mancarono, specialmente dopo le Crociate, gloriose eccezioni e nobili tentativi di far riprendere alla nostra Arma il posto d'onore che essa aveva già avuto negli eserciti di Roma. Questi tentativi - che non potevano, purtroppo, dar luogo a durevoli successi; ma che dimostravano, anche nei Fanti di allora, il desiderio di riacquistare l'antico prestigio - vennero ripetuti, nel periodo storico considerato, per ben tre volte. La Fanteria cercò, infatti, di risorgere : prima con le milizie comunali, poi con le compagnie di ventura italiane ed, infine, con


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le milizie nazionali, che i diversi Stati, nei quali purtroppo rimase così a lungo divisa la nostra Patria, costituirono a loro difesa contro gli eserciti delle altre nazioni; eserciti, i quali, a differenza dei nostri, non servivano singoli Principati o semplici Repubbliche e Signorie; ma veri e propri Stati che, più fortunati del nostro, avevano conseguito, al principio òell'èra moderna, quell'unità nazionale che ancora mancava all'Italia. Il sopraggiungere dei barbari e le loro lunghe soste nel nostro Paese, le lotte tra l'Impero ed il Papato ed, infine, nella Storia moderna, le guerre per il predominio in Europa, combattute nella pe· nisola dagli eserciti stranieri, ritardarono, infatti, per secoli, la possibilità che anche l'Italia si ricostituisse in nazione e ritrovasse l'unità perduta alla fine dell'Impero romano d 'Occidente. Tuttavia il tentativo dei nostri Comuni di richiamare la Fanteria al posto preminente che essa aveva già avuto negli eserciti romani, anche se venne imposto dalle necessità contingenti e se non potè conseguire durevoli risultati, non fu privo di gloria; e basti ricordare, in proposito, le vittorie di Legnano e della Fossalta, riportate dalle milizie comunali contro gli eserciti imperiali. Non meno meritevole del nostro ::r nuuirato ricordo fu, qualche secolo dopo, l'opera di Alberico da Barbiano, che volle costituire con combattenti esclusivamente italiani la Compagnia di San Giorgio, da lui composta quasi tutta di Fanti e da lui addestrata e disciplinata assai ineglio di quelle straniere. Nè, dopo i primi progre~si delle armi da fuoco e non appena il Rinascimento rese pili efficaci i gloriosi esempi della Repubblica romana, potè considerarsi infeconda la co5tituzione delle Fanterie nazionali che, poste di fronte ad esèrciti mercenari più numerosi cd agguerriti, ripresero le nostre tradizioni militari e, con la mèritata fama dei nostri condottieri e con qualche fortunata impresa, finirono col tempo pe~ costituire il primo embrione di quello che doveva poi essere l'esercito italiano. In questo ese,cito - che, Jopo le brillanti affermazi·oni del periodo napoleonico, doveva acquistare un -carattere veramente nazionale e ridare, attraverso tante fortunose v.icende, alla nostra Patria l'indipendenza e l'unità - la Fanteria potè finalmente tornare al suo posto d'onore e, con armi sempre più potenti ed efficaci, dc:cidere le sorti dei combattimenti e dominare sui campi di battaglia. Questo, in sintesi, il lungo, complesso, faticoso periodo, che prenderemo in esame in questo II volume della nostra opera; periodo, che va dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente alla pace di


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Aquisgrana, e che comprende, per conseguenza, molti secoli di Storia, ricchi, per l'Italia e per tutta l'Europa, di fortunosi avvenimenti e di guerre accanite, in molte delle quali, nel nostro Paese, i fratelli combatterono purtroppo contro i fratelli. In questo periodo - durante il quale l'elemento barbarico, quello romano e quello cristiano, dopo avere a lungo lottato fra loro, finirono per amalgamarsi e si passò successivamente in Italia daJ1'ordinamento feudale ai Comuni, alle Repubbliche, alle Signorìe ed ai Principati - la nostra Fanteria continuò a risentire l'influsso delle vicende politiche e dell'evoluzione sociale e dovette subìre anch'essa, prima di risorgere, un lungo e doloroso travaglio. Ma, dopo avere ottemperato alle leggi dei Longobardi e dei Franchi ed avere partecipato, con le sue città, purtroppo discordi, alla lunga lotta fra l'Impero e la Chiesa, la nostra Patria, pur non potendo ancora provvedere alla sua indipendenza ed alla sua unità, riuscì a conquistare, col Rinascimento, quel primato intellettuale e culturale, che le permise di offrire ancora al mondo - così come Roma gli aveva già offerto i doni della sua pace e della sapienza giuridica - l'operosa sagacia dei suoi mercanti e dei suoi banchieri, il valore dei suoi capitani, le scoperte anticipatrici dei suoi scienziati cd il divino sorr1so della sua arte. Se, nel lungo periodo che prenderemo in esame, l'Urbe da Capitale del mondo divenne sede della Chiesa cattolica, cioè universale per eccdlenza, e se l'Italia, pur avendo ripreso, almeno nel campo culturale, il suo preminente posto nella civiltà europea, venne come doveva deplorare Nicolò Machiavelli - invasa, contesa e corsa dagli stranieri e dovette, purtroppo, soggiacere all'altrui prepotenza, essa non fu mai del tutto inerme, come molti ancora ritengono, e si preparò lentamente alle lunghe ed accanite lotte, purtroppo necessarie a far riconoscere anche agli Italiani la Patria comune e ad indurli a conquistarne l'indipendenza e l'unità.

,e Gli ordini delle romane milizie, stati per dieci secoli strumento della conquista dc:l mondo, dopo essersi a mano a mano infievoliti, al ruinar dell'Impero scomparvero affatto. Nuovi ordini, nuovo linguaggio, nuovi modi di vivere e pensare, nuovi elementi di futura civiltà arrecarono, nelle ioro invasioni, i popoli settentrionali. Ai çreci-Romani successero i Longobardi; ai Longobardi i Franchi; ai


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Franchi Ungheri, Saraceni, Normanni, ed il sistema feudale, unificato nel nome dell'Impero. Sotto il quale nome nati e cresciuti, i vento non più veduti vessilli. Mercenarie armi Comuni sciolsero poi la turbolenta libertà, che essi rappresentavano, abbatterono e spersero, per aprire il varco alle compagnie di ventura». Con queste parole il generale Ercole Ricotti iniziava, nel 1844, la sua <e Storia delle compagnie di ventura in Italia ))' riassumendo in una mirabile sintesi il succedersi, per quanto riguarda le armi e gli armati, dei diversi ordinamenti che, dopo la caduta dell' Impero romano d'Occidente, ebbero successivamente vigore in Italia, col graduale passaggio dagli eserciti feudali, promossi dai Longobardi e più specialmente dai Franchi, alle milizie comunali. ed alle compagnie di ventura straniere cd italiane, con le quali ultime, mentre le fatiche degli umanisti già preparavano efficacemente il Rinascimento, la Fanteria tornò in onore anche in Italia ed apparve destinata a costituire nell'avvenire il nerbo degli eserciti. Noi ricorderemo, per conseguenza, l'evoluzione subìta dall'ordinamento e dall'impiego della nostra Arma in quasi tredici secoli e prenderemo successivamente in esame le nostre Fanterie negli eserciti feudali, nell e milizie comunali, nelle compag11ie J~ ve11tùra straniere ed italiane ed, infine, nelle milizie nazionali, con le quali la nostra Arma, richiamata al suo posto d'onore anche dall'affermarsi delle armi da fuoco portatili, riebbe, nella compagine degli. eserciti, quei carattere di Arma decisiva, che doveva poi conservare anche ai giorni nostri, visto che - come ben dice lo stesso Ricotti - il sorgere delle milizie nazionali e( segnò il punto, dal quale la Fanteria cominciò a ritornare . in quell'onore, a cui la chiamavano anche le nuove armi da guerra >>. Nè possiamo tacere che, effetto e nello stesso tempo conseguenza di esso, con il risorgere della Fanteria, risorse anche l'arte militare, alla quale, quando la guerra tornò ad essere intrapresa per cause più impartanti e le operazioni belliche ebbero scopi più nobili, teatri più vasti, eserciti più numerosi, si dedicarono tanti insigni maestri italiani. Se, con l'insediarsi dei barbari in Italia, vennero mutati gli ordinamenti politici e sociali, furono profondamente modificati anche l'organizzazione e l'impiego delle forze militari e, nello stesso modo che all'unità del mondo romano venne sostituita, specialmente con i Franchi, la suddivisione dello Stato nelle Marche e nei feudi ed il decentramento proprio del feudalismo, agli eserciti veri e propri venne sostituito il complesso deglj armati, che ciascun Marchese o

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Conte o vassallo maggiore poteva mettere, per la guerra, a disposizione del Sovrano. E ciò fino a quando, attraverso il lento trascorrere dei secoli, talmente si fusero insieme gli dementi romano, cristiano e barbarico, che potè sorgere, per l'Italia e per tutta l'Europa, una nuova civiltà, che sostanzialmente s'ispirò al mondo classico nel campo del pensiero e delle arti, pur adattandosi ai più umani principt del Cristianesimo e conservando profonde tracce, specialmente nel campo militare, degli ordinamenti barbarici. E' chiaro, infatti, che, nell'evoluzione degli istituti militari e dell'arte della guerra, il ritorno al concetto romano dell'esercito nazionale non fu possibile se non col Rinascimento che quel concetto riportò in onore e con la diffusione delle armi da fuoco, che efficacemente concorsero a ridare alla Fanteria il suo posto preminente negli eserciti del tempo. Nella successione dei diversi ordinamenti politici e sociali l'arte militare non potè restare sempre la stessa per tutto il millennio che corse ·tra l'Impero . di Romolo Augustolo e la scoperta dell'America ; ma dovette anch'essa assimilare le costumanze degli altri popoli, soddisfare le differenti esigenze temporanee e locali, adattarsi ad una diversa maniera di combattere, per- seguire l'evolvt:rsi Jdl'ambiente politico-sociale cui doveva setvire e per tornare, finalmente, a quei concetti fondamentali, che regolarono in ogni tempo l'organizzazione e l'impiego delle compagini armate.

Ma, se il graduale ritorno delle Fanterie all'antico prest1g10 venne ostacolato e ritardato da tante circostanze avverse, la sintesi degli avvenimenti che faremo in questo volume ci permetterà di constatare che, anche nei più fortunosi secoli della nostra Storia, le Fanterie italiane, tutte le volte che i tempi mutevoli e le condizioni dell'arte della guerra conferirono ad esse il prestigio che loro spettava, seppero dimostrarsi fedeli alle nobili e gloriose tradizioni dell'Arma e pienamente degne del loro posto d'onore. . La divisione della materia in tre parti servirà all'ordine ed alla chiarezza dell'opera, più che a distinguere nettamente le diverse fasi dell'evoluzione che prenderemo in esame; fasi che rispondono anche alle trasformazioni politiche e sociali verificatesi in Italia nel periodo considerato e la cui successione non può venire determinata con una data precisa, poichè, come per tutti i più importanti fenomeni sto-


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no, essa ebbe a verificarsi evidentemente attraverso unq evoluzione

lenta e graduale. Nel concludere questa necessaria premessa, mancheremmo ad un preciso dovere ed anche ad un vivo bisogno dell'animo, se non esprimessimo pubblicamente la nostra gratitudine al generale Ildebrando Fiocca, già nostro compagno di studi ed efficace collaboratore nell'insegnamento della Storia militare all'Istituto superiore di guerra. Egli ha voluto, infatti, con un senso di memore cameratismo del quale gli siamo riconoscenti, aiutarci nella non lieve fatica, permettendoci di riassumere nel presente volume, per quanto riguarda la Storia moderna, alcune pagine di una sua opera, rimasta purtroppo inedita, e che avrebbe dovuto far parte dell'importante collezione storica (< I fasti militari del popolo italiano li, della quale non venne pubblicato, purtroppo, che il primo volume, compilato da Rodolfo Corselli. 11 generale Fiocca si proponeva di mustran: le imprese di guerra che, tra il 1492 ed il 1748, furono compiute da quegli Italiani, i quali, combattendo come Capi o come gregari, nella nostra penisola od oltralpe od oltremare, pur attraverso Je alterne vicende della loro :ittivìtà m!litar~, onoraron.c se stessi e !::i P:it:-:;;, riaffermando sempre e dovunque che il valore della nostra stirpe non è mai morto passato e non morrà nell'avvenire. Nel riassumere, col suo pieno consenso, per due capitoli di questo volume, qualche pagina della sua opera, noi speriamo che il generaie Fiocca possa raggiungere il nobilissimo fine che si era prefisso e che è così simile al nostro. Ma, prima di iniziare il tentativo di conseguire il medesimo scopo e di ·superare le molte difficoltà che ci verranno imposte dall'esame di un periodo storico così lungo e così complesso, noi desideriamo rendere il dovuto onore ad un caro compagno di armi e di studi, il quale, pur dedicandosi sempre, in pace ed in guerra, ai suoi Fanti, volle e seppe efficacemente contribuire anche al progresso degli studi militari.

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EooA RDO ScALA


PARTE PRIMA

LE f ANTERIE ITALIA NE NEL MEDIOEVO

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I.

IL MEDIOEVO E LA DECADENZA DELLE f ANTERIE « La storia di mille anni d'Italia: selva mirabile e diversa, ora aspra e folta come di bronchi nodosi e involti, or leggera ed aereata come di vermene a pena fiorenti, q ui grossa come di virgulti che accestiscono in arboscelli e finalmente ,erde e sonante di alberi, che fan bosco mobile ai venti l>.

G. CARDUCCI : « Di L'L'dovico Antonio Muratori e della sua raccolta di storici italiani dal 500 al 1500 >i.

Per 1a naturale, costante, insopprimibile corrispondenza tra le caratteristiche principali delle istituzioni politico-sociali e quelle delle contemporanee istituzioni militari, non è certo possibile riassumere, sia pure n elle lince più generali, la Storia delle Fanterie italiane dell'età di mezzo, se non riferendoci al particolare periodo rappresentato dal medioevo neiìa Stotia del mondo ed ai particolari caratteri delle guerre medioevali. E ciò anche per richiamare alla memorta dei lettori quelle cognizioni che meglio servono a distinguere. nell'esame dei fatti storici, i fenomeni essenziali da quelli accesson e di scorgere le cause più profonde di ogni avvenimento fra quelle semplicemente occasionali. Il periodo medioevale doveva servire all'elaborazione delia nuova civiltà, cui avrebbe dovuto informarsi la vita europea, dopo il tra· collo della civiltà romana, travolta, ma non distrutta, dalla dottrina cristiana e dall'influsso palitico-militare dei barbari scesi in Italia. La civiltà romana si era corrotta, specialmente negli ultimi secoli dell'Impero, perchè non più sorretta: nè dalle prische virtù, nè dal consenso delle masse ed anche perchè inquinata dagli apparti di altre civiltà, specialmente orientali, che avevano colpito la fantasia ed aumentato l'ignavia dei decadenti Romani. Anche la nuova concezione della vita terrena, bandita dal Cristianesimo, aveva scavato sol-


4 chi profondi nell'anima delle folle; mentre i barbari, reggendo ormai le sorti della penisola, imponevano i loro costumi. Tre diverse civiltà, ciascuna con caratteristiche proprie, tre diverse concezioni, aventi tutte pregì e difetti, incisero contemporaneamente e reciprocamente sulle coscienze delle genti latine e di quelle barbare, modificandole lentamente e fondendone insieme usi, costumi ed aspirazioni. Durato per oltre dieci secoli - dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente (4]6) alla scoperta dell'America (1492) - il m edioevo rappresenta nella Storia come una lunga, indispensabile sosta, che ben può paragonarsi all'apparente riposo al quale si abbandona la terra nel freddo inverno, mentre, nel suo grembo fecondo, i germi gettati nei solchi subiscono il meraviglioso processo, dal quale poi deriveranno le piante ed i fiuri della primavera; nonchè i frutti dell'estate e dell'autunno. Non altrimenti, mentre trascorrevano sul mondo i lunghi secoli del medioevo, - condizione indispensabile per il futuro progredire della collettività umana - s'era verificata prima la sovrapposizione e quindi, gradatamente, la lenta fusione dell'elemento barbarico e dell'elemento cristiano con l'elemento romano e s'era, a poco a poco, compiuto - fra le forze opposte i- dissimili , m a pur tendenti fatai mente ai fini medesimi - quel lungo periodo di elaborazione, durante il quale, non solamente dovevano mutare i Governi ed i Principi; ma anc he k leggi, i costumi, le religioni e le lingue. E' appÙnto a tale difficile e lenta elaborazione; è all'influsso dei tre fattori storici già ricordati che poi dobbiamo attribuire l'inizio di una nuova era storica, il cui aprirsi coincide col sorgere delle nuove energie formatesi nella stessa tomba, nella quale era stato già composto il vecchio Impero romano. Con l'inizio del Rinascimento che, affermatosi dalla nostra Italia in tutto il mondo civile, doveva additare, nella risorta memoria del luminoso passato, le mète da conseguire - venivano, infatti, affrettati in ogni campo dell'attività umana _quei meravigliosi progressi, il conseguimento <lei quali segna appunto l'inizio del nuovo periodo storico, pili particolarmente preso in esame dalla Storia moderna. Tale periodo, - per quanto gli storici non si dimostrino concordi a tale riguardo, data la tendenza a determinarne i limiti ~econdo le date più importanti della Storia delle rispettive nazioni, s'inizia alla m età del secolo XV, con la caduta di Costantinopoli e, per noi, più precisamente dall'anno 1492, nel quale un grande navigatore italiano, scoprendo le prime terre del Nuovo Mondo ed apren-


5 do ai commerci europei nuov1ss1me vie, dava luogo ad un avvenimento destinato a spostare l'asse dell'economia europea, e per conseguenza mondiale, dal Mediterraneo all'Atlantico. 11 medioevo, considerato sotto il punto di vista militare, rappresentò inizialmente, e sino a tutto il secolo XII, un periodo di effettiva decadenza, in quanto l'ambiente politico-sociale creato dalle invasioni barbariche e dal feudalismo non comportava l'esistenza di organiz;zazioni militari permanenti e non vedeva nel combattente un « cittadino », con i diritti, i doveri e la piena consapevolezza della sua missione sociale; ma _soltanto od un nobile a cavallo, legato a speciali obbìighi ed alle tradizioni della casta, od un servo che seguiva in battaglia il nobile Cavaliere, per prestargli servizio e soccorso, a seconda dei casi. L'arte militare dell'epoca medioevale poteva dirsi quasi primitiva, poichè mancava la massa e questa non poteva esistere, essendo la società basata sull'individualismo. A malgrado della presenza di un elemento quale il Cavaliere, valoroso ed animato da un profondo spirito guerriero, e non ostante l'addestramento nel maneggio e nell'impiego delle armi e del cavallo, l'esercito feudale, inte~o come organismo dotato di una prvfi.::ua capacità operativa. nel ca..-npo tattico, non esisteva, difettando la disciplina e lo spirito di cooperazione.

Circa le qualità .fisiche e la passione per la guerra dei Cavalieri dell'alto medioevo, Mare Bloch, nella sua opera « La società feu. dale » (1), ha scritto quanto segue: « Il nobile amava anzitutto esplicare una forza .fisica, sapientemente alimentata da assidui esercizi, jniziati sin dall'infanzia. Diceva un poeta tedesco, ripetendo il vecchio proverbio carolingio: Chi, senza montare a cavallo, è restato a srnola sino a doàici anni, non è buono più ad altro che a fare il prete (2). Gli interminabili racconti di singolari tenzoni, di cui ribocca l'epopea, seno eloquenti documenti psicologici. Il lettore di oggi, sopraffatto dalla loro monotonia, dura fatica a convincersi che il lettore di un tempo abbia potuto prendervi manifestamente tanto piacere. Nelle opere d'immaginazione, come nelle Cronache, il ri(1) MARC BLocH : « La società feudale », pubblicato, nella traduzione di Bianca Maria Cremonesi, dall'editore Giulio Einaudi, nel 1949. (2) HARTMANN vo:-: Au"f. : « Gregorius VI )>, 1547 - 1653.


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tratto del buon Cavaliere insiste- soprattutto sulle sue doti atletiche: esso è «ossuto», <<membruto», il corpo (e ben tagliato» e segnato di onorevoli cicatrici, le spalle larghe, e larga parimenti - come si addice ad un Cavaliere - la « inforcatura >'. E, poichè tale vigore deve essere alimentato, esso è dotato di un robusto appetito, che è anch'esso il segno distintivo del prode. cc Un corpo agile e muscoloso - ·è quasi superfluo dir.lo - non era peraltro sufficiente a fare il Cavaliere ideale: ad esso egli doveva unire il coraggio. Ed anche perchè forniva a questa virtù l'occasione di manifestarsi, la guerra suscitava tanta allegrezza nel cuore di uomini per i quali l'audacia e il disprezzo della morte erano, in certo modo, valori professionali. Certamente, la prodezza non escludeva sempre il ricorso alle astuzie àei primitivi. Che tuttavia la classe cavalleresca sapesse battersi, la Storia lo riconosce al pari della leggenda. Il suo indiscutibile eroismo si nutriva di molti elementi diversi, avvicendantisi a volta a volta: semplice distensione fisica di un essere sano; furore disperato (persino il saggio Olivier, quando si sente « ferito a morte n, mena terribili colpi solo per « vendicarsi a sazietà )>); devozione ad un Capo o , quando si tratta della guerra santa, ad una Causa; amore <lella gloria, personale o collettiva; accettazione fatali.stìca del destino, di. cui la letteratura non offre esempi più struggenti di alcuni tra gli ultimi canti del Niebeltmgenlied; speranza. nelle ricompense dell'altro mondo, assicurate, non solo a chi muoia per il proprio Dio, ma anche a chi muoia per il proprio signore. « Avvezzo a non temere il pericolo, il Cavaliere trovava nella guerra un'altra attrattiva: quella d'un rimedio contro la noia. Infatti, per quegli uomini, la cui cultura rimase a lungo rudimentale, e che - fatta eccezione per alcuni grandi Baroni ed il loro ambiente non erano presi da gravose cure amministrative, la vita d'ogni giorno cadeva facilmente in una grigia monotonia. Ne nasceva una brama di distrazioni che, quando non trovava alimento sufficiente nel suolo natale, cercava appagamento in terre lontane. Guglielmo il Conquistatore, uso ad esigere dai propri Vassalli un ·servizio scrupoloso, diceva di uno di essi, di cui aveva confiscato il feudo per punirlo di aver osato partire, senza la sua .autorizzazione, per la Crociata di Spagna : Non credo che si possa incontrare, sotto le armi, miglior Cavaliere di lui ; ma è incostante, prodigo e passa il suo tempo a vagabondare di terra in terra >> ( 1 ). (1). 0RDERIC VIDAL: «

Histoirc ecclésiasùque », cd. Le Prcvost, t. III, a. 248.


7 « Quei Cavalieri erranti aiutarono in Spagna i Cristiani indigeni a strappare all'Islàm la parte settentrionale della penisola; crearono nell'Italia meridionale gli Stati normanni; si arruolarono, prima ancora della prima Crociata, come mercenari al servizio di Bisanzio, sulle vie dell'Oriente; trovarono infine nella conquista e nella difesa del sepolcro di Cristo il loro campo d'azione preferito .. In Spagna od in Siria, la guerra santa non offriva pur sempre l'attrazione di un'avventura ed insieme di un'opera pia? « Non c'è bisogno di menare una vita dura nel più severo tra gli Ordini - cantava un trovatore - con fatti che danno onore, sfuggire in pari tempo all'inferno; c'è forse di meglio?» (1). Tali migrazioni contribuirono a mantenere i legami tra mondi separati da lunghe distanze e da vivi contrasti e propagarono, al di là dei suoi confini, la civiltà occidentale. 1< In pari tempo, i salassi così praticati nei più turbolenti gruppi dell'Occidente risparmiarono alla sua civiltà di perire soffocata nelle guerriglie. I cronisti ben sapevano .che sempre, alla partenza d'una Crociata, i vecchi paesi, ritrovando un po' di pace, respiravano meglio » (2).

Data la divisione degli uomini in nobili ed innobili, in aristocrazia e plebe e la preminenza in ogni impresa guerresca dei Cavalieri, mancando la concezione del <e popolo » nel senso romano, le Fanterie non potevano non decadere, visto che la società feudale riconosceva soltanto i Cavalieri come combattenti e limitava in modo così avvilente i compiti dei Fanti. Con l'adozione delle leggi militari dei barbari, e più ancora col feudalismo importato dai Franchi, la Fanteria decadde pcrchè era decaduto il popolo, avulso dalla vita politica e reso servo, rimasto ignorante, oppresso dai pochi eletti, che accentravano nelle loro mani ogni potere politico, economico, sociale. Dove non c'erano masse di popolo evolute e partecipanti alla vita pubblica, non potevano esistere Fanterie capaci e degne di costituire una particolare Arma nella battaglia. Ma, quando, verso il 1200, coi Comuni italiani tornarono in onore le libertà civiche ed il sentimento dell'amor patrio, ·, (1) EIU>MANN : « Die Eot-stehung des Kreuzzu~gedanken.», Stuttgart, 1935,

PP· 312-13. (2) BLOCH, op. cit.


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le F anterie risorsero ed iniziarono la loro lenta, ma sicura ascesa, per riacquistare gradatamente la maggiore importanza fra le altre Armi, come ai tempi di Roma. Tale resurrezione non poteva certo aver luogo durante il feudalismo poichè allora, come vedremo, la Fanteria era rappresentata soltanto dai servi dei Cavalieri; servi ai quali raramente si permetteva d 'intervenire nel combattimento, salvo che per cercare di colpire i cavalli dei Cavalieri nemici, per finire i feriti e per sacchegg iare il campo di battaglia. Tuttavia, a rendere possibile ed in certo modo a facilitare il sorgere delle Fanterie comunali, nei primi secoli del medioevo cominciò, per la riluttanza dei nobili a vivere negli abitati, a determinarsi una crescente differenza fra l'ambiente rurale, tutto dominato dai Cavalieri, e quello che si andò deter minando nei Comuni che, ancor memori dei Municipi romani, con il formarsi del ceto commerciale e dell'artigianato, cominciarono, come vedremo meglio in seguito, a far sperare tempi migliori per la dignità umana ed anche per il prestigio della Fanteria. La guerra aveva le sue pause, ma anche nei tempi di pace la d::sst c:;n·a!kresra si distingueva dalk .altre e mentre, anche ~econdo Fra Salimbene da Parma, i Comuni erano popolati di borghesi e di artigiani, i nobili se ne stavano nelle loro terre e lasciavano che le città m ercantiii annoverassero entro le loro mura, come classe dominante, soltanto gli uomini divenuti r icchi ed importanti con la mercatur..1 o con l'attività delle banche. Può anche dirsi che a poro a poco la nobiltà rimase estranea alla vita delle popolazioni urbane, visto che tutto contribuiva a respingerla verso la campagna. L 'abitudine, sempre più diffusa, di compensare i vassalli con feudi rurali; l'indebolimento degli obblighi feudali, la tendenza a vivere lontano dal Re, dai grandi Baroni e dai Vescovi signori delle città cd, infine, la riluttanza delle stesse borghesie urbane ad ammettere nelle loro comunità clementi estranei ai loro lavori ed ai loro interessi, contribuirono a completare questo graduale processo di separazione, per il quale l'ambiente rurale rimase diviso da quello urbano e si determinò col tempo, se non un urbanesimo quale possiàmo immaginarlo ai giorni nostri, una certa attrazione eserçitata sulle classi minori dal secondo sul primo. Anche per questo i Cavalieri, ad indurre i loro seguaci a seguirli per la guerra anche in luoghi molto lontani, si sentirono a poco a poco costretti a concedere premi sempre maggiori e perfino a far


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loro sperare la ricchezza dal saccheggio dei luoghi e dal riscatto dei prigionieri. In proposito, Mare Bloch, nell'opera già citata, scrisse bene a ragione: « La cura del suo prestigio e del suo beninteso interesse comandava al Barone di non risparmiare i suoi doveri verso i Vassalli, a lui legati dai più rigorosi <loveri del servizio. Se voleva trattenere in armi gli uomini del feudo al di là del tempo fissato, condurli più lontano ed ottenere da loro più di quanto il costume, divenuto vieppiù rigoroso, sembrasse permettere, doveva raddoppiare di liberalità ... ». 1< Ma, tra i doni del Capo, il più bello sembrava certamente il permesso di far bottino.' Tale era anche il principale profitto che, nelle guerricciole locali, il Cavaliere, combattente per sè soìo, sperava di trarre dai combattimenti. Certo la legge cristiana non permetteva più di ridurre in schiavitù i prigionieri: tutt'al più, talvolta si trapiantavano a forza contadini od artigiani. Per contro, il riscatto era universalmente diffuso e dava luogo talvolta a conseguenze ben più gravi dell'antica schiavitù. « Dopo una battaglia, Girad de Roussi llon ed i suoi massacrarono la folla oscura dei prigionieri e dei feriti, risparmi:rndo solt:rnto i "possessori di castelli", i soli capaci di riscattarsi con denaro son:mtc » . Quanto al saccheggio, esso era, per tradizione, una fonte di guadagno così comunemente riconosciuta, , he perfino i contratti e gli stessi testi giuridici n e fanno m enzione. Pesanti carri, destinati al trasporto del bottino, seguivano, infatti, gli eserciti. << Ma la cosa più grave era che una serie di transizioni, qu:isi insensibili per anime tanto semplici, conduceva dalle forme quasi legittime di tali violenze (requisizioni indispensabili ad eserciti privi dei servizi d 'intendenza, rappresaglie esercitate contro il nemico od i suoi sudditi) sino al brigantaggio vero e proprio, brutale e meschino. « Costumi simili presupponevano, è evidente, un grande disprezzo della vita e delle soffrn:nze umane. La guerra dell'età feudale imponeva, del resto, usanze assai crudeli, quali il massacro o la mutilazione delle guarnigioni che avevano resistito troppo a lungo. Essa implicava anche la devastazione delle terre nemiche e l'incendio degli abitati ». Queste crudeìissime usanze, per le quali, nell'accanimento delle frequentissime lotte, venivano completamente dimenticate le norme del diritto feciale romano, contribuivano anch'esse a far negare ogni prestigio alle Fanterie anche nel campo morale ed a farle considerare


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come feroci accolte di masnadieri, insofferenti della disciplina, dedite alla strage ed alla violenza e quindi incapaci di offrire nelle battaglie un efficace, disciplinato contributo di impeto o di resistenza, bramose soltanto di saccheggiare il campo di battaglia e di procurarsi, col bottino, una qual certa ricchezza. Il che dimostra ancora una volta che non vi possono essere Fanterie efficienti, se esse non hanno la possibilità di trarre le loro virtù dai sentimenti e dagli ideali, che uniscono i singoli alle collettività, delle quali fanno parte.


11.

LE ISTITUZIONI DEI LONGOBARDI

Contro le successive ondate dei barbari, accorsi sulle rovine dell'Impero romano d'Occidente (Unni, Goti dell'Est, Goti dell'Ovest, Vandali ecc.), soltanto <lopo la morte di Lodovico (526 d. C.) e la contemporanea ascesa al trono di Bisanzio di Giustiniano, l'Impero d'Oriente tentò di difendere il retaggio di Roma con la guerra vandalica e la guerra gotica. Partendo dalla Sicilia - come narra sinteticamente Giuseppe Mori (r) - e giovandosi di um schiacciante superiorità navale, le Armate di Giustiniano, guidate da Belisario, rioccuparono facilmente l'odierna Tunisia, spingendosi ad ovest lungo il litorale africano ed a nord in Sardegna ed in Corsica (534 - 553). Dopo queste prime vittorie, Giustiniano iniziò la guerra gotica (536-555). Belisario dalla Sicilia giunse dapprima a Napoli. I Goti deposero T eodato ed elessero Re Vitige, che si ritirò a Ravenna. Belisario potè occupare Roma e poi spingersi fino a Ravenna ; ma venne richiamato a Costantinopoli per gelosie di Corte (540), mentre il nuovo Re goto Baduila, detto Totila (« illustre >t), rioccupava facilmente l'Italia ed a nulla valeva una nuova spedizione di Belisario che, al comando di forze troppo scarse, finiva per ritirarsi volontariamente. . Decise poi la guerra, con forze sufficienti, il nuovo generale bizantino Narsete, il quale, provenendo dalla Dalmazia, potè vincere ed uccidere successivamente, a Tagina ed a Nocera, i .Re goti Totila e Teia, respingendo poi un tentativo di invasione degli Alemanni e dei Franchi nella valle del Po. Occupata così l'Italia, Giustiniano la riordinò con la « Prammatica sanzione», dividendola in Ducati, governati da Duces e da (1) MoRr : <dtincra >,.


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Comites greci, i quali, come i funzionari delle Provincie, dipende\"ano direttamente dall'Imperatore di Bisanzio. Questi era rappresentato da un Esarca, risiedente a Ravenna; mentre cresceva sempre più l'autorità dei Vescovi, riconosciuta dagli Imperatori, e specialmente:: quella del Papa. A malgrado delle vittorie di Belisario e di Narsete, Giustiniano non riusd però a riaffermare validamente l'autorità dell'Impero nell'Occidente. Infatti il potere bizantino non uscì dalla cerchia delle Alpi e, mentre Bisanzio doveva difendere le sue frontiere balcaniche dai Bulgari e dagli A vari, già si affacciavano sulle Alpi orientali i Longobardi, e l'Italia, cui era stata tolta ogni autonomia ed ogni tradizionale prestigio, non era in grado di opporre, nè con le armi, nè con gli animi, una valida resistenza. Non si può certo ·parlare di Fanterie <, italiane>) durante le prime invasioni barbariche che sconvolsero la nostra Patria, perchè tali invasioni, pur provocando diverse situazioni politiche nei confronti di Bisanzio - incapace a ristabilire l'unità spirituale e materiale dell'Impero - e dei barbari, non ebbero modo, nè capacità di instaurare duraturi e tipici ambienti politico-sociali; ma soltanto organizzazioni territoriali pow ònrevoli. C.osl i Goti, gE Eruli, i Vandali ed anche i Greco-Bizantini lasciarono tracce anche notevoli del loro passaggio; ma non seppero creare nulla che potesse resistere ai secoli ed influire in modo manifesto sullo spirito delle genti italiche. Essi passarono nella nostra Storia come accolte di guerrieri accampati successivamente nel nostro suolo; ma incapaci di trasformare in sedi stabili i loro accampamenti. E' probabile che, ·durante il successivo passaggio di tanti armati diversi, anche gli Italiani abbiano .finito col partecipare alle loro imprese, probabilmente sotto la spinta di interessi personali e di convenienze locali; ma pochi o molti che siano stati, essi non stabilirono nel nostro Paese gli usi miìitari dei barbari. Per conseguenza, lo stuciio e l'analisi degli ordin:tmcnti e delle .imprese degli invasori san:bbero volti, per lo storico militare, alle istituzioni di altri popoli e non già del nostro. .

Per trovare qualche elemento di vita militare italiana, sia pure derivante da quella dei barbari, bisogna arrivare alla dominazione dei Longobardi, che esercitarono un più durevole influsso sugli ahi-


13 tanti latini, immessi per forza nel loro ordinamento statale. E', infatti, ben nota l'importanza storica, sociale, giuridica ed economica del dominio longobardo, durato, nell'Italia' settentrionale e centrale, dal 568 al 774, per ben 2o6 anni, durante i quali i dominatori infusero nuovo vigore nella razza latina e lasciarono su di essa, secondo

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L'Italia sotto i Longobardi.

una loro etica politico-sociale, una notevole impronta, dimostrata da manifestazioni di indubbio valore : quali l'accettazione di alcuni principi dell'antico diritto romano, il primo ordinamento della vita italiana medioevale, la bonifica di quella vasta plaga della valle padana, che oggi è la ricca e fertile Lombardia. E se tanto i Longobardi poterono compiere nei diversi campi dell'attività umana, sembra logico


ritenere che essi dovettero esercitare un notevole influsso anche sugli ordinamenti militari, se è vero che, in quei tempi fierissimi, la pace rimaneva sempre precaria tra il continuo fragore delle armi, dovuto al sovrapporsi delle genti dirette in Italia ed in Spagna, con lo scopo, lontano ed ideale, di succedere a Roma nel dominio del mondo e con quello immediato di trovarvi sedi più ricche e più accoglienti rispetto a quelle abbandonate nelle brumose terre del settentrione. Appunto per le continue guerre - come ricorda il Ricotti « il pericolo del conquistare e l'ansia del mantenere frammezw a cento popoli agguerriti e commossi da uguali necessità aveano indotto i Longobardi a restringere sotto forma militare le antiche loro polit iche istituzioni. La creazione di un Re ' sovra tutti i Capi avea reso più viva l'obbedienza, più sicuro l'eseguirnento delle imprese. Quella forma militare portarono quindi in Italia e stabilirono ; e la difficoltà delle proprie condizioni somministrando motivi di sempre più amarla e riverirla, ancor 75 anni dopo la conquista, non con altro nome che di esercitali od arimanni venivan chiamati nelle leggi i liberi Longobardi, e scettro del Re era un'asta, e la struttura della nazione, ancorchè già sparsa dalle Alpi al Volturno, continuava ad essere quale d'un grande esercito accan,pato. « Rotari, chiamato al trono nell'anno 636, procacciò fermezza al Regno fondato da Alboino, cresciuto da Autari e da Clefi, acquistato alla fede cattolica dalla Regina Teodolinda, riunendo le sparse leggi e consuetudini in un Codice scritto. Liutprando, Rachis ed Astoìfo v1 aggiunsero quelle che l'inoltrar della civiltà ne' loro popoli suggeriva. <( All'età di 1 2 anni ogni libero Longobardo diventava capo di fara o famiglia e partecipe, come arimanno, di tutti i diritti del cittadino. Sopra una decina di famiglie (componevano eglino le decine di 12 unità; le centinaia ,d 'altrettante di quelle decine e cosl avanti) comandava un decano; sopra 12 decanie uno sculdascio; sopra 12 sculdascie, o mille settecenventotto fare, il Duca; su tutti il Re. Di ciascuna fara l'arimanno era capo e giudice nelle liti, che dentro vi nascessero; poi veniva ii tribunale del decano; quindi, secondo la gravezza e qualità de' casi, quello dello sculdascio, del Duca, del Re. Questi giudicavano coll'avviso di 12 sacramentali, eletti nella nazione ad accertare il fatto. « Del resto, in pace e in guerra, nel tumulto delle battaglie, nelle agitazioni ò'un processo criminale o d'una lite civile, gli stessi Capi eran sempre; quindi la disciplina militare sosteneva la rive-


renza al magistrato e questa quella. In conseguenza, giudkare chia• mavasi il reggere una provincia, sia in guerra, sia in pace; giudici tutti i pubblici magistrati, specialmente i supremi dipendenti dal Re: giudicarie i loro distretti. Per la sua famiglia l'arimanno, per la sua decania il decano ed altrimeriti lo sculdascio e il Duca stava garante appo il suo Capo e dava rriallevaria. Donne, servi, minori di 12 anni eran come cose; de' vinti Romani non appar traccia negli ordini militari; ma sembra che, ammollitasi cogli anni la ferocia de' conquistatori, i rimasti liberi non fossero alla fine disdegnati affatto nelle fazioni di guerra » ( 1).

Come si rileva: dall'Editto di Rotari e dai periodi del Ricotti più sopra citati, per quanto l'ordinamento feudale vero e proprio si debba attribuire ai Franchi, non mancava presso i Longobardi, nell'esercizio della giustizia e nell'organizzazione militare, una gerarchia, che aveva già qualche punto di contatto col feudalismo e che, quasi diremmo, ne doveva preparare l'avvento. Ma, come vedremo, per quanto riguarda le istituzioni militari, la legislazione longobarda, oltre a preludere all'avvenire, ricorda anche efficacemente il passato, tanto che, nella diversa ripartizione degli obblighi militari a seconda del censo, le leggi richiamano la riforma di Servio Tullio e rispondono senza dubbio alle medesime necessità. Presso i Longobardi l'obbligo del servizio militare era esteso a tutti i cittadini, compresi i Vescovi (2) ed esclusi soltanto gli schiavi, i quali, del resto, non erano molto numerosi, poichè venivano impiegati soltanto nei servizi domestici e nella coltivazione delle terre. Il servizio militare veniva quindi considerato, anche presso i Longobardi come già nell'antica Roma, non soltanto un dovere; (x) Dal c. 9. L. VI delle leggi di Liutprando, tlate cinquant'anni innanzi alla rovina dello Stato, si ha che e1erçitllle era il' minimo grado della persona libera ... si minimt1 · f'"sona, qui cxercitalis n<>mo .eJSe ;nvenitur . .. Da qui parrebbe lecito concludere che, almeno in que! tempo, ogni uomo libero era esercitale. (2) L'obbligo di militare, esteso anche ai Vescovi presso i Longobardi, vime affermato dalla risposta data da Cado Magno a coloro che gli proponevano di dispensare i Vescovi dal servizio militare. Il Re dei Franchi negò, infatti, tale dispensa, citando l'esempio dei Galli, degli Spagnoli e dei Longobardi.


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ma anche un diritto spettante ad ogni libero cittadino od anman no (r). In tempo di guerra ogni Duca, come poi col feudalismo, doveva condurre a rafforzare l'esercito del Re tutti g\i uomini liberi dipendenti e poteva lasciarne presso la sua sede soltanto 16, dei quali 6 provvisti di cavallo. Ogni sculdascio poteva lasciare alla sede soltanto 8 uomini, dei quali 3 montati. Gli altri dovevano contribuire a rafforzare l'esercito: i più ricchi fomiti di un'armatura completa ·~ ~ ··· e del cavallo a loro spese; i meno abbienti obbligati a l'?rtare solta?to la l~ncia _e '· ' scudo, nonche un semplice ronzmo; 1 pm poveri costretti ad armarsi soltanto dello scudo, dell'arco, del turcasso e delle frecce. Gli uomini impegnati nell.e operazioni mili.tari dovevano considerarsi esenti da ogni preoccupazione e non potevano essere perseguiti per de.biti. T ale esenzione s'iniziava dodici giorni prima e durava fino a dodici gionu <lopo le operazioni miiitari. Per le liti che potevano accendersi durante le operazioni, esse venivano giudicate dagli stessi Capi militari, ai quali spettava di stabilire A.-mi longobarde. le pene anche per coloro che m ancassero ai doveri dell'obbedienza e della disciplina. Nelle leggi di Aistulfo e nello stesso Editto di Rotari viene prevista, ad esempio, un'ammenda di dodici soldi per aver disobbedito al Duca o per non essersi prontamente presentato a montare di guardia. Per coloro che si ribellavano, tradivano od abbandonavano il combattimento, veniva prevista la pena di morte. Particolare menzione merita, pre:.so i Longobardi, il diritto di faida, diritto che, secondo il Ricotti, contribuiva ad alimentare la naturale fierezza del pof-010 e ad incoraggiare l'uso delle armi . Tl diritto di faida o di vendetta, di evidente origine germanica, veniva esteso fino alla settima generazione e finiva per affidare ai privati, e non già allo Stato, la tutela dei diritti dei cittadini. Il suo tsercizio porta va a ricambiare un'ingiuria ricevuta ingiustamente ed

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( 1) Questo concetto viene affermato e costa ntemente ripetuto nelle leggi di Liutprando, di Rachis e di Aistulfo.


17 era considerato come un obbligo ereditario. Sembra, infatti, che, presso i Longobardi, le donne venissero escluse da ogni eredità perchè comunemente inadatte ad esercitare il diritto di faida. Per questa prescrizione, in mancanza di un erede maschio, l'eredità veniva devoluta al Re. Le leggi longobarde attribuivano molta importanza anche alla difesa dei confini, attraversare i quali era quasi impossibile, senza una speciale autorizzazione del Re, autorizzazione repùtata indispensabile anche per inviare qualche messaggio a persone appartenenti ai popoli finitimi. · Come abbiamo già detto, il f eudalismo venne stabilito in Italia dai Franchi; ma tracce evidenti di un ordinamento feudale si trovano anche nelle leggi e nelle consuetudini dei Longobardi, presso i più potenti dei quali, come il Re, i Duchi, i principali magistrati, secondo rancica consuetudine germanica, stava sempre un'accolta di compagni e di dipendenti, detti gasindi maggiori e minori ed ai quali r< compagni d'ogni suo pericolo, ministri d'ogni suo Elmo longobal'do. volere » il signore ripartiva gli uffici. Il Re sceglieva tra essi i Duchi, i messi, il marescalco, lo scudiero, il maggiordomo. I Duchi più potenti affidavano ai gasindi minori, col titolo' di Conte, il governo di una parte del territorio loro assegnato, visto che la prestazione dei Conti veniva compensata, non più con uno stipendio, ma con il godimento dei beni, godimento che non era trasmissibile ai discendenti. Intanto, col procedere della conquista della penisola da parte <lei Longobardi, si diffondeva in Italia l'impiego della Cavalleria, a malgrado che anche presso i Germanici antichi, come ci ricorda Tacito, la Fanteria fosse stata l'Arma principale degli eserciti. Ma, .scesi in Italia con una grande quantità di cani e di cavalli, essi, per i buoni pascoli, poterono moltiplicare il numero dei loro quadrupedi, il cui uso, anche per la necessità di coltivare con poche braccia enormi spazi di terreno, venne a diffondersi e passò ben presto dal3


18 l'agricoltura alla milizia. Ogni libero che possedesse un cavallo fu, infatti, chiamato a militare con esso. Questa riforma - scrive il Ricotti - « moltiplicò per così dire le forze dello Stato; chè grandi distanze potcronsi valicare in picciol tempo; e ad ogni pericolo fu presto un esercito. Laonde la milizia a piè non fu più fornita che da' poveri e abbietti e alcune spedizioni cominciarono a chiamar cavalcate, e cavalcare l'andare in guerra».

Così riassunta la parte sostanziale delle disposizioni legislative di Rotari, possiamo concludere: - che quella dei Longobardi fu una organizzazione sociale a base militare, propria dei popoli guerrieri e dei tempi di guerra continua, che fece della milizia un dovere ed un diritto per qualunque libero cittadino, escludendone soltanto coloro che erano pdvi dei diritti civili; - che gli abitanti del paese, prima tassativamente esclusi, furono a poco a poco chiamati a far parte di tale organizzazione ed ammessi a militare come tutti gli aÌtri. Concependo il loro dominio in Italia come definitivo, i Longobardi, per calcolo e per forza di CO$e, cercarono di fondersi sempre più coi migliori elementi; così che anche i dominati progressivamente entrarono nell'ordine di idee dei dominatori, agevolando il reciproco compenetrarsi delle due diverse civiltà. Ma, anche riconosciuto tale inevitabile fenomeno storico, dovrà trascorrere un lungo periodo prima del risorgere delle Fanterie barbarico-latine, le quali, proprio nei secoli VI e VII, videro farsi sempre più grave la loro decadenza, specie nei confronti della Cavalleria. Le concezioni militari e le leggi per la guerra dei Longobardi, qualora vengano ben considerate, non possono dirsi ancora « feudali», perchè in esse stava saldo il principio che il servire in guerra fosse obbligo di tutti, saìvo a partecipare aìle imprese beìliche in diversi modi, a seconda delle risorse economiche di ciascuno; con la conseguenza di far militare nella Fanteria i più poveri, i meno armati cd equipaggiati, capaci di distinguersi sui campi di battaglia. Quando, dopo 2o6 anni, i Longobardi furono sostituiti dai Franchi, il feudalismo ebbe il suo vero ordinamento da Carlo Magno, il quale importò in Italia le leggi militari vigenti presso il suo popolo. Reputiamo opportuno, circa le condizioni della nostra Italia sotto i Longobardi e quindi sotto il dominio dei Franchi, riportare le con-


siderazioni sulla società feudale in Italia di Mare Bloch, il cui volume, già citato, fa parte della biblioteca di sintesi storica diretta da Henri Berr. « Sotto i Longobardi, i compagni d'armi, almeno intorno ai Re, ai Duchi, ai Principi Capi, portavano il nome germanico comune di gasindi. Molti di essi ricevevano terre: salvo, del resto, a dover restituirle al Capo, come accadeva quasi sempre, quando non gli prestassero più obbedienza. Infatti, conforme alle consuetudini che troviamo dovunque all'origine di questo genere di rapporti, il legame non aveva allora nulla di indissolubile; al libero Longobardo, purchè non uscisse dal Regno, la legge riconosceva espressamente il diritto di « andarsene con la sua famiglia ove volesse >i . Tuttavia, la nozione di una categoria giuridica di beni speciali per la rimunerazione dei servigi sembra non si sia chiaramente delineata prima dell'assorbimento dello Stato longobardo nello Stato carolingio (fine del secolo VIII). Il « beneficio, » fu in Italia d'importazione franca. Ben presto si preferì dire <(feudo ». Ma, sin dalla fine del secolo IX, il gallofranco vassallo si sostituiva a poco a poco a gasindus, ridotto al significato, più stretto, di seguace d'armi non accasato. Non soltanto Ìa crisi sociale provocata da guerre <li conquista, n-011 solo le a111Lizioni dell'aristocrazia immigrata, padrona delle alte cariche, avevano portato con sè la moltiplicazione dei patronati di qualsiasi specie. Ma la palitica carolingia, su entrambi i versanti delle Alpi, regolarizzò ed insieme estese il sistema inizialmente poco rigido delle dipendenze personali e fondiarie. Se, in tutta l'Europa, l'alta Italia fu senza dubbio il paese in cui il regime del vassallaggio e del feudo si avvicinò maggiormente a quello della Francia vera e propria, la ragione va cercata nel fatto che, nei due paesi, le condizioni prime erano pressochè simili: all3: base un substrato sociale del medesimo tipo, in cui le abitudini della clientela romana si mescolavano alle tradizioni della Germania ; e, lavorante tale impasto, l'opera organizzatrice dei primi Carolingi. « Tuttavia, su questa terra dove mai s'interruppero nè l'attività legislativa, nè l'insegnamento giuridico, il diritto feudale e vassallatico doveva, assai presto, cessare dì essere costituito, come lo fu a lungo in Francia, solo da un insieme alquanto· fluido di precetti tradizionali o giurisprudenziali, quasi esclusivamente orali. Intorno alle ordinanze promulgate in materia, dopo il 1037, dai Sovrani del Regno d'Italia - di fatto Re germanici - sorse tutta una letteratura tecnica che, accanto al commentario a queste leggi, si mise a descri-


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vere e< i buoni costumi delle Corti ». I principaii frammenti furono, com'è noto, raccolti nella famosa compilazione dei « Libri Feudorum », dai quali si rivela come il vincolo di vassallaggio venisse riconosciuto mediante I'« omaggio» e spesso col semplice giuramento di fedeltà ». Ci siamo indugiati un po' troppo ed abbiamo voluto citare anche i giudizi di altri studiosi sulle istituzioni politiche e militari dei Longobardi, specialmente per dimostrare che, in quell'ambiente, la Fanteria non poteva certo risorgere e tornare al posto di onore, già degnamente occupato negii eserciti di Roma. La divisione del nostro territorio in Marche e Ducati, già iniziata dai Bizantini, si era affermata coi Longobardi e diventerà ancora più generale con l'ordinamento feudale dei Franchi. La continuità e l'ingrandirsi di questo fenomeno dimostra che esso rispondeva all'impossibilità di accentrare nelle mani del Sovrano tutti i poteri, trattandosi di uno Stato di recente formazione e diviso in Provincie lontane e diverse per istituzioni e costumi, ed alla necessità di suddividerne il territorio in molte piccole parti, perchè in ciascuna di queste fosse meno difficile provvedere all'apertura delle strade, ai dishosQmenti ed alla bonifica delle paludi, per accrescerne le possibilità produttive. Queste esigenze; di natura squisitamente economica, imponevano: - il decentramento dell'autorità regia fra i Duchi, Conti, Baroni e vassalli, ai quali il Re concedeva, prima in beneficio e poi in feudo, una parte del territorio dello Stato; - la costituzione di eserciti formati quasi esclusivamente di Cavalieri; - la conseguente decadenza dell'arte militare; - l'impossibilità della Fanteria ~i affermarsi come Arma capace di offrire, sul campo di battaglia, un valido contributo per la vittoria. Queste condizioni non miglioreranno, come vedremo, sotto il dominio dei Franchi, i quali, anzi, toglieranno ai meno abbienti quella possibilità di militare che i Longobardi avevano già concessa a tutti gli uomini liberi.


lii.

LE ISTITUZIONI POLITICO-MI LIT ARI DEI FRANCHI I Longobardi furono .sostituiti in Italia dai Franchi che, sotto la guida di Carlo Magno, nella seconda metà del secolo VIII passarono il Reno 'e penetrarono in Francia, amalgamandosi con gli abitanti, già in precedenza latinizzati dai Romani. lvi contennero e respinsero l'invasione araba risalente dalla Spagna e lentamente ridussero sotto il loro dominio la Francia, i Pirenei e l'Italia. A buon diritto Carlo Magno sperò di potere ricostruire l'Impero romano d'Occidente, che proclamò risorto nell'8oo, col nome di « Sacro Romano Impero l> (Sacro, perchè il sovrano aveva accettato senza riserve il Cristianesimo e riconosciuto l'autorità religiosa dei Papi; Romano perchè altro non voleva essere che la continuazione della gloriosa t radizione politica di Roma, attuata però con metodi e mentalità germaniche). Con l'arrivo dei Franchi in Italia, anche nella RCnisola si adottò l'organizzazione politico-militare feudale, per la quale l'Imperatore, (teoricamente elettivo, ma praticamente ereditario di alcune famiglie dinastiche tedesche: i Carolingi, gli Hohenstaufen, gli Svevi... sino agli Ahsburgo), avendo la sua sede in Aquisgrana, a cavallo tra la Francia e la Germania, e non potendo efficacemente accentrare il governo dei suoi vasti ed eterogenei domini, doveva esercitare il potere con elementi di sua fiducia, scelti fra i compagni (Comites e quindi Conti ,>). A questi veniva affidato il governo politico amministrativo e militare di vasti territori, che furono detti «feudi ». I Conti dovevano però seguire la politica imperiale, pagare all'Impero i tributi in relazione con le rendite del feudo, e tenersi sempre pronti, personalmente e con tutti i loro familiari, dipenden ti e servi, con uomini, armi e cavalli, a combattere secondo gli ordini imperiali. I diversi gradi dei feudatari formarono una specie di gerarchia, nella quale erano primi i « grandi elettori », cioè coloro che di volta in volta avrebbero dovuto eleggere l'Imperatore, scegliendolo fra gli (<


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uomini del loro· grado gerarchico e fra i quali alcuni, svincolandosi metodicamente dai legami con l'Impero, divennero poi i Sovrani degli Stati nazionali europei. Venivano dopo i Conti - detti p iù propriamente Marchesi quan· do avevano affidato una Marca, cioè un feudo posto lungo le frontiere dell'Impero - ; Conti e Marchesi, che potevano a loro volta ripartire il territorio loro assegnato fra i feudatari minori detti e( Baroni ii, << vassalli >l e « valvassori ». Dato che i proventi dei feudi erano allora d'origine quasi esclusivamente agricola, ne conseguì che i feudatari maggiori e minori preferirono dimorare nel le campagne, chiusi nei loro muniti castelli, per potere meglio tutelare i loro interessi materiali. Per conseguenza, le città, già fiorenti, decaddero e, perchè dì scarso reddito economico, finirono con l'essere affidate dall'Imperatore come feudo ai rispettivi Vescovi; da] che dovevano poi avere origine, quando le città credettero di potersi sottrarre al giogo ed al controllo imperiali, le libertà comunal-i.

Il decentramento del potere politico portò ad un analogo fenomeno nelle istituzioni militari, basate sui seguenti principì. Ogni suddilo doveva servire in guerra, tranne nei casi d'incapacità fisica e di indegnità morale. La guerra e la relativa mobilitazione erano indette mediante pubblici bandi, a seguito dei quali ciascun valvassore o vassallo si portava di persona, con gli uomini sottoposti, le armi ed i cavalli, presso il Conte da cui dipendeva gerarchicamente. Il Conte riuniv:i tutti sotto il suo comando e li guidava alla guerra, secondo gli ordini imperiali. A cavallo militavano i feudatari tutti, perciò detti nobili e Cavalieri, mentre a piedi servivano e combatte1:ano i servi, gli uomini del contado ed in genere tutta la popolazione meno abbiente. Per conseguenza, spirilualmente e tecnicamente le battaglie medioevali furono essenzialmente lotte di Cavalieri contro Cavalieri. Anche le città dovevano concorrere alla guerra, inviando i loro uomini agli ordini di un rappresentante del Vescovo, detto Advocatus. I bandi prescrivevano, inoltre, quale e quanta gente dovesse restare nelle terre feudali, a guardia dei castelli, delle famiglie, delle donne, dei beni e pei lavori agricoli ; fissavano le pene per i renitenti .c. per i disertori, le multe per le mancate prestazioni ecc.. Leggi e


consuetudini di carattere permanente prescrivevano norme di massima, ch'ebbero valore in tutte le guerre feudali e pc.-r le quali, dal possesSI) territoriale dei feudi, sul quale si basava il sistema feudale, derivava per i feudatari l'obbligo della difesa tutte le volte che il feudo venisse minacciato da un pericolo qualsiasi. Tale obbligo era, conseguentemente, anche un privilegio.

L'Italia al tempo dei Franchi.

La riunione di elementi così eterogenei non poteva costituire secondo il Maravigna (1) - un esercito capace di operare con armonia di sforzi. Senza alcun vincolo di solidarietà, i vari gruppi di armati, spesso nemici fra di loro, non erano suscettibili di sopportare legami (1)

MARAVIGNA:

« Storia dell'arte militare moderna », parte V, volume I.


disciplinari, nè di piegarsi alle privazioni che la guerra imponeva. D'altra parte, la durata variabile dell'obbligo del servizio portava a continue variazioni di forza nell'esercito e, paichè i più potenti, che erano anche i migliori, erano i primi ad abbandonare il campo astrazione fatta dal desiderio di avere l'occasione di mettere in evidenza il loro valore, - così : nè il Sovrano, nè i signori avevano interesse a prolungare le operazioni; ma erano spinti a venire, nel più breve tempo possibile, all'urto decisivo. •< Per conseguenza, la condotta delle operazioni si limitava alla battaglia, che veniva ricercata senza concetti strategici o provvidenze logistiche e nella quale i combattenti serbavano fede allo. spfrito cavalleresco feudale, che pretendeva di combattere, seguendo, anche nella guerra, le stesse regole dei tornei. La battaglia si scomponeva, infatti, in una serie di duelli individuali. I Cavalieri, gelosissimi del loro personale prestigio, non avrebbero mai tollerato uno scagliona~ mento del loro impiego nel tempo e nello spazio. Sotto questo punto di vista, essi, a qualsiasi rango appartenessero, proclamavano l'assoluta eguaglianza e perciò la battaglia di Cavalieri si presentava come un incontro contemporaneo di un grande numero di duellanti, disposti uno accanto all'altro e sulla stessa linea (a -:iepi-). Ai p<>doni, spettatori della battaglia, non incombeva altro compito che quello di sgozzare i Cavalieri caduti da cavallo, o di tentare, con arpioni, di tirarli giù di sella. « Infine, mancando nella battaglia la concatenazione degli sforzi, non vi era bisogno del funzionamento di un Comando ; il comandante in capo dell'esercito, fosse esso Sovrano o semplice feudatario, non era che il primo fra tutti i Cavalieri e, come tale, combatteva insieme ai compagni d'arme )> .

Le considerazioni che abbiamo riportato dall'opera del Maravigna confermano pienamente quanto, in proposito, aveva già scritto il Ricotti, per il quale, r.onsiderato sotto l'aspetto politico, il feudalismo << collo spartire la società in un'infinità di classi, creava incertezza ed ineguaglianza di leggi, privilegi, ecc. L'autonomia politica di tanti individui limitava soverchiamente l'autorità giudiziaria e legislativa del Sovrano, al quale gli ordinamenti civili e militari del feudalismo toglievano la possihilità d'esercitare alcuna autorità stabile ed importante entro lo Stato e nessun potere regolare fuori di


esso. Primo effetto dell'ordinamento feudale doveva essere, naturalmente, che i nobili si adoperassero a fiaccare in ogni maniera la potenza dei Re, alfine di assicurare alle proprie famiglie il possesso dei feudi. Nel tempo stesso, se il feudalismo impedì in Occidente le troppo grandi conquiste e il dominio dispotico delle monarchie orientali, pose per gran tempo ostacolo allo stabilimento di forti sovranità, non valse a fondar l'ordine legale, e l'unico diritto politico che sapesse far valere fu quello della resistenza. E perciò le due forze motrici dell'ordine e della libertà, la monarchia e il popolo furono in lotta incessante col feudalismo. (< Si entrava in posses~o del feudo con l'omaggio , il giuramento di fedeltà e l'investitura. Colui che doveva esserne investito si metteva in ginocchio, a testa scoperta, davanti al concessore del feudo e, poste le sue mani in quelle di lui, giurava di essere suo uom o (omaggio) e di tenergli fede dei possessi che riceveva ; quindi, stesa la mano su un libro sacro, giurava fedeltà. Il Signore gli dava l'investitura, consegnandogli una gleba, un ramo d' albero, per indicare il diritto d'usufrutto sul podere ; un'asta, una spada, una bandiera o un altro simbolo qualunque, per indicare la giurisdizione sugli uomi11i del podere. ~lla sua volta egli pure giurava di proteggerlo contro i suoi avversar!. « Il principale dovere d'ogni Vassallo di fronte al suo Signore era quello di seguirlo in guerra con un numero d'uomini determinato e per un tempo variabile, che poteva andare dal min imo di un giorno al massimo di sessanta, ma doveva ancora aiutarlo a pagare il riscatto, qualora fosse caduto prigioniero ; in una parola non doveva risparmiare nè i suoi averi, nè la sua persona per salvarlo da ogni pericolo e da ogni vergogna. << Le principali occupazioni dei Signori erano la guerra, la caccia, gli esercizi cavallereschi ed i tornei. Gli esercizi cavallereschi consistevano generalmente nella gualdana, nella giostra, nel passo d'arme e nel carosello. Nella gualdana si riuniva il fiore dei giovani di una terra, scorrendone armati le strade, fingendo battaglie e armeggiando nell'andare incontro a Principi od a nobili Signori. La giostra era il combattimento di due Cavalieri muniti di armi cortesi (asta broccata· in punta d'un tassello, spade smussate), intenti a far mostra di bei colpi e di sapienti parate. Passo d'arme era la sfida che uno o più Cavalieri bandivano contro chiunque volesse passare armato per un certo luogo, dove gli sfidatori tenevano il campo in


nome d'una dama. Nel carosello si rappresentava una corsa di carri a cavalli o le gesta di antichi eroi e famosi paladini. << I tornei si bandivano per lo più in occasione di feste ecclesiastiche e civili, d'incoronazioni, di battesimi e matrimoni di Principi, di trattati di pace. I Cavalieri si misuravano in campo chiuso colla spada, colla rotella, colla mazza ferrata ed assai spesso il sangue correva sull'arena. Il torneo era l'immagine e la scuola della guerra. L'avversario, precipitato di sella, era fatto prigioniero e, per riavere la libertà, doveva pagare il riscatto al vincitore, il quale era già andato in possesso delle armi e del cavallo del vinto )). Essendo, come già si è detto, lo stato di guerra quasi permanente, i feudatari non vivevano nelle poche e squallide città o nei villaggi, ma nei loro castelli, dimora e fortezza ad un tempo, che difficilmente si riusciva a superare, dati gli scarsi mezzi di espugnazione che allora si conoscevano: la scalata ed il blocco. I castelli venivano ordinariamente costruiti sulle cime delle rocce più scoscese e consistevano in un enorme e massiccio edificio, cinto da più ordini di alte e robuste mura, che si dominavano successivamente (1). Intorno al castello era scavato un profondo fosso che non si poteva transitare che per mezzo di un por.te levatoio. Questo, nel mc.me.nto del pericolo, veniva sollevato mediante catene, così che il vano della porta d'accesso, già difeso da una pesante grata di ferro chiamata saracinesca, veniva completamente ostruito dal tavolato del ponte. L'entrata era altresì difesa' da due torri laterali o da un torrione sovrastante, chiamato mastio. Cortine e torri per la difesa .fiancheggiante erano munite ,di merli (2), di bertesche sporgenti (3) e di caditoie (4) per rovesciare (1) A cominciare dall'XI secolo i castelli vennero costruiti in pietra o mattoni, anzi che in terra e legno, come si usava prima. Il parapetto e la palizzata, che ricordavano l'antico campo trincerato romano, fecero posto ad un'alta e grossa muraglia o cortina, sulla sommità della quale potevano liberamente camminare e combatt<'re i difensori (cammino di ronda). (2) Lungo il muro di cinta e sulle piattaforme delle torri venivano eretti, ad intervalli regolari, <lei rialti quadrangolari di pietra, chiamati merli, dietro i quali i combattenti potevano scagliare le loro frecce attraverso lunghe e strette aperture p raticate nel merlo stesso (feritoie od arciere). (3) Specie di garitte per combattere il nemico con archi e balestre. (4) Consistevano in un parapetto, il quale, anzi che poggiare direttamente sul ciglio del muro o della piattaforma, sporgeva in fuori, sost<:nuto esterna· mente da mensole. Sul piano inferiore di questa galleria venivano praticate delle aperture chiamate caditoie o piombatoie. Le conobbero e le importarono in Europa i Cristiani reduci dalle Crociate.


sugli assalitori, giunti ai piedi del muro, acqua ed olio bollente, pece infiammata o piombo fuso. Le difese accessorie consistevano ordinariamente in triboli o pallottole di ferro irte di punte, che si disseminavano sul fondo del fossato o sugli spalti erbosi adiacenti al castello per ferire uomini e cavalli. Qualora si fosse giunti a conquistare la

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j Spade e lance dei Franchi,

cerchia delle m ura, il Signore coi suoi difensori trovava ancora un ultimo rifugio nella rocca centrale. Una portella metteva in comunicazione l'interno del castello col di fuori: ordinariamente una galleria faceva capo ad una via sotterranea, la quale andava a· sboccare lontano, nella pianura od in una foresta. La milizia feudale si componeva specialmente di Cavalleria. Proclamato l'eribanno, il vassallo maggiore corivocava tutti i valvassori suoi dipendenti e questi, alla lor volta, i loro; e tutti venivano a schierarsi sotto la bandiera del Principe, ripartiti sotto i loro Capi


naturali. Oltre a queste milizie, ogni feudatario aveva armati dipendenti e stipendiati da lui, che costituivano, per così dire, la sua forza personale. Erano questi quegli arimanni inferiori o loro dipendenti che, rimasti legati al ser_vizio personale del loro Signore, formavano la schiera (scara), destinata a difendere il Signore ed il suo castello. Inoltre i poderi del feudatario erano divisi in tanti piccoli poderi, detti mansi, che i coloni coltivavano, pagandone al Signore parte dei frutti" e rimanendo legati al loro m aIJSo; tan to che i poderi potevano essere venduti e comprati insieme ai rispettivi coloni. O gni feuda~ tario, foss' egli Conte o Barone od ufficiale regio od avvocato di un convento, per accrescere le proprie forze, sceglieva i più prestanti tra questi coloni, li emancipava, li addestrava alle arm i e ne formava la suil m asnada.

Ma è bene dare qualche altro particolare sulle caratteristiche delle istituzioni militari feudali, che predominarono in Europa ed in Italia dal secolo VIII fino a quando gli eserciti feudali non vennero sostituiti daik prime milizie comunaìi e non r iw rn::ro Ìc F.u1i.cric. Ogni suddito dovev?,Servire durante la guerra, alla quale veniva chiamato dal bando regio od eribanno e nella 1.1uale doveva seguire, se vassallo, il proprio Signore; se uomo della C hiesa, ì'avvocato; se dipendente, il centuriont" del distreuo. Il Con te riuniva i diversi elementi sotto il suo comando e li guidava al campo, dove a l.u i spettava, rispetto ai suoi sudditi, anche il diritto di giudicare. Gli uomini delle classi più modeste, oltre alla spada ed alla mezza spada, dovevano portare la lancia, lo scudo, il turcasso con I2 saette, l'arco con due ;;orde ed i viveri per alcuni giorni. Chi godeva speciali benefici o possedeva qualche tenuta, doveva portare anche l'elmo e la corazza. Quelli che non potevano provvedere alle spese necessarie. univano, secondo ia volontà del Co nte, ie loro comribuzioni per armare i parten~i. I pii:i poveri restavano in riserva, a custodire il paese. L'obbligo di obbedire all'eribanno durava fino a 40 notti dopo il ritorno dalle operazioni di guerra ed erano previste le più gravi pene per chi non si presentasse o lasciasse l'esercito prima del momento prescritto. Le pene andavano dalla morte alla confisca dei beni, alla perdita di ogni beneficio, all'obbligo di (< portare, lJ. cospetto del cam_po, ~e laici, un cane od una sella ; se chierici, un libro >i .


Per gli altri sudditi erano previste diverse pene e multe proporzionate ai beni mobili dei colpevoli; pene e multe che vennero awnentate sempre più, man mano che cresceva il numero dei renitenti, fino ad essere aggravate con l'esilio e la confisca dei beni immobili. Nel ·caso che la guerra si fosse conclusa con la sconfitta e con . l'occupazione del territorio da parte del nemico, i renitenti potevano essere condannati a morte. I messi del Re, detti eribannatori, riscuotevano le multe in danaro ed anche in armi, cavalli e buoi. I Conti percepivano un terzo delle multe inflitte ai loro dipendenti; ma erano obbligati essi stessi a pagare una multa per ciascuno dei loro uomini che si assentasse arbitraria men te. Due o tre Vescovi disarmati potevano seguire l'esercito, per dedicarsi alle necessità del culto e, con i Franchi, gli altri prelati sarebbero stati, secondo !e prime leggi di Carlo Magno, considerati esenti dal servizio. Ma, in realtà, secondo la consuetudine, anche gli uomini della Chiesa si sèntivano chiamati a difendere i loro beni e, per conseguenza, anche i Vescovi e gli abaù si armavano e partecipavano alle operazioni, guidando gli uomini delle terre avute in beneficio .:!:tlla pietà dei privati o dallo stesso Re. L'esercito era seguito dai commercianti di armi. Per le operazioni, i coloni della Corona dovevano fornire i carri ; quelli dei vasM1lli i buoi, gli uomini del paese paglia e fieno. Le Abbazie ed i monasteri dovevano dare, come donativi annuali, armi e cavalli. Molte di queste prescrizioni vengono ricordate nel bando di guerra di Ludovico II, contro i Saraceni ; bando del quaìe reputiamo opportuno pubblicare il testo : « Chi ha del suo mobile l'intero guidrigild (prezzo della composizione richiesta per la morte di un uomo), vada ali' esercito ; chi non l' ha, s'unisca ad altri per mandarvi un terzo ; chi possiede il val sante di dicci soldi, custodisca il paese e la marina ; chi possiede meno, Ji nulla venga richiesto. Del padre e del figliuolo il più abile parta, l'altro rimanga; di due o più figli, il men valido resti a casa col genitore. Così, pel caso di tre o più fratelli indivisi; di due non già, ma partano entrambi. Solo il Conte e niun altri, quand'anche Vescovo, lasci a casa tre uomini, uno a guardia del sito e due con la moglie. Al contravventore sian tolte per sempre terre e case. Contravvenendovi il Conte, perda, oltre gli averi, l'onore; contravvenendovi i ministri di lui, vengano spogliati degli averi e del ministerio. Sieno in ciascuna provincia deputati messi regii, laici ed ecde-


siastici, a punire i ritrosi, munir le terre e ritenervi a guardia le popolazioni, anche nel caso che non si facesse la guerra. , t Quelli dei nostri Vassalli, dei Vescovi, degli abati e delle badesse che, essendo impediti da malattia, non ci mandassero a far le scuse insieme col novero d'uomini prescritto, scadran dall'onore; e i loro Vassalli dagli averi e dal beneficio. Qualunque Vescovo rimarrassi per negligenza, avrà in pena di stare alla custodia de' confini, finattantochè non vi torni l'esercito. E perchè vogliamo certissimamente compier questa spedizione, intendiamo che i Conti e i Vassalli in persona, i prelati per mano de' loro messi giurino che, sr mancarono, mancarono per vera infermità. •< Abbia ognuno vesti per un anno, viveri per fino alle messi. Privata vendetta, guasto di chiese, incendio, adulterio , omicidio sian casi di morte, in questi giorni prossimi alla santa quadragesima. I ladri, se liberi, paghino il triplo prezzo della sostanza rubata, portino sul dorso la sella e stien in prigione a ncstro arbitrio; se servi, sian tosati, flagellati e il furto venga emendato dal padrone. Il Signore, che trascurasse punire il Vassallo dei danni che questi avesse arrecato, emendi del proprio e porti la sella. Le vittovaglie comprinsì nel camm ino a ~kna n ... .:ont;i ntc, come in ttmpo di p:ice, tra vicino e vicino. ,1 Prenderem viaggio coll' esercito italico per Ravenna, sicchè si giunga nel marzo alle rive del fiume Pescara. Que' di Toscana cogli altri d'oltrevia, per la strada di Roma, Pon tecor vo, Capua e Benevento, ci si faranno incontro a Lucera )) .

•< Se, al primo sguardo, la genuchia militare dei Franchi appare - scrisse il Ricotti - più complicata di quella dei Longobardi; se un avvocato o un Signore vi guidano parte di quelle genti, che già capitanava lo sculdascio e il Duca; se Vesco vi e abati vi primeggiano come duci di esercito; se vi è già rotta l'alta massima fondamentale, dover cioè tutti i liberi ugualmente conco rrere alla milizia e sottomettersi a eguali leggi e Capi; la causa ne è riposta in ciò, che un nuovo potere o principio si è oramai frapposto fra il Principe e i sudditi, talchè quegli già più non comanda, questi non obbediscono che per l' intermezzo di u n Vassallo. La parola di beneficio, mutata più tardi in quella di feudo, ignota sotto ·i Longobardi, compare la prima volta in Italia nelle leggi e nei diplomi dei Carolingi. Prodotto di corrotta barbarie, avviamento a lontana civiltà, andava compresa


in quel vocabolo una 1st1tuzione, le cui radici esistevano certo sotto Longobardi, ma nascoste e inoperose; e così sarebbero rimaste chi sa per quanto tempo, se la conquista dei Franchi non avesse affrettato il germoglio e la crescenz a della pianta fatale. « L'essenza originale della feudalità fu la disunione e lo spopolamento. Dove l'azione del Governo è forte e rigogliosa, facili le comunicazioni, fiorente l'agricoltura, proporzionate le sorti degli abitanti, il Governo da se medesimo, pel naturale istinto della propria conservazione, studia a pareggiare- i sudditi in un eguale obbedire. V'ha un Capo, v'hanno sotto di lui degli officiali; sonvi infine degli amministratori e degli amministrati, non de' padroni e de' sudditi. Rivolgansi al contrario quelle condizioni: abbiasi un grande Stato rotto in Provincie lontane, disfarmi di costumi, d 'instituziom, di suolo ; pochi abitanti, alcune città e piccole, un po' d i còlto intorno ad esse, poi vasti deserti, paludi e selve; parte della po1X>lazione nemica o sospetta all a restante ; questa conquistatrice con grandi brame e insolenze, l'altra conquistata con molto terrore e miserie: uno Stato simiie non si potrà tenere che dividendolo in parti, assegnando q ueste parti a uomini che le reggano cd usufruttino per proprio conto, sotto certe kggi generali, e ne rendano al Governo detcr:-n ::-:::ri ,:: , vigi e tributi. Spogliasi così il Principe del pensiero e dell a facoltà di migliorare quelle Provincie staccate e di trarne maggior frutto (pregio proprio d'ogni buon reggimento); ma non è men vero che bandisce eziandio da sè il sospetto di perderle affatto e si assicura un 'entrata precisa di servigi e denaro »1


IV.

LE FANTERIE NEGLI ESERCITI FEUDALI E NELLE CROCIA TE Quanto è stato già detto è servito a dare un'idea, abbastanza chiara e completa, degli eserciti feudali. Procuriamo ora di precisare quali potessero essere, in taii eserciti, ì'dficienza e i'importanza delle Fanterie. Abbiamo già ricordato come i Franchi, venuti in Italia, vi fossero divenuti proprietari dei fe udi in modo che, nonostante la Fanteria avesse rappresentato il nerbo degli eserciti anche presso i popoli germanici , la gerarchia militare feudale venne rappresentata da una aristocrazia terriera; e, sia per la maggior comodità che offriva il militare a caval!o, coTI~entendolo le ricchezze :!cquisite; sia per la necessità di dover controllare e difendere il proprio feudo, con frequenti rapidi spostamenti da un capo all'altro di esso, tutti i feudatari furono Cavalieri. Per conseguenza, la Cavalleria, divenuta assai più numerosa e comprendendo la classe più elevata, più importante e meglio armata dei dominatori, aumentò il suo prestigio ~ costituì l'Arma principale del l'esercito. La Fanteria, invece, composta soltanto dei poveri, decadde perchè l'obbligo ed il diritto militare non derivava più, come presw i Longobardi, dalla qualità d' uomo libero, ma dal possesso di un feudo, possesso che permetteva l'uso in guerra del cavallo, nonchè delle armi difensive, come lo scudo e la corazza e di qudk offensive, come la spada e la lancia. La Fanteria dogli eserciti feudali veniva dunque composta dalla massa dei servi dei Cavalieri, servi che furono detti Fanti: così che la parola latina Peditatus, tanto gloriosa, venne sostituita da quella <li Fanteria, condotta in guerra al seguito dei Cavalieri e composta generalmente dai contadini (abitanti del contado, ossia del territorio dato in feudo al Conte), nel numero prescritto dagli eribanni e dalle consuetudini. Fra queste masse si distinguevano:


33 - le schiere (scare): sorta di polizia militare stipendiata dai Conti e dai vassalli e destinata al servizio personale dei Signori, di carattere professionale e permanente; - le masnade: accolte di coloni, scelti dal feudatario fra i più idonei alla vita militare ed addestrati all'uso delle armi fin dal tempo di pace. T ali accolte vennero dette masnade, da Ma11so, che significava appunto colonia, ossia terreno dato a coltivazione, tenendo però presente che allora, per la servitù della gleba, i coloni erano permanentemente addetti ad un terreno e con questo comperati o venduti come cose. I migliori coloni fecero perciò parte delle m asnade e fu. rono detti masnadieri per acquistare la qualità di uomini liberi ; - le milizie delle città: quando le città, per i loro obblighi feudali, erano tenute a fornire contingenti per la guerra, ag li ordini degli « avvocati i> scelti dai Vescovi, costituirono particolari milizie che, pur senza assurgere a storica rinomanza, furono sempre migliori delle scare e delle masnade, perchè costituite da uomini di meno basso livello intellettuale e meglio preparate dalle autorità comunali. Da esse ebbero senza dubbio origine quelle milizie comunali, destinate poi ad acguìHare tanta gloria nella nostra Storia. L a Fanterì:. fe u~hle, u,slÌluila, <.umc si è dt:tto, dailc:: ~ci1ierc:: e dalle masnade, era composta di uomini senza disciplina, riuniti insieme in reparti senza ordine, ed armati in cento modi diversi : d'arco , J i balestra, ài picca , di lancia, di aiabarda, di partigiana, di spuntone, di spiedo, di m azza e di fionda. I Cavalieri scherniv:ino f)l l<:'St t' Fanterie coi più spregevoli nomi, considerandole soltanto capaci di saccheggiare, poichè, incaricate più che altro dei servizi del campo, esse prendevano parte alle battaglie: sia per iniziare la pugna, sia per finire il nemico e predare i luoghi conqui.stati dopo la vittoria. Durante il combattimento, se un Cavaliere veniva atterrato, i Fanti accorrevano per r imetterlo in arcione ed a volte formavano quadrati, nei quali i Cavalieri feriti e stanchi dalla lotta potessero trovare un temporaneo riposo. Fra quesci Fanti acquistarono speciaìe rinomanza gli arcieri inglesi e, fra gli Italiani, i balestrieri genovesi. I Signori, legati all'idea imperiale dal tornaconto personale, combattendo per l'Impero, tutelavano i loro interessi materiali ; il diffuso senso della Cavalleria, che con le armi intendeva difendere l'idea religiosa, la donna, l'Impero ed, in genere, ogni persona debole, esaltava in essi le qualità spirituali; mentre le cacce, i tornei, gli esercizi cavallereschi li tenevano permanentemente allenati nell'uso delle armi. Le gualdane, le giostre, i passi d'arme, i caroselli, allora 4


34 freguentissimi, obbligavano, infatti, i Cavalieri ad esercitarsi continuamente. Per conseguenza, mentre la Cavalleria portava in guerra una netta superiorità di fattori spirituali e materiali ; nonchè i risultati di un appassionato addestramento, i Fanti, che non avevano interessi ideali da difendere, odiavano la ·guerra e di questa ignoravano le cause e gli scopi; nè disponevano di un'accurata preparazione militare; nè potevano apprezzare i benefici influssi dello spirito di emulazione, visto che la semplice e primitiva tattica feudale non poteva offrire alle masse dei Fanti alcuna occasione per distinguersi. In conseguenza di quanto abbiamo già detto, se la Storia politica militare trova, anche nel medioevo, ampia materia di studio, tale materia d iminuisce e quasi manca del tutto <}Uando si voglia limitare l'esame delle istituzion i e degli avvenimenti alle sole Fanterie feudali, poichè mai s' ebbe a registrare un evento be11ico, fosse pure di secondaria importanza, nel quale le Fanterie avessero prevalso, durante il fcudali~mo, sulla Cavalleria, o avessero deciso le sorti di una battaglia, od avessero c:ompiuto gesta memorabili, sotto l'urgere di generosi impulsi d 'amor patrio o di altri nobili sentimenti, o si fossero infine rfatintc per m etodo cd ordine nel ccmbattirnt'.r.to. Si scorrano pure le molte pagine della Storia che si riferiscono, ad esempio, alla lotta per la Corona imperiale (888 - 964), alle conquiste dei Norm anni in lLalia (ro16- 1192), alle guerre per le investiture e perfino alla lunga lotta contro gli Arabi in Spagna, nelle molte battaglie combattute non si troverà alcun episodio che possa veramente costituire un' azione da ricordarsi particolarmente: sia nei riguardi delle F anterie in genere; sia e più specialmente nei riguardi delle Fanterie fraliane. Soltanto coi liberi Comuni italici la Fanteria ritorna capace di far sentire la sua forza, di decidere le sorti di qualche giornata, di dimostrare una certa consapevolezza degli scopi per i quali combatteva.

Le guerre del periodo feudale. Le principali guerre, che si svolsero durante questo complesso periodo storico, furono dovute a diversi motivi. Fra esse particolarmente ricordiamo: - le guerre d'Italia e di Germania per la Corona reale e imperiale che, cominciate alla caduta di Carlo il Grosso (888), dura-


35 rono fino alla deposizione di Berengario II per opera di Ottone il Grande (~4); - la lotta dei Normanni per la conquista dell' Italia meridionale (1016- 1192), conquista che segnò l'inizio, specialmente in Sicilia, di un'epoca di prosperità e di progresso; - le guerre per la investitura dei benefid ecclesiastici, tra i Papi e gli Imperatori, in Germania ed in Italia, terminate col concordato di Worms (n22). Nel medesimo tempo, fuori d'Italia, si svolgevano le seguenti guerre: - quella dei Cristia_ni spagnoli contro gli Arabi invasori; - quella dei Conti di Parigi contro i discendenti dei Caroiingi (887-987); - la lotta dei Normanni per la conquista dell'Inghilterra; - la guerra dei cento anni (II54- 1242), combattuta contro l'Inghilterra cd i grandi Signori feudali francesi dai Capetingi, la cui politica mirava all'unificazione del Reame. Enrico Plantageneto, Re d'Inghilterra e nel tempo stesso vassallo del Re di Francia per i suoi feudi d'Aquitania, Anjon e Normandia, trasse alla ·sua Causa, oltre i Conti di Boulogne e di Fiandra, :mche l'Imperatore di G':'.rmania Ottone IV (prima grande coalizione europea); ·- quelle dell'Impero bizantino contro i Normanni, contro i Bulgari> contro gli Arabi e contro i Turchi Selgiucidi (secoli IX, X e

XI). Oltre alle guerre suddette, si svolsero, nello stesso periodo, anche

k Crociate, le quali indubbiamente influirono nel migliorare le condizioni delle Fanterie medioevali.

Le Crociate. Come è noto, le Crociate furono spedizioni militari organizzate ed effettuatè allo scopo di liberare in Gerusalemme il Sepolcro di Cristo. In queste spedizioni, o per lo meno nelle prime, Francesi, Tedeschi, Italiani rappresentarono il popolo cristiano senza distinzioni nazionali e vennero in diretto contatto con l'Impero greco-bizantino e col mondo orientale islamitico. Per tale motivo le Crociate acquistarono una considerevole influenza sullo sviluppo della civiltà e del commercio e, sotto il punto dì vista militare, dimostrarono l' importanza della logistica.


Le cause politiche e religiose di esse furono l'arrivo e l'insediarsi in Asia Minore dei Turchi Sclgiucidi, che avevano conqmstato la Palestina con i luoghi di Tcrrasanta. Essi, già da tempo convertiti all'Islamismo, si dimostrarono più intolleranti degli stessi Arabi, che li avevano preceduti, nei confronti dei Cristiani e dei pellegrini, che affluivano a Gerusalemme da ogni parte del mondo. Essi spinsero

Partenz11 di Amedeo lii di Savoia per la Il Cnxiata.

la loro intolleranza sino a rendere -praticamente impossibile ogni accesso alla Palestina; mentre non nascosero il loro desiderio di passare gli Stretti dell'Ellesponto per venire anch'essi a contatto con la civiltà europea. Mentre l'Impero di Bisanzio, già duramente provato con la perdita Jell'Asia Minore a<l opera prinia <legli Arabi e poi <lei T urchi.. si rivolgeva, pel tramite del Pontefice, ai monarchi cattolici d'Europa, invocando il loro concorso, .i popoli europei, impressionati dalla triste sorte toccata ai luoghi che avevano conosciuto la passione del Cristo, promossero le spedizioni dei Cristiani in Palestina, allo scopo di liberarvi i Luoghi Santi. I patimenti dei fedeli e le profanazioni dei T urchi furono descritti col fervore dell'ispirata parola specialmente da un povero piccardo, chiamato Pier l'Eremita, che percorse l'Italia e la Francia


37 (10~)3-95), indossando il saio del penitente, convinto di aver avuto dal cielo la missione di liberare la Terra Santa dagli infedeli. Il Papa Urbano II, in un Concilio tenuto a Piacenza (marzo del 1095) ed in un altro convocato a Clermont d'Alvernia (novembre 1095), descritta l'oppressione dei Cristiani in Palestina, incitò popoli e PrinciP.i a vendicare i fratelli, confermando con l'autorità sua la predicazione del pellegrino. Unanime eruppe dalla moltitudine il grido di Dio lo vuole e lo entusiasmo per l'impresa trovò consenzienti tutte le classi sociali: uomini della Chiesa, Principi, feudatari, commercianti, popolani, servi della gleba, avventurieri e banditi. Oltre alla fede religiosa ed alla necessità di arrestare le conquiste e le invasioni dei Mussulmani, contribuirono, infatti, a rendere possibili le Crociate, anche lo spirito d'avventura, il desiderio di conquista, il bisogno di sottrarsi alle angustie degli ordini feudali e di t:manciparsi dalla servitù ; nonchè, per i commercianti, la speranza di assicurarsi lauti guadagni. Alcune Crociate furono promosse da Papi e da Sovrani, anche per liberare la Cristianità e l'Europa dai pericoli minacciati dai Mus~ulma.ni che dall'Oriente t: dalla Spagna . tendevanv ~.::mpi.:. più apertamente alle regioni europee. Come abbiamo già accennato, anche le Crociate concorsero in qualche modo a risollevare ìa Fanteria, visto che vi presero parte molti combattenti a piedi e che molti Cavalieri furono costretti, negli assalti alle città fortificate, a combattere come pedoni. Le Crociate furono otto. La prima e la quarta furono promosse, organizzate e condotte da Signori. feudali; le altre sei da Pontefici e da Sovrani. Noi ci limiteremo a dare, di ciascuna di esse, soltanto qualche sintetica notizia, riserbandoci di metterne in rilievo l'influsso diretto ed indiretto sul lento risorgere delle Fanterie. I C ROCIATA (1096 - rn99). - Pontefice Urbano II. Condottieri: Goffredo di Buglione Duca di Lorena, Baldovino di Fiandra, suo fratello, Ugo di Vermandois e Raimondo di Tolosa. Vi parteciparono dall'Italia anche il normanno Boemondo, figlio di Roberto il Guiscardo, e Tancredi, suo nipote. I fatti principali furono la battaglia di Dorilea (1° luglio ro~, l'assedio di Antiochia, l'assedio e l'espugnazione di Gerusalemme. Ne derivò il Regno di Gerusalemme, ordinato a monarchia feudale, con Goffredo di Buglione quale Sovrano ed i Principati cristiani mi~


nori di Edessa, Antiochia, Tripoli e Tiro, considerati come feudi dd Regno di Gerusalemme.

II CROCIATA (n47-1149). - Pontefice Eugenio III ; predicatore S. Bernardo. Le tristi condizioni dei Principati cristiani d'Oriente, assaliti da ogni parte dai Mussulmani, indussero i Monarchi dì Francia (Luigi VII) e di Germania (Corrado III) ad unire le loro forze per la spedizione; ma questa terminò in un disastro (1140).

III CROCIATA (n89- n92). - Venne provocata dalla presa di Gerusalemme, avvenuta per opera di Saladino, Sultano d'Egitto. Pontefice Clemente III; predicatore Guglielmo Arcivescovo di Tiro. Condottieri: Filippo Augusto Re di Francia, Riccardo Cuor di Leo. ne Re d'Inghilterra, e Federico Barbarossa Imperatore di Germania, il quale ultimo perì annegato in un fiume della Cilicia. Riccardo e Filippo presero S. Giovanni d'Acri; ma Gerusalemme rimase a Saladino. IV CROCIATA (1202 - 1204). ---, Pontefice Innocenzo III ; predicatore Folco di Neuilly. Condottieri: Baldovino IX, Conte di Fiandra, e Bonifacio lI, Marchese di Monferrato. Al momento in cui le truppe stavano per prendere imbarco a Venezia, per venire trasportate in Palestina ed in Egitto, gli alleati, non avendo danaro sufficiente per pagare le spese <li trasporto, si offersero ài espugnare, per conto dei Veneziani, il porto di Zara, da dove, per invito di un figlio del deposto Imperatore bizantino, sì portarono, malgrado le esortazioni, le minacce e le scomuniche dei Pontefice, a Costantinopoli, deve rimisero sul trono il deposto Imperatore. Ma una insurrezione generale dei Greci diede occasione o pretesto ai Latini d'impossessarsi nuovamente della città e di fondare, sulle rovine dell'Impero d'Oriente, un Impero latino che fu diviso tra i vari confederati. Venezia ebbe la Romania, le isole dell' Arcipelago e l'isola di Candia, che comperò dal Marchese di Monferrato. V CROCIATA (1217- 122 1). - Pontefice Onorio IV. Condottieri: Giovanni di Briennc, Re nominale di Gerusalemme, Andrea II, Re d'Ungheria, richiamato subito dopo in patria dalla rivolta dei suoi Baroni. Venne conquistata Damietta, che però fu perduta subito dopo.


39 VI CROCIATA (1228- 1229). - Pontefice Gregorio XI. CondotFederico di Hohenstaufen, il quale, invece dì combattere i Mussulmani, preferì negoziare co n essi, ottenendo l'immunità per i pellegrini che si recavano a Gerusalemme. 1iero:

Enrico Dand olo bandisce ìa IV Croo ata.

VII CROCIATA (1248 - 1 2 54). - Pontefice Innocenzo lV. Condottiero Luigi IX, Re d i Francia. Questa Crociata, che ebbe per obbiettivo l'Egitto, centro di un potente Stato mussulmano, s'iniziò brill;intemente con ìa riconquista di Damietta. Ma i Crociati, colpiti da una terribile pestilenza cd assaliti dai M ussulmani, furono co-


stretti ad arrendersi ed i prigionieri dovettero pagare onerosi riscatti per riacquistare la libertà.

vm CRocB.TA 1268- 1270). - Pontefice Clemente IV. O.rndottjeri Luigi XI ; Carlo d'Angiò, suo fratello ed Edoardo, Principe inglese. Luigi morì di contagio sotto le mura di Tunisi.

Le Crociate ebbero importanti conseguenze in ogni campo. L 'Europa, già scarsamente popolata, vi perdette molti uomini e subì il contagio di gravi epidemie ; ma ne ricavò vantaggi senza dubbio superiori ai danni. Infatti essa ~i scosse dal ietargo nei quale giaceva da sì lungo .tempo e mosse, con nuovo vigore, sulle vie del progresso. Riuscì a ritardare le invasioni mussulmane Ìh modo che, quando, dopo qualche secolo, i Turchi s'impadronirono di Costantinopoli e della penisola balcanica, minacciando l'intera Europa, gli Stati europei erano già consolidati e poterono respingerli. Per conseguenza, si dovette alle Crociate se l'Europa potè rimaCome abbi.amo già accennato, le Crociate contribuirono, inoltre, a conferire una qualche importanza anche alle Fanterie, visto che molti parteciparono alle Crociate quali Fanti e che molti Cavalieri combatterono a piedi. Sotto il punto di vista militare ___, scrisse il Corsi nella sua « Storia militare >> - le C rociate ebbero, non soltanto alcune delle caratteristiche tipiche deila guerra feudale, in quanto vi parteciparono Sovrani, nobili e Cavalieri; ma, almeno all'inizio, anche le caratteristiche delle guerre di massa, per il gran numero di uomini non nobili che vi presero ·p arte anche spontaneamente, ridando vita ed un certo prestigio alle Fanterie. Prestigio che, purtroppo, non potè affermarsi in modo deciso e continuativo, perchè, col ripetersi delle spedizioni, sempre più diffici li e cnientc, sempre minore divenne il numero dei F anti che vi partecipavano volontariamente. Infatti - scrive il Kluger (1) - se nelle prime Crociate si trattò di eserciti di complessa formazione politico-sociale, « multicolore moltitudine, accozzata e tenuta insieme proprio soltanto dal comune interesse, cioè dalla smania che tutti avevano di trionfare dei Selgiu(r) KwcER; ,< Storia delle Crociate"·


cidi : sia allo scopo di conseguire per tal mezzo la somma beatitudine; sia a quello di guadagnare danari e beni, città e possessi », nelle ultime Crociate, invece, si trattò di eserciti in prevalenza mercenario-feudali, dove le Fanterie finirono, purtroppo, col riprendere il loro modestissimo posto. E ciò anche se non m ancarono i pellegrini, che si trasformarono in soldati di ventura, capaci di effettuare stragi , incendi e: saccheggi. I frequenti e lunghi assedi di città e castelli, obbligando :ille lente operazioni ossidionali, costrinsero poi anche i Cavalieri a combattere a piedi, senza, però, che ne derivasse un duraturo aumento del prestigio delle Fanterie, pcrchè, assente ogni criterio organicomilitare, mancò ogni volont?i di consolidare il limitato progresso realizzato, anche per il succedersi di Crociata in Crociata dei comandanti. Numerosissimi furono i combattenti jtaiiani, Capi e gregari, Cavalieri e F anti, che presero parte alìe Crociate (si afferma che, nella ~econda Crociata, essi superassero il numero di 50.000). La quarta Crociata, guidata da Bonifacio I di Monferrato, condotta dalle navi veneziane del vecchio Enrico Dandolo, può dirsi veramen te la Crociata italiana. Con essa venne conquistato alle armi latine l'Impero d1 Bisanzio, fu data Candia a Venezia ed il Regno J; T ts:;alc nica con la Morea .1!10 s~~sso Bonifacio di Mo nfrrr:ito. G li Italiani vi si coprirono di gloria. Ma anche se, specialmente durante gli assed1 e le conq uiste del le città, si videro aumentare il numero e migliorare in qualche modo le qualità dei Fanti, le Crociate non restituirono sui campi di battaglia il primato alle Fanterie ed il nerbo degli eserciti feudali continuò ad essere costituito dalla Cavalleria. La Fanteria, del tutto dimentica delle glorie conseguite nelle guerre di Roma, rimase Arma secondaria ed, in verità, così scadente, da far- rimpiangere perfino le male ordinate e male armate, ma valorose F an terie dei barbari, che contrastarono il primato alla Cavalleria ~ino all'VJII secolo. In proposito, il C:Orsi, nelia sua <, Smria militare » definisce le Fanterie feudali <• torme di villani feroci e vili o di pacifici borghigiani, costretti a g uerra con tro loro voglia, a seguito dei Baroni, degli ufficiali regi , degli avvocati dei conventi, senza disciplina, senza ordine, armati in cento diversi modi >1 . I F anti continuarono a provvedere ai più umili servigi <' a far prede, a custodir le bagaglie, a coprire i fianchi della Cavalleria ed anche, talvolta, :t formar riparo, dietro al quale i Cavalieri affaticati dalla pugna potessero riposarsi ».


Tuttavia l'Inghilterra disponeva allora di bande di ottimi arcieri, già tenuti in grandissimo conto, poichè i loro archi lanciavano a circa 200 metri frecce pericolose per le armature dei Cavalieri· e potevano lanciarne 10 e perfino 12 al minuto, affermandosi preferibili ai bakstrieri, benchè _le balestre avessero una maggiore gittata e potessero conferire alle frecce una maggior forza di penetrazione. Molto stimati, anche prima della battaglia di Crécy ( 1346), furono, come vedremo, anche i balestrieri genovesi. Le Fanterie delle città, ,< meno spregevoli e meno spregiate di quelle del contado, ma anch'esse male armate e male ordinate, furono adoperate dapprima per la sola difesa delle città stesse, o per qualche breve impresa, o per scortare le impedimenta da un luçigo ail'altro, a piccola distanza dalle case ioro ».


V.

I COMUNI E LE REPUBBLICHE MARINARE

Come abbiamo già detto, l'organizzazione feudale dei Franchi aveva finito con l'abbandonare le città ai rispettivi Vescovi, i quali ::ccentrarono nelle loro mani il potere spirituale e quello temporale; mentre i nobili, signori della campagna, per gli obblighi assunti nei 1 iguardi dell'Impero e per le frequenti guerre alle quali tali obblighi li inducevano; nonchè per l'amministrazione dei loro beni derivanti solo dall'agricoltura, dimenticarono le città. In queste si raccolsero gli artigiani dediti alla costruzione di tutto quello che era necessario per la vita e per la guerra e che i signori feudali non potevano produrre direttamente. Dato quanto sopra, la vita cittadina, pur con le sue limitate risorse iniziali, prese particolari aspetti ed, in conseguenza delle attività degli abitanti, i quali, artigiani e dotti umanisti , poveri e commercianti, professionisti e sacerdoti, attraverso lo scambio delle 1dee, 1 contrasti degli interessi materiali e le contese locali, vennero a poco a poco acquistando una maggiore consapevolezza delle loro possibilità, dei loro dìritti, del loro lavoro e sentirono risorgere, sebbene ristretto ancora alla sola città natìa, quel sentimento patrio, dal quale in ogni tempo trasse origine ogni progresso civile. Mentre la nobiltà feudale nelle campagne si contentava dei suoi privilegi, d'altro non curandosi che di armi, di cacce e di guerre e quasi disprezzando ogni arte liberale; mentre gli abitanti del contado, dimenticati dagli uomini e da Dio, vivevano da servi e formavano, come si è già detto, le masnade dei loro Signori, soltanto nelle città si . c~ri,~ . e sj potè conseguire un certo progresso . verso il miglioramento della vita sociale e verso la fusione delle tre diverse civiltà romanica, barbarica e cristiana. Il fattore economico fu, senza dubbio, fra i primi ad infondere nei cittadini il senso d'una risorta dignità personale e ad accendere in essi il desiderio di essere liberi, dapprima economicamente e quin-


44 di anche politicamente. Come feudi dei Vescovi, le città erano tenute, infatti, a pagare tributi e, per conseguenza, dovevano subìre l'interessato controllo delle gerarchie feudali. Il che riuscì possibile finchè le città restarono povere; ma provocò una rassegnazione sempre meno facile, man mano che, con gli aumentati traffici e con la maggiore produzione artigiana, le ricchezze aumentarono, salirono in potenza famiglie cospicue di merc:atanti e di banchieri e si affermarono nelle arù, nelle lettere ed in ogni altra disciplina, uo mini anche di origine modesta. Se i Signori, forti dei loro diritti feudali, vollero partecipare al crescente benessere delle città (1), i cittadini non mancarono di comprendere e di sentire che i risultati conseguiti derivavano unicamente dalla loro attività e che, per non essere spogliati dei loro profitti dall'Irnpcw e Jai Signori, dovevano svincolarsi dai vincoli feudali. Per conseguenza, sorse nei Comuni quasi spontanea l'aspirazione all'indipendenza economica e quindi a quella politica e sociale, aspirazione che trasse vigore d all'amor patrio, dal crescente sentimento di dignità ed anche, a traverso la paziente opera· degli umanisti, dal ricordo di Roma; ricordo che esaltava i vantaggi spirituali e materiali dei liberi regimi e rendeva ancora più grave i l peso delle diocndenze i)(}litìche. stahil ite ~econrln le roncezioni dei barbari e cl{e mal cel;vano il· loro carattere di imposizione del vincitore sul vinto. C()SÌ, anche tra le foschìe dei primi secoli del medioevo, la reazione dei Comuni e della parte migliore delle nostre genti alle istituzioni feudali divenne a poco a poco efficace e vittoriosa, come doveva affermarsi, ..id esempio, . nell'accanita lotta · intrapresa dai Comuni dell'Italia settentrionale contro Feàerico Barbarossa.

I Comuni. Le prime autonomie comunali vennero conseguite intorno al mille e fu notevole il fatto che, dopo oltre due secoli, i Consoli si sostituirono, nelle magistrature comunali, ai Duchi ed ai Gastaldi longobardi ed ai Conti e Marchesi franchi. Il Consolato venne adottato col tempo da quasi tutte le città italiane, nelle quali, nel ricordo delle antiche Coqx1razioni romane, risorse j} lavoro organizzato dalle (,) A questo fatto devesi l'uso di prendere temporanea dimora anche ndle città da parte dei Signori feudali; avviamento ad una unità comunale, che fu

poi regionale ed , infine, nazi onale.


45 Corporazioni di artigiani che, alleate alla borghesia, dedita ai commerci ed all'industria, aumentarono rapidamente la ricchezza dei Comuni più importanti e contribuirono efficacemente anche alla potenza delle nostre Repubbliche marinare. Oltre i Consoli che, eletti dai cittadini, rappresentavano le più alte autorità del potere esecutivo, si ebbero in ogni Comune anche i Consigli di Credenza, assemblee ristrette che, col loro consiglio, concorrevano all'opera di governo dei Consoli, ed il Parlamento, ossia la riunione del popolo, indetta d i volta in volta per decidere sulle più gravi questioni. Ordinamento, questo, che si può considerare fondamentale nelle costituzioni comunali, anche se ven ne effettuato in diversi modi , con notevoli varianti da Comune a Comune, a seconda delle esigenze locali e delle diverse abitudini d i vita (, ). Così Genova, per esempio, verso !a metà del secolo XI (2), aveva : i Consoli del Comu ne:, da tre a sei, i Consoli del Foro, alti m agistrati per l'interpretazione e l'esatta applicazione delle leg gi; i Correttori di leggi (dodici), giureconsulti che preparava no e r edigevano le leggi stesse ; un Senato e le adunate del popolo nell'Arengo. Firenze, invece, nei 1250 aveva: u n Capitano dei popoio, che assumeva tutti i poteri -- aìtrove e prima affidati a due o più Consoli - assistito da un Consiglio di dodici Anziani o Signoda (2 per ogni sestiere della cinà). Oltre all'organizzazione politico ·Stata.le, sorsero· e si af.fern1arono, nei Comuni italiani, anche le Cor porazioni d'arti e m estieri, destinate, senza dubbio, a tutelare gli interessi dei lavora tori ; ma anche ad affermare il principio che ogni cittadino doveva apportare un attivo contributo alla vita comunale; in quanto il non appartenere ad alcuna Corporazione lo privava di importanti di ritti. Ma a nulla avrebbero g iovato tali ordinamenti alle sempre più decise aspirazioni delle città, se no n ne fosse derivata anche u n'azione politica, destinata a rendere più sicura e durevole la loro indipendenza. Per raggiungere tale scopo, i Comuni dovettero destreggiarsi nella grande lotta tra l'Impero ed il Papato; nonchè tra l'Impero ed i grandi Signori feudali, m iran ti a trasformarsi in Sovrani indipendenti di Stati sottratti all'Impero. (I) BERTOLINI: (2) StsMON DO

Moyen Age ».

« Storia del Medioevo in Italia >l . StsMONDI : « Histoire des Républiques italiennes du

DE'


Nell'Italia settentrionale e centrale, i C',0muni si distinsero, come

è noto, in Guelfi e Ghibellini, a seconda che parteggiassero per il Papa e per l'Impero; gli uni che consideravano l'Imperatore straniero come il principale impedimento alla loro libertà ed indipendenza, gli altri che preferivano liberarsi dal controllo pontificio, più vicino e più invadente, accordandosi all'uopo con l'Impero, potente, ma lontano. Nell'Italia meridionale i Comuni facilitarono, invece, il formarsi dello Stato unitario, parteggiando per il Sovrano contro la nobiltà. Peccato che coi Comuni non potè ancora affermarsi il sentimento nazionale e che la loro vita, chiusa fra le mura dell'abitato, contribuì ad abituare gli Italiani a quello spirito di campanile, che tanto doveva influire, purtroppo, nel ritardare l'umtà della nostra Patria. Concorsero a rafforz.ire i Comuni le invasioni dei Saraceni e degli Ungari, che obbligarono le città a cingersi di mura ed a diffondere anche tra gli artigiani l'uso delle armi, ed, ancora più, la lotta fra la Chiesa e l'Impero, durante la quale i due poteri in conflitto ricorsero per aiuti alle città, concedendo in c0mpem0 nuovi privilegi e nuovi domini.

Le Repubbliche marinare. Mentre, nell'Italia settentrionale e centrale, i Comuni aumentaYano sempre più la loro importanza, le nostre gloriose Repubbliche raggiungevano la maggiore pot~nza. Venezia, Genova, Pisa, che avevano visto aumentare il loro prestigio durante le Crociate, prosperavan~, infatti, sempre più, con i traffici ed i commerci; mentre le loro navi riprendevano il dominio del Mediterraneo e congiungevano l'Oriente con l'Occidente, tra sportando in tutta l'Europa merci, materie prime e manufatti. Per quanto riguarda le città marinare, che prosperarono in Italia nei primi secoli del medioevo, riteniamo opportuno riportare quanto scrisse il Giangiacomi (1) sul prestigio e sulla potenza da esse acquistati; prestigio e potenza, per i quali la loro alleanza venne spesso richiesta dai Pontefici e dagli Imperatori. ( 1) Gr.rnc rACOMI: e<Ancona e l'Italia contro il Barbarossa ».


47 E' bene ricordare che, alle nostre Repubbliche marinare e speialmente a Pisa, si deve il primo codice navale, compilato nel n61, dopo quello dei Bodiensi, andato purtroppo perduto.

Pisa. Pisa - ricorda il Giangiacomi - aveva commercio libero con l'Emiro di Bugea, piazza del litorale africano, dalla quale import.iva lane, avorio e cuoiami freschi che, conciati poi a Pisa, veniv.rno esportati in Germania, Austria, Francia, Romania, Africa, insieme alle pellicce, al ferro lavorato ed agli altri prodotti dei Pisani. Questi trasportavano in Egitto legname da costruzioni navali, ferro, pece, catrami ed armi; esercitavano, sulle coste dell'Africa, la pesca ck i coralli, che poi permutavano in Egitto ed in Siria colle spezierie e w n l'allume; importavano grano dalla Tunisia ed a volte si spingevano, per il mar Rosso, fino alle Indie. A Bugea, ad Alessandria ed al Cairo, Pisa disponeva di stahilimenti, depositi, chiese, bagni, fondaci e perfino di un Tribunale. I :;uoi mercanti avevano fo rma tu .ri(.(,h c rnmpagnie di navigazio ne e di commercio, tra le quali erano particolarmente importanti in Asia quelle dei Vermigli e degli Umili che, pur dipendendo sempre da Pisa, potevano perfino far guerre e concludere paci. La più cospicua era la Compagnia degli Umili, costitufra da migliaia di negoz iantig uerrieri pisani, domiciliati a Tripoli, Giaffa, Beirut, Antiochia, S. Giovanni d'Acri. Essa aveva il principale stabilimento a Tiro, dove conveniva tutto lo zucchero dell'Asia ed esistevano fabbriche di vetri e di cristalli. In tutti questi luoghi i Pisani possedevano case, fondaci, logge di mercanti, dogane, navi da carico e da guerra. Essi vi facevano le provviste dei generi di Levante, che poi spedivano in Italia ed in E uropa, mentre recavano agii Asiatici i prodotti itaiìani. In seguito ai successi della flotta pisana (due volte vittoriosa di Saladino) e della Compagnia degli Umili, Corrado di Monferrato confermò ai Pisani le concessioni e le donazioni fatte loro in Tiro da Raimondo, Conte di Tripoli, donando ai Pisani in tutto il Regno case, piazze, forni, m ulini, bagni, giardini, libertà di tribunale (dove potevano essere giudicati soltanto secondo le proprie leggi). Questi benefizii vennero poi estesi, dallo stesso Corrado, anche ai Genovesi ed ai Veneziani: sia in Tiro, sia a S. Giovanni d'Acri, dove i Pisani


ebbero tre Consoli, due giudici ed altrettanti notari e dove i Genovesi, accanto al loro fondaco, eressero una torre. Anche a Costantinopoli, Pisa disponeva di tre scali marittimi, di piazze e di strade; nonchè delle chiese di S. Pietro e di S. Nicolao ed aveva mulini, banchi e negozi ereditati dalla decaduta Repubblica di Amalfi. Costantinopoli, per la sua posizione, era allora il centro del commercio asiatico ed europeo, al quale affluivano i mercanti e le merci dell' Armenia, Media, Siria, Persia, Arabia, Russia, U ngheria, Egitto, Italia, Spagna, ecc. Bagdad era la sola città che potesse competere con Costantinopoli ed in essa i Persiani e gli Arabi portavano cannella, garofani, drappi, droghe, tinte, gomme e perle; gli Ungheri biade; i Russi ed i Tartari pregiate pellicce, gli Armeni ferro. Gii Itaiiani vi erano esenti da dazi. I Pisani fondarono un porto anche nel Mar Nero (Porto Pisano), dove affluiva il commercio dalla Russia, Cìrcassia, Tartarìa ed India. Pisa dominava allora tutto il litorale da Porto V enerc a Civitavecchia e possedeva le isole d"Elba, Pianosa, Giglio, Montecristo, Capraia, Gorgona e la Sardegna. Il suo porto serviva ai commerci di Lucca (infeudata ai Pisani dagli Imperatori, ma, dal II82, alleata) npero~a rii l:: r.ifici e seterie, e di F irenze, co:i !:i quale, il 4 luglio II71 , Pisa concluse un'alleanza di quarant'anni. Oltre che alla conciatura delle pelli, i Pisani si dedicavano anche alle manifatture, le quali avevano preso tale sviluppo, che si era dovuta istituire una magistratura speciale: il << Consolato dell'arte della lana >>. Le materie prime venivano dai porti della Francia meridionale, dove frequenti erano le grandi fiere: come quelle di S. Egidio, Boquera, S. Raffaello e del Frejus, nelle quali i mercanti della Francia andavano a provvedersi di tutte le merci che arrivavano dal mare, a mezzo di navi pisane e genovesi : seterie, cotoni, zucchero, gomme, profumi, drappi di lana, tinture, ecc.. Gli Inglesi recavano in quelle fiere lo slagno, il piombo, l'acciaio, i cuoiami, la lana, che i Pisani ed i Genovesi trasportavano poi in Siria ed in Egitto.

Genova. Genova possedeva, per donazione di Raimondo di Tolosa, Marchese ddla Provenza, l'isola dirimpetto a Tortosa, allo sbocco dell'Ebro, una strada in Arles, fondaci a S. Egidio ed in tutti gli scali


49 <la Arles a Torbia; stabilimenti ed esenzione dai dazi in tutti i porti, da Torbia a Narbona ed a Nizza. Durante le Crociate, nel Regno latino di Gerusalemme, la Repubblica aveva ottenuto ìmportanti possedimenti a Cesarea, ad Assur, .1d Accon,. a Giaffa ed a Gerusalemme, dove, presso l'altare del Santo Sepolcro, le benemerenze di Genova erano state segnate a lettere d'oro fin dal tempo della prima Crociata. Oltre al commercio, prosperava in Genova l'industria delle berrette e dei cappotti per i marinai, non solo d'Italia; ma anche di ,dtre nazioni. Le donne vi lavoravano trine finissime e da Genova partivano per tutta l'Europ;t i più pregiati velluti di seta.

-Venezia. Venezia, le cui navi solcavano tutti i mari e che era già così potente da muovere guerra ai Re, provvedeva al traffico in tutti i porti dell'Italia, ddla Siria e dcli' Arcipelago greco. A Costantinopoli i Veneziani possedevano un'intera contrada ; .m:vano case e fondaci in tutte le provincie limitrofe ed usufruivano dell'esenzione di ogni dazio in tutto l'Impero bizantino. Quando l'arte della seta, decaduta in Grecia, passò in Sicilia, i Veneziani ne svilupparono il commercio, insieme a quello dello zucchero siciliano. Venezia era allora già famosa per ogni genere di manifatture <li vetri e, per proteggere questa sua industria, non soltanto aveva proibito l'esportazione dai suoi Stati dell'allume, del sabbione e degli altri generi necessari alle fabbriche del vetro; ma importava allume dall'Egitto, soda e manganese dalla Toscana, dalla 'Lig.uria e dal Piemonte e p10vvedeva anche ad estrarre la soda dalle erbe delle spiagge della Siria ed il tarso dalle pietre trasportate dal fiume Tesino. Le vetrerie, gli specchi, i cristalli bianchi o colorati venivano esportati in tutta l'alta Italia, in Francia, in Romania, in Siria, in Persia, nell'Egitto e nell'Africa. Da Venezia venivano anche le stoffe laminate d'argento e d'oro per il Levante.

Ma, oltre alle Repubbliche marinare, il cui prest1g10 ed il cui sviluppo commerciale dovevano aumentare durante le Crociate, c'erano anche allora in Italia città illustri e fiorenti. 5


50 Decaduta in Sicilia l'arte della seta, Lucca divenne, ad esempio, la cc capitale dei setifici» ed ebbe navi con propria bandiera. Bologna, Salerno, Bari, Napoli, Milano, Ravenna, Pavia, Firenze acquistarono fama euro}X'a. Milano, posta tra il Po e le Alpi, secondo lo stesso Ottone di Frisinga, zio di Federico Barbarossa, venne stimata << più famosa d'altre città, non pure in ragione di sua maggiore ampiezza e del suo maggior numero d'uomini d'arme; ma sì anche perchè entrano nella giurisdizione sua altre città, _P.<>Stc nella regione medesima, come Como e Lodi ». Firenze, secondo il Giangiacom i, « iniziata che ebbe la sua prosperità nel secolo XII, la sviluppò nel secolo seguente, tanto da occupare, con la sola arte della lana, ben 30.000 lavoratori e da produrre annualmente, con le sue duecento fabbriche, 80.000 pezze di panno, per un valore di un milione e duecentomila fiorini d 'oro ». Oltre alle lane, che Firenze importava da Tunisi, dal Marocco, dal Portogallo, dalla Spagna, dalle Fiandre e dall'Inghilterra, (dove le compagnie :fiorentine dei Ricomanni, !spigliati, Ughi, Iacopo, Mozzi le comperavano dai latifondisti e dalle Abbazie) venivano importati in T oscana JaU 'Inghilterra, dalle Fiand re e dalla Francia anche manufatti cli h n;i, rhr vrnivano tx'i resi più fini e più pregiati a Firenze, che ne traeva enormi vantaggi. Anche Anco na era dedita alla navigazione ed al commercio e disponeva d i fondaci :1 Costantinopoli ( dove gE Anconetani avevano dedicato u11a chiesa a Santo Stefano), in Rumenia ed in Egitto. Essa, capace di resistere all'assedio del Barbarossa, avrebbe avuto senza dubbio una m igliore sorte, senza la rivalità di Venezia.

L' Italia meridionale e la Sicilia. In quanto all'Italia meridionale ed alla Sicilia, dove - come scrisSf' il Ciccaglione - la civiltà romana più si mantenne e per la quale passarono quegli studi giuridici, che dovevano poi affermarsi e divulgarsi a Bologna, Palermo era divenuta, coi Normanni, così ricca e potente, che il mussulmano di Spagna Hbn-Giobair, nel II84, la definiva « la più vasta e la più bella metropoli del mondo, la città di tutte le eleganze, della quale non si finirebbe mai di enumerare g li incanti ,;. Di Palermo appunto, destinata a prosperare anche con Federico II di Svevia, Pasquale Villari, nei suoi studt sul meòioevo, . cosi' scriveva:


« Non pochi di quei pmvvedimenti, pei quali tanto fu lodato rcderico II, chiamato perciò il primo Sovrano moderno, ebbero la loro remota origine nei tempi dei Re normanni Ruggero e Guglielmo il Buono, sotto il secondo dei quali continuò la prosperità già iniziata col primo. Il palazzo in cui Ruggero aveva convertito il castello degli Emiri (El Kassar), ingrandito e compiuto da Guglielmo II, fu la prima Reggia veramente splendida in Europa e come tale viene ricordata da molti scrittori del tempo. Autori arabi e francesi affermavano che Palermo era la più vasta e bella città del mondo. Falcando lasciò scritto che la Sicilia era preferibiìe a tutti i Regni aliora conosciuti. La serie dei palazzi, dei monu~nenti sorti in questo secolo a Palermo fu grande davvero. Basti ricordare, tra molti altri, la Zisa (n61 - u 66), ia Cuba, la splendida cattedrale di Monreale, la mirabile cappella Palatina. :: Nè pochi sono ì mo!lt!m~!ll! ~imili sparsi nelle altre Provi1K;c Jella Sicilia e nelle continentali. Molti erano già, neHa Corte di Palermo, i poeti cd i prosatori siciliani, pugliesi e d 'altre Provincie del Mezzogiorno, arabi, provenzali, francesi. Falcone beneventano, notaro del Sacro Palazzo, fu seri ttore d i storie; Ugo Falcando, nato in Francia·, vissuto in Sicilia, che scrisse la sua Storia 'f7 ,~- ) incominciando dai tempi di Ruggero e U la condusse fino al 1169, venne chiamato Un Fante Normanno. ii Tacito del medioevo. Il protGr:.ctaric d 'Aiello, salernitano, fu, nell'amministrazione, il precursore di Pier delle Vigne, di Capua. Il celebre abate calabrese Gioacchino (u30- 1202) venne chiamato anch'egli nella · Reggia, che abbandonò soltanto per recarsi in Oriente. « Tutto questo grande fervore di studi in lingue diverse finì poi col cedere il posto al latino ed apparecchiò il sorgere della poesia e della letteratura italiana sotto Federico II. In una parola, può dirsi


52 che, ai tempi di Guglielmo II, quando ·appena i Comuni italiani cominciavano a sorgere, la Sicilia, colle Provincie del continente, sì trovò alla testa di quella civiltà italiana, che doveva poi propagarsi nell'Italia centrale e settentrionale e diffondere la sua luce in Europa. Tutto ciò fece dare a Guglielmo II il titolo di Buono, lo fece universalmente rimpiangere quando morì nel 1189 e ricordare anche da Dante nella « Divina Commedia)). Questa civiltà normanna dovette il suo rapido fiorire ed il suo meraviglioso splendore ai molteplici elementi di cui era composta, alla tolleranza che ne fu conseguenza e che li fece liberamente coesistere. Quando, più tardi, colla venuta degli Angioini, chiamati dai Papi, questa tolleranza cessò e si volle tutto violentemente sottomettere ad uno dei molti elementi che l'aveva no costituita, essa si inaridì e decadde colla medesima rapidità con cui era sorta. Essa fu, in ogni modo, il principio di quella culrura, che vediamo poco dopo continuare e fiorire nella Corte di Federico II. Tutta l'Italia - afferma il Giangiacomi - unica fra le altre nazioni d'Europa, era allora \( tumultuosa d'industrie e di traffici, movimentata di navi, imbandierata di vele e l'oro vi affluiva da ogni parte. Il suo popolo delle città era formato da marinai, commercianti., filatori, tessitori, tintori, conciatori, orafi ed artisti ; ma, all'occorn:nza, tutti erano soldati e prodi soldati, almeno fino a quando le ricchezze non indussero gli Italiani a servirsi, per la guerra, dei mercenari, delle milizie estere e delle Compagnie di ventura ».

Ma, purtroppo, i Comuni e le città italiane, tutti dediti alla cura dei loro particolari interessi e divisi, durante la lotta per le investiture, tra la fedeltà all'Imperatore e quella al Pontefice, non erano concordi. Lo stesso Ottone di Frisinga, nella sua Storia, nota e deplora che ogni città italiana, aspirando alla supremazia, cercava di allargare i suoi domini a danno dei Comuni vicini. Venezia era in guerra con Ravenna; Verona e Vicenza con Padova e Treviso; i Milanesi volevano dominare· i Lodigiani; Veneziani, Pisani e Genovesi si contendevano il dominio del mare; Ancona era emula di Venezia e di Firenze; Siena, Lucca impiegavano le loro milizie nelle continue lotte tra Repubblica e Repubblica e tra Comune e Comune.


53 Solamente quando, per difendere un superiore interesse, le città si unirono in Leghe o Concordie, come quella veronese del 1o64 e q uella lombarda del 1o67 contro il Barbarossa, le rivalità comunali vennero temporaneamente dimenticate, per dar luogo alle prime affermazioni di quel sentimento nazionale che ancora veniva ispirato agli Italiani dal ricordo di Roma. Il Ricotti, col suo stile sobrio ed incisivo, così scrisse dei nostri Comuni e delle loro prime affermazioni : « Non era ancora giunto al suo termine l'undecimo secolo, che una grande rivoluzione s'era compiuta nelle città di Lombardia. Al potere feudale del Vescovo, era sottentrato un reggimento a popolo ; agli avvocati, ai visconti e vice-domini vescovili, erano succeduti Consoli ed Anziani : infine il nuovo nome di Comune aveva cominciato a distinguere una mutazione apparsa dopo alcuni secoli di occulto apparecchio. Di già nel I I 19 i Consoli milanesi guidano le genti loro e delle città confederate all'assedio di Como; di già nel II3 1 la terra di Nonantola promette obbedire in guerra a' Consoli di Bologna; ed oramai la maggior parte de' nobili del contado ha giurato divozione e cittadinanza a' Comuni vicini, allorchè scoppia la gran lotta fra essi e F ederico I Barbarossa. « Fino a que' tempi un Vescovo, con potestà temporale emanante dall'Imperatore, era stato di mezzo tra lui e il popolo. Tolto il Vescovo, Imperatore e popolo rimasero in faccia l'uno dell'altro. I diritti regali, già esercitati dal Vescovo, dovevano eglino tornare all'Impero, o non piuttosto restare al popolo, che di fatto li aveva rcdati? Questa questione venne proposta. da Federico a quattro dottori ne' campi di Roncaglia ed i Comuni si opposero coll'armi alla decisione, che minacciava di togliere ad essi quanto di più caro avevano acquistato in più secoli di muto patire ».


VI.

LE MILI ZIE COM UNALI ITALIANE ED I L RISORGE RE D EL L E f ANT ERI E Secondo il Guerrini, le lince generali dell'evoluzione degli ordinamenti militari dei Comuni italiani furono tracciate rapidamente, ma con mano sicura, da Lodovico Antonio Muratori. DofX> dì lui, Yolendo fare astrazione di quel tanto che sulle milizie comunali italiane si trova nelle Storie generali dell'arte militare, l'argomento non venne più trattato in modo speciale che dal Ricotti, in una sua memoria intitolata: « Sulla milizia dei Comuni italiani del medioevo », pubblicata nelle « Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino )>, e dal Canestrini che, nel voi. XV della serie I del!'« Archivio Storico Ttali:ipn ", pt1bblicò mil':irgomento un:i. notevole serie di documenti. Data quindi la scarsità del materiale finora raccolto, il Gucrrini, in un suo pregevole studio sull'orclinamento militare dei Comuni italiani, si limitò ad esporre ordinatamente le notizie fornite dal Muratori, dal Ricotti e dai Canestrini, cercando di coordinarle con la Storia generale dei Comuni. . Il problema delle origini delle milizie comunali si fonde, infatti, con quello delle origini stesse del Comune. Il Comune italiano, come ente politico, può essere considerato come il risultato di un processo complicato di lotte e di compromessi tra i diversi ceti cittadi ni che, nelle città italiane, generalmente comprese nell'immunità vescovile, ebbero luogo durante la prima metà del secolo XL Cli individui ap_parlencnti alie òiverse classi sociali si associano per la tutela dei loro interessi (associazioni di capitanci, di valvassori, di borghesi, di artigiani) e queste associazioni vengono tra di loro a conflitto e finiscono per accordarsi, più o meno spontaneamente, e per costituire un tutto compatto, che assume, accanto alla protezione degli interessi particolari ddlc diverse classi, anche la tutela degli interessi locali, comuni a tutte. Abbastanza visibile e noto è questo procedimento nella Storia della formazione del Comune milanese.


55 Nel 1035 vediamo formarsi la Motta, od 'associazione dei valvas~ori, per resistere all'Arei vescovo Ariberto ed ai ca pitanei suoi sosteni tori ; durante la lotta il popolo viene organizzato militarmente dal!' Arcivescovo Ariberto per poter far fronte all'assalto dell'Imperatore Corrado (1037- 38), fiochè da ultimo popolani e nobili, dopo alcuni :inni di lotta, finiscono per accordarsi e per gettare le basi di una vasta unione, che si estende a tutti i ceti cittadini, ed ai cui rappresentanti, col progressivo decadimento dell'autorità vescovile, finirà per restare l'amministrazione della città (r). Nato fra le lotte, il Comune italiano ci si presenta fin dal principio come un organismo politico e militare nel tempo stesso. Una volta costituito, esso non ha bisogno di crearsi un'organizzazione militare a parte: è un organismo militare esso stesso. Intanto il ~ polo milanese può farsi prendere in considerazione ed unirsi colla società dei Valvassori e dei capitanei, in quanto esso afferma la sua capacità militare, e per ben due volte, nel primo assedio del 1037 e nel secondo, durato dal 1041 al 1044, dà chiara prova della bontà della sua organizzazione. La forza militare dei Comuni è adunque in ctrto qual modo l'espressione della forza e della capacità milir:irc dei ceti, la cui associazione cosùtuisce l'essenza del Comune

stesso. L'edificio feudale era essenzialmente basato sul concetto che alcune classi soltanto, e le classi meno numerose della società, possedessero attitudini militari degne di esser prese in considerazione. Il Comune sorge allorquando le classi inferiori della società cittadina si dimostrano atte a prender parte alla vita militare del paese. Da questa condizione di cose deriva un fatto speciale che è forse la caratteristica più notevole dell'ordinamento militare dei nostri Comuni; ed è l'origine, affatto diversa, delle milizie comunali a piedi e di quelle a cavallo. La Fanteria è la milizia popolare per eccellenza; la Cavalleria è la milizia aristocratica e rappresenta quegli dementi della vasta società feudale che il Comune è riuscito ad aggregarsi; sia nell'atto stesso della sua coi,tituzione, sia durante il suo sviluppo successivo, in grazia delle lotte vittoriosamente sostenute dal Comune contro i castellani delle campagne circostanti. Stabilito così il rapporto, che intercede tra l'organizzazione politica e l'organizzazione militare del Comune, passiamo ora a esami( r)

CORNANI :

« Breve Storia del Medio Evo )) .


nare, colla scorta del Muratori, del Ricotti e del Canestrini, i caratteri particolari di questa organizzazione.

Per quanto riguarda più particolarmente le milizie dei Comuni, abbiamo già ricordato come, durante il feudalismo, mentre intorno ai feudatari si raccoglievano, riuniti in scare ed in masnade, gli uomini del contado, costretti a partecipare alle guerre a piedi, nelle città, dove invece del Conte o del Marchese dominava il Vescovo, questi disponeva di milizie raccolte fra i cittadini o comunque pagate dalla città e poste al comando di un advocatus del Vescovo stesso. Tali milizie, costituite da uomini che, vivendo nelle città, avevano un livello intellettuale alquanto superiore a quello delle campagne, pur essendo anch'esse poco addestrate e male armate, potevano dirsi, in complesso, superiori alle masnade del contado. Riesce opportuno, prima di intrattenerci sulle milizie comunali, ravvivare questo ricordo, poichè esso favorì senza dubbio l'istituzione delk milizie dei liberi Comuni italici, milizie che difesero poi strenuamente la propria città contrn le milizie degli altri Comuni e

che, quando le città, stanche di essere taglieggiate dagli avidi Podestà imperiali, vollero unire le loro forze contro l'Imperatore straniero, raccogliendosi in Leghe e dimenticando le loro rivalità, seppero scrivere, nel grande libro della Storia d'Italia, luminose pagine di gloria, combattendo con non sempre vittorioso, ma sempre eroico valore. ll periodo dei Comuni, purtroppo quasi sempre in lotta fra loro, non può non essere, infatti, ricordato se non con orgoglio da tutti gli Italiani: sia per le giuste leggi che li ressero; sia perchè in essi l'amore alla terra natia divenne a volte, contro i barbari, amore per tutta l'Italia; sia, infine, perchè in essi risorse, sia pure per non molto tempo, la Fanteria. Ma, se le milizie comunali si ricollegavano a quelle costituite nelle città durante il feudalismo, nei secoli X e XT la costituzione dei Comuni venn~ senza dubbjo ispirata, come afferma anche il Carducci, dal ricordo degli ant.ichi Municipi romani. Ben diversi da quelli feudali furono, infatti, gli ordinamenti mi~ litari dei Comuni, i quali, nelle frequenti lotte e nelle fortunose vicende ~i quell'epoca, dovettero disporre di armi e di armati per difendersi dalle offese altrui e per poter partecipare alle lotte pd trionfo


57 di quelle correnti politiche, dalle quali speravano di conseguire la loro completa libertà economica e politica. Non potendo i Comuni, specialmente nei primi secoli, ricorrere :i i mercenari; nè avendo il diritto di valersi delle genti del contado, essi dovettero per necessità ricorrere ai cittadini, ai quali si offrivano i diritti della libertà e tutti i preziosi vantaggi d'una accorta organizzazione sociale ed economica, in cambio dd dovere di servire il Comune anche con le armi. · Il maggiore sviluppo della cultura nei centri cittadini fece poi sentire il dovere militare come obbligo strettamente connesso con tutti gli :altri verso Dio, la famiglia, la Patria, secondo la tradizione romana. Poichè l'obbligo al servizio militare era esteso a tutti i cittadini, hen pochi dei quali pottvano disporr.: di un cavallo, le milizie còmunali furono costituite in gran parte di Fanti e, quindi, presso i Comuni risorse 1a ·Fanteria, come l'Arma che poteva disporre di com~ battenti più nwnerosi, consapevoli degli scopi di ogni guerra e decisi ,1 conseguirli per il bene della collettività. In complesso, secondo il Ricotti, << scomparsa la Fanteria servile Jc' ribaldi e donzelli, militavano a piè cittadini partecipi del Governo ; :i· quali iì diritto di comandare in pace imponeva l'obbligo di obbedire in guerra. All'esercizio poi ed alla disciplina, qualità essenziali di qualsiasi milizia, suppliva un segno venerato; prendere il quale o difendere diveniva ultimo scopo del combattente. C'..osì un solo era i! conato, una sola la mente di tutti i Fanti attestati intorno ad esso. ,, Quel segno, dir vogliamo del Carroccio, era stato dall'Arcivescovo Ariberto, fin dall'anno 1039, preposto a; suoi diocesani come istrumento di riunione contro la Cavalleria; e forse gliene aveva porto la prima idea certo carro con una pertica sopravi e un campanello appeso, che i monasteri, nel tempo delle rivolte, solevano mandare attorno suonando, acciocchè i Vassalli accorressero a recare i loro tributi)). II Muratori, nel secondo tomo delle Antiquitatum italicarum scriP.tores (àe militia saeculorum rudium in Italia), così de~crivc l'organizzazione e l'evoluzione delle milizie, cittadine: << Le città italiane, appena furono risorte a libertà, ed anche molto di poi, ' per lo più· ·provvedevano alla propria sicurezza e portavano guerra ai vicini, coll'armare i loro cittadini stessi. Così i nobili come gli artigiani, prese le armi, volavano a combattere: la qual perizia delle cose militari animò quindi i popolani ad insorgere contro i nobili ed escluderli talora dalla partecipazione agli onori del Governo.


58 Molte delle città si solevano dividere in quartieri e in sestieri, che toglievano i loro nomi o da qualche chiesa principale, o dalle porte della città, o da qualche altra particolarità. Ognuno aveva i suoi vessilli e le sue insegne ed, ogni qual volta si doveva provvedere all'assedio di qualche Castello, si ordinava ora alla popolazione di due porte, ora a quella di quattro, di recarvisi. Tutti poi si levavano in armi, se la città si trovava in Qualche forte necessità od era minacciata da qualche grave pericolo. « La denominazione « soldati » ebbe origine dal fatto che, con l'andar del tempo, quando i cittadini non poterono essere più distolti dai loro affari, si pensò - come era già avvenuto a Roma di stipendiare militi, specialmente forestieri, ai quali si pagava ogni mese il soldo stal..,ililu. Per yuesto gli uoIIUni, che militavano a pagamento, furono chiamati solidarii, soldarii e poscia soldati. I cittadini che tenevano sempre pronti il cavallo e le armi godevano dell'esenzione dalle tass<: e da tutti i gravami rurali » ( 1). <1 Quando, coll'.aumentare degli affari e col crescere della ricchezza, gli artigiani ed i cittadini si stancarono di essere obbligati a tralasciare le loro faccenJe per accorrere sotto le armi, parve più opportuno raccogliere coorti e legioni di combattenti e stipendiarle coi tributi pagati dal popolo, pur di essere lasciati in pace. Questo sistema fu lodato da Galvano Flamma nel suo opuscolo « De rebus gestis Azonis Vicecomitis >1, nel quale descrive le consuetudini introdotte dai Visconti prima dell'anno 1340. « La quinta legge - egl i dice è questa che il popolo non debba andare alla guerra; ma attenda a casa ai suoi lavori: il che sinora fu male osservato perchè ogni anno, e specialmente al tempo delle messi e delle vendemmie, nel quale i Re sogliono andare alla guerra, il popolo, lasciate le proprie occupa· zioni, con molto pericolo e molte spese attendeva agli assedi delle città ed incontrava innumerevoli danni, specialmente perchè in tali esercizi guerreschi bisognava perdere molto tempo >>. Le ricerçhe posteriori del Ricotti e del Canestrini aggiunsero qualche cosa, ma non apportarono alcuna modificazione alle considerazioni del Muratori. Il Ricotti, avendo fatto un largo spoglio delle notizie forniteci occasionalmente dai cronisti e soprattutto dalle disposizioni degli Sta(1) Tale esenzione non veniva però accordata se, invece di un buon .:avallo, disponevano soltanto di un puledro di età inferiore ai 30 mesi. Si consultino, in proposito, gli Statuti di Verona.


li

g1uramr11w

di Pontida.



61 tuti municipali che si riferivano al funzionamento della milizia, ci potè dare, degli ordinamenti militari dei Comuni, una descrizione molto più particolareggiata. Il Ricotti analizza prima l'ordinamento delle milizie a piedi poi lJuello della Cavalleria. « La Fanteria costituiva· - egli dice - la parte più numerosa e più importante delle milizie comunali >>. Tutti i cittadini, dentro e foori le mura, erano obbligati al serviz io militare. « L'estrema infanzia e vecchiaia, gravi malattie e pochi specialissimi uffici salvavano appena dalla milizia : e tuttavia chi ne andava esente pagava l'imposta dell'arco e del balestro, secondo che era stato inscritto tra gli arcieri od i balestrieri » ( r). « Variavano da luogo a luogo i limiti di età per l'obbligo del servizio militare. « In Pisa dai 20 ai 60 anni, in Genova dai 18 ai 70, in Milano dai 17 ai 65, in Modena dai 14 in sù >>(2). Poichè la Fanteria rappresenta il contributo popolare per eccellenza, la sua organizzazione corrispondeva all'organizzazione stessa del popolo. · In qualsiasi momento essa poteva essere chiamata sotto le armi. L'ordine della mobilitazione, se quest'espressione moderna può es~cre appiicata alla condizione: <li quei tempi, era comunicato semplicemente mediante il grido dei banditori, che andavano attorno, agita ndo le bandiere, e per mezzo. dei_rintocchi della campana del c:irroccio o deH'arengo (3). <, Al primo suono della squilla piantavasi un torchietto acceso sotto la porta, per dove era comandata la sped izione: chi non raggiungeva la sua insegna prima che quello si estinguesse incorreva in castigo ». Come il popolo, così la Fanteria era fondamentalmente divisa in quartieri o porte ed in faggie: talora anche in parrocchie o vicinie, divisioni più ristrette e probabilmente più antiche. Ma, accanto a queste divisioni, che potremo chiamare territoriali, altre ve ne erano di origine posteriore, libere probabilmente almeno in origine: quelle per compagnie di arti o addirittura per compagnie d'armi. Ad ogni modo, ciascun cittadino doveva essere inscritto nella milizia di un qhartiere, od in quella di un'arte, od in una compagnia d'arme. (1) R1corr1: « Compagnie di

ventura».

(2) RicorrI : « Milizia dei Comuni » . (3) RICOTTI: n Compagnie di ventura l>.


A Milano la popolazione cittadina si divideva « in porte, con p ropri Consoli e capitani sul buon ordine, con propri custodi alle provvigioni e con insegne, e con pascoli sotto le mura pel mantenimento dei cavalli. In quelle delle porte comprendevansi le milizie dei borghi e delle posterle: e siccome ogni quartiere era diviso in parrocchie o vicinie, così anche la milizia di ogni porta era distribuita i1? parrocchie, ciascuna coi suoi vessilli, talchè Milano, nel n62, inalberava, oltre le 6 bandiere principali delle porte, 88 vessilli delle vicinie. Il contado partivasi in faggie, corrispondenti alle porte, a cui erano aggregate per le cose civili e m ilitari, ma ogni foggia pagava delle sue rendite i propri Consoli ed ufficiali >>. A Pisa, inv_ece che per porte, la milizia era divisa per parrocchie o cappelle ; a Siena per contrade, a Firenze per sesti e poi per quartieri, suddivisa in 20, poi r6 gonfaloni o bandiere. Quelle che a M ilano si chiamavano faggie, si chiamavano 2 Siena masse, a Pisa capitanie, a Firenze leghe del contado.

' " a dJ· cstramento ~:l é "u è n1111 .,. z11:: . 11 ., R.icott1. pana ' . Pe; qu;.r.t-:, r,gu,.iù.l, di esercizi militari già in uso in Ravenna fin dal secolo -ottavo. In Pavia 15 mila Fanti e 3 mila cavalli si riunivano agli esercizi militari sotto le rn u 1 :L Il Canestrini cita l'esempio di Pisa, dove il capitano dd popolo era per legge obbligato ad esercitare in tempo di pace le milizie nelle armi ed alla corsa; ad addestrarle al tiro della balestra, della lancia e della verga sardesca; ad istruirle insomma in tutte le arti della guerra. L'Angclucci (1) riporta un passo degli Statuti della Società del popolo di Cremona, dal quale si apprende « che fra gli obblighi del Capitano delle miliz,ie, eletto in ciascuna porta o quartiere, v'era qudlu Ji adunare ogni mese, in g iorno di festa, gii uomini ad esso assegnati, di condurli dopo il desinare fuori della porta Mosa ad un luogo detto il Ceppo, e B farli esercitare nel maneggiare le armi e provare sì all'offendere come al difendere, e questo per esercizio degli uomini della Società, perchè fossero n elle armi vigilanti ed esperti )), Altri documenti cremonesi ricordano che : « i Capitani distribuiti nelle terre del distretto di Cremona addestravano i militi cittadini nel ( r)

ANGELUCC! :

«

Il tiro a segno in ltalia i>.


,nestiere delle armi con istrumenti di legno, li passavano ogni mese in rassegna e li conducevano, ad ogni cenno del Capitano supremo, forniti di buone armi, ovunque il bisogno della patria lo richiedeva». A Pisa, secondo un documento riportato dall'Angelucci, « i balestrieri tutte le domeniche erano tenuti ad andare ad balestrare alle poste (bersagli), intorno alle mura della città o ad altri solitari · luoghi ,i. Sempre secondo l'Angelucci, nel secolo XIV, il Comune g·enovese possedeva un terreno, comperato perchè servisse a tirarvi colla bale~t ra ed a farvi esercitare l'arte dei balestrieri; più volte, nei conti del ÀJmune stesso, si ha notizia di acquisto di tazze d'argen to da darsi in premio ai migliori tiratori. Del Comune lucchese si ha un decreto del 1443, che è una specie di regolamento degli esercizi di tiro a segno w lle balestre, che dovevano aver luogo ogni anno il 1 ° maggio e il , • settembre.

11 Carroccio. •., Proprio Stendardo della popolar Fanteria - dice il Ricotti il Carroccio i>. Quale importanza il Carroccio avesse di fronte al sentimento popolare lo dimostra un aneddoto caratter1stico, riportato da Ro!andino, nella sua Cronaca << De factis in Marchia Tarvisana ),. « Poichè la città fu cos1 corsa dai soldati e dalle genti di San Pietro, vi fu un cittadino padovano, il quale un tempo, per timore di Ezzelino, era fuggito ad Este, insieme colla moglie e con tutta la famiglia ed al quale colà era nato un figlio al tempo del principio della guerra. Accadde adunque quel giorno che padre e figlio dovessero passare per la piazza innanzi al Palazzo di Padova, ed il figlio vide il Carroccio di Padova putrido e deforme, tutto rotto ed abbandonato, e disse : - Padre, che razza di costruzione io vedo! Se guardo questi raggi e queste ruote, se osservo questo timone, mi par che esso abbia l'apparenza di un carro, ma che esso sia stato di tanta grandezza che due buoi non sarebbero bastati a tirarlo; a meno che, come ho udito dire, un tempo animali e uomini non siano stati più grandi e perciò anche gli utensili non abbiano avuto proporzioni maggiori. - Al che il padre, quasi ridendo, rispose : - Figlio mio, questo è il Carroccio di Padova, che è quasi come un Castello mobile che sì trasporta con onore e con letizia quando la cittadinanza esce Iu


ad incontrare i n emici. E sopra di esso, su di una lunga antenna, si porta un fiammante e trionfale vessillo al quale mirano tutti i combattenti. Nè vi è alcuna terra del distretto padovano, così nel monte come nel piano, per difendere la quale tutto il popolo padovano sarebbe disposto a combattere così valorosamente e ad esporre così volentieri la sua vita. Poichè in questo carro risiede l'onore, la forza e la gl~ria del Comune padovano. Perciò i nemici mortali dei Padovani, i Signori da Romano, volendo conculcare più vivamente la città e l'onore della cittadinanza, già da sedici e più anni, per oltraggio al Comune di Padova, fanno rimanere il Carroccio qùi di continuo, per modo che il sole lo dissecca, l'umidità lo imputridisce e la pioggia lo deforma. Ma vi fu un tempo in cui, mirabilmente bello, dipinto con preziosi colori, risplendeva anche di notte talmente, che superava lo splendore dell'argento e rifulgeva più che l'oro. Ed era il terrore dei nemici del Comune padovano e la terra tremava tutta dove esso passava, q uasi volando, a modo del fulmine e dei dragoni ». Si potre bbe tuttavia osservare, a proposito dell'espressione già riportata del Ricotti , che il Carroccio non era soltanto l'emblema della Fa nteria, ma di tu tta quanta la forza militare del Comune: era, p:.:r w ~ì dire, il s.::gno vi~ibilc del Cvmune, che tutte le milizie dovevano proteggere e difendere. Da principio esso non era che il simbolo delle milizie vescovili (si ricordi che il Carroccio è un simbolo essenzialmente religioso), quindi delle miliz ie popolari, che non potevano combattere che a piedi; ma è certo che, nell'età classica dei Comuni, il Carroccio era anzitutto il simbolo ed il centro d i raccolta di tutte quante le milizie del Comune, allorquando esse uscivano fuori dalle mura della città. Il Carroccio rappresentò con particolare efficacia tanto la capacità militare dei Comuni, quanto la tenacia delle Fanterie. Inizialmente soltanto <(milanese », ben presto venne usato da tutti i Comuni, quale simbolo della Patria in armi, altare della Fede sul campo di battaglia, centro e ridotta ùdle milizie nell'ora e nd punto più decis~vi, la cui salvezza rappresentava la vittoria e la cui perdita significava la sconfitta. Per conseguenza, le milizie commiali dovevano difenderlo ad ogni costo e, siccome un'efficace difesa di esso non poteva farsi da uomini a cavallo; ma soltanto da Fanti, ne derivò che l'atto -risolutivo del combattimento nelle guerre comunali divenne di competenza della Fanteria, la quale non fu soltanto l'Arma più numerosa, ma, come vedremo, fu anche l'Arma più capace di decidere il combattimento.


li Carroccio.

6



Storici e novellieri, pittori e poeti ci hanno tramandato efficaci descrizioni del Carroccio milanese, che così viene ricordato dal Ricotti, nella sua « Storia delle Compagnie di ventura)>. Milano, che abbiamo visto già ricordare da Ottone di Frisinga come una delle più famose città d'Italia, « Milano, capo della Lega Lombarda, Milano principal cagione della illustre vittoria di Legnano, trasse quindi le città alleate a seguire gli esempi della sua milizia; e in breve il Carroccio fu ricevuto da esse tutte, da Bologna nel 1171, da Parma quattro anni più tardi. « Aveva forma solitamente di grandissimo carro, era tirato da quattro o sei buoi di straordinaria· statura, e tutto intorno andava vestito di panno di scarlatto o d'altro colore. Sul mezzo elevavasi altissima trave col pomo d'oro in punta e sotto il pomo sventolava il vessillo maggiore del C'..omune. L a macchina poi era di tal grandezza, che sopra vi si poteva e combattere e celebrare gli augusti misterii. Dodici trombettieri seguitavanla, sanando a distesa; Fanti e Cavalieri scelti la scortavano. « Dichiarata la guerra, traevasi il Carroccio fuor della chiesa sulla piazza dell'Arengo, ed ogni sera, per alquante settimane, toc-.avasene la campana, per avvertire tanto gli amici quanto i 111::w.ici della prossima spedizione. E, col Carroccio per segno di onore e per pompa, ivasi incontro a Re e Pontefici; e sopra il Carroccio giuravansi gli accordi tra Comune e Comune; e quivi presso i feriti in battaglia trovavano pronto rimedio al corpo ed all'anima )> . Il Carroccio durò quanto la libertà. Tutti combattevano intorno ad esso perchè tutti partecipavano alle pubbliche cose « ed i danni e gli utili non erano quasi tanto dello Stato, come di ciascuno. << Infatti la guerra trattavasi a modo di fazione: e, siccome ai vinti soprastavano gli ultimi mali, così comune era a tutti la necessità di maneggiare l'arrne dentro e fuori dalle mura. A questa naturale necessità la legge poi aggiungeva stima e sanzione ». Il gonfaloniere che fuggisse dalla mischia o abbassasse ì'inscgna veniva condannato a morte; i suoi cavalli e le sue armi venivano di~trutti ; i . suoi figli venivano esclusi per sempre da qualsiasi onore od ufficio.

Lo spirito informatore ed animatore degli ordinamenti militari fu quasi lo stesso per tutti i Comuni italiani, anche se venne attuato


68 in modi differenti. Noi ci limiteremo a ricordarne Je norme oer quanto riguarda il reclutamento, l'addestramento e l'impiego dèlle milizie comunali per quei gloriosi episodi bellici che ben chiaramente dimostrarono le particolari virtù delle Fanterie dei nostri Comuni. Ricordiamo, quindi, che la qualità di cittadino fu inseparabile da quella di sold~to; principio base per la costituzione d'ogni buona milizia, rimasto immutato, fincl1è durarono le libertà comunali e cioè sino a quando i Comuni non si trasformarono in Signorìe ed in Principatì. I Comuni più grandi erano divisi per porte, quartieri o sestieri, e tutti gli abitanti maschi d'ogni quartiere contribuivano a formare, se idonei moralmente e fisicamente, le compagnie o bandiere della Fanteria del rione. Ogni porta o quartiere o sestiere aveva le proprie insegne ed i propri Capi militari: Consoli, capitani, gonfalonieri ... , a seconda degli usi e delle tradizioni locali e degli specifici incarichi di ciascuno ; non chè, fuori delle mura della città, pascoli per le proprie salmerie. Analogamente ciascun quartiere suddividevasi in parrocchie o cappelle o vicinie o contrade, frazioni del Comune, ciascuna delle quali dovev:i costituire t!n reparto, incaricito di p;ovvedcrc anche a quanto si riferiva ai servizi (carri, quadrupedi, attrezzi e vettovaglie), traendo il necessario dal proprio quartiere o dalla propria parrocchia. Organizzazione, come si vede, semplice ed elementare, che potè reggere nei primi tempi della difficile vita di ogni Comune; ma che, con l' andare del tempo, dovette modificarsi per aderire sempre meglio alle condizioni della vita pubblica nella sua inevitabile evoluzione, con l'affermar si, non ostante tutti i princip1 d'eguaglianza, delle famiglie nobili o più ricche ed in conseguenza della stessa organizzazione ·corporativa. Più tardi, infatti, accanto all'organizzazione militare per porte, quartieri o sestieri, sorsero le compagnie: delle arei poichè ogni arte principale -, scrive il Ricotti - cc si avvisò di riunirsi in un corpo politico e militare ; e di tanta gente fu scem ata la soldatesca del quartiere, quanta ne entrò nelle Compagnie delle arti ». Le « Compagnie delle arti », si distinsero dalle comuni I<anterie, q uando tutti gli iscritti ad una data corporazione di mestiere vollero militare a pied i, raccolti in apposite Unità, onde trarre una maggiore energia spirituale, oltre che dall'essere figli tutti d'una stessa piccola patria, anche dalla comunanza deg li interessi e delle tradizioni.


Dop:.> le Compagnie delle arti, vennero approntate anche quelle delle armi, istituite - come scrisse il Ricotti - « o per privato consiglio di chi, escluso dalle prime, cercava in una associazione la propria sicurezza, ovvero per pubblico intento di avere, oltre la comune Fanteria, un'eletta di cittadini più fedeli ed idonei alla guerra. La plebaglia, rimasta fuori dalle Compagnie. delle arti e delle armi, od osservò l' antica divisione per parte e quartieri, oppure si tenne aggruppata in una massa, sotto il nome complessivo di popolo ». Nel 1228, 2 1 erano in Bologna le società delle arti, e 22 quelle tielle armi, dette dei Lombardi, dei Toschi, del Castello, del Leone, ccc., con insegne e statuti propri. Compagnie di armi erano la Compagnia del Carroccio e la Comp:ignia della Morte, che tanto si segnalarono nella battaglia di Legnano; la Società dei Forti, che tenne alto l'onor militare dei Milanesi neila battaglia di Cortenova e che rappresentò pure una parte notevole nella storia interna di 11ilano, al cui governo la Società .ispirò per un certo tempo ; la Compagnia dei Coronati, che si formò .1 Milano e la Compagnia dei Cavalieri della Banda, che si costituì nel 13n, in Firenze, preoccupata della discesa di Enrico VII in Ita!iJ.


VII.

LE FANTERIE COMUNALI NELLA LOTTA CONTRO IL BARBAROSSA Nei capitoli precedenti abbiamo ricordato il sorgere dei Comuni, le cause che ne determinarono lo sviluppo, la differenza fra milizie propriamente feudali e mil.iz..ie cittadine e, con la citazione di opere e di documenti attendibili, l'organizzazione di queste ultime nelle città più importanti dell'Italia di allora. In questo capitolo e nel seguente prenderemo, invece, in esame l'impiego_e le prime prove delle Fanterie comunali, più che nelle continue lotte fra C'.,omune e Comune, nelle guerre delle città guelfe unitesi in lega contro l'Impero, a difesa delle loro libertà. A qursto ~roro abbiamo consultato molte delle fonti c.sistenti, traendone notizie e documenti che ci permetteranno di dare ai lettori un'idea, sia pure approssimativa, delle prime battaglie, nelle quali, durante il medioevo, le Fanterie italiane cominciarono a dimostrare la loro tenacia nella difesa ed il loro impeto nei combattimenti offensivi; tenacia ed impeto, che furono senza dubbio notevoli e che, per la Causa per la quale le milizie comunali iottai:ono e per il modo nel quale combatterono, meritano la nostra memore ammirazione di posteri, qualora si tenga il debito conto · del fatto che quelle Fanterie, poco addestrate, insufficientemente armate, guidate da Quadri improvvisati, dovettero affrontare gli agguerriti eserciti dell'Impero. Per conseguire lo scopo suddetto ricorderemo la battaglia soste-. nuta dalle truppe imperiali per liberare il castello di Carcano, assediato dalle milizie lombarde e la gloriosa vittoria di Legnano, il cui ricordo è rimasto nei secoli sempre fulgido ed efficace, come quello della prima, solenne affermazione del risorgente valore italiano. Le battaglie ricordate, come le altre di questo periodo, non furono combattute secondo un vero e proprio concetto d'azione e non di.mostrarono una sufficiente coordinazione nell'impiego delle due Armi di allora, poichè la tattica, non ancora risorta, era elementare ed il combattimento non rispondeva ad un piano organico prestabilito.


71 Per conseguenza, i lettori non si sorprendano se, pur avendo consultato in proposito le poche fonti attendibili, non riusciremo ad offrire loro un'esposizione ordinata e completa dello svolgimento delle battaglie stesse e tanto meno a dare, sull'azione effettivamente svolta in esse dalle Fanterie comunali, quelle sicure notizie e quei particolari che pur vorremmo riportare e descrivere.

Il Cernezzi, commemorando la battaglia di Legnano ( 1 ), così riassunse gli avvenimenti che prepararono quella che Cesare Balbo definì « la più bella battaglia dell-a nostra Storia >i . « Subito dopo l'anno mille - il punto fatale in cui gli uomini credettero per un momento che il mondo fosse per fin ire e si sollevarono dalla ineffabile ambascia solamente quando constatarono che l'umanissimo sole continuava il benefico giornaliero cammino subito dopo l'anno mille un gran fatto d'importanza fondamentale nella Storia dà nuova vita e nuovo indirizzo alla civiltà d'Italia e di tutta l'Europa ed è il formarsi -e l'affermarsi dei Comuni italiani. (< Le nostre gloriose Città, le grandi e le piccole, tutte ricche di sante memorie e di uomini invitti, si costituiscono in altrettante Repubbliche, rette da Consoli dettivi, a mo' dell'antica Roma, e appunto dalle maniere e dai fasti di Roma attingono gli elementi morali c spirituali della loro nuova esistenza. << Fra i Comuni dell'Italia superiore eccelle Milano, la Milano già fin d'allora pervasa di fabbriche e di traffici, la Milano abitata da lavoratori infaticabili e maestri dell'arte, tutti intenti ad aumentare la propria ricchezza e insieme la potenza e la forza del Comune; la Milano di Anselmo da Baggio, di preclara famiglia del luogo, che, diventato Pontefice nel 1o61 col nome di Alessandro II, governa con s;ipienza e con fortezza per undici anni la Chiesa di Roma e dà potente impulso a quella di Milano ; la Milano di Ariberto da Intimiano, il grande Arcivescovo, di cui è ancor viva la memoria dopo nove secoli, per i monumenti fondati e per le istituzioni create e soprattutto per quel Carroccio famoso, ch'egli inventò o primo adottò e che fu il palladio, il tempio, l'altare, la difesa costante, il simbolo ardente dell'onore cittadino in tante battaglie; la Milano di Lanzone (1) LUIGI CERNEzzr : « La battaglia di Legnano ,,, pubblicato in Milano nel 1934, a cura della benemerita Società <( Pro esercito n.


72 da Corte che, dimentico volontariamente di essere della casta nobiliare, osa mettersi decisamente alla testa del popolo -quando pensa che questo abbia giuste e sante ragioni da far valere e diritti da rivendicare e, dopo aver tutto sacrificato di sè, riesce ad ottenere una pacificazione generale della città nel 1044; la Milano di San Galdino, Ambrosiano <li nascita e di cuore, ii primo Arcivescovo Cardinale, che è sempre presente in tutti i momenti tristi e lieti della: sua città, che è il conforto, la benedizione dei poveri e degli umili, che muore sul pulpito, nel mentre sta predicando contro l'eresia dei Catari, ed è fatto santo Jal Papa Alessandro Hl ed è poi dalla pietà dei posteri ricomposto nei sepolcro in Duomo, il gran tempio, meraviglia del mondo, incominciato a costruire due secoli dopo, « Milano è un piccolo Stato, ma fin d'ailora aspira alla grandezza; deve con fine accorgimento e con sapiente valutazione delle condizioni politiche, tener conto delle due grandi forze sulle quali s'impernia la vita pubblica dell'ltalia intera e dell'Europa, per non dire del mondo allora conosciuto : l' Impero da una parte, la Chiesa dall'altra, I rapporti del Comune di Milano con la C luesa sono i più leali e cordiali : Mibno è pia, Mibno è fondarnent:::!:ne~t(: G. ~ir..c~ramcntc cristiana e cattolica e, per quanto abbia coltivato gelosamente nel proprio seno un insieme di particolari liturgie costituenti la Chiesa Ambrosiana, non ha certo fomentato l' apostasia, ma anzi ha offerto vivo e fresco alimento alla pura fiamma della fede romana; Milano ha dato molti dei suoi figli migliori alla Chiesa e questa la conforta del suo appoggio e della sua benedizione. « Con l'Impero germanico, col Sacro Romano Impero, Milano non può nutrire altrettante simpatie; all'Impero non sa riconoscere il carattere di sacro, quando vede gli Imperatori combattere i Papi e favorire gli Antipapi, e meno ancora non gli sa ricorioscere il carattere di romano, perchè romana è solo la Chiesa cattolica e romani v~ramcnte, nella tradizione e nel costum(:, vogliono essçrt: soltan to i Comuni. « Più di una volta neile pianure di Roncaglia, vicino al Po di Piacenza, gli Imperatori danno solenne convegno ai grandi dotti e giureconsulti dello Studio di Bologna pcrchè attestino proclamino, con la loro sapienza, i diritti sovrani dell'Impero nei confronti delle Città ; ma queste, più che le presuntuose sentenze dei luminari del diritto aulico, amano ascoltare il bisogno istintivo della propria libertà. Da qui un gigantesco duello che: si protrasse per qualche secolo e che <(

e


73 ,, acuì quando in Germania i Principi tedeschi, riuniti a Francoforte 11cl n52, elessero a loro Imperatore il Duca di Svevia, Federico Bark1rossa - così chiamato, dicesi, per il colore della barba - Principe 1 he la Storia ha il diritto di qualificare barbaro, ma che nullameno III dal suo popolo amato ed onorato per alte, indiscutibili qualità personali, per intelligenza, per valore, per conoscenza e pratica dd1':irte della guerra ed anche per un certo intuito di astuta diplomazia. <( Assai presto il Barbarossa comprese che i fasti dc:ll'Impero germanico avrebbe dovuto venire a raccoglierli nelle pianure d 'Italia, e· che l'affermarsi ed il fortificarsi dei Comuni era a tutto scapito della potenza e dell'autorità imperiali, tanto che cercò di combattere 1 (' .,omuni ad oltranza: sia con le armi di un preteso diritro consa1 r:no dal parere degli esperti; sia con le altre, meno legittime, della violenza materiale. << Egli discese in Italia ben cinque volte. Una prima vol ta poco più di un anno dopo essere stato eletto, nel n54, quando avrebbe voluto attaccare Milano col pretesto delle angherie che questa avrebbe f:irto a Como ed a Lodi ; ma preferì prendersela con Tortona , amica d1 Milano, e poi andare a Pavia a farsi incoronare e da Pavia muov, ,..-, i:;i~ì giù pc:r l'Italia centrale, a Roma, dove onenne di ,arsi in' oronare anche là da Papa Adriano IV. Quindi il Barbarossa ritornò in Germania, donde ridiscese in it:1lta una seconda volta nel II58; attaccò Brescia ed ancora rispettò Milano. Attaccò in seguito Crema {' l'assedio di questa città, sulb fine del 1159 ed i primi del n6o, fu cosa che non ha eguale nella ~toria, per eroismi indicibili e sovrumani sacrifici >). (1

Appunto nel 1 r6o si svolse la battaglia di Carcano, nella quale le Fanterie lombarde diedero prova di un elevato spirito offensive, p:i.rticolarmente ammirevole in milizie comunali, costituite specialmente per scopi difensivi, anche se la vittoria venne vivamente con1rastata e rimase incerta. Ecco come ne riassume le fasi Piero Picri, nello studio che avremo ancora occasione di citare a proposito della battaglia di Legnano (r).

1

(1) PIERO P1u1: « Alcune questioni sopra la Fanteria in Italia nel perioà o omunale ))' in Rivista ,·torica italiana, 1933, fascicolo IV.


74

La battaglia di Carcano. Dopo la distruzione di Crema (gennaio II6o), la -guerra langue in Lombardia. Molti Principi tedeschi ripassano le Alpi, i contingenti ghibellini lombardi tornano alle ioro case. Nel giugno i Milanesi passano all'offensiva con spedizioni punitive contro terre e castelli; nell'agosto si trovano coi Fanti di tre porte ad assediare il castello di Carcano, presso Erba, sul lago d'Alserio, quando odono che il Barbarossa muove in soccorso agli assediati. Per fortuna giungono i Fanti delle altre tre porte per dare il cambio; in questo modo tutta quanta la Fanteria milanese si trova riunita. E con essa sono i Cavalieri di Milano e, secondo fonti non del tutto sicure, 200 Cavalieri di Brescia ed altrctcanci di Piacenza. Ma, nei frattempo, il Barbarossa, accampatosi presso Orsenigo e T assaria, ha tagliato le comunicazioni colla metropoli. Viene perciò deciso di muovere risolutamente contro di lui, lasciando solo i Fanti di una porta e di una pusterla di fronte al castello. Lo Svevo dispone di 200 Cavalieri tedeschi e, secondo Otto Morena, di oltre woo uomini di contingenti italiani : un complesso forse di mille Cavalieri e 1500 Fanti. Non è improhabile, quindi, che i Milanesi fossero circa uguali in Cavalleria e notevolmente superiori in Fanteria. E non è da escludersi che decidessero d'attaccare subito, mentre l'Imperatore non si trovava colle forze riunite, aspettando ancora i contingenti di Cavalieri e di Fanti di Cremona e di Lodi. A quanto sembra, avanzarono in due masse: a sinistra, contro il campo imperiale, la Fanteria: i Fanti di Porta Cumana avanti, il grosso al centro, il Carroccio con una trentina di Cavalieri dietro. E a destra tutta la Cavalleria di Milano, Piacenza, Brescia. Di fronte il Barbarossa aveva pure riunito i suoi in due masse: contro la Fanteria egli stesso coi duecento Cavalieri tedeschi e pochi altri italiani, e contro la Cavalleria pressochè tutti i contingenti italiani, presumibilmente: Cavalieri avanti e Fanti dietro. Federico, probabilmente, attacca primo, rovesciandosi coi suoi Cavalieri alemanni contro i Fanti milanesi ancora in marcia; rompe e disperde quelli d'avanguardia, si precipita sul grosso, che pure non ha fatto a tempo a serrarsi a quadràto, lo scompiglia, giunge al Carroccio, uccide o mette in fuga i pochi Cavalieri di guardia, se ne impadronisce, lo rovescia in un fosso. « Ma dall'altro lato le cose volgono meno prospere: i Cavalieri milanesi, piacentini e bresciani, probabilmente superiori di numero, hanno subito avuto ragione dei Cavalieri ghibellini, hanno dissipato


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la retrostante Fanteria, si volgono verso il campo imperiale, dove già è penetrata. li Barbarossa torna subito indietro, scaccia i Fanti dall'accampamento, ~, dispone ad affrontare i Cavalieri nemici. Ma questi non osano , salire l'Imperatore e tornano al vecchio accampamento, di fronte a C:nrcano. Dal canto suo però Federico, rimasto coi soli Tedeschi, si 11tira a Como. La vittoria dunque rimane ai Milanesi. Anch'essi tut1u.via, troppo lontani dalla loro base d'operazione, decidono d'abbandonare l'assedio di Carcano. In tal modo Federico, vinto nel campo , .,nico, riesce a conseguire il suo obiettivo strategico, lo sbloccamento del castello di Carcano, caso tutt'altro che infrequente nelle guerre medioevali. « Dal punto di vista tattico la battaglia è senza dubbio inte~es,.11ne. ed esce dagli usuali schemi. La Fanteria milanese, infatti, non era preceduta dalla Cavalleria, nè aveva atteggiamento difensivo. E' •,1:ita battuta dalla Cavalleria nemica molto inferiore di numero, ma prima che potesse serrarsi in quadrato. E del resto è stata scompigliata,. non annientata; una parte ha potuto gettarsi sull'accampa111cnto nemico ed, a battaglia finita, tutta s'è ritenuta di nuovo abba~•anza in ordine. Quanto ai F.l!lti ghibellini, essi app;;i01,0 i;,.cc.: , ubito e interamente travolti dopo la rotta della loro Cavalleria )) . « Non sappiamo se abbiano fatto a tempo a formare quadrato ; ma la cosa può apparire dubbia. In tutti e due i casi, quindi, la resi~tmza della Fanteria non è stata davvero grande; ma tutte e due le volte essa non si era ancora serrata a quadrato» e comunque aveva dimostrato una volontà osùle, una consapevolezza della Causa per la quale combatteva ed uno spirito offensivo veramente notevoli.

una schiera di Fanti milanesi, prontamente riannodatisi,

La battaglia di Carcano dovette senza dubbio influire nel rendere più implacabile contro i Milanesi l'animo del Barbarossa, il quale, nel n62, dopo avere cinto d'assedio Milano ed averla costretta :illa resa, si mostrò inesorabile contro i suoi cittadini. Si parlò allora di distruzione completa, di aratura dove pnma sorgeva la città e di spargimento di sale in segno che nulla avrebbe dovuto più crescervi; ma sono particolari non confermati dalla critica storica moderna. Certo fu un grande trionfo per l'Imperatore ed una tremenda umiliazione pei Milanesi, dispersi nel contado circostante.


La terza discesa di Federico fu nel n63; ma per una brevissima scorreria, dopo la quale il Barbarossa ritornò in patria, dove lo chiama vano le contese della Germania contro Francia ed Inghilterra. Nel u66, dopo circa due anni, egli discese in Italia per la quarta volta e coi più fieri propositi ; non attaccò nessuna città lombarda, si volse a Bologna, poi ad Ancona, poi nuovamente a Roma, per sfogare le sue ire contro Papa Alessandro III. La guerra durò lungo tempo ; ma senza avvenimenti importanti. 11 Barbarossa dovette sentirsi completamente isolato e, per paura di non potersi più r itirare, nella primavera del n68, da Pavia tornò prudentemente in Germania, con pochi compagni ed alcuni ostaggi. Che cosa era mai successo nel frattempo ? Come m ai ie condizioni d'Italia erano tanto mutate ed in megiio ? Le città d'Italia avevano ritrovato se stesse : Milano e le aitre città distrutte erano risorte più belle e più grandi e tutte insieme, oltre che alla ricostruzione m ateriale, attendevano alla ricostruzione morale; avevano finalmente compreso che, cosl divise e troppo spesso nemiche l'una dell 'altra, erano destinate ad essere tutte quante, in un giorno più o meno lontano, preda dell'Imperatore.

La Lega di Verona e la Lega Lombarda. Profondamente convinte dell'opportunità e della santità dell 'unione di fronte al nemico comune, si erano riunite in Leghe chiamate « Concordie »; nel n64 la Lega Veronese, formata da Verona, Vicenza, Padova, Treviso, cui si aggiunse dopo la potente Venezia; poi la Lega Lombarda, solennem ente conclusa nel Monastero di Pontida il giorno 7 aprile del I 167. In quello stesso anno la Lega Veronese e la Lombarda formano un unico potentissimo blocco e sono ben r5 le città, i cui rappresentanti si trovano a ri;:movarc il giuramento di rimanere u11iti fino alla vittoria : Vcnezia, Vcrona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara, Brescia, Bergamo, Cremona, Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Modena e Bologna. Ad esse presto si agg iungono Novara, Vercelli, Como~ Asti e T ortona e più tardi Ravenna, Rimini, Forlì ed Imola. All'avvenimento così meraviglioso della Lega un altro d 'estrema importanza si aggiunge, che vale a risollevare le sorti e le sperw7.e dei Confederati : Papa Alessandro III è restaurato sul sogli~ pontificio e come suo primo atto fa incondizionatamente conoscere d'essere


77 tutto in favore della Lega ed avverso all'Imperatore. In onore del

Pontefice, ed anche per costituire un sicuro baluardo contro il Mon{errato, tuttora ostile, la Lega delibera la fondazione di una nuova

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Il gueiTiero di Legnano.

città fortificata fra la Bormida e il Tanaro, che dal nome del Papa si chiamò Alessandria ed in seguito prese anche il nomignolo <e della Paglia)), quando, in un primo gloriosissimo assedio, non soiide mura la difesero; ma semplici steccati, fatti di terra umida e di canne.


Alessandria si costituisce in Comune ed entra a far parte della Lega, che prende il nome più comprensivo di « Società di Venezia, Lombardia, Marca, Romagna ed Alessandria>>. Sia che tutto questo cambiamento nelle cose ·d'Italia impressionasse fortemente l'Imperatore o che egli fosse tutto assorbito dalle vicende -del suo paese, Federico non si fece vedere in Italia per sei anni e cioè fino al n74, quando -discese, attraverso i] Moncenisio, per la quinta cd ultima volta. Il suo primo pensiero fu di avventarsi contro Alessandria, ch'era stata fondata « in dispetto ed in odio di lui», come sottolineano gli storici ed i cronisti del tempo ; ma Alessandria resiste valorosamente e, quando sta per piegare, sopraggiunge da Piacenza un nuovo e fresco esercito della Lega ed il Barbarossa è costretto a levare l'assedio ed a ripiegare verso la fedele Pavia. I Confederati lo inseguono e lo raggiungono precisamente nell'Oltrepò di Pavia, a Montebello, dove la Lega e l'Imperatore si trovano di fronte in campo aperto; ma nè l'una nè l'altro si decidono alla battaglia ed anzi si iniziano fra l'Imperatore e la Lega trattative e si presentano proposte. Non si tratta di concludere una pace vera e propria, perchè. l'Imperatorc mette come prima condizione che venga distrutta Alessandria; mentre la Lega esige il ri spetto per Alessandria cd il riconoscimento da parte dell'Imperatore di Papa Alessandro III, come legittimo Pontefice. Dato quanto sopra, le trattative non vengono concluse e, per tutto il n75, le operazioni restano sospese. Ma la partita non è chiusa; il fuoco cova sotto la cenere e deve levarsi minaccioso l'anno dopo. Il Barbarossa, chiuso in Pavia, chiede aiuti in Germania e, nella primavera del uj76, apprende che un esercito, al comando dell'Arcivescovo di Colonia, è disceso in suo soccorso per la via dei Grigioni e ddl'Engadina, a Como, dove egli accorre e lo passa in rassegna. Col suo intuito militare e politico egli comprende che è venuta l'ora di decidere, mediante uno sforzo supremo, la situazione e vuole riunire l'esercito giunto dalla Germania ml grosso delle sue: forze in Pavia. Chi da Como vuol scendere a Pavia deve necessariamente passare per Milano; ma il Barbarossa non intende affrontare il nemico con le sole forze venute dal nord ed anzi spera di evitare ogni in~ contro prima che i suoi due eserciti siano riuniti. A tale scopo egli compie un largo giro da Como all'Olona, che varca nelle vicinanze di Cairate, per raggiungere poi il Ticino e Pavia. Ma i Milanesi vigilano: da tempo sono informati dei di~gni dell'Imperatore ed ora ne spiano le mosse. Hanno con sè valorosi


79 ombattenti di Piacenza, di Verona, di Brescia, di Novara, di Verd li; li guida Alberto da Giussano. Il nerbo dell'esercito dei C.Onfe1lcrati è costituito da due compagnie ~ elte: la « Compagnia della Morte» e la <t C.Ompagnia del Carroccio ». La prima, detta anche ,1 C.Ompàgnia dei Gagliardi » , di 900 Fanti; la seconda di 300; En11co da Monza comanda le due C.Ompagnie intorno al Carroccio. I Confederati hanno deciso di risalire il corso dell'Olona per tagliare la strada all'Imperatore e costringerlo a combattere. Sull'unione e sulla decisione <lei C.Onfederati, che doveva condurre alla battaglia di Legnano, il Ricotti efficacemente esalta lo , pirito d'indipendenza, il sentimento patriottico, la tenace resistenza delle città italiane all'Imperatore, che si era mostrato cosi crudele cd inesorabile. « Ventidue anni di inauditi sforzi vinsero - scrisse il Ricotti più col soffrire che col fare, la possanza del maggior P rincipe d'Eurvpa. Milano è Tortona due volte sterminate, Crem a distrutta, Susa, Asti, Chieri, Spoleto arse e consunte, ricordarono al mondo la Grecia r Serse. « Un dì gli stendardi di Brescia, Cremona, Bergamo, Mantova e V c.rona _ sventolarono ne' campi ov' era stata Milano: un religioso si lcnzio copriva luoghi poc'anzi centro di frequentissimo commercio ; e selvatiche erbe e sconci animali contaminavano i sacri altari ed i ~cggi della g iustizia. Ma non furono lente le schiere amiche, parte vegliando in armi, parte affaticando nel lavoro, a rilevare quelle mura, a rifabbricare quelle case, e ricondurvi la popolaz ione vagante in esilio per le campagne. E chi può dire le angoscie di q uelle notti, nelle quali i cittadini, non affatto sicuri, s'aspettavano di venire assaltati d'ora in ora, e l'assalto doveva importare scempio ed eversione? « ('.,osì fu ricostruita Tortona ; così, tra la Bormida e il Tanaro, contro le invasioni ostili fu elevata dalle fondamenta una città, capace iìn da principio di quindicimila armati. Incontro ai colpi dei consorti e degli amici, aveva l'Imperatore fatto avvincere alle macchine rivolte· contro Crema gli ostaggi lombardi; ed i cittadini, confortando 1 miseri ad orrenda morte, le avevano percosse con maggior tempesta cli pietre e di dardi. Cuoi cotti e conditi nell'aceto, sale pesto bollito in un· po' d'olio con un sorso di vino, velenose ortiche che gonfìa..-ano ed arrossavano le carni di chi le mangiava, furono per ben lungo tempo invidiato cibo ai difensori d 'Ancona. E quivi una vecchia gittavasi nel furiare della mischia a metter fuoco alle torri nemiche; e

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quivi nobile matrona rapiva alla prole lo scarso latte dell'esinanito suo petto, per afferirlo ad un balestriere che boccheggiava a terra dalla fame. Alzò gli occhi il guerriero, riconobbe la generosa donna, ed alla grande offerta arrossì; quindi, puntando sui gomiti e sulle ginocchia, si rizzò, si trasse alle mura, e uccise, prima di morire, quattro nemici. « Insomma, quando ogni cosa fu divorata e si trattò d'arrendersi, supplici dinanzi a' Consoli giunsero le donne ad afferirsi in pasto a' cittadini, anzi che cader preda del nemico. Queste vite, sciamarono, che a noi sarebbero di supplizio, sieno a voi, sieno alla Patria comune di salute. Queste vite qui trassero nascimento, tra queste mura crebbero, da questa terra ebbero costumi, religione, affetti: ad essa è giusto c/ze sic110 restituite ». Questi ricordi dovevano influire senza dubbio sull'animo dei combattenti italiani, quando giunse, finalmente, il giorno della prova decisiva.

La battaglia di Legnano. Come abbiamo già detto, l'Imperatore Federico marciava da Como a Pavia, quando, tra Legnano ed il Ticino, i suoi esploratori incontrarono 700- Cavalieri dei Confederati. Respintili colle forze di tutto l'esercito, i Tedeschi videro avanzare la Fanteria lombarda raccolta intorno al Carroccio. L'urto fu violento e la lotta che ne seguì accanitissima, fino a quando l'Imperatore stesso partecipò alla mischia e, respinte le prime linee bresciane, s'avventò contro il Carroccio. Ma, accorse le altre Fanterie e la Cavalleria dei Confederati che si era intanto riordinata, i Tedeschi furono messi in rotta, attaccati dal tergo e sui fianchi. La bandiera, la cassa, lo scudo, la lancia e perfino il nipote dell'Imperatore rimasero nelle mani dei vincitori e lo stesso Federico potè a stento salvarsi e venne costretto alla pace di Costanza, con la quale fu riconosciuta l'indipendenza dei Comuni.

Per conoscere maggiori particolari sulle fasi della battaglia di Legnano, riportiamo guanto scrisse il Cernezzi nella sua ricostruzione, fotta secondo la cronaca di Sire Raul e gli studi del Giulini.


L,1

bauaglzu di L(·gn,ino.



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La battaglia si svolse nella giornata di sabato, 29 maggio uj'6, ~ccondo il cronista Sire Raul, nella pianura ad occidente di Legnano, fra Legnano e Busto Arsizio o, secondo il Giulini, presso la località Canaccia, fra Legnano e Cerro. Il combattimento, non lungo, - si svolse dal mezzogiorno alle tre - ma sanguinosissimo, si risolse con la più completa sconfitta dcli' esercito imperiale. Descrivere tutte le fasi della battaglia non è agevole ed in certi punti è anche impossibile, per le differenti versioni date dai cronisti contemporanei e per le interpretazioni contraddittorie degli storici. Un Corpo di Cavalieri della Lega, mandato fuori in ricognizione, ~·incontra con le forze imperiali e torna precipitosamentt> indietro. Questo dà motivo all'Imperatore di muovere senza indugio all 'inseguimento ed avverte i Confederati che la battaglia s'iniz,ia. Nell'imminenza del combattimento, essi si inginocchiano e pregano: la scena grandiosa e commovente è confermata da tutti gli storici, i quali .iggiungono che i Tedeschi, vedendo i nemici prosternati a terra, interpretano quell'atto come segno di disperazione e di viltà. Ma i Confederati si rialzano ben presto e scorgono nell'alto ddla Croce del Carroccio tre colombe, auspicio di vittoria (1). Resi ancor più forti e decisi dalla fede nella Provvidenza, i Fanti della Lega si gettano sulle schiere avversarie al grido di Sant'Ambrogio! Sant'Ambrogio! e da quel momento la mischia si accende furiosa . Lo stesso Imperatore, alla testa dei suoi, si volge con impeto contro il Carroccio, poichè sa quale vergogna sarebbe per i Milanesi il perderlo; a tutta prima il carro traballa, la Croce si spezza e cadono i cande1abri dell'altare; ma i difensori moltiplicano i loro sforzi e le sorti della giornata si volgono definitivamente in favore dei Confederati, finchè all'Imperatore cade ucciso il cavallo ed egli stesso scompare dalla vista di tutti, tanto che si sparge nelle sue schiere, ad aumentarne il panico, la voce della sua morte. Intuita la disfatta, egli trova riparo dietro il mucchio di cadaveri, nell'attesa di potersi sottrarre alle ricerche e di ricomparire alla fine della battaglia, per raggiungere, come fece dopo qualche giorno, Pavia. Il fato è compiuto : il campo di battaglia è seminato di cadaveri, (1) .L a tradizione vuole che le tre colombe avessero spiccato il volo poco prima dall'antichissima basilica di San Sempliciano in Milano e fossero venute fin là a portare ai combattenti la benedizione dei Santi Patroni Alessandro, Martirio e Sisinio, dei quali appunto ricorreva la festa in quel giorno.


i prigionieri in mano della Lega non si contàno e tra di essi sono il nipote dell'Imperatore ed il fratello dell'Arcivescovo di Colonia, enorme è il bottino. La sconfitta dei Tedeschi è irreparabile ed essi vengono inseguiti dai soldati della Lega con le spade alle reni fino al Ticino, dove molti annegano; mentre i superstiti cercano di trovare uno scampo con la fuga verso le Alpi, « risalendo in disordine», come 7,µ anni dopo, « e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza ».

MoltQ opportune ci sembrano, a proposito della battaglia di Legnano, le considerazioni fatte dal Pieri, nel pregevole studio sulla Fanteria in Italia nel periodo comunale, già citato. Particolarmente interessante - scrisse il Pieri - è la parte che nella battaglia ha avuto la Fanteria. Essa ha resistito alla Cavalieri~ nemica, in una lotta che sembrava disperata, perchè la Cavalleria propria era in foga e non s'era riparata dietro ad essa per ricostituirsi; e quando poi qu<.'sta od altra ha potuto sferrare un nuovo attacco, la Fantèri:i. h:.i d::! ca!'!tr. i;u o rn~rgicamcntc contrattac.:ato e dc:ciso la vittoria . Come si spiega ciò? Lo spirito altissimo è fuori questione, ma d'altra parte saremmo propensi a ritenere che non si trattasse solo dei Fanti veri e propri, ma pure, in parte almeno, dei servitori e garzoni dei Cavalieri, che entro il quadrato trovarono anch'essi un posto di combattimento. E non si potrebbe escludere che, data l'importanza della decisione presa <lai Milanesi e la vicinanza alla foro città, anche dementi di una vera e propria generale chiamata alle armi si trovassero ad ingrossare la Fanteria (1). Le notizie essenziali per la nostra valutazione ci vengono da Romualdo da Salerno. Il dotto prelato fu a Venezia l'anno dopo, plenipotenziario del Re di Sicilia, e potè essere bene informato sullo svolgimento della battaglia. Egli ci dice come i Fantì rcsistcttc;o ai Cavalieri. (( Oppositis et prorectis astis ceperunt eorum furori resistere n . E aggiunge poi: 1< Lombardi, qui fugerant, resumptis viribus, et aliis qui de novo venerant sociati ad pugnam sunt animosi reversi... et simul cum suois peditibus super imperatoris exercitum impetum facientes, ipsum in fugam unanimi(1) Goffredo da Viterbo, che: invero è fonte tutt'altro che sicura,... dice che Federico ruppe ben quattro schiere nemiche; ma la quinta (ossia la schiera dei fanti) « erat validus terribilisqll:e magis! ».


lcr converterunt >> (r). P.arte ddla Fanteria s'era data alla fuga, preaumibilmente gli dementi .della leva generale e parte forse anche dei garzoni dei Cavalieri; restava il fior fiore dei Fanti, e con loro un certo numero di Cavalieri, probabilmente appiedati ed i loro servitori. Costoro non cedettero. Ma è probabile anche che Carroccio e Fanti si trovassero protetti da un fosso, sia che q uesti ultimi ancora 110n avessero lasciato l'accampamento, e che, a protezione di questo, b notte prima l'avessero costruito, sia che in marcia occasionalmente ~e lo trovassero davanti e lo utilizzassero (2). Questo fatto aiuterebbe :i spiegare la grande resistenza dei Fanti. Un altro elemento andrebbe poi considerato. Il regolamento tedesco posteriore al 1870 sanciva : 11 In nessun momento la Cavalleria è così debole, come dopo una n 1rica riuscita » (3). Essa, infatti, si trova ad avere perso la com pattc:7.za ed esaurito il proprio slancio. Ora appunto la Cavalleria tedesca, dopo aver respinto e fugato la Cavalleria lombarda, si trovava in queste condizioni; e potrebbe darsi che Federico, prima di condurla all'attacco della Fanteria nemica, no n avesse pensato a riordinarla. Comunque, la Fanteria si difese eroicamente; non doveva ormai essere molto superiore di numero ai nemici, ma pure rrJ abbastanza numerosa per formare un solido quadrato: !:: rcbu~1ezza di questo cresce in proporzione addirittura geometrica al nu(1) Le notizie di Romualdo Salernitano non sempre concordano con q ue!ie di Bosone, che, ac(anto al Papa, si trovò uguaìmente a Venezia l'anno dopo la l,auaglia ·e potè essere bene informato. Egli asserisc:: che difesa del Carroccio r contrattacco furono opera dei Cavalieri « electa Mediolanensis bcnnatornrn militia >J. Probabilmente si t ratta della contaminazione di due notizie divrrsc. Inoltre, secondo il biografo papale, la Cavalleria lombarda s·era ritirata « ultra carrocium per dimidium miliare n; e gli ,e Annalcs Mcdiolancnses >> dicono, invece, che dei Cavalieri c1 magna pars fugerunt usque Mediolanum ». Il chf" ben può conciliarsi: una parte si ritirò fìnchè si vide inseguita, poi si fermò e si riordinò; altri continuarono a ritirarsi fino a Milano, ma probabilmente il minor numero. (:2) La notizia .è data invero solo dagli e, Anna les Colonienses Maximi >' : 11 At Lombardi, aut vincere aut mori parati, grandi fossa suum excrcimm circumdederunr, ut meno, cum bello urgeretur, effugere posset ». Al tempo di Carcano i Milanesi avrebbero fatto use anche di trincee. La notizia ci vic:-ne però dal solito Codagnello, scrittore di fertile fantasia. Potè forse trattarsi di qualche tentativo isolato; comunque la trovata non ebbe seguito, salvo che non si vogliano collegare questi presunti carri falcati coi carri a protezione delle spalle dell'esercito fiorentino a Campaldino, il che non sembra facile. (3) Citato dal D1.ETRICH , p. 34. Ma Romualdo dice espressamente che Federico mosse all'ultimo attacco << congregata sua militia » !...


86 mero dei combattenti che lo compongono. Romualdo dice anche che i Lombardi non erano più in condizione di fuggire, fugerc non valentes; questo perchè, abbandonati dalla propria Cavalleria; dunque in una situazione disperata : resistere e vincere, o morire. E non v'ha dubbio, la Cavalleria imperiale, nonchè rompere, non riuscì neppure ad intaccare il quadrato lombardo. « Si presenta però adesso la seconda questione. La Fanteria contrattaccò veramente e in che modo ? Come passò il fossato che aveva rappresentato un così grande o~tacolo per la stessa Cavalleria nemica ? La Fanteria ci appare armata di lunga lancia e di pesante scudo; è un armamento grave e prettamente difensivo. Scudo e spada consentono al Fante un'azione offemiva; ma scudo pesante e lancia pesanlè non _!)crmcllo no che la difesa. Certo la Fanteria contrattaccò un nemico già stanco e scosso da un duplice combattimento e da un improvviso attacco sul fianco ed alle spalle: la sua azione era quindi resa più facile ; non si trattava di un immediato diretto contrattacco. E non sarebbe impossibile che, per la circostanza, i Fanti si liberassero dello scudo e attaccassero colla sola lancia. Ma non si può esclud ere neppure che i F anti, che combattono in quest' ultima fase della battaglia, si:mo i fuge iaschi clelhi leva generale o m eglio ancora i servientes dei Cavalieri stessi, o gli uni e gli altri. Anche ora gli uom ini del seguito del Cavaliere, che per solito non partecip.avano direttamente al combattimento, data l'estrem a gravità del momento, potrebbero esser corsi dietro ai loro padroni, soprattutto ·quando la battagiia accen nò a prtndere una piega più favorevole. Si tratterebbe però, in q uesto caso, non già di contrattacco, ma di semplice azione di sostegno, in q uel tempo per altro ancora assai poco frequente. Ma forse tutti quanti i pedoni, Fanti scelti o no, valletti, garzoni, corsero a gara ad appoggiare quel provvidenziale attacco di Cavalleria sul fianco. Del resto un fatto spicca come a Carcano: la Fanteria collegata, anche se scompaginata, non è mai battuta completamente; ma è pur sempre ,apacc di raccogliersi e di riordinarsi. Il che sta a provare che disciplina e gerarchia non dovevano mancare. Al tempo stesso, però, si deve concludere che il contrattacco di Fanteria non era tale <la creare veramente un principio tattico difensivo-controffensivo, base dell'addestramento e dell'efficienza sua. « Un fatto comunque indubbiamente risaltava: la difficoltà per la Cavalleria d 'aver ragione d'un quadrato di picchieri, tanto più se appoggiato ad un ostacolo passivo anche provvisòrio. La tattica doveva porsi il problema di rompere tale massa per altra via. E quale?


Un'intensa azione di tiratori, che avesse buon giuoco sul.la massa ser1ata: un'azione distruttiva insomma, con armi da gitto, che preparnsse l'azione risolutiva all'arma bianca della Cavalleria. E come 1vrebbero potuto difendersi i picchieri ? In tre modi: o con un attacco risoluto, travolgente, che superasse ìn un attimo il tratto bat1uto, la zona di morte; e questo avrebbe avuto però l'inconveniente di diminuire la solidità del quadrato e di esporlo in crisi di movimento alle minacce sul fianco della Cavalleria nemica. Oppure, esaHerando l'atteggiamento passivo con una copertura sempre maggiore di scudi. Od, infine, contrapponendo tiratori a tiratori, sia che ombattessero entro il quadrato stesso, inseriti fra gli scudi e le picr he, sia che agissero come cacciatori, ai lati di questo, riparando poi entro di esso al momento opportuno. Già la battaglia di Ha~Li11gs ( 1o66) aveva mostrato l'utilità d'una combinazione delle due azioni tra Cavalien e Fanti (1). Ma era rimasta un'azione isolata, e solo .issai più tardi, nel 1298, si sarebbe visto nella stessa terra britannica, .1 Falkirk, una leva in massa di Scozzesi, serrati in quattro quadrati di picchieri affiancati, assalita invano dalla Cavalleria inglese, venir battuta energicamente e disordinata dagli arcieri, e allora fìnalmen te t"((l'T rotta da una nuova energi, a azione'" dei Cavalieri }>.

Queste le considerazioni del Pieri, che indubbiamente dimostra di avere consultato in proposito gli antichi cronisti ed i critici modérni. Da parte nostra riteniamo doveroso aggiungere che alcune delle considerazioni ropra riportate non ci convincono del tutto. E' rero, infatti, che Romualdo da Salerno dice che i Fanti della Lega resistettero ai Cavalieri di Federico Barbarossa, insieme ad altri e< qui (1) La battaglia si può ricostruire così: 4000 guerrieri anglosassoni, a piedi, arm:tti con l::ince, spade e ,;cudi, I'! con alle sralle 3.000 garzoni disarmati, si trovano contro 7.000 Normanni, parte a cavallo e parte a piedi. Gli Anglosassoni, riuniti sopra un poggio a lieve pendio, respingono gli assalti dei Cavalieri nemici. Allora intervengono gli arcieri: gli Anglosassoni, tormentati dal tiro di. costoro, passano a frequenti, disordinati contrattacchi; e allora la Cavalleria normanna si lancia sulla massa disordinata, la scompiglia, risa.le il poggio e: riesce a impadronirsene ed a sbaragliare il nemico. Cfr. specialmente OMAN, 1, 150-168; KoHLER, I, I , 3-54; GEORGE, « Battles of Engl. History », pp. 7-29; 0ELBRUCH,

III,

152-02.

Sulla battaglia di Hastings daremo maggiori particolari a proposito dell'impiego degli arcieri.


88 de novo venerant sociati ad pugnam » ; ma, a nostro giudizio, . assai difficilmente questi altri che accorrevano alla battaglia potevano essere i servi dei Cavalieri. Questi, infatti, avevano il compito di finire i moribondi e di fare bottino e, se accorsero sul campo della battaglia di Legnano, lo fecero quando già la battaglia era decisa e la sconfitta degli imperiali evidente. Secondo noi, la vittoria venne riportata, come ammette anche il Pic-ri, dai Fanti che, pur scompaginati in un primo tempo dall'urto della Cavalleria nemica, non tardano a raccogliersi intorno al Carroccio, per prolungare la resistenza ed anche per contrattaccare, dopo avere arrestato l'impeto e decimate le forze del nemico. Gli « altri >> di cui parla Romualdo da Salerno, debbono essere stati, a nostro parere, non i Fanti lombardi o milanesi; ma quelli ddle altre città confederate che, in un primo tempo, come avevano fatto ad esempio i Bresciani, si erano disordinati e che dopo, vedendo come la resistenza dei Confederati continuasse tenacissima intorno al Carroccio, ritornarono anch'essi alla battaglia, per contribuire alla resistenza stessa e q uindi per contrattaccare. · Certo si è che la vittoria di Legnano affermò, davanti a tutta l'Italia, la rinnovata virtù delle nostre Fanterie comunali. Qualunque sia la ricostruzione della battaglia di Legnano che meglio risponda alla realtà, resta, infatti, dimostrato che la vittoria fu dovuta principalm<'nte ai Fanti milanesi ed italiani, che determinarono la disfatta teutonica. Legnano può e deve essere quindi ricordata col più legittimo orgoglio in questa Storia delle Fanterie italiane », poichè in essa vinsero i nostri Fanti, raccoltisi quasi in quadrato attorno al Carroccio, contro l'incalzante Cavalleria imperiale. Pur così lontana nel tempo, la vittoria di Legnano dimostra l'importanza decisiva della F anteria in tutte le guerre che, dovute a necessità profondamente sentite dall'animo del popolo, ne coinvolgono col loro esito tutta la vita e l'avvenire. Sotto questo riguardo, i combattenti di Legnano fu rono non dissimili spiritualmente da quelli romani di Zama, da quelli piemontesi della Sirta, da quelli italiani di Vittorio Veneto, poichè, se mutano i tempi .e le armi, non muta l'animo dei nostri giovani, allorchè sono chiamati ad affrontare il pericolo per una giusta Causa. E' dunque bene a ragione che l'esercito italiano ricorda e ricorderà sempre con orgoglio la battaglia di Legnano e che il nome del1'industre ed operosa città lombarda venne imposto ad una nostra divisione di Fanteria. (<


La pace di Costanza. Così conclusasi a Legnano la battaglia, non fu difficile a Papa Alessandro, cui anche il Barbarossa si era risolto a mandare ambaciatori, d'intavolare accordi, se non per una pace definitiva, almeno 1>cr una tregua, che fu segnata l'anno appresso (u77) a Venezia, pre1cnte il Pontefice e lo stesso Imperatore, al quale - secondo riferì~ ono gli storici non sarebbero state risparmiate dimostrazioni umilianti. La tregua venne stabilita per sei anni, in capo ai quali, il 15 giugno u83, si addivenne alla pace di Costanza, che segnò un punto di partenza importantissimo nella Storia d'Italia, poichè pro · !amò solennemente, in presenza di tutti i delegati delle Città, i diritti di queste, non più ritenute vassalle dell'Imperatore; ma am messe fiJ1almente ad esercitare la piena giurisdizione sulle loro terre. Golia pace di Costanza - scrisse il Besta - _le città contraenti ebbero garantita la concessione dei diritti regali, di cui erano in pos~csso: furono riconosciute le loro consuetudines in materia fin anziaria r quelle relative all'ordinamento militare e amministrativo interno. M:l vi si riaffermò, d'altro canto, l'obbligo del giuramento <li fedeltà per tutti i cittadini e l'obbligo alla corresponsione del fodrc e degli .1ltri diritti fiscali, da accertarsi, caso per caso, per mezzo di giunte cittadine presiedute dal Vescovo. Alle ·città si diede libertà nel le ele1.if111i dei Consoli, ma all'Impero, saivo che per le città vts<.ovili , ~i , iservò il diritto all'investitura, da conseguirsi o direttamente dall'Imperatore o indirettamente dai st1oi messi. Alle città si accordò giurisdizione, ma all'Impero si riservò di giudicare in appello, direttamente o indirettamente, nelle cause dì valore superiore alle 25 lire imperiali ( 1). La pace di Costanza con la Societas Lombardorttm è parsa a molti una vittoria dei Comuni; ma Federico II vi ha pur ribadito i cardini fondamentali del suo sistema. Le concessioni da lui fatte apparivan sempre come atti graziosi a favore, non di tutti i Comuni, ma di determinati Comuni. Pur fu presto spinta oltre la sua vera portata e sostanzialmente e territorialmente. Infatti i Lombardi in ispecie, con Milano alla testa, pretesero di aver ottenuto per le loro (1) Due anni appresso le città conseguirono, tra altre franchigc, l'esen1.ionc dall'obbligo di chiedere l'investitura dei Podestà. Nel u86 Barbarossa, per mostrare deferenza ai Milanesi, nominò giudice imperiale a Milano il loro concittadino Ottone Zendadario.


città una jurisdictio piena; andò sparendo la competenza dei mt.w regi.r nel riscuotere le regalie in città e fuori, e nell'esercizio della giur_isdizione onoraria; solo in poche, per esempio, a Como, quella competenza potè persistere. E caddero poi in disuso le norme relative all'investitura dei Consoli. Quanto al secondo punto, non solo le città firmatarie ebbero a godere della pace; ma tutte le città organizzate a Comune; pur quelle, come le toscane, che non avevano pàrtecipato alla Lega, pretesero di trarne beneficio. _ La pace di Costanza restò, per secoli, la legge fondamentale regolatrice dei rapporti fra i Comuni e l'Impero; i Comuni spesso la inserirono in testa ai propri Statuti, quasi labaro della propria libertà; mentre i giuristi la commentavano, pur nelle scuole, come legge comune, vi ~i. richiamavano anche gli Imperatori per infrenare i Comuni stessi. Un po' anche per colpa dei privilegi imperiali concessi con troppa facilità ìn momenti politici burrascosi, i limiti fissati dalla legge furono spesso nel fatto oltrepassati ed i diritti dell'Impero subirono sempre nuovi attacchi. A restringere l'autarchia comunale nei limiti riconosciuti dalla pace <li C',ostanza, mirò Federico II, la cui politica giovò senza dubbio, almeno per gualche tempo, al prestigio dell'Impero ; ma, dopo la cui morte, i capitaneati o vicariati imperiali, da lui concepiti, poterono essere istituiti soltanto in alcune città da Enrico VII e da Carlo IV, i quali non sempre riuscirono nemmeno a far valere quei diritti, che avrebbero dovuto essere considerati come riservati all' Impero ed estranei al Comune.


VIII.

I COMUNI CONTRO FEDERICO 11

Federico I, detto in Italia Barbarossa, era morto ìn Cilìcia, anneft,lto nel fiume Salef, il IO giugno II9(), ed aveva lasciato un durevole rn:ordo di quelle sue qualità politiche e militari, che gli avevano concntito di esercitare una notevole influenza sulle sorti dell'Europa. l~gli aveva rappresentato l'affermarsi dello Stato feudale germanico , ontro Roma e contro la Chiesa ed aveva in qualche modo precorso 1 1empi nel far sorreggere l'autonomia germanica da una Con(edera1.ione di Principi, durata poi per molti secoli. Federico I rappresenta tutt'ora, per il popolo germanico, un eroe ltggendario ricordato dalla Storia, esaltato dalla leggenda, cantato d,1i poeti tedeschi, che lo immaginano addormentato in un antro del monte Untensberg, pronto a ridestarsi cd a combattere ancora per la Germania. Con la sua scomparsa, la lotta fra Papato ed Impero e le guerre 111 Italia tra G uelfi e Ghibellini non cessarono ed anzi continuarono o rt maggiore accanimento tra it nipote del Barbarossa, Federico II cJ i Pontefici Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX ed Innocenzo IV, che più volte scomunicarono l'Imperatore. A Fc:dcrico I successe il figlio Enrico VI e quindi il nipote Federico II, che tanta fama doveva acquistare: sia per le sue gesta, sia per il valido incoraggiamento da lui dato al progresso delle ·scienze e , !elle arti. Nato in Italia, e precisamente a Jesi, il 26 dicembre u94, da Enrico VI e da Costanza di Altavilla e cinte le corone di Germania, di Sicilia e di Puglia, Federico II, non · appena liberatosi dalla tutela di Innocenzo III, volle svolgere una politica personale ed, assicuratasi la fedeltà dei Baroni germanici con la concessione di nuovi privilegi, si dedicò al riordinamento del Regno di Sicilia, da lui preferito ai dominii germanici. Egli proseguì l'opera degli Arabi e dei Normanni e fece della sua Corte, in Palermo, il centro della cultura europea.


92

Come già si è accennato, ·Federico II dovette lottare accanitamente con i Pontefici e la lotta si svolse con alterna vicenda, con tregue non brevi e con ripetuti tentativi, da parte dell'Imperatore, di venire ad un accordo. Dopo aver promesso di partecipare alla Crociata bandita n el 1216 dal Concilio lateranense ed essere stato incoronato Imperatore in San Pietro, Federico II dovette lottare contro la inesorabilità di Gregorio IX, per ordine del quale partecipò alla Crociata nel 1228, ottenendo, in seguito ad accordi, anche il Regno di Gerusalemme. Intanto, alla lotta fra Papato ed Impero, continuata fino alla morte di Federico II, avvenuta in Puglia, nel castello di Fiorentino, il 13 dicembre 1250, parteciparono attivamente i Comuni italiani e contro gli eserciti imperiali combatterono le città guelfe, sempre gelose Jclla propria indipendenza e collegate nella seconda Lega lombarda. Durante il periodo trascorso fra la morte d_el Barbarossa e l'ascesa .al trono di Federico II le Fanterie comunali avevano compiuto qualche nuovo progresso ed esse già si distinguevano in Picchieri, che costituivano la massa principale deg li eserciti e cioè la Fanteria pesante, ed Arcieri e Balestrieri che, destinati ad iniziare il combattimento, formarono b F ;mti•ri~ li?ggera, assai m-:r.o apprezzata dei Picchieri: ma anch'essa assiduamente esercitat.t nei diversi Comuni e specialmente presso k nostre Repubbliche marinare, data l'efficacia che il suo interve nto p0teva avere contro le navi avversarie e contro la Cavalleria nelnica. Particolare fama acqu istarono, infatti, in quel tempo, gli Arcieri ed i Balestrieri rii Genova e di Pisa; nonchè gli arcieri arabi, riuniti da Federico 1I in uno speciale C...orpo, con sede a Lucera. Più tardi, e come diremo meglio in seguito, agli Arcieri ed ai Picchieri si aggiunsero gli Archibugieri, il cui numero nelle Fanterie del tempo aumentò gradatamente, fino a quando l'impiego delle armi da fuoco si diffuse in tal modo, da rendere ormai inutili gli Arcieri ed i Balestrieri. Durante le guerre di Federico JI contro i Comuni guelfi e la seconda Lega lombarda, nell'impiego delle F anterie comunali si tennè conto della differenza fra Arcieri e Picchieri ; differenza resa evidente dal ricordo delle battaglie dell'epoca, tra le quali verranno ricordate, .i n questo capitolo, quelle di Cortenuova, di Parma e della Fossalta. In esse le Fanterie comunali combatterono contro la Cavalleria e le Fanterie imperiali ed, anche se non sempre riuscirono vittoriose, il loro impiego cominciò a rispondere ad un ancora incerto concetto


93

d 'azione, se non :id un vero e proprio piano di battaglia. Furono, infatti, gli Arcieri che, a piedi od a cavallo, iniziarono i combattimenti, \."crearono di arrestare l'impeto della Cavalleria nemica, svolsero l'azione lontana, prima che le masse compatte dei Picchieri, intervenendo nella battaglia, procurassero di deciderne le sorti.

La battaglia di Cortenuova. Essa si svolse od 1237, quando Federico 11, dopo avere occupato Vicenza, Treviso e Mantova, affrontò l'esercito della seconda Leoa . o lombarda e riusd a sconfiggerlo a Cortenuova, impadronendosi perfino del Carroccio di Milano, che l'Imperatore volle m:in <l:ir~ :i Roma, come trofeo di vittoria (1). La battaglia ci dà, inoltre, l'idea dd l'impiego delle diverse specialità della Fanteria del tempo nel cam po tnttico. Molto interessanti ci sembrano infatti le considerazioni del Pieri rnll 'affermarsi degli arcieri e dei balestrieri, che lo stesso autore attribuisce ai contatti degli Italiani con l'Oriente, e sulla battaglia J i (;ortenuova. Al riguardo il Pieri dice testualmente: « Può darsi che, per il mondo germanico nord-occidentale, il 1 isorgere, invero molto tardivo, dei tiratori, nella forma prcvaknte degli arcieri, si leghi ad una non mai del tutto sopita tradizione barbarica germanica, come vuole il Delbruck; ma, per l' Italia e la ~tessa Francia, ci par difficile non ammettere l'influenza orirnlale e (r) I lettori che lo desiderino potranno trovare, sulle gesta di F ederico 1 di Federico II in Italia, maggiori particolari nelle moltissime opere pu bblicate in proposito in tutto il mondo civile. Fra esse citiamo, per F ederico I Uarbarossa: OTTONE DI FRISINGA : « Gesta Friderici I » ; « Chronica Regia Co\onien~is »; GOFFREDO DA VITERBO: te Gesta Friderici I imperatoris >>; O nONE ed /\CERBO . MOllENA: « Historia Friderici I >). Per Federico II, oltre alle Crnnache di Matteo Paris, Francesco Pipino, Riccobaldo da Ferrara, Rolandino da Padova, Salimbene da Parma e Ricordano Malaspini ed a quella, assai più nota, del Villani, ricordiamo: ScHIPA: « Sicilia ed Italia sotto Federico Il n; « Epistolarum Innocenti III libri XV! »; « Regesta Honorii Papae III »; « Les régistres de Grégoire IX ,,; t< Les régistres d'Innocent IV»; NrcoLÒ m. JAMSILLA: « Historia de rebus gestis Fridcrici II n; SABA MALASPINA: « Rerum sicularum libri VI »; E. KANTORov1cz : 11 Kaiser Friedrich der Zweite >>; A. DEL VEccHIO : « Intorno alla legislazione di Federico II >1; A. DE STEFANO: 1c Federico II e le corrcmi spirituali dei suoi · tempi l>; HASK.INS: « Science at th~ Court of F rederich II ,1.


94 soprattutto quella delle Crociate. L 'Oriente conosceva dalla remota antichità l'uso dell 'arco e attorno al mille rimetteva in uso la balestra. Arco e balestra presentavano reciprocamente vantaggi e svantaggi: la balestra sostanzialmente è più pesante, di uso meno facile ed ha un tiro più lento; ma in compenso più preciso e con maggior forza di penetrazione. Nel corso del secolo XII la balestra s'era venuta diffondendo in Italia, per opera specialmente dei Genovesi e dei Pisani ; ma era adoperata a scopo esclusivamente difensivo, dalle guarnigioni di terre e castelli (1). In Oriente si ha una precisa affermazione in campo aperto dei balestrieri italiani. Presso Giaffa Riccardo Cuor di Leone viene sorpreso in marcia da un nugolo di Cavalleria egiziana. Egli schiera i suoi in tre righe successive: davanti i Cavalieri appiedati, col ginocchio a terra e le lancie volte verso il nemico e dietro u na doppia riga di balestrieri genovesi e pisani. La Cavalleria nemica attacca a più riprese, ma è sempre respinta ed alla fine si ritira con gravi perdite (2). Una tradizione vuole che il Sovrano inglese, partito pochi mesi dopo dalla Terra San.ta, abbia, forte di questa esperienza, diffuso fra i suoi l'uso della balestra e, attraverso le sue ulteriori guerre conti nental i, l'abbia fatta conoscere a; Prd11-:.:.~; (3). (( Comunque in Italia, al principio del secolo XIII, l'uso dei tiratori in campo a perto, a sostegno sia della Cavalleria che dei picchieri, si fa frequente. Nd 1201 , ad esempio, in un'alleanza tra Bresciani e Cremonesi, i primi promettono di sostenere i vicini <i cum inilitibus, peditibus, arcatoribus et balestreriis » (4). E' notevole che pedites si(1) Secondo il « Regesto Pontif. » dello Jaffé, p. 585, n. 29, nel Concilio Lateranense del u 39, l'uso della balestra sarebbe stato proibito contro i Cristiani : « Artem ball istariorum et sagittariorum advcrsus Christianos et catholicos exerceri sub anathemate prohibent ». Ma forse la proibizione riguardava solo l'uso della balestra nelle giostre e tornei o, come già pensò il Muratori, il divieto si riferiva all'im piego di frecce --:ivvdenate. In halia troviamo l'impiego di tiratori già negli assedi di Tortona e Crema. Da parte nostra reputiamo opportuno non dimenticare che l'uso dell'arco si era già affermato anche nelle Fanterie di Roma, specialmente durante l'Impero, come abbiamo avuto occasione di ricordare nel primo volume di quest'opera, Presso i Genovesi ed i Pisani l'impiego dell'arco e della balestra si era diffuso anche tra gli equipaggi delle navi, per colpire quelli avversar1, prima ancora che si ve nisse all'arrembaggio. (2) Vedi : KoH1.ER, III, 2, 266-6']; DELBRUCK, III, 427; OMAN, [, 318. (3) MURATORI: <( D i ssert ll, XXVI; DELBRUCK, III, 404, nota 3. (4) RosOLOTII: « Doc. Istor. e Lett. di Cremona», p. 70.


95 Hnifìca ora picchied, in contrapposto ad arcieri e balestrieri. Il vero Fttnte resta il picchiere; i tiratori sono una specialità della Fanteria non molto numerosa. Nei patti di rinnovazione della seconda Lega Lombarda nel 1231 v'è l'impegno, da parte dei collegati, <li appreHm: 3000 Cavalieri, 10 mila Fanti (picchieri) e 1500 balestrieri (1) .

Balestra.

Questi balestrieri non sono pisani, per ovvie ragioni; ma non possono neppur essere tutti genovesi: i tiratori evidentemente si diffondevano in tutta l'I_talia settentrionale. « Ma, a rompere per mezw dei tiratori le. compatte masse dei picchieri, pare avesse pensato da alcuni · anni, prima forse della sua )pcdizione in Oriente, l'Imperatore Federico II, anticipando di oltre mezzo secolo l'opera del Re inglese Edoardo I. Egli, infatù, organizzò una Fanteria d'arcieri: i famosi Saraceni di Lucera (2). Quale (x) « Annales Piacentini Guelfi ». (2) Per i Saraceni di Lucera in genere vedi il noto lavoro dell'Egidi, t< La colonia saracena di Luccra e la sua distruzione» in Arch. Star. Napol., XXXIV XXXVI (1912 - 15).


fu la loro efficienza? Parrebbe considerevole. In due scontri essi si misurarono con alterna fortuna coi picchieri lombardi, a Cortenuova e davanti a Parma; ebbero poi parte cospicua, secondo la tradizione, nella difesa del Regno di Sicilia contro gli Angioini, nel 1266, sia a San Germano che a Benevento. Ma, innanzi tutto, quanti erano? La colonia di Lucera, schiettamente agricola, non superò mai, nei momenti di maggior floridezza, i 35-40.000 abitanti. Disponibili per guerre lontane ed, in piena efficienza combattiva sul campo di battaglia, è quindi difficile che ce ne fossero più di cinque o seimila; la cifra di 7000 in Lombardia nel 1237, data da '(>arisio da Cerea (1), può ritenersi come l'esponente massimo della loro efficienza numerica; ma è forse già troppo alta. Erano in gran parte a piedi e solo un piccolo numero àei più facoltosi combatteva a cavallo; unica arma l'arco, e non pare che, fino al tempo degl i Angioini, avessero alcun'arma difen siva (2). La loro capacità difensiva veniva tutta dalla loro mobilità e dallo sfruttare le accidentalità-del terreno. Ma non formavano Corpi tattici e sulla loro disciplinatezza è lecito nutrire molti dubbi. Costituivano, insomma, una Fanteria leggera )).

Nella battaglia d i Cortenuova si trovano di fronte, secondo il Picri, tiratori saraceni è picchieri lombardi. Que:.ti u ltimi sono sorpresi e obbligati a battaglia dall'Imperatore (3). Questi ha licenziato (r) <e Annales Vcroni:'n ses )). (2) Così l'Ec m,, op. cit., XXXIV, 624. Gli « Annales Parmenses Majores », ricordano espressamente che nel 1248, davanti a Parma, Federico aveva balistarii tam equites quam pedites. SABA MALASPINA rappresenta i Saraceni, nel 1266, come armati non aliis armis quam arcubus. Cfr. MURAlORI, « Rerum italicar\Jm scriptores » , vnr, 823, (3) Fonti principali : le due lettere di Federico II al Papa ed ai Cardinali del 2 dicembre u37 ed a Riccardo di Cornovaglia, del 4 dicembre, in HU1LLARDBREHOLLES: « Historia diplomatica Friderici II», voi. V ; gli « Annales Piacentini Gibellini »; la « Cronica regia Coloniensis >,; gli ·« Annalcs Bergomatcs >>; gli « Annales Januenses », in « Fonti dell'Istituto Italiano »; la cronaca di Riccardo da S. Germano, e specialmente HADANlt: << Dìe Schlacht bei Cortenuova » . Quest'ultimo autore sostìene, contro la versione degli « Annales Placencin~>1 , che, oltre la sorpresa strategica, i Lombardi ebbero a subire pure una vera e propria sorpresa tattica. Ma, in questo caso, il valore della Fanteria lombarda apparirebbe anche maggiore. Sta di fatto che i Lombardi ebbero il tempo di mandare una grossa avanguardia contro il nemico, due chilometri


97 lt Fanterie ghibelline lombarde ed ha seco i Cavalieri tedeschi, puHIicsi e ghibellini italiani, più i Saraceni. Muove al mattino del 27 11ovembre da Soncino, coll'esercito diviso in tre scaglioni: avanguar1hn dj Cavalieri tedeschi, grosso coi rimanenti Cavalieri ed, infine, i 'I ,rnccni. In tutto forse 3000 Cavalieri e 8000 Fanti, tra arcieri cd nomi ni del seguito. I Lombardi, sorpresi in marcia presso il castello dt Cortenuova, hanno però il tempo di mandare contro ai nemici una 11v,mguardia di Cavalleria e di raccogliere le rimanenti forze, Fanti r avalieri, attorno al Carroccio, colle spalle al castello e la fronte p1 otctta da un piccolo fosso. Sono, fra tutti, presumibilmente t lj00-2000 Cavalieri e 6000 Fanti, in gran parte picchieri (1). Erano, 1 ome a Legnano, in parte almeno, leva in massa? Crediamo di no. I~' vero che a Milano era in corso l'ascesa dei ceti borghesi, affer1natisi fin dal n98 colla Credenza di S. Ambrogio ; ma si trattava p11r sempre d'un movimento soprattutto d'alta e media borghesia: il governo era ancora in gran parte nelle mani dei nobili e dei grandi 11\ercanti. E non siamo alieni dal r itenere col Ghiron che la stessa Sr,ci~tas Fortium, sorta secondo la tradizione col pretesto della difesa tld Carroccio, altro non fosse che una compagnia di militi (2). Inol~vnnti il loro campo e che questa avanguardia trattenne gl'Impcr iali per quasi 1111'ora. Non ci pare si possa quindi parlare di vera sorpresa tattica, come ,r si trattasse di truppe colte in marcia o durante lo spiegamento. (r) Le forze dell'Imperatore si possono, con una relativa sicurezza , fa r -,.lire a 2000 Cavalieri tt"deschi , 500 Cavalieri lombardi ghibellini ed altrettami Covalieri pugliesi o poco più. Ed, in,oltre, i Saraceni ed il contingente di Bcrw11no, che partecipò solo indirettamente alla battaglia. Totale: 3000 - 3200 Cavnlieri e 7000 - 7500 Fanti. Assai più difficile il computo delle forze dei Lom1,ardi. Secondo la rinnovazione della Lega del 1231 , essi dovevano avere 3000 ,·nvalli, 10.000 picchieri e 1500 tiratori; alla battaglia però dovettero trovarsi ,,.,lo i Cavalieri di Milano, Piacenza, Alessandria, Vercelli, Novara, Como e Lodi, e le Fanterie di Alessandria, Milano, e forse Piacenza. Il contingente piacentino sarebbe stato, infatti, di 1000 milites, secondo gli « Annales Plat"entini n: è cifra troppo :i!ta, e deve comprendere Fanti e Cavalieri , Sappiamo poi dagli stessi « Annali di Piacenza ,i che la città lamentò 120 Cavalieri prigionieri, Milano ne ebbe invece 800 e 3.000 Fanti (che il tardivo e p<>co sicure Galvano Flamma riduce a 300 Cavalieri e 2 .000 Fanti); le altre città 173 Cavalieri: in totale dunque, 1.093 Cavalieri e .3.000 Fanti, contro 6.000 uomini dati dagli << Annales Parmcnses », p<>trebbe corrispondere alla somma dei morti e feriti e prigionieri; e probabilmente le perdite salirono a più di metà dell'intera forza. Si può quindi concludere che i Lombardi dovevano disporre !I Cortenuova di 2.000 Cavalieri e di 6 o 7 mila Fanti al massimo. (2) Vedi, al riguardo, oltre il MANARESI ed il Counu•o, HEGEL, <( Storia della costituzione dei Municipii italiani ,,; GHIRON : e< La Credenza di S. Am8


tre a Legnano era una battaglia pro arù et focis, in vicinanza della città: qui si trattava d'un esercito federale, messo in campo a protezione di Brescia, minacciata dall'Imperatore; la Fanteria milanese doveva rapprese~tare una parte degli dementi cittadini, inviati al campo per rotaz10ne. . (< Nelle sue linee generali !a battaglia è nota. <( Prima fase: scontro di Cavalleria, verso le tre del pomeriggio, fra l'avanguardia tedesca e quella lombarda. Dopo quasi un'ora di combattimento, quest'ultima retrocede in gran disordine e diffonde il panico nella retrostante massa di Cavalieri e Fanti, che in parte si dà alla fuga. I Fanti di Milano e di Alessandria restano però al loro posto, insieme ad un certo numero di Cavalieri ed attendono intrepidamente l'urlo nemico (1). « Seconda fase: interviene Federico col grosso e cerca di vincere la resistenza del quadrato nemico. Ma i Cavalieri sono ostacolati dal brogio e la lotta <lei nobili in Milano (1198-I2(p ) l> in Arch Stor. Utmb ., III, (1876). Sullo scorrio <ld secolo XII ed agli in izi del XIII a M ilano ci sarebbero stati quattro partiti : a) nobili, capitani e valvassori, aristocrazi a terriera e milìt :ir r ; h) b M n tt,1. nohil i r cav;ilieri st:icc;i~isi cfa!la vi:-cchia casta per partecipare attivamente :i lla vita politica; e) mercanti; t!). Credenza <li S . Ambrogio. Quest·ultima, al d ire àel Fiamma, compre1tdeva i camifices, furnarii, caliga11·i , sutores, fab,-i, lanistae, spetiariì, coementarii et simile;. O ssia il piccolo commercw e l'artig1:in:ito m11:!nese. E ' noto che, in questo periodo, si ebbe il trapasso dall'orjtani zzazione militare del popolo in porte e cappelle a quella di vere e proprie compagnie d 'armi. L 'organizzazione militare servì di base all'organì1.zazionc politica. E dapprima, in akune Littà almeno, si ebbe una coesistenza di militi e popolani entro la stessa società, finchè non si giunse ad una differenziazione nc:tta . Agli effetti della prassi g uerresca, non sembra, però, che l'innovazione portasse modificazioni sostanziali. Mutò probabilmente l'inquadramento dei Fanti, ma nel senso che i loro ufficiali erano più che mai dei primi inter pares. La Fanteria continuò ad essere una Fanteria cittadina, con scarsa partecipazione degli elementi <lei contado, sempre uùlizzati soprattutto come conducenti, sterratori e simili. Notizie interessanti sulla società delle armi a Pisa, in VoLn:, « Studi sulle istituzioni comunali a Pisa l>. Quanto poi al carattere delle guerre nel tempo dì Federico II, vedi P. P1Eni: et La crisi militare italiana nel Rinascimento ll. (1) Lettera di Federico a Riccardo di Cornovaglia : « Ad carrochium tandem, quod juxta morus municipìi Curtis Nove fossatorum vallis circumdatum et immensa militum copia et suorum omnium peditum mira defensione pugnantium munitum invenimus applicantes, ad expugnationcm et capturam ipsius perstitimus )). e< Annales Piacentini )), « Rdique vero schere imperatoris... inceperunt bdlum cum parte milicie Lombardorum et Populo Mediolani et Alexandre qui apud carociurn remanserant l>.


99 l,,sso, che spezza la loro foga ed, anche se superato, concede uno •11,1zio troppo ristretto per caricare. Cònclusione: come già a Le/ti•:11~0 il Barbarossa, così ora Federico II non riesce a rompere il guadi.Ilo dei Fanti lombardi (1). Come a Legnano, questi combattono 111111ai soli, chè la massa dei Cavalieri in rotta pensa, se mai, a porre l' Adda fra sè e il nemico. « Terza fase: la schiera che sopravviene tempestivamente e riMllvc le sorti della battaglia non è, questa volta, dalla parte dei Lomlwdi, ma degl'Imperiali. Sono i Saraceni che, venuti a piedi, posono ora soltanto far sentire la loro azione. Se non che questa non trova sviluppo, a cagione delle tenebre sopraggiungenti. Federico, però, può ormai considerarsi sicuro della vittoria ; ordin a ai suoi di rrslare sul posto senza svestire l'armatura di maglia ferrea, prnnti J. , iprendere l'azione alla prima alba. Nella notte i L-0mbardi possono 1111rarsi indisturbati, abbandonando il Carroccio; il giorno dopo, enerwc:1mente inreguiti, devono lamentare gravi perdite in feriti e prigioniC'ri (2). « Concludendo: dopo una strenua difesa, la .Fanteria lombarda ~i è ritirata quando ha visto 'che nessun aiuto più le sarebbe giunto. Se •I mattino seguente si fosse rinnovato il combattimento, avremmo .1vuto probabilmente un anticipo della surricordata battaglia di Park irk : i Saraceni avrebbero battuto col loro tiro i picchieri lombardi, 11 avrebbero scompaginati e quindi la Cavalleria sarebbe tornata vitluriosamente alla carica. L'azione dei Saraceni è stata più potenziale d,e effettiva; ma non per questo poco importante (3). Da parte dei 1 ollegati fa una certa meraviglia, invece, la nessuna parte avuta dai tiratori. La Lega Lombarda ne aveva, l'abbiamo visto; ma dovevano (1) Questa volta però il quadrato lombardo fu intaccato, il che non era ~vvcnuto a Legnano, sebbene a Federico non riuscisse di romperlo. Lettera .Jcl 2 dicembre: (< Usque ad themenem fere carocii ex nostris aliquos vidimus pervenisse )). · (2) Da alcuni vecchi autori vien data parte decisiva, nella vittoria imperiale, all'opera dei ghibellini bergamaschi. Essi, in realtà, si limitarono a gettarsi da Gh:salba, a 6 chilometri a nord-ovest di Cortenuova, sui bagagli dei Lotn· bardi e a disperdere i conducenti. E ra una semplice azione collaterale, che nessuna vera influenza esercitò sullo svolgimento della battaglia. (3) Si poeebbe però sempre sostenere che, anche senza i Saraceni, avrebbe vinto ugualmente. Ormai i difensori del Carroccio erano circondati ed incapaci di un'azione controffensiva. Ma comunque l'azione dei Saraceni avrebbe pur semp,e facilitato la vittoria. Intorno alla loro partecipazione al combattimento, 1utte le notizie si riducono alla << Encyclica ad fideles imperii missa>>; attribuita


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essere adoperati soprattutto a difesa delle mura. In realtà siamo ancora al semplice quadrato di picchieri, che agisce energicamente, ma nella difensiva. Non si può però affatto escludere che, se si · fosse verificato, come a Legnano, un ritorno offensivo della propria Cavalleria, i Fanti milanesi ed alessandrini sarebbero stati in grado di passare a) contrattacco, e molti dei Fanti fuggiaschi si sarebbero rian-

Balestm.

nodati. La Fanteria lombarda di Cortenuova possedeva, insomma, le stesse virtù, le stesse attitudini e gli stessi limiti di quella di due generazioni prima a Legnano. « Una caratteristica sempre più evidente nel modo di guerreggiare dei Lombardi è quella dello sfruttamento del ter.reno sul campo <li battaglia, cercando soprattutto il riparo dietro corsi d'acqua, fossi, canali, o accanto a tratti paludosi ed a boschi. Ed esso non si limita al campo di battaglia, ma a tutto il teatro d'operazioni e passa dal campo tattico a quello strategico. I maggiori corsi d'acqua, fiumi o a Pier delle Vigne, (in « Huillard - Bréholles », V, 137-38) e di assai minor valore delle altre quattro lettere dell'Imperatore. In essa è detto che, nella lotta intorno al Carroccio, le fre..:ce ciei Sara'.:eni danneggiarono assai le file del nemico.


IOI

,mali che siano, perdono il carattere di ostacoli occasionali, per assu111cre quello di vere linee strategiche. Ciò potrebbe, teoricamente almeno, portare alla formazione d 'un principio strategico difensivo11mtroffensivo, ma nella pratica non si esce da quello difensivo. Il 1 hc corrisponde al carattere generale della lotta ; i Lombardi non 1111endono attaccare l'Imperatore, ma resistere solamente alle sue ec1 <'~sive pretese. Nel campo tattico poi l'atteggiamento difensivo diviene abituale. La Fanteria si accampa presso gli ostacoli naturali ed 1111 ificiali, la Cavalleria rimane presso i punti di più fade accesso : 111:i anche qui si scavano trincee e terrapieni o si costrui scono teste d1 ponte: è l'inizio di quella fortificazione campale e semiperma11cnte, assai diversa invero da quella romana, e che tanto si svilupptrà in Italia più tardi, soprattutto dal 1440 in poi (1). Questo virtuo\isrno fortificatorio tende per un verso a sviluppare la tattica ed a porre nuovi problemi, ma dall'altro contribuisce a mantenere nell a Fanteria una mentalità puramente difensiva. Il che non era sen za wavi pericoli. La campagna del 1239 sotto Milano sviluppa al mas, 11no questa tendenza e tuttavia la difensiva tattica e strategica fini\CO!lo col trionfare (2) . Troppi altri fattori entrano in campo in ques1e guerre! Quella del 1245, pure nei territorio milanese, premila ~li \tessi caratteri: i Milanesi s'appoggiano da un lato con Fanti e Cavalieri contro Federico, al Ticindlo, e dall'altro, quasi con soli Fanti, contro Enzo ; ma fallisce invece contro Enzo, che riesce a p:issar l' Adda a Cassano ed a distruggere la presa de.I canale, invano difes;i da 150 balestrieri genovesi. Ora appaiono a luce meridiana gl'inconvenienti del sistema. Privi dell'ostacolo passivo, i Milanesi (Fanti di due porte e del contado) subito si ritirano verso le fide mura della loro città. Inseguiti dalla Cavalleria ghibellina, vengono scompigliati e perdon molti prigionieri, e vuole fortuna che il figlio dell'Impera1

(1) La fortificazione campale rorna11a r:ippre~nt:i-- un· tutto s_istemaàco e geometrico, cerca il terreno p iano e affida al lavoro dei soldati la sicurezza del campa. Qui, invece, si cerca innanz i tutte> il vantaggio del terreno e la fortificazione campale deve soprattu~c. integrarlo. Federico II, prima di Cortenuova, s'era trovato incapace di assalire i Lombardi nelle loro pasizioni, tra corsi d'acqua e paludi; e solo con un inganno riuscì ad indurli ad abbandornue le loro pas.:zioni, cosl da obbligarli ad una battaglia in campo aperto. Ma an· che a Cortenuova la Fanteria lombarda utilizzò subito gli ostacoli passivi che le circostanze le mette\'ano a disposizione. (2) V c:di, per questa campagna, specialmente gli e< Annales Piacentini Gibcllini ». Molte notizie anch~ in Galvano Fiamma (MURATORI, R. I. S., XI).


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tore, trascinato dal suo impeto, avanzi inconsideratamente in Gorgonzola e sia fatto prigioniero: i Milanesi lo liberano a patto di continuare indisturbati la ritirata (1). « Ma è notevole il fatto che Federico, di fronte alle difficoltà di superare la fortificazione permanente e campale che i Lombardi gli opponevano, non abbia cercato, al di fuori del concorso dei Saraceni, di sviluppare le Fanterie comunali ghibelline, sì da creare una Fanteria da breccia. Nulla di .t utto questo ; all'assedio di Viterbo (1243) chiamò seimila Fanti della Toscana, ma solo come guastatori, e fece sferrare l'unico assalto al trinceramento avanzato nemico dai suoi Cavalieri appiedati.

La battaglia di Parma. La vittoria conseguita a Cortenuova nel 1237 non aveva concluso la lotta fra Papato ed Impero, lotta che, come già si è accennato. continuò fino :illa morte dell'Imperatore. Uno degli episodi più importanti di tale lotta venne senza dubhio rap pre~c11t:Ho ch lb battaglia di Parma, :1Vvcnuta nel 1248, quando la ribellione dei cittadini parmensi richiamò improvvisamente Federico 1f dal progettato viaggio a Lione, dove avrebbe voluto recarsi a conferire personalmente col Papa Innocenzo IV che, fuggito improvvisamente da Roma, vi si era rifugiato per imporre a Federico II una . . nuova scomunica. Accorso immcdiat,1mente contro la città ribelle, Federico II cinse Parma d'assedio e volle chiamare l'accampamento del suo esercito presso la città col nome augurale di Vittoria. Ma gli assediati riuscirono a sorprendere l'accampamento imperiale, mentre l'Imperatore si era recato alla caccia col falcone, e lo distrussero, uccidendo e prendendo prigionieri molti nemici, impadronendosi del tesoro imperiale e costringendo l'Imperatore, inutilmente accorso troppo tardi alla battaglia, a ritirarsi in Cremona. La vittoria di Parma cancellò, dopo undici anni, il ricordo della sconfitta di Cortenuova. {r) Le ·stesse fonti, più gli « Annales Januenses » . Pochi giorni dopo :i Lodi, Federico fece mutilare del braccio e dell'occhio destro i 38 balestrieri genovesi presi da Enzo a Cassano. La Fanteria di tiratori genovesi gli appariva, evi' dentemente, assai mole;ta e pericolosa l


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Nd 1247-48, attorno a Parma, si trovano -

secondo il Pieri -

I~, la prima volta di fronte tutte quante le di verse Fanteric : i pie• h1cn ghibellini e gli arcieri saraceni da un lato, ì picchieri guelfi ed 1 halcstrieri genovesi dall'altro (1). Ma nessuna azione di viva forza , u II tentata: nè da Federico contro le difese della città, nè dai Lomh.11 di contro l'accampamento forti1ìcato di Vittoria. Nel febbraio 1248 I',11.ione si concentra sul Po a Brescello, donde una flottiglia guelfa il11vrcbbe vettovagliare gli assediati. L'Imperatore, che ha congedato ,1 cl,ccrnbre gran parte delle truppe, non dispone che dì poco più di 1rnlO Cavalieri, 2000 Fanti cremonesi e forse 4000 Saraceni ; per di 1111\ il 18 febbraio, ìa metà dei Fanti cremonesi sono distaccar~ a Bre•,, rllo ed egli stesso si trova a Fornovo, alla caccia, con 500 Cavalieri. 111 Vittoria non sono dunque rimasti che 500 o 600 Cavalieri ce<.bdti, 1000 Fanti cremonesi ed i Saraceni. Quella fatale mattina il grosso drll c forze lombarde esce da Parma per sbloccare Brescello e ricevere , viveri . A copertura di questa colonna, e per tenere a bada il camix> 1111pcrii:lle, escono dalla parte opposta 500 Cavalieri, i Fanti di due porte e tutta quanta la massa del popolo armata alla meglio. Parte dr , Cavalieri, conformerricnte al piano, si spinge verso l'A ppennino i;:-, richiam::ire quivi le forze imperiali; m2 si trovano assaliti :i!l"i1TJ.pcnsata dai Cavalieri ch'erano a Fornovo e retrocedono in disordine l'n"SO la città. A quelia vista i Saraceni escono a furia da Vittoria, 11d la speranza di penetrare in Parma assieme ai fuggiaschi ; ma si 11 ovano addosso all' improvviso i rimanenti Cavalieri, i picchieri, la massa dei Parmensi : vengono subito ributtati e volti in fuga disordinata. I vincitori, inseguendoli alle calcagna, entran_o con loro nel campo imperiale: i Cavalieri tedeschi ed i Fanti cremonesi nulla ormai possono fare: il campo è dato alle fiamme: grande strage di Saraceni, 100 Cavalieri, 1500 Fanti sono fatti prigionieri, il Carroccio dei Cremonesi resta nelle mani dei collegati. Federico II , tardi accorso, può solo riparare a Borgo S. Donnino. (1) Fonti: soprattutto gli « Annales Piacentini », gli « Annales Parmenses lJ, e la « Cronica 1) di Fra Salimbene da Parma. Il lavoro del SORAGNA, << Assedio e difesa di Pa rma)), ben poco serve al nostro scopo; e neppure molto giova il lavoro del MARCHErn - LoNGHI, pn:gevoìissimo sotto molù rispetti, sul 11 Cardinale dì Montelongo in Lombardia n, in Archiuio della Società Romana di Storia Patria, XXXVII (1914). Che Federico II, al principio dell'assedio, disponeva di ben 37.000 uomini, come ancora si trova scritto, è errore dovuto ad un gi;ossolano fraintendimento d'un passo di Salimbene. Cfr. DELBR1JCK., III, 370, nota 2 . Federico difficilmente Poteva disporre di più di 10.000 uomini.


« Dal punto di vista tattico, la battaglia però inS<:gna poco: è un caso tipico dell'indisciplina delle soldatesche medioevali: non si può parlare di arcieri e di picchieri regolarmente di fronte; sembra, anzi, che i Saraceni fossero usciti a furia dal loro campo, avidi solo di bottino, senza neppure gli archi e solo quindi armati di coltello e pugnale e senz'alcun'arma difensiva. Non si può però negare ai Fanti parmensi un alto spirito guerriero e un'assai maggiore disciplina ».

Le milizie bolognesi e la battaglia della fossalta. Per mettere in evidenza il valore delle milizie e delle Fanterie bolognesi, ricordiamo la battaglia della Fossalta, svoltasi, come è noto, nel 1249, e che diede un nuovo colpo al prestigio imperiale in Italia. Le città guel fe Bologna e Parma sono in lotta contro le ghibelline Moden;i e Reggio Emilia. Trovavasi allora nell'Italia settentrionale Re Enzo, figlio naturale di Federico Il e suo Vicario nella regione. Bo!og~:1, c~e aveva accolto i Guelfi. profughi da Firem.t:, era decisa, spintavi da.I Papa, ad opporsi al dominio imperiale. Nel 1249 la guerra durava già da due anni fra Bologna ed i Comuni ghibellini, protetti dalle truppe di Re Enzo, e ne erano derivate grandi devastazioni peJ Modenese e pel Reggiano, senza che si venisse ad una decisione ; quando, nella primavera del 1249, Bologna volle tentare l'ultima prova. Gli Estensi di Ferrara, che già avevano rifiutato di assumere il comando dei Guelfi, mandarono 3.000 cavalli e 2.000 Fanti a rinforzare l'esercito bolognese. Questo era composto di 1.000 cavalli ed 8oo Fanti delle Compagnie d':mnj; nonchè di 6.000 uomini della Fanteria comunale di tre porte: porta Strevi, porta San Procolo e porta Ravegnana, poichè le milizie comunali erano divise a Bologna, come a Milano, a seconda delle porte della città. Mentre l'esercito bolognese marciava verso il Panaro, venne rinforzato da altri 2 .000 Fanti della porta S. Pietro. Comandava i Guelfi un notabile bolognese, · çerto Ugone. Re Enzo disponeva di circa 15.000 armati, tra i quali molti Tedeschi. I due eserciti contrapposti si contentarono, per qualche tempo, di qualche scaramuccia, mentre le milizie di Crema, di Piacenza e


d1 altre città tentavano di richiamare l'esercito imperiale verso RegEmilia. Il 25 maggio 1249 giunse, però, ad Ugone l'ordine dei reggitori l,olognesi di attaccare le truppe di Re Enzo. Ricevuto tale ordine, q{li suddivise i suoi uomini in quattro scaglioni. Nel primo pose gli Koo Fanti avuti dagli Estensi e parte della loro Cavalleria; nel se, 11n<lo i rimanenti Cavalieri estensi ed i 2.000 Fanti bolognesi di Porta 'ì. Pietro ; nel terzo i Fanti delle altre tre porte di Bologna e nel q11:1rto gli uomini delle compagnie d'armi a piedi ed a cavallo. Anche questa ripartizion e ci dimostra che, alla battaglia lineare 111cdioevale, si era a poco a poco sostituita una tattica che, richiedendo un certo scaglionamento delle forze, permetteva la manovra. Gli r lr menti celeri del primo e del secondo scaglione dovevano, in fatti, 1111_pegnare e trarre in inganno il nemico, mentre la massa della F:i nteria, raccolta nel terzo scaglione, era destinata ad annientare l':ivversario. Il quarto scaglione, costituito dalle truppe più scelte e meglio addestrate, formava la riserva, destinata a sfruttare lo !>pt 1;1t o successo od a coprire, nel caso di una sconfitta, il ripiegamento delle forz e bolognesi. Un'abile finta del primo e del secondo scaglione, effettuata ::i \Ud, alle prime luci dell'alba del 26 m aggio, indusse Re Enzo a temere di vedere aggirata la propria ala destra ed a S]X>Stare le sue forze verso sud-est, sulla Fossalta, sulle cui sponde i Bolognesi ini1.iarono la battaglia coi Cavalieri estensi e coi F anti di Porta S. Pietro, .finchè, sopraggiunta ]a massa delle Fanterie, queste ìmpegna1ono l'esercito ghibellino per l'intera giornata, logorandone le forze e sostenendo così la fase più lunga e più importante della battaglia, le cui sorti furono decise, alla sera, dall' intervento delle compagnie d 'armi. Come è noto, Re Enzo, catturato dai Bolognesi, rimase prigioniero per oltre 20 anni, sino alla sua morte, non avendolo Bolog na restituito al padre, a m algrado delle insistenze e delle minacce di Federico II. Anche la battaglia della Fossalta, sostenuta in gran parte e decisa dalla Fanteria, dimostrò il valore delle milizie comunali bolognesi, combattenti anch'esse per la libertà, contro l'oppressione imperiale. Il suo ricordo fa, senza dubbio, onore alle Fanterie delle milizie comunali bolognt'si e dà una chiara idea dei lenti progressi della tattic.a, con lo scaglionamento in profondità, assunto dai Bolognesi. HlO


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Abbiamo così ricordato la Fanteria nelle milizie delle città lombarde ed emiliane e, con la descrizione delle più importanti battaglie della lotta contro l'Impero, abbiamo procurato di raccogliere tutte le notizie riguardanti anche l'impiego di essa nel campo tattico. Nei capitoli seguenti prenderemo in esame la costituzione e l'impiego delle milizie comunali toscane.


IX.

LE MILIZIE COMUNALI TOSCANE

I.e compagnie del popolo e del contado di Firenze. La milizia fiorentina fu costituita o, per meglio dire, riformata uri r250, quando la città scelse - come ricordava il Villar1 - un xovcrno popolare, fece abbassare le torri dei palazzi dei nobili, raflurzare le mura intorno all'abitato, erigere il palazzo del Podestà. li primo Capitano del popolo di Firenze fu Uberto Rosso da Lucca. La milizia fu divisa, non già a seconda delle porte della città, w mc a Bologna cd a Milano; ma in 20 gonfaloni o compagnie, di•1ribuiti nei sei sesti della città e, più tardi, in r6 gonfaloni, rioartiti 11ci quattro quartieri di Firènze. La milizia del 1.'.0ntado venne -tr:it,a tla <)6 pivieri, riuniti in Leghe. Della milizia, divisa in compagnie, dovevano far parte tutti gli uomini atti alle armi dai 15 ai 70 anni, eccettuati i Grandi, i Ghibellini e le loro famiglie. I componenti ciascuna compagnia erano armati con mezzi diversi; ma disponevano quasi sempre di 20 balestre, 20 lance, 20 mannaie aretine; mentre gli altri si armavano come meglio potevano. Nelle armi, come nello scudo e nell'elmo, gli uomini non dovl...'vano portare altro stemma che quello della compagnia. Ogni compagnia era formata dagli uomini delle diverse Parrocchie, a seconda del numero dei parrocchiani. Un ordine dell'aprile 1304 per la formazione dell'esercito precisa quali delle 56 Parrocchie, nelle quali era divisa la città, dovessero contribuire a formare ciascuna compagnia e negli Statuti delle leghe venivano riportate le statistiche del contado, i cui uomini, raccogliendosi nelle Leghe suddette, restavano sottoposti al Comune maggiore. Le compagnie della milizia comunale fiorentina - come anche quelle di Pisa - erano incaricate di mantenere l'ordine pubblico, di difendere il palazzo della Signoria ed il Governo.


!08 In caso di tumulto o di minac(ia nemica, alcune compagnie dovevano recarsi al palazzo del Comune, altre nelle località già prestabilite nell'interno della città e fuori delle mura. Le compagnie doveva no provvedere alla sicurezza anche contro· i malfattori. In guerra le compagnie di Fanti formavano il nerbo principale dell'esercito, non essendosi ancora diffuso l'impiego delle · truppe mercenarie e delle compagnie di ventura. Sulle milizie fiorentine storici come il Villani e l'Ammirato ed importanti documenti come gli « Statuti per la Milizia della città e per quella delle leghe del contado >1 - che vennero poi inseriti negli Statuti generali del Comune, compilati nel 1321 e tradotti nel 1355 in italiano da Tomaso da G ubbio (1) - ci permettono di dare particobreggiate noti7.ie. All' inizio della guerra, i Fiorentini facevano suonare la campana, detta la Martinella, sull'Arco della porta di S. Maria (2), come avvenne nel 1260 per Ja guerra contro Siena, e spiegavano le bandiere delle compagnie. Nel dichiarare la guerra contro Arezzo, nel 1288, le bandiere dell'esercito furono esposte, giorni prima, alla Badi2 di Ripoli , sulla strada verso Arezzo. Dicluarata la guerra, quotidiani bandi ammoniv.1no tutti gli uomin i di Firenze e del contado di provvedersi del necessario e si depucavano, per ogni Parrocchia, alcuni cittadini, incaricati di scegliere gli uom ini atti alle armi dai 15 ai 70 anni e di fare una lista degli assenti. Gli uc mini presenti venivano divisi in due parti: quelli d1e dovevano m arciare verso il nemico e quelli che dovevano restare a difendere la città. I prinµ avevano l'obbligo di partecipare alla guerra a loro spese e non ricevevano stipendio dal Comune. Analogamente si procedeva nel contado per la guardia ai castelli, .alle Pievi cd alle ville. Durante la. preparazione dell'esercito, la campana del Comune suonava ogni giorno e, finchè l'esercito non avesse lasciato la città, le officine ed i fondachi dei mercanti dovevano rimanere chiusi. Alla Fanteria comunale si aggiungevano i soldati del Comune, a seconda del bisogno. Nel r285, ad esempio, accompagnarono l'esercito fio(I) Ecco il titolo della compilazione in volgare del 1355: « Statuti rassegnati e restituiti e dichiarati e in uno ridotti per messer Tommaso di S. Puccio da Gubbio, dottore di legge e officiale alle predette cose deputato : assistito, come si legge, da messer Lapo di messer Giovanni da Prat-0, dottore in legge, e da Ser Taddeo Lapì, fiorentino». (2) La porta Santa Maria si apriva sulla strada che conduceva verso Siena.


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1rnlino contro Pisa soltanto 208 Cavalieri del Comune (1). I Cavallr, i erano scelti fra i cittadini più agiati. Levate finalmente le inseN"c da dove erano state esposte, l'esercito iniziava la marcia, mentre lr compane della città suonavano a distesa (2). Precedeva il Carroccio la Cavalleria pesante ed i Cavalleggeri. rguiva quindi il resto della Cavalleria e tutta la Fanteria, divisa in halcstrieri, in palvesari, in arcadori (3) ed in picchieri. In ultimo ve111v:ino le salmerie. Per il combattimento, si schieravano al centro i feditori (4) ed Ile ali i palvesari ed i balestrieri. La Fanteria, che rappresentava il 11rrbo dell'ordinanza, stava immediatamente dietro i feditori, pronta ud investire il nemico. Le salmerie restavano indietro, con molti pe· doni, per sostenere l'esercito durante gii eventuali ripiegamenti. Cera. 11tfine, la riserva, composta in massima parte di F anti.

I ~ pivieri del contado erano distribuiti, come si è detto, in Leghe, ciascuna delle quali era _formata da diversi Comuni, pivieri e p(1poli, secondo . il numero dçgli ab.iianti, c.-:>me prescriveva.no g!: Statuti. Ogni Lega aveva la propria bandiera ed il suo capitano, ai cui ordini, in c:i.so di guerra esterna o di tumulti interni, dovevano radunarsi tutti i contadini armati. Oltre il capitano, ogni Lega aveva il (1) Cfr. (< Modi di formare· l'esercito proposti per la guerra contro i Pisa ni nel 1285 )), Bibl. Magliab. Classe XXV, n. 45. (:2) AMMIRATO, Tomo I, pag. 419. (3) Arcadori, cioè arcieri. Il palve1e o .pavc1c (probabilmente da Pavia), detto anche targone, tavola, tavolaccio, era un grande scudo di vimini intrecciati, coperto di pelle e bordato di ferro, in forma rettangolare e di tali dimensioni, da proteggere anrhe due persone. Spesso sulla pelle del palvese veniva dipinto lo stemma del Comune od anche qualche figura di Santo. Esso veniva usato specialmente negli assedi e serviva ·a proteggere l'arciere od il balestriere, intento all'uso della propria arma.

I palvcsari erano i portatori dei palvesì, i quali venivano , d urante le marce, comunemente trasportati a soma e quindi posti dai palvesari davanti agli arcieri ed ai balestrieri. (4) I /editori erano Cavalieri armati alla leggera ed incaricati di attaccare per primi con le loro spade le for mazioni nemiche.


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suo gonfaloniere ed i suoi consiglieri, i quali stavano agli ordini della Signorìa, del Podestà e del Capitano del popolo di Firenze. Il Podestà doveva impedire che i Fanti delle Leghe parteggiassero per i nemici o per i ribelli al Comune, poichè, in tal caso, potevano incorrere nella pena di morte e nella distruzione d'ogni loro

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1\ Palvesi.

bene. Anche i Capitani ed i gonfalonieri delle Leghe erano responsabili della fedeltà dei combattenti. Il Podestà, all'avvicinarsi dei nemici o dei fuorusciti, ordinava di prendere le armi a quelle Leghe che erano sul confine del territorio minacciato dal nemico e qualche volta chiamava anche le Fanterie delle Leghe nella città, per difendere Firenze dai nemici esterni o per mantenere l'ordine. Dalle milizie comunali erano esclusi in Firenze quasi sempre i nobili. In Genova erano esentati dal servire nelle milizie i notari, a


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111gione della loro professione; in alcuni Comuni, come, per esempio, ,,d Avignone, venivano talvolta dispensati anche gli avvocati, qualora non possedessero cavalli atti alla guerra. In Pisa erano esclusi dolle milizie i Guelfi ; in F irenze i Ghibellini. Colle milizie comunali istituite nel 1250, la città di Firenze potè 1 t>nservare il Governo popolare, imporsi ai Signori del contado e porre il fondamento di quella civiltà che prese tanto sviluppo nel ~ccolo XIV. Con l'esercito comunale fu combattuta la battaglia di Monteapcrti, che non si può considerare soltanto come una battaglia tra due Comuni rivali, come erano allora Firenze e Siena; ma come l'episodio culminante di una lotta, nella quale vennero a combattere ciuc civiltà diverse. Infatti, - come autorevolmente ricorda il Canc::, rrini (1) - mentre « verso la metà del secolo XIII la parte popolare r rasi fortificata in Italia e formava un elemento grandissimo di forza r preponderanza, chiamati gli Angioini, si videro nuovi stranieri e nuove parti, due elementi opposti, due opinioni armate, scontrarsi sutto il castello di Monteaperti " · Un documento relativo all'esercito dei Fiorentini, che combattè .1 Monteaperti esiste ancora a F irenze, compasto di venti registri nri,:inali, compilati da diversi notai negli anni 1259- 1260, e che contcng-ono i ruoli di quell'esercito e gli ordini emanati dalla Signorìa e dal C:ipitano generale.

L'esercito fiormtino venne descritto e la battaglia di Monteaperti fu narrata da molti autori (2), che per lo più seguirono gli storici fiorentini. Noi indicheremo al lettore anche le antiche « Cronache Senesi >>, illustrate dal Porri (3), le quali, oltre a descrivere anche la milizia di Siena, ci fanno conoscere i sentimenti, i costumi, le opinioni politiche di quel tempo. (1) Cfr. CANESTRINI: « Documenti per servire alla storia della Milizia italiana dal XIII secolo al XVI >) . (2) MAUSPINI, VILI.ANI, MALAVOLT1- Vedi anche MURATORI: « Annali d'Italia », Tomo XI; e le note del BENVOCLIENTI alla <t Cronaca ,, di Andrea Dei. (3) Il primo libro delle « !storie Senesi » di Marcantonio Bcllarmati; << La sconfitta di Montaperto >> tratta dalle « Cronache» raccolte da Domenico Aldobrandini; la medesima, secondo il manoscritto dì Niccolò di Giovanni di Francesco Ventura in a Miscellanea Senese ))' pubblicata a Siena nel 1844 da Giuseppe Porri.


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In tempo di guerra, la milizia della Repubblica fiorentina e dei suoi alleati era mista, ·cioè formata dalla Fanteria dei cittadini e contadini dei contingenti delle città della Lega toscana, di gente assoldata e delle cavallate di Firenze. Le cavallate di Firenze erano costituite dalla milizia a cavallo, alla quale apparteneva ogni cittadino in grado di militare col proprio cavallo. Le cavallate di Firenze erano costituite, nel secolo XIII, da ben 2.000 Cavalieri; oltre i quali la città disponeva di 2.000 Cavalieri assoldati e dei Cavalim della taglia (1), cioè del contingente che ciascun Comune appartenente alla Lega toscana doveva approntare. Cosi Lucca doveva contribuire con 300 Cavalieri; Pistoia, Volterra con 50; San Miniato, San Giminiano, Colle con 30; Siena, quando faceva parte della Lega, doveva mandare 400 Cavalieri e 300 Fanti, come aveva fatto per la guerra contro gli Aretini nel 1288. Intorno alle Fanterie fiorentine giustamente il Pieri, nello stud_io già ricordato, osserva quanto segue : « Come dapprima la Fanteria milanese aveva, per così dire, impersonato il valore e la capacità della Fanteria lombarda, cosi ora la Fanteria fiorentina sembrava sintetizzare in Pù·che. sè le attitudini, le possibilità ed i limiti di quella toscana. Diciamo subito che ora è più visibile il carattere di chiamata generale alle armi di quanto non fosse nei Comuni lombardi. E questo anche in relazione col diverso sviluppo della costituzione comunale. L'affermarsi dei ceti borghesi è più tardivo, ma più sicuro ; la lunga guerra tra Federico II ed i Comuni lombardi ha, si può dire, solo sfiorato la Toscana e non ha lasciato affatto quel senso di stanchezza, che si nota nella Valle del Po. I nuovi ceti, che direttamente od indirettamente fanno sentire la loro influenza e la loro forza nella vita politica cittadina, sono più numerosi, meglio differenziati, riuniti in molte e varie corporazioni; hanno verso la vecchia nobiltà terriera e guerriera un atteggiamento (r) La taglia consisteva nel numero di armati che, nelle Leghe, ogni Comune collegato si obbligava a fornire. Cfr. Nardini « La tallia militum Soctctaiis Tallic Tuscic nella seconda metà del secolo XIII ,,.


113 u$sai diverso: non più clientele dirette od indirette, ma una posizione ~,>esso di netta ostilità o di chiara sfiducia, una tendenza ad abbas.~.1rne la forza e ad eliminarli dall'attività politica interna ed esterna. Ma questo non significa la costituzione d'una borghesia guerriera; a 11irenze, dopo il 1250, possiamo ammetterlo, il numero dei cittadini i.oggetti all'obbligo militare per le spedizioni vere e proprie - e non 1,oltanto per la difesa delle mura - è, relativamente, assai maggiore di quello che non fosse prima, ad esempio, presso il Comune di MiInno (1); ma questo non toglie che la chiamata generale si riferisca 11 casi eccezionali e che il più delle volte anche qui prevalga il sistema del turno e dell'avvicendamento o la scelta dei soli volontari. Un b tto diviene però adesso appariscente: il crescente sviluppo dei bahtricri. ·E d, accanto ad essi, lo sviluppo dei palvesari ,,.

11 più numeroso esercito che Firenze potè raccogliere fu quello oslituito contro Castruccio Castracani nel 1325. Esso fu composto 111 massima parte di cittadini e di sudditi della Repubblica fìoren1ina, nonchè dei contingenti degli alleati toscani. C'erano, inoltre, •,ccondo il Ricotti, gli stipendiari stranieri, che ammontavano a 920 Cavalieri del Friuli~ a 200 napoletani e a 200 nobili francesi. L 'esert ito contava ben 15.000 Fanti della città e del contado di Firenze. /\d esso ogni casa doveva fornire un uomo, sotto pena della mutila1.ione di un piede. Ne facevano inoltre parte 2.500 Cavalieri, dei ,1uali il quinto apparteneva alle cavallate fiorenùne. Anche la proporzione fra Fanti e Cavalieri dimostra l'importanza .1cquistata dalla Fanteria. L'esercito suddetto importava, per la Repubblica fiorentina, una spesa complessiva di circa 3.000 fiorini al giorno.

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(1) L'ordin,'lmento militare del « primo popolo >> divideva, com'è stato già detto, il popolo di Firenze in venti compagnie, tre o quattro per sesto. E' notevole poi che, accanto alle 20 compagnie cittadine, ce ne fossero ben <fi del contado. Ma esse erano un elemento ausiliario, da chiamarsi in caso di bisogno, male armato, male istruito e pochiss:..mo amalgamato coll'esercito cittadino vero e proprio. Nell'antic.'l Roma il campagnolo ascritto alla tribù cittadina combatteva a fianco del cittadino ddla capitale, con assoluta parità di diritti e di doveri, nelle file della legi.one. Qui no. Il contadino formava compagnie ausiliarie, comandate da cittadini di Firenze. Gli eserciti comunali lombardi erano rimasti in gran parte di soli cittadini; Firenze li ingrossava, al bisogno, con nwneròsissimi pedoni del contado; ma il problema dei rapparti tra città e contado, insoluto, sminuiva l'efficienza degli uni e degli altri. 9


Le milizie comunali di Siena. La milizia comunale di Siena contava 3.000 uonùni : mille per ciascuno dei terzi, nei quali era allora divisa: la città (Camollia, Duomo o Città e San Martino). Questi 3.000 Fanti erano divisi in 17 compagnie, quante erano le contrade della città (1). Ogni ter;;o aveva il suo gonfaloniere maestro e tre consiglieri. Ogni contrada costituiva la propria compagnia, i cui uomini dovevano essere tutti del popolo e guelfi, tenersi bene armati e prestare giuramento al capitano della contrada. Tutte le compagnie . di ciascun terzo della città seguivano il gonfaloniere del terzo e dovevano tonsiderarsi agli ordini della Signoria o dei signori Nove. Il Capitano del popolo della città di Siena, incaricato della difesa, esercitava il comando supremo su tutte le compagnie. Ogni compagnia aveva i) suo camarlingo, il quale teneva due registri, nei quali iscriveva tutti gli uomini che componevano la compagnia: uno di essi registri doveva servire al capitano. A ciascuna compagnia era assegnata una casa della propria contrada, che si chiamava « il ridotto 11 , nel quale, sotto la sorveglianza del capitano, si custodivano, oltre quello che ciascun militare portava seco, le armi ed altro materiale (scale, lanterne, mannaie ecc.) e presso il quale si radunavano, ad ogni allarme, le compagnie. Almeno una volta durante il suo ufficio, il Capitano del popolo faceva la rassegna delle compagnie e si accertava che gli uonùni fossero provvisti ddle armi e che i ridotti fossero forniti di tutte le cose necessarie. Ogni capitano era obbligato a tenere nel ridotto della propria compagnia 10 mannaie, ro balestre, 10 palvesi, 50 panecti (2) e 4 lanterne. Il Capitano del popolo visitava ogni mese tutti i ridotti. Dalle 1 7 compagnie si traeva un Corpo scelto : la guardia destinata a difendere la Signorìa e gli Statuti che reggevano temporaneamente la città. Questo Corpo scelto veniva così formato: due uomini per compagnia, eletti dalla Signoria, erano incaricati di scegliere in ogni compagnia i cittadini più fedeli e più zelanti dello Stato o della parte al potere, i quali giuravano di accorrere, ad ogni bisogno od a qualunque richiesta, al palazzo della Signorìa e di non lasciarlo, se non quando venissero licenziati. Al suono della campana del Co(1) Cfr. « Statuti delle compagnie del popolo di Siena e del suo territo1o >>. (2) Così nel documento: la parola dovrebbe significare panettolo (pannello da ardere)..


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mune, tutti gli uomini delle 17 compagnie si recavano ai rispettivi ridotti, per pai raggiungere le località indicate dalla Signorìa o dal Capitano del popolo. In tempo d'insurrezione o di pericolo le compagnie occupavano le porte e le mura per difendere la città, sia da una aggressione esterna come da una rivolta in terna ; mentre la compagnia scelta, occupava, per difenderlo, il palazzo della Signorìa. Anche i Senesi ebbero il Carroccio e lo tennero in molto onore, tanto che, negli Statuti del 126o, venne disposto che una lamp:\da dovesse restare accesa giorno e notte davanti al Carroccio : (< coram carroccio Comunis Senensis, ad honorem Dei et Beatae Mariae Virginis » (1).

Le milizie comunali di Pisa. Le milizie comunali o, come più precisamente si chiamavano, le compagnie del popolo della città e del contado di Pisa, erano organizzate nel modo seguente. Nelle milizie venivano ammessi tutti i cittadini dai 18 ai 70 anni, r hc pagassero le prestanze del Comune da tre anni e che prest1 s~r,0 il giuramento di recarsi armati dovunque avessero ordinato il Capirano del popolo o gli Anziani del Comune. Erano esclusi dalle compagnie dd popolo i nobili ed i cittadini di parte guelfa. I nobili e tutti coloro che disponessero di m asnade e di truppe assoldate dovevano obbligarsi ad astenersi da qualsiasi atto ostile contro le mil izie comunali. Le compagnie erano numerose, si distinguevano col nome della principale Cappella d'ogni contrada ed erano divise secondo i quartieri della città: quartiere di Porta, di Mezzo, di Forisporta e di K.inzica. Ogni compagnia aveva un capitano, i gonfalonieri ed i consiglieri, eletti pubblicamente al suono delle campane e che restava no in carica soltanto sei mesi. Il Capitano del popolo giurava al Comune di non permettere che le compagnie si sciogliessero ed anzi di tenerle in efficienza e di aumentarne la forza (2). (1) R 0Nc10Nt : « !storie pisane ». « Statuti delle Compagnie del popolo di Pisa », rubrica

(2) Dagli

1• <( dd giuramento di messer lo Capitano » si rileva che la formula del giuramento era la seguente : <e Io, Capitano del populo di Pisa et<:., giuro che difenderò et manterrò lo populo di Pisa, et difenderò et manterrò, et ricovererò li honori et le ragioni dd populo di Pisa, et dell' università delle compagnie del populo di Pisa et del


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In tempo di pace le compagnie si esercitavano all'uso delle armi, al tiro con la balestra ed al lancio dell'asta e-della. verga sardesca (1). I cittadini erano inscritti nei ruoli per bandiere e per Cappelle di ciascun quartiere, in modo da potere conoscere il numero degli uomini atti alle armi. La costituzione di queste compagnie rimontava, a quanto sembra, al secolo XII, almeno da quanto si può arguire dal Breve Consolare del n63, sebbene gli Statuti che riguardano le compagnie del popolo portino ie date del 1300 - 1302 • l~o6 (2). Anche i Pisani, come i Milanesi, avevano il Carroccio, tirato da sei bovi e sul quale, sospeS<., ad un'antenna, era lo stendardo fregiato della croce bianca in campo rosso. Alla sommità dell'antenna c'era una campana. A guardia del Carroccio, che poteva venire portato fuori soltanto per decreto del Consiglio generale o di Credenza, stavano 1.500 giovani scéiti fra i più valorosi, bene armati e provvisti di alabarde. Picche d'onore. Seguivano tutti i capitani delle compagnie, 8 trombettieri ed 8 sacerdoti per celebrare la messa. La difesa del Carroccio era affidata a due dei più valorosi capitani. Durante le g uerre si deliberava sulle operazioni da compiere e si rendeva giustizia presso il Carroccio. Anche i borghi ed i sobborghi di Pisa disponevano di tante compagnie quante erano le capitanie del contado. Il nwnero delle compagnie mutò spesso nel tempo. Nel secolo XIII le compagnie prendevano nome da un'arma, da un fiore, da un animale e da una località; si chiamavano « della spada )}' distrecto. Et ch'io darò ajuto et favore alli Ansiani et alle compagnie della città di Pisa e dd distrecto, sopra rìcoverare, mantenere, difendere et conservare li honori et le ragioni della città di Pisa et dei distrecto, et spesiaimente dell'università delle compagnie del populo di Pisa et del dìstrecto, contro ogni _persona et luogo; et quindi malitiosamente non mi sottraggerò. Et sia io tenuto, fra un mese dall'entrata dc! mio reggimento, a far giurare tutti i singoli populari della città di Pisa da diciotto anni in fino in LXX, lo giuramento del populo et lo seguimcnto e l'obbcdientia di me Capitano et delli Ansiani del populo di Pisa », etc. etc. (1) La verga sardesca era un'arma da gitto, costituita da un'asta di ferro .di forma particolare, usata in Sardegna. (2) Cfr. « Statuti delle Compagnie del popolo di Pisa e del suo distretto ».


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della rosa », « della lancia », (< della viola )), << del giglio », « del ponte a mare », « del ponte nuovo », <e dc:! cervo », e< del leone imperiale >\ ,< della luna », « degli spiedi», « dell'aquila », « della croce di San Sebastiano )), « della croce di Santa Cristina », « di San Paolo », « della Tavola Rotonda », ecc. (1). Nella città, oltre alle compagnie, divise per Cappelle e per contrade, c'era una compagnia speciale, detta « Compagnia della Croce Bianca >,, formata degli uomini scelti nelle diverse compagnie e destinati particolarmente alla difesa della Signorìa e del Palazzo degli Anziani. Meglio armati degli altri, questi uomini portavano una targa col segno del Comune e la croce bianca in campo rosso. Alcuni di essi erano armati di balestra. Ad ogni allarme gli uomini si adunavano prima presso ]a casa del loro gonfaloniere e quindi quelli del quartiere di Ponte occupavano la piazza di San Sisto; quelli del quartiere di Mezzo si portavano alla guardia del palazzo degli Anziani ; quelli del quartiere di Forisporta prendevano posto sulla piazza di San Paolo ali 'Orto e quelli del quartiere di Kinzica sostavano sulla piazza di San Sebastiano di Kinzica. Le compagnie del distretto o territorio del Comune pisano erano otto, con un numero coJnplessivo di 2.000 uomini bene armati. La capitania di Val di Scrchio approntava una compagnia di oltre 5 0 0 uomini, con due capitani, quattro consiglieri e due gonfalonieri ; un capitano ed un gonfaloniere per ciascuna riva del Serchio. Gli uomini erano scelti da due deputati per ciascuno dei sestieri, nei quali na divisa la capitania, e norrùnati dagli Anziani. I pivieri di Val d'Arno formavano una compagnia di oltre 500 uomini, con tre capitani e tre gonfalonieri; uno per ciascun piviere. Gli uomini venivano scelti da quattro deputati per ciascun piviere> eletti dagli Anziani. Il Comune di Calcinaia componeva una compagnia di 100 uomini, detta Compagnia de11a Croce. Travalle e ]e terre vicine costituì~ vano una compagnia d~ 200 uomini. La capitania delle Colline di sotto un'altra compagnia di 200 uomini. La capitania di Piemonte(Piedìmonte) formava una compagnia di 150 uomini, scelti dai deputati del comune di Pisa, con un capitano, un gonfaloniere e due consiglieri. La Valle di Calci approntava un'altra compagnia di 150uomini e, per ultimo, Montemagno ne costituiva una di soli 50. e<

{r) Cfr. documenti del 1238, stampati dal Maccion i « Difesa del dominio dei Conti della Ghcrardesca i>.


II8 Il suono della campana del Comune chiamava alle armi le com. pagnie della città e dei sobborghi e gli araldi del Comune le compagnie del distretto pisano. Dagli Staniti erano stabiliti i posti che dovevano occupare le singole compagnie: sia nell'interno della città, sia alle porte e nei sobborghi. Tutte ie compagnie del distretto pisano, cioè del Valdarno, Piedimonte, Val di Serchio ecc., dovevano occupare le vie e soltanto le compagnie nuove erano tenute, ricevendone il segnale, ad acca· starsi alle mura di Pisa. Tutti i nobili della città, armati a piedi od a cavallo, erano obbligati a rimanere presso le compagnie della rispettiva contrada, eccettuati i ribelli, i sospetti e gli individui inscritti nel libro dei bandili. Mentre tutte ie compagnie erano sotto le armi, ai loro posti, il capitano faceva sorvegliare perchè le osterie rimanessero chiuse ed imprigionare gli uomini delle compagnie che non si trovassero al loro posto.


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LE LOTTE TRA GUELFI E GHIBELLINI

IN TOSCANA Dopo avere ricordato quanto si riferisce alle Fanterie delle milizie delle più importanti città toscane, procuriamo di vederle all 'o. pera nelle lotte fra k Repubbliche guelfe come Firenze e ghibd!i:1e come Siena, in modo da poter formulare un più fondato giudizio sulla loro efficienza. Ricordiamo, ad esempio, quanto fecero i Fiorentini nella guerra del 1259 contro Siena e l'azione della Fanteria nella battaglia di Monteapcrti. Nel 1259 Firenze era guelfa, Siena ghibellina. Fra loro erano state intavolate trattative per dirimere tutte le precedenti controversie, sorte per i fuorusciti dell'una città che trovavano rifugio fra le mura dell'altra, quando Firenze decise di rompere ogni indugio e, fidando nell'appoggio del Papato ed in quello delle città guclfe vicine, volle tentare di abbattere la rivale ghibellina. La campana del Carroccio venne portata sulla porta Santa Maria, per suonare a distesa giorno e notte e venne indetta quella che ora chiameremmo mobilitazione generale. La città disponeva di venti compagnie, complete di uomini e di quadrupedi, tra di mestiere e d'armi: Unità sempre pronte ad entrare in campagna e che, fra i pochi assoldati, comprendevano uomini molto bene addestrati nell'impiego delle balestre, degli arieti ed in genere di tutte le armi e macchine da guerra del tempo. Ma la gran massa dell'esercito restò pur sempre quella tolta dalla città e fu perciò una massa di Fanti. Infatti il contado dovette approntare, per ciascuna delle sue Pievi, aliquote di Fanti. ed eleggere un capitano, formando, in complesso, 86 reparti (< già da due lustri ordinati a Leghe o compagnie, in modo che le une e le altre e tutte insieme )a città ad un cenno potessero soccorrere» . I Fanti del contado dovevano completare le Unità, delle Fanterie citt:1dine, per le quali si chiamavano alle armi quasi tutti i cittadini validi.


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In ciascun sestiere cittadino tutti gli uomini <lai 15 ai 70 anni, non precettati per le cavallate e le compagnie speciali d'armi e di mestiere, dovettero presentarsi alle armi presso i rispettivi capitani. Rare furono le esenzioni ed i _IXJChi renitenti vennero puniti con multe: e pene, ad arbitrio del podestà : u Rispondeva del fuggiasco il Comune che il ricettava o non l'accusava: la casa, ove fosse rinvenuto, doveva atterrarsi ed il suo nome, a perpetua infamia, pubblicarsi in tutti i pubblici consigli e nella messa solenne della prima domenica d'ogni mese ». Chi militava a cavallo doveva presentarsi con cavalcatura, sella e coperta, equipaggiato ed armato con corazza, gambiere, cappello di acciaio, lancia e scudo. Il Fante veniva armato di panciera o corazzina con maniche di ferro, cappello <l'acciaio o bacinetto con gorgiera, lancia, scudo o tavolaccio grande. Se qualcuno si presentava con qualche pezzo d'armatura mancante, incorreva in una multa. Mentre ai Cavalieri erano affidati i compiti dell'esplorazione e della sicurezza, la protezione dei fianchi, il completamento della vittoria e lo sfruttam ento òel successo contro le Fanterie nemiche, già scosse dalla massa attaccante, i Fanti dovevano svolgere l'azione principale. Come già ai tempi di Roma, i Quadri dell'esercito fiore-ntino, per la massima parte elettivi, erano composti di cittadini distinti dalla massa o per cariche pubbliche ricoperte o per censo o per classe sociale e quindi forniti del necessario ascendente.

l'esercito fiorentino nel 1259. Il comando di tutto l'esercito fu affidato al podestà Jacopino Rangoni da Modena, eletto « Capitano del p:>polo » . Suoi diretti col1aboratori furono i 12 capitani dell'esercito, detti in ragione cli 2 per ogni sestiere della città - e che non tutti dovevano seguire il podestà al campo, in quanto alcuni restavano in città per mantenere l'ordine, per provvedere ai rifornimenti e per la difesa del territorio insieme ai nobili, ai signori, ai giudici necessari pel disbrigo di tutte le pratiche politiche, amministrative, giudiziarie durante la campagna. In ciascun sestiere furono eletti poi <lagli Anziani e dai rispettivi capitani altri 2 capitani per comandare i militi presentatisi e<l arruolatisi in ritardo, un gonfalònic:re, 2 consiglieri, 2 costringitori - i cui compiti, secondo il Ricotti, « erano di tenere be:n disposte le


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schiere e stimolarle di dietro , affinchè mostrassero buona prova >> (I) - nonchè il bandieraio delle poste, che aveva l'incarico permanente di furiere di alloggiamento. Questo l'inquadramento dei r eparti di Fanteria, destinati al combattimento; mentre altri numerosi ufficiali dovevano provvedere al funzionamento dei servizi ed a tutte le esigenze proprie del tempo di guerra. In proposito, dal libro di Monteaperti risulta quanto appresso. Pel servizio sanitario vennero prescelti 3 chiru rghi o flebotomi ed un medico, il quale fu u n certo Maestro Rogerio (2), incaricato di dirigere il servizio. Al rifornimento delle armi furono addetti 9 ufficiali, più specialmente incaricati della cura delle armi e delle macchine d,\ guerra ; nonchè del rifornimento di quanto ad esse potesse occorrere. Per i lavori camp~i e le fortificazioni furono eletti quattro ba ndierai maestri d 'arte, con una larga d isponibilità di m aestri minori e di squadre di operai specialisti. Per gli alloggiamenti ed i trasporti (serviz io delle tappe): il , apitano col bandieraio degli alloggi, il vessillifero delle salmerie con 12 costringitori, 2 uf fìciali pei carreggi, 3 per le saìmcric, 4 con due notai (contabili) pd trasporto delle saette delle baliste.

Circa i preparativi per la guerra del 1259 e gli altri servizi dell'esercito fiorentino, le marce da esso compiute e la battaglia di Monteaperti, conviene lascia.re la p arola al Ricotti, il quale, nell'opera già più volte citata, scrisse quan to segue: 1< Già erano stati deputati co' rispettivi n unzii alcuni cittadin i sulla distribuzione del pane, e alquanti altri, con titolo di domini e superstiti, sopra ciascuna bandiera del mercato. Agli ufficiali del saettamento venne assegnato un mulo, per portarne le tcuJe e <lue ne vennero assegnati a' fabbri, quattro al podestà, uno a' berrovieri , (1) I costringitori erano i serragente del secolo XV llI, parola da lla quale derivò il nostro nome di !< sergente », cioè gli at tuali serrafile. (2) « Magister Rogerìus medicus filius. D. Berii de Ubriano, electus est dicto die per duas partes capìtaneorum exercitus supra in mcdicum ad curandum, et videndum infirmos, qui fcbri ve! alia aegritudioe in exercitu gravarentur. Qui magister Rogcrius deputatus erat ctiam et electus in civit. Florentie medicus cum quibusdam aliis ad curandum illos, qui in exercitu \'Ulnerantu r ,,.


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uno agli ufficiali sulla campana. Quattro servienti dovevano stare co' cittadini nominati a comprare il pane e trasportarlo dalla città negli alloggiamenti: altri di essi ebbero l'incarico d'insaccarlo, altri quello di ric~verlo e distribuirlo alle schiere. Alquanti altri servienti dove'va no star sottoposti a' cenni degli ufficiali del mercato. Eranvi ancora de' deputati sopra le scale e le macchine; dei commessarii in colle e in altri luoghi a procurare le vittovaglie; de' magistrati a fare ed ampliare le vie; de' camerlenghi a maneggiare e custodire il denaro. Alla cura de' feriti e infermi erano stati eletti tre chirurghi, fra' quali uno anche medico. « Frattanto si lavorava a raccogliere l'esercito. Alcuni officiali designavano per ogni sesto i pavesai, gli arcatori, i balestrieri. Due cittadini con un notaio ed un maniscalco rivedevano e notavano le persone e i cavalli de' militi. S'era a costoro assegnato certo stipendio per quattro mesi : ricevessero incontanente .due mesate: avessero dritto a tutto il bottino oltre le emende de' destrieri morti o magagnati : de' prigioni facessero il proprio volere, vendendoli, serbandoli, cambiandoli col nemico, o cedendoli al Comune di Firenze per un prezzo stabilito. A simili patti si ordinò pure di assoldare 400 berrovieri o Fanti di M0cien::i e della Romagna, di\·isi per cinquantine, ciascuna sotto un connestabile e due capitani. « Del resto, dcnLro la città, erano state imposte le cavallate secondo gli averi: il destriero d'uomo, impotente per età e per segno, consegnavasi al congiunto od '.l quell'altra persona atta alle armi, che veniva da quello offerta in suo cambio. Del resto qualunque suddito o cittadino tra i 15 e i 70 anni era stato convocato. Tranne caso di altro pubblico servigio o speciale esenzione, a chiunque fosse mancato sovrastava grave multa e pena ad arbitrio del podestà. « Non lievi multe soprastavano altresì al notaio che usasse frode nella descrizione de' soldati; al cittadino che desse nome falso o rispondesse per altri ; al milite che vendesse, prestasse o trafugasse il destriero della cavaUata impostagli. « Chi aveva l'imposta del balestro o partiva balestriere ovvero pagava, se cittadino 50 soldi, se <lei contado 15. In egual modo potevano riscattarsi dall'imposta dell'arco, sborsando 15 soldi ; ma non per questo erano liberi: chè, se età o causa straordinaria non li salvava, militavano poi tutti fra' pedoni. Ne furono bensl dichiarati esenti tutti i mercanti della città e del contado descritti nel libro ddl'arte, acciocchè tenessero ben fornito il mercato del campo: ed a questo effetto i loro nomi vennero registrati a sesto a sesto.


123 e< Il contado e distretto somministrò marraiuoli e guastatori, colla paga di 12 denari al dì: i restanti uomini (tranne qualche cavallo im.{X>sto nei luoghi principali) ebbero ordine chi di fermarvisi a guardia, chi di venire: sia a fare l'esercito od il mercato, sia a raccogliere e governare i palvesi. Si comandò nel medesimo tempo a tutte le pievi di formarsi un padiglione e un vessillo ed eleggersi un capitano ».

Le 20 compagnie della città avevano rispettivamente per insegna, secondo la «Cronaca )> del Malespini, « la scala, i nicchi, la ferza , il dragon verde, il carro, il toro, il leone rampante, la vipera, l'aquila, il cavallo, il leone naturale, il leon rosso, il leon bianco, il leon d'oro, il dragon verde in campo d'oro, il leone azzurro, le chiavi, le ruote bianche e rosse, il vaio rosso (r). L'insegna del mercato era vergata, quella della salmeria era bianca e dentrovi un mulo nero, quell a dc' guastatori bianca coi ribaldi in gualdana a giuocare. Marraiuoli e palaioli portavano dipinte m arre e pale; e così palvcsai e balestrieri l'arme loro in campi diversi ,, (2). Particolari disposizioni vennero prese per la scorta del Carroccio; scorta per la quale vennero scelti 8 Cavalieri e 30 Fanti per ogni sestiere, « gli uni e gli altri con il proprio gonfaloniere e sotto propri costringitori ». Vennero quindi designati gli uomini addetti al Carroccio, per tenerne le funi, e si provvide alle tende della sc.orta al Carroccio ed alle bestie per trasportarle. Inoltre vennero scelte quattro paia di buoi per il traino del Carroccio stesso, al quale furono addetti un notaio, 8 nunzi ed 8 maestri. Si legge, in proposito, nella già citata « Cronaca >) del Malcspini: <e Nel fervore dell'amor patrio, il dubbio di una sconfitta era ignoto, epperò non mai in que' registri, che scrivevansi d'ora in ora, occorre menzione del Carroccio o dell'esercito, senzachè l'abbondanza dell'affetto non vi aggiunga il titolo di vittorioso e potente. Le carte s'intitolano Nel nome di Dio e della gloriosa Vergine, e del beato

Gioanni Battista, patrono e difensore del Comune di Fiorenza, e di tutti i Santi e le Sante di Dio, e vengono spedite dal podestà e da' (1) MALESPINI: e, Cronac;i », c. 137. (2) MALESPINI, op. cit., c. 138.


capitani del potente e vitt01ioso esercito, che il Comune di Firenze deve fare contro i nemici, a loro confusione e ad onore e lode del detto podestà e Comune. Così viva fede s'accoppiava a forte operare! Oddo Francipanc di Aitomena, del popolo di S. Leo di Firenze, ottenne, per lo zelo da lui dimostrato in favore del Comune, l'incarico di custodire e di suonare la campana del Carroccio durante la battaglia (r). Fu, inoltre, provveduto alla scelta delle guide e vennero inviati uomini ad osservare il nemico ed a trasmetterne le notizie mediante segnali prestabiliti: <( un falò indicava tutto l'esercito oltre la riviera; due falò, per due volte depressi e rilevati, denotavano che il nemico l'aveva passata; ma non arrivava a 200 armati; tre falò, tre volte levati e abbassati, segnalavano la venuta di tutto il campo: ma allora si dovevano mandar nunzii a cavallo, che potessero precisare ogni notizia. Di giorno, i segnali consistevano in fumate disposte ad egual m aniera e visibili anche da lontano ». Venne, infine, stabilito il numero delle staia di grano, che ciascuna pieve doveva fornire; scelti i vetturali incaricati del trasporto, si avvertirono i podestà delle terre, per le quali doveva passare l'esercito: .. Sappiate - scriveva il podestà di .Firenze a q uelli di Colle, Poggibonsi e S. Donato in Poggio - che la mossa del .glorioso nostro esercito s'approssima e occorre che non difettino i viveri per tanta moltitudine. Imperò, pel tenore delle presenti, vi mandiamo che sollecitamente e lodevolmente studiate a procacciarvi il maggior numero di caldaie e farina e annona abbondante al possibile, e d'ogni specie vittovaglie, per la difesa della vostra terra e per l'offesa dc' Senesi ed altri nemici del Comune di Firenze )>.

Compiuti questi preparativi, verso la fine dell'aprile del 126o, il Carroccio venne trascinato nella piazza di Mercato Nuovo. « Era la . gran macchina - scrisse i] Malespini - su quattro ruote, tutta (1) « Oddo Infrancipane de Altomena, qui moratur Florentiae, in populo S. Lei, ob sua vclocitatis et probitatis merita, in Commune et pcpulo Florcntiae honoribus et scrvìtiis faciendis electus est per capitaneus et pulsandam seu pulsaci faciendam campanam victoriosam Comm. Florentiae, quac portarì seu deferri debet in felicem et gloriosum exercitum Comm. praedicti ))' Libro di Monteapertì, f. t½).


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dipinta a vermiglio; come pur vermiglie mostravansi le due grandi antenne, dalle quali sventolava l'ampio stendardo del Comune, dimezzato bianco e vermiglio. Tosto sotto al Carroccio vennero aggiogati i due grandi buoi, che a tale effetto educavansi dall'ospedale de' Pinti; e chi li guidava andava franco da ogni sorta d'imposte. Dietro al Carroccio, sopra un altro gran carro, si avanzò la Martinella, già tolta d'in su l'arco di porta S. Maria. <e A questo spettacolo tutta Firenze era in moto, tutta la soldatesca in arme; e dovunque un brillar d'armature, un dimenar di pennacchi, un cozzar d'alte grida, un suonare di campane a gloria, uno strepitare ineffabile di trombe e di timballi. Giunta che fu la processione fuor delle mura al luogo del generai convegno, dove s'erano piantate le bandiere e i gonfaloni, vi fermò i passi e lo .strepito cessò. Restarono in Firenze tre insegne di balestrieri ed altrettante di arcieri e marraiuoli ; poi donne, fanciulli e vegliardi a spiare ogni rumore, ogni motto, ogni cenno, e proseguire coll'ansia della speranza e della tema la marcia de' cari congiunti. cc Al terzo alloggiamento si posarono alla villa di Urmiano, nel contado Senese, guidati continuamente nel cammino dai tocchi della Martinella. Quivi pensarono di rinfrescare e compiere le leggi. [: g!i ordini militari emanati due mesi innanzi, nel general P arlamento, tenuto nella chiesa di S. Reparata. « Che il padiglione del Comune preceda ognj altro nell a nla rc i.:i, e prima d'ogni altro venga spiegato. Oltre ad una grave multa, abbrucisi al contravventore la sua tenda o trabacca. « Che niun gonfaloniere entri nel campo prima della bandiera del suo sesto, nè veruna privata persona prima del suo gonfalone. « Che le tende e trabacche d'ogni sesto si dispongano bensì tutte in un campo; ma con tale ordine, che gli uomini e le bestie vi trovino agevol passo tramezzo. « Che dietro a' balestrieri marcino le some de' palvesi, poi quelle delle balestre e de' torni, alfine il sacttume e le tende dei Comune. Ad ogni mutare di campo, i gonfalonieri de' palvesai camminino in coda a' palvesi, per vegliare che non vadano perduti: e così i gonfa. lonieri de' balestrieri e arcatori. (( Il resto della salmeria pigli una strada diversa da quella dell'esercito ; però si avverta che, per ogni bestia da soma, non vi vada che un uomo solo e senz'armi. Chi fosse uso a portarne o addosso di sè, oppure sulla sua testa, perda ogni cosa. ; e ancora venga punito ad arbitrio.


<< Chiunque, sia mtllte, sia fante, palvesaio, arciere::, balestriere. guastatore, marraiuolo, spaccalegna, picconaio o segatore, segua sua insegna e suoi capi; nè sen'allontani senza licenza, nè prima che sieno stati posti gli alloggiamenti : gli arcatori e i balestrieri procedano sempre colle armi tese. « A chi escisse dal campo o dalla schiera per far romore, tumulto od altra stranezza, vengano abbruciate le armi, e, nel caso che fosse milite, anche il cavallo, oltre le pene ad arbitrio del podestà. •< Le parole ingiuriose e le vie di fatto si puniscano nell'avere e nella persona, ad arbitrio del podestà )). Dopo quattro giorni di marcia, prima <li lasciare Vernago, l'esercito fiorentino prese I.e misure per la sicurezza in marcia, secondo le seguenti disposizioni, riportate dallo stesso Malespini. Costituivano l'avanguardia gli arcieri ed i balestrieri della città e del contado e la Cavalleria di tre sestieri. Formavano il grosso la Cavalleria e le truppe degli altri sestieri. Seguivano, infine, alla retroguardia, la Cavalleria ed i Fanti dei confederati . Dopo :tvere occupato, durante la marcia, i castelli <li Vico, di Mezzana e <li Casciole, l'esercito fiorentino giunse presso Siena e, scelto un piccolo poggio che sorgeva in corrispondenza della porta di S. Petronilla, vi costruirono una torre che dominava tutta la città e vi collocarono la Martinella, in attesa che i Senesi uscissero a combattere la battaglia decisiva. Ma i cittadini di Siena ed i Ghibellini fuorusciti da Firenze, guidati da Farinata degli Uberti, volevano, invece, trovare ·il modo di ottenere prima dal Re Manfredi nuovi e maggiori rinforzi. Il Re aveva già mandato in loro aiuto soltanto pochi Tedeschi con una sua bandiera e di essi i fuorusciti, dopo averli eccitati col cibo e col vino, si servirono per fare una disòrdinata sortita, durante la quale i Fiorentini uccisero gli Alemanni e tolsero loro la bandiera che, mostrata prima a tutto il campo e poi per le vie di Firenze, venne poi affissa alle pareti della Chiesa di S. Reparata. Respinto questo tentativo di sortita, i Fiorentini attesero invano per alcuni giorni i Senesi e poi, paghi della facile vittoria, dopo avere piantato sulla torre da loro costruita un ulivo, destinato a ricordare ai cittadirti di Siena la minacciosa sfida di Firenze, passarono nella valle dell 'Arbia, dove, raggiunti dall'esercito senese, combatterono la battaglia di Monteaperti.


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L' esercito di .Siena. Anche la Repubblica di Siena si era preparata tempestivamente alla guerra ed aveva costituito il suo esercito in modo a11alogo. Infatti, pur appartenendo a fazioni opposte, i due Comuni toscani erano vicini e costituivano ambienti sociali troppo simili, per avere istituzioni politiche e militari del tutto differenti. Anche Siena era passata, nel 1255, dai consoli elettivi al podestà, coadiuvato da un Capitano del popolo, ed aveva adottato ordinamenti simili a quelli di Firenze. Per la guerra essa aveva ricevuto rinforzi di soldatesche mercenarie da Re Manfredi ed anche il contributo dei Ghibellini fuorusciti rifug.iatisi nelle sue mura, con Fari nata degli Ubeni alla testa. Gli storici, come il Ventura ed il Cantù. ricordano la l11nga preparazione di Siena a questa lotta, destinata a decidere le sorti della Repubblica e per la quale erano state svolte solenni cerimonie religiose.

La battaglia di Monteaperti. Il 4 settembre 1260, sotto Monteaperti, nella valle dell'Arbia, !>i svolse la battagìia, nella q uale 30.000 Fanti e 3.000 cavalli di Firenze combatterono contro i Senesi che, aiutati dai Ghibellini fuorusciti e dai soccorsi imperiali, avevano forze di poco inferiori . La battaglia di Monteaperti che, come dice Dante, fece I' Arhia colorata in rosso, ebbe la sua fase più importante nell'urto delle Fanterie contrapposte, che combatterono valorosamente e la vittoria sarebbe stata probabilmente di Firenze, se il ghibellino fuoruscito Bocca degli Abati non avesse mozzato la mano destra ad Jacopo de' Pazzi che portava la bandiera fiorentina. La caduta e la scomparsa del loro vessillo disanimò i Fiorentini che, se non difettarono di spirito combattivo, dimostrarono un uon completo addestramento nel combattere ed un'insufficiente tenacia, visto che la scomparsa della bandiera bastò a disanimarli ed a far loro ritenere tutto perduto; mentre avrebbero potuto combattere ancora a lungo e forse vincere. Probabilmente, durante la battaglia, venne a mancare l'opera efficace dei Quadri, i quali avrebbero potuto tenere in linea i Fanti fiorentini, rincuorarli e riportarli al combattimento. Ma anche i Quadri, eletti poco prima di entrare in campagna, non potevano essere molto diversi dalla massa dei loro soldati.


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In quei tempi - ricorda a questo proposito il Ricotti - « non v'essendo proporzione cli gradi, nè disciplina, la sorte della schiera pendeva dall'insegna. Al cader adunque di quella, cadde ogni buon volere, nè fu più, nel campo fiorentino, che fuga cd eccidio. Del popolo impotente a fuggire venne fatto macello. Chi si rinchiuse in Monteaperti restò preso e morto. Firenze, piena di lutto e di paura, fu abbandonata dai Guelfi a' vincitori; e Farinata, l'autore della vittoria, dovè poco stante, nel concilio d'Empoli, difenderla a viso aperto, perchè non la smantellassero e la riducessero ad un borgo». Del bottino portato dai vincitori a Siena, insieme col Carroccio e colla Martinella dei Fiorentini, fece parte il registro delle deliberazioni prese in Firenze durante la guerra, libro che riportava le elezioni fatte, le lettere spedite e perfino la lista dei soldati. Prendiamo ora in esame i particolari della battaglia, specialmente per quanto riguarda l'impiego della Fanteria. Secondo le considerazioni fatte dal Picri, nello studio già più volte citato, la battaglia di Monteaperti potrebbe rappresentare un episodio di transizione tra i fatti d'armi sostenuti dalla Lega lombarda contro gli Imperatori ed i successivi verificatisi in Toscana. Scbb<:ne il prezioso libro di Montcapcrti - che, come abbiamo già visto, esamina minutamente la costituzione dell'esercito fiorentino prima della· battaglia - parli ripetutamente di pave.rarii, di bali.rtarii e dì arcatori, in realtà l'azione dc.i balestrieri nella prima parte della battaglia, mentre appare notevole nelle tardive descrizioni di essa, .risulta addirittura insignificante nelle fonti coeve. Secondo queste ultime, lo svolgimento della battaglia si potrebbe ricostruire così: la Fanteria fiorentina è ammassata attorno al Carroccio, presso la cappella di S. Anselmo ; avanti ad essa, al solito, la Cavalleria; più indietro, in Monteaperti, cavalli e Fanti degli alleati Lucchesi ed Orvietani. Da parte avversaria, la Cavalleria avanti e la ·Fanteria dietro, a distanza. Prima fase: la battaglia comincia col solito scontro di Cavalleria : parte dei Cavalieri fiorentini subito passa al nemico e determina una grave rottura nello schieramento; i nemici ne approfittano e prendono alle spalle la massa dei Cavalieri, che cerca scampo nella fuga, abbandonando i Fanti ed il Carroccio al loro destino, senza più mostrarsi capace di riannodarsi e tornare sul teatro della lotta. Seconda fase: i Fanti · attorno al Carroccio, in parte si sbandano, in parte si difendono eroicamente per qualche tempo, ma alla fine cedono, ed allora la Cavalleria senese può fare strage di quella massa di pedoni in fuga. Terza fase : i Lucchesi e gli Orvietani si


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difendono a lungo .in Monteaperti ; ma senza poter ristabilire una situazione ormai disperata. In sostanza - dice il Pieri - anche qui una Fanteria in grado di reggere, serrata a quadrato, più o meno a lungo ad un attacco di Cavalleria; ma destinata al sacrificio, se troppo a lungo abbandonata a sè. L'azione della Fanteria senese appare poi addirittura nulla. Si ha, però, l'impressione che d a parte fiorentina ci fosse una Fanteria troppo numerosa e per conseguenza troppo poco scelta, anzi in gran parte improvvisata e poco addestrata, inferiore per qu alità a quella milanese che aveva vinto a Legnano. E' doveroso aggiungere che i più esercitati ed agguerriti Cavalieri fiorentini, ospiti di Siena, combatterono a favore dei Senesi e che, anche durante la battagli;i, alcuni Cavalieri fiorentini passarono al nemico (1). (1) A proposito della battaglia d t Monteaperti lo stesso Pieri, nello studio più volte citato, nota quanto ~gue : La massa era anche qui d i picchieri. Che però i balestrieri dovcS$ero esser abbastanza numerosi, si può arg uire, oltre che dalla vicinanza di Pisa, dalla notizia del Villani - << Cronica », lib. VI, cap. XL - ove si dice che, nell'ordinamento militare del « primo popolo », i balestrieri, i palvesari e gli arcadori avevano dur insegne ci:iscuno. Sopra le fonti della battaglia di Mon teapcrti, vedi DAVIDSOHN : « Forschungc:n zur Geschichte van F lorenz )\' I3erl m, 1908, IV, 143 e segg. Fondamentali gli « Annales Senenses ». Quanto alla bibliografia, vedi soprattutto PAOLI : « La battaglia d i Monteaperri » in Bollett1no Swrico Senese, II ( 1869) e, dello stesso, o li libro di Monteaperti »; D1,vau,OH, · . <e Geschichte von Florenz ». Il Davidsohn nega ogni valore alle narrazioni tardive di Domenico Al<lobrandini e di Francesco Ventura. Secondo il Kohler, la battaglia avrebbe avuto un primo scontro di Cavalleria sulla posizione avanzata di Monteselvo!i, tra gli alleati di Firenze e seicento degli ottocento Cavalieri tedeschi di Manfredi, colla vittori a d i questi ultimi; poi una lunga e inconcludente azione: di tiratori ed infine la battaglia vera e propria : scontro di Cavalleria tra Fiorentini e Senesi, deciso a favore di questi ultimi dall'apparire sul fianco dei rimanenti duecento CavaliC'ri di Manfredi, e vana difesa dei Fanti attorno al Carroccio. Nelle linee essenziali lo svolgimento tattico della battaglia rimane lo stesso: scontro d i Cavalleria, risolto a favore dei Senesi da una mossa sul futnco ed alle spalle; vana d ifesa delle Fanterie retrostanti. li Dclbruck . respinge a priori come troppa alta la cifra di 3.000 Cavalieri e 30.000 Fanti dell'esercito fiorentino. Lo Smith calcola il contingente complessivo della città poco più di 5.000 uom ini, qudlo del contado meno di 4.000: A questi 9.000 uomini occorre però aggiungere i Fanti di Lucca e di Orvieto; quanto ai Cavalieri, i migliori 'di Firenze erano dalla parte opposta; Firenze aveva però gli aiuti delle città guelfe d i T oscana, di Bologna, Perugia, Orvieto. In tutto, molto approssimativamente, 1200 Cavalieri e 12.000 Fanti i Fiorentini e dalla parte oppasta 4 00 Cavalieri senesi, altrettanti 10


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La battaglia di Campal~ino. <1> firenze, nel 1281, si trova a capo, in Toscana, d'una specie di Confederazione guelfa e questa Confederazione ha un vero e proprio esercito mercenario permanente, la « tallia militum societatis talliac Tuscie » (2). Esso è costituito essenzialmente di Cavalieri non italiani: il che significa: nè nobili infidi, nè Cavalieri cittadini improvvisati, ma veri professionisti ; essi - cinquecento dapprima ed ottocento più tardi - formeranno il nerbo della forza militare ed inquadreranno eventualmente le Fanterie comunali. La battaglia di Campaldino ci mostra chiaramente la composizione dell'esercito in campo (3). Forze contrapposte: 1.300 Cavalieri e 10.000 pedoni guelfi, contro 8oo Cavaiieri e 8.000 Fanti ghibellini. Pur col dubbio che le fonti esagerino il numero dei Fanti, si può constatare che la loro percentuale, rispetto a quella dei Cavalieri, è aumentata dal tempo delle guerre di Lombardia. E si tratta qui, non di una leva in massa come a Monteaperti, ma d' una spedizione vera e propria, a notevole distanza da Firenze e dalle altre città guelfe. Per quanto riguarda lo schieramento, i Fioren tini hanno un'avanguardia di 150 Cavalieri (feditori) e dietro il grosso della Cavalleria. Ma la Panteria - continua il Pier.i - anzichè trovarsi in terza linea, è posta ai fianchi dei Cavalieri, lievemente avanti, come i corni di una mezzaluna, coi palvcsi avanti e dietro i balestrieri e parte dei picchieri. Questi ultimi risultano dunque· protetti o dagli antistanti Cavalieri, oppure dai palvesari. Quanto poi ai tiratori, essi vengono riparati esclusivamente dai palvesi; ma d'altra parte, dato lo schieramento concavo, la loro azione potrà esplicarsi con un tiro fianchegalleati o fuorusciti, 800 Cavalieri tedeschi, totale 1.6oo Cavalieri e non oltre 3.000 Fanti. I Fiorentini erano molto superiori di numero, quanto a Fanteria; ma inferiori ndla Cavalleria per numero e qualità, e questo spiega la rotta. Le perdite dovettero s;i lire ad oltre 3.000 morti e feriti e ad 8.000 prigionieri. Monteaperti è, in conclusione, il fallimento d'una guerra con una Cavalleria improvvisata e una Fanteria con troppi elementi male istruiti, con un inquadramento improvvisato e senza l'alto spirit:> cittadino, che animava i combattenti lombardi contro i Tedeschi del Barbarossa e di Federico 11. (1) Anche per la b~ttaglia · di Campaldino, riportiamo la descrizione e le considerazioni del Pieri, nello studio già più volte citato. (2) Vedi, al riguardo, l'ottimo saggio del Naldini, in Archivio Storico Italiano, 19:20. (3) Fonti utili, dal punto di vista tattico: Dino Compagni e Giovanni Villani e specialmente quest'ultimo.


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giante e d'infilata, quindi al massimo grado efficace. Ma un altro fatto è da rilevarsi. Dietro il grosso, le carrette sono disposte in modo da formare una barriera, tale da trattenere la fuga di tutto l'esercito

Farinata degli Uberti a Campaldino.

in caso di rotta e da costituire una vera trincea di raccolta ( r). Non solo, ma dietro e lateralmente è posta una schiera di 150 cavalli, coi (1) Le fonti pongono i tiratori ai fianchi, non solo del grosso, ma anche dei feditori. Ma viceversa, nel corso della battaglia, non v'è traccia d'azione di ùratori posti in prima linea; e veramente sarebbero stati più <l'ost:icolo che di vantaggio. Inoltre una suddivisione dei balestrieri in quattro schiere avrebbe troppo diminuito l'efficacia del loro tiro, che, data la lentez.z.a dell'arma, poteva essere efficace solo se fatto a massa. Ancora nel 14~ il Commynes diceva che il tiro degli arcieri - più veloci di loro natura dei balestrieri - è efficace solo se questi sono a migliaia; altrimenti non serve a nulla (« Mémoires ll, ed. Mandrot, 'I, 31). Il Kohler giudica questa dispùsizione dei tiratori un progresso e una singolarità della tattica italiana; il Delbriick lo contesta e dice che, negli eserciti medievali, lo schieramento con Cavalleria avanti e Fan· teria di tiratori e picchieri dietro è cosa usuale. Ma qui abbiamo però una massa bene articolata e distinta, con funzioni proprie; ed i tiratori sono nume-


Fanti di Lucca e di Pistoia, coll'ufficio, non di rincalzo, ma di vera riserva; incaricata cioè di prendere di fianco, al momento· opportuno, e dietro ordine del comandante supremo, la massa nemica. Una disposizione insomma che ha di mira fin dagli inizi, non solo la difesa, ma il contrattacco, una tattica chiaramente difensiva-controffensiva. E la difesa si appoggia, più che sugli ostacoli del te~reno e sull'azione delle picche, sul tiro incrociato dei balestrieri; mentre la controffensiva si fonda soprattutto sull'azione di una vera e propria riserva di Cavalieri, spalleggiati da picchieri. Nelle parole che Dino C,ompagni pone in bocca a Messer Barone de' Mangiodori di S. Miniato, troviamo espresso il nuovo principio difensivo-controffensivo, . di fronte al vecchio principio puramente offensivo: (< Signori, le guerre di Toscana si sogliano vincere per bene assalire ... Ora è mutato modo, e vinconsi per stare bene fermi ,, (1). E la funzione dei feditori di parte fiorentina sembra adesso mutata alquanto da quella d~ll'avanguardia di Cavalleria nelle battaglie di Lombardia. Allora questa era assai numerosa, e tale a volte da poter decidere col suo urto la battaglia, data la relativa lentezza dd grosso a spiegarsi ; ora l'avanguardia è piccola, e semhra avere soprattutto il compito di richiamare le forze avvè1:.,11ic ~op1 ..1 Ji ~è, per trascinarle jn un dato posto e obbligarle poi a battaglia 111 condizioni sfavorevoli (2). rosi e protetti dai palvesi e non svolgono semplicemente un'azione di cacciatori; ma devono battere il nemico con un vero e proprio tiro incrociato, già prcàisposto. E ' una cosa più compi.essa e che segna un indubbio progresso rispetto alle rudimentali forme <lcl combattimento medioevale vero e proprio. Al contrario, il Delbriick nota la singolarità. della trincea di carri alle sp;;lle e pensa che una forma cosl evolma di difesa non può essere senza precedenti; ma rileva pure che essa non ha avuto ulteriore sviluppo. (1) Dubitiamo, però', che il vecchio guerriero abbia parlato proprio così. La Cavalleria, in realtà, non si difende contro altra Cavalleria se non attaccando. Il Villani, parlando di Altopascio, lamenta che il grosso non corresse subito a sostenere i propr1 feditori respinti: 11 Se messer Raimondo, colla schiera grossa avesse ancora spinto dietro a' primi feditori, avea vinta la bat· taglia ; ma, stando fermo, e la gente cominciando a fuggire, prima furono da' nemici assaliti che dessero colpo, ma parvono stordìd e ammaliati », VILLANI : e< Cronica», lib. IX, c 2p. CCCVI. (2) Questa nuova funzione dei feditori, che però, per il momento, non pare abbia avuto seguito, ricorda moito quelìa che Diomede Carafa, nel 1479, attribuiva all'avanguardia, all'inizio del combattimento.


Xl.

LE f ANTERIE NEGLI ESERCITI COMUNALI

Abbiamo già preso in esame le Fanterie comunali di Milano, di .Bologna e quelle di Firenze e di Siena ed abbiamo ricordato l'impiego delle prime a Legnano, a Cortenova ed all:l Fossalta e delle secolldc a Monteaperti ed a Campaldino. Il nostro esame ci ha permesso di notare che le Fanterie toscane - chiamate a lottare ·le une contro le altre, per cause senza dubbio meno importanti di quelle che ;.vevano già spinto Milano e la Lega Lombarda a combattere contro Federico Barbarossa ed i Bolognesi contro Federico II - avevano dimostrato un insufficiente addestramento ed un valore meno fortunato. Il confronto ci ha, inoltre, indotto a rilevare come, in un secolo, la proporzione della Fanteria rispetto alla Cavalleria negli eserciti comunali fosse notevolmente aumentata: il che dimostra senza dubbio l'accresciuta importanza della nostra Arma. Nè poteva avvenire diversamente, dato che gli eserciti comunali avevano il particolare scopo di difendere, sulle stesse mura dell'abitato, il rispettivo Comune e non già quello di combattere ìn campo aperto, come avvenne quando le città guelfe furono costrette a combattere contro gli Imperatori e dovettero affrontare, non soltanto le forze militari dei Comuni ghibellini; ma anche le agguerrite soldatesche imperiali. Poichè gli eserciti comunali, sorti in Italia in ambienti assai simili e per le medesime necessità, ebbero dappertutto caratteristiche analoghe, ci dispensiamo - data la lunghezza del cammino che dobbiamo ancora percorrere - dal prenòere in esame le F anterie e dal citare gli Statuti delle altre città. Dovunque, infatti, gli eserciti comunali furono essenzialmente composti di Fanti, vestiti nei più diversi modi (1), non sempre addestrnti, e in massima parte armati di picca. (1) I soldati cominciarono ad indossare un'uniforme, aua a distinguerli dai cittadini, soltanto con Gustavo Adolfo di Svezia, durante la guerra dei trent'anni.


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Riteniamo ora necessario soffermarci, invece, sulle Fantetie speciali, che fecero parte anch'esse degli eserciti dei nostri Comuni, cioè dei picchieri, degli arcieri e dei balestrieri; i primi destinati a formare il grosso delle Fanterie comunali e degli eserciti del tempo; gii altri incaricati di svolgere, nei combattimenti, l'azione lontana con le loro armi da gitto, individuali o manesche e collettive o da posta, cosi come avevano fatto, negli eserciti di Roma, i veliti con i loro giavellotti, i frombolieri con le pietre cd i sagittari con le frecce.

I Picchieri. Come abbiamo già detto, in quasi tutti i secoli del medioevo, i picchieri costituirono il nerbo della Fanteria.

Picche dei secoli XV - XV/l.

La picca - consistente in una lunga asta di legno ben stagionato e resistente (veniva preferito il frassino), munita di una punta di ferro conformata in diversi modi - differiva dalla lancia per la forma della punta e per la lunghezza, assai maggiore, dell'asta. Essa - che, secondo il De Chesnel, era un'arma assai antica e già in uso


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presso i Persiani e gli Egizi e che il nostro Guglielmotti attribuisce anche ai Romani - era senza dubbio il mezzo di lotta che meglio si prestava alle Fanterie medioevali, così spesso costrette a combattere contro la Cavalleria, perchè: permetteva al Fante di colpire a debita distanza: tanto il Cavaliere nemico quanto il suo cavallo. L 'importazione della picca in Italia viene comunemente attribuita alle Fanterie svizzere ed il suo impiego nel combattimento fu, senza dubbio, simile a queJlo dell'antica sarissa macedone. I picchieri rimasero per molto tempo i veri rappresentanti della Fanteria ed, anche quando, per i successivi progressi delle armi da gitto e da fuoco (arco, balestra, archibugio), si dovettero formare nuovi reparti di arcieri, di balestrieri e, più tardi, di archibugieri e di moschettieri, i Fanti armati di picca costituirono la massa della Fanteria e, senza dubbio, quella più apprezzata e meglio pagata ; mentre gli arcieri, i balestrieri e sucèessivamente anche gli archibugieri rappresentarono soltanto una piccola aliquota, nei primi tempi di appena un decimo, dei Fanti. Soltanto nel secolo XVII, dopo i notevoli perfezionamenti conseguiti dalle armi da fuoco, il .numero degli archibugieri e dei moschettieri fu eguale a quello dei picchieri; così che le Fanterie del tempo r imasero diviS<" in picchieri ecl in archibugieri, come meglio vedremo a proposito delle milizie nazionali o paesane. Soltanto più tardi, quando, per l'invenzione del V ::mban della baionetta a manico vuoto, fu possibile servirsi del fucile con la baionetta innastata come di un'arma da fuoco e nello stesso tempo come di una picca, la Fanteria ebbe finalmente un armamento unico, che ne rese meno complesse le formazioni e che contribuì senza dubbio alle maggiori affermazioni dell' Arma. . Prima di iniziare il combattimento, i picchieri tenevano le picche diritte, col calciolo appoggiato alla terra, accanto al piede destro, e soltanto nell'imminenza dell'attacco nemico le alzavano (arboravano) per essere più pronti ad adoperarle nell'offesa o ndb difesa e ad abbassarle in modo da poterne rivolgere la punta contro il nemico. Oltre ad essere un'arma da guerra ed anzi l'arma principaìe delle Fanterie medioevali, la picca fu anche un'arma da parata e, quando venne definitivamente sostituita col fucile, essa servì per le guardie d'onore, come l'alabarda, la quale non era che una modificazione della picca, da usare più dal lato taglio che con la punta.


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Gli arcieri ed i balestrieri. L'arco, come mezzo atto a scagliare a distanza dardi e frecce, deve considerarsi un'arma antichissima che, già usata nell'età paleolitica dall'uomo per procacciarsi la preda, fu poi impiegata in q~asi

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o~~ Cli archi nelle loro dit1Cr$C forme.

Arcieri antichi. I. 1. -

La protezione del braccio sinistro prdso gli arcieri assiri. La posizione in ginocchio preferita dagli antichi arcieri.

tutti gli eserciti degli antichi popoli (Ebrei, Assiri, Babilonesi, Egiziani), i quali .._, c,ome dimostrano i documenti fino a noi pervenuti - usarono l'arco come micidiale arma da guerra ed ebbero nei loro eserciti numerosi reparti di arcieri. Nell'antica Grecia furono famosi, ad esempio, gli arcieri dell'isola di Creta.


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Nel I volume di quest'opera noi stessi abbiamo avuto già occasione di ricordare che l'arco dovette venire usato come arma da guerra anche dai popoli preromanici (Siculi, umbri, Etruschi) ed anche dagli stessi Romani. Nella battaglia di Imera in Sicilia, secondo gli storici, facevano parte dell'esercito di Gerone ben 2 .000 arcieri e Tito Livio ricorda gli arcieri inviati in aiuto dei Romani da Gerone e quelli che, imbarcati sulle navi dì Marcello, parteciparono aH'assedio di Siracusa. Anche Virgilio, nel libro V dell' « Eneide », a proposito delle gare sportive indette da Enea in memoria di Anchise, attribuisce ai Troiani l'abitudine di ·esercitarsi all'uso dell'arco. Egli narra, infatti, come Enea, fatto piantare nell'arena un albero della nave di Segeste, vi fece legare per un piede una colomba destinata a fare da bersaglio. Vennero quindi estratti a sorte i nomi dei gareggianti: lppocoonte, Memmo, Euripio, fratello del famoso arciere Pandaro (1), ed ultimo il vecchio Aceste che volle provarsi coi giovani. Si curvano gli archi, _si .tolgono le frecce dalla faretra. Ippocoonte colpisce soltanto l'albero e la colomba svolazza spaventata. Mem.mo tira a sua volta, colpisce la fune e la recide; la colomba, libera, s'alza :i volo nel cielo. Allora Euripio, che era già pronto al tiro, scocca l'arco e ferisce trà le nuvole l'uccello, che viene giù con la freccia infissa nel corpo. Prima ancora di Virgilio anche .Omero, nel libro XXHI del1'« Iliade », aveva descritto una gara tra arcieri, dalla quale Virgilio dovette trarre ispirazione. Infatti Omero, dopo aver fatto dare le stesse disposizioni per preparare la gara, fa spezzare al primo tiratore la fune che legava la_colomba e colpire al secondo arciere la colomba al volo. Del resto, come già si è detto nel primo volume di quest'opera, anche gli eserciti romani comprendevano reparti di balestrieri (sagittarit), i quali: o venivano impiegati come veliti, oppure erano incaricati di rinforzare, con le loro frecce, l'azione lontana dei Romani; azione che si svolgeva, come già si è detto, con il lancio dei giavellotti eseguito dai veliti . . E' vero che i Romani incarica~o!lo quasi sempre di formare i reparti di arcieri i popoli soci; ma, durante l'Impero, specialmente (1) Pandaro viene ricordato da Omero nell' cc Iliade l>, e precisamente nel libro III, come un famoso arciere ddl'csercito troiano che, appena fì.nito ·il noto duello fra Paride e Menelao. con la vittoria di quest'ultimo, rompendo i patti del duello, ferì con una freccia Menelao.


dopo Diocleziano, vennero compresi nell'esercito romano Unità di arcieri a cavallo ed a piedi. Dovunque ed in ogni tempo, forse per renderli più liberi nei movimenti, gli arcieri furono armati ed equipaggiati alla leggera. Lo stesso Omero li descrive senza elmo, nè scudo; ed i Cretesi che, per la fama raggiunta da questi loro soldati, fecero degli arcieri il simbolo da eternare nelle loro medaglie, li raffigurarono armati soltanto dell'arco, del turcasso ed a volte anche di un piccolo scudo.

A malgrado della fama acquistata da essi presso i popoli antichi, all'inizio del medioevo gli arcieri non furono tenuti nel debito conto. L'uso dell'arco e della balestra non era comunemente gradito ai combattenti, tranne che in Normandia e nelle isole britanniche. Soltanto

W/40(fdJ ANGLO SAS S ON I

NORMANNI

La battaglia di Hastings ( 14 ottobri: 1066)


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nel secolo XI, quando i Normanni e gli Anglo-Sassoni usarono l'arco come arma da guerra e le sorti della battaglia di Hastings (1) vennero decise appunto dagli arcieri, questa specialità delle Fanterie medioevali s~ affermò e si diffuse anche presso gli altri eserciti.

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L 'arciere.

Gli archi erano normalmente di olmo o di frassino o di nocciolo ; la corda era di canapa, di crini di cavallo intrecciati e, nell'antichità, anche di nerbo sciatico di bue. Le frecce: prima di legno con punta (1) La battaglia di Hastings (14 ottobre 1066) venne combattuta fra gli Inglesi, guidati dal loro Re Aroldo, cd i Normanni, comandari dal Duca Guglielmo di Normandia, detto p0i « il Conquistatore >> ed incoronato, doPo la


di metallo e poi ·tutte di metallo. La posizione preferita dall'arciere era quella in ginocchio perchè permetteva, nello sforzo per tirare indietro la corda, tli puntare meglio il piede a terra: Gli arcieri inglesi adoperavano l'arco in piedi ed in ginocchio; avevano la mano destra protetta da un guanto di cuoio e l'avambraccio sinistro di un bracciale di ferro, che lo proteggeva dalle vibrazioni della corda. Spesso avevano due faretre: una per l'arco e la corda di ricambio, ed una per le frecce. Dopo Hastings, l'addestramento degli arcieri e dei balestrieri venne particolarmente curato in Inghilterra, dove gli arcieri reali continuarono a combattere con l'arco anche dopo la diffusione delle armi da fuoco, fedeli ad una gloriosa tradizione che non si volle offuscare ( 1).

In Italia, anche se non si può dire che negli eserciti feudali gli arcieri mancassero del tutto, essi non vi si distinsero certo: nè per numero, nè per la costituzione di speciali reparti. vittoria, Re d'Inghilterra. In essa si distinsero tanto gli arcieri anglo - sassoni, che si difesero con molta tenacia, quanto quelli normanni. Ecco come viene descritto il loro impiego nell'antico poema normanno << Roman de Rou » : << Gli arcieri Normanni coi loro archi saettavan fitto contro gli Inglesi; ma questi si coprivano cogli scudi in modo che le frecce non raggiungevano i loro corpi e non facevan loro alcun male, per ·q uanto precisa fosse la mira e grande l'abilità dei tiratori. Allora i Normanni decisero di scoccare i dardi per aria, di guisa che ricadessero sulle teste dei nemici e .li colpissero nel viso. Gli arcieri adottarono questo partito e saettarono per aria dalla parte degli Inglesi; e le frecce, ricadendo, colpivano le teste e le facce di costoro e cavaron gli oc.chi a molti e tutti temevano di aprire gli occhi o di lasciare il volto indifeso. « Le frecce fioccavano ora più fitte che la pioggia innanzi al vento: rapidi volavano i giavellotti. che gli Inglesi chiamavano wibetes. Allora fu che un dardo, che era stato scoccato cosl per aria, colpi Aroldo sopra l'occhio destro e glielo cavò. Nello spasimo egli ·estrasse il dardò dalla férita e lo buttò via, spezzandolo colle mani; ed il dolore al capo fu cosl forte ch'egli si curvò sullo scudo. Gli Inglesi eran soliti di dire, e il dicono tuttavia ai Francesi, che assai ben tirata fu quella freccia che ferì in quel modo il loro Re; e che molta gloria procacciò ai Normanni quell'arciere che cavò l'occhio ad Aroldo». (1) Gli arcieri inglesi godettero di meritata fama al principio del secolo XIII. Per l'alto grado raggiunto dal loro addestramento, essi riuscivano a lanciare


Soltanto nei secoli XII e Xlll gli arcieri ed i balestrieri divennero sempre più numerosi, costituendo Fanterie che oggi diremmo speciali, per quanto i balestrieri si fossero trasformati gradatamente, almeno in parte, in combattenti, con compiti simili a quelli dei moderni artiglieri, visto che le balestre da posta o da posizione, non molto mobili, non potevano essere certo comprese fra le armi individuali e richiedevano, per il loro impiego, l'opera di parecchi uomini (1). Nelle Fanterie comunali, delle quali abbiamo già parlato, l'uso dell'arco era abbastanza diffuso. Esso veniva affidato agli individui che più sembravano idonei a tale bisogna, individui che venivano armati ed equipaggiati alla leggera, a seconda dei mezzi di offesa e di difesa coi quali ogni cittadino poteva contribuire. Come armi difensive, essi adoperavano di massima una semplice panciera 9 corazzetta, un piccolo casco di acciaio e la gorgiera di ferro . Questo, come vediamo ricordato nel già citato l< libro di Monteaperti ))' in Firenze; ma anche gli arcieri degli altri Comuni portavano a loro difesa una corazzina ed un piccolo elmo o cervelliera. Soltanto quando non potevano fare assegnamcnt0 sui palvesi e sui palvcsari, gli arcieri ed i balestrieri portavano appeso al dorso uno scudo che, al momento di combattere, fissavano a terra, assicurandolo ad un paletto. Co~'!iC armi offensive gli arcieri ebbero soltanto l'arco o la balestra ed il turcasso. fino a 12 frccc'e al minuto, ad una distanza che spesso raggiungeva i :zoo metri. Essi avevano molta cura delle loro armi, delle quali preservavano le corde dall'umidità, in modo da non compromettere il rendimento <legli archi. (t) L'arco degli arcieri era formato, come è noto, da un'asta lunga e flessibile, a volte rinforzata d:i una sottile lamina di acciaio, alle cui estremità fissavasì una . corda, in modo da unirle. Impugnata dall'arciere con la sinistra l'asta, con la destra veniva tirata indietro la corda, alla quale era stata precedentemente assicurata, in apposita cocca, una freccia, così da costringere l'asta stessa a flettersi all'indietro. Non appena si lasciava andare la fune, l'asta tornava rapidamente a distendersi, tirando con violenza la fune, in modo eh.e la freccia veniva scagliata ìontano. La balestra altro non era che un arco modificato nel _senso che l'àsta era munita di un supp0rto, che consentiva di appoggiare l'arma al tiratore od a terra e con essa, più pesante, ma più efficace ddl'arco, i dardi venivano scagliati con un lancio più preciso e di maggiore gittata. Forse però per gli incc;nvenienù ai quali dava luogo l'impossibilità di tenere nelle balestre le corde asciutte, presso la maggior parte degli eserciti l'arco venne preferito alla balestra. Quando, per l'assedio delle città, vennero costruite balestre assai più grandi, queste divennero armi da posizione e vennero chiamate balestre grosse o, dal latino, baliste od, infine, come a Firenze, tomt.


Le compagnie d'armi, che costituirono quasi il primo embrione degli eserciti permanenti, curarono con sempre maggiore efficacia l'addestramento degli arcieri e dei balestrieri. I Comuni, basando ]a loro organizzazione militare sul concorso obbligatorio di tutti i cittadini, _non potevano disporre, infatti, di gente già bene addestrata all'impiego dell'arco o della balestra; nè

L'arciere del Ca,.,.accio .

potevano ingaggiare molti arcieri per so]do, mentre le caratteristiche <li piccola guerra, che per lo più assumevano le operazioni militari comunali (faide - gualdane - cavalcate), le quali si risolvevano soltanto con l'urto, non inducevano ancora ad attribuire molta imporianza a queste armi, il cui uso venne deprecato persino dai Pontefici e tenuto in disprezzo, non soltanto dai picchieri; ma anche da tutto l'esercito. Gli arcieri ed i balestrieri venivano pagati meno dei pie-


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eh.ieri ed erano considerati come facenti parte di una Fanteria inferiore, così come gli antichi Romani avevano considerato i veliti inferiori ai veri legionari, astati, principi e triarii.

Per conseguenza, il , nostro apprezzamento circa l'influsso che queste armi esercitarono sul progresso delle Fanterie italiane deve essere obiettivo e rispondente alla realtà, a malgrado di quanto gli storici d'altri paesi avranno potuto o potranno scrivere circa le altre Fanterie, venutesi a trovare in diverse situazioni politiche, sociali e militari. E ciò a malgrado della fama che bene a ragione avevano conseguito gli arcieri di Lucera, da noi ricordati a proposito della


battaglia di Parma, e che dovevano conseguire i balestrieri pisani e genovesi, ricercati, come vedremo, anche fuori d'Italia. Il Ricotti, nella sua « Storia delle compagnie di ventura in Italia )) ' già più volte citata, ebbe, infatti, a notare come, al principio del Trecento, « i balestrieri pisani e genovesi, stante la loro grande perizia, venivano chiesti a servire in guerra da tutte le parti » .

I balestrieri genovesi. I balestrieri genovesi si distinsero nelle lotte contro gli Arabi e contro i pirati, nella guura contro Pisa, alla Meloria, ed in quella contro Venezia (battagiia dell'isola di Curzola); nonchè nelle Crociate e nelle imprese di Oriente. Essi, come abbiamo visto, vennero impiegati anche nella battaglia di Panna. Nel 1304 i balestrieri di Rinieri dei Grimaldi, fuoruscito genovese in Francia, facilitarono la vittoria conseguita dai Francesi sulle coste dell'Olanda. Quando G enova entrò nella storia d'Italia come .una delle più gloricse Repubbliche marinare, sospinta dall'attività dei suoi abitanti e favorita dalla felice posizione geografi.ca, essa divenne ben presto r icca di traffici d'ogni specie, tutta fervida di lavoro nel porto, nei cantieri, n ei fon daci e nelle banche. Per conseguenza, essa dovette ben presto risolvere il problema della sua sicurezza militare e di quella dei suoi traffici; problema non di difficile soluzione per gente <( naturalmente incline .11la milizia J,, come la definisce il Sismondi. Negli anni fra il 931 ed il 935 Genova aveva corso seri pericoli per un'invasione in grande stile, tentata dagli Arabi di Sicilia, che riuscirono ad occupare la città stessa (934), ricacciando gli abitanti sul vicino Appennino; ma la conquista venne resa effimera per l'accorrere alla difesa di Genova di tutti gli uomini validi delle vicine terre liguri. La difficile situazione degli invasori, chiusi in una città dominata tutta ali 'intorno dalle alture occupate dai Liguri, consigliò gli Arabi ad un prudente ritorno in _Sicilia, cui seguì un accordo politico e commerciale, non certo tale da dare ai Genovesi la sicurezza per l'avvenire; ma da concedere loro una tregua. Circa le forze militari di cui Genova potè disporre in questa circostanza, il Marchese Giacomo Serra (1), ricordate le istituzioni po(1) SERRA: (( Storia dell'antica Liguria e di Genova », Capolago, 1835.


Ba!e;tre. 11


14 6 litico-sociaJi della Repubblica genovese, descrive quelle che erano chiamate le << compagne » o « compagnie >J del porto di Genova e che erano associazi.oni temporanee di più individui, riunitisi con mansioni diverse (dirigenti, amministratori, esecutori, marinai, facchini ecc.) per espletare una data impresa .m arittimo<ornmerciale, di carattere o continuativo od occasionale, ultimata la quale, le compagnie potevano anche sciogliersi. Furono appunto q ueste organizzazioni sociali che diedero vita a quelle militari, costituendo le Fanterie genovei;i sim ili a qudle degli altri Comuni italiani; ma pronte anche ad imbarcarsi per imprese d'oltre mare. Appunto col Serra, ricordiamo che le armi difensive dei Genovesi di quei tempi erano: un elmo primitivo, una rete di filo di ferro posta al disopra di pesanti abiti di lana e completata con un saldo piastrone di grossa canapa che ricopriva il dorso, a guisa di rudimentale corazza, e lo scudo. Armi offensive erano, invece, la spada, la daga, la mazza, la lancia, l'arco semplice da saettare o la balestra a pedale. <e Non tutte le armi suddette convenivano a tutti scrive il Serra - perchè gli uomini Un balestrie1 e. d'arme a cavallo si astenevano dall'uso delle balestre ed i b.alestrieri non usavano lancia, nè m azza)) . Per conseguenza, i Fanti genovesi del medioevo, inclini per natura alla lotta armata ed educati alla vita pericclos;i sul mare, erano tutti, o qua.si tutti, arm:iti d 'arco. Le compag nie dovevano, infatti, esercitarsi soprattutto nel tiro con l'arco e con la balestra in ogni giorno festivo, con una disposizione, che vedremo più tardi adottata per le milizie nazionali di vari Stati italiani. Spesso, quando non si trattava di una guerra che impegnasse tutti gli interessi della Repubblica, alcune di queste compagnie erano chiamate ad imprese occasionali di piccola guerra, di carattere locale : il che dicevasi « facere hostem et cavalcatam » ; mentre alle


operazioni delle guerre più importami. doveva no partecipare tutti gli uomini validi dai I 8 ai 6o anni. La maggiore cura dei Genovesi nell 'addestramento al tiro con archi e balestre, a differenza delle altre Fanterie comunali, fu probabilmente dovuta alla necessità di çlifendersi contro gli sbarchi dei pirati e contro le flotte delle altre città mediterranee, rivali di Genova. Bisognava quindi difendere la costa dagli sbarchi nemici o colpire gli avversari sulle navi, prima dell'arrembaggio. Ì'.ecessità, queste,_alle quali potevano, più efficacemente degli altri Fanti , rispondere gli arcieri ed i balestrieri, particolarmente adatti anche a com battere in quel terreno aspro, rotto e difficile, che cade sul mare 1ungo le due riviere liguri. L'uso dell'arco e delle balestre poteva, inoltre, efficacemente servire ai Genovesi anche immediatamente prima di sbarcare nei porti stranieri, per proteggere ed accompagnare coi loro tiri gli uomini sbarcati durante l'attacco delle spiagge nemiche. Nel medioevo Genova, come Pisa e le altre Repubbliche marinare, tenne anche arcieri mercenari specializzati, che dovettero essere gli istruttori dei cittadini nell'impiego di tali armi, impiego dal quale derivò per le Fanterie genovesi una tradizione gloriosa. Infatti a poco a poco i balestrieri genovesi ebbero una tale rìnomanza, che ve:1nerc ricercati anche all'est~ro e, per esempio, in Francia, dove furono impegnati a fondo nella storica giornata di Crécy (16 agosto 1346). Filippo di Valois, dovendo affrontare Edoardo III d'Inghilterra, le cui ordinanze disponevano dei migliori arcieri dell'epoca, pensò, infatti, di arruolare anch'egli arcieri e balestrieri di fama e fra questi scelse i balestrieri genovesi, che lanciavano, con una maggiore precisione di tiro, verrettoni più grossi e più efficaci dei semplici dardi inglesi. A tale scopo venne fatto appello a Genova e Carlo Grimaldi ed Antonio Doria ingaggiarono, secondo alcuni 10.000, secondo altri 15.000 e, secondo il Villani soltanto 6.000 balestrieri genovesi, desiderosi di guerreggiare, e che furono trasportati via mare in Piccardia. Purtroppo la vigilia della battaglia piovve molto, sicchè le corde delle balestre si tesero tanto, da dìminufre l'efficacia e la celerità dd tiro; mentre gli arcieri inglesi, fomiti di apposite custodie in cuoio per le loro corde, poterono prevalere senza che venisse menomato il prestigio dei Genovesi, che combatterono con coraggio e con perizia, dimostrando di sapere accompagnare i F anti francesi andati all'assalto e resistendo tenacemente alle cariche della Cavalleria avversaria. La battaglia di Cr:écy convinse tutti della necessità di avere una Fanteria meglio preparata ed addestrata.


I balestrieri e gli arcieri furono tenuti in onore in Genova fino al prevalere delle armi da fuoco. Nel nuovo Statuto di Genova del 1414 troviamo, infatti, il seguente comma, che riguarda la costituzione e l'addestramento dei reparti balestrieri: <1 ••• si rinnoveranno gli esercizi dei balestrieri sotto due capi di guerra. Tutti i cittadini popolari saranno descritti secondo la strada di loro abitazione, avranno i loro capistrada o vicari, gonfalonieri e contestabili, bandiere ed armi distinte: e, con questi ordini, difenderanno da' nemici esteriori ed interni lo Stato l>.


Xli.

LA DECADENZA

DELLE MILIZIE COMUNALI Il dover partecipare a guerre sempre più frequenti e numerose e le difficoltà sempre maggiori che s'incontravano nel distogliere i cittadini dai loro interessi personali, dal lavoro e dal commercio, per indurli a compiere il loro dovere militare, fece decadere le m iliz ie comunali, mettendo in sempre più grave pericolo la libertà dei Comuni e la stabilità degli ordinamenti p<>polari. Infatti, col passare del tempo, ie idee, i sentimenti e le forze non furono sorretti da alcun vincolo nazionale, ciascu n Comune pensò soltanto al benessere materiale dei cittadini e le milizie comunali subirono graduali trasformazioni, che dovevano condurle fat:i.!mente alla decadenza. In alcuni Comuni gli antichi nobili ripresero il sopravvento e si servirono di truppe mercenarie; la libertà servì a volte a rendere più profonde e più durevoli le divisioni; il progredire delle industrie, dei commerci e della ricchezza distolse i cittadini dai loro doveri verso la città e free trionfare l'interesse individuale su quello collettivo. Da principio - scrisse il Canestrini (1) - fecesi la scelta degli uomini della milizia ritenuti più devoti alla famiglia od alla parte eà, in seguito, lasciati ancor questi da parte, si assoldarono a difesa del Comune soldati mercenari. Dopo la calata di Enrico VII e fino a tutto il secolo XIV si videro in Italia dapprima i mercenari e poi le Compagnie di ventura, straniere ed italiane, ed i Comuni, i Signor;, le Repubbliche combatterono fra loro con armi mercenarie. Ogni Comune, ogni città costituiva come uno Stato indipendente, nel quale alla parte guelfa succedeva la ghibellina, alla nobiltà la borghesia ed a questa il popolo minuto. Quindi la miljzia che, come istituzione e come arte, dipende dalle altre istituzioni dello Stato - perchè la (1) C ANESTRINI:

« Documenti da servire alla storia delle milizie italianr

dal sccol!:'_XIII al XV>>.


guerra è collegata col pubblico diritto per la ragione del farla; colla politica per la con venienza dell'intraprenderla, colla legislazione e con l'economia pubbl ica pei mezzi di sostenerla e pei modi di amministrarla - la miliz ia non fu p iù che un mestiere di venturieri, di fuorusciti, di bandi~i e di mercenari d'ogni sorta. <e L'arte della guerra, quasi perduta ed abbandonata dallo Stato, divenne arte o mestiere d'individui» . In principio, come era già avvenuto nella decadenza dell'Impero romano, si introdussero negli Statuti comunali modificazioni intese ad alleviare i gravosi obblighi militari e ad evitare ai cittadini che le frequenti chiamate alle armi finissero con l'incidere dannosamente sul progresso economico e sociale. Si ridussero gli oneri tributari dei mobilitati e, poichè il militare a cavallo riusciva più costoso, alcuni Comuni (Faenza nel r 173) d~cisero di assegnare alla Cavalleria soltanto i ricchi. Per alleggerire il ·peso del servizio militare, la mobilitazione generale venne effettuata sempre più raramente e si preferì servirsi degli uomini che, non avendo n è proprietà da coltivare, nè commerci da far prosperare, sembrarono meglio adatti alla vita avventurosa del soldato; uomini che vennero impiegati nelle campagne nelle q uali si pote.va c,>mbatlèrt a fianco di più forti alleati, o nelle fazioni di minore importanza. Nell'evoluzione degli ordinamenti militari comunali - scrive giustamente il Canestrin i - po5siamo considerare tre fasi distinte: quella della vita eroica e difficile degli inizi e dd l'assoluta devozione dei cittadini al Comune; quella della m aturità politica e sociale, atta a ripartire ed a graduare meglio gli sforzi ed, infine, quella della ricchezza e della conseguente rilasciatezza dei costumi, nella quale, data la stanchezza delle frequenti guerre, vennero sempre più dimenticati gli obblighi militari. Le milizie comunali furofld impiegate più frequentemente nelle gualdane e nelle cavallate e, venuta in disuso la chiamata dell'esercito generale, venne ritenuta opportuna la creazione di speciali reparti a piedi ed a cavallo; tenuti sempre pronti per simili imprese, in modo da dispensarne la massa dei , cittadini. Il che, se ·fu giusto ed opportµno sotto il punto di vista economico e sociale, determinò fatalmente la decadenza delle Fanterie comunali e l'affermarsi di · quelle mercenarie. Queste si trovarono pronte alle. · richieste dei Signori e dei Comuni, riunite in reparti e nelle compagnie di ventura straniere che, composte di uomini d 'ogni risma, scesero o si fermarono i !1 It:~lia, attratte dalle paghe.


Le Compagnie di ventura. Abbiamo già accennato come, anche nel campo civile, gli istituti democratici comunali avessero, dopo più d'un secolo, cominciato a modificarsi. I Podestà sostituirono i Consoli e, nella costituzione dei reparti speciali di miliziani, i giovani ricchi, tratti alle armi dalle consuetudini, fecero parte della Cavalleria; mentre militarono nella Fanteria coloro che non si sentivano portati ad un sereno lavoro e che tendevano a compiere i loro doveri militari come un mestiere retribuito. E ciò tanto più in quanto, nei Comuni, i contrasti d'idee, le discordie paesane, le gelosie fra le persone più autorevoli degeneravano facilmente in fazioni e queste, per imporsi, ricorrevano ancora più facilmente alle armi. Per queste condizioni vennero istituiti i Podestà, scelti di massima fuori dal Comw1e, per porli al di sopra di ogni dissenso locale e per meglio tutelare le sorti della collettività. I più capaci ed i più ambiziosi seppero destreggiarsi in modo da divenire necessari alla vita cittadina e finirono coll'iruporsi e con l'aspirare a diventare i Signori della città, già · a loro affidata soltanto per governarla. I Comuni - i più grandi dc:i y_uàli assorbirono, in questo periodo, Cjuclli minori e parte della campagna circostante - si trasformarono così in quei piccoli Stati, retti con potere assoluto, che furono poi i Principati e le Signorie. Soddisfatta la loro ambizione, i Signori non potevano certo fi. dai:si del popolo e finirono per desiderare eserciti legati alla loro persona, alla loro Casa ed alle loro fortune, perchè solo con essi potevano sentirsi sicuri da ogni sorpresa. Circostanza, questa, che contribuì senza dubbio a far sostituire gradatamente le milizie comunali con reparti mercenari. Col crescere <lei traffici e delle ricchezze, perfino le compagnie d'armi andarono sempre più riducendosi e, come dice il Ricotti, le arti e le lettere rinascenti aprirono vie nuove << aìi'umana attività, senzachè, per seguirle, si lasciasse in pericolo la patria ; anzi un po' d'oro bastava a sicurarla. Membra fortissime, giornaliero maneggio delle armi, disperato proposito di gente che rion ha che perdere, faceva dei mercenari combattenti, vincere i quali riusciva malegcvole; mentre bastavano a.i cittadini due o tre anni ad apprendere la milizia. E quando havvi tante nuove strade d'impiegarla molto meglio, e quando l'onore della guerra non esiste più, chi vorrà sciupare la vita a quel modo? Perchè, piuttosto, a mercenari comprati con oro, altri mer-


cenari a prezzo di altro oro non si opporranno: Friulani a Tedeschi, · a Catalani Borgognoni ? « Cm simiglianti ragionamenti i cittadini si .ritraevano a poco a poco dalle ordinarie fazioni di guerra e, serbandosi solamente a' più pericolosi casi, cede,·ano il luogo ai venturieri. Firenze nel 126o aveva 8oo militi di cavallate, nel 1289 ne aveva 6oo e nel 1325 soli 300. Fu un tempo, nel quale Pavia metteva in campo 15.000 F'a nti e 3.000 cavalli; nel 1315, quando cadde sotto il dominio visconteo, il numero dei suoi Cavalieri era di 6o ».

La decadenza delle milizie comunali era ancora più evidente per quanto riguarda i valori morali e spirituali dei Fanti, che a poco a poco perdettero lo spirito militare, ravvivato dalla consapevolezza della Causa per la quale si combatteva. Per quanto riguarda quello che potremmo dire valore tecnico ddla Fanteria, derivante soprattutto dall'addestramento, con il sostituirsi di Unità mercenarie-professionali alle milizie comunali e con la diffusioP.e delle :irmi da fuoco, aumentò, senza dubbio, l'importanza dell'Arma, come ben si vide nelle molte guerre. combattute fra il 1400 ed il 1500 e come meglio vedremo, ricordando le compagnie di ventura straniere ed italiane e le Fanterie mercenarie italiane. in confronto di quelle straniere ed anche di quelle milizie cittadine, che alcuni Stati dovettero ricostituire in Italia per integrare le possibilità offerte dalle truppe mercenarie, sempre più costose e perciò non sempre sufficienti alle necessità imposte dai tempi. Come abbiamo già ricordato, la decadenza delle milizie comunali, l'importanza sempre maggiore delle Fanterie, la riluttanza dei nobili a lasciare le loro armi di Cavalieri, le diffidenze dei Principi verso i loro stessi sudditi, il danno di sottrarre troppe energie al commercio ed alle industrie, già sviluppate in Italia, avevano finito per far. considerare come principale mezzo di offesa: e di difesa le soldatesche mercenarie. Secondo il Canestrini, i mercenari cominciarono a venire assunti alla calata di Enrico VII, alla cui morte, Pisa, non potendo resistere alla Lega guelfa, affidò ad Uguccione della Fagiola il comando d'un migliaio di Tedeschi,' Fiamminghi, Brabanzoni che, scioltosi il .campo imperiale, s'erano messi agli stipendi cU Pisa e coi qu.ali Uguccione s'impadronì poi di quella .città, divenendone signore. Mercenari ven-


nero assoldati a Siena sotto Castruccio Castra cani ed a Verona da Cangrande della Scala (1) e sono ben note le rapine commesse da tali truppe a Genova, a L~cca, a Firenze ed a Milano. Dopo la calata di Lodovico il Bavaro, si formarono le prime compagnie tedesche e, con la venuta del Re Lodovico d'Ungheria, scesero in Italia anche gli Ungheresi. Mediante i mercenari i Visconti ridussero in loro signoria Milano, licenziando i cittadini della milizia e favorendone l'ozio, reso possibile dalla ricchezza della città. Durante la lunga guerra contro l'Arcivescovo di Milano, Firenze, per assoldare milizie straniere, dovette sopprimere le cavallate, imponendo invece ai cittadini una tassa per l'ammontare complessivo di 52.000 fiorini all'anno.

Scrisse opportunamente il Ricotti nella sua << Storia delle compagnie di ventura in Italia » : · << Mentrechè un'audacissima sdùera di ventura scorreva, armata mano, le provincie dell'impero d'Oriente, dal Tauro al Pireo, ndic città d'Italia andavano a gran passi declinando, insieme colla libertà, quelle milizie che n'erano il naturale sostegno. Già i piccoli Comuni erano stati come inghiottiti dai più grandi, e la più parte di questi, oppressi dalle arti o dalla violenza di un Podestà, oppure di un capitano, o vi giacevano sotto, o stavano per cadervi. Questi reggimenti di un solo, che noi chiameremo tirannidi, sia per la instabilità e ambiguità loro, sia pei modi adoperati a pervenirvi, sia per quelli che si impegnavano per mantenervisi, avevano di proprio l'uso di mercenarii; perchè contro a cittadini, prima lusingati e traditi, poi straziati e oppressi, chi s'attentava di opporre altri cittadini? I mercenarii sen,ivano volentieri a chi pagava; i mercenari non erano passati dal comandare oppure dall'essere liberi alrobbedire; i mercenari non avevano nella città congiunti, non patroni, non amici, non fazione. Aggiungi a tutto ciò l'inclinazione ingenita a tutte le soldatesche per l'assoluto imperare. Così le schiere di ventura spensero la libertà in Italia, e furono i fondamenti delle Signorìe del XIV e XV secolo. (1) Cfr. : « Chronicon Veronense ab anno 1237 ad annum 1512 ,, di G1ovAN Cfr. anche il « Codice capponìano » , compilato da CARL O

8ATr1STA AvAcc1 .

MILANESI.


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« Già il lungo uso aveva procacciato agli stipendiarii alcuna forma e consistenza. Quelli a cavallo dividevansi in conestabilic o bandiere di 20, 25, e fin 50 uomini; non accettavansi da soli prima di passarli in mostra e visitarne e descriverne le armi, le persone, i destrieri e gli arnesi: il nome di masnada comprendeva indifferentemente le soldatesche a piè ed a cavallo. Del resto le paghe ormai erano giunte a tal segno, che molti abbracciavano di già la milizia per mestiere, e le città con gravi pene lo dovevano spesso impedire, per ovviare al pericolo di venire affa(to abbandonate da tutti i cittadini atti alle armi. Comunemente il nerbo delle masnade stipendiarie era formato di , fuorusciti, ladri, vagabondi e disertori italiani; ma, attorno alla persona del signore, quasi come suo braccio e anima sua, stava al continuo una potente squadra di stranieri, Aragonesi, Borgognoni, Provenzali e Tedeschi. Di questa sc.ldatesca ei solo teneva il c~mando; all'altra preponevasì il più soIl Condottiero. vente un nostrale. Quanto alle milizie cittadine, erano esse adoperate il meno che si poteva e solo contro a nemico esterno; venne poi tempo che il loro servigio fu valutato in denaro e col denaro si riscattò. << Ben è vero, che alcune poche città parevansi destinate a conservare l'antica indipendenza, non ostante i continui assalti dei tiranni vicini. Ma con nessune altre armi doveano elleno mantenerla, se non colle mercenarie. Un secolo innanzi il popolo era indotto a militare dall'utile e dal pericolo proprio e della patria, i grandi a ca vallo dall'onore. Ora, se le stragi civili, gli esigli e gli ordinamenti di giustizia avevano soffocato tutti questi nobili incentivi, l' uso de' mercenarii li spense affatto. Infatti lo stimolo, che, pungendo il cuore de' giovani, li traeva desiderosi sui campi dì guerra, era la carità d'una patria, di cui era no parte e reggitori; era l'emulazione, era la cupidigia di gloria. Combattere sotto le insegne, veggenti i padri e le spose, disfidare a ·battaglia i cavalieri nemici, od averne illustre vit-


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toria, o certo non riportarne inonesta sconfitta, questo era il pensiero che faceva sopportare agevolmente qualsiasi spesa e travaglio. Ma, allorchè, guardandosi artorno, si conobbero cinti di signorie fondate sopra soldatesche prezzolate, e scorsero nei combattimenti star loro innanzi uomini perduti, a cui il denaro era patria e legge, e che sospiravano l'occasione ·di farli prigionieri, per ritrarne a forza di torture un opimo riscatto; allorchè videro la guerra non offrir più che od una vittoria senza fama od una rovina senza compenso, mancò la fiamma che li avvivava, e come vile e funesto abbandonarono l'esercizio delle armi. « Del resto nè anco i Comuni erano stati restii a valersi de' mercenarii: sia per accertare l'esito di alcuna grande intrapresa, sia per resistere a strapotente nemico, sia per tenere in divozione le città del dominio o per non consumare i cittadini col peso soverchio delle cavallate. S'aggiungevano a ciò le guardie prezzolate dei Re angioini e svevi, le masnade de' Podestà e dei Capitani del popolo, le squadre che si serbavano a stipendio per assicurare il buon ordine interno. S'aggiungevano gli esempi delle milizie cittadine di Milano, di Verona, di Ferrara e di Modena, oppresse dagli stipendiati dei Torriani, dei Visconti, degli Scaligeri, degli Estensi »; stipendiati coi yuali i signori di Verona, di Padova, di Mantova e d'Este s'impadronirono delle loro città; mentre i Signori della Romagna e di Mo.nte-Feltro, che erano anche i comandanti delle loro milizie, pur impiegando qualche volta truppe mercenarie, per non tenere in ozio gli agguerriti e valorosi Romagnoli, si offersero come condottieri di ventura ed accettarono gli stipendi di altri Signori od anche dei Comuni in guerra fra loro. Il dannoso impiego delle soldatesche mercenarie si diffuse in tutta !'Italia, dove, combattendo i Signori senza tregua per le loro gelosie e venendo di preferenza e più spesso a combattere anche gli eserciti stranieri, le Compagnie di ventura trovavano più facilmente impiego, più lauti stipendi e più frequenti occasioni di ricco bottino. Fra le Compagnie di ventura straniere le più note furono quella spagnola degli Almouari, la grande compagnia tedesca del Duc:.t d'Ursling la francese della Colomba e quella inglese detta Com-

pagnia bianca. · L? Gran compagnia era comandata dal Duca Guarnieri d'Ursling (r), da Corrado Lupo é da Fra Moriale, poi dal Conte Corrado (1) Della famiglia dei signori d'Ursling, nella Svevia.


Virtunguer di Landue, conosciuto sotto il nome di Conte Lando, e da Anichino Bangarden, dei quali le vessazioni, le battaglie, le stragi, i tradimenti e le rapine sono raccontati da tutti gli storici contemporanei.

Tanto alto era il costo di cosiffatti eserciti, da costringere i Principi ad ogni sorta di penosi espedienti finanziari. Così, per citare un esempio piemontese, Amedeo VI, il Conte Verde, stretta lega, il 7 luglio 1372, col Papa Gregorio XI, con l'Imperatore Carlo IV e colla Regina Giovanna contro Barnabò Visconti e preso il comando delle forze collegate, era stato costretto a chiedere al Marchese Nicolò d'Este, per pagare le truppe e sopperire alle spese di guerra, un prestito di 4700 ducati d 'oro (1): prestito per altro non pagato, per nuovi e maggiori bisogni sopraggiunti, che costrinsero il Duca a contrarre altri mutui. Non diversamente i suoi successori, fra i quali vogliamo ricordare il Duca Ludovico, quello che aspirò. alla successione viscontea. Nd 1449, in ulla lettera del 14 febbraio, con Ìa quale dava notizia dei suoi successi nella guerra di Milano, egli scriveva al padre, Amedeo VIII - allora Papa col nome di Felice V - confessando di avere dqvuto, per pagare 1.000 cavalli e 2.000 Fanti, « qui montent par moys Xm. (10.000) ducatis, engagé les joyaulx » suoi e della sua <' tres chère et tres aimée compaigne », e finendo col chiedere una sovvenzione di ben cinquantamila ducati e col dichiarare: << je ferai toujours le mieux que pourrais; mais, en bonne foiJ il est impossible que dores-navant je puisse tenir cette charge, sans votre bonne subvencion et aide, pour ce, que par deça ne se peult trouver argent )> (2). Ed, appena due mesi dopo, era costretto a richiedere al padre nuovi aiuti per evitare che i suoi soldati, non pagati, sì dessero all'indisciplina ed al saccheggio. L'onere imposto da tali forze era divenuto quindi tale che spesso Città e Principi dovettero prolungare gli impegni assunti con le con(1) Da un documento dell'Archivio di Stato di Modena, risulta, infatti, che, in data del 13 Jlovembre 1373. Amedeo, « conti: di Savoia, duca del C hiablese e di Aosta, marchese io hal:a e principe>>, impegnava, coi propri beni presenti e futuri, sè stesso e gli eredi a restituire la somma di cui trattasi. (:2) C IBRARIO: « Origini e progresso delle istituzioni della Monarchia Sabauda "·


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dotte straniere, soltanto per l'impossibilità di pagare, all'atto di licenziarle, le mercedi loro dovute : circostanza, per la quale tanto crebbe l'indisciplina e l'arroganza di quegli avventurieri, legati solamente al soldo, che spesso essi si dettero al saccheggio, calpestando ogni diritt.o dei deboli abitanti, << passando di provincia in provincia, taglieggiando l'una e l'altra terra per conto proprio, quando non potevano farlo all'ombra degli altrui stipendi >>. Scriveva, infatti, il Ferreto che, per colpa dei mercenari, « subito mores, honeste vivendi modus et cultus in patria nostra pariter curo fortuna mutati sunt »; mentre uno scrittore dell'epoca, il Flamma, nella sua « Vita Atzonis », riferendosi alle compagnie mercenarie straniere, definiva quegli avventurieri, in un latino che non ha certo bisogno di traduzione: « homines scelerati, absque jugo, absque. Rege, absque lege, viventes de rapinis » . Nè mancarono certo proteste e tentativi per liberare le terre da quegli avventurieri. Spesso, anzi, sull'esempio e per gli incitamenti degli stessi Pon ceficì, i Signori si adoperarono a liberare le loro terre da quelle masnade, contro le quali Urbano V, nel r370, aveva bandito una vera Crociata; si erano uniti, nd 1385, i Signori di Milano, Mantova, Este e Padova ed una Lega era stata promossa, anche nel 1389, da Gian Galeazzo Visconti; mentre, il 24 settembre 1370, i cittadini di Genova erano insorti contro la Compagnia della Stella ed avevano impiccato tutti gli uomini che ne facevano parte. Nella crudeltà e negli abusi contro le popolazioni si distinsero specialmente le compagnie straniere, che saccheggiavano le campagne e le città. Non mancò, è vero, qualche esempio, che torna a favore dei mercenari; ma si trattò di fatti sporadici. I mercenari assoldati dai Signori e dalle Repubbliche italiane, una volta posta fine alla guerra e divisi i guadagni, a volte ne dedicavano parte a qualche scopo pietoso, in onore di quel San Gìorgio, il cui nome - come afferma il Ricotti-« avevano implorato e gridato nel calore delle mischie » (1). Così, ad esempio, i Capitani della Cavalleria mercenaria al soldo deJla Repubblica di Pisa, capitani, tra i quali due appartennero alla famiglia degli Scolari, fondarono nel 1346 la Cappella di San Giorgio (2). In Genova PercivaJlc Lomellino, padrone della galera omo(1) RtCOTTI, op. cit. (2) Il documento della fon~onc e del giuspadronato fu pubblicato dal Dal Borgo in « Diplomi Pisani '».


nirna agli stipendi del Re di Francia, concorse, nel 1346, all'erezione della chiesa dell'Annunziata; il condottiero italiano Bonifazio Lupo da Parma contribuì alla istituzione dell'ospedale Bonifazio in Firenze, dove venne fondato anche l'ospedale di San Giorgio nel r347. Appunto sul principio del 1347 in Firenze ed in tutta la Toscana una grave carestia di grano precedette la peste, che doveva diffondersi nell'anno successivo. La Signorìa stabilì, per venire in aiuto ai cittadini, che nessuno potesse essere arrestato per debiti sino al mese di agosto; che il grano non si pagasse più di 40 soldi per staio; che venisse dato in premio un fiorino d'oro a chi portasse dal contado un . moggio di grano nella città. Quando, a malgrado di questi provvedimenti, si cominciò a soffrire la fame, la pietà dei privati di tutte le classi procurò di alleviare le sofferenze dei m iseri cittadini ed anche i mercenari chiesero alla Signorìa che fosse loro assegnato un luogo in via San Gallo, per potervi edificare un ospedale dedicato a San Giorgio, per ricoverarvi i poveri. Inoltre, perchè i mercenari potessero impiegare utilmente i loro risparmi, secondo Matteo Villani, venne creato nel 1362 in Firenze un Banco, al quale fa Rcpi.;bb1ica fece, a favore d ei soldati, un primo versamento di 1500 fiorini d'oro e nominò gli ufficiali addetti al buon funzionamento del Banco stesso, che venne chiamato Presto degli stipcndiari. Ma questi episodt ed i ricordati provvedimenti non poterono eliminare tutti i difetti delle milizie mercenarie, difetti che apparivano particolarmente gravi nelle Compagnie di ventura straniere.

Per meglio conoscere le relazioni dei condottieri stranieri con gli Stati che li assoldavano, ricordiamo i :i;egolamenti ai quali erano sottoposte le miiizie straniere in Italia e riportiamo quanto scrissero in proposito, nelle opere già citate, il Canestiini cd il Ricotti. Il modo di assoldare, passar in rassegna e pagare gli stipendiad erano diversi. ll Ricotti scrisse come gli stipendiar1 potessero essere a soldo disteso, a mezzo soldo ed in attesa (asp-etto). Il Canestrini ricorda come anche le condotte fossero diverse. Vi erano condotte reali ed apparenti, semplici e miste, di protettorato, di onorificenza, di gratificazione, di compenso, di alleanza di uno Stato col condottiero, di alleanza di più Stati fra di loro per la con-


Compagnia di

ve111ura.



dotta di una compagnia ed, infine, di alleanza di più Stati col condottiero. Gli ordini che regolavano la condizione delle milizie straniere stipendiate dalla Repubblica fiorentina furono riuniti in apposito Codice nel 1337. Nello stesso ar.no a Pisa venne compilato in latino un analogo codice per i mercenari a cavallo. Gli stipendiarì di Pisa dovevano giurare obbedienza agli Anziani, accorrere al loro palazzo ed in loro difesa in caso di tumulto, non potevano allontanarsi dalla città, dovevano rimanere estranei ai cittadini e venivano puniti con la morte in caso di tradimento. Pisa fece ricompilare gli Statuti per le masnade stipendiarie in occasione della discesa in Italia di Lodovico il Bavaro. In Firenze, il codice del 1337 venne preparato da sei deputati all a revisione degli antichi ordini emanati precedentemente ed alla compilazione del nuovo codice. I deputati furono: Francesco di Cen ni Bilioni, Filippo di Duccio Magalotti, Tommaso Diotaiuti, Luca Gerini degli Strozzi, Benincasa Falchi, Aldobrandini Lapi T anagli, notaro Lotto Gonzi da Signa; ed il nuovo codice, che porta la data Jel 26 settembre 1337, venne compilato in una ventina di giorni. Secondo il codice, gli ufficiali soprastanti alla condotta a ve vano autorità di assoldare, al servizio della Repubblica, Cavalieri e Fanti di qualunque luogo o paese, per il tempo, con il soldo, con le pene e secondo i patti che gli stessi ufficiali stabili vano; ma non più di 8oo Cavalieri e di 1000 Pedoni, senza l'approvazione della Signorìa. Non potevano assoldare i cittadini ed i sudditi del contado e del distretto della Repubblica ; avevano facoltà di assumere nelle condotte Cavalieri o Fanti delle altre parti d'Italia, purchè col consenso dei Priori ed, in tal caso, il soldo veniva stabilito dalla stessa Sig norìa. Gli ufficiali di cui sopra non potevano assoldare squadre di Cavalieri stranieri con meno di 20 componenti ; nè per un tempo più lungo di sei mesi, senza consenso della Signorla. Avevano l'obbligo di compilare i ruoli dei mercenari, di passare in rassegna i soldati a ca vallo ed a piedi, nonchè i capitani, i connestabili, i castellani, le guardie della città, dei castelli e delle fortezze dello Stato; di stimare il prezzo dei cavalli e di farli marcare. Le rassegne si effettuavano ogni quindici giorni e si notavano le mancanze degli stipendiari, punendoli con ritenute sul soldo. Se, nelle rassegne, gli ufficiali cd i notari deputati a tenere il registro delle mancanze si lasciavano corrompere dai soldati, erano condannati come barattieri ed esclusi da tutti gli uffici del Comune. Si doveva tenere nota anche dei cavalli perduti,


morti e feriti. I cavalli degli st.ipendiari dovevano essere di loro proprietà e non potevano appartenere ai cittadini o ai sudditi della Repubblica, i quali venivano puniti se li prestavano ai mercenari. Gli ufficiali della condotta dovevano sorvegliare sull'esecuzione dègli ordini ed avevano l'autorità di cancellare dai ruoli i soldati e di sostituirli. I connestabil i ed i capitani dei mercenari al soldo della Repuhblica, durante la prima rassegna, dovevano giurare sul Vangelo « di servire lealmente e di difendere con ogni loro forza il Governo della Repubblica, cioè la Signorìa ed il popolo, di denunziare ogni congiura lo stesso giorno che ne venissero a cognizione, di accorrere in caso di tumulti armati al palazzo della Signorla e di muovere contro chiunque in difesa del popolo e del Governo; nonchè di osservare scrupolosamente i patti della condotta )> . La formazione dei reparti mercenari era la seguente: ogni 5 Cavalieri formavano una posta; una bandiera o squadra di 25 Cavalieri formava 5 poste. Questa divisione in poste serviva anche alla distribuzione delle paghe. Due giorni dopo la prima paga, i soldati erano tenuti a mostrare le loro armi agli ufficiali della condotta. I Cavalieri do,·c~':!f!D essere arm:1ti di sproni, ganibiere, cosciali, corazze cou ma11iche di ferro, di corsetti con maniche, gorgiere, guanti di ferro, elmi, scudo, lancia, spada e coltello. Essi dovevano essere pronti a cavalcare dovunque fosse loro comandato, senza aumento di soldo. Tutti i connestabili ed i capitani dovevano osservare gli ordini del capitano generale della guerra, o del suo luogotenente, della Signorìa e degli ufficiali della condotta. Avevano diritto alla doppia paga per un mese, se vincevano contro almeno 200 Cavalieri nemici e, se occupavano il campo di battaglia, avevano diritto anche al bottino, eccettuati i prigionieri, che dovevano essere consegnati al Comune, che li comperava dagli stipendiari in ragione di lire cento per Fante e duecento per Cavaliere o nobile. Le fortezze, i castell i e le terre presi al nemico appartenevano al Comune; ma i mobili e glj arredi spettavano ai mercenari. Se venivano presi prigionieri dal nemico, i mercenari, purchè la condotta durasse ancora, avevano diritto al soldo per un periodo non superiore a due mesi. Abbastanza severe erano le misure disciplinari. Chi non si presentava con le armi alle rassegne, era punito con una ritenuta sul soldo; chi abbandonava il posto di guardia perdeva un mese di paga.


Se qualcuno si presentava per tre volte privo dell'arma o del cavallo, veniva licenziato e perdeva ogni diritto al soldo. I connestabili ed i capitani non potevano allontanarsi più d'un miglio dalle fortezze e dalle località affidate alla loro vigilanza e, se non ottempera vano a tale prescrizione, pagavano multa. Chi si rendeva reo di tradimento o di baratteria, veniva punito nella persona o nei beni, secondo la gravità del reato. Erano puniti con multe e con ritenute sul soldo coloro che vendevano od impegnavano le loro armi, e chi le comperava o le accettava in pegno doveva restituirle, incorrendo nella perdita delle somme versate. Quando, nel 1362, durante la guerra contro Pisa, i condottieri al servizio della Repubblica fiorentina, fra i quali il conte Niccolò da Urbino, Ugolino Sabatini bolognese, Maecolfo de' Rossi da Rimini, ed altri capitani tedeschi, dopo la presa di Peccioli, òovevano ricevere doppia paga e, poichè la Signoria non volle concederla, alzata l'insegna d'un cappello, formarono una compagnia e, dopo avere oltraggiato il Capitano generale Bonifazio Lupo da Parma, abbandonarono il campo. Allora la Repubblica promulgò di nuovo gli antichi ordini sugli stipendiari e aggiunse disposizioni disciplinari ancora più sevi::n:. I condottieri dovevano, infatti, giurare, non soltanto di servire fedelmente la Repubbiica e di ubbidire agli ufficiali della condotta; ma anche di non congiurare contro la Repubblica e di denunziare le congiure. Potevano avere la paga doppia soltanto quando avessero vinto un nemico, le cui forze fossero superiori a 500 uomini a cavallo. Concluso il periodo stabilito per la condotta, i mercenari dovevano giurare di non prestare servizio contro la Repubblica per dieci anni. Gli organici delle compagnie d1 mercenari comprendevano : uno, due o più capitani ed, inoltre, da 40 a 50 connestabili, 4 marescialli, 12 consiglieri per ogni 1000 uomini. La giurisdizione civile e penale fuori dai luoghi murati spettava di massima ai capitani e, se la vertenza riguardava anche persone estranee alle compagnie, al Capitano generale della guerra di Firenze. A questi spettava anche la decima parte del bottino fatto dagli stipcndiari del Comune. Talvolta le compagnie si mettevano al soldo dei Comuni per difenderli, in riconoscimento degli onori ricevuti . Lo sviluppo del mercenarismo - scrisse il Maravigna - forma primitiva degli eserciti permanenti, trovò in Italia un ambiente fav<.•· revolissimo per il proprio sviluppo nella speciale forma politico-sociale della tirannide e, da strumento di difesa delle pubbliche libertà,


si trasformò 111 arma terribile per tenere in soggezione il popolo; la milizia, da istituzione statale, divenne proprietà privata per chi se ne serviva ed un mestiere per éhi l'organizzava e l'impiegava. Spinti c,lalla speranza del guadagno o da quella di conquistare il potere politico, sorsero così condottieri e bande di ben nota e triste fama. « Costoro non avevano fretta di deporre le armi, come i feudatari, e non si preoccupavano soverchiamente dei vincoli cavallereschi; anzi era loro precipuo interesse che la guerra durasse a lungo, che si trascinasse, cioè, indecisa; la manovra doveva ineluttabilmente soprapporsi e sostituirsi all'urto e questo assumere l'aspetto di una pura ed incruenta esercitaz ione. 11 problema della guerra diveniva, per questo fatto, complesso; esigeva studio ed abilità nella esecuzione ei:i a tale studio i Condottieri si accinsero e tale abilità cercarono di conquistare. Sotto questo punto di vista, l'apparizione dei Condottieri indubhiamente segnò un grande progresso dell'arte militare, poichè con essi sorgeva !'arte delle combinazioni. « I gloriosi Fanti della Lega Lombarda che, pur armati di semplice spada, avevano sconfitto a Legnano l'esercito imperiale, sparirono per cedere il posto al soldato di mestiere, alle bande composte <li soldati str:.,,icri e di cattivi. soggetti, di sbandati provenienti dagli eserciti invasori e rimasti in Italia, che sì riunivano in compagnie per campar la vita e si eleggevano un Capo l>. Nel XV secolo, quando alcuni condottieri àiven nero tiranni, accanto alle Compagnie di ventura sopra dette, ne sorsero altre locali, direttamente assoldate cd organizzate dai tiranni stessi che, per ovvie ragioni, allo scopo di mantenere il loro potere e di combattere contro i vicini, non potevano armare i propri sudditi. I maggiori Stati e le Repubbliche marinare ricorrevano, in caso di bisogno, agli uni ovvero agli altri di questi condottieri e, poichè la richiesta superava l'offerta, date le lotte continue nelle quali s'im~ pegnavano gl'innumerevoli Stati italiani, il servizio militare s'imperniava sul lucro e suil'interesse dei. capitani di ve ntura. << La g uerra divenne allora, per gli Stati italiani, una specie di operazione diplomatica e mercantile: vinceva chi sapeva trovare più denari, procurarsi più amici e meglio lusingare e 'pagare i capitani più reputati, la cui fedeltà si alimentava - come scrisse il Villari solo con nuovi denari e con nuove speranze. Ma il vero spirito militare andò presto decadendo in , questi soldati, che avevano oggi di fronte i compagni di ieri, con i quali potevano essere il domani nuovamente uniti. Il loro scopo non era più la vittoria, ma la preda )) .


« Tutto ciò rispecchiava la moralità della società italiana di quel1'epoca; era la conseguenza dell'affermazione e dello sviluppo dell'individualismo, che politicamente si esplicava col trionfo del potere personale più o meno legittimo. Questo stato di cose permase durante tutto il XV secolo e per parte del XVI e, come non era possibile costituire in Italia uno Stato unico e potente, non era neanche possibile la costituzione di un forte esercito permanente e nazionale, come negli altri Stati europei era avvenuto. La mancanza di un organismo militare difensivo, solido e mosso da patrio sentimento, rendeva inevitabile la discesa in Italia dello strani~ro » .

Per riassumere e per concludere questo capitolo, ci sembrano doverose le seguenti considerazioni. Quando il Carroccio non rappresentò il simbolo del Comune e gli squilli della Martinella non ripeterono più ai combattenti l'appello .fiducioso della Patria, le milizie mercenarie e le Compagnie di ventura straniere spensero, purtroppo, in Italia quella luce, che già cominciava a brillare, nelle foschie dd medioevo, sulle Fanterie co~ munali, e senza dubbio contr.ibuirono ad arrestarne i progressi. L'Arma, che già aveva faticosamente iniziato la sua ascesa verso l'antico primato, una volta che i fattori morali perdettero il loro vigore, tornò a svolgere, sui campi di battaglia, un'azione secondaria. Nè poteva essere diversamente, visto che i Fanti trassero e trarranno in ogni tempo le loro forze più efficaci dalle energie morali e dal rispetto dell'individuo per la collettività della quale fa parte. Nelle Repubbliche e nei Comuni italiani, dopo le prime, gloriose prove, si era verificato lo stesso processo che già, nel I volume di quest'opera, abbiamo dovuto deplorare per Roma. Col progredire della civiltà, con l'intensificarsi dei commerci e con l'aumento della ricchezza, si erano svegliati negli uomini gli egoistici sentimenti che - come poi doveva scrivere Francesco Guicciardìni - spingono ciascuno a preoccuparsi soltanto dd suo particolare ed a dimenticare i doveri verso la Patria, come li avevano dimenticati i Romani negli ultimi secoli dell'Impero,. ed a cercare di rimanere esenti dal servizio militare, offrendo al Comune un contributo, non già di sangue; ma di denaro. E ciò mentre, servendosi appunto del denaro, i più ambiziosi uomini conculcavano la libertà del popolo per trasformare il Comune in Signoria.


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D'altra parte le lunghe guerre fra Guelfi e Ghibellini, le rivalità sempre pronte a scatenarsi fra Repubblica e Repubblica e fra città e città, il moltiplicarsi delle diverse fazioni non potevano distogliere continuamente i cittadini dalle benefiche arti della pace, arti che contribuivano anch'esse, non soltanto ad aumentare la ricchezza, per la quale i banchieri genovesi e toscani acquistarono un'importanza europea; ma anche a preparare il Rinascimento. La Fanteria risorse ancora, come vedremo, nei piccoli eserciti costituiti dalle Compagnie di ventura italiane, molti dei cui comandanti furono spesso umanisti coltissimi; ma non potè riacquistare il suo primato nel campo tattico, se non dopo i primi perfezionamenti e la conseguente diffusione delle armi da fuoco e, soprattutto, se non dopo che le silenziose fatiche degli umanisti diedero luogo al grandioso fenomeno del Rinascimento. L'affermarsi delle armi da fuoco offrì, infatti, alla Fanteria la possibilÌtà di combattere vittoriosamente contro i Cavalieri nemici ed esercitò un efficacissimo influsso anche sulle energie morali dei Fanti, che videro come, sui campi di battaglia, la Morte muovesse, come aveva scritto Orazio, aequo pede, non soltanto contro i popolani; ma anche contro i più nobili e più ricchi signori . Il Rinascimento, cioè .il ritorno all'ammirazione ed al culto per la civiltà del mondo classico - i cui effetti non si limitarono al campo culturale; ma si estesero, assai più che non si creda, anche a quello politico e sociale -- contribuì a rendere gli uomini più consapevoli della loro dignità ed offrì ai Principi ed ai Governi il luminoso esempio delle istituzioni militari romane, esempio dal quale la Fanteria non poteva non trarre nuovi incitamenti a riconquistare il posto preminente già avuto, nelle battaglie, ai tempi gloriosi di Roma. Le milizie paesane o nazionali - che ripeteranno, su una scala più vasta; ma con un ordinamento analogo, l'esperimento di quelle comunali - attribuiranno poi alla Fanteria, allora divisa in picchieri ed in archibugieri, quella preminente importanza che essa mantenne poi nei secoli, negli eserciti stanziali della Storia moderna ed in quelli nazionali della Storia contemporanea.


Xlii.

LE f ANTERIE NELLE COMPAGNI E DI VENTURA ITALIA NE Le gesta delle Compagnie di ventura straniere - che ci fanno meglio comprendere molte pagine del Machiavelli e degli altri autori che avremo occasione di ricordare::, e che ci ri velano la lontana or-iginc di quella barriera separatrice fra l'attività civile e quella militare, già da noi lamentata - c'indurranno senza dubbio a meglio valutare quale progresso abbia rappresentato, specialmente per la F anteria, il sorgere delle « condotte >, italiane. Come ricorda il Canestrini, lo scisma della Chiesa, gli ambiziosi progetti di Gian Galeazzo Visconti, la rivoluzione popolare di Fi:-::nze (il tumulto dei Ciompi), b gl.!erra <l~i VPnezia ni e dti Genovesi per Tenedo, gli apparecchi di Carlo di Durazzo contro N apoli, la discesa di Venceslao, Re di Boemia, in Lombardia, il favore accordato dalla Francia e dal Conte di Savoia a Papa Clemente, l'opinione che Venceslao, conclusa la pace tra i Visconti di Milano e gli Scaligeri di Verona, avrebbe portato la guerra in Italia, facevano tanto mcerte le sorti della nostra Patria, che la Repubblica fiore ntina, temendo a ragione per la salvezza delle città toscane, invitava Siena a prendere i più efficaci provvedimenti. Siena doveva trattare, nell'anno seguente ( 1379), con Carlo di Durazzo per non essere danneggiata dalle sue genti e pagargli 11 .000 fiorini, affinchè i di lui soldati uscissero dal territorio senc:-se e non vi ritornassero per almeno sei mesi. In mezzo a tanti pericoli, le compagnie percorrev:ino in tutti i sensi l'Italia, _taglieggiandola e saccheggiandola ed, in aggiunta a tanti mali, gli Italian i erano costretti ad arruolarsi nelle compagnie ed a partecipare alle devastazioni ed ai saccheggi. Le prepotenze, le ruberie, i tradimenti delle Compagnie di ventura straniere avevano già fatto sentire agli Italiani la necessità di ristabilire la disciplina jn quelle eterogenee formazioni e di tentare di migliorarne la compagine con una più oculata scelta dei componenti ; molto più che l' indebolirsi dell'autorità imperiale incoraggiava,


168 come abbiamo già detto, le ambizioni di coloro che volevano profittare delle fazioni per tentare di trasformare, a proprio ·vantaggio e con l'aiuto dei mercenari, il Comune in Signorla. Infatti alcuni dei nostri Capitani, dopo avere appartenuto essi stessi alle Compagnie di ventura straniere ed averne conosciuto tutti i difetti, avevano già tentato di formarsi una compagnia propria, magari con un diverso reclutamento e con una più oculata scelta degli uomini. Così aveva già fatto, ad esempio, Castruccio Castracani (1281 - 1328), che abbiamo già avuto occasione di ricordare Signore di Lucca. Dopo avere servito prima nelle Compagnie dei Visconti, poi in Inghilterra e successivamente sotto gli Scaligeri di Verona, ed essere stato egli stesso vicario imperiale in Istria, egli riunì i suoi seguaci e, divenuto uno dei Capi ghibellini della Toscana, combattè vittoriosamente contro i Fiorentini ad Altopascio e vc:nne riconosciuto da Ludovico il Bavaro Signore e Duca di Castruccio Castracani. Lucca. Castruccio Castracani, se fu un ottimo capitano di ventura e se riconobbe i difetti delle Compagnie straniere, non fece conseguire all'Arte militare alcun notevole progresso e non riuscì a ristabilire 1a disciplina ed a dare alla Fanteria la dovuta importanza. Altre piccole compagnie, capitanate da Italiani, si erano poi formate per l'opera degli stessi figli -di Castruccio, dei Malatesta, di Lu~ chino dal Verme, di Ridolfo da Camerino, dei Farnese e di Giovanni degli Ubaldini ; ma nessun capitano ancora aveva riunito gli Italiani in una unica compagnia, che potesse superare tutte ìe altre e vincere le straniere. D'altra parte le sconfitte toccate alle compagnie dei mercenari avevano dimostrato che solamente con le armi l'Italia si poteva liberare da quel flagello. Ma soltanto quasi un secolo dopo Alberico da Barbiano seppe dimostrare che gl'Italiani erano ancora capaci· di militari virtù ed, all'uopo, formò la sua compagnia, dalla quale dovevano poi provenire le Scuole ed i più celebri condottieri italiani del secolo XV e di parte del secolo XVI.


Alberico, tra i cui seguaci er1no: Guido cl'Asciano, che vinse i Brettoni sotto Bologna, Francesco da Correggio e Galeazzo da Pepoli, volle che _il suo reparto venisse costituito tutto di Italiani e che traesse la forza principale, come doveva po1 raccomandare il Machiavelli, dalla Fanteria.

Alberico da Barbiano (1325 ? - 1409). Alberico da Barbiano, figlio del Conte di Cunfo,· n~cque nel

1325 o nel 1326, nel castello di Barbiano, dal quale prese poi il nome e, portato, fin da fanciullo, alle imprese militari, alle quali lo incitavano anche lo studio ddla Storia e gli esempi che gli suggeriva Plutarco, si arruolò, a 14 anni appena, nella Compagnia inglesr comandata da John Hackvood, più conosciuto in Italia col nome di Giovanni Aguto. A proposito di q uesta compagnia, composta di Inglesi e di Brettoni, Matteo Villani, nella sua « Cronica » scrisse che i suoi componenti erano tutti armati di panzeroni (r) e che portavano anche un'anima di acciaio (2), noncht bracciali, cosciali e gambiere d1 ferro. Come armi offensive impiegavano « spade e daghe sode e lance da posta, le quali, scesi a piè, volentieri usavano ,> . Lo stesso Villani narra, circa il modo di combattere di questa compagnia straniera, che i suoi componenti (( in campo era.no quasi sempre a piede, assegnando i cavalli ai paggi loro, unendosi in schiera quasi tonda » e che « così legati e stretti con le lance basse, si facevano a lenti passi contro ai nemici con terribili strida >>. Lasciata poi la Compagnia inglese, il da Barbiano passò al servizio di Marco Visconti; ma intanto, per le sue virtù militari, egli si era cattivata la stima di molti suoi dipendenti, la cui devozione gli suggerì il disegno di costituire una sua compagnia, reclutata in modo più omogeneo, composta tutta di Italiani e della guale, come gli suggeriva la sua cultura classica, la Fanteria costituisse la forza principale. La Compagnia, alla quale Alberico. impose il nome di S. Gior(1) I panzeroni o panziere servivano a completare la corazza ed a proteggere il basso ventre. Nel Trecento essi erano formati di lamine snodate, in modo da non impacciare i movimenti. (2) L'anima c"ra una corazza leggera, non già a piastre; ma a lamine snodate.


170 gio, si distinse ben presto sulle alt!c per la sagacia del comandante e per il valore e la disciplina dei gregari (1) ed acquistò tanta rinomanza in Italia, che ad essa accorsero, come ad una Scuola, i gio_vani della nobiltà e del popolo, desiderosi di seguire la carriera rldle armi. Alberico volle che nella Compagnia il numero dei Cavalieri fosse limitato ad appena un decimo dei Fanti e quindi adottò la stessa proporzione organica tra Fanteria e Cavalleria già in vigore nelle legiom romane. La Compagnia divenne a poco a _poco cos~ numerosa, che Alberico da Barbiano -veQne chiamato « Capitano genera-le della grande .Compagnia di S. Giorgio)). Essa cost1tw un esempio per tutti gli Italiani ed esercitò un influsso durevole, visto che, sotto la guida di Alberico, si formarono non pochi nostri capitani, destinati ad acquistare merilata fama ed a continuare, si.1 pure con diversi metodi, le nobili trndiAlherico da B,ll'biano. zioni della S. Giorgio. In questa, per volontà del suo fondatore, quale vincolo destinato a renderne più solida la compagine, oltre all'ascendente del capitano - ascendente che, nel tenere unite le altre Compagnie, era l'unico e più efficace legame - era intervenuto un ancor confuso sentimento della Patria ed anche un elevato spirito di emulazione rispetto alle Compagnie di ventura straniere. Appunto queste energie morali, non certo comuni ai soldati del tempo, Alberico da Barbiano sfruttò a Cesena, aggirando i mercenari ingiesi e brettoni con le ali del suo schieramento, comandate rispettivamente da Braccio da Montone e da Muzio Attendalo Sforza. Vinti nel 1376 a Cesena gli Inglesi ed i Brettoni di Giovanni Aguto, già suo maestro, Alberico accorse, nel 1379, per le sollecitazioni d1 S. Caterina da Siena, a liberare la Santa Sede, minacciata in Roma dai mercenari e, dopo aver compiuto in pieno inverno una (1) Ludovico il Moro, in un Decreto del 1489, doveva poi riconoscere che Alberico (( aestinctam disciplinam militarem costituit ».


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rapida marcia, attraverso le Marche e gli Abruzzi, sull'antico iunerario di Cesare> egli potè, con bella ed ardita manovra, vincere il 30 maggio a Marino le soldatesche straniere, ottenendo, in riconoscimento del suo valore, dal Papa Urbano IV, un bianco stendardo col fatidico motto: Italia liberata dai barbari. Quando, per far fronte ai gravi pericoli che minacciavano la Toscana e: tutta l'Italia, le città toscane con a capo Firenze si collegarono, Alberico da Barbiano venne chiamato dalla Repubblica fiorentina, che: ingaggiò la Compagnia di S. Giorgio. Il periodo fissato pc:r la condotta era di un anno e sei mesi e lo stipendio di 30.000 fiorini. La Compagnia si obbligava dal canto suo a rispettare tutte le città <!ella Toscana, escluse Pisa e Lucca, ed a non ricevere per nove mesi stipendi: nè dal Papa, nè dall'Imperatore o da altri Principi. Ma, forse per un' improvvisa diffidenza, i Fiorentini disdi ssero poi il contratto ed Alberico passò agli stipendi di Carlo di Durazzo contro Giovanna d'Angiò e riuscì a salvare il Reame di Napoli, costringendo il Re Luigi d'Ungheria a ritirarsi sconfitto a Bari. Nel combattimento di Ascoli egli venne poi fatto prigioniero dal Sanscvcrino e, riottenuta la libertà, passò al comando Jdlc wilit.~, milanesi e battè a Borgoforte ed a C asalecchio (1402) il Bentivoglio ed i mercenari al soldo di &logna. Richiamato poi a Napoli e nominato Connestabile dei Rclme, egli morl nel castello della Pieve il 26 aprile r409.

Alberico d~ Barbiano aveva costituito il suo piccolo esercito, riponendo italianamente la sua forza, non soltantn nel numero degli uomini, ma specialmente nella coesione degli animi e nella disciplina, da lui ripristinata ed imposta soprattutto col valore e col pre· stigio del comandante. La sua Compagnia di S. Giorgio si era sempre distinta per la omogeneità del-reclutamento, la giusta proporzione delle armi IJ~lla costituzione organica, la valorizzazione delle più ·nobili energie spirituali, compreso il sentimento religioso ; nonchè per l'autorità indiscussa del Capo, al quale soltanto spettava la scelta degli uomini ed il conferimento dei graòi, riservati solo a colo·ro, ai quali il valore, l'ingegno, la 'fortuna offrivano effettivamente la possibilità di progredire:.


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Per tale sistema nelle promozioni, col quale si precorrevano di alcuni secoli i tempi, alla scuola di Alberico, uomini provenienti dal nulla, come Muzio Attendalo Sforza, il Carmagnola, il Gattamelata, Niccolò Piccinina, pervennero alla più alta fama e giovani provenienti dalla nobiltà come Braccio da Montone, il Colleoni, Federico da Montefeltro, i Malatesta, gli Orsini, i Colonna, il Sanseverino, il Duca d'Atri dovettero iniziare la loro carriera militare da semplici gregan. L'esempio di Alberico da Barbiano venne imitato da molti altri capitani italiani, quali Giovanni Degli Ubaldini, Malvicino da Bologna, Pandolfo Malatesta, Boldrino Paneri da Panical~, Rinaldo Orsini, Giovanni da Barbiano, fratello di Alberico. Erano, inoltre, per la maggior parte composte d'Italiani le Compagnie, poco numerose, di Niccolò di Giannozzo dei Buonaparte, fiorentino, poste nel 1418 agli stipendi del Comune di firenze. Più tardi, nelle guerre di Lombardia, acquistarono fama anche Jacopo dal Verme, Cortesia da Scrcgo, Ugoletto Biancardo, Galeazzo Porro: Fra i capitani italiani vanno ricordati ancora il Broglia da Chieri, Biordo Michclotti da Perugia, .Brandolino da Forlì, Facino Cane e più di tutti Braccio da Montone e Muzio Attendolo Sforza che, aucora giovinetti, avevano militato sotto la guida di Alberico da Barbiano (1).

Eccettuato l'Ubaldini - che, caduto in sospetto dei Fiorentini, morì, come fu creduto, di veleno - tutti questi capitani furono al servizio di Gian Galeazzo Vi~conti nell'accanita guerra che egli fece nel 1390 contro la Repubblica fiorentina, che assoldò l' Aguto e l'Armagnac, il quale scese in Italia con 2.000 lance e 3.000 saccomanni. I Francesi vennero vinti e dispersi da Jacopo dal Verme e dal Broglia e l'Aguto fu poi costretto a ritirarsi. Conclusasi, due anni dopo, la pace, il Biordo, il Broglia, Brandolino e Giovanni da Barbiano unirono i loro uomini, formando la nuova Compagnia di San Giorgio, con la quale minacciarono Firenze, imponendole il pagamento di 100.000 fiorini d'oro per concederle la tregua per un anno. (1) Cfr., in propcsito, la ben nota e già citata opera del Ricotti sulle Compagnie ·di ventura in Italia. Sarà oppartuno consultare anche le biografie dei capitani venturieri, pubblicate nel 1846 da Ariodante Fabretti. Fra le vite da lui cspcste vi sono anche quelle di Biordo Michelotti, Boldrino da Panicale, Ugolino Trinci, Braccio Fortebracci, Ruggero Cane, Niccolò Francesco e Iacopa Piccinino, di Carlo Fortcbraccio, del Gattamelata, deì Conti di Marsciano, dei Baglioni, dcll'Alviano, del Vitelli ecc.


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Per quanto riguarda la loro compostz1one organica, le Compagnie di ventura italiane erano - come ricorda il Maravigna - miste, composte cioè di Fanti (bandiere) e di Cavalieri (lance). Le lance, derivazione diretta dalla Cavalleria feudale, erano costituite da 5 o 6 uomini d'arme, più o meno pesantemente armati; le bandiere d~ una ventina di pedoni, provvisti di armi da taglio e da punta, lunghe e corte e, p~ù tardi, di armi da fuoco. La compagine morale e disciplinare di siffatte truppe mercenarie, a parte quanto precedentemente si è osservato, era solida ed incomparabilmente superiore a quella delle analoghe milizie straniere. La fama della quale · i Capi godevano presso i gregari faceva sì che, al materiale vincolo ddl'arruolamento, si aggiungesse, in questi ultimi, un sentimento di ammirazione e talvolta di riconoscenza per il condottiero: il che aumentava la saldezza della Compagnia. Era questo, indubbiamente, il primo esempio di organismi militari, nei quali la forza di coesione r isiedesse prevalentemente od ia stima ispirata dal comandante. Alcuni condottieri italiani, dopo avere fatto di una città la sede stabile delle loro compagnie, finirono per avere in Signorìa la città stessa e per costituirsi un dominio, come avvenne, ad esempio, pc1 il Biordo, che ottenne la Signorìa di Perugia, di Todi e di Orvieto> e per il Broglia, che ebbe qudla di Assisi. Queste ambizioni che - secondo il Canestrini - andavansi p10pagando fra i condottieri italiani, desiderosi di conquistarsi un dominio s_tabile, e la loro cura per i loro reparti influirono senza dubbio a rendere le Compagnie italiane superiori alle straniere.

A confermare in modo ancora più evidente i progressi della Fanteria e delle Compagnie di ventura italiane, citeremo ora qualche esempio circa il modo nel quale si svolgevano le battaglie e venivano impiegati gli eserciti del tempo ; eserciti ancora composti in gran parte di Cavalieri. Nei combattimenti, i comandanti affrontavano per primi la lotta ed, avventandosi contro il Capo dell'esercito avversario, dovevano dar prova, non soltanto di grande coraggio personale; ma anche di vigoria fisica e di abilità nell'uso delle armi. L'esercito era diviso in schiere, ciascuna delle quali era agli ordini di un capitano di riconosciuto valore. Dopo il duello fra i due comandanti, le truppe parte-


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cipavano alla mischia, spesso con i Cavalieri appiedati e con i Fanti, contentandosi di cattur::re i nemici che, caduti da cavallo, per il grave peso delle loro stesse armature non riuscivano a rimontare in sdla e rimanevano quindi facile preda degli avversar1. Nella scelta di questi esempi_ ci varremo delle cronache del tempo e specialmente della « Cronaca lucchese » di Ser Cambi e della « Cronaca padovana » del Gataro, e cominceremo dalla battaglia di Brescia, combattutasi nel 1402 tra le truppe imperiali, comandate da ;Francesco da Carrara, e quelle del Duca di Milano al comando di Facino Cane.

La battaglia di Brescia. Galeazzo Visconti aveva avuto _d all' Imperatore Venceslao il titolo ducale; nonchè la cessione di gran parte dei , diritti imperiali sull'Italia. Ciò non garbava : nè ai Principi tedeschi, nè a quelli italiani . I primi deposero Venceslao e, dopo che fu ucciso Federico di Brunswig, che gli avevano dato per successore, elessero al trono Roherto, Dura di Baviera. I nemici del Visconti, con Firenze alla testa, chiamarono il nuovo Imperatore in Italia. Quando però constatarono che l'intervento imperiale veniva a costar troppo, sospesero i sussidi ed abbandonaro no a Trento l'Imperatore. Questi accolse allora l'invito dei Bresciani, che pensarono di farlo venire per conto loro, allo scopo di liberarsi dal g iogo di Milano. Un cronista dell'epoca, il Ser Cambi, raccontando questi fatti, rivolge quest'invettiva al nuovo Imperatore : « E se tale Comune (Firenze), e gli uomini di questa città, i quali si tengono essere di più che tutti gli altri uomini fedeli e leali, non t'hanno attenuto il centesimo di quello che ti promisono, come speri tu che ti attendessero le promesse gli uomini grossi e materiali, nati in ne' boschi e in nella montagna? )) . Francesco da Carrara, Signore di Padova, rimasto fedele all'Imperatore, lo raggiunse a Trento, dove così si trovarono raccolti circa 32.000 uomini, tra Tedeschi ed Italiani. D ecisa l'invasione d' Italia, Francesco da Carrara fu fatto dall'Imperatore Capitano generale (1) e, verso i primi di ottobre, sboccò coll'esercito imperiale nella pianura bresciana e vi pose il campo. (,) GATA:RO:

te Cronaca Padovana

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R. I., S., col. 8.Jx.


Il Duca di Milano, per tenere sottomessa Brescia e difenderla contro gli attacchi imperiali, vi aveva mandato Facino Cane con Ottobon Terzo, il Marchese di Monferrato, Carlo Malatesta ed altri valorosi capitani. Facino Cane con frequenti scaramuccie molestava continuamente gli imperiali, non riuscendo ptrò mai a provocarli a battaglia, perchè il Carrara, non fidandosi molto dei soldati tedeschi, che in queste scaramuccie avevano dato poco buona prova, aspettava da Padova un rinforzo di 1000 cavalli e di 800 Fanti italiani, che dovevano essergli condotti dal figlio Giacomo. Questi giunse, .finalmente, il 15 ottobre ed il giorno 17 si venne a battaglia. Questa data è dedotta dalla « Cronaca )> del Gataro ; mentre il Verri (1), nella sua « Storia di Milano» fa avvenire il fatto <l'arme il giorno 24. La mattina di quel giorno Facino Cane, con tutti gli altri capitani, coi cavalli e coi Fanti ordinati in due schiere, uscì da Brescia e come al solito andò a provocare il nemico, presentandosi schierato dava nti al suo campo, mentre la sua gente emetteva alte e ripetute grida di « morte >> (2). La battaglia questa volta fu accettata. Il Capitano generale aveva formato quattro schiere di forza variabile, da tre a sei mila cavalli; la quarta schiera era tutta di Italian i cd aveva anche 500 Fanti. Tali schiere generalmente erano composte dalla gente specialmente legata al capitano che le comandava, sia per vincoli feudali o per essere da quello stata assoldata. Esse non erano formate in base a nessun concetto di impiego tattico ed il loro intervento doveva essere successivo. Quella che, per il valore del capitano e della gente, era reputata la più animosa, era generalmente mandata a portare ed a sostenere il primo urto. Successivamente il Capitano generale mandava _le altre: sia a sfruttare il successo, sia a cercare di mutare le sorti del combattimento, in caso di sconfitta. Il modo di combattere delle schiere consisteva in un urto frontale. Primi a scontrarsi eraao i due capitani che, la lancia in resta, cercavano l'uno il petto dell'altro. Se nel cozzo non erano atterrati entrambi, quello che rimaneva in sella, lasciata la lancia, traeva la spada e con quella (x) VERRI: << Storia di Milano », edizione Macelli, Milano. (2) Evidentemente il Gataro, cronista padovano, erra nel dare il numero delle forze di Facino che, per quanto valoroso, non avrebbe potuto vincere ~on una tale sproporzione di forze (6.ooo contro circa 30.000).


in pugno si cacciava fra la gente del caduto, dando così il segnale della mischia, che generalmente si risolveva sempre in un succeoo del partito del capitano rimast<;> in sella. Ciò si spiega col fatto che chi sapeva resistere ad un urto di tale potenza doveva certamente essere uomo di forza e di abilità eccezionale e quindi capace di imporre intorno a sè tale terrore che facilmente il nemico ne rimaneva scompigliato e messo in foga. Del resto il condottiero caduto non poteva rialzarsi da solo e ,tanto meno rimontare a cavallo, a causa dell'armatura pesantissima. Sc,.in quel momento, egli veniva circondato, era fatto facilmente prigioniero. Perciò, intorno al capitano caduto, si riuniva una parte dei suoi soldati per impedire che egli fosse preso ; mentre altri scendevano da cavallo per aiutarlo a rimontare in sella, per la qual cosa e, per rimontare essi stessi, occorreva un certo tempo, durante il quale solo una parte della schiera, ed anche quella demoralizzata per la caduta del proprio capo, restava disponibile per la m ischia. Gli Italiani poi avevano modi speciali di combattere, che li rendevano superiori ai Tedeschi. Fra questi modi è da annoverarsi il frequente impiego dei Fanti contro i Cavalieri. Dalo che il m o m ento più impor tante ddle battaglie di questa epoca era la mischia, i Fanti non venivano adoperati in formazioni compatte; ma alla spicciolata essi s'intromettevano fra i Cavalieri nemici e ferivano od uccidevano i cavalli che, cadendo, trascinavano anche i Cavalieri, i quali, non potendo più rialzarsi, erano messi facilmente fuori combattimento. Nella battaglia di Brescia si ebbero esempi di questo modo di combattere. Infatti il Burgravio di Norimberga, comandante di una schiera imperiale, il quale aveva chiesto per sè l'onore di assalire pel primo il nemico, si scontrò col Marchese di Monferrato ; ma fu atterrato da questi che, cacciatosi fra i Tedeschi colla spada in pugno, fortemente li scompigliò: ( < Il simile faceva Messer Ottobon Terzo, che, con ia squadra sua d'Italiani, era entrato nella battaglia, facendo gran danno nei T edeschi, inesperti sul modo di combattere all'italiana » . Per sostenere gli imperiali vacillanti, il Capitano generale comandò al Duca Leopoldo d'Austria, comandante d'una schiera, di impegnarsi ; il che questi fece ottenendo anche qualche vantaggi0 ; ma gli si mosse incontro Carlo Malatesta, colla propria schiera ed, atterratolo con un colpo di lancia, lo fece subito prendere dai propri Fanti prigioniero.


La battaglia era ormai vinta e solo un ultimo attacco impetuoso, effettuato dalla schiera italiana di Giacomo da Carrara, il quale impiegò pure i suoi Fanti nel ferire i cavalli nemici, potè rendere meno grave il disastro. Gli imperiali si ritirarono precipitosamente verso il loro accampamento. Facino Cane portò a Brescia gran numero di prigionieri, due stendardi e più di 1000 cavalli. L'Imperatore fu costretto a ritirarsi nel Veneto, da dove, dopo aver ancora trattato inutilmente coi Veneziani e coi Fiorentini per ottenere del denaro, se ne tornò in Germania verso la fine di gennaio del 1403.

La battaglia di Castel S. Pietro. Il Duca di Milano, liberatosi dalla preoccupazione dell'intervento straniero, tentò allora di minacciare Firenze e, con molto accorgimento, volle prima isolarla dai suoi alleati. Perciò pensò di portar prima le armi contro Bologna, alla quale, per non apparire come aggressore, fece intimare la guerra da Francesco Gonzaga. Il co111ando delle milizie l'ebbe Alberico da Barbi:1no. La guerra, da prima vittoriosa per le genti del Duca di Milano, divenne incerta quando Alberico dovette per malattia abbandonare il campo. Ma la lotta era troppo importante perchè si potesse abbandonare la partita ed entrambi gli eserciti contrapposti ricevettero rinforzi. La guerra si svolse intorno a Castel San Pietro, presidiato dai Malatesta. Da Bologna partirono, per conquistarlo, lo Sforza da Cotignola, Giacomo da Carrara, Lanciarotto Beccaria e la Compagnia della Rosa; mentre dall'altra parte accorrevano Alberico da Barbiano con Facino Cane. Il 23 giugno 1402 si svolse la battaglia. Facino Cane fu il primo ad attaccare e ad ottenere un successo, colpendo gravemente Giacomo da Carrara, che gli si era mosso incontro e scompigliando le sue truppe. Alberico da Barbiano, " vero lume e prima gloria della milizia italiana ,> come lo definisce il Gataro, aveva intanto respinto e scompaginato la Compagnia della Rosa e lo Sforza da Cotignola, Giacomo da Carrara, Beccaria e Piero da Carrara smontarono da cavallo colle loro genti e cominciarono a ferire e ad uccidere i cavalli nemici. Anche Facino Cane fece allora smontare i suoi uomini e si svolse una mischia accanitissima e sanguinosa fra tutti gli uomini a piedi, finchè, sopraggiunta la notte, ogni capitano raccolse le sue genti. 13


Alberico e Facino Cane entrarono in Castel San Pietro; Giacomo da Carrara e lo Sforza da Cotignola con le loro truppe andarono verso Bologna e si accamparono a Casalecchio sul Reno. Nel fatto d'arme morirono 100 uomini ed oltre 400 cavalli.

La battaglia di Casalecchio. Il 24 giugno Facino Cane, con 600 cavalli, passò il ponte del Reno ed attaccò il campo di Casalecchio; ma la tenace difesa dello Sforza da Cotignola lo costrinse a ripiegare. L'attacco fu rinnovato il giorno 26 con una forte superiorità numerica dei Ducali, che portarono in campo 16.000 cavalli, senza Fanteria ; mentre il Bernardone non ne aveva che 7.000. Il da Barbiano costituì 6 schiere : le prime quattro di 2000 cavalli, la quinta di 3000 comandata dallo stesso Alberico, la sesta di 4000 al comando di Jacopo dal Verme, con le due bandiere di Casa Visconti. La prima schiera era comandata anche questa volta da Facino Cane. !1 capitano Bernardone non potè formare che quattro schiere. Dall'interessante descrizione del Gataro si possono dedurre i diversi compiti affidati ad ogni schiera, delle quali le ultime, più torti delle precedenti, dovevano servire a determinare il successo od a parare l'insuccesso. Appunto per questo, nell'esercito ducale, Alberico da Barbiano e Jacopo dal Verme comandavano rispettivamente la quinta e la sesta schiera ; mentre, nel campo avversario, la prima schiera era agli ordini dello Sforza da Cotignola e la quarta era comandata dallo stesso Bernardone. Nella battaglia non furono però impegnate tutte le forze ducali << già che, quando sopraggiunsero il Gran Connestabile e Messer Giacomo dal Verme, colle ducali bandjere, ritrovarono la gloriosa Vittoria fornita >ì. Erano quindi bastate le prime quattro schiere. Dall'inizio della battaglia in poi continuarono ad affluire le forze sempre fresche del Duca, tanto superiori di numero ai Bolognesi, per cui il Bernardone, vedendo « il soverchio grande delle genti duchesche contra de' suoi, conobbe la certa perdita della battaglia, ma, non volendo parere nè vile, nè fuggitivo, con grandissimo animo si mosse con la sua schiera è fece atti di valore ammirabili. Ma era tanta la moltitudine delle genti duchesche che giungevano, che i Bolognesi non potevano sostener la battaglia>>.


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Se a questo si aggiunge la defezione di T ommaso Crivello che, colla Compagnia della Rosa, era di guanJia al ponte sul Reno, si comprende come in breve il resto del campo bolognese rimanesse rotto e come a Facino Cane riuscjsse facile fare parecchi prig ionieri, fra cui Francesco Terzo da Carrara, Luca da Lione e lo stesso Bernardone. Alle ore 22 la battaglia era finita ed i Bolognesi in fuga verso Bologna. Dall'esame delle scarse perdite subite dagli eserciti con trapposti a Castel San Pietro ed a Casalecchio, si può dedurre che quei mercenari non lottavano con molto accanimento. Bastava, del resto, aver atterrato un Cavaliere, per renderlo innocuo e per farlo prigioniero. I prigionieri venivano rilasciati dopo alcuni giorni, salvo che fossero persone_ dal cui riscatto si potesse sperare un utile considerevole. La rotta delle genti del Signore fece scoppiare la rivoluzione in Bologna e Giovanni Bentivoglio, preso per ordine cli Alberico da Barbiano e conseg!}ato ai suoi rivali, fu percosso, ferito e gettato <la un balcone del palazzo.

Al nobilissimo esempio di Alberico da Barbiano ed alle due Scuole che da lui derivarono: la Bracccsca, audace ed impetuosa, e la Sforzesca, avveduta e prudente. si deve attribuire il vanto, non soltanto di avere moltiplicato le Compagnie di ventura italiane, che, a dire del Sismondi, nel r439, erano già oltre 150, con u na forza totale di 7.000 uomini; ma anche quello, ancor più importante, di aver formato i valenti capitani italiani, che molto contribuirono a far risorgere l'arte militare.

Braccio Fortebracci da Montone (1368-1424). Nato da nobile famiglia nel feudo paterno di Montone, apparteneva alla fazione ghibeHina e patrizia di Perugia, donde era stato bandito con i suoi dal partito popolare guelfo, facente capo a Biordo Michelotti. Costretto ad ingaggiarsi con altri fuorusciti perugini sotto Alberico da Barbiano, fu da questo assai apprezzato per l'impeto che sapeva porre nell'operare con la Cavalleria e per il coraggio temerario.


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Queste due qualità, ottime in un comandante in sottordine, influirono negativamente sulla Scuola che egli formò intorno a sè nell'Umbria, quando assurse quasi ad arbitro dell'Italia, dalla Romagna -al Reame di Napoli. · Braccio, nato Cavaliere, non aderì al concetto di non frammischiare sulla stessa linea Ji battaglia i Fanti ed i cavalli. Egli riteneva che la Fanteria, essendo costituita di gente umile e mancante di tradizioni militari, non potesse da sola reggere :tll'impeto dei cavalli. Non ne curò gran che · l'armamento ed adottò lo schieramento misto di colonne di Fanteria intercalate da squadre di Cavalieri, che dovevano muovere all'attacco simultaneamente. Braccio fu fatto prigioniero e morì per le ferite toccate nella battaglia di Aquila, da lui perduta• appunto per difetto di schieramento. La sua Cavalleria si trovò incastrata nella stretta fra il colle cui sovrasta la città di Aquila e la sponda del fiume Aterno e fu presa sulla sinistra Bra~cio da Montone. da una sortita degli Aquilani, per la porta oggi detta della Riviera, e di fronte dalle balde Fanterie nemiche, che avevano saldamente resistito alle cariche di Niccolò Piccinino a valle della stretta, ove ricacciarono in disordine tutto l'esercito braccesco, il quale non riusd a scampare per il sentiero, detto ancor oggi del Malepasso, sulla destra dell'Aterno.

Molto superiori a Braccio furono nell'azione di comando, nelle vedute più ampie, sia nel campo strategico che tattico, i suoi luogotenenti Niccolò Piccinino cd Erasmo da N arni, detto Gattamelata (1). Essi tennero alto il nome della Scuola <t braccesca », benchè se ne allontanassero, quando furono liberi dall'egocentrismo di Braccio, uomo scontroso ed esponente d'un personale modo di intendere la (i) Niccolò Piccinino (1386- 1444), dopo aver servito come comandante della Cavalleria sotto Braccio da Montone, rivelò la sua personalità di grande Capo al servizio dei Visconti. Le me più belle operazioni furono le campagne contro


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guerra, che gli impediva di adottare l'ottimo degli altri e di npudiare il pessimo dei suoi sistemi.

Muzio Attendalo Sforza. N ato a Cotignola da una famiglia di a·gricoltori, Muzio Attendolo entrò, secondo una leggenda ormai sfatata, nella compagnia di Giovanni Aguto prima di passare in quella capitanata da Alberico da Barbiano, dal quale ebbe il soprannome di 1< Sforza », perchè, nel protestare presso di lui per una divisione di bottino, aveva usato la minacciosa frase: <( Sì, io mi sforzo per voi a sopportare l'ingiustizia, ma un'altra volta non la patirei, se non sforzandomi ad essere vile ». Ma l'accorto capitano rispose, motteggiando : << Credi forse, ragazzo, di trattare me come i tuoi commilitoni? Frena 11 soverchio impeto, e chiamati d'ora innanzi lo "Sforza" n. Era il consiglio a Muzio Attendo/o Sforza . sapersi dominare, e tutta la vita Ji Muzio Attendalo fu uno sforzo continuo sugli eventi e su se slcsso. Certo è che, digiuno di cog nizioni militari e pertanto meno in cline a presumere di sè, a differenza di Braccio da Montone, infori Veneziani, comandati successivamente ,bi Carmagnola , dal Gattamelata e da Francesco Sforza. Memorabile il suo aforisma strategico: <( La Lombardia deve ricordare che la sua politica consiste nel chiudere allo stran iero i passi delle Alpi ». L 'accenno era alla posizione centrale del Ducato di Milano rispetto all'intera cerchia alpina. Bellissima fu la sua marcia di fianco dalla Rom agna per l'Appennino centrale su Roma, allo scopo di prevenirvi F rancesco Sforza che procedeva verso l'Urbe per il litorale adriatico e le valli de!l'Aterno e dell'Aniene (1439). Erasmo Gatta melata ( 1369- 1439) pervenne tardi al comando. Ciò nonostante, fu rapido manovratore. Rest:.i - esempio classico di ritirata strategica e di immediata controffensiva - la sua marcia e contromarcia con i Veneziani, per la quale, battuto da Niccolò Piccinina a Rovato (V.al di C hiese), non pot~do tuttavia opporgli che poche forze dopo il tradimento del Marchese di Mantova, risalì le valli di Ledro e di Concei, sfuggendo al nemico che lo credeva in ripiegamento su Verona ed affrontandolo .improvvisamente sulla sinistra dell'Adige, ad oriente di questa città.


mato delle cose ddla guerra fin dalla nascita, Muzio Attendalo segul senza spirito critko l'insegnamento di Alberico e fu il continuatore più fedele dell'arte di lui, la quale ispirò la Scuola « sforzesca », poi assurta a Scuola italiana, durante il q uarantennio in cui il nome di Francesco, figlio naturale di Muzio Attendolo e futuro Duca di Milano, suonò in tutta l'Europa sopra ogni altro nome di capitano. ,, Braccio e Sforza - dice il Canestrini - ebbero questo di co mune, che nacquero e morirono quasi nello stesso tempo e che tutti due col proprio valore salirono a gran potenza e divennero i capitani primari d'Italia al loro tempo; tutti e due amati dai loro soldati. L'At~ tendolo fu più atto a menar gr.::n colpi in campale battaglia per la sua prodigiosa forza e vigoria; Braccio più pronto alle sùbite e improvvise fazioni : per il che i Capi della Scuola braccesca possedevano quella prontezza nd decidere le imprese, che fu a loro sovente causa e compenso di gravi danni. Entrambi lasciarono un nome rispettato nelle milizie. Lo Sforza, morendo, lasciò al figlio Francesco Sforza un esercito intero, col quale egli perpetuò la potenza della Casa e conquistò uno Stato nella Lombardia». Braccio ebbe il merito di operare sul campo di battaglia a ragion veduta, con una certa gradualità di. sforzi ed un opportuno impic-go delle riserve. Secondo il Campano, egli divideva il suo esercito, « non come si usava anticamente in due corna; ma, con nuovo ed inusitato modo di combattere, il quale fu poi inùtato da tutti gli altri Capitani, formava dell'esercito molte schiere bene ordinate, preponendo a ciascuna un Capitano e mandava al combattimento schiera per schiera ; mentre, prima di lui, diviso l'esercito in due corna e con due ali di Cavalleria, in una volta e tutto insieme affrontava il nemico >> (1). Lo Sforza, dal cant<· suo, curò molto la disciplina e volle i componenti della sua Compagnia sempre pronti a marciare ed a combattere. Ricordando le gesta di Braccio da Montone e di Muzio Attendolo Sforza, non po;siamo non rammaricarci che il loro indiscutibile talento e la loro energia di comandanti non potessero ancora servire al conseguimento di un ideale più alto e di un fine veramente nazionale. N on senza· ragione, a proposito del periodo preso in esame, lo stesso Campano scrisse: « Le storie generali e municipali espongono diffusamente le fa( 1) CAMPANO :

« De vita et gestis Brachii

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i ioni e le guerre dei condottieri italiani, alla morte di Gian Galeazzo; a qual potenza salisse Facino Cane, spento Jacopo dal Verme; come sorgesse Muzio Attendolo Sforza e stringesse amicizia con Braccio Fortebracci. Descrivono ancora le fazioni e: le battaglie di Braccio pd Re Ladislao e poi per la Lega; le imprese di Braccio in Napoli e Roma e le vicende dello Sforza, che diventò gran Connestabile del Regno. Poi l'orìginè della inimicizia tra Braccio e lo Sforza; il primo dei quali guerreggiò contro Perugia, prese Roma e ne fu cacciato Jallo Sforza; quindi la guerra tra Braccio da Montone e lo Sforza, che morì annegato nella Pescara; mentre Braccio venne ucciso ».

Tutte le Compagnie di ventura italiane si accostarono alle due Scuole, Bracccsca e Sforzesca, e da queste Scuole, dal 1430 al 1494, 1< se i Principi concordavano fa pace, questa veniva rotta <la chi teneva le armi; nè gloria s'acquistava all'Italia con la guerra, nè tranquillità con la conclusione della pace. E per più di cinquant'anni si guerreggiò in modo - scrisse jl Machiavelli - che gli uomini non ~i auunazzavano, le città noJì ~i saccheggiavano, i Principati non si distruggevano. Le guerre si consideravano senza paura, si trattavano senza pericolo e finivansi senza danno. E così si giunse al 1494, dove si vedrà come, alla fine, si aperse di nuovo la via ai barbari e riposesi l'Ital ia nella servitù di prima >>. I condottieri italiani provenienti dalle due Scuole incoraggiavano l'impiego da parte dei loro Fanti delle nuove armi da fuoco , che cominciarono a diffondersi nel secolo XV. Col promuovere in modo più fermo la disciplina, essi avevano già migliorato le loro condotte e fatto progredire l'arte militare del tempo, come venne già messo nel dovuto rilievo dal Ricotti. Anche in Germania l'Hayer pubblicò un'opera sulle Scuole dei condcttieri italiani (1); ma, secondo ii Reumont (2), senza pervenire a conclusioni di sicuro valore storico, perchè l'autore tedesco evidentemente non potè avvalersi degli scritti del Ricotti, del Promis, del d'Ayala, del Blanch e dello Zarnbelli. Prima di concludere la trattazione di un così importante argomento, ci sembra opportuno ricordare, fra i moltissimi altri, Fran(1) HAYF.ll : « Francesco Sforza e dei modi di guerreggiare nel medioevo etc. ». (2) REu~ONT: "Notizie bibliografiche ».


cesco Sforza, che, come abbiamo già detto, aspirò non invano al Ducato di Milano. Anche Jacopo Piccinino sperò di divenire Duca di Piacenza, quando, nelle condizioni della pace tra i Veneziani ed Alfonso di Napoli, conclusa per mediazione del Papa, si assegnò ai Veneziani tutto il territorio al di là del Po e dell'Adda e venne oroposto di concedere Piacenza con tutto il distretto circostante app~nto al Piccinino. Ma, come è noto, Jacopo Piccinino morì in Napoli. Pochi mesi dopo la morte del Piccinino, si sp<mse anche Francesco Sforza, dopo aver date ventidue battaglie ed avere conquistato M_ilano, Genova e la Corsica e, per conseguenza, anche la Scuola sforzesca decadde. Non molti anni dopo, i successori di Francesco Sforza chiamarono i Francesi in Italia ed i condottieri italiani, sottomessa l'Italia agli stranieri, portarono la loro abilità nel guerreggiare al di là dei confini della Patria. Poichè generalmente si ritiene che tutta l'arte bellica dei condottieri di ventura sia consistita· soltanto in imboscate, astuzie e strattagemmi, non sarà fuori di luogo ricordare col Bob~io che, con Alberico da Barbiano, Braccio da Montone, Muzio Attendalo Sforza, Luchino e Jacopo dal Verme, il Conte di Piccinina, Francesco Sforza, Erasmo Gattamdata, Bartolomeo Colleoni, per citare soltanto- i condottieri italiani più rinomati, al semplice strattagemma si sostituì spesso la vera e propria manovra tattica; le azioni guerresche diventarono risultato di concezioni geniali e, anche se la guerra del tempo non consentiva ancora di parlare di strategia, si compirono mirabili progressi nella prepara.zione della battaglia e nella condotta di essa. Basti ricordare, ad esempio, l'originale manovra svolta nel 1416 da Braccio da Montone contro Carlo Malatesta, sotto le mura di Perugia; la sorpresa effettuata dal Carmagnola contro le truppe del Piccìnino a Maclodio, nel 1427; le operazioni di guerra svolte nel 1439 e nel 1440 da Francesco Sforza e da Niccolò Piccinino nell'alto Bresciano è nell'alto Veronese, operazioni che un nostro grande e venerato maestro, il Corsi, doveva avvicinare a quelle compiute, tre secoli e mezzo dopo~ sullo stesso terreno, da Napoleone Buonaparte. Ben a ragione dunque il ~olengo doveva poi affermare che, se l'Italia del Rinascimento fosse stata unita e concorde, avrebbe potuto dominare l'Europa anche colla forza delle armi, come la dominava con quella del pensiero; e giustamente lo stesso Imperatore Carlo V doveva riconoscere che, alla testa degli eserciti, dovevano esser posti Capi italiani, come italiani poi furono, infatti, i più gloriosi comandanti supremi degli eserciti imperiali: da Emanuele Filiberto a Rai-


mondo Montecuccoli e ad Eugenio di Savoia; come italiani furono Gian Giacomo Trivulzio, consigliere militare di Carlo VIII e di Francesco I, Bartolomeo Colleoni, Capitan generale della Repubblica di Venezia, lo stesso Alberico da Barbiano, Connestabile del Reame di Napoli, lo Strozzi ed il Caracciolo divenuti entrambi Marescial1i di Francia, · Andrea Doria, che, già distintosi sulla terra e sul mare in tante guerre sino a divenire Grande Ammiraglio di Spagna, doveva accorrere, nel 1556, benchè novantenne, a difendere contro ; Francesi la Corsica, ribelle a G enova.


XIV.

LE f ANTERIE STRANIERE

Per quanto la materia di questo capitolo non risponda pienamente ai particolari scopi della nostra opera, reputiamo opportuno ricordare le Fanterie straniere, che vennero successivamente in grande fama, durante il periodo storico considerato, e che, pur combatt~p.do in modo diverso e per cause differenti, affermarono - come fecero indubbiamente quelle svizzere e quelle spagnuole - l'importanza della nostra Arma e offrirono poi, per quanto riguarda l'organizzazione, le formazioni ed i procedimenti tattici, non inutili esempi alle Fanterie dei diversi Stati italiani. L : F .. ntcr ie straniere meritano poi una particolare menzione anche perchè il loro reclutamento, le loro armi e le loro gesta, lungamente discusse dai nostri condottieri e dai nostri scrittori militari, costituirono materia di studio e fornirono suggerimenti utili ed efficaci anche per quel tentativo di far risorgere le Fanterie comunali che, promosso a Firenze da Niccolò Machiavelli, ebbe una larga risonanza ed imitazioni più o meno fedeli in molte città e Stati italiani e conseguì effetti veramente durevoli specialmente negli Stati dei Duchi di Savoia, dopo la riforma effettuata da Emanuele Filiberto. Nel ricordare le caratteristiche più importanti delle Fanterie straniere, ci serviremo di quanto autorevolmente già scrissero in proposito il Ricotti, il Maravigna ed il Pieri, nelle opere già da noi più volte ricordate.

Le fanterie svizzere. Anche gli Svizzeri dipendevano politicamente dal Sacro Romano Impero; ma, trascurati daì grandi signori feudali, perchè non ricchi e fuori dalla vita europea di allora, si erano a poco a poco abituati a vivere per conto loro, a dimenticare ogni vincolo politico che potesse


legarli verso Oriente agli Asburgo, divenuti signori di tut!e le genti germaniche, e. verso Occidente alla Francia, che andava componendosi ad -unità nazionale. Il risorgimento delle Fanterie si affermò durante le lotte che gli Svizzeri sostennero per la loro indipendenza, contro le soldatesche: prima dei Borgognoni e poi degli Asburgo. I montanari difesero la loro indipendenza, tanto contro gli uni quanto contro gli altri; e da tale tenace difesa dei loro focolari germogliò, in pratica, il concetto d'uno Staro svizzero, tutelante gli interessi di tutti ·gli abitanti di quelle montagne, indipendentemente dall a rispettiva origine etnica. Il piccolo popolo svizzero, montanaro e povero, si trovò, per dife ndere la propria indipendenza, a lottare contro la formidabile Cavalleria del Signore di Borgogna e contro l'Austria. Nè agli Svizzeri era possibile, per deficienza di mezzi ; nè ad essi, del resto, conveniva anche potendolo, per la natura montagnosa del paese, di combattere a cavallo, per cui furono F anti per necessità e valorosissimi Fanti, animati dalla sacra fiamma del sentimento della propria indipendenza. Le decisive vittorie di Morgante (1315), Laufen (1339), Sempach ( 1386), Nefds (1388), che ie Fanterie svizzere riportarono sugii Austriaci, segnarono l'inizio dell'ascesa sanguinosa e gloriosa della nuova Arma ; vittorie dovute all'eroismo dei combattenti, unito al razionale e giudizioso impiego delle forze ed al saldo spirito di cooperazione. Gli Svizzeri chiamavano le loro formazioni di Fanteria << battaglioni>>, cioè grosse battaglie, combattevano in masse quadrate, fitte di picchieri ai lati, di alabardieri e di spadoni al centro, di balestrieri aUe ali. L'affermarsi di questa Fanteria, il conseguente aumentare del numero dei combattenti, il lento progredire delle armi da fuoco, gli scopi nazionali che frattanto andavano assumendo le guerre, resero sempre meno atti ai nuovi bisogni gli eserciti feudali ed i Sovrani ricorsero a grossi battaglioni di mercenari sul tipo di quelli svizzeri. I successi dì queste famose Fanterie non possono, però, attribuirsi soltanto alle lunghe picche ed alle formazioni falangitiche; poichè gli Svizzeri vinsero anche per le loro qualità intrinseche e per una certa capacità di manovrare razionalmente, coordinando l'impiego delle diverse frazioni della massa secondo i suggerimenti del terreno. La tattica svizzera - scrisse il Pieri nell'opera già citata - è originariamente quella di una folla che, numerosa, ma poco esercitata alle armi, si trova a dover affrontare in campo aperto schiere


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meno numerose, ma meglio armate ed equipaggiate, di soìdati professionisti (1). Essa è portata a raccogliersi a massa e la formazione all'incirca quadrata sembra la più adatta. La fronte ed i fianchi risultano, infatti, in tal modo guarniti in ugual misura; i meglio armati, i più valorosi ed autorevoli si pongono nelle prime quattro o cinque

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Ordini e formazio111' svizzeri nella imminenza del combattimellto.

righe e dietro sta la massa del popolo, armata a lla meglio od anche senz'armi, ma sempre utile, colla sua presenza ed il suo numero, a mantenere la coesione, sospingere quell i che sono davanti, far valere, insomma, la propria capacità dinamica. L'arma più adatta contro le lance dei Cavalieri è la picca, lunga dapprima poco più di tre metri, ma via via prolungata ed adoperata con ambedue le mani; ed oltre a questa !'alabarda, contaminazione della picca e della scure, (1) Vedi, al riguardo, specialmente DELBRUCK: <! Die Perserkriege und òic Burgunderkriege », Berlin, 1887, passim, e dello stesso: « Geschichte der Kriegskunst >>, cit., III, 751 segg.; DANIELS: « Geschichte der Kriegswesens l>, Ili, 5 scgg.; OMAN, II, 253 scgg.


atta, non solo a colpire di punta il Cavaliere, ma pure a spezzare la sua lancia od a farla piegare verso terra od anche, in casi eccezionali,

a ferire le gambe dej cavalli. Il quadrato presenta quindi una barriera di punte, contro cui la Cavalleria feudale s'infrange; esso è detto a ragione << istrice ». Ma la sua forza non è solo difensiva: la massa avanza compatta, disciplinata, irresistibile; è una specie di catapulta umana, per così dire, che supera, colla rapidità e violenza dell'attacco, l'ostacolo del tiro ?ei balestrieri e degli archibugieri (1) e piomba sulla Cavalleria che combatte, ricordiamolo, per solito sopra una sola riga, rompendola e scompigliandola. ,e I primi quadrati svizzeri, di 1500 o 2000 uomini, non presentano che un fronte di 50 uomini, ossia poco più di cinquanta metri, e una profondità di 30 o 40 righe (si ricordi che un uomo accantò ad un altro occupa, quando marcia, meno spazio che non un uomo dietro l'altro) cioè circa altri 50 m etri: è una massa ancora abbastanza piccola e che ha in sè un grave elemento di debolezza perchè si presta ad essere avviluppata da ogni lato. Ma presto i quadrati raddoppiano e triplicano la loro forz a; un quadrato di 6000 uomini presenta all'lncirca 85 uomini di fronte su 70 righe, ossia cento metn per ogni lato; e la capacità difensiva ed offensiva di un simile Corpo, di venuto l'unità tattica normale degli Svizzeri , risulta aumentata con progressione addirittura geometrica. Ma, ciò nonostante, proprio per ovviare all'inconveniente dell'aggiramento, il quadrato svizzero non combatte quasi mai isolato. Un esercito dei confederati comprende. infatti, normalmente, almeno nel secolo XV, tre quadrati. Così esso marcia, preceduto da poca Cavalleria e da pochi tiratori, poi il primo quadrato inizia il combattimento e lo sostiene finchè giunge il secondo, che si schiera a destra od a sinistra del primo, a seconda del bisogno, ed infine sopraggiunge il terzo, che dà il colpo di clava decisivo. L'addestramento dei combattenti non richiede troppo tempo. In generale esso si limita per i più a saper marciare in ordine, a saper eseguire un « per fila » a destra od a sinistra, tosto che le varie schiere che marciavano una dietro l'altra si affiancano spalla a spalla per formare il quadrato, e a saper compiere una conversione. Ncll'acco(1) Il che non esclude che gli Svizzeri abbiano anche un ,erto numero di tiratori (un decimo ddla forza totale all'incirca), ma costoro, più che controbattere i tiratori nemici du~ante il combattimento, devono proteggere le colonne in marc:a da improvvisi attacchi di Cavalleria nemica; sono dunque un semplice elemento accessorio, al quale spetta il servizio d'avanguardia, di copertura e di foraggiamento.


starsi al nemico sul terreno rotto, ogni combattente deve restare nella propria fila, cercando d'evitare ogni confusione, e soprattutto deve obbedire immediatamtnte agli ordini del suo comandante. Pure questa semplice e rudimentale istruzione permette agli Svizzeri di formare dei Corpi tattici relativamente mobili e soprattutto saldi nelle mani dei Capi. Infatti la più rigida disciplina domina; se v'è una relativa libertà durante le scorrerie, di fronte al nemico, sul campo di battaglia_ non è ammessa la minima disobbedienza : tutto deve tendere al rapido conseguimento della vittoria ; di conseguenza, non si devono neppure fare dei prigionieri, nè curare feriti, nè far bottino, finchè la vittoria non è piena ed intera: prigionieri e feri_ti vengono spietatamente uccisi ogni volta che possono essere d'ingombro al pieno svolgimento dell'azione n .

~a Svizzera era un paese povero, dove predominava la pastorizia. Di conseguenza si poteva chiamare alle armi gran parte degli uomini validi, senza che lo svolgimento delle diverse attività del paese ne softnsse. .E s1 trattava di gente avvezza a vivere con poco ed a SOJ>portare fatiche e disagi. Un nuovo e diverso spiri to animava poi questa massa di combattenti : sentimento patrio, rispetto della gerarchia, sicura fìJucia nelle proprie forze e nei propri mezzi si contrapponevano a! semplice amore della fama, che poteva dirsi l'unico stimolo spirituale del Cavaliere medioevale. Già nel secolo XIV la nuova tattica, imponendo un più decisivo ed esclusivo impiego della Fanteria pesante, si afferma - ricorda il Pieri - in due famosi scontri: :i Laufen, nel r339 e a Sempach, nel 1386. A Laufen si trovano 6000 Svizzeri di Berna e Waldstatte, in tre quadrati, contro 4000 Cavalieri e balestrieri riuniti da una coalizione guidata dai rappresentanti della città di Friburgo. Il terreno è ondulato, i quadrati svizzeri si dispongono a scaglioni uno dietro l'altro. Dal canto loro i collegati mandano un grosso distaccamento di Cavalleria a compiere un ampio aggiramento e svolgono intanto un'azione dimostrativa sulla fronte; se non che tale distaccamento è trattenuto dal quadrato di retroguardia ed in questo momento critico il quadrato d'avanguardia, incurante della minaccia alle spalle, avanza arditamente contro il grosso della Cavalleria nemica. La lotta pende incerta, quando il quadrato centrale avanza anch'esso, disperde i tiratori nemici, si getta sul fianco dei Cavalieri e li pone in piena


rotta ( 1). Qui per la prìma volta la Fanteria ha veramente agito offensivamente e con pieno successo, non già contro Cavalleria impigliata nel terreno come a Courtrai, ma contro Cavalieri nel pieno possesso dei loro mezzi tattici. La battaglia di Laufen segna veramente l'inizio della nuova aite militare e, come esempio di vittoria della Fanteria in azione offensiva, rimane anche più tipica di quella successiva di Scmpach (1386). L'avanguardia dei primi prende posizione su di un colle: gli Austriaci scendono in parte da cavallo, attaccano, stanno per vincere, quando li prendé di fianco il grosso degli Svizzeri, giunto allora per una via inaspettata. Dopo di che i due quadrati si gettano sulla Cavalleria rimasta in sella al basso e la sbaragliano. Così, :i meno di quattro anni dalla battaglia di Rosebccke, che sembra segnare il definitivo tramonto della Fanteria fiamminga, un'altra Fanteria, quella svizzera, torna ad affermarsi invincibile di fronte all a Cavalleria. Si trattava però sempre di azioni nel proprio territorio, facenti parte di operazioni a raggio assai limitato. Quando la naturale tendenza espansionistica portò, invece, gli Svizzeri ad avventurarsi fuori delle loro montagne, essi andarono incontro non di rado a delle gravi sconfitte, come presso Bregenz nel 1408 e ad Arbedo nel 1422. Tanto più che la mancanza di un centro egemonico, che dirigesse la politica estera degli otto Cantoni, faceva sì che k imprese verso la Savoia, il Ducato di Milano, la Germania meridionale, venissero condotte volta a volta da alcuni Cantoni soltanto e <li conseguenza con forze assai ridotte. La fama dei Fanti svizzeri divenne tale, che tutti gli altri Stati europei, o li vollero al loro servizio, o modellarono le loro Fanterie su quelle svizzere (2). In Francia, in Germania, in Ispagna sorsero poi Fanterie nazto( 1) Su Laufen ve<li specialmente; Rusrov : « Ges(hichtc dc. In fanterie}), GOTHA, 1857, I, 145 - 156; KoHLER, op. cit., II, 6o5- 13; OMAN, op. cit., Il, :242 - 45; DELBRUCK, III, 587 - 97. (2) Le Fanterie svizzere furono sempre fra le più apprezzate per il loro valore; ma anche per la loro fedeltà. L'uso di esse, da parte degli Stati e dd Sovrani, dura fino ai giorni nostri. Così ebbero truppe svizzere anche i Borboni <li Napoli fino alla loro caduta cd, anche attualmente, parte del presidio della Città del Vaticano è costituita, come è noto, da Fanti svizzeri. Contro le Fanterie svizzere del secolo XVI si ebbero - dice il Napione - perfino le declamazioni dei poeti. Cfr. anche l'(( Orlando Furioso >l dell'Ariosto: canto XVII, strofa 77, e canto XXX, strofa 36.


nali che presero nomi diversi; ma che non sempre riuscirono a togliere il primato ai combattenti a cavallo. La Fanteria tornò ad essere l'Arma decisi va ~elle battaglie soltanto quando le condizioni politicoS9Ciali fecero tramontare la società feudale e le armi da fuoco acquistarono un'efficacia tale da affermare definitivamente il primato della Fanteria.

Le Fanterie francesi. I Borboni di Francia, una volta conseguita la Corona, dovettero approntare sempre nuovi eserciti, che furono essenzialmente mercenari e spesso, per necessità, improvvisati. Questi eserciti avrebbero avuto, per la loro composizione, ben poco di « francese n, se non fossero intervenute, nel secolo XV, le speciali provvidenze regie, tendenti alla costituzione di milizie nazionali. Solo colle riforme iniziate nel 1439, dì fronte all'urgente bisogno di risolvere definiti vamente la grande contesa con gl'Inglesì, i Re di Francia polcrnno porsi veramente sulla buona via. In quell'anno essi fecero sancire dal Parlamento d'Orléans che al Re, e soltanto a lui, spettava d'imporre tasse pel mantenimento di truppe permanenti e di nominarne gli ufficiali. In conseguenza: nè i capitani di ventura, nè i signori feudal i .:ivrebbero dovuto più disporre di Bande proprie; ma solo entrare nell'esercito come ufficiali o cavalieri del Re. Era il colpo di grazia per le Compagnie di ventura, ma anche un notevole colpo al potere dei nobili. Sei anni dopo la riforma entrava veramente nel campo pratico, colla costituzione delle famose compagnie d'ordinanza - le quali, a quanto sembra, finirono coll'essere composte di cento e< lance>> al completo, con quattro ufficiali ed un furiere ciascuna - che, raggiunto il numero di 15, dettero alla monarchia, non più soltanto una guardia del Corpo, ma una forza permanente di l500 Cavalieri in pieno assetto di guerra e con adeguato seguito. I feudatari potevano ancora essere chiamati alle armi; ma solo come arrière-ban, in caso di grave necessità. Al tempo stesso i saltuari tributi in natura delle città e delle campagne venivano mutati in imposte regolari e permanenti in danaro e ad una finanza stabile si accompagnava un esercito, o per lo meno un grosso nucleo d'esersercito, ugualmente stabile.


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Carlo VII cercò pure di costituire una Fanteria di arcieri e balemieri, dà contrapporre agli arcieri inglesi. I tentativi dei suoi anteccssori erano naufragati soprattutto di fronte alla riluttanza della nobil tà ad armare i ceti medi cd infcrior1. Ma, nel 1440, il Re di Francia stabiliva che ogni cinquanta famiglie dovesse esser scelto un uomo particolarmente adatto, il quale si es~rcitasse tutte le domeniche al tiro e si tenesse pronto ad ogni chiamata. Egli era -compensato, in tempo di pace, coll'esenzione dalle imposte (da ciò il nome di francarcher) ed in guerra con regolare soldo. Riuniti, questi arcieri formavano delle compagnie al comando di capitani di nomina regia. Si trattava, in sostanza, di una specie di Landwhr, di milizia mobile di tiratori, da chiamarsi a sostegno delle compagnie d'ordinanza e tal<.> da potersi adoperare liberamente fuori della propria provincia. Nel 1448, per costituire la Fanteria regionale dei fra ncs-archer.1 (16.000 uomini divisi in 4 Corpi, forti ciascuno di 8 com pagnie di 500 uomini ciascuna), ogni Parrocchia doveva fornire un franco-arciere, che veniva equipaggiato ed ar mato dal Re: In pratica, però, questa milizia, che doveva addestrarsi nei giorni festivi, fece così cattiva prova, da obbligare il Re Luigi XI, nel 1480, a scioglierla (1). Sotto quest'ultimo monarca, che abbassò sempre più l'orgoglio dei grandi feudatari, accentrando il potere regio e sviluppando le pubbliche libertà, si costituirono le prime Compagnie o Bande nazionali, levate a suon di tamburo nelle Parrocchie e che venivano a<ldeslralf nel campo di Pont dc l'Archc con istruttori svizzeri (1480). Da quel momento anche la Francia, come la Svizzera, la Spagna e l'Inghilterra, ebbe una buona Fanteria che doveva poi, nel 1515, vincere a Marignano, a fianco dei numerosi Svizzeri e T edeschi assoldati, la sua prima battaglia, sotto il comando diretto del Re Fra ncesco I. Questi - scrisse il Maravigna - nella breve tregua susseguente alla pace di Cambrai (1529), ispirandosi alle idee della Rinascenza, volle 7 legioni provinciali di 6ooo uomini ciascuna, al comando di un colonnello di nomina regia, divise in 6 bande (capitani). Come le (1) Non vennero sciolti i francs - archers di Normandia. Con Luigi XI comincia l'assoldamento delle miliz ie straniere in Fra ncia, che assume, nei secoli seguenti, proporzioni sempre più vaste, tanto che, alla fine del XVIII secolo, l'esercito francese conta ben 52 reggimenti stranieri. Francesco I, nel 1516, sàpulò con la Confederazione svizzera un contratto, rinnovato da Enrico II nel 1549, in forza del quale la Confederazione doveva fornire un contingente di truppe al soldo della Corona di Francia. 14


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legioni romane, quelle di Francesco I ebbero, oltre i Fanti, 2 bande di 319 cavalli ciascuna, al comando di un capitano. Francesco I djede, inoltre, un nuovo ordinamento alla Cavalleria feudale, fissando a 100 uomini d'arme l'effettivo delle compagnie e istituendo la Cavalleria leggera composta di gentiluomini. Questa nuova specie di Cavalleria

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Formazioni francesi per il combattimento.

era armata di spada e parzialmente di pistolone, nuova arma inventata dagli Italiani. Il successore del Re Cavaliere organizzò l'alto Comando dell'esercito, creando i marescialli ispettori dei dipartimenti di frontiera e riunendo più bande a piedi in reggimenti, al comando di colonnelli. Riforme analog.h e a quelle della Monarchia di Francia attuava un altro principe francese, Carlo il Temerario. Egli cominciò col fare una scelta di nobili, equipaggiati in modo adeguato e sempre pronti a risPondere a qualsiasi appello dietro un piccolo stipendio o, meglio, dietro il rimborso delle maggiori spese imPoste loro dal più oneroso equipaggiamento e dal più lungo ser vizio. Anche Carlo aveva


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Formazioni fran cesi e tedesche alla battaglia di Pavia ( I 512) .

istituito compagnie d'ordinanza, nelle quali il numero dei soldati costituenti la « lancia » era maggiore. La <( lancia » era legata, nel secolo X1V, al concetto di un guerriero a cavallo - nobile o no - fornito di un proprio seguito. L'azione degli arcieri inglesi ed, in generale, il crescente numero dei tiratori, unito alla sempre maggiore forza di penetrazione dei proiet-


tili scagliati dalle balestre e dalle armi da fuoco, avevano portato il Cavaliere ad indossare armi difensive sempre· più pesanti ed a farsi sostenere da qualche tiratore. Nella seco11.da metà del · secolo XVI la « .lancia » · francese era costituita · da sei ·persone, tutte a ca vallo: il Cavaliere di grave armatura (uomò d 'arme), un coustillier o écuye1·, armato di corta daga, il' quale dòveva intervenire in aiuto del suo Signore appena la lotta si fosse fatta serrata e le lance fossero rotte ed inservibili ed, inoltre, due arcieri o balestrieri. C'era, infine, un valletto, che per solito attendeva al bagaglio, ma che poteva partecipare anche al combattimento, come tiratore, o per dare coll'azza il colpo di grazia ai feriti, oppure per prendere in consegna i prigionieri, ed, infine, un paggio, che in generale serviva a portare gli ordini, a procurare i viveri, a dare informazioni. La (( lancia >> della compagrtia borgognona era, invece, composta di ben nove persone, delle quali tre combattevano a piedi. Comprendeva, infatti, l'uomo d'arme, il suo scudiero, il paggio, tre balestrieri, tutti a cavallo, e poi un halestnere, un archibugiere (1) cd un picchiere a piedi. Ciò significa che il seguito del Cavaliere pesante, prima di una o due persone, poi di tre, quattro, cinque, era stato aum entatv al n ,ai.~;n1v. Il c.:he p<>trcbbe far pensare che il Cavaliere fosse sulla via di trasformarsi neWuffìciale moderno; mentre, in realtà, egli serviva a dare maggiore coesione spirituale al gruppo di combattenti che ìo circondava e, fornito di un cavallo sempre più robusto e di un armamento sempre migliore, voleva che i suoi collaboratori lo aiutassero nel modo più disciplinato ed efficace. Con questi provvedimenti, l'esercito finiva col trasformarsi notevolmente : il numero dei Cavalieri veri e propri, armati di lancia, era in diminuzione, meritre aumentava quello dei tiratori. Inoltre gli arcieri ed i balestrieri a cavallo in realtà combattevano quasi sempre appiedati e si servivano dell'animale come di un semplice mezzo di trasporto. Cosl, mentre la naturale evoluzione organica preparava l'affermarsi deila Fanteria ò1 tiratori, favorita dai continuo diffondersi delle armi da fuoco, nel 1476 - 77 la guerra burgundica, col clamoroso ed inaspettato trionfo degli Svizzeri, sanciva il prevalere della Fanteria armata di picche, serrata in masse profonde, erede e perfezionatrice delle gloriose Fanterie comunali. (1) Più esattamente un colouurinier, esperto nell'uso dei grossi archibugi o piccole colubrine, appoggiate ad un sostegno e scaglianti palle di piombo del calibro di circa due centimetri.


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Le fanterie inglesi. La Fanteria inglese del secolo XV fu considerata come il

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fiore

degli arcieri del mondo ». In proposito ci sembra opportuno riportare quanto scrisse il Pieri, nell'opera già da noi più volte ricordata. Si tratta, infatti, di notizie e di considerazioni che ci sembrano giuste ed opportune. Proprio quando la. Fanteria comunale sta declinando, ha luogo in Inghilterra un notevole sforzo per superare l'arduo problema, non per mezzo della Fanteria pesante, ma di quella leggera; non con le masse dei picchieri, ma con le squadre degli arcieri e dei balestrieri. Come abbiamo già ricordato a proposito della battaglia di Hastings (1o66), nelia quale gli arcieri normanni ebbero una parte notevole, <t la tradizione della lotta per mezzo dell' arma da gitto era antica in Inghilterra, ove la guerra contro gli abitanti delle regioni montuose del Nord e dell'Ovest, non permetteva che uno scarso impiego della Cavalleria. Tuttavia gli arcieri non divennero davvero prevalenti che durante il regno di Edoardo I. Questi, non solo assoldò in gran numero arcieri delle zone montuose ai confini del suo regno; ma anche balestrieri guasconi e genoYes~. E potè, con simile esercit<', non solo conquistare nei 1282 il paese di Galles; ma anche vincere, 16 anni dopo, nella battaglia di Falkirk, gli Scozzesi, r accolti in quattro masse di picchieri. Parve allora che alla Fanteria leggera, di tiratori, la quale aveva avuto ragione della Fanteria pesante, dovesse venir riserbato il definitivo trionfo (r). Nella guerra dei Cento anni, infatti, gli arcieri inglesi sì misurarono colle migliori forze delle Cavallerie feudali d'Europa ed in tre famose battaglie riuscirono pienamente vittoriosi. A Crécy (1346), a Poitiers (1356) e più ancora ad Azincourt (1415), il trionfo della nuova F anteria - dice il Pieri -- parve evidente, tanto più che essa combatteva sostenuta dai Cavalieri appiedati; poichè la Cavalleria feudale inglese aveva già riconosciuto la propria inferiorità ed i Cavalieri si erano rassegnati a diventare elemento accessorio dei tiratori, rinunziando a ciò che veramente costituiva la loro efficienza, ossia alla celerità ed alla massa dei loro cavalli. Ma, se esaminiamo le tre battaglie suddette, ve~iarno che, in realtà, l'efficienza degli arcieri inglesi aveva anche i suoi m iliti. ( 1) Sugli arcieri inglesi in generale '\"edi specialmente o~u.N: « History of the Art of War »; Mo!IRIS : <e The welh wars of Edward I >), Oxford, 1901; GEORGi;s: « Battles ot English History, 1904 "·


A Crécy si trovarono di fronte circa 4.000 Cavalieri e 14.000 Fanti inglesi contro 8.000 Cavalieri francesi e 6.000 balestrieri genovesi (1). Gli Inglesi occupavano una collina dal ripido pendìo, i tiratori davanti al centro, i Cavalieri appiedati dietro ed alle ali. Da parte francese attaccarono prima i balestrieri, allo scopo di portare col loro tiro il disordine nelle file nemiche e di preparare così l'azione risolutiva della Cavalleria. Ma l'attacco puramente frontale dei Genovesi fallì: il loro tiro, dal basso verso l'alto, riusd poco efficace, mentre quello del nemico, eseguito da posizioni dominanti, faceva strage. I balestrieri ripiegarono in disordine e scompigliarono -la retrostante Cavalleria ; ma questa attaccò, sia pure a spizzico. I cavalli faticavano a superare la ripida scarpata e l'azione si ridusse ad una serie di attacchi disordinati e skgati, sotto una grandine di frecce. Pochi valorosi riuscirono- a penetrare. nella p rima linea nemica ed ancor meno nella seconda; ma vennero circondati, uccisi o fatti prigionieri. Ben 1.300 Cavalieri caddero sul campo di battaglia. A Poitiers, dieci anni dopo, 3.000 Cavalieri francesi ebbero di fronte 2.000 arcieri inglesi, sorretti da 1600-1800 Cavalieri appiedati. L 'avanguardia francese, investita da un nembo dì frecce, ripiegò in disorèir: ~, µort:rndo lo scompiglio nelle schiere retrostanti; allor.i i Cavalieri inglesi montarono a cavallo, contrattaccarono il grosso del nemico e lo misero in fuga (2). Ad Azincourt, infine, 1000 Cavalieri inglesi e circa 800 Fanti, protetti da una leggera palizzata, combatterono contro circa 2000 Cavalieri e 4 000 Fanti francesi. I Cavalieri francesi d 'avanguardia attaccarono per primi; ma, fermati e disordinati dalle frecce, retrocedettero sul grosso, scompigliandolo. Allora gli arcieri inglesi, seguiti dai Cavalieri appiedati, contrattaccarono all'arma bianca, penetrarono tra le file nemiche già scosse e le sbaragliarono (3). (1) Su questa battaglia, oltre le opere già ricordate, vedi R. C"lE.PPAN: « Die Schlacht bei Crécy ('26 august 1346) », Rcrlino, 1900. Per quanto si riferisce ai balestrieri genovesi, manca una monografia sull 'argomento. Essi divennero noti nel corso del secolo _XII e la loro importanza nelle guerre d'Europa si affermò col loro intervento nella grande lotta tra Federico II ed i Comuni. Vennero poi, come abbiamo già detto, impiegati in Francia ed in Inghilterra. (2) Per la battaglia di Maupertuis o di Poitiers, vedi specia lmente K. LAMPA: (( Dic: Schlacht bei Maupertuis (19 september 1356) », Berlino, 1908. (3) Per questa battaglia vc:di anche: LorsNE : ,e La bataille d'Azincomt », Paris, 1898; F. Nnmu;: (< Die Schlacht bei Azincourt (25 oktober 1415) l> , Berlino, 1go6; E~tMF.RlNG: « The bataille of Azincourt )), in Lichte Geschisctlichef Que/len,verke, Nurnberg, 1906.


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Per conseguenza, a Crécy si ebbe una battaglia puramente di1ensiva; a Poitiers una difensiva-<:ontroffensiva, nella quale la seconda

azione fu compiuta dalla Cavalleria: ad Azincourt una difensiva-<:ofltroffensiva, svolta quasi esclusivamente dalla Fanteria. (( Parrebbe questo - conclude il Pieri - un con tinuo progresso, corrispandente, fino ad un certo punto, a quello analogo, g ià rilevato per le Fanterie comunali a Legnano. Ma in realtà gli Inglesi erano stati ogni volta molto superiori di numero ed avevano avuto il \·antaggio del terreno, elemento assai importante nella difensiva. In complesso la capacità tattica della Fanteria inglese non era ancora giunta, in un secolo e mezzo di sviluppo, all'azione nettamente offensiva. Come già con le Fanterie comunali, essa non era andata oltre la controffensiva. Osserva giustamente lo Schmitthenner (I) : « Una assoluta superiorità ... poteva nascer soltanto dallo sviluppo della tattica aggressiva della Fanteria >l . Ciò nonostante noi, senza accedere alle vedute degli storici britannici, i quali considerano i loro arcieri come i precursori della moderna F anteria, riconosciamo che questi, per il numero del tutto prevalente e pel modo di combattere accanto alla Cavalleria, rappresentano qualche cosa di nuovo o per lo meno di diverso dalla solita prassi guerresca medioevale e rnntribui~wt,v a far modificare, specialmente in F rancia, l'equipaggiamento ed il seguito dei Cavalieri. cc Ci sembra, infatti, innegabile che la Fanteria moderna sia sorta in realtà da altre radici e su diverso terreno e che, nelle F anterie comunali, se ne trovasse, assai più che in quelle inglesi, il germe fecondo)).

Le Fanterie tedesche. Simili a quelle svizzere furono le Fanterie tedesche (Lanzichenecchi). La maggiore ricchezza e patenza degli Stati dell' Impero consentiva un più oculato arruolamento dei mercenari che, se furono addestrati a combattere come gli Svizzeri, non ebbero certo le stesse energie spirituali. Le Fa nterie tedesche. pur essendo ottime dal punto di vista tecnico, finirono con l'avere una fama non molto lusinghiera, per il (1)

ScHMITI1-I ENN.Elt:

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Krieg und Kriegfuhrung >>.


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ricordo delle: violenze e delle stragi, non sempre necessarie e giustificate, che esse finivano per compiere: nel combattimento e dopo. I Quadri dei Lanzichc:necclù, per quanto riguarda gli ufficiali, erano costituiti di nobili. L'arruolamento avveniva per bando, mediante: il quale ogni colonnello raccoglieva i suoi uomini. Questi erano poi divisi in 10 o più compagnie, ciascuna formata per.fino di 400 uomini, al comando di un capitano.

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Il 25" moschelher,· Formazioni tattiche tedesche.

I Lanzichenecchi, la cui denominazione: vorrebbe: dire in t~desco servitore del paese », dovevano provvedersi di armi a loro spese. Appartenenti ad una Fanteria, istituita da Massimiliano I appunto per combattere quelle della Repubblica elvetica, i Lanzichenec;chi furono particolarmente: ostili agli Svizzeri, tanto che il Ricotti, nell'opera già più volte citata, dice che, nelle battaglie, Lanzichenecchi e Svizzeri usavano avventarsi gli uni contro gli altri, « come a proprio conflitto e con accanimento investirsi, e in pari contrasto cozzare con le lunghe aste, anelando, an2:ichè alla propria · vittoria, alla morte dell'avversario >l. I picchieri lanzichenecchi, oltre all'alabarda ed alla picca, usavano, come 'arma da offesa, una pesante spada a due mani che, durante le marce, appoggiavano alla spalla e che usavano _nel combattimento per aprirsi la via fra i nemici. «


201 Essi si distinsero a Ravenna (1512), a Pavia (1525) e quindi, seguendo prima il Frundsberg e poi il Connestabile di Borbone, effettuarono, nel 1527, il famoso saccheggio di Roma. Una compagnia di Lanzichenecchi fu assoldata in Italia da Paolo III nel 1540, per essere, otto anni dopo, sostituita con una compagn.ia di Svizzeri. I Lanzichenecchi vennero assoldati, col nome di Lanzi, anche in Toscana da Cosimo I dei Medici cd in Francia Enrico II ne ebbe circa 9.000, divisi in 4 reggimenti. I Lanzichenecchi ebbero vita fino a tutto il secolo XVII. Anche a proposito delle Fanterie tedesche, ci sembra opportuno riportare quanto ebbe a scrivere il Pieri, che è senza dubbio uno dei nostri studiosi più appassionati e sagaci dell'interessante argomento. « Massimiliano, vincitore dei Francesi, si trovò ben prestò in lotta colle città .fiamminghe, che tanto avean contribuito alla sua vittoria; di conseguenza, l'uso della loro Fanteria di tipo svizzero divenne per luisempre più aleatorio; anzi, dovè pensare a trovarne altrove di simili, da poter, all'occorrenza, contrapporre a quelle delle città ribelli. D'altra_ parte egli non voleva mostrare d'opprimere il paese sotto il peso di veri e propri eserciti permanenti. Trovò quindi un mo<lo elegante per sah-arc le apparenze; prese a disciplinare e 'lrdinare alla Svizzera le guard.ie, i gendarmi, i soldati reclutati specialmente nei paesi renani e della Germania superiore e messi a tener l'ordine nelle Fiandre. Costoro, in Germania,· erano detti umdsknechten; ossia Fanti, militi del paese; ma tale ·nome, fra il 1482 ed il 1486, venne perdendo il significato originario, per assumere quello dei nuovi Fanti tedeschi, rivali degli Svizzeri. Del resto già nell'esercito di Renato II, davanti a Nancy, c'erano numerosi elementi della Germa11-ia sveva e renana entro i quadrati svizzeri, e mercenari svizzeri e t~deschi avevano anche prima cominciato a combattere insieme nei quadrati, sebbene la parte esterna di questi fosse abitualmente costituita dai primi. · « Nel 1486-87 bande di questi mercenari tedeschi cominciarono a sciamare verso nord e verso sud : in Inghilterra da un lato, nel!'Austria e nella Savoia dall'altro, e la loro prima affermazione si ebbe anzi proprio in Italia, contro i Veneziani, a Calliano, durante la guerra tra Sigismondo d'Austria e la Repubblica di Venezia. Per conseguenza, dopo dieci anni dal trionfo degli Svizzeri, la Germania ebbe una Fanteria assai simile. E ciò anche se, per altri due decenni, i Lanzichenecclù si dimostrarono notevolmente inferiori ai loro maestri e rivali. Essi erano, infatti, assai meno amalgamati, senza un


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ideale, senza un ~ntimo spirito animatore, spesso male armati e addestrati, come ebbe a dimostrare la guerra sveva (1499), nella quale per la prima volta le due Fanterie si trovarono di fronte e che si risolse con una serie di vittorie svizzere. /\

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Lanzichenecchi. « Soltanto dopo una lunga. esperienza di guerra, quando l'esterno dei loro quadrati potè essere formato di veterani, i Fanti tedeschi furono in grado di gareggiare cogli Svizzeri. Alia battaglia di Ravenna (1512) i Lanzichenecchi raggiunsero i loro maestri; ma proprio in questo sanguinoso scontro un'altra Fanteria, formatasi in meno di


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dieci anni, ma animata da un forte sentimento patrio, quella degli Spagnoli, si rivelò pari o superiore agli uni e agli altri (1). « Il sorgere della Fanteria tedesca pose gli Svizzeri di fronte a nuovi, gravi problemi: come vincere, in campo aperto, non g ià la Cavalleria od i tiratori di tipo medioevale ; ma un contrapposto quadr3?.'o di picche ? Come aver ragione della fortificazione campale, quando 1 trinceramenti nemici non siano aggirabili, come a Morat ed a Nancy ed il velo dei tiratori che li difende sia sostenuto, non solo da Cavalleria, ma da robusti quadrati di picchieri ? Nell' imperfetta soluzione di questi problemi si deve trovare la prima causa della decadenza delle Fanterie di tipo svizzero e della nuova tattica, determinata anche, · attorno al 1520, dal perfezionamento delle :::.rm1 ù::i fuoco portatili. Tuttavia, verso il 1490, alla vigilia, si può dire, <ldle guerre di predominio in Italia, le Fanterie degli Svizzeri e dei Lanzichenecchi, dopo avere sconvolto la vecchia prassi guerresca, erano ancora efficienti ed in grado di svolgere una notevole e talora deci siva azione ».

Le Fanterie spagnole. Sono già note le vicende che por tarono all'unione delle Corone d'Austria e di Spagna nella persona di Carlo V d'Asburgo, come sono note le rivalità accesesi, in conseguenza, tra i Borboni e gli Asburgo prima, durante e dopo il regno di Carlo V, per il predominio sull'Europa occidentale. Non possono, quindi, restare ignorati gli eventi più importanti delle guerre combattutesi, nel primo quarto del secolo X Vl, nell'Itali:t meridionale per il possesso del Reame di Napoli , tolto da Carlo VIII agli Aragonesi e che la Spagna voleva rivendicare. Fu appunto durante queste guerre che ii capitano Consaivo àe Cordoba rese famose le sue Fanterie. Quando queste giu,1sero nell'Italia meridionale, per ri,·endicare Napol i, esse erano già note per altre gloriose guerre combattute contro i Mori del Regno di Granata (assedio di Almeria), per la liberazione del suolo spagnolo; e già godevano meritata fama, non soltanto per le loro qualità tecniche; (r) Per tutto questo è: fondamentale il citato la\"oro del ~HL: Landzkncchte >>.

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ma anche per il loro spirito nazionale, perchè i mercenari che le com ponevano erano tutti Spagnoli. L'ordine falangitico, simile a qudlo degli Svizzeri, veniva facilitato alle Fanterie spagnole dall'essere ordinate in tercios (reggimenti), ciascuno dei quali diviso in tre battaglioni che, per il combattimento, formavano grossi quadrati irti di picche, molto solidi nel resistere all'urto della Cavalleria e della Fan teria nemiche e capaci di marciare compatti contro k ordinanze avversarie. L'accompagnamento e la protezione dei .Fanti erano affidati, anche dagli Spagnoli, agli arcieri, ai balestrieri e quindi agli archibugieri, quando questi ultimi poterono sostituire gli archi e le balestre con l'archibugio. I tiratori venivano posti quasi sempre alle ali di ogni quadrato e ne seguivano i movimenti, sviluppando l'azione lontana ; mentre altri stavano di rincalzo, a tergo dei quadrati di battaglione. L 'inizio delle battaglie, prima affidato agli arcieri, passò . poi gradatamente, e non senza resistenze, agli archibugieri, anche se il loro foorn non poteva essere ancora molto efficace. In proposito il M:iravigna, nella sua già citata « Storia dell'Arte m i!it::irt. mo d e:rn.t

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Soltanto in Ispagna la tendenza a far divenire Arma principale la Fanteria, e le Cavallerie pesante e leggera ausiliarie a quella, cominciò presto a farsi strada c siffatto rivolgimento militare era già compiuto nei primissimi anni del XVI secolo, per opera specialmente del grande Capitano Consalvo de Cordoba. Il Re di Spagna aveva avuto milizie simili a quelle francesi: o fornite dai feudatari e dai vassalli direttamente dipendenti dalla Corona, oppure formate con volontari ingaggi tra la popolazione; ma nell'esercito spagnolo non vi erano mercenari stranieri. « I Fanti spagnoli erano valorosissimi, animati da un alto sentimento del dovere verso il· Monarca e da uno spirito militare quanto mai saìdo. Dopo che Carlo V riunì sotto il suo scettro la Corona di Spagna e quella imp{:riale, l'esercito spagnolo divenne uno degli elementi costitutivi degli eserciti imperiali, che attraversarono l'Europa da una parte all'altra. <1 L'eterogeneità di tali elementi: Spagnoli, Tedeschi, Fiamminghi, Italiani, dava ai detti eserciti un'impronta speciale, quando combattevano uniti sullo stesso campo- di battaglia, poichè ciascuno di essi combatteva secondo le proprie regole. Sotto Carlo V, in un esercito imperiale misto, gli Spagnoli costituivano però la riserva, p<'f «


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ragioni tecniche e più ancora per ragioni morali, avendo l'Imperatore illimitata fiducia nella Fanteria iberica. « Un esercito spagnolo normalmente contava da IO a 15 terc;os di soldados (1) e 50 squadroni di Cavalleria pesante. Il Comando era

D Picch ier /· ~Mosch?#Fer,' m:z:a A r rhibugieri

Formazioni spagnole.

organizzato come _queilo francese: un Capitano ge.neraJe assistito da un, maestro di campo; Capitani generali avevano la Cavalleria e l'Artiglieria. Il tcrcio (3000 soldados) era ·comandato da un capitanocolonndlo; si divideva in 3 band~ di 4 compagnie, unità, queste, soltanto amministrative, e contava 2 / 3 di moschettieri ed I/ 3 di picchieri. In ogni compagnia vi erano squadre di soldati muniti di scudo ed ( 1) I primi ad impiegare il nome <li soldato furono gli Spagnoli e gli Italiani.


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armati di spadone, di spiedo ed anche di coltellaccio, la funzione dei quali era quella di uscire dalla formazione e d i impegnare la mischia penetrando nelt'urdìnanza nemica.

I Giannizzeri turchi. Espressione della società dalla quale emanavano e delle qualità guerriere di quel popolo, le istituzioni militari turche. s'identificavano, secondo il Maravigna, con quelle politiche, basate sul feudalismo. Le forze turche consistevano m elementi forniti dai feudatari (Cavalleria), ed in elementi assoldati dal Sultano, i primi eventuali, soltanto per la guerra ; gli al tri permanenti. Nel secolo XIV s'istituì la famosa milizia scelta a piedi dei Giannizzeri (dal turco Yeni Cèù cive, nuovo soldato) che da 1200 uomini venne portata, nel secolo XVII , a 4 0 .000. A tali truppe si aggiunsero bande numerose di Cavalleria irregolare, tratte dalle popolazioni curde e tartare (circa 30.000 uomini) eJ assoldate soltanto per il periodo delle operazioni. Il soldato turco rappresentò un elemento di lotta di prim'ordine, data l'csaltazion:: :;p::-iri::i!e, .:he egli atti ngeva dal f.mati:,mo religioso. Isti tuiti dal Sultano Orkhan, i reparti dei Giannizzeri venivano costi tuiti e comp letati, a quanto si afferma, con i fanciulli della Turchia eurnp<=a cli<:, già appartenenti a famiglie cristiane ed educati nella religione maomettana, venivano addestrati alla vita militare fin dall'adolescenza e finivano col divenire i più fanatici difensori dell'Islam. D opo il 1700, l'arruolamento dei G iannizzeri divenne eterogeneo. Valorosissimi subito dopo l'istituzione del loro Corpo, :. Giannizzeri - il cui numero aumentò notevolmente sotto Maometto II (10.000); nel 1500, durante il regno di Solimano il Magnifico (23.000) e nel secolo XVIII, nel quale i Giawizzeri raggiunsero, in tempo di guerra, la forza di 100.000 uomini - , godettero di speciali privileg i; ma, poichè il loro !1umero era stato aumentato a scapito della qualità, accamparono sempre nuove pretese e - come era già avvenuto in Roma coi soldati delle coorti pretoriane - vollero intromettèrsi negli affari del Governo e perfino nella nomina degli stessi Sultani. D opo i tentativi di sostituirli con un nuovo Corpo d i Fanteria, effettuati nel 1792 dal Sultano Selim III e nel 1808 da Mahmud II, il Corpo dei Giannizzeri, che si erano pi,1 volte ribellati, venne decimato e distrutto con l'artiglieria nel 1826, per ordine dello stesso Sultano Mahmud II.


PARTE SECONDA

LE f ANTERIE ITALIANE NELLA STORIA MODERNA



I.

IL SECOLO XV E L'INIZIO DELL'ERA MODERNA Il secolo XV è l'ultimo del periodo medioevale (4]6- 1492); periodo che può considerarsi come una lunga sosta) necessaria a permettere la sovrapposizione prima e quindi la lenta, graduale ·fusione dell'elemento barbarico e dell'elemento cristiano coll'elemento romano, ed a favorire - fra le forze opposte e dissimili, ma pur tendenti fatalmente ai medesimi fini - quella profonda elaborazione, per la quale, secondo il Machiavelli, « non solamente dovevano mutare i Governi ed i Principi; ma anche le leggi, i costumi , le religioni e le lingue ». Per conseguenza, il i,ecolo XV, nel quale si concluse, secondo la comune opinione, il lungo processo evolutivo del medioevo e s' iniziò l'era moderna, fu un secolo di transizione, ricco di avvenimenti assai importanti per la storia futura dell 'Europa e del mondo. T ali avvenimenti, ai quali noi accenneremo brevemente, per soffermarci più particolarmente su quelli che maggiormente influirono sulla storia delle Fanterie, furono: - la formazione delle Monarchie occidentali ; - le scoperte geografiche, che finirono con lo spostare l'attività commerciale dal Mediterraneo all'Atlantico ; - le grandi invenzioni; --- il Rinascimento; - la riforma religiosa. Dopo avere prese brevemente in esame le condizioni degli Stati italiani all'inizio dell'era moderna, noi dovremo in particolar morlo indugiarci sul Rinascimento e sul suo influsso sulle istituzioni militari moderne; nonchè sulla diffusione delle armi da fuoco, che permise di sostituire gradatamente negli eserciti gli arcieri ed i balestrieri con gli archibugieri e che contribuì molto efficacemente a restituire alle Fanterie la primitiva importanza. 15


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Le Monarchie occidentali. E' appunto nel secolo XV che si verifica, negli Stati europei occidentali, la costituzione delle Monarchie derivanti dalla riunione e dall'assorbimento degli Stati feudali ; Monarchie che si affermarono colle guerre od in seguito a matrimoni più o meno interessati. La Monarchia ereditaria, trionfando sull'anarchia feudale, diviene, così, la forza di governo preponderante; rende obbedienti ad un solo impulso, e perciò più operose ed efficaci, le forze delle nazioni, le quali si andavano riunendo e formando secondo i vincoli naturali delle origini, delle tradizioni, delle lingue. Questo procedimento, così diverso nei popoli di Occidente da quello del popolo haliano, dà ragione della loro forza e della nostra debolezza e chiarisce perchè l'Italia dovesse diventare poi, nei tempi moderni, l'arena di tutte le battaglie ed il prezzo di tutte le vittorie (1). SPAGNA. - All'inizio del secolo XV la Spagna si trovava ancora divisa nei q uattro Regni cristiani di Navarra, del Portogallo, di Leon e C1sti~!i:1 e d'Aragona e nel Regno di Granata, tenuto ancora dagli Arabi. Contro questi continuarono la lotta specialmente il Regno di Leon e Castiglia e quello d'Aragona; ma la loro definitiva sconfitta e la totale liberazione della Spagna (presa di Granata 1492) fu resa possibile soltanto colla riunione del Regno di Leon e Castiglia con quello d'Aragona, avvenuta in seguito al matrimonio di Isabella di Castigiia con Ferdinando II d'Aragona (1479). FRANC IA. La guerra dei cento anni era stata provocata fra la Francia e l'Inghilterra dall'ambizione di Edoardo III d'Inghilterra, il quale - spentasi in Francia, con Carlo IV, la discendenza maschile dei Capetingi - credendo di avere diritto alla corona di Francia nella sua qualità Ji 11ÌPole <lell'ultimo Re, si oppose ai passaggio del potere regio alla Casa dei Valois. La Francia venne invasa nel 1340 e gli avvenimenti più importanti della lunga guerra sono le vittorie inglesi dell'Ecluse (1340), di Crécy (1346) e di Poitiers (1356); il trattato di Brctigny (136o), in forza del quale Edoardo III ottenne dal Re di Francia, già fatto prigioniero a Poitiers, alcune province della Francia meridionale.

(1) Cfr. BIANCHI : « Storia moderna

i,.


21 I

La lotta venne ripresa nel 1368 da Carlo V di Francia che riuscì a ritogliere agli Inglesi i frutti delle precedenti vittorie. Nel 1414 Enrico V d'Inghilterra invase, però, nuovamente il territorio francese, prese Hàrfleur, vinse l'accanita battaglia di Azincourt "(1415) e conquistò la Normandia (1417). La Francia, allora divisa per le discordie dei nobili, e col popolo esausto dai privilegi militari e dalla guerra civile tra i Borgognoni e gli Armagnacchi, non poteva opporre una valida resistenza all'invasore, al quale si allearono alcuni nobili francesi e per.fino il Duca Filippo di Borgogna. La lotta proseguì quindi favorevole agli Inglesi fino al 1420: anno in cui fu concluso il trattato di Troyes, col quale si lasciava a Carlo VI il titolo di Re di Francia; ma si affidavano l'amministrazione ed il governo del paese al Re d'Inghilterra, riconosciuto quale reggente e legittimo successore di Carlo VI (1). Le provincie settentrionali francesi accettarono i patti di Troycs; ma quelle centrali e meridionali si serbarono fedeli ai Valois ed, alla morte di Carlo VI, vollero che regnasse il Delfino col nome di Carlo VII. , La guerra venne, per conseguenza, ripresa. Gli Inglesi vinsero i partigiani di Carlo VII a Crèvant (1.422) ed a Verneui1 (1424) ed assediarono Orléans ( 1428). Gli occhi di tutta l'Europa - scrisse l'Hume - erano rivolti a quell'assedio, durante il quale la Francia avrebbe compiuto l'ultimo sforzo per la sua indipendenza, quando i Francesi, guidati dalla fede di Giovanna d'Arco, eludendo la sorveglianza degli assedianti, riuscirono a penetrare nella città ed a costringere gli Inglesi (7 maggio 1429) ad abbandonare l'assedio (2). Re Carlo espugnò, quindi, Laon, Soissons, Beauvais ed attorno a lui si unirono finalmente tutti i partiti (1435). La lotta continuò ancora fino al 1453, anno nd quale gli Inglesi dovettero abbandonare definitivamente la Francia, ad eccezione di Calais. La lunga guerra sostenuta - guerra che fu, nonostante le discordie civili, combattuta per ·l'indipendenza. francese - servì a (1) Anche pcrchè Enrico V sposò Caterina di Francia.

(2) Giovanna d'Arco, la pulcelle d'OrlEans, caduta prigioniera dei Borgognoni a Compiègne e consegnata agli Inglesi, venne condannata al rogo, come accusata di stregoneria (143r); ma <hilla Chiesa vénne poi santificata.


212 dare al popolo la consapevolezza della sua nazionalità; ma essa aveva reso i nobili e gli stessi Principi poco rispettosi deil'autorità regia. Luigi XI, succeduto a Carlo VII (1461), provvide per conseguenza, ora colla forza ora coll'astuzia, a rinforzare la Monarchia; e, spinti gli Svizzeri a vincere il Duca di Borgogna, suo principale avversario (battaglie di Grandson e di Morat), riuscì nel suo intento. Avendo però Massimiliano d 'Austria sposato una figlia del Duca di Borgogna, morto questi (battaglia di Nancy, 1477), sorse fra la Casa reale di Francia e quella d'Austria una lotta conclusa soltanto nd 1482, col trattato di Arras. Con questo i dominii del Duca di Borgogna vennero divisi fra le due Case. A Luigi XI successe ( r483) Carlo VIII, allora tredicenne; ma ormai la Monarchia francese, vittoriosa degli stranieri e dei nemici interni, era salda e la Francia appariva, se non del tutto concorde, finalmente unita. INGHILTERRA. Morto nel 1422 Enrico V, gli succedette sul trono d'Inghilterra Enrico VI che, come abbiamo già veduto, continuò la ~ut:rra <lei cento anni colla Francia. Mentre l'impresa stava per fallire definitivamente, poichè il Re Enrico VI dava segni di aliena7.ione mentale, venne nominato protettore del Regno il Duca Riccardo di Yorck (1452). La Casa dei Lancastro combattè tale nomina ; onde ne sorse la guerra, detta delle due rose, durata ac- · canitissima per ben 13 lunghi anni, e durante la quale venne ucciso il Duca Riccardo e fu rinchiuso nella Torre di Londra lo stesso Enrico VI. Venne allora nominato Re d'Inghilterra Edoardo IV (1461 - 1472), al quale succedette - murpando il trono al figlio, Edoardo V - il fratello Riccardo. A questi contrastò il potere Enrico di Tudor, che - sconfitto ed ucciso Riccardo II alla battaglia di Boswoerh (1485) -- si proclamò Re d'Inghilterra: titolo che egli rese poi più sicuro mediante il matrimonio con Elisabetta, sorella di Edoardo V. . Col Regno di Enrico VII di Tudor venne così .finalmente conclusa la guerra civile ed anche la Monarchia inglese potè dirsi consolidata, per quanto si fosse già affermato in Inghilterra il governo rappresentativo e si fosse accresciuta l'importanza del Parlamento, specialmente per tutto ciò che riguardava le finanze dello Stato ed il sistema tributario.


Le scoperte geografiche. L'occupazione degli antichi dominii dell'Impero greco-bizantino diede in possesso ai Turchi la chiave dell'Europa orientale e dei commerci col Levante. Ne derivò, per gli Stati europei, la necessità di cercare nuove vie per i loro commerci; necessità dalla quale vennero efficacemente incoraggiate le scoperte geografiche. Seguendo la tendenza già verificatasi nel Portogallo verso le coste dell'Africa Occidentale -, tendenza alimentata specialmente da Enrico il navigatore _, Vasco de Gama girò il.Capo di Buona Speranza . Cristoforo Colombo, sperando, per la sfericità della terra, di poter raggiungere l'Oriente attraverso l'Occidente senza costeggiare l'Africa, chiesti invano aiuti alla Repubblica di Genova ed otten utili dalla Spagna, scoprì (1492) le Isole di S. Salvatore, Cuba e S. Domingo. Le nuove terre vennero chiamate Indie Occidentali e la lo.re scoperta promosse altri viaggi, durante i quali Giovanni e SebasLiano Caboto giunsero alle coste occidentali dell'America settentrionale. Magellano compì. il primo viaggio dr circumnavigazione (1519- 22); mentre Amerigo Vespucci aveva scoperto ed esplorato i'America meridionale (1507- 1508). Tali scoperte geografiche, imposte dall'occupazione di Costanti nopoli da parte dei Turchi (1455), e facilitate dall'invenzione della bussola, mutando radicalmente le vie commerciali deìl 'Europa, prima rivolte verso l'Oriente, spostarono il centro della vita europea verso le nazioni occidentali e verso l'oceano. Decadde, per conseguenza, l'importanza del Mediterraneo e la gloria delle Repubbliche marinare italiane, dalle quali il primato marittimo passò prima al Portogallo cd alla Spagna e poscia, successivamente, all' Inghilterra, ai Paesi Bassi ed alla Francia.

Le grandi invenzioni. Importantissime fra queste quelle della stampa a caratteri mobili e della carta da cenci, destinata a sostituire la pergamena; nonchè quelle della polvere pirica e ddle armi da fuoco. La prima, colla facile divulgazione dei libri, diffuse la cultura che era prima monopolio del Clero ; le seconde, delle quali parleremo più diffusamente, determinando l'affermarsi delie F:interie, conco-rsero efficacemente a togliere alla N obiltà gran parte dell'importanza prima attribuitale.


214

Il Rinascimento. Questo non va considerato soltanto come il risveglio delle lette· rature greca e romana ed il ritorno allo studio di esse; poichè, dall'ammirazione per le opere degli antichi scrittori, nasceva anche la tendenza a studiare l'assetto politico, la storia e le istituzioni sociali e militari degli antichi popoli. Il tornare in onore della cultura classica servì inoltre ad educare gradatamente le mentì a formarsi opinioni proprie, a discutere i dogmi, a partecipare vivamente alla lotta tra la libertà ed il dispotismo. Si sviluppò lo spirito di investigazione e di ricerca, dal quale vennero promossi notevoli progressi: sia nel campo delle scienze fisiéhe e naturaii, come in quello delle scienze politiche ed economiche.

La Riforma religiosa. Essa venne preparata evidentemente dal Rinascimento, poichè, com~ ~c::~s:: i! Guizot, non rappresentò che la 1i~os~a <ldla mente umana contro il potere assoluto deil'ordine spirituale. Precursori della Riforma possono venire considerati Arnaldo da Brescia, Giordano Bruno, Giovanni Wideff, Giovanni Huss, Girolamo da Praga e, sotto alcuni aspetti, anche fra Girolamo Savonarola; ma essa ebbe i suoi promotori principali nel Lutero per la Germania e nel Caivino per la Francia. C.onseguenze della Riforma furono, nel campo religioso~ il sorgere - accanto al Cattolicismo, richiamato a disciplinata austerità dal C.oncilio di Trento - del Luteranesimo, del Calvinismo e della Chiesa Anglicana; e, nel campo politico, le guerre civili in Germania ed in Francia, la costituzione d1 nuovi Stati tedeschi e la divisione dell'Europa in St~1ti t:allolici e Slati protestami, impegnati poi nelia lunga lotta conclusa con la pace di Westfalia (1648). ·

Gli Stati italiani all'inizio dell'Era moderna. Al principio dell'era moderna, l'Italia, fiorentissima E'er lo svi.luppo dei commerci, il progredire delle scienze, l'affermarsi delle arti e delle lettere, non appariva certo in grado di potersi validamente


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opporre alle ambizioni straniere. E ciò: sia per la rilasciatezza dei costumi, rovescio immancabile della rm:daglia della civiltà evoluta e raffinata, e più ancora per le discordie che dividevano i principali Stati italiani di allora. Gli avvenimenti in Italia - scrisse il Maravigna - « assumono carattere sempre più caotico e confuso e s'imperniano in lotte continue tra Repubbliche e Signorle, lotte che dureranno fino alla prima m età del secolo e che fatalmente prepareranno e faciliteranno l'intervento straniero. Sebbene gli Imperatori germ anici continuino a fare apparizioni nella penisola, la missione politica del Sacro Rom ano Impero è di fatto cessata e, con essa, la denominazione effettiva degli Imperatori ». L 'inizio dei sccoio XV trovò la Chiesa cattolica in pieno scisma d 'occidente (1378- 1449), per il q uale decadde il prestigio del Papato, venne a mancare la disciplina ecclesiastica, fu turbata la concordia degli animi. Già $Ul finire del secolo XIV erano sorti, a precorrere la Riforma , Giovanni Wicleff, professore di teologia ad Oiford in Inghilterra e Giovanni Huss e Girolamo da Praga in Boemia, non soltanto per protestare contrc b condotta del Clero ; ma :mche per iniziare la discussione dei dogmi. Si tentò allora di porre fine allo scisma ed all' uopo si convocarono successivamente il concilio di Pisa ( 1409), quello di Costanza (1414 · 1418), che tentò di domare gli Ussiti e condannò al rogo Giovanni Huss e Girolamo da Praga, di Basilea (1431) ed, infine, quello di Firenze (1439). Tutti questi Condii tentarono di riformare la Chiesa ; ma fini rono con l'arrogarsi un'autorità superiore a quella ciello stesso Pontefice. E, poichè il Papa Eugenio IV cercò <li opporsi ad una tale tendenza, il Concilio di Basilea elevò a suo rivale nel Pontificato Amedeo VIII di Savoia, che prese il nome di Felice V . Questi, però> nel 1449 rinunziò spontaneamente al Papato r: io scisma potè dirsi finalmente concluso. Papa Nicolò V - nonostante le cospirazioni di Stefano Porcari, che sperava di ordinare in Roma un libero Governo laico -· cercò di rimettere l'ordine nello Stato Pontificio, com e appariva pu rtroppo indispensabile ; ma mtanto (29 maggio 1455) Costantinopoli veniva presa dai Turchi, con Maometto II, ed inutili riuscirono le proteste ed i tentativi fatti dai Papi (Congresso di Mantova, 1459) per promuovere fra i Principi una nuova Crociata.


217 A scemare grandemente il prest1g10 dei Pontefici ben presto concorse anche un'altra causa, che ben dimostra la corruzione dei tempi. Con Callisto III (1455- 1458), di Casa Borgia, si iniziava, in fatti, il nepotismo, al quale poi si abbandonarono successivamente anche Pio II Piccolomini (1458- 1464), Sisto IV della Rovere (1471 r484), Innocenzo VIII Cybo (1484- 1492).

Per quanto riguarda gli altri Stati italiani il Maravigna , nell'opera già più volte citata, così ne r iassume le condizioni e le vicende per le quali, all'inizio dell'era moderna, l' Italia dovette sottmt:ire ~ 1 dominio straniero. << I più forti Principi mirano ad ingrandire a danno dei più de . boli i loro dominii. Due fra essi: Gian Galeazzo Visconti e Ladislao dì Napoli tentano persino di ricostruire il Regno d'Italia ; m a si tro-· vano di fronte la Repubblica di Firenze, sola od alleata con gli altri Principi; donde continue guerre di leghe, che si costituìscono c.: sì sciolgono o si modificano ad ogni piè sospinto, la condotta delle quali raramente s'ispira alle esigenze militari od ai risultati delle battaglie. Anche queste guerre sono affidate alla venalità dei Condottieri e delle bande mercenarie. « All'inizio del XV secolo le due grandi Repubbliche _marinare V cnezia e Genova si logorano in una guerra fratricida e combaltono anche contro i Turchi per salvare i loro estesi dominii mediterranei. La prima, forse prevedendo la prossima, fatale fine del suo impero d'oltre mare, si affretta a gettare le basi di un v<1-sto dominio in terraferma (Verona, Fdtre, Vicenza, Padova), presentandosi come demento attivo negli affari della penisola, dei quali sino allora si è disinteressata. La seconda, logora dalla guerra con la rivale e rosa àalle interne discordie, si dà al Re J i Francia (13~) e pc::r tre:: vol lt: passa dal giogo straniero a quello dei Visconti di Milano (1431,

1464, 1487). « I Conti di Savoia sono intenti a consolidare il proprio dominio al di qua delle Alpi e già Amedeo VII, sin dal 1383, ha aggregato al Piemonte Ceva, il Canavese ed il Nizzardo ed il suo successore Amedeo VIII, nei primi anni del XV secolo, riesce, in seguito alla estinzione del ramo dei Principi d'Acaja (1418), ad annettere alla propria corona, che è diventata ducale (1416), i dominìi di questi Principi e


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si appresta a sottomettere il Monferrato, Saluzzo e Vercelli (r). Coi successori di Amedeo VIII, la Storia del Piemonte e della Savoia non registra: fino alla fine del secolo, avvenimenti d'importanza nazionale. La Sicilia era ancora, purtroppo, sotto il dominio degli Aragonesi e per conseguenza la vita politica italiana si imperniava sull'attività degli Stati più importanti: Milano, Firenze e Napoli. La Signorla dei Visconti, con Gian Galeazzo, Principe di grande valore, si trasforma, nd 1395, in Ducato e lo stesso Giail Galeazzo, mirando a ricostruire l'antico Regno d'Italia, nei primissimi anni del secolo XV, c:on fortuna pari ali'audacia, estende il proprio dominio dalla V altellina ali 'Emilia, dal Ticino al Cadore, dal Milanese alla Toscana (Perugia, Siena, Pisa). Firenze gli si erge contro e trova un alleato nell'Imperatore Roberto, che vuole riprendere il Milanese (2). Il Visconti riporta a Brescia una prima vittoria sugli imperiali e si appresta a muovere contro Firenze, quando la peste ne tronca l'esistenza (1492). Il vasto dominio, non ancora consolidato, si sfascia ed ai figli di Gian Galeazzo, Filippo Maria e Giovanl)i Maria, non restano che Milano e Pavia. L'ambizioso programma dd Visconti è raccolt0 dal giovani&simo Re di Napoli, L:;.dislao (3), il quale - dopo avere eliminato il pretendente angioino_ Luigi II (1414) - approfittando dello scisma d'Occidente e della lontananza del Pontefice da Roma, nonchè dello stato d 'impotenza nel quale si trovano gli altri Stati italiani, marcia su Roma, l'occupa, si spinge nelle Marche, minaccia Firenze e si impossessa di Bologna. Il n~ovo pericolo per la Repubblica fiorentina si dilegua, però, improvvisamente, in seguito alla morte del giovane Re di Napoli. Salita al trono la sorella Giovanna II, questa rinunzia ad ogni programma espansionistico e, ripresa la lotta per la successione tra gli Angioini ed il nuovo pretendente Alfonso d'Aragona e di Sicilia, il Reame è per dic1.i anni funestato òa torbidi. Alfonso, debellato l'av(1) Amedeo VIII abdica nel 1434; è eletto Papa col nome di Felice V nd 1459; ma dopo 10 anni, per porre fine allo scisma, rinuncia alla tiara. (2.) Gian Galeazzo Visconti ottiene dall'Imperatore il titolo di Duca e l'investitura del Milanese per denaro, · contro la volontà dei Principi .germanici. E ' questa una delle ragioni per le quali l'Imperatore viene deposto cd il succe-ssore è obbligato a scendere in Italia per riprendere a l Visconti il Milanese. (3) Ladislao apparteneva al ramo angioino collaterale dei Durazzo e venne eletto Re dopo l'assassinio di Andrea, marito di Giovanna I.


219 versario, riesce a consolidare il proprio dominio con savie leggi (1). Alla morte di lui (1458) la corona di Napoli viene separata da quella d'Aragona e di Sicilia e cinta dal figlio naturale di Alfonso: Ferdinando, il quale è costretto a lottare, sino al 1486, contro i baroni napoletani, partigiani del pretendente angioino. Con la morte del Re Ladislao, l'incendio si era spostato nuovamente verso il nord d'Italia e, ad alimentarne le fiamme, intervengono in primo lu~go Venezia, poscia il Papa ed infine il duca di Savoia.

Filippo Maria Visconti, riuscito a ricuperare con le armi, e sovrattutto con ]a perfidia ed il denaro, buona parte del dominio paterno in Lombardia, fa temere di voler riprendere il programma del padre e suscita, quindi, l'ostilità di F irenze. Le armi viscontee, comandate dal Carmagnola, .hanno il sopravvento; ma, passato il Carmagnola nel campo avverso ed, unitisi a Firenze il Duca di Savoia e Venezia, Filippo Maria è battuto una prima volta nel 1426 ed è costretto a cedere Vercelli al primo e Brescia alla seconda. L'anno seguente (1427) egli subisce una nuova, decisiva sconfitta a Maclodio; ma la vittoria, non sfruttata dal Carmagnola, resta sterile di risultati e la guerra riprende a breve scadenza nel Veneto, in Toscana, nelle Marche, con esito favorevole al Visconti, ai servizi del quale si trova Niccolò Piccinino (battaglia del Serchio 1430, di Castrocaro 1432, di. Imola 1434). Si viene quindi alla pace, ma per breve tempo, poichè una nuova lega si costituisce tra Venezia, Firenze ed il Papa ; per il Visconti combattono lo Sforza ed il Piccinino; ma il primo sfrutta le vittorie conseguite a proprio profitto, sì che il Visconti gli oppone il Piccinino. Assai bella, per le rapide mosse e le abili manovre, è la campagna del 1439 tra i due grandi condottieri nella zona di Brescia, di Verona e del Garda, campagna che si conclude con vantaggio per il Piccinina e che presenta qualche analogia con quella condotta nel 179<> dal Buonaparte negli stessi luoghi. La guerra si trascina sino a quando il Visconti, rappacificatosi con lo Sforza, gli dà in moglie la figlia Bianca. A Ila morte di Filippo Maria (1447), il Re di Napoli, il Duca di Savoia, Venezia, Genova ed il Duca d·orléans pretendono di avere diritti sul Milanese, al quale aspira anche lo Sforza. Questi, dopo aver stipulato con Venezia un trattato, in forza del quale Crema e la Ghiara (x) La Sardegna e le Baleari furono aggiunte al Reame da Alfonso d'Aragona.


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d'Adda avrebbero dovuto essere cedute alla Repubblica di S. Marco, in compenso dell'aiuto offerto dai Veneziani allo stesso Sforza, entra finalmente in Milano (r450). . Per quattro anni si combatte ancora tra il nuovo Duca di Milano e la Lega, finchè, conclusa la pace, la Sesia ad ovest e l'Adda ad oriente segnano i confini del Ducato sforzesco. Venezia, che ha portato il proprio . dominio sino all'Adda, diventa una delle maggiori Potenze italiane ; ma contro di essa incombe gravissimo il pericolo rappresentato dai T urchi che, nella penisola balcanica e nel Mediterraneo orientale, minacciano non invano la potenza marittima della Repubblica di S. Marco.

Una lunga pace segue al turbinoso periodo al quale abbiamo accennato ; ma poi la guerra si riaccende nell'Oriente europeo. Nel 1464 Venezia prende l'offensiva contro i Turchi, invadendo la Morea e conquistando Cipro; ma perde Negroponte, Scutari e vede i Cavalieri ottomani scorazzare ai confini del Friuli. La morte di Maometto II cd il valore dei Venc~iani, più che la piatonica Crociata bandita dal Papa Pio II contro i Turchi, salvano la Repubblica e l'Italia dalla nuova invasione barbarica. Le Signorle italiane, mentre si consolidano, continuano ad essere gelose Jc une delle altre; ma, nelle reciproche rel::l7.ioni, pit1 che alle armi, ricorrono alla diplomazia e s'inizia così il famoso sistema dell'equilibrio. Firenze, dominata dai Medici, assurge a grande splendore sotto il lungo ed .illuminato governo di Cosimo e, dopo aver superato varie crisi interne, diventa, con Lorenzo il Mag nifico, il faro luminoso della Rinascenza e l'arbitra della politica italiana. 1 Papi, intenti a consolidare il potere temporale, intervengono attivamente nella politica italiana. Infatti, il Papato, nel 1465, spinge Ferdinan<lu, Re di Napoli, contro i Medici; si aliea con Ferrara e Genova contro Mantova, il Re di N apoli e Venezia; non esita a sèomunicare quest'ultima Repubblica (1484) ed aumenta sempre più la propria influenza nelle vicende della Storia d'Italia. Verso la fine del secolo XV muore Lorenzo dei Medici, sale al Pontificato l\kssandro Borgia e Lodovico il Moro regge, in nome del minorenne nipote, il Ducato di Milano, attendendo il momento propizio per sopprimere il pupillo e per realizzare l'antico sogno di Gian Galeazzo Visconti.


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Ma l'ambizione di Lodovico il Moro non potrà essere soddisfatta, se prima non verranno soppressi i suoi principali avversari: gli Aragonesi di Napoli e Venezia. Per ottenere tale risultato, Lodovico non esita a ricorrere all'aiuto straniero. Nel 1494 muore in Napoli Ferdinando d'Aragona e sale al trono il figlio Alfonso II, inviso ai sudditi. Lodovico il Moro reputa che il momento buono sia giunto per dare il colpo di grazia al protettore del nipote; invia un'ambasceria a Carlo VIII, Re di Francia, e lo sollecita a venire in Italia ed a riconquistare il Reame di Napoli, quale erede degli Angioni. Per decidere !'.ambizioso sovrano ad intraprendere l'impresa, Lodovico gli fa anche b:Jlenare la possibilità di riprendere Costantinopoli ai Turchi e di ricostituire l'Impero d'Oriente. Carlo VIII accetta la lusinghiera proposta e si appresta a varcare le Alpi. Purtroppo egli troverà gli Stati italiani pronti a favorire l'impresa: Firenze, nella speranza di cacciare i Medici; Venezia con quella di umiliare gli Aragonesi ; il Papa per guadagnare nuove terre ; il popolo napoletano stesso per odio contro la dinastia straniera. Così Carlo.VIII compie in Italia un'incruenta passeggiata. Al suo arrivo Lodovico ii .Moro !>Opprime il nipote e si p n,d..ima Duca di Milano (1494); Firenze caccia Piero dei Medici e, ritrovata se stessa nell'ardimento del Capponi, impone al Re di Francia di uscire dal proprio territorio; Roma apre le porte a Carlo VIII ed il Borgia gli appresta il trionfo, tradendo la Causa dell'Aragonese, col quale, in un primo momento, aveva stretto un patto d'alleanza ; ma i Napoletani abbandonano Alfonso II, che abdica e ripara in Sicilia; mentre Carlo VIII entra trionfalmente in Napoli e s'installa a Castel Capuano. <e Così, per le discordie domestiche, per le quali era abbagliata la sapienza tanto famosa dei nostri Principi, con sommo vituperio e derisione della milizia italiana e con grandissimo pericolo ed ignominia di tutti, una preclara e potente parte d'Itaìia passò sotto l'imperio di gente oltremontana >) ( r). Ma i Francesi, per natura burbanzosi ed incli ni all'insolenza, spadroneggiando sulle popolazioni, se ne alienano tosto ogni simpa· tia, mentre i Principi italiani e, fra essi lo stesso Lodovico il Moro, constatano le gravi conseguenze della loro colpevole condiscendenza verso lo straniero. Il Papa, Lodovico il Moro, Venezia formano una (1) GuiccJt,.RDlNI : « Istoria d'Italia », voi. I, libro I, pag. 144. Pisa, ed. 1819.


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Lega, alla quale aderiscono il Re d'Aragona e di Sicilia e Massimiliano d'Austria. Carlo VIII, visto il grave pericolo, lascia il Montpensier con una parte delle truppe a Napoli e si affretta sulla via ddritorno. Costretto ad adattarsi al passaggio degli Appennini per le difficoltà iropostegli dal traino delle artiglierie, riesce a varcare i monti; ma si vede sbarrata la strada a Fornovo dal Marchese di Mantova, Francesco Gonzaga. Se la battaglia di Fornovo (6 luglio 1495) riesce quasi vittoriosa per il Re di Francia, lo si deve alla morte del Gonzaga ed all'abilità dei condottieri italiani Giangiacomo e Teodoro Trivulzio, Paolo e Camilla Vitelli, che combattono nelle file francesi. Libera la via, Carlo VIII ripassa le Alpi. L'anno dopo Ferdinando II,-<lopo aver fatto capìtoiare m A bdla il Montpensier, ricupera lo Stato. Con l'impresa di Carlo VIII s'inizia il periodo delle incursioni straniere in Italia e si apre il ciclo delle guerre di predominio, con le quali, per le discordie dei nostri Principi, il territorio della nostra Patria doveva venire lungamente conteso dalla Francia e dalla Spagna, e l'Italia, troppo divisa e discorde, doveva subire per secoli la dominazione degli altri Stati.


li.

LE ISTITUZIONI MILITARI E LE f ANTERIE NELLA STORIA MODERNA Abbiamo finora esaminato l'organizzazìone, le qualità e l'impiego delle Fanterie italiane durante il medioevo, nelle milizie feudaii e comunali e nelle Compagnie di ventura italiane, confrontando i nostri Fanti con quelli stranieri e ne abbiamo tratto, non solo effi. caci motivi per sentire ancor più vivo l'orgoglio di essere Italiani; ma anche quelle notizie che dimostrano il progresso delle Fanterie anche nei tempi più oscuri della nostra Storia. L'era moderna s'iniziò quando la fusione degli elementi romano barbarico - cristiano diede luogo ad una nuova civiltà, spiccatamente e soltanto europea, ;ittraverso quel rifiorire della vita intel!ettu:ik:, spirituale, artistica e politica, che venne rappresentato dai Rinascimento. Esso segnò, infatti, la rinascita di quella civiltà latino - mediterranea che le invasioni barbariche, facendo crollare l'Impero romano d'Occidente, avevano tentato di travolgere. Fenomeno culturale europeo, il Rinascimento ebbe per centro di irradiazione l'Italia, poichè tutto il suo contenuto etico fu opera di eletti spiriti italiani e, per quanto ci interessa, esercitò un valido influsso anche sulle istituzioni militari, concorrendo efficacemente al risorgere della Fanteria,. quale Arma principale della guerra moderna. Ma, prima di parlare dell'influsso della vita politico - sociale del Rinascimento sulle Fanterie italiane, sembra indispensabile ricordare l'ambiente politico- militare europeo all'inizio dell'era moderna, ambiente che, come era inevitabile, molto influì sull'arte della guerra e sulle manifestazioni ad essa collegate. Come abbiamo già detto, &a gli avvenimenti che in ogni manuale di Storia si ricordano come atti a stabilire il trapasso dall'evo di mezzo a quello moderno, viene sempre ricordato il formarsi delle grandi Monarchie occidentali; cioè l'affermarsi come Stati nazionali indipendenti, sciolti da ogni vincolo verso il Sacro Romano Impero, dell'Inghilterra, della Spagna e della Francia.


Le genti tedesche continuano, invece, a far parte dell'artificiosa organizzazione feudale dell'Impero, così che questo diviene sempre più un Impero germanico. Anche l'Italia avrebbe potuto, tra 1'888 ed il 961, unirsi in uno ·Stato, sotto Re di stirpe italiana o borgognona. (Berengario I, Rodolfo, Ugo, Berengario II); ma la sua unità, non resa efficiente da un efficace senso di solidarietà, nè resa indispensabile dall'influsso di interessi materiali, si disfece per quelle rivalità, che caratterizzarono la vita politica di tutti gli Stati europei. La Storia moderna si iniziò col grande conflitto per la preponderanza sull'Europa (che allora doveva significare preponderanza sul mondo) tra la Francia, la Spagna e l'Impero: conflitto basato soltanto, sino al 1559, sull'efficienza politico - militare delle tre grandi Potenze e poi complicatosi per la lotta religiosa in Germania. Lo scopo principale del conflitto era quello di decidere quale dei tre grandi Stati europei dovesse prevalere nel regolare, a proprio vantaggio, lo sviluppo politico, culturale e sopratutto economico dell'Europa, molto più che la recente scoperta dell' America prometteva enormi vantaggi materiali a chi avesse potuto controllare la politica Jcl m0n.:lu allora conosciuto. E, poichè la mancata costituzione ad unità nazionale del nostro popolo e la stessa posizione geografica offrivano nell'Italia un campo assai scmibile, sotto iì punto di vista poliùco, economico e culturale, per l'affermarsi della preminenza del più forte dei tre Stati, non è da meravigliarsi se appunto l'Italia fu per tanti anni il teatro di guerra preferito dagli Stati belligeranti. Il lungo conflitto portò, nel campo militare, ad importanti trasformazioni nello spirito, nell'essenza e nella tecnica della guerra, anche in seguito alla scopC'rta della polvere da sparo e delle armi da fuoco; trasformazioni delle quali occorre, pei nostri fini, precisare in ispecial modo le cinque seguenti: 1° - La scomparsa degli eserciti feudali e comunaìi e la loro sostituzione con gli eserciti nazionali regi, potenti nei grandi Stati, piccoli nei piccoli e specialmente in quelli italiani. 2 ° - L'assolutismo regio ebbe bisogno, negli Stati beJiigeranti, di eserciti: - permanenti, in quanto, all'interno, si doveva disporre di forze sempre pronte a frenare le velleità dei nobili, privati dei loro poteri, ed egualmente pronte ad entrare in guerra contro gli altri Stati;


- mercenari, perchè i Sovrani assoluti non si fidavano della fedeltà dei sudditi e pensavano che le truppe mercenarie fossero meglio legate alla persona ed alle fortune del Sovrano. Del resto non sarebbe stato possibile organizzare un servizio m ilitare obbligatorio veramente efficiente. 3° - Il costo di questi eserciti fece sì ch'essì fossero in gran parte formati di Fanti, i quali acquistarono sempre maggiore importanza anche per la crescente diffusione delle armi da fuoco. 4° - Il prolungarsi dell'instabilità politica europea, durata sino ai trattati di Westfalia (1648) e di Aquisgrana (1748) e poi sino alla Rivoluzione francese, rendendo sempre più grave il peso delle spese militari e più onerosa la necessità di poter disporre di sern pre nuove masse di combattenti, indusse poi i Sovrani a fare assegnamento sui propri sudditi, obbligandoli al servizio militare in quelle formazioni, mobilitabili di volta in volta, dette <e milizie » (reali, cittadine, paesane ecc.), distinte dagli eserciti veri e propri : questi mercenari, bene addestrati e sempre pronti; quelle considerate quasi come trnppc di complemento, da usarsi a seconda dei bisogni e, di massima, istruite con mmore cura. 5ff - Le m ilizie erano costituite, in massima parte, da!b. F;-.,-:t~:-ia, che non aveva bisogno di un lungo addestramento.

Le caratteristiche essenziali dei primi eserciti moderni furono dunque quelle di eserciti mercenari, non ancora stanziali, variamente organizzati a seconda delle mutevoli vicende politiche, delle disponibilità degli erarii, delle ambizioni degli Stati belligeranti. Ne derivò che - mentre la guerra con gli eserciti feudali si era risolta con la somma dei singoli duelli fra Cavalieri e, con le milizie comunali, in un'azione d'urto fra Fanti, quasi sempre priva d'ogni concetto di manovra - nei orimi secoli della Storia moderna la lotta armata diede luogo al contrasto dì masse prevalentemente di Fanteria. Da ciò nacque i! crescente bisogno: - di articolare le Fanterie, per meglio impiegarle, ai fini del successo, nel tempo e nello spazio; - di coordinare l'azione dei Fanti, che si erano intanto distinti fra quelli destinati all'urto (picchieri) e quelli dediti alle armi da gitto od a.ll'azione di fuoco (arcieri, balestrieri, e poi archibugieri, 16


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moschettieri, ecc.) con quella dei Cavalieri e poi anche con quella dei soldati addetti alle bocche da fuoco pesanti; - di provvedere ai mezzi di vita e di lotta sufficienti per tali masse; - di disporre dì un Comando, coordinatore e regolatore degli sforzi dei singoli, così da poter impiegare tali sforzi, con la manovra, nel modo più efficace. L'evoluzione dell'arte militare medioevale verso quella moderna fu naturalmente graduale ed, infatti, anche nelle battaglie fra gli eserciti comunali e più ancora in quelle tra le compagnie di ventura italiane, abbiamo già potuto trovare qualche tentativo di manovrare e di coordinare sul campo di battaglia l'impiego delle diverse Armi. Sugli eserciti del Rinascimento e dei primi secoli dell'era moderna, il Maravigna, nell'opera da noi già più volte citata, scrisse che, nel periodo della Rinascenza, gli eserciti operanti sotto il comando diretto di un generale ebbero forze limitate. Quelli di Carlo VIII, ad esem!-)io, ebbero una forza di 30.000 uomini circa, dei quali non più di 10. 000 erano presenti sul campo di battaglia di Fornovo. Durante le guerre d'Italia, gli effettivi degli eserciti in campo aumentarono, m:i di poco. A Rav<mna G astone de Foix comandava 32.000 uomini contro 21.000 soldati spagnoli- e papalini; a Marignano Francesco I combattè con 50.000 uomini contro 30.000 Svizzeri ; a Pavia con 18.000 contro 24.000 Imperiali ; Emanuele Filiberto, a Saint Quintin, si trovò alla testa di 30.000 uomini. Durante le guerre di religione gli eserciti delle due parti oscillarono tra una forza massima di 25.000 uomim ed una minima di 8.000 (Arques, 158<)). Ad Ivry l'esercito reale contava 10.000 uomini; quello dell'Unione 17.000. Alla fine del secolo XVI. la forza degli eserciti ebbe tendenza ad aumentare, specialmente in Francia, dove il grande Re Enrico IV ed il Sully prepararono, per co11:piere i loro vasti disegni, un eser6to di 100.000 uomini (1). ( 1) Nel 16oo l'esercito francese non contava che 10.000 uom1m appena, mentre due anni prima ne contava 30.000, dei quali una piccola parte era rappresentata da mercenari stranieri. 11 progetto di aumento delle forze armate fu possibile in conseguenza del rigoroso ordinamento delle finanze, sebbene 1a necessit?i di larghe economie imponesse una rilevante riduzione delle forze sotto le armi in confronto al precedente periodo. Il Sully risolse il problema, organizzando l'esercito in maniera da permettere, all'atto della guerra, l'in<luadramento rapido di 100.000 uomini cçrn. 400 pezzi. Ma 'il grande Re fu assassinato e la riforma organica venne abbandonata.


227 Gli eserciti si muovevano lentamente, tranne poche eccezioni ed, in generale, essi marciavano in un'unica colonna, divisa in tre scaglioni : avanguardia, battaglia e rctròguardia; la seconda a 600 passi dalla prima e la retroguardia a 1500 passi dalla seconda (1). Il giorno precedente alla marcia , venivano inviati a riconoscere l'itinerario i commissari, scortati convenientemente e seguiti da guastatori, carpentieri, muratori, incaricati di migliorare le condizioni delle strade, di rimuovere gli ostacoli, di approntare passaggi sui corsi d'acqua ed, eventualmente, di rinforzare quelli esistenti, per permettere il transito alle pesanti artiglierie. La colonna era preceduta e fiancheggiata da drappelli di Cavalieri leggeri, incaricati della sicurezza durante il movimento. mediante l'esplorazione a breve distanza. Il primo scaglione: avanguardia (2), era costituito di Fanteria cd Artiglieria; quest'ultima precedeva il battaglione dei picchieri. Seguiva la battaglia, nucleo principale dell'esercito, composto delle tre Armi, con l'Artiglieria di maggior calibro, posta, come nell'avanguardia, avanti alla Fanteria e finalmente la retroguardia, generalmente costituita di Fanti, di Cavalieri ed a volte di Artiglieria leggera. Quest'ordine di marcia subiva modificazioni anche pru(ouJc, poichè non era escluso che la battaglia precedesse l'avanguardia, oppure che i vari scaglioni percorressero strade parallele. La velocità di marcia di coionne così pesanti non poteva essere che assai ridotta, tenuto conto delle pessime condi7,ioni delle vie. In prossimità del nemico, gli scaglioni marciavano uno accanto all'altro, su una medesima linea, con l'Artiglieria negli intervalli o davanti all'avanguardia; oppure su due linee: avanguardia e battaglia in prima linea e retroguardia in seconda linea (3). Normalmente, in vicinanza del n emico, le truppe accampavano ; (r) 11 primo a dare l'e~~mp io di una marcia in ordine di schieramento fu Alessandro Farnesc. (2) Si tenga presente che questo scaglione non aveva la missione di sicurezza, come può fare supporr~ l'appdlativo, inteso nel senso attuale. (3) Paolo Giovio, descnvendo la battaglia di Fornovo, scrisse che l'esercito francese marciava ·preceduto da esploratori a ·cavallo, nell'ordine seguente: avanguardia in grosso batuglione quadraro, fiancheggiata da balestrieri e arcieri : avanti l'Artiglieria leggera. Dietro l'avanguardia, la battaglia con le grosse Art.igHerie, in testa alla quale trovavasi il.Re Carlo VIII con la propria scorta; finalmente, 25<> passi più indietro, la retroguardia, cosùtuita della parte migliore della Cavalleria francese.


in lontananza accantonavano; nel primo caso si dedicava molta cura a formare il «campo»: sia per la scelta del terreno, sia per i lavori di castramentazione, per i quali il campo si trasformava spesso in una vera e propria posizione rafforzata, sulla quale l'esercitò poteva attendere il nemico ed accettare la lotta (1).

Dal momento in cui la C:i.valleria si trovò di fronte una Fanteria bene annata e bene addestrata, l'azione individuale, che costituiva il procedimento ddl'cpoca medioevale, cedette il posto a quella col­ lettiva. La linea spice-ata di Cavalieri duellanti si trasformò in una massa d'urto, scrr�pr� più profonda e compatta. Analogamente la .Fanteria, per sostenere l'impeto delle masse a cavallo, in un terr�no propizio alì'impiego di queste, fu obbligata ad adottare formazioni massicce (2) che, durante la prima metà del XV secolo, erano i qua­ drati di 20 uomini di lato e, nelle guerre d'ltalia j le grosse battaglie, che talora raggiungevano la forza di 6-8.ooo uomini, e le falangi che, coi picchieri, wntrapponevano al nemico un muro dì punte ferrate, <liftìciimrntc attaccabiie dalla Cavalleria. Le prime sei righe dì siffatte masse abbassavano le picche e le righe retrostanti si tenevano pronte a sostituire le prime, qualora fossero state rotte dai Cavalieri P..emici, oppure a cambiare il fronte, nel caso che questi ultimi attaccassero da diverse direzioni. La battaglia -,- scrisse il Maravigna - 'si presentava all'urto sotto forme diverse: a quadrato pieno o vuoto, a cuneo, a croce, a mezza­ luna, ecc .. Quando, alla fine del secolo XV, le armi da fuoco furono impie­ gate su larga scala, un decimo dei Fanti venne armato di archibu­ gio (3). 11 Machiavelli dice che gli Svizzeri di Carlo VIII si ordina(1) E' assai curioso il tipo di acc.impamento, d'ispirazione umamsttca, prescritto per le legioni francesi nel 1535, riproduzione fedele, nella disposi­ zione e nel1a c>rgani.zzazione, dell'antico campo dei Romani. Vt"dere HARDY: « Les Fr:mçais cn Italie )>, pag. 29t1. (2) In terreno difficile ciò non fu ncressario: gli Svizzeri, infatti, nelle lotte del secolo XIV contro la Cavalleria, avevano adottato formazioni leggere, snodate, idonee a manovrar� sui fianchi e sul tergo della massa nemica, come, per esempio, a Sempach (1386). (3) Nel 1444, su 639 uomini, che costituivano il contingente dì Zurigo: 127 erano balestrieri, 103 picchieri, 364 alabardieri e 45 archibugieri.


vano coi picchieri a righe alternate agli alabardieri, in ragione di una riga dì alabardieri ogni tre dì picchieri; mentre gli archibugieri si frammischiavano, fuori della battaglia, agli arcieri ed ai balestrieri, per iniziare il combattimento e prcparart l'urto. A m ano a mano che il numero degli archibugieri andò aumentando, questi fecero parte integrante della formazione, o disponen dosi dietro la prima riga dei picchieri, in modo da potere concorrere alla fase preparatoria del combattimento, oppure collocandosi alle ali della battaglia, costituendo le << maniche n ddla fafange od, infine, disponendosi a nuclei alternati con i picchieri su tut to il fronte. Una formazione siffatta dove va riuscire perfettamente idonea ad avere ragione della massa dei Cavalieri nemici, specialmente quando


all'azione dell'arma bianca si fosse unita quella delle anni da fuoco. Si spiegano in tal modo le vittorie conseguite dai Fanti svizzeri e la conseguente generalizzazione del procedimento e della formazione da essi adoperati; nonchè la gara tra i potentati europei nell'assoldare truppe elvetiche. Durante la guerra d'Italia, le formazioni massicce si assottigliarono. Consalvo de Cordoba ridusse a 2.500 uomini la forza delle grosse battaglie, forza che prima raggiungeva 6-8.ooo Fanti. Verso la seconda metà del XVI secolo, <Jopo l'adozione del moschetto, i Fanti armati di quest'arma inquadrarono la battaglia, costituendone le prime 4 righe esterne, oppure si schierarono agli angoli della battaglia, in modo da fiancheggiarne i lati col loro fuoco. Il procedimento deìia Fanreria spagnoìa differiva da quello svizzero, poichè, non appena impegnata la lotta, si passava subito alla fase decisiva. La maggior parte dei Fanti, armata di spade e di coltellacci e protetta dagli scudi, si collocava nel centro deila battaglia, dietro i picchieri. Preso contatto col nemico, gli armati di spada passavano sotto l'arco delle picche spianate e, penetrando nella formazione nemica, colpivano uomini e cavalli, facendone strage. Gli Italiani, contrariamente a quanto facevano i Tede~chi, gli Svizzeri e gli Spagnoli, preferivano la formazione sparsa a quella massiccia. Contro la Cavalleria, i Fanti italiani si disoonevano normalmente in quadrato od in formazione triangolare e f~cevano fronte da tutte le parti. Alla fine del XV[ secolo Maurizio di Nassau abbandonò le formazioni falangitichc e, ridotta la battaglia a 500 uomini, dei quali 200 armati di moschetto, preferì una formazione di combattimento agile e snodata, nella quale il fuoco aveva il massimo sviluppo.

Delineate così, a grandi tratti, le formazioni tattiche dei prmu secoli dell'evo moderno, ricordiamo ora in particolar modo la Fan· teria e le sue armi. Come abbiamo già accennato, i progressi di quest'Arma nell'era moderna vennero favoriti, non soltanto dalla necessità di affiancare le milizie paesane -agli eserciti mercenari, dal graduale affermarsi deglì eserciti nazionali e dal ritorno àlla cultura classica; m·à anche dai perfezionamenti e dalla diffusione delle armi da fuoco e dalla loro crescente importanza sul campo di battaglia.


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Quando parte dei Fanti venne armata di archibugi (1), la nuova arma - così pesante da doversi appoggiare per il tiro ad una forcella, con un caricamento complicato e con un tiro lento, poco preciso e di breve gittata - pur sostituendo gradatamente gli archi e le balestre, non modificò l'organizzazione, le formazioni e la tattica della Fanteria; nè impose a quest'Arma un addestramento più complesso, visto che i mercenari si offrivano già addestrati all'uso dcli' archibugio. Quando questo venne sostituito dagli scoppietti e poi dai moschetti, l'alleggerimento cd il più sicuro impiego dell'arma, l'aumento della precisione del tiro e l'allungarsi della gittata fecero aumentare, nella tattica, l'importanza della preparazione dell'attacco e quella del fuoco , Il numero dei moschetti aumentò gradatamente nell 'armamento e.lei reparti della Fanteria e questa rimase divisa in « archibugieri» o «moschettieri )) per l'azione di fuoco ed in « picchieri i> per l'azione di, urto; i primi incaricati di iniziare e di preparare l'attacco con la preventiva azione di fuoco e quindi di accompagnarlo, restando sulle ali dello schieramento dei picchieri (ali e maniche di moschettièri) ; i secondi destinati, invece, ad effettuare l'attacco ck cisivo con l'urto. Per l'accresciuta importanza delle armi da fuoco, come già si è accennato, Maurizio di Nassau, ispirandosi anch'egli al ricordo di Roma ed alle idee del Machiavelli, volle poi evitare che gli uomini a pie<li combattessero in masse pesanti, suddivise più razionalmente i suoi Fanti e scaglionò le forze in profondità, con uno schieram ento che meglio consentiva di alimentare la lotta e di deciderla al momento opportuno. Per conseguenza, la Fanteria richiese un accurato addestramento e si affermò sempre più, secondo la tradizione romana ; m entre la Cavalleria, dopo essersi coperta di armi difensive che ne riducevano !a velocità; cercò anch'essa di usare le armi da fuoco da cavallo, come volle che facesse Gust:.vo Adolfo di Svezia. Quando le armi da fuoco portatili furono ancora più progredite ed ebbero sistemi di mira più razionaìi, esplosivi di effetto più sicuro, regole di tiro più stabili, la propPrzione dei moschettieri rispetto ai picchieri aumentò sempre più, finchè l'invenzione del Vauban della baionetta a manico vuoto (1) 11 nome archibugio significa e, arco bucato ,1, cioè un arco, che lancia la freccia attraverso un buco.


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permise di unificare la Fanteria, arma~dola tutta con gli stessi mezzi di lotta. Ne derivò un più facile addestramento, un più semplice impiego, una regolamentazione più accessibile a tutti ed una massa di combattenti più omogenea, con la quale la Fanteria riacquistò finalmente il suo primato. Ed, anche se la grande importanza attribuita all'azione di fuoco finì per menomare. lo slancio e per ridurre la mobilità manovriera della Fanteria, essa non tardò ad unire alle formazioni sottili per il fuoco quelle profonde per l'urto, come raccomanderanno gli scrittori militari del secolo XVIII e come si avvererà con gli improvvisati battaglioni della rivoluzione francese.


lii.

IL RINASCIMENTO E LA RICOSTITUZIONE DELLE f ANTERIE ITALIANE ,<Hanno molti tenuto e tengono questa opm10ne: che e' non sia cosa alcuna che minore convenienza abbia con un 'altra; nè che sia tanto dissimile, quanto la vita civile dalla militare... « Ma, se si considerassono gli antichi ordini, non si troverebbono cose più unite, più conformi e che, di necessità, tanto l'una amasse l'altra, quanto queste ; perchè tutte le arti, che si ordinano in una civiltà per cagione del bene com une degli uomini, tutti gli ordini fatti in quella per vivere con timore delle leggi e di Dio sarebbono vani, se non fussono preparate le difese loro » . Con queste testuali parole, Niccolò Machiavelli comincia il pr11{'mio all'opera « Dell'arte della guerra » - scritta in gran parte nel 1520 e dedicata, come è noto, a Lorenzo Strozzi per esporre fin dall'inizio quella stessa dolorosa constatazione che egli ripete, precisa e spiega, non soltanto nei sette libri della sua opera militare; ma anche nel « Principe » e nei « Discorsi sulla prima deca di Tito Livio », notando come, mentre nei periodi migliori dell'antico passato, « la vita dei soldati dagli altri uomini veniva lodata e con ogni studio seguitata ed imitata », nel Cinquecento, invece, « per essere gli ordini militari al tutto corrotti e di gran lunga dagli antichi modi separati >>, si erano diffuse le « sinistre opinioni, che facevano odiare la milizia e fuggire la conversazione di coloro che la esercitavano ». Rimpianto del glorioso passato, deplorazione dell'obbrobrioso presente della Patria, ammonimenti, rivolti invano ai contemporanei, ma non inutilmente alle generazioni future, che venivano suggeriti al Segretario fiorentino dalla stridente antitesi fra la magnifica unità dell'Impero ~ le miserande condizioni dell'Italia di allora, più che mai:

nave senza nocchiero i11 gran tempesta_.

devastato campo di battaglia fra Papato ed Impero e tra Francia e Spagna, depredata e corsa - come deplorerà il Guicciardini - dagli


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eserc1t1 forestieri, per la imprudenza dei suoi Principi ambiziosi e discordi. Antitesi dolorosa ed evidentissima, anche perchè, come altri ben disse, mentre col Rinascimento nasceva l'Europa moderna, pietosamente cadeva l'Italia, che pur l'aveva generata; l'Italia, per la quale non si era, purtroppù, verificato alcun processo storico simile a quelli che avevano determinato l'unificazione delle Monarchie occidentali e, passata dai Comuni alle Signorìe ed ai Principati, era rimasta divisa in troppi piccoli Stati. Pur donando al mondo, con grembo inesausto, l'eccellenza dei suoi superiori intelletti, il sorriso delle più nobili espressioni artistiche, l'intuito anticipatore e l'illuminata tenacia delle ricerche scientifiche, la nostra Patria era allora tutta percorsa da brividi di odio fazioso e di cinico scetticismo, come la descrive il Rebora, ed incapace di trovare in se stessa quella fede nell'avvenire, per la quale invano dovevano sperare Dante in Arrigo VII, il Petrarca in Cola di Rienzo, il Ma. chiavelli in Cesare Borgia. Ma, se tutto questo è purtroppo vero - per quanto non fossero mancati e non mancassero neanche allora in Italia generose idealità religiose ~ ptriottiche, a volte consacrate anche col sacrificio supremo - come avvenne, ad esempio, per Girolamo Savonarola, che aveva invano sperato di vincere « la cicca malizia degli Italiani »; per Giovanni dalle Bande Nere, caduto presso Mantova, in difesa di Roma, « Italiae fato m agis guam suo », e per Francesco Ferrucci, nobilmente sacrificatosi per la sua Firenze - non può dirsi, nel Rinascimento, ugualmente corrispùndente a verità quella profonda separazione tra pensiero ed azione, tra penna e spada, tra vita civile e vita militare, che il Machiavelli deplora e per la quale gli uomini del Cinquecento avrebbero fuggito l'amicizia e la conversazione di coloro che professavano la milizia: sia come Capi già illustri per l'esperienza tratta dall'esercizio del comando, sia come ignoti greg:in. Le amare parole scritte in propùsito dal Segretario fiorentino, al principio della sua opera, servono, probabilmente, a preparare ai lettori una gradita sorpresa, visto che Poi,_ colti e ben qualificati cittadini come Cosimo Rucellai, Zanobi Buonddmonti, Battista dalla Palla e Luigi Alamanni, anzichè fuggirla, dovevano desiderare la conversazione di un uomo dì guerra co~e Fabrizio Colonna e vivamente goderne e profittarne, anche se tale conversazione ebbe- a prolungarsi per tutti i sette libri del!'« Arte della guerra ». A


Niccolò Machiavelli.



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Noi non possiamo non riconoscere, infatti, che tutta la fervida vita intellettuale italiana del Rinascimento voleva anzi concorrere a cancellare ogni barriera separatrice fra l'attività civile e quella militare e che, se la vita dei soldati non era ancora molto amata, mai essa venne <e da tutti seguita con ogni studio », con'le ai tempi del Ma· chiavclli. Si può e si deve anzi affermare che il Cinquecento fu il secolo d'oro anche per la nostra letteratura militare, poichè appunto in esso, come scrisse Luigi Sorrento, il concetto politico ed il concetto militare italiani si fusero talmente insieme, da formare quasi l'unico scopo delle speculazioni dei nostri pensatori, in questa nostra Italia, che non poteva essere e non era tutta intenta soltanto alla ricerca delle belle frasi e delle belle forme, se anche gli artisti più insigni of&i vano proprio allora il loro genio alle necessità militari: come il Bra mante, insigne architetto e nello stesso tempo ingegnere militare, cotne Michelangelo, che fu anche esperto forti fìcatore di Firenze, di ·Roma e di Civitavecchia, e come lo stesso Leonardo, che volle offrìte a Lodovico il Moro, più che la sua incomparabile genialità artistica, quella sua profonda conoscenza della fisica e dell'idraulica, che doveva renderne così preziose le anticipatrici invenzioni anche nel campo militare.

Nè poteva avvenire diversamente. Se doveva contribuire a sciogliere la religione da ogni medioevale vincolo superstizioso; ad additare all'arte più alte mete, più vasti orizzonti e più umane espressioni; a sospingere l'indagine scientifica ad ogni futuro progresso, a togliere ogni inviolabile termine alle scoperte geografiche, a formare, in una sola espressione, l'uomo moderno, il Rinascimento doveva anche, e soprattutto, rendere spontanei ed efficaci i confronti che, attraverso ie opere dei d assici, ::ra po~~ibile ed anzi ormai inevitabile stabilire fra l'Italia di allora e le antiche civiltà tramontate nei secoli, gli organismi statali già dominanti e successivamente scomparsi, le grancli città, centri famosi dell'attività di altri popoli: Ninive, Babilonia, Atene, Sparta, Siracusa, Carta· gine, Roma. Ma, se attraverso le grandi rapsodie di Omero, i canti di marcia di TÌ.rteo, gli inni di Pindaro, le tragedie di Sofocle, le vite di Plutarco, gl'idilli di Teocrito, come nelle storie di Erodoto, di Tucidide


e di Senofonte, era possibile assistere al sanguinoso sovrapporsi cd al lento sostituirsi delle antiche civiltà ed ammirare la gloria dell'Ellade, gli Italiani del Rinascimento dovevano evidentemente sentirsi indotti a salutare, con più devota riverenza e con pii) appassionato fervore, l'ideale risurrezione · di Roma: la sola città, che - come abbiamo notato anche nel I volume di quest'opera - avesse s:_1puto sempre rinnovarsi e sopravvivere; la sola che fosse rimasta costantemente cinta di una dignità universale, come antica Capitale del mondo e centro dell'universale Chiesa di Cristo; la sola veramente eterna, perchè sempre viva, e come la cantò il Pascoli, eternamente immobile nei secoli. Roma, per cui non invano Orazio aveva invocato che il sole non potesse vedere mai cosa più grande; alla quale Virgilio aveva attribuito la maggiore bellezza e la più alta missione; al cui ricordo si erano ispirati, anche durante il medioevo, il severo genio di Dante e l'ansiosa anima di Francesco Petrarca, era pur sempre, del resto, la gloriosa madre, della quale anche gli Italiani del Rinascimento dovevano riconoscersi figli, forse degeneri ; ma non del tutto immemori. E, poichè l' Urbe contrapponeva alle' dannose discordie, all'illegale ;irhitrio, :il l'incrme abbandono de! presente, la sal da nnità del suo Impero, la sua sapienza giuridica. e la forza vittoriosa delle sue legioni, il ricordo di Roma doveva rappresentare, nel Rinascimento, il più alto incitamento e l'efficacissimo esempio perchè gli Italiani, raccolti nella mirabile unità geografica della penisola e; già uniti dal comune linguaggio, potessero poi costituirsi in nazione, in un saldo organismo statale, liberato per sempre.dai barbari e reso sicuro dalle sue forze militari. Attraverso gli appassionati racconti di Tito Livio, la severa sobrietà di Tacito, la scultorea chiarezza di Sallustio. e di Cesare, Roma appariva, infatti, ai nostri antenati del Cinquecento, non soltanto come l'antica caput mundi, capace di proteggere i deboli e di debellare i superbi; m:i anche e specialmente come l'Urbe fondata dal figlio dello stesso Dio della guerra, ancora eretta sulla via Appia, dove, offrendole onori divini, l'Imperatore Adriano l'aveva voluto effigiata nell'incorruttibile marmo, cinta per l'offesa e la difesa di tutte le sue armi, memore particolarmente delle sue vittorie e soprattutto orgogliosa della sua gloria militare. Nel conoscere, infatti, le gesta degli antichi, gli scrittori del Cinquecento non potevano non indagare sui fattori materiali e morali dell'efficienza degli eserciti di Roma.


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Noi non possiamo, per conseguenza, sorprenderci se, con l'Umanesimo e col Rinascimento, un grandissimo numero di uomini colti volle dedicarsi col più vivo fervore allo studio degli scrittori, che avevano trattato di guerra e dj eserciti, non soltanto nel periodo migliore della letteratura latina ; ma anche durante la decadenza dell'Impero, levando a volte la voce contro la crescente corruzione dei tempi, come, nel 220 d. C., aveva fatto, ad esempio, Giulio Sesto Africano, affermando che sarebbe bastato restituire ai Romani gli ordini e le armi di un tempo, pcrchè essi potessero resistere vittoriosamente all'urto rovinoso dei barbari. Si diffusero cosi, durante il Rinascimento, insieme con quelle dei classici, l'opera << De architectura » di Vitruvio, il « De stratagematis » di Frontino, il « De instruendis aciebus » di Eliano, ii ìibro « De vucabulis rei militaris >> di Modesto e, più d i tutti, il <• De re militari » di Flavio Renato Vegezio (1); il quale ultimo, per quanto ora ben a ragione sottoposto a severi giudizi, contribuì forse più di ogni altro ad ispirare le opere dei nostri maggiori scrittori m ilitari del Cinquecento; nonchè i procedimenti e le gesta dei nostri stessi condottieri. Basti dire che del " Dc re militari ;~ fu:ono rinvenuti ~!1 ! 40 codici e che, non appena introdotta la stampa, vennero pubblicate, dal 1486 al 1580, innumerevoli edizioni, tra le quali, nel 1524, la prima italiana, nella traduz ione Ji Gaetano T izwni, pubb!ic:ita :l Venezia e dedicata a Federico Gonzaga, anch'egli famoso capitano al servizio di Carlo V. Rinomanza, questa, non del tutto giustificata, pe.rchè Vegezio, se pure ebbe il merito di desiderare all'esercito romano l'antico valore e di tramandarci il ricordo di libri andati purtroppo perduti, come ad esempio, il <e De militia » di Catone il Censore, cercando di unire insieme le discordanti opere dei diversi secoli, cadde in errori ed in confusioni, del cui influS50 non rimase immune neppure l'opera militare deìio stesso Machiavelli. Per conseguenza, indotti efficacemente allo studio dei m ezzi coi quali specialmente i Romani avevano conseguito le loro vittorie mentre nella rimanente Europa si continuava a vivere nella più perfetta ignoranza di tutto ciò che, nel campo speculativo, si riferiva all'arte della guerra - gli scrittori m ilitari italiani del Rinascimento ~rono numerosi e q uasi tutti autprevoli. (1) Vedi, in proposito, il primo volume di q uest'opera.


Così Orso Orsini da Ascoli compose il trattato « Del governo ed esercizio della milizia n; Roberto Valturio da Rimini scrisse « De uni versa re militari »; Dìomcde Carafa da Napoli « Degli ammae­ stramenti militari»; Flavio Biondo da Forlì. delle « Istituzioni mili­ tari dei Romani 1>; Leonardo Bruni compilò l'opera « De Militia >>; Leon Battista Alberti trattò delle fortificazioni, come fece anche Francesco di Giorgio Martini; Paolo Giovio narrò le gesta del gran Capitano Consalvo Fernandez dc Cordoba e del Marchese di Pescara; il Campano scrisse sull'invenzione della polvere pirica e delle bom­ barde e lo stesso Antonio Cornazzano da Piacenza, allora famoso per i suoi scritti di carattere ascetico, volle tradurre nel 1507 il (< De re militari >1 di Vegezio in terza rima italiana, anche se lo fece, a dire il vero, - come scrisse il Napione - « in ira delle Muse e del buon. giudizio)). Argomenti tutti, questi, dei quali --· come riconosce il Rocquan­ court - venne trattato in Italia, non da ingenui dilettanti; ma da uomini ben capaci di studiare gli eventi generali della guerra, di ri­ cercarne le cause, di scrutarne le conseguenze, per assurgere poi a principi generai i di carattere didattico, soltanto molto più tardi pe­ netrati e diffusi negli altri Stati cl'Europa.

Nè ad un così intenw movimento intellettuale rimasero affatto estranei - come qualcuno potrebbe ritenere - i condottieri italiani, spesso legati da sentita amicizia con gli uomini più illustri e rappre­ sentativi del loro tempo, come era avvenuto, ad esempio, al dal Verme clie, impegnato nella guerra contro Candia, riceveva le affet­ tuose lettere di Francesco Petrarca; che gli ricordava le virtù di un vero comandante; come Alberico da Barbiano, che dedicò la sua pri­ ma giovi.,.czza aHo studio della Storia; Braccio da Montone che venne definito dal Guicciardini uno dei primi illustratori della milizia ita­ liana; lo stesso Muzio Attendolo Sforza che, di umili natali, �i de­ dicò con fecondo autodidattismo allo studio della Storia e si fece tra­ durre le opere degli scrittori greci e latini; suo figlio Franccsèo che, conquistato il Ducato di Milano, si impose ai contemporanei, oltre che per le vittorie militari e politiche, anche per il forte ingegno e là vasta cultura e si occupò di filosofia e di storia coi fratelli Simonetta e di poesia col Fidclfo.


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Ma, per avere scritto, sia pure da teorico, un trattato militare organico e completo, per l'acume e l'esperienza politica, per la nobiltà degli ideali, fra tutti gli scrittori militari del Rinascimento, sicuramente primeggia Niccolò Machiavelli. t< Il fine di chi vuole fare la guerra è poter combattere con ogni nemico alla campagna e poter vincere una giornata. A volere far questo, conviene ordinare un esercito. Ad ordinare un esercito bisogna trovart gli uomini, armarli, ordinarli, e nei piccoli e grossi ordini esercitarli, alloggiarli, ed al nemico di poi, o stando o camminando, rappresentarli 1>. In questa chiara definizione dell' « industria n o scienza od arte della guerra, che il Machiavelli fa esporre, nel primo libro della sua opera, a Fabrizio Colonna, c'è già una prova ben manifesta delle lunghe meditazioni dell'autore, il quale, non soltanto enumera così i particolari compiti delle diverse parti dell'arte militare: organica, logistica e tattica; ma riconosce ed afferma l'importanza decisiva della battaglia, poichè « chi sa bene presentare al nemico una giornata, gli altri errori che facesse nei maneggi della guerra sarebbero sopporta.bili; ma chi manca di questa disciplina, ancor che negfi altr; particolari valesse assai, non condurrà mai una guerra a onore)). Affermata così la preminenza del combattimento e della tattica nell 'arte militare, il Machiave1li dedica i due primi libri del suo trattato all'organica e, per conseguenza, alla scelta. degli uomini per la milizia ed al loro armamento; ricorda le istituzioni e le armi dei


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Romani ; accenna alla necessità di eserciti più grandi; propone una ordinanza che non distolga troppo gli uomini dalle ordinarie occupazioni e condanna ogni professionismo militare, trascurando così, od almeno non risolvendo, il problema dei Quadri. Sempre secondo l'esempio dei Romani, il Machiavelli afferma l'irn portanza e la superiorità della F~nteria: sia sull'Artiglieria, della quale egli non imagina i perfezionamenti e gli sviluppi futuri; sia rispetto alla Cavalleria che, com'è noto, era già stata l'Arma principale degli eserciti feudali, delie compagnie di ventura straniere e degli eserciti mercenari; ma che doveva ormai cedere alla Fanteria l'onore di decidere le battaglie, non soltanto per ragioni sociali ed economiche e per le prime affermazioni delle armi da fuoco; ma speciaimente perchè così avevano insegnato i Romani e così già dimostravano le Fanterie svizzere, tedesche e spagnole, allora, come abbiamo detto, famose, ed alle quali dovevano ben · presto sostituirsi le Fanterie italiane. · · Il libro lll dell'opera parla delle formazioni tattiche da preferire e della legione romana ; il IV della battaglia; i libri V e VI sono dedicati alla logistica e parlano delle marce, degli alloggiamenti, delle mi~ure d! si~urezz:: e del servizio delle · informazioni; il libro VII tratta delle fortificazioni - nelle quali tanto dovevano eccellere gli Italiani - e degli assedi. · Ndl' ,, A.rte della guerra •> il Machiavelli non si occupa di strategia ; ma, nelle altre sue opere e specialmente nei (< Discorsi sulla prima deca di Tito Livio n, eg li desidera, precorrendo i tempi, le guerre corte e grosse, afferma la superiorità dell'offensiva e raccomanda infine una strategia eh~ non si lasci. immobilizzare dalle fortificazioni. « Vissuto in un periodo di profonda trasformazione dell'arte militare, il Segretario fiorentino, prendendo a modello l'antica, virtuosa Repubblica Romana, volle preparare - come scrive il Pieri - un più :radicale rirraovamcr.to, che doveva essere tecnico t: spirituale__insieme, come quello che poneva a base della riforma il profondo sentimento · del dovere verso la Patria ed il principio del cittadino soldato e che si proponeva l'altissimo scopo di liberare l'Italia dai barbari. _ e< Il tentativo_ dell'interpretazione dell'arte militare, anche se non H~mun: da err_o:1, rappres~~t~ uno sfo~zo geniale, una singolare rna?'f~staz1one spmtuale, che s1 erge lummosa nella storia del pensiero 1tahano e prepara la soppressione dell'antitesi fra uomo di guerra ed uomo di pace ».


Per questo, anche nel campo militare, il pensiero di Niccolò Machiavelii lasciò una traccia .imperitura, come ben dimostra il numero dei suoi commt."ntatori ed imitatori, critici e studiosi, che si susseguirono poi in tutti i secoli: da Bartolomeo Cavalcanti, che scrisse un discorso sull'ordinanza fiorentina, a Donato Giannotti che compilò il trattato della Repubblica di Firenze ; da Scipione Ammirato che, nei discorsi sopra Cornelio Tacito, esaltò la disciplina delle legioni romane, al Tasso che, nei suoi dialoghi e nel suo poema epico, esaltò il valore e la fede; dal cardinale Bellarmino, che distin ~e la guerra giusta da quella ingiusta, a Giambattista Possevino che, nel (< Dialogo dell'onore », ricordò come, presso i Romani, non si potesse acquistare gloria, se non col mezzo della virtù e che <Juindì occorrev.1 seguire i nobili esempi dei nostri progenitori. E così ancora : dal Gesuita Antonio Possevino, che compii(\ " [I soldato Christiano » ad A lfonso Adriano, che scrisse della discipli na militare; da Francesco Patrizi, che rimpianse anch'egli l'antica glor ia delle armi romane cd auspicò il nostro risveglio militare, compilando « La rojlizìa di Polibio, di Tito Livio e di Dionigi di Alicarnaso H, a Giovanni Botero, educatore dei figli d i Carlo Eman uele T di S;1voi:i, che, nella :.lla opera 1< Della ragion di Sta to », e,altò il dovere J i w111battere per la difesa della Patria, il culto della religione e la d isciplina nella miliz ia ; richiamò l'attenzione dei suoi contemporanei sulla necessità delle forze navali e fu senza dubbio lo scrittore più effic:ice nel trasportare il pensiero militare italiano dalla T oscana al Pit'm<>n te, dove, come una pianta posta in p iù favorevole ambiente ed in più fertile terra, esso aveva già conseguito i più promettenti svilupp i nel campo applicativo. Senza dilungarci in altre citazioni, si può ricordare ancora : l'Algarotti, che, nel Settecento, proprio mentre imperversava l'antimachiavellismo prussiano, colle sue e< Lettere sulla scienza militare del Segretario fioren tino », indiri~zate ad Enrico di Prussia, chiarirà e difenderà il pensiero del M achiavelli: pensiero che, dopo q uattro secoli, deve considerarsi an cor vivo ed operante, come dimostrano gli scritti di Pasquale Villari, di Guido Mazzoni, di Francesco Ercole, rtd Russo, del Marchino e del Sorrento; nonchè, per quanto riguarda gli studi militari, i giudizi del Palmieri, del Guerrini, del Barbarich, del Pieri. del Bastico, per non citare gli stranieri, fra i quali vanno pur ricordati il Clausewitz, l' Hobohm, l'Jaehnes, l' Endres, il Ddbruck, il Taylor, il Roth.


Uno dei più autorevoli commentatori del « Dell'Arte della guerra » fu, senza dubbio, il generale Eugenio Barbarich. Dell'opera militare di Niccolò Machiavelli, nella sua chiara ed efficace premessa al volume << I sette libri dell'arte della guerra e le opere militari minori di Niccolò Machiavelli >> ( 1 ), egli così scriveva nel 1929: « Deriva l'Arte della guerra dall'esperienza nei pubblici affari e nelle militari vicende compiuta da Niccolò Machiavelli nel tempo compreso tra il 1498 ed il 1512, cioè dalla sua nomina a segretario di Cancelleria della Repubblica fiorentina e dei Dieci di Balìa alla perdita dell'anzidetto ufficio (2). E' questo appunto il periodo che ha foggiato il pensiero e l'azione di Niccolò Machiavelli e che s'inquadra nella lunga e travagliata g uerra di Pisa, nel tirocinio delle legazioni - o incarichi <li fiducia commessigli dalla Signorla presso i potentati d' Italia e stranieri ---, ed, infine, nella pensosa indagine sugli storici e sugli scrittori militari dell'antichità. 1, In quel fortunoso _periodo si è, infatti, maturata l'.essenza della dottrina del Machiavelli. La quale politicamente attesta la necessità dello Stato forte nelle armi per disciplinato apparecchio di cittadini e di soldati ; nazionalmente stimola lo sviluppo guerriero della stirpe; socialmente esalta il valore dei fattori spirituali sull'esempio sempre presente di Roma. « Epperciò l'Arte della guerra è la sintesi di tutta l'opera politica, storica e letteraria del Segretario fiorentino, il più significativo e luminoso retaggio da lui tramandato alla posterità. Perchè nessuno, come Niccolò Machiavelli, al trapasso delle armi e della politica dalle angustie e dai particolarismi del medioevo agli spaziosi orizzonti dello Stato moderno, ha saputo trarre dallo studio del passato, dall'arte, dalle suggestioni del tempo, il divinante presagio dell'avvenire ; e nessuno come lui, italicamente, ha saputo elevarlo come una bandiera sull'indistruttibile piedistallo dello Stato nazionale unitario e sovrano n . (r) Cfr.: <1 Biblioteca degli scrittori militari d'Italia» a cura d i EUGENIO ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1929. (2) Il Consiglio Maggiore, il r4 luglio 149B, oltre ai còmpiti di Segretario della Seconda Cancelleria, dava al Machiavelli l'incarico "di servire i Dieci di Balìa (DEMETRIO MARZI: <1 Là Cancelleria della Repubblica Fiorentina », ed. L. Cappelli, ·Rocca S. Casciano, 1910, p. 2~), . L'esonero dall<1- carica è.-del1'8 novembre r512, in seguito ·all'avvento dei Medici a Firenze. BARBARICH,


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Cosicchè I'« Arte della guerra » può dirsi il capolavoro del genio di Niccolò Màchiavelli, il libro delle forti meditazioni come delle prepotenti realtà, delle rievocazioni come dei presagi, dalla cui passione è sempre brillato ogni auspicio di patria grandezza. Quando, 1'8 giugno 1509, Pisa si arrendeva pressochè esanime ai Fiorentini, l'assedio durava ormai da circa quindici anni. Alla sanguinosa e rovinosa lotta - continua il Barbarich - avevano preso parte quasi tutti i potentati d'Italia e stranieri del tempo, come che alle foci dell'Arno e presso al cuore della penisola fosse per rinnovarsi il ciclo dei classici assedi della Storia. « La guerra pisana è quindi il campo sperimentale di ogni evoIuzione dell'Arte. Essa è l'epilogo delle pratiche militari del medioevo ed il saggio deile innovazioni tecniche ed organiche dei tempi avverure. « Sull'ampio solco delle incursio1ù di Carlo VIU nella penisola si erano inseriti' nuovi ed inattesi germogli : operazioni combinate a largo raggio sul màre tra Pisani e Genovesi per far tagliate (1), guerriglie atroci sulle comunicazioni della città per distaccarla dal florido retroterra lucchese, incessante lotta di trincee, di mine e di contromine, gare di stratagemmi, di artifizi meccanici, poliorcetici ed iJ,a ulici - talmente che fu progettato di deviare l'Arno dal suo corso sotto Pisa - duelli acerbi di artiglierie, drammatiche vicende di condottieri, faziosità di soldatesche prezzolate, le quali segnarono appunto sotto Pisa la loro vituperosa bancarotta. cc Dal vecchio che crollava sul campo sanguinoso delle tragiche necessità, spnntavano i primi fermenti delle Fanterie paesane, sbocciava l'impiego agile ed ardito di squadroni <li Cavalleria leggera di tipo stradiotto per garantire gli assedianti al largo, si esercitava l'opera infaticabile dei marrajoli e dei terrazzieri, radice delle truppe tecniche, si regolavano i servizi, si ordinavano i Comandi, si foggiava il nuovo linguaggio militare, espressione della nuova dottrina di marca italica. << Nel contempo, tra armi, governo, politica interiore ed esteriorei si annodava il duttile intreccio tra mezzi e fine, tra possibilità e realtà, sotto il vigile controllo delJo Stato unitario e responsabile della propria vita storica». · {r) Nel carteggio dei Dicci si usa costantemente i! vocabolo far tagliate

per le operazioni sul mare, e tagliar fuori il Corpo d 'armata per le operazioni nel retroterra (G. CANES11UN1: (e Scritti inediti riguardanti la storia e la milizia ccc. », p. 1o8), Ed. Barbèra e Bianchi, Firenze, 1857.


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La battaglia di Ravenna: prima /a.se.


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La baJtaglia di Rave-nna: seconda fase.


Niccolò Machiavelli trattò delle cose della guerra pisana, quale segretario dei Dieci di Balla, fino dall'estate del 1498 (1). Erano suoi còmpiti tradurre in lettere, istruzioni e verbali - o personalmente o per mezzo dei suoi coadiutori - i deliberati della Signorìa e dei medesimi Dieci, tracciare le direttive per la condotta della guerra, far rilevare ai commissari ai campo ed ai comandanti della milizia i rapporti intercedenti tra essa guerra, la politica e la pubblica economia, determinarne i capisaldi, addestrarsi infine a disimpegnare e, pratiche >> presso gli ambasciatori, che dovevano, fuori dallo Stato, tutelare gli interessi della Repubblica Fiorentina. La vastità, profondità e delicatezza di tale opera, appaiono dal carteggio del Machiavelli, pubblicato da Giuseppe Canestrini, nei àocumenti che riguardano la stor.ia della milizia italiana dal XIII al XVI secolo (2). Il carteggio comprende commissioni, ordini, lettere, bandi, formu lati e trasmessi in nome dei Dieci di Balla. In esso viene descritta quasi ogni vicenda del lungo dramma pisano ; i rudi ed inattesi contrasti tra irruenza di offese e tenacia di difese; le incolmabili necessità dell'apparecchio militare, perchè lt necessità in guerr:J -«· mai si conoscono ad un tratto e bisogna disegnare sei quando l'uomo crede wer biwgno di dua )) (3), gli sforzi tormentosi della Repubblica per provvedere maestranze, cannoni, « palle da fuoco lavorate)>, polveri, salnitri, legname, «ceppi» o affusti per artiglierie, infine le inesorabili rigorosità dei e< defensores aerad ) > di marca fiorentina. Ma non basta. Allargando i termini tra necessità di politica ed esigenze <li guerra,. se il carteggio manifesta rudezza di contrasti e fierezza òi odi - indici dell'accanimento di quella guerra, la quale voleva che i Pisani non cogliessero per i campi « non che granello di grano, filo di strame >> (4) - ; esso, in contrapposto, non risparmia parole di pietà per là miserevole sorte dei prigionieri pisani alle Stinche, al I3argello ed al maniero cli Volterra e dei prigionieri fiorentini alla Torre della Spina di Pisa. Infine i! c:irteggio trae argomento dall'acerbità dei contrasti tra arbitrio di mercenari < maligni », necessità e responsabilità di condottieri e di governanti, per auspicare ed affrettare l'avvento delle milizie nazionali, fondamento dei moderni Stati. 1

( r) Aveva allora :z9 anni ed il titolo da lui assunto era indifferentemente: ora quello di « sccretarius » ed ora quello di << cancellarius ». · (2) «Archivio Storico Italiano)), tomo XV (Firenze, G. M. Vieux seux, 1851). (3) Registro 91, 18 giugno 1499. (4) Registro 91, 15 giugno 1499.


L'evoluzione - completa il Barbarich - era già matura. Le dinastie 'dei condottieri italici avevano ormai tratto dai loro Principati - balzati dalla forza, dall'astuzia e dalla politica - tutto il profitto che era lecito ritrarne. Alle grandiose imprese di Francesco Sforza e di Federico da Urbino, tenevano oramai dietro le presuntuose scorrerie di-Sigismondo Malatesta da Rimini, il Rex pr;ditorum . « Superato adunque il periodo degli individualismi, quei Principati stavano per addentrarsi nell'orbita del pubblico diritto. E, nello sforzo di adattamento tra il vecchio ed il nuovo, l'arte militare estendeva le sue mète, mentre la condotta della guerra, per naturale effetto di selezione tra metodi e scuole di condottieri, già profilava i lineamenti dell'arte nuova ».

11 declinare della Cavalleria, il risorgere della Fanteria - cioè dell'Arma in continuo progresso - l'uso degli archibugi e delle artiglierie, gli sviluppi della fortificazione che, dall'angustia dei vecchi castelli, si affacciava a còmpiti interessanti la strategia e la difesa degli Stati, la tecnica di guerra cd il martellare della coscienza nazionale sempre più alto e gagliardo, affrettavano dovunque il ritmo del!'evoluzione. Senonchè la diana squillava in pieno Cinquecento, si ripercuoteva nella mentalità dei suoi artisti, ma non echeggiava ancora tr::i le masse. Onde si spiega come il pervadente soffio dottrinario affrettasse di soverchio i tempi, anticipasse la realtà nel campo dell'idea, parlando un linguaggio alquanto diverso dall'ambiente; e come, nel contrasto tia teoria e pratica, tra presente ed avvenire, difettasse quell'armonia di pensiero e d'azione, che sola assicura continuità e fortuna alle opere. Nullameno, quelle mète hanno tracciato la strada all'arte prima tra noi, e - di riflesso - oltre i confini d'Itaiia. E sono l'affermarsi del eone-etto politico, militare e statale della forza una e piena, la propaganda del dovere del cittadino-soldato, la sconfitta di ogni residua velleità particolarista nell'esercizio delle armi, infine la solidarietà, di origine romana, tra virtù militari e virtù civili . . Germi fecondi tutti, i quali hanno anticipato nei tempi perfino la stessa visione augusta della Patria grande ed una, quando, nel febbraio del 15rr, i Dieci di Balìa della Repubblica Fiorentina - _cioè quei medesimi che avevano vissuto il trilustre calvario della guerra


pisana e che · avevano trovato in Niccolò Machiavelli l'interprete del loro pensiero e della loro ansia -- commettevano a Piero di Giorgio, miniatore, il còmpito di disegnare « un'Italia » per l'ufficio loro.

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Sçhicrame-nto adouato dt1. Alessandro Farne.se per la battaglia di Borgherouth ( 2 marz? 1579)

Se le armi sono il mezzo, la difesa e la grandezza degli Stati rappresentano il fine. T ale correlazione di termini Machiavelli approfondì nel corso delle sue « legazioni », le quali possono dirsi il


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tiroc1mo d~ll'uomo politico, il campo sperimentale dell'osservatore provetto, la scuola dello statista. Il senso della realtà - spontaneo in qualsivoglia manifestazione della sua dottrina - trova, infatti, nelle missioni in Francia, Svizzera e Germania, il tangibile richiamo alle premesse della storia, la giusta rettifica agli adescamenti ed alle suggestioni della teoria. Le degenerazioni del mercenarismo ed i traviamenti dei condottieri, sospingendo alle estreme conseguenze il particolarismo delle armi, avevano dovunque trasformata la milizia in un ricatto statale organizzato. Lo scopo della guerra - cioè fiaccare l'avversario a qualunque costo -- svaniva nelle ritorte di vergognosi compromessi; e: ciò perchè era nell'interesse dei detentori di quella specie di capitale miiitare, rappresentato dalle condotte o dalle compagnie di ventura, di non arrischiarlo ad alcun patto. Cosicchè, al nobilissimo epilogo delle battaglie, si era venuto surrogando l'ignobile spettacolo di coreografici campèggiamenti. Quando, nel 1437, le m ilizie di Niccolò Piccinina si scontravano presso Anghiari con le milizie di Michelotto Attendalo, dopo avere ostentatamente combattuto per oltre 24 ore, al contare delle perdite, dissero i cronachisti che nella giornata era morto soltanto un uu1110 ; « e non di ferite o di altro virtuoso colpo - come osservò Machiavelli - ma caduto da cavallo e calpesto i> . Non diversamente, alcuni anni innanzi, era avvenuto allo scontr~ di Zagonara, tra le milizie di Filippo Visconti e le milizie ilei Fiorentini, dove erano caduti solo tre soldati, affogati però ndla melma, precipitando d'arcione. A tale vituperio erano così pervenute le milizie mercenarie e la condotta della guerra. Spezzare l'esoso salvadanaio dei capitani di ventura - scrisse ancora il Barbarich - restituire la purezza delle virtù militari alla terra, rivendicare la dignità all'arte, sostituire al ricatto delle armi prezzolate e senza fede il dovere militare nazionale, tali dovevano essere gli scopi delia fresca ed auspicante innovazione italica sulle orme di Roma. « Nè l'opera appariva impossibile, perchè i germi della nuova primavera delle armi erano nella medesima nostra tradizione: le Fanterie del fX)polo di Legnano e di Campaldino, le compagnie dei Comuni, l'istituto delle cerne a Venezia ed a Ferrara, la scuola delle milizie di R9magna - pulsante di forza e riboccante· di presagi sorta tra le convalli appenniniche e la Via Emilia, offrivano altrettanti segni e pegni per la fortuna delle invocate riforme.


Era, però, necessario adattare le pratiche del passato ai nuovi ordinamenti, inserire le ordinanze militari nell'ingranaggio delle leghe, capitana6, vicariati, podesterie e pievi della Repubblica Fiorentina, provvedere alle coscrizioni, rassegne, addestramento, Comando, armi, paghe, organizzare le va1late alpinamente - come le romagnole del Lamone, del Senio e del Savio - creare una tecnica ed una nomenclatura militare, ambientare infine i nuovi istituti guerreschi nell'orbita dello Stato, con sagacia, consapevolezza ed armonia. E tutto ciò « volendo meno errare - come ammoniva il Machiavelli - perchè questi tempi sono superiori ai cervelli >) (1).

L'organizzazione della forza, a massa, sull'esempio di Roma, e la sua articolazione conforme alle esigenze delle armi nuove, sono adunque i primi problemi che si affacciano al pensiero di Niccolò Machiavelli durante le sue << legazion_i ». Nell'inverno del 1508, percorrendo la Svizzera, il Tirolo e la Germania, egli nota, infatti, la forza e la grandezza degli Stati che dispongono di armi proprie e c};te possono con tate bull'unit~ .delle forze militari e civili, fascio di volontà vittorioso di ogni straniera insidia. La Svizzera gli apparve ordinata come un modello di popolo in armi, con i suoi Cantoni, con la sua Lega Grigia, con il riparto delle sue <( bandiere >,, o circoli di reclutamento, con la potenza delle sue 1< picche », spalleggiate dagli ,<scoppiettieri », con la disciplina del servizio militare, il quale assicura alla patria il grosso degli armati e concede soltanto il superfluo, come un articolo di esportazione e di imitazione, agli ingaggiatori forestieri. Le conseguenze debbono essere balzate spontanee. L'insanabile debolezza dei Principati italici in baBa delle milizie mercenarie, la convenienza di collegarsi in una federazione capace di tener testa alla i.racoi.anza òelìe armi prezzolate, ia necessità delle ordinanze nazionali, infi ne la luminosa intuizione dell'invocato <( condottiero))' predestinato a capeggiare queste ultime per fondare il vagheggiato Stato sovrano. Ed ancora, nella folla dei ricordi, deve essersi affacciata - ricorda ancora il Barbarich __, alla memoria del Segretario fiorentino la rude alternativa impostagli, anni avanti, da Luigi XU Re di Fran(1) Legazione seconda a Siena (16 giugno 1505).


eia, quando egli 1o sollecitava ad inviare aiuti ai Fiorentini impegnati nella guerra di Pisa: « O pagare la condotta -, aveva allora intimato il Re - o restare suo nemico: scegliessero » (1).

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Dispositivo di marcia adottato da Ales,·amfro Farnese nel novembre i 590

Così pure all'esperienza ddle « legazioni » si deve ascrivere l'origine dì una serie di giudizi e di convincimenti di carattere organico (1) Legazione prima alla Corte di Francia (da Melun, 3 settembre 1500). Altrove, nella stessa lettera , si legge : ,1 Noi non vorremmo trovarci alla dissoluzione di un'amicizia, che si è mendicata e nutrita con tanto dispendio e con tanta speranza mantenuta >). (Opere di Niccolò Machiavelli, tomo IV, ediz. Fi· ladelfia, 1797, pp. 92 • 94).


e tattico, nel senso di addestrare le nuove ordinanze << tra l'antico ed il moderno uso J> - cioè insieme alla romana ed alla tedesco-svizzera - assegnando alle « picche» ed agli « scoppettieri », sull'esempio oltremontano, il còmpito di spezzare le linee avversarie, ed alle spalle ed agli scudi, romanamente, il mandato di affrettare e compiere la vittoria. L'esempio della battaglia di Ravenna, il prestigio degli archibugieri spagnoli e la crescente potenza di fuoco delle Fanteri e dovevano, a loro volta, integrare il quadro della dottrina del Machiavelli nel binomio tattico - quale-potrebbe dirsi oggigiorno di << moto e fuoco )>. Epperciò I'« Arte della guerra n è anche il primo trattato di scienza militare, perchè insegna che )a sua opera « come ogni scienza ha le sue generalità sopra le quali in buona parte si fonda (1), è la scuola della spiritualità delle armi, la base del loro tirocinio, la fonte del linguaggio militare italico >J (2). Condottieri, scrittori, soldati e politici hanno compreso la grandezza di questo magistero e se ne fecero i banditori nell'universo, sicchè Francesco Patrizi - sul declinare del secolo del Machiavelli poteva precisare nei suoi « Paralleli militari », inspirati allo studio dell'Arte della guerra: <( che acquistare in guerra non si può, se non si vince, e vincere non si può senza potere, e potere non si può senza sapere: il sapere adunque è la vera chiave di tutta l'arte militare >> (3). Le guerre del venticinquennio compreso tra il principio dell'assedio di Pisa e la stampa dcll' « Arte della guerra n, sono, i_n fatti, conclude il Barbarich - le più significative per la storia delle armi. E' il periodo di gestazione della guerra moderna. Le battaglie, anche le più decisive: « pcrchè il fine di chi vuol far guerra è poter combattere. con ogni nemico alla campagna e poter vincere una giornata » (4), si affrontano, quindi, con lo slancio e la consapevolezza di corrispondere ad una necessità imposta dalla medesima esistenza dello Stato, e « vincere la giornata l> appare oramai a tutti lo scopo della guerra. Nella breve campagna cesariana di Gastone di Foix (1512) spiccano i fattori della manovra, della sorpresa e della celerità delle (1) Arte della guerra )1, lìb. Ili. (2) A. ALGAROTI1 : « Discorsi sopra la ricchezza della lingua italiana nei termini militari ». (Opere, vol. V, ediz. Cremona, 1779). (3) F. PATRIZI: « Paralleli militari, nei quali si fa paragone ddle milizie antiche in tutte le parti loro, con le moderne ». (Roma, Zanetti edit., 1594). (4) « Arte della guerra n, lìb. I.


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marce; alla battaglia di Ravenna (12 aprile 1512) si profila il coordinato _impiego tra Fanteria, Artiglieria e Cavalleria; a Novara (1513) i cannoni spianano il campo di battaglia; il Trivulzio, aggirate le Alpi Marittime al colle della Maddalena (1515), piomba di sorpresa a Villafranca, sul tergo dei difensori; alla battaglia e< da giganti » di Marignano (1515), l'iniziativa di Bartolomeo d' Alviano e l'accorrere al cannone delle truppe celeri veneziane decidono della vittoria. Di per sè sola, la battaglia della Bicocca (1522) è sufficiente a far sloggiare i Francesi dal Milanese. Sembra che dovunque, nelle armi come nelle arti, palpiti l'esempio dei condottieri di Roma. Epperciò i tempi, gli spazi, il giuoco delle masse; la manovra e la tecnica, delineano le rispettive esigenze. Richieggono vast::i mpia di mezzi, solidarietà di aiuti, vigore nelle operazioni, perizia di comando, addestramento di truppe e non dilettantismo. L 'angusto cerchio dei piccoli eserciti di mestiere è definitivamente spezzato, con le sue tracotanze, con le sue corruttele e con le sue avarizie di uomini e di sangue. La manovra - ancora ai suoi primordi - addita cosl la necessità di appoggiarsi alle fortificazioni ed esse si fanno quasi leva verso la guerra .in campo aperto, con intenti offensivi e risolutivi, s,ull'rn:mpio di Padova, di Mestre, di Bologna, di Ravenna e delle rocche di Milano e di Pavia. Le artiglierie - ad onta dei detrattori e degli scettici - scendono dai rampari per « stracciare>> le Fanterie, come scrisse, nel suo pittoresco linguaggio, Paolo Giovio.

In questa fresca gara d'innovazioni grandeggia l'opera dei capitani italiani. Fanno corona al maresciallo Giangiacomo Trivulzio che, alla C.orte di Francia, crea una dottrina strategica ; si distinguono nel tirocinio delle guerre del Reame di Napoli; fondano il senso artistico della guerra di Federico da Urbino (1); si impongono quali capi scuola con Dionigi Naldi, Prospero, Marcantonio, Fabrizio Co, lonna e Bartolomeo d'Alviano; suscitano una dinastia nazionale di artefici e di condottieri di Fanti, da Giovanni delle Bande Nere a ,. Francesco Ferrucci. (r) « E' Federigo, - scrisse Vespasiano da Bisticci - c'ha congionto la disciplina militare con le lettere 1>. ( a Vite di uomini illustri del secolo XV ,, ). 18


Nè è da tacersi, tra i neofiti di questa scuola, Lodovicò Machiavelli - figlio di Niccolò - valorosamente caduto ·a S•. Donato a Scopeto, per la libertà di Firenze, il 5 maggio r530. Epperciò l'arte della guerra nel Cinquecento è· capolavoro di perfezione e di intuizione, non meno che tutte le superbe manifestazioni del tempo, sicchè i libri che trattano delle armi non sono meno pregiati e desiderati di quelli che trattano delle arti. Nel novembre del 1461, mentre si trovava a Rimini, ospite di Sigismondo Malatesta, Matteo de' · Pasti -, il celebrato medaglista veronese -, Maometto Il gli fece pervenire l'invito ·a recarsi a Costantinopoli. Traendo occasione dal viaggio che stava per intraprendere, il Malatesta gli commise l'incarico di offrire in omaggio al Sultano un esemplare dei nuovo libro « De re militari)), pur allora composto da Roberto Valturio, suo segretario. Ma il Pasti, per traversie marinare, cadde in mano degli ufficiali della Sérenissima in Candia," cosicchè libro e messaggero vennero inviati a Venezia. Esaminato a lungo il volume del V alturio , in Consiglio dei Dieci, dappoichè esso venne giudicato « res mirabilis et habenda carissima propter novas et notabiles res bellicas in illo scriptas et clesign.:itas >>, ne fu ordinata la confisca a bendicio esclusivo della Repubblica e degli studi militari (1). Così adunque i classici, che trattavano dell'arte della guerra erano avidamente letti ed interrogati con l'ansia dì cogliere, attraverso le loro pagin·e; quasi un segreto. In essi si scorgeva il segno della passata grandezza delle armi, da essi si traeva l'auspicio della rinnovata loro egemonia, non diversa da quella che sfolgorava ndie scienze, nelle arti e nelle lettere. Nello spirito, nei presagi, nel linguaggio, spirava _u n'aria restauratrice di romanità guerriera, genuina vessillifera di solidarietà nazionale (2). (1) Archivio dei Frari di Venezia, Consiglio dei Dieci, Misti (Registro 16, col. 44, 46, 48, 26 novembre, 2 e 30 dicembre 1461): L'ordinanza del Consiglio, che decreta la con fisca dice testualmente: « liber autem quem ipse (Pasti) . portabat ad Turchum, remaneat in munitione huius Consilii ». n libro sull'Arte della guerra del Valturio venne comunicato a nche .a Pio Il, che l'aveva replicatamente richiesto alla Veneta Repubblica, per mezzo della sua rappresentanza diplomatica (A. F. Mi'sSÈRA: « Roberto Valturio ))' 1405-1475, Pesaro, 'Tip. Nobili, 1927). . (2) All'indomani della battaglia di Pavia, Francesco Maria I della Rovcrt', governatore delle Fanterie della Repubblica di Venezia, invitava infatti il Senato, am:averso alle armi, ad cc unir l'Italia ad uno ». (MARIN SANUTo: << Diariì "· voi. XXXVIII, 25 marzo 1525).


Come abbiamo già accennato e come conferma il Barbarich, i libri di Vegezio, di Frontino, di Livio, di Polibio, di Vitruvio, di Eliano, di Arriano, di Modestino, di Plutarco, di Senofonte e perfino di Giuseppe Flavio costituivano ormai il corredo degli studiosi del1'arte ed ogni sforzo s1 rivolgeva nell'adattare il passato al presente. Anche gli umanisti gareggiavano nel porre le penne al servizio delle armi, come Flavio Biondo e Giannantonio Campano nell'esaltare le armi da fuoco e Leonardo Aretino nel disciplinare l'insegnamento intorno alla milizia. Le guerre peloponnesiache di Tucidite avevano un interprete in Lorenzo Valla, i libri di Senofonte in Poggio Bracciolini, le vite di Plutarco nel Guarino, veronese e precettore di Lionello d'Este; le storie di Polibio in Niccolò Perotti, le opere di Arriano in Bartolomeo Fazio. Antonio Cornazzano, segretario di Bartolomeo Colleoni, scriveva, come abbiamo già ricordato, un volume di arte militare in versi ed Alfonso d'Aragona bandiva a Napoli un pubblico concorso per la traduzione degli scritti di Appiano e di Eliano. Anche la regolamentazione, sistematicamente e razionalmente esposta, aveva fatto notevoli progressi: Gian Battista della Valle Venafrana (r) offrì un cospicuo saggio della specie (2), proprio mentre Massimili.an.:> d 'Austria deplorava l'assenza di scritti <l per il militar esercizio ».

-Dalla riflessione su tutte queste opere, Niccolò Machiavelli ha ricavato la sua. Fatalmente attratto verso i due poli del classicismo imperante - Roma e l'Ellade - estimatore convinto della legione nei confronti della falange, fautore della guerra offensiva, di movi(1) VALLO: « Libro continente appartinentie a Capitani; retenere et forùficare una città con bastioni, con nuovi artifici di fuoco aggiunti, come nella tavola appare et de diverse sorù di polveri ecc. >> ( 1529). La premess:i di questo libretto di volgarizzazione - che raggiunse un numero straordinario di edizioni - rievoca la · musa del CORNAZZARO: " Se un animoso core acquistar brama - Nell'arte militar onor egregio - E far dell'opre sue volar la fama Nel quinto cielo al bellicoso seggio - Legga questo libretto il qual si chiama Vallo che vale ogni tesoro e pregio - Per dar nell'arme al buon soldato lume - Ed adattarlo al marzial costume » (VenC?.ia, edit. Zoppino, 1529). (2) Auiu:uo Cicun, nel suo volume « Disciplina militare >i, ha italianamente rivendicato l'opera del VALLO, nel 1572: « Giovan Battista della Valle Venafrana, in Terra di Lavoro, antico capitano, colonnello del Re cattolico Ferdinando d'Aragona, ha, ccn accorto e prudente giudizio, formato un volumetto,


mento e di decisione, egli - in conformità della sua mente positiva - evita le prevenzioni teoriche per prospettare una dottrina che razionalmente temperi l'educazione militare e nazionale romana con i progressi delle armi e della tecnica degli Oltremontani. E ciò perchè la guerra non è dominio degli assoluti, ma campo di relatività, arena di fattori in perpetuo contrasto, i cui fini appaiono giustificati da qualsivoglia aspetto della forza. I multiformi uffici disimpegnati dal Segretario fiorentino gli tolsero la possibilità di suffragare e controllare le premesse con la pratica della « professione » delle armi (I). Ma è pure doveroso osservare che, in luogo di quella «pratica », hanno assunto il nobile mandato storico e la Repubblica di Firenze ed i suoi combattenti migliori, secondo il precetto di un altro grande studioso dc:11' Arte della guerra, cioè Leonardo da Vinci, che disse: << La scienza, ecco il capitano; la pratica, ecco i soldati )) . Non erano, infatti, trascorsi sei anni dacchè si era decretata la (( Provvisione » sulla Fanteria (2), che la Repubblica di Firenze, suddivisi in 33 cc bandiere ))' annoverava oltre 20.000 Fanti e 500 cavalli. Le H bandiere i; avevano un n umero progressivo ed un nome - cioè quello della terra d1 origme, mmc k cerne venete e come dovevano avere i battaglioni ed i reggimenti provinciali del Piemonte - si addestravano alle armi nei giorni di festa, avevano periodiche rassegne e e, mostre grosse », cioè esercitazioni e manovre invernali cd autunnali, in febbraio ed in settembre, diffondevano ed affermavano tra il popolo la passione per le anni nazionali. Non molti anni appresso ancora, le Fanterie di Giovanni dalle Bande Nere e di Francesco Ferrucci rivendicavano, sui campi di battaglia, il glorioso còmpito di suffragare la « pratica·» degli insegnamenti di Niccolò Machiavelli a Borgoforte, ad Aversa, a Volterra, a Firenze ed a Gavinana, contro tutti i nemici dell'Italia e della libertà. Così la spiritualità delle armi - conclude il Barbarich -- ha generosamente condonato all'opera militare di Niccolò Machiavelli tanto nominandolo Vallo, il quale tratta degli ordini della guerra, mettendo in figu re quelle forme di battaglia che parvero a lui neces.~ rie per un capitano i> (Venezia, Lodovico Avanzo cdit., Ifp., p. :219). (1) << E benchè sia cosa animosa trattare di quella materia della quale a ltri non ne abbia fatta professione, ec::. )). (Proemio sopra il libro del!'« Arte della guerra »). (:2) Provvisione prima per istituire le milizie nazionali a piedi ( 1506).


le sue pregiudiziali dottrinarie, quanto le sue difettosità « professionali », perchè dalla sua teoria appunto - come in qualsivoglia scienza - doveva scaturire la pratica delle moderne guerre.

Degno di particolare ricordo appare, anche nel trattare di cose militari un altro insigne politico, quasi contemporaneo del Machiavelli : Francesco Guicciardini, tratto dalla sua attività di storico a formarsi una conoscenza dei problemi militari non del tutto superficiale e non esclusivamente teorica, visto che egli stesso dovette svolgere u~a vera e propria azione di comando nel r521, per la difesa di Parma contro i Francesi, e negli anni 1526- 1527, quale luogotenente del Papa, grado col quale il Guicciardini - -- la cui attività venne allora lodata dallo stesso Machiavelli - non risparmiò consigli ed insistenze per una maggiore decisione nel condurre la guerra; consigli ed insistenze rimasti purtroppo inefficaci per l'irresolutezza dello stesso Pontefice, la ponderata Jlrudcnza dd Duca di Urbino, legato agli ordini .di Venezia, e per la riluttanza degLi Stati italiani partecipanti alla Lega contro l'Impero a rinunciare alle loro tendenze particoìaristiche. Il Guicciardini non dedicò alle istituzioni militari un'opera vera e propria; ma nei <(Ricordi))' nei ,( Dialoghi », nei e< Discorsi ,), nelle (( Lettere >1 e nella sua « Storia d'Italia ,,, ci lasciò numerose affermazioni del suo pensiero mii itare e della sua esperienza; e se - come dice bene a ragione il Palmarotti - nella sua frammentarietà confina a volte coll'agnosticismo, ha indubbiamente il merito di m anifestare opinioni non falsate da concetti ideologici. Così, nei suoi « Ricordi » e nelle sue (<Considerazioni )) ' troviamo ponderati giudizi sui pericoli della neutralità, sulle milizie cittadine, sull'importanza del denaro in guerra; argomento sul quale, in antitesi col Maduaveili e d'accordo con Diomede Carafa, afferma non senza ragione che, nella guerr:i, « chi vuole manco spendere più spende, perchè, quando le previsioni sono pit1 gagliarde, tanto più presto si spediscono le imprese ». Ispirandosi anch'egli agli esempi di Atene, di Sparta e di Roma, << le quali colle armi proprie e difendevano la sua libertà ed accrescevano lo impero », egli approva l'idea dell'ordinanza promos~ dal Machiavelli, pur con le r iserve imposte dai tempi; riserve che lo in dussero poi, nel 1525, a sc~nsigliarne al Papa Clemente VII la costi-


tuzione, per la grave difficoltà << di persuadere delle necessità m ilitari il popolo e per il bisogno, . ad impedire ogni abuso, di un salòo governo e di un forte Stato ». Anche Francesco Guicciardini non si dimostra molto entusiasta delle artiglierie, che chiama addirittura, << peste degli eserciti )>, così come l'Ariosto aveva definito l'archibugio « il maledetto, abbominoso ordigno » perchè, « per la macchina grande e per la imperizia degli uomini e attitudine mala degli istrumcnti, tardissimamente e con grandissima difficoltà si conducevano ed era dall'uno colpo all'altro tanto intervallo che con piccolissimo frutto molto tempo consumavano »; ma egli loda obiettivamente la maggiore mobilità di quelle portate in Italia da Carlo VIII e, meno pessimista del Machiavelli, ne intravede gli ulteriori perfezionamenti e la futura importanza. Nel descrivere, nella <e Storia d'Italia )> , le battaglie di Fornovo. del Garigliano e di Ravenna ; nonchè la disfida di Barletta, il Guicciardini dimostra la preoccupazione costante di prendere in esame in ogni particolare i) terreno, di comprendere il disegno degli avversari e di accertare le vere ragioni della vittoria e della sconfitta ; deplora anch'egli la presenza in Italia degli eserciti stranieri cd auspica l'av,.,ento del1e rn~liz ie n:iziona!l, djmostrando, anch~ nel le sue pagine militari, quel senso realistico e quella ponderata valutazione delle

possibilità che non sempre si riscontrano nel Machiavelli. Egli ebbe tuttavia quella concezione integrale della guerra che mancava necessariamente ai condottieri di professione ed, « in quella crisi decisiva della politica nazionale, difese fino all'ultimo, non più gli interessi di una città o di una regione; ma la libertà e l'indipendenza di tutta l'Italia )} . In conclusione, si può dunque affermare che, col Rinascimento, venne diffusa la convinzione dell'urgente, assoluta necessità di una riforma militare che, contro gli stranieri, apportatori di tanti mali, desse luogo ad eserciti più numerosi, formati dagli stessi cittadini, educati ad una più severa disciplina ed ai principt dell'etica civile e religiosa, comandati da Capi italiani, capaci di ispirarsi anch'essi agli esempi immortali degli antichi Romani.


IV.

LE fORMAZlONI TATTICHE NELL'OPERA DEL MACtilAVELLI Nei sette libri dcli'« Arte della guerra )> -

scrisse il Barbarich -

il Machiavelli adotta nuovi vocaboli di organica da masse, per contrapporli al frazionamento dei reparti, tanto in favore n ell:i nmnenclatura dei tempi precèdenti (bandiere, drappelli, insegne, squadre, compagnie ecc.); e sono essenzialmente i vocaboli battaglia c battaglione che vengono più di frequente ripetuti a proposito dell'ordin:.1mcnto dei nuovi eserciti . Il nome battaglia non è suggestione forestiera - come vorrebbe il Burd (1) - ma semplicemente un ritorno al linguaggio mililare italico e trecentesco; iJ nome di battagiione denota i'estensionc ciel vocabolo all'unità organicamente ed immediatamente superiore, cioè a dire ad una grossa battaglia ; il nome di esercito esprime, romanamente, il più forte aggregato di unità combattenti gerarchicamente coordinate. Ne consegue che la battaglia articola elasticamente l'unità tattica di base della Fanteria, coìma l'intervallo tra essa e l't"~crdtu, già notato da Battista della Valle Venefrana, il quale osservava « ch'el dito battaglion può dunque farse a numero grande d'uno esercito, sia di quattro, sei o dieci mila picche»; apre infine la via alla perfezione organica del battaglione dei Fanti, quale dovrà essere poi, con lo sviluppo delle armi da fuoco. Nel concetto legionario del Machiavelli, la battaglia corrisponde presso a pnco alla coorte, il battaglione alla legione. il raggruppamento di duc·o quattro legioni all'esercito consolare. Limiti numerici nella costituzione degli eserciti l'autore non ne prevede, ritenendoli (1) « The litcrary sources of Machiavellis, Arte della guena, together wiù1 illustrative Diagrams »; Oxford, 1891. Nd « Diz ionario militare italiano n di GrusEPPE Guss1, alla voce <<battaglia» si legge: cc Ogni corpo di soldati, ogni schiera ed ogni com pagnia ve11ne chiamata battaglia, <l'onde ne venne l'accrescitivo di battagli/me i>. Vedasi anche, « Vocabolario marino e militare 1, dì A. GoctrnLMOTII.


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Forma d'una . battaglia nel camminare.

FIGURA., r.he de11crive la forma d'11na ballnglia ordinorin nel camminare, ed in che modo si rad-

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i più alti possibili, in ordine alla capacità demografica delle popolazioni, alle esigenze delia politica ed alle circostanze varie della guerra. Cosicchè, per il Machiavelli, il battaglione si compone di 6.000 Fanti, distribuiti in dieci battaglie di 600 Fanti ognuna. Dei 6.000 Fanti di ciascun battaglione, 1.500 sono 5traordinari, ad imitazione d ei soci o confederati nell'organica legionaria (1), ciò che corrisponde a 150 straordinari per ogni battaglia, incaricati delle azioni staccate, pronte ed agili (2). Quanto all'armamento di questi 1500 straordinari, o F anteria ausiliaria del tempo, 1.000 erano provvisti di picca di frassino,. o d'abete, della lunghezza di 15-16 piedi .fiorentini, di 26 cm. circa, secondo i dati del Cicuta (3) e sono le Picche straordinarie. Gli altri 500 erano armati aila ieggera e sono i Veliti straordinari con archibugi, balestre, rotelle o scudi leggeri rotondi. Si noti che questi ultimi, e per riflesso anche gli scudi e le targhe del modello romano, erano tornati in onore dopo la memorabile battaglia di Ravenna (II aprile 1512), a motivo dell'agile ed irruente impiego che colà ne· avevano fatto i brocchieri catalani, vittoriosamente affrontando e schiudendosi un varco tra la selva delle massicce picche tedesche (4). I 1.500 straordinari, come gli altri Fanti, erano comand:iti da Connestabili, da Centurioni e da Decurioni ossia Capidieci. Le due prime categorie di graduati, cioè gli ufficiali, erano in sopr,..nnumcro nel battaglione; mentre i Capidieci erano computati nella forza effettiva dei rispettivi riparti, cioè tra i graduati di truppa. Le 1.000 Picche straordina rie erano al comando di tre Connestabili, da cui dipendevano i dieci Centurioni e da questi, a loro volta, i cento Decurioni. Ai 500 Veliti straordinari erano preposti due Connestabili, cinque Centurioni e cìnquanta Decurioni. Lo specchio che segue dimostra la situazione della forza degli straordinari, in un battaglione di 6.000 Fanti (5): (1) « Vcrum ipsì peditcs (lcgìonìs) in duas sunt partes, hoc est in legiones et in auxilìa: auxilia a sociis vd foederatis gentibus mittebantur ». MonESTUS: « Libellus de vocabulis rei militaris ))' ad Tacitum Augustum. Vedasi anche quanto, ìn proposito, abbiamo scritto nel primo volume di quest'opera. (2) « Legionibus semper auxilia tamquam lcvis aTmatura i11 acie jungebantur, ut iis proeliandi magis adminuculum esset quam principale subsidium,, (Momsnis: op cit., I, 1). (3) CrcUTA: « Disciplina militare n, lib. Il. (4) C1cUTA: op. cit., pp. 202 - 203. (5) ARTUR BuRD: op. cit.


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Detraendo quindi gli ufficiali (Connestabili e Centurioni) ed i r.500 straordinari della forza totale dei 6.000 Fanti di ciascun battaglione, rimane la forza residua di 4.500 uomini, da ripartirsi in dieci battaglie di 450 uomini ognuna. T ale è la forza effettiva della battaglia, considerata nell' (( Arte della guerra >> di Niccolò Machiavelli. Di questi 450 combattenti per battaglia, 50 erano Vel iti regolari armati alla leggera, agli ordini di un Comandante (Capo) e di 5 Decurioni. Loro còmpito doveva esser quello di fiancheggiare i 400 Fanti di armatura pesante, di proteggerli sulla fronte ed alle spalle, cli operare prestamente e sveltamente in determinate contingenze. Il grosso della battaglia, cioè 400 uomini armati di picche, scudi e spada corta, formava l'umtà organica base ddla Fanteria, alia cui tattica Machiavelli dedica l'essenza della sua dottrina. In ogni battaglia 300 uomini sono armati d i scudo e spada - epperciò detti Scudati - e roo di picche, ai quali tutti sono preposti un Connestabile, 4 Centurioni e 40 D ecurioni. La composizione organica della battaglia di Fanti regolari risulta come appresso:

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L 'intero battaglione, agli ordini di un Comandante in capo, doveva compiere una o due esercitazioni all'anno, conformemente alle regole dell'Ordinanza del 1508.


Oltre a ciò, ogni battaglione disponeva di 300 Cavalieri, dei q uali 150 uomini d'arme, compresi 15 Decurioni più un Capo e 150 Cavalleggeri, compresi 15 Decurioni più un Capo. La battaglia di 400 uomini di pesante armatura marciava per centurie, contraddistinte da un numero progressivo. Ogni centuria, al comando del proprio Centurione, eia disposta su cinque file e venti righe. Le prime cinque righe di ogni centuria erano di Picche, le altre 15 di Scudati.

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Battaglia » in formazione a corni

Tra le molte varietà delle formazioni di combattimento del tempo - prospettate dal Vallo - tutte figu,ativc (forbici, scorpione, mezzaluna, triangolo) e derivate dalla tradizione romana di Vegczio (• De re militaci •) e d i Eliano (« Dc ìnstrucndis acicbus •), il M.icbìavelli considera due tipi fondamentali e cioè l'ordinanza a corni e l'ordinanza a piazza. Quest'ultima, a suo tempo, s:uà chiam:11a dal Palmieri ~ c:en1ro vuoto, e snrà la gtniuicc di tutti i « quadrati " dell'awenire. Ncih formazione l corni i combattenti, cac.colu in mHsa cornpaua, protendono cluc colonnine ai due angoli di spalla , fronte :11 nemico, ciascuna forte di 5 uomini per dieci <li profondità. Nelt,1 form,'zione in quadrato, la m.issa presenta un vano al centro, denominato

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FORMAZIONE di tomùotlime 11to di una « bottaulia » di 450 uomini di pesante arnw/ura (sc hieramento s11f/n testi, }.

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74

Le figure ed i-diagrammi, già pubblicati nelle varie edizioni dcll' (( Arte della guerra >1, a commento del testo cd ora riprodotti nel presente capitolo, rendono più chiara ai lettori l'idea delle formazioni proposte dal Machiavelli. D a tali figure e da tali diagrammi si rileva che : - i picchieri erano sempre i primi ad incontrare il nemico ed, in quasi tutte le formazioni, inquadravano la « battaglia >1 e ne proteggevano il fronte od il fianco più espòsto; - i Fanti armati di spada e di scudo erano i più numerosi e stavano al centro delle diverse formazioni; - i cavalleggeri e l'artiglieria facevano parte integrante della (( battaglia ,i e, per il combattimento, si sch ieravano davanti alla Fanteria; - i Comandanti e la bandiera, nelle formazioni dell'esercito per la battaglia, stavano nelle primissime linee e, nelle formazioni a quadrato, nell'interno della 1( piazza))' seguiti dalle trombe, dai piffèrÌ e Jai tamburi per i segnali. Nella parte Hl di questo volume vedremo poi come, alcuni lustri dopo, anche negli eserciti del Piemonte si usassero formazioni analoghe a guelle suggerite <lai Machiavrlli.


V.

LE ARMI DA FUOCO E LA LORO DIFFUSIONE NEGLI ESERCITI L'attribuzione delle scoperte della polvere pmca a Bertoldo Schwartz può considerarsi oramai una semplice leggenda, visto che le armi da fuoco dovettero essere adoperate dagli antichi C inesi e che i Greci impiegavano, specialmente negli assed1, m aterie atte ad incendiare le mura e le macchine da guerra nemiche. Negli eserciti romani si usarono, con gli stessi scopi, speciali artifizi per lanciare materie incendiarie a distanza ed, anche nel medio evo, materie infiammabili, composte. di zolfo, petrolio, canfora, bitume o resina, salnitro e polvere di carbone, vennero lanciate contro i comb:ittenti nemici e rnntro le loro macchine da o1111err:1 : ~ia davi ., i Arabi, sia dagli Europei che, dopo avere appreso l'uso di tali proietti durante le Crociate, adoperarono ampolle di vetro o di terrncoua piene di materie incendiarie, che venivano scagliate contro il nemico e che impiegarono le stesse materie, specialmente nei combattimenti navali e durante gli assed1, adoperando per il lancio anche glt archi e le balestre. Dell'esistenza di ordigni capaci di lanciare materie infiammabili abbiamo prova nella Storia delle Crociate ed anche nei « Libri della Biccherna » della Repubblica di Pisa, libri, uno dei quali nota il pagamento dì 20 soldi a Orlando Johannis per « centum aliis missis querc..• ad prohivendum ignem parabula ». Fra i mezzi che venivano .u:npicgati allo scopo di mi sopra, ricordiamo gli stomboli ed anche le balestre a ballotte. Gli stomboli erano, a quanto sembra, pezzi di legno vuoti, nei quali, mediante un altro pezzo di legno che agiva da stantuffo, si spingeva una pallottola di carta, imbevuta di sostanze resinose e già accesa, con una forza tale da farla pervenire ad una certa distanza. Il passaggio da questi ordigni alle armi da fuoco vere e proprie, per quanto graduale, dovette essere abbastanza rapido. Si trattava, infatti, di conseguire scopi che erano analoghi e che gli effetti sulle


cose e sugli uomini già conseguiti dai proietti incendiari: dimostravano assai importanti. Le prime armi da fuoco dovettero essere quelle pesanti e precisamente le bombarde, le quali erano caricate dalla culatta, che veniva chiusa dal masculo o cannone ripieno di polvere. Ogni bombarda era dotata dì tre mascoli. Le bombarde erano di ferro e venivano rinforzate da cerchioni dello stesso metallo, che portavano, nella parte superiore, una tacca per la mira. Esse lanciavano grosse palle di pietra e poi di ferro, avevano calibri che raggiungevano perfino i 530 mm .. Nel Quattrocento le bombarde vennero fatte di bronzo e, per il tiro curvo, cominciarono ad usarsi i mortai_ Le bombarde venh·ano legate ad un ceppo di legno, che faceva da atfusto e che venne più tardi perfezionato con l'applicazione delle ruote. Esse erano molto pesanti e di difficile traino. La famosa bombarda di Galeazzo Maria Visconti, costruita nel castello di Milano nel 1471 e chiamata la Galeazza vittoriosa, pesava kg. 86oo; mentre le palle raggiungevano il peso di 640 libbre ciascuna, tanto che un carro poteva trasportarne soltanto quattro. Per il traino della bombarda occorrevano due-carri e diciotto coppie di buoi.

Che l'invenzione delle armi da fuoco non potesse essere collegata, almeno in Italia, con la scoperta dello Schwartz, nato a Gossler soltanto nel I 330, viene dìmostrato anche dal fatto che, nel « Libro delle Provvigioni i> di Firenze, è riportato un documento in data del1'I I febbraio I 325, col quale il Governo di quella Repubblica, nello stabilire le provvigioni per l'anno 1326, autorizzava i Priori delle arti ed il Gonfaloniere di giustizia, nonchè i Dodici Buoni H omini, ad incaricare una o due persone esperte della fusione di palle di ferro e d i cannoni di metallo, da impiegare poi nella d ifesa della città e <ldk terre ad essa sottoposte. Il primo autorizzato daìla Repubblica alla fusione delle palle e dei cannoni (bombarde) fu Rinaldo di Villamagna, il quale venne nominato magfrter bombardarum . Un cannone primitivo venne poi impiegato nel 1356, all'assedio di Bellangero, da Amedeo VI di Savoia, detto il Conte Verde, ed in un inventario del Comune di Bologna, in data del 2 gennaio 1397, figurano « unum sclopum parvum a cavalito; septem sclopos de ferro de quibus sunt tres a m anibus ». Infine, proprio nello stesso anno 1397, l'esercito dei Della Scala di Verona usava una rudimentale mitra-


gliatrice, di cui Giovanni Cittadella ci dà particolari tali da farla considerare come la progenitrice degli Hagelbuchse impiegati dagli Svizzeri nel 1444 contro il Delfino di Francia (poi Re Luigi XI), nella battaglia della Birsa.

Spade italiane dei secoli XV e XVI .

Ma si trattava di artigli~rie molto imperfette, spesso più pericolose per chi doveva impiegarle che per il nemico ; tanto che non godevano la fiducia degli stessi artiglieri, che se ne servirono, e sempre con qualche riluttanza, soltanto negli assed1 e non già nelle battaglie in campo aperto.


278 . Come è noto, a malgrado della fama che già circondava k bocche da fuoco di Alfonso d'Este (r), il Machiavelli non dimostrò molta fiducia nelle artiglierie e lo stesso Guicciardini lamentava il loro tiro troppo lento. Il Vasari, nelle « Vite di Giuliano e di Antonio da San Gallo>>, narra dal canto suo che Giuliano da San Gallo, alla difesa della fortezza di Lorenzo il Magnifico detta la Castellina, « veggendo gli homini star lontani dalla artiglieria e maneggiarla e cari.c aria e tirarla timidamente, si gettò su quella e l'acconciò di maniera che indi in poi a nessuno fece male ; avendo ella prima occiso molte persone le quali, nel tirarla, per poco giudizio loro, non avevano saputo far sì che nel tornare addietro non offendesse ». Ma alla riluttanza degli artiglien all'impiego delle prime bocche da fuoco ed alla sfiducia degli scrittori militari dovevano ben presto rispondere i molteplici perfezionamenti, per i quali i pezzi, distinti in cannoni, obici, mortai, falconetti, colubrine ecc. (i primi moschetti, più pesanti degli archibugi, dovettero far parte anche essi dell'artiglieria) divennero gradatamente capaci di un tiro meno lento e più preciso ed acquistarono una mobilità sempre maggiore. Le artiglierie vennero impiegate per la prima volta in campo aperto nella battaglia di Molinella da 8artoimm:o Colieoni, trainate, su affusti a ruote, da diverse coppie di buoi. Lo stesso Colleoni fece someggiare le spingarde leggere perchè _lX)tessero ovunque seguire le Fanterie. Soltanto circa venti anni dopo la morte di lui, Carlo Vllf di Francia ebbe buone artiglieri.e campali su affusti trainati da cavalli, che non si dimostrarono, però, molto efficaci nella battaglia di Fornovo. Noi non ci occuperemo, dati i particolari scopi di quest'opera, delle artiglierie e ricorderemo soltanto, in rapida sintesi, i progressi delle armi da fuoco portatili. Queste, che in principio suscitarono anch'esse l'ostilità della maggior parte dei combattenti, dati il loro tiro molto lento e poco preciso, i pericoli dell'impiego e la _lX)Ca maneggevolezza delle prime armi (2), si affermarono soltanto do.ix> avere conseguiti successivi perfezionamenti. (1) Nella battaglia di Ravenna (1512), l'artiglieria del Duca Alfonso d'Este passò rapidamente dalla destra all'estrema sinistra, dietro lo schieramento italo spagnolo, per battere di fronte e di fianco l'avanzata francese. Fu questo il primo impiego delle artiglierie campali a massa. (2) Bastava un po' di umidità per rendere gli archibugi Lemporaneamente inservibili. Frequenti erano inoltre gli inconvenienti che si verificavano nel


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79

La prima arma da fuoco _portatile dovette essere lo scoppietto, che cominciò ad usarsi nella seconda metà del Quattrocento e che era costituito, almeno al suo apparire, da un cilindro di metallo (ferro o rame), nel quale veniva inserita, come manico, una bacchetta di ferro.

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Gli scoppieui nel secolo X I V.

Per l'impiego dell'arma lo scoppettiere teneva questa bacchetta impegnata sotto l'ascella sinistra e lo sparo veniva provocato mediante l'accensione, per mezzo di una miccia tenuta a mano, della polvere caricare quelle armi. Il BRAwroM:E, nella sua opera ,, Courcnnels françois ,> ricorda che molù archibugieri restavano feriti alla guancia destra cd al naso. L'Aluosro, nel!'« Orlando Furioso » chiama l'archibugio ,e abominoso ordigno "·


da innesco, collocata in una piccola cavità, posta in corrispondenza del foro praticato nel cilindro di metallo ed attraverso il quale l'accensione si comunicava alla carica. Questa veniva collocata nel cilindro e debitamente compressa e su di essa veniva immessa la palla da lanciare. Si trattava, quindi, di armi ad avancarica, poco maneggevoli, dal tiro lento e molto incerto, dalla gittata molto limitata e c~sì pesanti che, per tenere l'arma orizzontale, rivolta verso il bersaglio.

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I primi scoppettieri.

era necessario appoggiare il cilindro metallico su un'apposita forcina piantata a terra. Più tardi, al manico, prima costituito, come già si è detto, da una bacchetta di ferro, si sostituì la cassa di legno, sagomata in modo da rendere meno incomodo il maneggio dell'arma. Poi una parte della cassa venne trasformata in calcio, che lo scoppettiere appoggiava, nell'impiegare lo scoppietto, non già alla spalla destra, ma al petto. Anche il cilindro metallico, allungandosi ed assottigliandosi, venne gradatamente trasformato in una canna, nella quale il foro per l'accensione della carica fu praticato, non più nella parte superiore; ma. per facilitare la mira, sul lato destro, in corrispondenza dello scodellino per la polvere da innescare. L'accensione di questa avveniva sem-


pre per mezzo della miccia; ma questa, invece di essere tenuta dallo stesso scoppettiere, veniva sorretta da un ordegno a scatto che la metteva a contatto con l'innesco. Il sistema di sparo fu detto, in queste armi, a serpentino. Dallo scoppietto che, per la sua imperfezione, non potè certo diffondersi negli eserciti del tempo, si passò gradatamente all'archibugio e poi al moschetto e quindi al foci/e. . L'archibugjo fu uno scoppietto alquanto perfezionato e subì anch'esso successive modificazioni che, perfezionandolo sempre più, permisero, ad esempio, . di passare dall'archibugio a miccia a quello a ruota. Esso potè quindi diffonàersi, nel corso del secolo XVI, anche negli eserciti, che poterono costituire appositi reparti di archibugie,i.

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Questi portavano a tracolla una bandoliera, alla quale erano appese le cariche di polvere già -preparate, in modo da abbreviare il tempo necessario per il caricamento. Dalla bandoliera pendeva anche il s:.ic · chetto per le palle; mentre alla cintura dell'archibugiere restav;1 impegnata la fiasca per la polvere. Dato il peso dell'archibugio, era ancora necessario, per adoperarlo, la forcina di sostegno; forcina che rimase indispensabile quando aJl'archlbugio si sostituì il moschetto, notevolmente più pesante; ma capace di un tiro meno impreciso e dì una gittata meno breve. Alla fine del secolo XVI vennero armati di moschetto reparti di moschettieri che, come era già avvenuto per gli archibugieri, costituirono quella specialità della Fanteria, alla quaie venne affidata l'azione lontana; mentre ai picchieri rimase l'azione vicina e quella di urto. Col perfezionarsi e col diffondersi delle arm i da fuoco, il n umero degli archibugieri prima e dei moschetti.eri dopo aumentò gradatamente, finchè la loro proporzione rispetto ai picchieri nelle Fanterie, da un decimo, quale c:ra in principio, finì per raggiu ngere la metà dei Fanti. Questa affermazione delle armi da fuoco portatili avvenne gradatamente e non senza la necessità di vincere la diffidenza dc:i Fanti,


diffidenza che, nel 15m, era ancora così profonda, che uno scrittore, Giacomo di Grassi, nel suo libro « Ragione di adoperare sicuramente l'arme >>, pubblicato a Venezia nello stesso anno, esalta ancora la picca come l'arma più sicura della Fanteria del tempo. « Siccome - egli scrive - la sola spada, fra tutte le armi che s.i portano a canto, è la più honorata, come quella che manco inganni riceve che niun'altra, così, tra le armi d'hasta, la picca è la più sincera, la più honorata e nobil'arma di ciascun'altra ». Dal moschetto si passò quindi al focile, detto poi fucile, nel quale l'accensione dell'innesco veniva provocata, non più per m ezzo della miccia; ma -meòiame un cane o percuotitoio, che batteva suil'innesco una pietra focaia. Fu appunto l 'uso di questa pietra che suggerì il nuovo nome dell'arma. I perfezionamenti neile armi da fuoco portatili, ai quali abbiamo sommariamente accennato, si riferiscono quasi tutti al modo di comunicare il fuoco alla polvere da innesco. Essi servirono, quindi, come I' mo di preparare !e cariche i!'! p!'ecedenza, a rendere il tiro meno lento. Contemporaneamente, aumentando la lunghezza della canna, si cercò di aumentare la gittata e, sagomando sempre meglio la cassa, si rese l'arma più maneggevole. Con l' andare del tempo fu poi gradatamente perfezionata anche la polvere da sparo, per renderla meglio atta ad imprimere alla pallottola una maggiore velocità iniziale e quindi una m aggiore forza di penetrazione. Q ualità, quest'ultima, particolarmente importante per colpire i Cavalieri, nonostante le loro armi difensive sempre più spesse e sempre più pesanti. Secondo quanto egli stesso scrisse n ella sua autobiogra.La11ce italiane fia, anche Benvenuto Ccllini fece accurate ricerche dei secoli XV e XVI. sulla proporzione più opportuna dei vari ingredienti nella composizione della polvere e nel raffinarla. Nel tentare di raggiungere questi scopi, intervennero perfino 1'astrologia e la superstizione, come dimostra lo strano consiglio che dava Buonaventura Pisto filo, il quale, nella sua « Oplomachia », pubblicata a Siena nel 1621, affermava che, << mettendo tra la palla e la _polvere il segno significante il primo e l'ultimo della luna, che sia


dominato da qualsivoglia pianeta, eccetto di Mercurio e del Sole (sic!), ma, per fare effetto maggiore, sia dominato o da Saturno o da Venere, si vedrà effetto tale, che non sarà arma difensiva che resistere poss1 )).

La diffusione delle armi da fuoco, che ormai permettevano ai Fanti di abbattere i cavalli ed i Cavalieri, indussero questi ultimi a proteggersi contro il nuovo pericolo ed a curare sempre più le loro armi difensive, che vennero completate in modo da coprire, non soltanto le parti più vitali del corpo, ma anche tutta la persona. Nel soddisfare questa nuova necessità, si distinsero gli armaiuoli italiani e specialmente i Milanesi ed i Bresciani: i primi che, per la robustezza e la bellezza dei loro elmi, cidic corazze e degli scudi, acquistarono meri tata rinomanza anche all'estero ; i secondi che fabbricavano lame e spade, non meno rinomate di quelle di Toledo. Se le armature del Quattrocento erano state semplici e non avevano sfoggiato molti ornamenti, quelle dei Cavalieri del secolo XV 0 divennero sempre più complesse e più ornate, così da costituire pregevoli opere d'arte, il cui costo aumentò in modo tale, che dette armi furono riser vate ai Principi ed ai Cavalieri più ricchi. C'erano armature da combattimento, da parata, da giostra e da duello ed in esse si poteva ammirare, non soltanto l'abilità degli armaiuoli; ma anche l'arte degli incisori e dei cesellatori, Archibugi t:d archibugieri del secolo X V . che resero gli elmi, le corazze e


gli scudi del tempo tanto pregiati. Basta visitare la Reale Armeria di Madrid, dove si possono ancora ammirare le armature di Carlo V, alcune delle quali fabbricate dai Negroni a Milano, ed anche la nostra Armeria di Torino, dove sono esposte le armi di Emanuele Filiberto di Savoia e quelle di molti altri Principi, per farsi un'idea dell'importanza e della perfezione alla quale erano per venute le opere dei fabbricanti di armi. Fra gli armaiuoli milanesi più famosi sono da ricordare i Mi~saglia, i Negroni, i Modrone ed altri. Alcuni di essi ottennero, in

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compenso della loro opera, perfino titoli nobiliari e furono ìnçaricati di approntare splendide armature :mche per Sovrani stranieri, come fece, ad esempio, nel 1435, Tomaso Missaglia per Luigi XI, Re di Francia, ed il maggiore dei Negroni per l'Imperatore Carlo V. Insieme a questi artisti, le cui opere possono ancora ammirarsi nelle nostre Armerie, è dovero~o ricordare anche i maestri addetti alle fabbriche d'armi, come ad esempio, Giovanni da Pampusa, specialista nella fabbricazione delle corazze; Giacomo da Cantano, armornm faber , Martino del Pizzo, lodato fabbricante di archibugi. Moito rinomate turono anche le fabbriche di armi di Brescia, fra le quali va specialmente ricordata, per le spade, quella di Antonio Piccinino (1) e dei suoi figli e, per le armi da fuoco , quella di Camnazzo da Gardone. (I) Antonio Piccinino, mono ottantenne nel 1589, fu definito dal Morigia come •< il primo uomo, non solo d'Italia, ma anche d•Europa, per fare una lama di spada o pugnale o coltello o qualunque arma <la tagliare, che tagliava ogni sorta di ferro >,.


Gli armaiuoli e gli spadari italiani incidevano sulle armi da essi fabbricate il loro nome od il segno del maestro od il marchio delle rispettive tibbriche e le armi potevano essere sottoposte alla prova od alla mezza prova per farne risaltare la resistenza alle diverse offese. Gli Statuti dell'arte dei corazzai e spadari fiorentini del I'F5 prescrivevano che i fabbricanti di armi fornissero ai richiedenti le armi commissionate <( talia qualia promictunt, aut mcliora »; mentre gli Statuti degli armaiuoli del 1410 ordinavano: cc quod quil ibet magister dictae artis teneatur et debeat suum signale sive suam stampam, cum quo seu qua stampat, seu signat, seu stampare vel sig n:.irc solitus est corazas, spadas et aJia arma » e, dopo avere prescri tto di depositare e di fare registrare il marchio di fabbrica, minaç.ciano per gli inadempienti onerose multe.

Dopo avere provvedute alla protezione dei Cavalieri dalle armi da fuoco, si pensò di dover proteggere anche i cavalli, con apposite barde sempre più pesanti; ma questi provvedimenti, come le compiete e troppo pesanti arm ature dei Cavalieri, non tornarono affatto

a vantaggio della Cavalleria poichè, non soltanto immobilizzarono il Cavaliere appiedato; ma fecero perdere all'Arma la sua princi pale caratteristica, che era senza dubbio queila dell'impeto e della celerit:i. Ma la complessità ed il peso delle armi difensive usate d,ilb C.:i. valleria divennero a poco a poco tali, da rendere, come già si è accennato, assai faticoso il combattere e da impacciare i movimenti del Cavaliere e del cavallo, così che le armi difensive dovettero abbandonare col tempo la gara con quelle offensive, rappresentate ormai dalle armi -da fuoco, già sufficientemente progredite. La ricerca dell'invulnerabilità aveva tolto alla Cavalleria le sue qualità caratteristiche ed il Montaigne, nei suoi « Saggi », deplora.va, a questo proposito, che: se qualche combattente restava ucciso per un difetto <leWarmatura, un numero non minore dì Cavalieri si perdeva per il peso delle proprie armi; ed affermava: e< Car il semble, à la · verité, à voir le poids des notres armes et leur espesseur, quc nous ne cherchons qu'a nous deffendre, et en sornmes plus chergéz que couverts 1>. Infatti, dopo avere invano ricercato l'incolumità nella comp!essità e nella robustezza delle armi difensive, la Cavalleria tentò di impiegare anch'essa le armi da fuoco restando in sella, e si ebbero gli archibugieri a cavallo, il cui primo impiego sembra dovuto a Gio-


vanni dalle Bande Nere, che venne poi imitato in Francia da Piero Strozzi; mentre più tardi Gustavo Adolfo di Svezia doveva cercare di disciplinare, col caracollo, la manovra dei suoi Cavalieri per impiegare le pistole (1), delle quali erano armati. Ma anche questi ten-

Archibugiere cor, ard1ibugio a nucc1a.

tativi, nonchè quelli di rinunziare a qualche parte dell'armatura, in modo da diminuirne ii peso complessivo, non ebbero un successo (1) Le pistole, inventate, come vuole b tradizione, da Camillo Vitelli da Pistoia nel 1546, erano io origine piccoli archibugi, che si diffusero specie in Francia ed in Italia, e che furono utili in particolar modo alla Cavalleria. Le usarono, ad esempio, i Raitri tedeschi e gli Stradiotti di Venezia. Soltanto nel secolo XVH le pistole furono perfezionate ed ebbero un'impugnatura a calcio.


durevole e la Fanteria con le sue armi da fuoco prevalse sempre più sul campo di battaglia; mentre, nella seconda metà del Cinquecento, la nobile arte degli armaiuoli, vanto anch'essa dell'ingegno e del lavoro italiani, cominciava a decadere.

A,chibugie, e tede,cr:t.

Poco più <ii un secolo dopo anche le picche, le alabarde e le partigiane cedettero gradatamente il posto ai fucili ed iniziarono quella decadenza che, già preannunziata dal Manesson-Mulet nel 1684 (1)> doveva divenire completa e definitiva. non appena, per l'invenzione (1) MANEsSON - MuuT: <e T raux de Mars ))' nella quale opera l'autore scriveva : (( On remarque qu'exepté dans !es combats de campagne, !es piquiers. sont fort inutiles ».


della baionetta a manico vuoto del Wauban, il fucile potè ugualmente servire come arma da fuoco e come picca. La Fanteria, che era stata la prima ad abbandonare gli scudi ed a rinunziare poi gradatamente alle altre armi difensive, divenuta ormai dominatrice del campo di battaglia, potè avere finalmente_un armamento omogeneo, che rappresentò, per la nostra Arma, un grande e sicuro progresso, poichè ne rese l'addestramento più rapido, l'impiego più efficace 'ed il coordinamento del fuoco col movimento, fino ad arrivare all'urto, assai più facile e redditizio. Se, infatti, quando la Fanteria potè essere composta tutta di fucilieri e l'azione di fuoco venne sopravalutata, essi preferirono le formazioni sottili, gli scrittori militari del secolo XVIII non tardarono a mettere in rilievo anche l'importanza dell'urlo, importanza che doveva poi essere ancor meglio dimostrata dagli impetuosi Fanti della rivoluzione.


VI.

I CONDOTTIERI ITALIANI NEI SECOLI XV E XVI Abbiamo già accennato ai progressi dell'arte militare ed all 'affermarsi della Fanteria, ed ora riteniamo opportuno ricordare i con dottieri italiani, ché maggiormente concorsern a r c~i. ttuire alla nostra Arma l'importanza di un tempo e che acquistarono, durante i secoli XV e XVI, gr;'lnde rinomanza in Italia ed ali'ester-0. Come ben a ragione affermano Vittorio Mariani e Varo Varanini (r), la rinascita dell'arte della guerra in Italia non fu dovuta soltanto alla cultura vmanistica, trionfante col Rinascimento, ali 'uso cldl:i polvere oirica ed alla diffusione delle armi da fuoco ; ma anch~ alla fama dei nostri condottieri che, per riaffermare il primato dd!a Fanteria sul campo di battaglia, dovettero aggiornarne l'armamento e conferirle la piena consapevolezza della sua nuova forza, visto che, potendo ormai comprendere nel suo schieramento, oltre gli arcieri ed i picchieri, anche gli archibugieri, la nostra Arma poteva avere più facilmente ragione della Cavalleria nemica. I condottieri italiani, anche se la strategia non poteva a1lora abbracciare campi troppo vasti, vollero, nel campo strategico, l'impiego della manovra con masse sempre più numerose, in modo da poter fare, come avevano insegnato i Romani, guerra grossa e corta; la divisione razionale delle forze nella c:lj. Partigiana. fesa e nell'offesa; più celere il movimento degli eserciti; meno embrionale l'organizzazione <lei servizi logistici. Essi conobbero, inoltre, l'arte ossidionale e lo sviluppo (1) 20

~ faRIAN I e VA.RANINI :

<<

Condottieri italiani in Germania )).


della controvallazione, per abbreviare gli assedi e per creare un fronte esterno trincerato, che permettesse agli assedianti di fronteggiare le sortite dei presid1 delle piazze forti. Nel campo tattico, nel quale particolarmente si distinsero, i nostri capitani resero più razionale l'impiego della Fanteria e della Cavalleria e curarono quello dell'Artiglieria in campo aperto ed in appoggio della Fanteria. Quale Unità tattica della Fanteria, preferirono un battaglione di circa 500 uomini, capace di una certa autonomia, e considerarono la Cavalleria come particolarmente adatta a formare una massa d'urto sul fianco ed a tergo del nemico, a provocare l'avversario, a proteggere i ripiegamenti ed all'esplorazione. Nella castramentazione e nella fortificazione gli architetti militari italia11i, chiamati anche presso i più importanti Stati stranieri, sostituirono ai castelli ed alle città murate del medio evo le cinte poligonali, protette dai larghi fossati e rese sempre più forti dalle torri angolari e dai bastioni. Per la controvallazione fu adottato l'attacco alla zappa, scavando trincee di approccio con camminamenti a zig-zag per l'avanzata delle truppe alla distanza di assalto e si usarono batterie alte, dalle quali le artiglierie [X)tessero meglio colpire le mura ed i hastioni <'. rivolgere il fuoco, col tiro curvo, anche sugli edifici interni delle piazzeforti. Agli Italiani per primi si dovette l'uso dei gabbioni nel rivestimC'n to e nel rafforz..amento delle trincee e per i! gittamento dei ponti sui corsi d'acqua. Tutto ciò conferì ai condottieri italiani del secolo XV e del secolo XVI una superiorità tecnica, alla quale si aggiungeva un'arte di comando più opportuna ed efficace. Colti e profondi psicologi, essi non videro nei soldati arruolati o mercc:narl degli automi ; ma esseri pensanti, soggetti a tutte le passioni e quindi da trattare con una disciplina basata sulla persuasione, da elevare moralmente e da tenere uniti coll'ascendente e coll'esempio dei Capi.

Dopo aver accennato alle benemerenze dei condottieri italiani dei secoli XV e XVI, reputiamo opportuno ricordare i più importanti, servendoci dell'opera del Mariani e del Varanini ed avvertendo i lc:ttori che il nostro non è e non può essere un elenco completo, dato il numero dei nostri compatrioti che si distinsero nell'arte della guerra, sia in Italia che all'estero. Fra essi ricordiamo: i Duchi di Savoia,


Bortolomeo Colleont.



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i Medici, i Gonzaga, i ·Marchesi di Monferrato, gli Estensi, i Farnese, i O>lonna, i quali tutti dimostrarono che, anche mentre la nostra Patria era discorde e divisa e stava per soggiacere al dominio straniero, in Italia non si erano affatto spenti il culto per le glorie militari e la passione per le armi .

Erasmo Gattamelata (1370-1443). Figlio di un fornaio di Narni, si iniziò alla scuola di Braccio da Montone e con lui combattè in Umbria, a Napoli ed in Puglia ; fu poi per breve tempo con Niccolò Piccinina; quindi, dopo essere stato agli ordini di Papa Martino V ed averne riordinato le truppe, accettò di passare agli stipendi di Venezia, di cui fu valoroso capitano gr-nerale fino al gennaio 1443, anno nel quale morì per malattia in Padova. lvi egli fu solennemente sepolto nella Chiesa del Santo e sulla sua tomba furono incisi i seguenti versi, dettati da ignoto autore: Gattamelata fui, d'alto valore Chiaro guerriero e i/lu;tre capitano: It sangue mio non f u di grande honore; Et nacqui in Narni as.cai dimesso e piano : Ma sorte hebbi io ben mollo maggiore, C/1e generai mi elesse Vinitiano, Et quel nobil Senato e la mia fede, M 'ornò di questa statua, che si vede.

Bartolomeo Colleoni (1400-1475). Valoroso e fortunato condottiero, crebbe alla scuola di Braccio da Montone ; fu ripetutamente al servizio deiie principaìi Signorìe d'Italia e, più a lungo, di quella di Milano e della Repubblica di Venezia. Fra le numerose sue vittorie - per cui passò alla Storia con l'appellativo di inuincibile - rimase celebre la sconfitta che egli, il 18 ottobre 1447, inflisse a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, alle truppe di Rinaldo di Bresnay, luogotenente di quel Duca d'Orléans che, per essere figlio di Valentina Visconti, aspirava al possesso della Lombardia. I Francesi, che si vantavano di essere i migliori soldati d'Europa, furono in quella giornata ripetutamente sbaragliati;


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il loro stesso comandante, Rinaldo di Bresnay, cadde prigione del condottiero italiano. Lo stesso avvenne alla Sesia (1448). Di Bartolomeo Colleoni va ricordato il nobilissimo testamento politico, pronunciato in punto di morte ai Commissari della ,, Serenissima >>, recatisi a visitarlo: (< Consigliate la Repubblica che non affidi mai ad alcun altro Capitano l'ampiezza dei poteri che a me ha conceduto ». Egli ebbe fama europea. Un Re, Cristiano di Danimarca, volle rendergli omaggi<' con una visita al castello di Malpaga, ove il Colleoni si trasse da vecchio a vita privata. Succeduto a Carlo VII di Francia Luigi XI, il Duca di Borgogna, Carlo il T emerario, chiamò il Colleoni al comando dell'esercito borgognone. Diceva il Duca: « Se avrò da D io la grazia di vedere generale delle mie truppe messer Bartolomeo, fo voto di non vergognarmi di servire sotto di lui come gregario. Imparerò almeno dagli Italiani l'arte della guerra ».

Francesco Bussone detto il Carmagnola (1380?-1432). N ato da famiglia modesta, servì sotto la guida di Facino Cane cd aiutò Filippo Maria Visconti nella ricostruzione del suo Stato, acquistando grande fama con le vittorie di Monte Chiari, di Arbcdo, di Brescia e di Genova. Egli ottenne dal Visconti feudi cd onori ; ma venne lasciato in disparte in occasione dell a guerra contro Firenze (1423). Egli chiese allora il congedo dai Visconti, per servire, come Capitano generale, la Repubblica di Venezia, a favore della quale vinse nel 1427 la battaglia di Maclodio. Chiesto nel 1429 invano il congedo, partecipò alla nuova guerra così fiaccamente, da indurre il Senato veneziano a dubitare della sua fedeltà ed a farlo decapitare il 7 aprile 1432.

Francesco Sforza (1401-1466). Nato a S. Miniato in Valdarno, divise col padre le fatiche di guerra fin dall'età di quindici anni ed a venti era già noto fra gli uomini d'arme, per l'abilità ed il coraggio dimostrati nell'alto Lazio, più volte battendo Tartaglia da Lavello, ottimo collaboratore di


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Braccio da Montone, ndla campagna di quest'ultimo contro il Papa e contro Giovanna d'Angiò. Polissena Ruffo, di nobile e ricca famiglia calabrese, invaghitasi di lui, lo spesò in Napoli verso il 1422 e gli portò in dote 150.000 scudi d'oro. Il giovane collocò la somma a buon frutto, aumentando le forze del padre Muzio Attendalo, che potè impunemente rispondere a Giovanni Caracciolo, amante e favorito di Giovanna d 'Angiò, il quale lo aveva fatto cadere in disgrazia e lo trattava da marrano: « Con la marra son diventato più nobile io che non tu per le grazie di una femmina». Rialzate le sorti di Muzio Attendalo, che riebbe la fiducia di Giovanna d'Angiò, Francesco ereditò il comando delle truppe sforzesche per la morte dd padre, annegato nel .guadare I' Akrnu so llo Chieti, durante quella campagna del 1424 che fu fatale anche a Braccio da Monto.ne. Dopo la vittoria di Aquila su questo, Francesco fu chiamato da Filippo Maria Visconti a difesa del Ducato di Milano e tenne in pugno il suo destino, abilmente sottraendosi alle arti di quel Principe. Memorabili furono le sue combinazioni guerresche al servi1.io dei Vc.iczi;;.r..i, contro N ic:::d ?: P icc:r:.ino, che gli tenne !e~t::!. d2 p::ir ~"" Francesco Sforza sposò in seconde nozze Bianca, figlia naturale di Filippo Maria Visconti, e successe a questo nel Ducato di Milano , che difese <.:a ntro quasi tutta l'Europa coalizzata, sapientemente ma · novrando per linee interne sul terreno pianeggiante della Lombardia, con le me celeri Fanterie, parte trasportate su carri appositamenLe fatti costruire, parte montate in modo da conferire alle sue manovre la celerità necessaria e da ottenere dovunque la superiorità delle forze rispetto agli eserciti nemici. Soltanto nel 1453, dopo più di due anni di dura lotta, egli potè dedicarsi al governo del Ducato e lo fece da Principe illuminato e benefico, chiamando i suoi sudditi ad una maggiore attività e dando prova, durante i suoi sedici anni di regno, di inteìligente mecenali~mo. Francesco Sforza morì nel 1466.

Federico da Montefeltro Duca d'Urbino (1442-1482). Noto come uno dei migliori capitani del suo tempo, emulo del Gattamelata, dello Sforza e del Malatesta, diresse azioni d1 guerra in tutta la penisola, dando lustro alle armi ed alle istituzioni militari


d' Italia. Protesse le arti e le lettere; la sua Corte fu famosa per signorile ospitalità. Fu il primo condottiero che organizzò, per il vettovagliamento, un servizio regolare~al seguito -òdl'esèrcito (requisizione pagata e trasporto delle derrate), ed un servizio sanitario con carri-ambulanza. Per questo non si può disconoscere che Federico da Montefeltro comprese l'importanza dei servizi logistici; mentre in tutta l'Europa le soldatesche vivevano ancora con le prede ed i soldati ammalati o feriti venivano abbandonati più alla vendetta che alla pietà del nemico.

Gian Giacomo Trivulzio (1441-1518). Seguace della scuola di Francesco Sforza, il Trivulzio contribuì efficacemente a dare valore alle Fanterie svizzere. Apprezzate le energie morali, che avevano trasformato i pacifici alpigiani nei Fanti più rinomati dell'epoca, egli ne perfezionò l'armamento e le ordinanze, che dettero la massima prova della loro efficienza nella battaglia di Marignano o Melegnano (1515). Il Collconi e Gian Giacomo Trivulzio furono i due primi gra11<li condottieri italiani. che portarono all'estero la loro arte e la loro competenza. Infatti, il CoJleoni fu chiamato, come abbiamo già detto, al Ji là delle Alpi da Carlo il Temerario, Duca di Borgogna; il Trivulzio fu al servizio dei Re di Francia. Egli nacque a Milano da nobile famiglia. A ventidue anni, morto Francesco Sforza, il successore di questo, Ludovico il Moro, lo mandò a capo delle truppe lombarde inviate in aiuto di Luigi XI contro i Borgognoni. Il giovane capitano riorganizzò le Fanterie svizzere al servizio di quel Re e ne introdusse le ordinanze nelle Fanterie da lui assol. date; Fanterie, con le quali, rientrato in Italia, servì i Medici di Fin:m.e eò il Marchese di Monferrato. Poi riordinò le Fanterie aragonesi del Reame di Napoli, da dove seguì Carlo VIII nella ritirata in Francia e, se non partecipò, assistette alla battaglia di Fornovo. Nominato maresciallo di Francia da Luigi XII, successore di Carlo VIII, scese nel 1499 in Italia, occupò la Lombardia e venne insignito del titolo di governatore di Milano, le cui truppe portò alla vittoria di Agnadello (1508) contro i Veneziani, condotti da Bartolomeo d'Alviano. Tornò nell'anno 1515 con i Francesi in Lombardia e battè gli Svizzeri .di Massimiliano Sforza a Marignano. Chiese per sè


Federico da Mcmefeltrc, Duca di Urbino.



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il Ducato di Milano, che Luigi XII voleva, invece, aggregare alla Francia. Gian Giacomo Trivulzio si recò allora in. F rancia per protestare ed imporre la sua volontà; ma Francesco I, salito al trono dopn la morte di Luigi XII, lo minacciò di prigionia e di morte. U Trivulzio si ritirò allora a Chartres, dove mod nel 1518.

Alfonso d'Este (1476-1534). Signore di Ferrara ed uno dei migliori capitani del suo tempo, Alfonso d'Este aveva perfezionato mirabilmente l'arte di fondere i cannoni e la sua Artiglieria era giustamente celebre .in tutta l'Europa. Egli fu il primo ad impiegare le bocche da fuoco a massa e viene considerato come il padre dell'Artiglieria italiana e come uno Jei fondatori di quella tradizione artiglieresca, che è una gloria del nostro esercito.

Marcantonio Colonna (1535-1584 ). Altro illustre membro della principesca famiglia romana dei r.n. lonna, iniziatosi ancor giovane al mestiere delle armi, Marcantonio divenne in breve degno di essere posto fra i più grandi Capitani del suo tempo. Brillante comandante di Cavalleria a 22 anni , egli passò di successo in successo, sino ad acquisti.re gloria anche sul mare, guidando a Lepanto le galere italiane contro i Turchi.

Giovanni de' Medici (1498-1526). Il 30 dicembre 1526, in segaito a grave ferita riportata combattendo al ponte di Borgoforte sul Po, moriva Giovanni de' Medici, c-clebre capitano di ventura e condottiero delle « Bande Nere)), dette così per il lutto che avevano assunto i soldati in occasione della .morte di Papa Leone X (1521). Egli morì appena ventisettenne ; ma già molto noto per il suo coraggio e la sua perizia di valente capitano. Cosi scrisse di lui Paolo Giovio:


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« Si- -possono appena e:omprendere in un volume le cose da lui fatte con incredibile fortezza di animo, le infinite battaglie vinte e le terre valorosamente prese per forza. Combattendo coi Francesi, sotto gli occhi dei nemici, passò l'Adda, dove con l'ardir suo mise in fuga la gente d'arme fr~ncese. Nel contado di Bergamo animosamente ributtò e ruppe le schiere de' Grigioni. Gli Svizzeri avevano crudelmente ammazzato alcuni vaiorosi uomini d'arme della sua Banda, ed egli ne fece vendetta, tagliando a pezzi l'armata ·svizzera: a Corso. « Gagliardissimamente raffrenò e castigò l'ardire degli Spagnolì, prima a P.wia, e poi, molte volte, sulle porte di Milano. Insomma non v'era nessuno che con maggiore prestezza di lui sapesse dar di mano all'armi, che fosse più risvegliato e più pronto a osservare i movimenti dell'oste; nessuno che con maggior violenza assaltasse i nemici, nè che più ostinatamente seguitasse la vittoria. Egli era veramente nato per mettere in libertà l'Italia, cacciandone fuori lo straniero, se ciò fosse stato volontà di D io >> .

Prospero Colon na (1442-1523). Nato nel 1442, discendente dalla insigne famigiia patrizia romana dei Conti di Tuscolo, Prospero iniziò la sua vita militare partecipa ndo alle fazioni che straziavano Roma. La lotta fra la sua famiglia e quella degli Orsini per il predominio sulla città rientrava in quella fra i Guelfi ed i Ghibellini ed, essendo i Colo nna ghibellini (1), non apparirà strano se, dati i tempi, Prospero venne bandito da Roma dal Papa Sisto IV. Il Pontefice concesse i feudi confiscati al Colonn:i a Girolamo Riario, suo nipote, ma Prospero, datosi alla campagna, difese disperatamente, con pochi amici, i suoi beni fino a quando fu costretto ad assumere servi zio nell'esercito aragonese, nel quale già si erano segnalati alcuni suoi parenti e specialmente il ( 1) l Colonna vantano molti valenti condottieri. Il primo scrittore di cose 1Y1i!it:iri àopo gli antichi fu un c:irdinale : Egidio Colonna, consigliere militare di Filippo il Bello dì Francia (sec. XIII). I Colonna abbracciarono la causa imperi:ilc ndla lotta per le investiture, che culminò io quella fra Enrico IV ed il Papa Gregorio VII (1ldeb,ando da Soana) e portò alla distruzione della r i11à di Tuscolo, ai piedi della quale sorse l'odierna Frascati. F edeli agli Hohcn~taufcn, combatterono sotto Manfredi e, secondo la tradizione popalare romana, un Guglielmo dell3 Colonna sarebbe emigrato in Germania dopo la rotta di tk 1H' \('l1l<o.


30 l Principe Fabrizio, suo cugino e maestro, ed al quale il Machiavelli attribuisce i suggerimenti riportati nel!' « Arte della guerra » . Nella lotta provocata in Italia dalle ambizioni di Cesare Borgia. Prospero Colonna cadde prigioniero e si salvò dalla morte evadendo da Castel Sant'Angelo. Ottenuto allora un comando nell'esercito di F erdinando il Cattolico, Signore del Reame di Napoli, contribuì col suo valore alla

Prospero Colonna.

vittoria riportata al Garigliano, sui Francesi comandati dal Lautrec, da Consalvo de Cordoba e da Bartolomeo d'Alviano (1), cui cedette il capitanato generale delle milizie veneziane, offertogli dopo quella campagna (1503). Scortò poi Cesare Bo.rgia prigioniero in Spagna, dove fu trattenuto da Ferdinando il Cattolico, per il riordinamento <lellc Fanterie spagnole, le quali, già molto apprezzate per le loro tradi?.ioni, miglio(1) A questo condottiero italiano (1455 · 1515), più che allo stesso Consalvo dc Cordoba, al L:mtrcc c:d al cardinale d'Amboisc, viene attribuita la sconfitta dei Francesi al Garigliano. Le imprese pin notevoli di lui furono le campagne in montagna (Val d'Adige e Cadore), condotte per la Repubblica di Venezia contro l'Impcr:itorc Massimiliano. Battuto ad Agnadello dai Francesi, si trovò di nuovo contro di essi a Marignano e poco dopo morl di malattia a Bergamo, durante un'ultima campagna contro gli Imperiali.


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rarono con l'uniformità dell'armamento e con gli ordinamenti suggeriti da Prospero Colonna. Nel 1513 questi comandò le forze italo-spagnole in Lombardia e sconfisse il Lautrec nella battaglia dell'Olmo; ma, nella successiva campagna (1514), fu sorpreso e fatto prigioniero dai Francesi a Villafranca Piemonte. Riacquistò la libertà soltanto nel 1516 e Carlo X d'Asburgo, succeduto sul trono di Spagna a Ferdinando il Cattolico, gli affidò la presa di possesso del Reame di Napoli (1517), dove erano insorti malumori e disordini, in quanto la maggior parte dei Baroni temeva la politica accentratrice del nuovo Sovrano. Prospero Colonna spiegò, in questa circostanza, ammirevole tatto e, dal punto di vista militare, lasciò ai Baroni il diritto di levare e condurre proprie soldatesche; ma volle esigere che i reggimenti dei vari Signori, pur conservandone il nome e le insegne, fossero ordinati come i terci spagnoli. Ne seguì quell'armonica fusione, per la quale le Fanterie italiane divennero, accanto a quelle iberiche, le migliori d'Europa. Benchè settantenne, il Colonna assunse ancora il comando dell'esercito italo - spagnolo in Lombardia nella campagna del 1522 - 23, <:ontro i due grossi eserciti frar.cesi dd Bonnivct e del Lautrec (1), il primo dei quali puntava su Genova ed il secondo su Pavia, per la sinistra del Po. Con rapida intuizione, il generale italiano distaccò il Marchese di Pescara, genero di suo cugino Fabrizio, per tenere a bada il Lautrec nel triangolo Lodi - Cremona - Pavia, seguì la sinistra dell'Adda, passò il fiume a Vaprio e sopraffece il presidio di Milano, che non potè essere vaiidamente soccorso dal comandante avversario, da lui fermato e battuto alla Bicocca di Monza. Ncdla battaglia il vecclùo Colonna venne ferito, ma, noncurante della sua salute, lasciato di nuovo il Pescara contro il Lautrec, passò rapidamente il Ticino e, raggiunto il Bonnivet a Genova, lo scon.fisst sotto le mura della città, liberando questa dall'assedio francese. Tornato, subito dopo, a 1viì1ano, si dette aìfordinamento ed aila istruzione delle nuove truppe, che dovevano poi, nel 1525, partecipare alla vittoria di Pavia. (1) Odetto di Lautrec, visconte di Foix (1485 - 1528), fu ·onnipresente nelle campagne d'Italia di Luigi XII e di Francesco I di Francia. Assai più abile del Bonnivet che, nella battaglia di Pavia, pagò con la morte il consiglio di ingaggiarla a tutti i costi, assistette passivo al combattimento. Morì di peste all'assedio di Napoli.


Benchè logorato dalle fatiche e dalle sofferenze che gli procurava la ferita riportata alla Bicocca, Prospero Colonna visitava ancora in lettiga i lavori di fortificazione, gli accampamenti e le piazze d'armi, quando, nel dicembre del 1523, fu costretto al letto, per morire pochi giorni dopo. 11 suo nome venne reso popolare in Italia anche dal romanzo di Massimo d'Azeglio « Ettore Fieramosca », nel quale la figura del grande soldato emerge per le istruzioni date ai tredici campioni italiani che, nella disfida di Barletta (1503), umiliarono la presunzione dei campioni francesi.


VII.

LE FANTERIE NELLE MILIZIE DEI DIVERSI STATI IT ALIANl Abbiamo procurato di esporre, sia pure sinteticamente, le cause alle quali si dovette la decadenza delle milizie comunali, che, pur venenJo sostituite da quelle mercenarie e dalle compagnie di ventura, non furono del tutto abolite; ma perdettero a poco a poco ogrù effi. cienza durante i secoli XIV e XV. Tuttavia il buon seme non andò del tutto perduto ed, ancl;ie nel secolo XV, presso i diversi Stati italiani, si ebbero Fanterie, che nel loro ordinamento ricordavano quelle del glorioso periodo comunale. Come abbiamo già accennato, gli eserciti dell'evo moderno, se mobilitati per grandi imprese, erano costituiti da mercenari, rotti alle fatiche della guerra ed a questa tecn icamente preparati, e da sudditi obbligati al servizio militare per far parte delle truppe di complemento. In questi eserciti le Fanterie tendevano sempre più a prevalere per quantità e per qualità, specialmente nelle formazioni miliziane, per quanto i cittadini, per non venire distratti, durante la pace, dalle loro normali attività, non potessero dedicare all'addestramento che poche ore, nella loro stessa residenza e nei soli giorni festivi. Quei miliziani non erano, dunque, soldati molto atti ad una guerra lunga ed in paesi lontani; ma erano animati da una somma di energie spirituali notevole che, integrandosi éon il rozzo spirito di casta dei mercenari, poteva portare ad un alto rendimento. Le truppe miliziane non potevano essere composte che di soli Fanti, poichè la Fanteria richiedeva meno tempo per l'addestramento e, più delle altre Armi logorandosi per le fatiche della guerra e per le stragi delle battaglie, aveva bisogno, per riempire i vuoti, dì sempre nuovi elementi, che il mercenariato non avrebbe potuto fornire tempestivamente. Fanterie come quelle svizzere non potevano sorgere in Italia, dove mancava una situazione politica, che potesse incitare le masse popolari, ancora incapaci - per il ricordo vivo ed operante delle vi-


ce.ode comunali e per le gelosie fra le Signorìe ed i Principati succeduti ai liberi Comuni - di accogliere l'idea e di comprendere la necessità dell' unità e dell'indipendenza nazionale:. Presso i piccoli Stati, nei quali si divideva allora l'Italia, non sarebbe stato, del resto, possibile disporre dei mezzi per arruolare ed armare un gran numero d'uomini. Tuttavia qualche affermazione del sentimento patriottico italiano potè effettuarsi, specialmente di fronte agli stranieri. Il Tiepolo, in una delle sue Relazioni sulle Ambascerie Venete raccolte ad opera del Molmenti, riferendosi all'anno 1532, scriveva degli eserciti che allora scorazza vano per l'Italia: « Un esercito in Italia di Fanti eletti, veterani ed esercitati in tutte le guerre passate che, tra Sicilia, Regno di Napoii e Lombardia, non sono forse meno dì 10.000. Questo veramente è il nerbo di tutte le forze dell'Imperatore:... e poi, venendo qualche bisogno più grande, si può, con le entrate straordinarie, tanto così accre~cere, che nessuno è al presente, ch'io mi sappia, dei Principi e Stati cristiani che per sè solo si abbia o possa averne maggiore )) . Vi erano, dunque, ai tempi di Carlo V, anche reparti di Fanteria mercenaria italiana che, faccn_d o parte del grande esercite imperiale, dovevano essere stati istruiti e preparati come gli altri; ma tra i quali non poteva ancora affermarsi uno spirito nazionale. Scriveva, infatti, nel 1533, un altro ambasciatore veneto: <, E' la Fanteria italiana animosa e ardita, m a superba e dissubbidiente e sopratutto male trattata dalli suoi capitani: per il che, essendo stata costretta molte fiate ad ammutinarsi e a cercare padrone nuovo a più oneste condizioni, ne ha avuto infamia ». I tempi tanto calamitosi per l'Italia, la prepotenza e l'incuria dei Quadri senza cultura e senza coscienza, il bisogno del pane, il desiderio sempre più vivo di più oneste condizioni, influivano, senza dubbio, ad impedire alle Fanterie italiane di dimostrare tutto il loro valore.

Per quanto riguarda gli Stati italiani, anch'essi fecero assegnamento sul mercenariato, istituzione preferita in ogni tempo dai regimi assoluti che ne reggevano le sorti; i più ricchi anche arruolando elementi stranieri, specialmente Svizzeri; i più poveri ingaggiando mercenari italiani. Gli uni e gli altri poi, potendo disporre di un erario limitato, ben presto dovettero chiamare al servizio militare: i 21


loro stessi sudditi, per avere, durante le crisi più gravi, tutti gli uomiri indispensabili. Necessità, questa, che, comune a tutti gli Stati, fu più sentita in Italia, dove finirono per prevalere le milizie nazionali, in massima parte costituite da Fanti. Per conseguenza, per rievocare i fasti delle Fanterie italiane della Storia moderna, bisogna ricordare le diverse milizie: sforzesche, venete, toscane, sabaude, farnesiane, alcune delle quali finirono per avere nobili tradizioni e per costituire le formazioni iniziali di alcuni reggimenti della nostra Fanteria. Quando, alla fine del secolo XV, Carlo VIII, Re di Francia, chiamato da Lodo.vico il Moro, scese in Italia ed il 22 febbraio 1495 entrò jn Napoli, togliendola agli Aragonesi, gli Italiani, comprendendo come. non soltanto l'indipendenza del Napoletano fosse andata perduta, ma venisse minacciata anche quella di tutti gli Stati italiani, costituirono la « Lega italica >>. L 'esercito della Lega italica fu approntato essenzialmente con arruolamenti di mercenari da parte degli Stati che ·ne fecero parte ; fu, quindi, un esercito tecnicamente e spiritualmente poco omogeneo; ma che comur>que non venne meno al suo compito. Carlo VIIl, compreso il pericolo imposto dalle troppo lunghe ed insicure linee di comunicazione con la Francia, iniziò il suo ritorno in patria, evitò Firenze dall'ingrato ricordo ed a Fornovo incontrò gli armati della Lega (6 luglio 1495). I Francesi avrebbero voluto proseguire la loro marcia verso la Francia senza combattere; ma Francesco Gon.zaga, comandante le truppe della Lega, che era sulla destra del Taro, nei pressi di Fornovo, decise di passare il fiume per piombare sul fianco destro dei nemici che marciavano in un'unica colonna, preceduta dagli esploratori a cavallo. La colonna francese era così disposta: avanguardia in grosso battaglione quadrato, preceduto dall'Artiglieria leggera e fiancheggiato da balestrieri e da ar.:ieri ; dietro l'avanguardia il grosso con le artiglierie pesanti e, 250 passi più indietro, la retroguardia, costituita dalla parte migliore della Cavalleria francese. Furono i 5.000 Fanti della Lega, in unione con pochi Cavalieri stradiotti di Venezia, che costituirono la massa di manovra che decise le sorti di quella giornata a favore degli Italiani. Mentre ·i Francesi marciavano lungo la sinistra del Taro, gli Italiani guadarono il fiume ed attaccarono il nemico, penetrando tra l'avanguardia ed il grosso del suo esercito. L'impeto delle milizie italiane scompaginò le schiere fran-


11 , ,

e la battaglia sarebbe finita con un disastro per l'invasore, se i

1111~tri non fossero stati attratti dal ricco bottino.

Le nostre Fanterie, prive del sostegno morale d'una grande Pala quale combattere colla piena consapevolezza deda conseguire; spesso agli ordini di Governi diversi, non 1~11cvano venire molto apprezzate, mentre l'impiego delle armi da 1110<;0 rendeva il combattimento più complesso e quindi l'addestra111cnto delle Fanterie più necessario, il coordinamento fra l'azione clr 1 picchieri e quella degli archibugieri meno facile, le formazioni 1.11t1che e le trasformazioni meno semplici.

1, w comune, per

H'' scopi

Anche allora la Fanteria risentiva, più di ogni altra Arma, delle q11:ùità che caratterizzavano gli abitanti del paese, donde esse erano 11 :tllc, « perchè la terra... simili a sè gli abitator prnduce », come 'l rissc il Tasso, sino a rappresentare l'espressione più genuina delle , r .il i possibilità di quel paese per una determinata g uerra. Se, nei primi tre secoli della Storia moderna, non si può ancora p,1riarc di una partccipa~ionc:: Jdle m:.s;c popo!ari alb ·:it:i poiiticn r ~ociale dello Stato, non è lecito dimenticare l'esistenza di altri vine oli, di altri sentimenti, di altre neq:ssità che potevano incitare gli .1111mi a nobili imprese. Tali efficaci tonici erano una secolare tracli1ione di devoto attaccamento ad alcune dinastie; il ricordo di un p:issato di prosperità e di gloria, tale da non potersi dimenticare da! popolo (Venezia, Genova); innati sensi di libertà sopravvissuti alle tcssate fortune comunali (Firenze, Siena) e la cui efficacia viene anche dimostrata dal fatto che, dove e quando mancarono questi fattori di energie spirituali, come nella Toscana sotto i Medici e nello Stato pontificio, si dovette sempre notaie la mancanza di buone Fanterie. r er conseguenza, nel rievocare le Fanterie liguri, lombarde, sabaude, venete, farnesiane, fiorentine, noi constateremo fra dì esse differenze sempre più notevoli, man mano che ci allontaneremo dal- secolo XVI per arrivare al nostro Risorgimento. Circostanza, questa, che non potrà del tutto sorprendere i nostri lettori, qualora si ricordi il grande conflitto tra gli Asburgo ed i Borboru pel dominio dell'Europa Occidentale e per un Impero, che avrebbe potuto divenire tedesco o latino, a seconda che avessero finito col prevalere i primi od i secondi; conflitto inasprito nel Seicento dal fattore religioso, a seguito della riforma luterana, sorta contro la ci-


viltà latino . cattolica, e poi fortunatamente concluso nel 1648, col trattato di Westfalia, che sancì il principio dell'equilibrio europeo. Gli Asburgo erano divenuti i tradizionali Imperatori del Sacro Romano Impero; nonchè i titolari delle Corone di Vienna e di Madrid, riunite con Carlo V e, dopo gli accordi di Vaucelles del 1556, attribuite a due rami della stessa dinastia. Per conseguenza, la Francia borbonica, stretta tra gli Asburgo dì Germania sul Reno e quelli di Madrid sui Pirenei, avrebbe potuto

Moschettiere del secolo XVI.

essere presa in una stretta mortale, se gli Asburgo, direttamente od indirettamente, si fossero affacciati anche sulle Alpi occidentali, visto che la principale via di comunicazione tra Vienna e Madrid passava per l'Alta Italia. Questo dimostra come il prevalere in Italia, e specialmente sul Ducato di Milano, delle forze degli Asburgo o di quelle dei Re di Francia rappresentasse per entrambi i contendenti uno scopo di grande importanza politico - militare. Le comunicazioni più brevi e più sicure fra Vienna e Madrid erano, infatti, quelle passanti per l'Inn, il Brennero, lo Stelvio, la


Valtellina, il Ducato di Mjlano, il Monferrato, il territorio della Repubblica genovese, poichè le vie del Friuli e del Trentino portavano a dover passare per il territorio della Repubblica di S. Marco, lo Stato italiano più forte d'allora, che poteva opporsi - come si opp<>se ---' al passaggio per le sue terre degli Imperiali. Dato quanto sopra, era inevitabile che il Piemonte, Genova, Milano e Venezia venissero investiti dalle successive guerre per il predominio europeo, alle quali dovettero partecipare, tanto per evitarne i danni, quanto per trarne possibilmente con.creti vantaggi; m entre gli Stati dell'Ital ia centrale e meridionale potevano con m inor danno non parteciparvi. A queste evidenti conseg uenze della posizione geografica dei diversi Stati italiani si aggiungevano gli effetti delle differenti situazioni politiche d'ogni singolo Stato, ie tradizioni m ilitari à i ciascuno d i essi, i loro contrasti e le loro gelosie, le differenti caratteristiche del l;:i loro gente.

Premesso quanto sopra, dedichiamo soltanto qualche periodo agli Stati che meno interessano !'argomcNo da noi trattato, pi:-r e~;1tl' inare quindi successivamente le milizie di Genova, di Milano, di Venezia, del Ducato di Parma e Piacenza, della Toscana ed, infii1e, le Fantc:rie Sabaude, le quali ebbero un'organizzazione più salda e più durevole e maggiormente influirono sulla Storia futura della nostra Patria. Così ricorderemo che a M odena ed a Ferrara Alfonso II d'Este promosse una milizia nazionale, con un numero complessivo di inscritti pari a 27.000 uomini, dei quali, però, non potevano venire ar mati che 10.000. Una milizia venne istituita anche dai Gonzaga nel Monferrato e nel Ducato di Mantova. Quando Parma, Piacenza e Guastai.la, sottratte ai domin1 della Chiesa da Paolo III F arnese per dare potenza e lustro alla sua CasJ, costituirono un piccolo Stato, questo acquistò una certa rinomanza militare per merito di Alessandro Farnese, grande condottiero italiano, affermatosi specialmente nelle Fiandre. Benchè le istituzioni militari di questo piccolo Stato non potessero conseguire tutti i passibili sviluppi, per il rapido declino dei Farnese, le milizie di Parma e Piacenza, imitazione di quelle Sabaude, ebbero una certa importanza e noi ne tratteremo in modo meno sommario, in uno dei capitoli seguenti.


Le milizie dello Stato Pontificio. Lo Stato Pontificio volle anch'esso provvedere in modo anaiogo alle istituzioni militari e Paolo IV passò in rassegna oltre 3.000 uomini che, coll'andar del tempo, raggiunsero il numero di 80.000 inscritti, tanto che, nel secolo XVII, il Papa poteva armare 60.000 Fanti. Tali milizie non ebbero, però, una grande efficienza e, per quanto riguarda lo Stato della Chiesa, dobbiamo limitarci a ricordare la Scuola d'artiglieria istituita da Papa Clemente VIII, l'Armeria vaticana ed i modesti tentativi fatti in Umbria per formare milizie locali, del tipo di quelle sabaude. Secondo quanto scrisse Ottorino Montenovesi (1), l'esercito dello Stato Pontiiicio ebbe le sue prime origini nel secolo VIII, quando cioè il potere temporale della Chiesa si costituì gradatamente, specie sotto i Papi Gregorio Il (7r5 - 731) e Adriano I (7i2 -795). Si ebbe allora il Magister mìlitum; ma, per trovare un primo nucleo di forze annate, come lo intendiamo oggi, bisogna giungere al pontificato di Innocenzo VIII (1484 - 1492), che istituì i Cavalleggeri o guardie del corpo, e poi a quelli di Sisto V (1585- 1590) che alla Marina e alla milizia volle presiedesse una con!!reirazione di Cardinali. e di Clemente VIII ( 1592:1605), che fondò in ~Ca;tel Sant'Angelo una scuola di Artiglieria. Altri Papi, e cioè Paolo V (1605 - 1621) e Urbano VIII (1623 - 1644), preceduti dallo stesso Sisto V, costituirono nel Vaticano la celebre armeria. Inoltre, nel 1716, ebbe vita, a Bologna, una Scuola di arte militare per iniziativa di Clemente XI (1700 - 1721). La forza militare dello Stato Pontificio venne stabilita in modo preciso nel 1740, da Benedetto XIV ( 1740 - 1758) che la pose alle dipendenze del Monsignore Maggiordomo, del Commissario delle Armi, del T esorierc Generale;, e del Segretario della Gmgregazionc di Consulta. Il Commissario delle Armi aveva alle sue dipendenze un ufficiale generale per Roma e governatori delle armi per le Provincie; il grosso della truppa comprese 3270 uomini; alla custodia e alla lavorazione della polvere provvide una polveriera presso porta S. Paolo; la parte amministrativa di tali forze militari fu riservata alla Computisteria Camerale. Pio VI (1775 - 1799) migliorò l'esercito, servendosi specialmente del conte bolognese Enea Caprara; mentre Angelo Colli, inviato da ( 1) MoNTENOVES1: « Ordinamenti militari dello Stato Pontificio (Secoli

XVI - XVIII) H .


3 Il Vienna, ebbe il Comando supremo; si istituì una Congregazione m ilitare, e per la prima volta, nel 17<)6, la guardia civica. La Guardia Nobile Pontificia (1801), si deve a Pio VII (18oo - 1823), che nel 1817 promulgò nuovi regolamenti amministrativi ed un nuo vo organico per l'esercito in Roma, con Corpi di Fanteria, Artiglieria, Genio, Dragoni, truppe di Finanza e due reggimenti di Carabinieri per il servizio di polizia, dipendenti, questi ultimi, dal Cardinale Segretario di Stato. Nelle Provincie vi era la milizia provinciale. Leone XII (1823 - 1829) creò la Presidenza delle Armi cd il Consiglio Economico Militare, presieduto dallo stesso Segretario di Stato. Poi il Papa G regorio (1831 1846) accrebbe notevolmente il numero dei soldati, assoldò anche stranieri e, con nuovi regolamenti, un nuovo organico ed alcune brigate di voiomari, la Scuola dei bombardieri di Casld Sa11 t' Augdu risorse a nuova vita. çon Pio IX, grazie anche ai contingen1 i volontari stranieri, l'esercito pontificio acquistò una fisonomia non diversa da quella degli eserciti degli altri Stati europei e diede prove di vJ.lore in varie circostanze. Insieme con l'esercito della Chiesa, poichè militava nel suo nome, occorre menzionare anche l' Ordine Gerosolimita110, deuo pure di S. Giovanni, di Rodi, di Malta che, sorto nel si:colo XH ,n r.,,.rn_ salemme, come congrega di frat i ospedalieri, diven ne in seguito Ordine militare con il compito preciso di difendere i Cristi ani che si recavano in pellegrinaggio nei luoghi santi e di combattere i M:iomettani. I suoi membri ebbero il titolo di Cavalieri solo dopo la conquista di Rodi, avvenuta il 15 agosto 1310. Perduta quest'isola nel 1522, l'O rdine passò a Malta, donata ad esso nel 1530 da Carlo V e vi rimase fino al 1798, quando l'isola fu occupata dai F rancesi, ai quali, nel 1800, succedetterc gli Inglesi. I Cavalieri si trasferirono a Roma. Come era costituito l'eser~ito del Sommo Pontefice nei. tempi più lontani, escluso il medioevo, a proposito del quale si può parlare soltanto di truppe raccogiiticce ? La Guardia del Papa si fa risalire nientemeno che all'Imperatore Costantino, il quale avrebbe assegnato a S. Silvestro 25 uomini armati, i così detti Servicntes armorum, a titolo di onore e per la sua difesa. La Guardia si denominò in seguito dei Cavalleggeri e tale rimase fino al 1801. L'esercito pontificio vero e proprio comprendeva le C'.,orazze e le Lance, che erano soldati a cavallo, forniti i primi di pistole, i secondi di armi da asta. Venivano poi i Bombardieri e la Linea, composta di F.mti. Speciale importanza avevano i soldati Corsi e gli


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Svizzeri; i Corsi eranc venuti a Roma quando la loro isola era stata invasa dai Saraceni ed, accolti nella città Leonina, avevano avuto dai Papi favori e privilegi e si erano dedicati al mestiere delle armi. Si trattava, naturalmente, di truppe mercenarie che:, al comandc del generale della Chiesa, non osservavano tutte le medesime regole e non percepivano la stessa mercede. I soldati, ai quali, quando cessavano dal servizio, spettava una pensione, nei giorni e nelle ore in cui rimanevano liberi, potevano continuare ad esercitare i loro mestirri. Di solito le truppe pontificie erano divise in reggimenti ed i reggimenti in compagnie, che prendevano il nome dai rispettivi comandanti.

Q uesti pochi cenni riguardano la struttura generale dell'esercito pontificio; ma, pur essendo sempre subordinati all'autorità centrale, anche i Comuni, grandi o piccoli, dello Stato Pontificio disponevano di milizie per la tutela dell'ordine e per cooperare, quando fosse necessario, alla difesa dello Stato. Per esempio, Valtopina, piccolo Comune dell'Umbria, da pachi anni incorporato in quello di Foligno, aveva anch'esso le sue milizie fin dal secolo XVI, come dimostra un documento del 1529. Si tratta di una riceyuta rilasciata dai solda ti, a i quali era stato pagato un mese di stipendio e che è concepita in questi termini: « Noi soldati faciemo fede come nui havemo rici ute scudi 6 per otto cavalli per un mese prossimo da vinir, incomenzando al primo dì de marzo, dalla Comunità della Valle Topina. lo gcstor· ho facto la presente scripta, co' consenso de tucti li miei compagni. A dì primo de marzo I 529 se fa' acordo co' li cavalli ». La compagnia di Valtopina - alla quale, il 17 gennaio 1622, venne rimessa solennemente la bandiera od insegna - era comandata, nel 1672, dal capitano Giovanni Benincampi ed aveva la forza òi 93 militi, tra soldati e caporali, ripartiti in 6 squadre, aventi rispettivamente sede a Gallano, Pasano, Serra, Balciano, Santa Cristina e Poggio. L 'organico comprendeva il capitano con due paggi, il tenente con un paggio, l'alfiere con un paggio, due sergenti, un cancelliere che teneva il ruolo della compagnia, un depositario o tesoriere, un foriere, un tamburo ed un armaiuolo. Su 93 militi si contavano sei caporali. Vi erano, inoltre, sei avvisatori per diramare le disposizioni e regolare il servizio dei soldati. Il comando risiedeva a Prima


Plana. I soldati, nella grande maggioranza, non prestavano serv1z10 ma venivano precettati di volt.;, in volta, quando era ne1 cssano. Nella compagnia di Valtopina, e forse non in essa soltanto, per 11uanto riguarda la disciplina, le cose non procedevano con molto 11gore; i militi venivano nominati o promossi di grado con apposita patente; erano scapoli « scelti », o coniugati « congiunti >> e, durante 1 lavori agricoli, potevano allontanarsi dalla loro residenz a e recarsi dove fosse necessario. Non sempre, anche se ne riceveva l'ordine, il milite si presentava alle rassegne o riviste e, se cadeva in man(anze disciplinari, veniva cancellato dai ruoli per ordine del Governatore delle Armi dell'Umbria. Nel secolo XVIII la compagnia di Valtopina sub1 alcune vari.mli nella struttura. Nel 1749 essa era, infatti, composta da un capitar.o, 11n tenente, un alfiere, quattro sergenti, un cancelliere, due depositarii, un foriere e la truppa, divisa, come già si è detto, in squadre. La squadra aveva un avvisatore, un caporalè e 22 soldati; quelli di Serra un avvisatore, un caporale e 22 soldati ; Balciano disponeva di un caporale e 17 soldati; Santa Cristina di un avvisatore, un caporale e :?I soldati. Inoltre vi erano due paggi per il capitano, due p<'r il te11ente, due per l'alfiere; nonchè tre avvisatori: uno per il Governatore delle Armi, uno per il Sergente Maggiore ed uno per l'Aiuta nte Maggiore. Dei paggi del tenente uno era « porta partegiana >', arma che, nel secolo XV1II, fu sostituita col fucile a baionetta. Di qudli dell'alfiere uno era (< porta insegna ». Le rassegne o riviste erano .fiss~te per le prime domeniche dei mesi di gennaio, marzo, maggio e novembre e per il 20 m aggio, giorno della fiera nel paese. Esse avevano ncll'eserçito pontificio um importanza fondamentale: sia perchè costituivano quasi il solo servizio attivo della maggior parte dei militi; sia perchè erano considerate come il mezzo migliore per tenere viva la disciplina. Il 14 gennaio 1644 la compagnia di Valtopina, coman<lata dal capitano Berardino Campana, folignate, fu passata in rassegna dal conte Pietro Gabriellì, commissario delle milizie a piedi ed a cavallo dello Stato ecclesiastico. I militi erano qualificati « attissimi », tranne uno, semplitemente 1< atto >). Poi si stabiH che il Capitano, o qualche altro dei suoi ufficiali, avrebbe fatto la rassegna della quarta parte della compagnia ogni domenica, almeno da S. Martino (u novembre) a tutto maggio, << conforme alla dispositione dei capitoli militari », e quattro rassegne generali l'anno: 12 quarta domenica di ciascuno 1 onti~uo,


dei mesi di gennaio, marzo, maggio e novembre. Ogni altra rassegna ed ogni altro provvedimento dovevano essere ordinati od approvati dal Generale della Chiesa. Una rassegna ebbe luogo il 21 maggio 1688, alla presenza di Fra Giovanni Garzia Mellini, cavaliere gerosolimitano e Governa-

Moschetto e moschettiere del secolo XVI .

tore delle Armi dell'Umbria. La compagnia era comandata dal capitano Carlo Francesco Giacobuzzi e comprendeva 125 militi, tra caporali e soldati. La milizia di Valtopina era ancora in vita nel 1799. L'ultimo documento che la riguarda è un pro-memoria inviato al Comando della


Truppa Urbana a Perugia, con cui si proponeva che il Comune di. Valtopina, data la tranquillità che vi regnava, si limitasse a comandare giornalmente tre militi ed un caporale o sergente, i quali dovev:mo rimanere a turno nel corpo di guardia, previo un compenso di 5 paoli, da ripartirsi dal capitano. Il ruolino della compagnia parlava della forza complessiva di cinquanta uomini, compresi i graduati ed esclusi il capitano, Carlo Forti, il suo aiutante, il tenente e l'alfiere. La milizia aveva preso, nello Stato ·Pontificio, la denominazione di Truppa Urbana. La compagnia dei Fanti di Valtopina, come quelle della Milizia Urbana degli altri Comuni dello Stato, non era considerata come autonoma; ma faceva parte integrante delle milizie pontificie. I Comuni erano obbligati a fornire ai reparti dell'esercito pontiiìcio i viveri per gli uomini e per i quadrupedi. L'armamento delle milizi~ papali era abbastanza completo. Ur documento del secolo XVI riporta la « Nota di tutto quello devono r ssere provistì li soldati, d'ordine di Nostro Signore, sotto pena della vita e confiscatione de' beni, et in particulare li scelti o scapoli ». Nelle note suddette si fa menzione dell'armamento e dell'equipaggiamento. 1 soldati dovevano avere mosch etti ,e b::n:: incassati e puliti, :.i.tti :.i.lb funtione militare, forcine proportionate alla statura di ciascheduno, armacolli o pendonì, forti e di perfetta qualità, bandoliere empite di 13 caricature (cariche) con forti attaccagli, guarniti di polvere, palle e miccia, buoni giustacuori o giubbe, cappelli, scarpe, corvatte et ogni altro bisognevole et, in caso di difetto di portargli, da' signori capitani astringergli a provvederli )>. Le milizie dovevano trovarsi in efficienza nel più breve tempo possibile ed, a tale proposito, il cavaliere gerosolimitano Giovanni Garzia, il 9 febbraio 1689, faceva sapere che « è mente della Santità Sua che le melitie di questa provincia (cioè dell'Umbria) stiano pronte per darci mano, con una celere marchia, per dove il hisogno richiedesse ». In ogni provincia dovevano provvede.re alle miliz.ie il sergente maggior ed il governatore delle armi. In occasione delle rassegne « ufficiali e soldati dovevano trovarsi pronti, già riuniti in battaglioni, sotto le loro insegne e standardi, ben coperti di panni e provveduti d'armi et arnesi militari l> . Come si vede, le disposizioni per le milizie ndlo Stato Pontificio non erano molto dissimili da quelle vigenti presso altri Stati d'Italia.


Nel Reame di Napoli. Secondo il Pieri, nel Reame di Napoli Alfonso d 'Aragona, compiuta la conquista del Regno, pensò d' istituire un nucleo permanente di 1.000 lance, che non sem pre rimase .efficiente per le strettezze finanziarie. Nel 1477 Orso degli Orsini, Duca d'Ascoli e Conte di Nola, propose al Re la costituzione d'un vero e proprio esercito permanente di 2 0.000 uomini, di cui 12.000 a cavallo, con una spesa an nua di 4 70.000 ducati. La Cor te si appoggiava ad un certo numero di Baroni sicuri, che, ;1} momento buono, l'avrebbero servita come condottieri, prendendo gli uomini dai propr i feudi; oppure conferiva possedimenti agli Orsini ed ai Colonna per lcg.1rlì .1lla difesa del R eame. A quest'ultimo scopo Diomede Carafa voleva che agli uomini che lasciavano il servizio si dessero terre, impieghi e sussidi . Successivamente I~ Spagna, per frena re le ambizioni dei Baroni, costituì un grosso battaglione di milizie, composto da ben 74 compagnie, ciascu na della forza di 300 uomini.

Le fanterie neI1e milizie di Genova. Abbiamo già r icordato le miìizie genovesi nel m edioevo, trattando degli arcieri e dei balestrieri. Per quanto si riferisce all'era moderna, le caratteristiche delie miiizie e deile Fanterie genovesi ci inducono a poche constatazioni, perchè Genova, a differenza di Venez ia, non dovette preoccuparsi della difesa del suo retroterra, protetta com'era naturalm ente dalle Alpi Marittime e dalle catene appenniniche. D 'altro canto, il Ducato di Savoia e quello di Milano erano già organismi politici troppo forti, per permettere alla Dominante qualsiasi tentativo di esp:msione verso la valle padana. G enova clovev:1, per consegul'nza, tendere esclusivamente al mare fonte di vita e di ricchezza assai più redditizia, se la Repubblica fosse rimasta in buona armonia coi vicini dd retroterra. Tuttavia anche Genova venne ad acquislarc una speciale importanza durante le lotte per il predominio in Italia tra gli Asburgo ed i Borboni, dato il fatto che le comunicazioni fra V ienna e Madrid passavano anche attraverso la Liguria. Anche alla Repubblica genovese vennero rivolte, infatti, minacce e lusinghe da ogni parte, ed anch'essa, come il Piemonte, per incorrere nei minimi dan ni e per ricevere i massimi be-


11rlici, d~vette dare prova di _u n illuminato opportunismo politico, npportumsmo non condannabile, data la ·necessità per Genova di 1 nnservare il suo posto nel Mediterraneo ed il possesso dell a Corsica, 1 hc Ranuccio della Rocca e Sampero Corso, mirando ali 'indipendenza clr ll 'isola, volevano sottrarle, con l'aiuto della Francia. Questi ricordi ci fanno comprendere il prevalere in Genova di 111ilizie assoldate e la mancanza di salde milizie popolari, non nte-

I balest1ìen Gencvc,i con Guglielmo Embrìaco all'e,pugnazione di Gerusalemme.

nute possibili, nè necessarie da quegli ardimentosi navigatori, neppure quando la politica interventista dei Savoia ottenne dall 'Impero Oneglia, alla quale aspi rava anche Genova. Quando, nel secok. XVII, le ripercussioni della guerra dei Trent'anni si fecero sentire anche nell 'Italia settentrionale, dove i Savoia cercarono di portare i confini del loro Stato al Ticino ed alle Alpi Marittime, Genova fu costretta ad intervenire contro l'alleanza franrn sabauda, perdette molta parte del suo terri torio e venne messa in pericolo dai Savoia, poichè i suoi mercenari non riuscivano a vincere le salde milizie piemontesi; ma venne però soccorsa dalle truppe imperiali che, minacciando il Piemonte, obbligarono Carlo Emanuele I

ad abbandonare la Liguria.


Memori del pericolo corso, i Genovesi, senza mutare le basi del-

1'organizzazione militare della Repubblica, presero allora in esame la possibilità di ricorrere, in caso di necessità, al popolo e, nel 1672. quando Carlo Emanuele II, profittando della calma seguita ai trattati di Westfalia, volle meglio sistemare i confini del suo Stato .con la Liguria, i Genovesi, armarono, infatti, una Fanteria popolare che, combattendo << pro aris et focis », potè arrestare l'offensiva delle truppe sabaude a Pieve ·9i T c::co e poi batterle a Chiappa, a Bastia, alla Garlenda. Nella seconda fase di questa interessante campagna del 1672 sarebbe stato opportuno, per i Genovesi, proseguire a fondo l'offensiva così felicemente iniziata; ma le Fanterie popolari non erano abituate a battersi oitre confine; nè queìle mercenarie erano sufficienti per tale impresa. Perciò i Genovesi si limitarono ad operazioni di carattere locale, dando così tempo e modo a Carlo Emanuele II di riordinare le sue Fanterie e di tornare all'offensiva su tre colonne. Ne derivò una guerra di montagna, di piccoli gruppi di partigiani liguri, con combattimenti vivacissimi (Cremolino - Grillano- Gavi assedio di Pienza); guerra che i Piemontesi avrebbero probabilmente vinto, se n0n fosse intervenuta la Francia a fare opera di mediazione. Anche nel 1747, contro gli Austriaci di Maria Teresa, Genova potè impiegare le sue Fanterie popolari insieme alle milizie m ercenarie; ed, alla Bocchetta di Valle Polcevera, i contadini liguri, rin-' forzati da 8.000 cittadini genovesi della leva in massa, inflissero una dura sconfitta agli Austriaci. I nomi di Pier Maria Canevari, di Gerolamo Serra, di Agostino Pinelli e di Gaspare Basadònne testimoniano anche oggi della capacità difensiva di quei Fanti che, per quanto quasi del tutto improvvisati, seppero proteggere strenuamente la Repubblica contro lo straniero, combattendo con lo slancio che veniva loro ispirato dall'amore per la loro città. Nell'era moderna G::nova non ebbe occasione di compiere grandi imprese di guerra e, per conseguenza, nella Stor ia delle Fanterie italiane, quelle genovesi non lasciarono durevoli tradizioni; ma anche i. Fanti genovesi, od arruolati per mercede in Corsica o chiamati im~ provvisamente alle armi nelle ore di maggior pericolo, dimostrarono di volere-e di sapere combattere i nemici della Repubblica, forse con minore capacità tecnica delle truppe sabaude e delle venete; ma con eguale ardore patriottico e con la m edesima consapevolezza dei loro doveri verso la Patria.


Le istituzioni militari del Ducato di Milano. Anche Milano, trasformato da Com~ne in Signorìa da Francesco Sforza, divenne centro di un forte Stato, al quale non erano mancati i consigli e le invenzioni di Leonardo da Vinci, e che ebbe le sue istituzioni militari, destinate purtroppo a decadere con la conquista del Milanese da parte della S_p agna. Come si rileva dal progetto di mobilitazione del 1472 · 74 contro Venezia, l'esercito del"Dùcato di Milano, secondo il Pieri (1), era diviso in due parti: la prima al diretto comando del Duca Galeazzo Maria Visconti, il quale aveva ai suoi ordini 29 condottieri. Tra questi c'erano tre fratelli legittimi e due fratelli naturali del Duca, cinque suoi parenti, undici feudatari, tre cadetti di nobili famiglie romagnole (2). Tutti pensavano di levare gli uomini dalle loro terre e dai propr i feudi o, tutt'al più, in piccola parte, in Romagna. Le truppe erano costituite da novecento uomini d 'arme, che possiamo considerare in ~ervizio permanente, alla diretta dipendenza del Ducato ; da ro7 ba lestrieri a cavallo agli ordini di Antonio Caracciolo e di Giovanni Antonio Secco, Conte di Vimercate. Quanto ai Fanti, sopra 1 1.&10, ben 11.000 erano t< provv1s1onati ducali>\ ossia mercenari in servizio permanente o comunque reclutati direttamente dal Ducato, agli ordini di Donato de' Burri, milanese, d'antichissima famiglia. L'esercito per la guerra e-r:i rnmposto (1) Cfr. P1ur: « La crisi militare italiana nel Rinascimento». (2) L'esercito era diviso in sei <e colonnelli », unità tattiche che ricordano gli odierni reggimenti. Il primo era formato da squadn: dello Sforza, dalla cc famiglia ducale», ve.ra guardia del corpo forte di 450 uomini d'arme ed, infine, dalle lance spezzate di Pietro Francesco Visconti, discendente da un ramo spurio di Barnabò. Il secondo colonnello aveva dodici squadre del Marchese di Monferrato, due squadre di Zorzino di Galese ed una squadra dd condottiero Ruffino Miraldo. Il terzo colonnello comprendeva le squadre di Filippo Maria Sforza, fratello del Duca, quella di Roberto Sanseverino, figlio d'una sorella di Muzio Attendolo, ed, infine, i reparti dei Conti Torelli di Guastalla. Il quarto era formato dai contingenti di Sforza Maria d uca di Bari, da quelli di Ugo Sanseverino, di Guido Rossi da Parma, di Giovanni Brandolini e di Brandolino da Bagnacavallo. Il quinto riuniva le squadre di Lodovico Sforza (il Moro), di Tristano Sforza, del Marchese Giovan Giacomo Pallavicino, di Antonio Rossi da Parma, del Visconte Guidaccio Manfredi d'Imola. Il sesto, infine, comprendeva le squadre di Boso Sforza, figlio di Muzio Attendalo, quelle di Costanzo Sforza di Pesaro e le lance spezzate di Bartolomeo di Quartieri.


320 dal Marchese di Mantova che, coi suoi 300 uomini d'arme, formava un intero <e colonnello n, dal Signore di Forlì, Pio III Ordelaffi, dal Marchese di Saluzzo, da un . Bentivoglio di Bologna, da uno dei Pio di Carpi ed, infine, da un Sanseverino dei Conti di Marsica. Comunque, i tre quarti almeno delle forze del nuovo esercito erano stati raccolti nel Ducato. Q uanto ai Fanti, sopra 6.500, ben 5.000 erano (( provvisionati ducali )), Era poi previsto un ulteriore aumento di trupp: da effettuarsi: in parte obbligando i vari comandanti ad accrescere il proprio contingente ed in pa!te chiamando nuovi condottieri. Il progetto prevedeva uno sforzo veramente grandioso; ma destinato a restare in gran parte sulla carta, e si riferiva ad un esercito di ben 52.500 uomini, da costituire quasi interamente coi mezzi del Ducato e ricorrendo anche ai paesi confinanti o vicini: Piemonte, Mantova, Bologna, Romagaa. In conclusione -- scrisse il Pieri - nel Ducato di Milano troviamo un saldo nucleo di milizia permanente statale, rappresentata dalla ,, famiglia du<:ale Ji , dalle lance spezzate, dai provvisionati e dagli uomini d'arme di qualche condottiero. Esso rappresenta, al tempo ~tesso, il primo nucleo di truppe mobili; mentre le forze di complemento, già predisposte e preparate, sono rappresentate d ai regolari contingenti dei feudi militari e le ulteriori forze integratrici da un lato dai contingenti degli altri feudi e dalle forze dei Signori dei paesi vicini, specia lmente Monferrato, Mantova, Romagna, e dall'altro di nuovi provvisionati ed eventualmente da leve paesane, raccolte ed armate alla meglio. Quando il Ducato di Milano perdette la sua indipendenza, venne presidiato da truppe imperiali e, talvolta, da truppe etnicamente italiane; .ma facenti parte degli eserciti imperiali. I governatori spagnoli non vollero più armare i cittadini e, soltanto nel 1557, la minaccia francese costrinse il Madrucci ad armare temporaneamente 18.000 uomini . Al tempo della guerra di Casale, l'Hinojosa dovette costituire in Milano una Guardia civica, che ebbe vita, come vedremo nel volume III di quest'opera, fino al secolo XVIII e più precisamente fino a quando Milano non venne occupata, nel 1796, dalle truppe del Buonaparte.


VIII.

LE MILIZIE f ARNESIANE

Prima di ricordare ai nostri lettori k istituzioni militari venete, toscane e piemontesi, conviene accennare anche alle milizie farnesiane dle rappresentarono la base di quell'esercito ducale, cui la Casa Farncse tentò invano dar vita in quel suo Stato di Parma, Piacenza e Cuastalla, che Papa Paolo III ottenne in feudo dall'Impero per la sua f.,miglia. I Capi di questo nuovo Ducato, giustamente preoccupati di procacciarsi fama e prestigio, si dettero, per consolidare il loro do11ù nio, più alle imprese militari che non allo studio ed alla soluzione dei più complessi problemi della politica. Alessandro Farnese, ad esempio, reputò più utile andare a militare nelle Fiandre, lasciando le cure dello Stato ad un luogotenente. Spettava, come vedremo, al di lui figlio Ranuccio promulgare, verso la fine del secolo XVI, le prime leggi organiche, atte a conferi re allo Stato una certa solidità politica e militare. Anche n el Ducato parmense bisognava rinunziare, infatti, ad un esercito mercenario troppo costoso e fare assegnamento su i sudditi, obbligandoli, per quanto era possibile, al servizio militare, come dimostra l'ampia documentazione ancora esistente negli archivi parmensi e come pose nel dovuto rilievo il Colonnello Eugenio Massa, nd suo pregevole studio su << Le m ilizie farnesiane )) , Quando il Pontefice Paolo III, di Casa Farnese, con la sua Bolla in data 15 settembre 1545, separò Parma, Piacenza e Guastalla dallo Stato pontificio, per formare un Ducato pd figlio Pier Luigi Farncse, le belle città dell'Emilia erano travagliate dalle discordie intestine e mal sopportavano gli eccessivi oneri imposti <lai dominatori. Al governo di Filippo Maria Visconti, durato per 22 anni, al dominio degli Sforza (1449 • 1500), reso ancora più dannoso dalle sanguinose lotte che ne derivarono e dalla peste del 1468, erano succeduti dodici anni di dominio francese, dopo i quali le terre del Ducato erano passate allo Stato pontificio. Per conseguenza, i cittadini 22


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di Parma, Piacenza e Guastalla speravano che il nuovo Principe dimostrasse l'energia necessaria a por fine a tanti mali ed a dare al Ducato un assetto più stabile. Più che i signori, il popolo aveva accolto la dinastia dei Farnese con grandi illusioni, pensando che, eliminati col tempo i vincoli di parentela che legavano il Duca ai Pontefice, i nuovi signori, compresi dei veri bisogni dello Stato, avrebbero migliorato le sorti delle due Provincie. La Storia ha deplorato, a proposito del governo farnesiano, durato per quasi due secoli sino all'estinzione della Casa Ducale (1731), l'insipienza dei Principi, la licenziosità dei costumi, la neghittosità dei cittadini ; ma ha dovuto ricordare anche la buona organizzazione delle milizie e delle Fanterie ducali.

Le disposizioni attribuite ad Alessandro f arnese. Nell'Archivio di Stato di Parma si trova un manoscritto che porta quale titolo e< L'Arte militare » e, per quanto sia incompleto e, purtroppo, nor~ se ne conosca l'autore, si pt.:è r itenere come molto probabile: - che il codice, per il modo nel quale è compilato, appartenga alla fine del secolo XVI; ---'- che esso, tenendo presente quanto è detto nella prefazione, vale a dire che i precetti riportati derivano dall'esperienza fatta nelle guerre di Olanda e di Fiandra, possa essere stato dettato dallo stesso Alessandro F arnese, che di quelle guerre fu il maggior protagonista, oppure compilato da uno degli ufficiali del suo seguito. La passibilità che questo codice possa essere stato dettato da Alessandro Farnese - scrisse il Bruni (1)-può trovare conferma nell'abitudine che egli aveva di dettare seralmente le sue impressioni sulle operazioni militari compiute, tanto egli era instancabile nel lavoro. Ed infatti il Fea narra, nella sua <( Storia di Alessandro Farnese », che egli volle anche negli ultimi giorni della sua vita firmare ordini e lettere, dicendo: « Se fosse pur questo l'ultimo soffio della mia vita, vorrei dedicarlo ai pubblici affari il , Ad ogni modo è fuor di dubbio che tale manoscritto appartiene all'epoca gloriosa di Alessandro Farnese, che seppe condurre tante (1) Gumo BRUNI : « L'Arte militare ai tempi di Alessandro Farnese i>.


volte le truppe alla vittoria e che visse per tanti anni in mezzo agli uomini d'arme e ne studiò profondamente gli animi. Nel codice al quale accenniamo vengono esposti alcuni principì, frutto di lunga esperienza e d i profonda osservazione, che hanno ant0ra un'evidente · relazione con quelli attuali, salvo le debite trasformazioni, dovute al nuovo concetto della Patria ed al più progredito .,rmamento. L'importanza che nel manoscritto si attribuisce all'onore, alla disciplina, all'obbedienza verso i Capi e le norme sancite per gii allogg-1amenti e per i combattimenti potrebbero venire, infatti, osservati :-.nche ai giorni nostri. La prefazione del codice comincia con queste parole : « Quanto importi alla grandezza et alia conservatione delle Repubiiche e Monarchie del mondo la militar disciplina, è per se stesso sì chiaro e manifesto ad ognuno, non meno per la memoria delle cose passate lasciateci dalle Storie, che per quelli che ai miei tempi sono occorse, r he non sia di mestiero ch'io mì affatichi in addur sopra ciò prove maggiori e ragioni più vive di quelle, che alcuni, trattando di simil materia, hanno apportato e che la isperienza ci ha insegnato e tutto Jl c'insegna . .Basterà sol dire, che l'armi sono la reputazione e lo st:ibilimento di Stati e che in essi si fonda l' autorità di quelli che comandano e )a sicurezza di quelli che ubbidiscono e la universal quiete r felicità ... « Per tanto, producendo la bene armata e disciplinata gente frutti divera gloria e lungo stabilimento agli Stati, pare che molto onesta e civile fatica sia l'adoprar tutte le forze dell'ingegno per bene intendere i modi, che ci fanno conseguire tal fine. Per lo che io mi sono posto a raccontare et a far fuori alcune cose pertinenti ai preconcetti della guerra, li quali dall'esperienza di quakh'anno accompagnati da studio particolare e continuo, ho appreso in molti luoghi e particolarmente in Fiandra et Olanda, delle quali, sebbene hanno scritto molti e che però mi è stato necessario ridire alcune cose già da altri dette: nulladimeno, in quello che appartiene all'ordine et al saper servirsi dell'arme, di che trattare è stata mia particolare intentionc. Si sono messe fuori alcune maniere nuove, quali, per la prova che ne ho fatto, si sono fatte conoscere molto utili e poco difficili e che per la militare disciplina altro non è che la cognitione d' apparecchiare, formare et adoperare bene le armi ed i soldati per vincere il nemico o per haverne pace o soggiogarlo. Diremo dunque che, con l'aiuto divino _per la diligenza o governo del capitano, e per la <lisci-


plina dei soldati, si pone fine alla guerra vincendo. Ma, prima che si venghi ad altra dichiarazione da considerarsi comune, che tre sono le specie dei soldati a piedi, dei quali in parte discorrerà, ciò è archibugieri, moschettieri e picchieri, denominati dallo archibugio, mosèhetto e picca, d1e sono quelle armi, ch'essi sogliono adoperare. Questi soldati soggiacciono sotto il comandamento di tutti gli altri uffi. ciali, i quali formano un terzo o reggimento, come voglion dire, cioè caporali, sergenti, alfieri, aiutanti, sergente maggiore e maestro di campo o colonnello, come di prima s'usava. Questi ufficiali soggiacciono anch'essi al comandamento l'uno dell'altro, comandando il maestro di campo al sergente maggiore et a tutti gli altri ufficiali e soldati del suo terzo, come più ampiamente si dirà nel suo carico. Il sergente maggiore comanda a tutti i capitani; e questi alle loro compagnie, gli alfieri ai sergenti, i sergenti ai caporali et i caporali ai soldati delle loro sguadre ».

Ed ora ecco come il codice sintetizza i primi doveri d'ogni buon soldato. « Chiunque pretende o desidera perfettamente apprendere l'arte militare, e per mezzo di sì honorato mistiere acquistarsi e nome e titolo di vero soldato, deve principalmente e sopra ogni altra cosa portare nel cuore e nell'opere il rispetto di Dio, al quale come a scopo et unico fine tutti i pensieri et azioni sue indirizzargli conviene: per il che non ha da eligersi di servire a principe alcuno, che non sia cattolico, nè andar in guerra, che non sia dichiarata giusta o stimata per tale... « Oltre a questi due rispetti, somma cura deve tenere dell'honore, et anteporlo all 'istessa vita, quando anche, a conservarlo illeso, spenderla bisogni ... <1 Havrà st:mpre memoria che, nell'istesso punto che si fa soldato e che si veste di tal nome, si spoglia della libertà, e sottopone il suo volere all'arbitrio altrui. Onde prontamente et allegramente deve ubbidire, et eseguire, et non interpretare i comandamenti dei superiori, consistendo nella puntuale ubbidienza, non tanto la disciplina militare, quanto la lode dell'istesso soldato ... « Soprattutto, per essere soldato di effetti e non di nome soltanto, diligentemente dee attendere et intender a tutto quello che conviene al suo mestiere, sforzandosi di meritare d'esser chiamato


325 ,~k, non per istarc alla guerra, ma per sapere esercitare quello che 11

tppartiene a tale professione. Onde procurerà di farsi pratt.lco del

1111cbc, dove si trova, di essc:re conosciute dall'esercito, d'imparare da

qur lli che sanno, di praticare con persone di buoni costumi e di

1,uona fama et in particolare di stare circospetto in tutto quello che 11pr. e che parla et attinto a tutto quello che vede et inte nde ... » . Per i moschettieri si davano norme precise e dettagliate circa I uso delle armi, come dimostrano i suggerimenti che qui sotto riportiamo. (( Cammina col tuo moschetto in spalla; levalo di spalla e valo a rrccver con Ja forchetta ; tienlo in bilancia con la mano sinistra ; tien I" bocca alta et il calcio fuor della coscia destra; piglia con la mano clcstra la corda; mettila in serpa; provala sul fogonc chiuso; òrizz.a 1n piedi la forchetta col moschetto sopra ; scopri i l fogonc; appoggia 1:r spalla; prendi la m ira ; spara e stà saldo; lascia calare il moschetto ..Ila coscia destra; tien la bocca alta e basso il calcio; tira la corda e riponila al suo luogo ; soffia suf fogone e metti il polverino; serralo e p:1ssa il moschetto all'altro lato; prendi la fiasca e carica; leva la bac<hctta e calca con essa la polvere ; r iponi la bacchetta a suo luogo; metti la palla.; metti il moschetto in spa!la; ricupera la forrh,,.,1 ~ r ~1; 1 fr rmo ». Particolarmente interessanti sono le pagine del m anoscri tto sul ~avizio di guarJia e sulle sentinelle e, senza dubbio, notcvok appare il fatto che il codice, in ogni sua parte, procura di fare appel lo at migliori sentimenti del soldato. e< Fra tutte l'attioni degne di lode, niuna a mio parere può a quella del far bene una sentinella agguagliarsi, poichè in tutte le altre il soldato opera particolarmente e quivi la cura del tutto sotto la sua diligentia rimane e così i soldati, come gli ufficiali, i cittadini, la città cd il Principe istesso, sotto gli occhi suoi riposano e dalle sue mani il bene et il male, la libertà e la servitù, la vita e la morte di ciascheduno dipendono. Per lo chè deve il soldato porre: sommo studio e cura di bene fare questo servizio dì sentinella. « Laonde, quando dall'ufficiàle gli venghi ordinato che vadi in sentinella, consignatogli il posto, datogli il nome e gli ordini necessari, deve con ogni puntualità osservare e rimanere in detto luogo con le sue armi offensive e difensive, e stare ivi avvertito et attinto, tanto con la vista come con l'udito, senza lasciare divertirsi da pensiero alcuno e, per non essere sorpreso da) freddo o dal sonno, deve vicino alle sue armi passeggiare ...


326 « La sentinella morta, si come è di maggior pericolo, così maggior vigilanza richiede, essendo quella, che posta tanto vicina al nemico, s'è da esso scoperta, può difficilmente salvarsi e perciò chiamasi sentinella inorta, sì per lo gran risclùo, come per non pretendasi da essa difesa alcuna, ma solo avviso di quello che fa il nemico. Perciò dovrà in tal polito stare · con spada o pugnale solo, e con la pancia in terra, sì per iscoprir meglio, sì per essere meno scoperta e, vedendo o sentendo cosa degna di notizia, deve avvisarne le sentinelle, che sono dietro di lui, dalle quali il corpo di guerra sarà avvisato e la sentinella morta dovrà ritornare al suo posto, dove, se l'inimico mandasse qualche gente per sorprenderla, non dovrà fare altro che ritirarsi, senza toccare arme, colle sentinelle che dietrù gli sono e, vedendo cessato il pericolo, dovrà, potendo, ritornare. al suo luogo)). Il codice tratta quindi dei Quadri, a cominciare dal caporale1 per venire poi a parlare degli ufficiali. « Il caporale, ancorchè non sia fra il numero degli officiali, comanda però in tutti gh affari della compagnia a venticinque soldati d'essa. Jl capitano ha elezione di questi caporali, i quali si sogliono fare dai soldati più habili e più intelligenti della compagnia, dovendo alle volte rim;iner ca po in un posto con la stess:1 autorit~ del capitano. Per lo chè dovrà essere diligentissimo, havendo così a comandare posti e corpi di guardia, come anche cura delle sentinelle in presidio, che sono l'occhio e la salute d'esse. e< L'armi di questo caporale devono essere d'archibugiera, per più pronto e meno impedito nel servìtio ritrovarsi ... » . A proposito dell'Alfiere il manoscritto dice: (< Il carico è !{rande dell'Alfiero d'una compagnia di Fanteria, il capitano di essa , con approbatione del suo maestro di campo, lo provede, il quale doverebbe simil grado conferire in persona ornata di belle qualità e particolarmente di bella apparenza, robustezza, valore, isperienza et honore, servendo egli nella compagnia come Alfiero e luogotenente dd capitano, poìchè in sua assenza la regge e comanda e dà gli ordini, come capo maggiore di essa, sì che in quetlo, che tocca all'esperienza e militar disciplina, il suo capitano eguagliar dovrebbe per le ragioni suddette; nè meno valoroso per le ragioni che si diranno appresso, deve dimostrarsi ... « Dovendo l'Alfiero combattere mentre egli tiene la Bandiera in mano, doverà pigliarla con la mano sinistra e con la destra impugnare la spada e operare valorosamente, tenendo sempre la Bandiera alberata e con il volto, con i gesti e con l'opre mostrar sempre quell'ar-


d11 e che se gli conviene ; e quando l'Alfiero habbia andar a qualche m:ilto con la Bandiera (il che bora più non s'accostuma) deve con di,1, c-zza e valore procurare d'essere il primo ad assalir la breccia e fra 1111ti gli altri fra i primi segnalarsi. Ma o in questo o in qualsivoglia ,hro modo che gli convenghi combattere, doverà prima perder la vita, 1 hc ristar privo della sua Bandiera, la quale ad ogni suo potere con\C"rverà a servizio del Principe et utile e riputatione sua » . . Quindi il codice si indugia sui più importanti doveri dei CapiI ,111 I :

« L'elezione dei capitano di Fanteria vien fatta dal genera!jssimo, • on sua patente, per la quale gli concede autorità di poter fare un Alfiero, un sergente con approvazione però del suo maestro di ca mpo, rt i caporali d'essa compagnia. « Molte parti in vero a questo capitano si richieggono più che 1utti gli altri officiali, sì per essere il carico superiore a quelli, co me pcrchè molte volte gli viene ad essere lasciato in cura tutto il serto in .,ssenza del suo maestro di campo e del sergente maggiore. li capi 1:1110 doverebbe esser soldato di isperienza e che fosse passato per li gradi della milizia, acc10cchè con il tempo e l'occasione ad ubbidere , commandare havcssc imparato ... « Sarà il capitano ben istrutto nella 5cientia et arte militare, acciò possa insignare et ben istruire i suoi soldati, et officiali, di quali , ncll 'elezione che farà di essi, procurerà che di tutte quelle parti, ncll1 loro carichi narrati, ornati siano, o almeno eleggerà quelli, che più degli altri lo saranno ».

Le istituzioni militari del Duca Ranuccio I. Pier Luigi Farnese, primo Duca di Parma e Piacenza , consapevole dei pericoli che minacciavano il nuovo Stato, av~va assunto al suo servizio le compagnie mercenarie, già al soldo del Pontefice nelle due Provincie, ed aveva organizzato 5 compagnie di 200 Fanti ciascuna ed una guardia del corpo ; ma queste forze locali o straniere, poste a difesa di un territorio privo di confini naturali, non potevano essere sufficienti allo scopo. Come già si è detto, soltanto Ranuccio I provvide alla istituzione di una buona, efficiente milizia, costituita coi propri sudditi, la quale doveva, con « l'esercizio et la disciplina, senza gravezza et incorno-


dità di genti strane, rendersi abile et bastante alla difesa et sicurezz.a propria e del territorio ducak ,,. Ranuccio Farnese, giovane d'anni, ma già esperto nell'arte militare per aver combattuto in Fiandra ed in Francia al fianco del valoroso genitore, non appena divenuto Duca nel 1592, volle valersi dell'esperienza conseguita per dare stabile assetto alle istituzioni militari de! Ducato e, fermo in questo proposito al quale consacrò ogni sua energia, il giovane Principe s'inspirò anch' egli alle idee già espresse da Niccolò Machiavelli cd all'esempio di Emanuele Filiberto di Savoia. Egli fece tesoro degli ammonimenti trovati nei « Discorsi », nel ,, Principe » e nei libri de (( L'arte della guerra » del Machiavelli; mentre imitò le disposizioni dd Duca di Savoia sul reclutamento, !'.istruzione, la disciplina della milizia piemontese.

Le ricerche nell'Archivio di Stato parmense hanno permesso di stabilire i principii, rhf presiedettero alla istitt1zione c!eile milizie farnesianc e che si rilevano dall'Editto col quale, in data del 12 dicembre 1594, R.anuccio Farnese, Duca di Parma et Piacenza et Gonfaloniere pe1·pet110 di S . Chiesa, dopo avere accennato al precedente disegno di Ottavio Farnese, secondo Duca della dinastia, di costituire ncl1o Stato una milizia nazionale a piedi ed a cavallo - disegno che non potè effettuarsi per l'improvvisa morte di Ottavio Farnese e per la lunga assenza di Alessandro Farnese, tenuto dalla guerra lontano dal suo Stato - istituì nel Ducato di Parma e Piacenza una milizia paesana. << Noi - dice l'Editto ci siamo risoluti di istituire et istituiamo questa milizia a piedi et a cavallo, la quale sarà sotto il governo di un Cape> col nome di Mastro di Campo Generale, dì fede, di valore, giudizio et esperienza tale, che a noi ed agli Stati nostri, ne segua il desiderato frutto e sperato comodo, et a lui stesso quell'onore et q uella gloria, che di ragione si dcbbe a chi, fruendo cariche simili, corrisponde con la fede et con le opere alla aspettativa del Principe suo>>. Seguono quindi gli « Ordini et privilegi per la militia » e le disposizioni per il reclutamento, a proposito del quale l'Editto precisava le prescrizioni seguenti:


329 « Niuno possa essere eletto o scritto, quale non sia di età d'anni almeno, o superi i ,10 anni » ( 1). « Non si elegga alcuno, il quale sia bandito dal nostro Stato o processato per qualche eccesso grave, che non sia prima assoluto, gra1.ioto, o tenga salvacondotto ». « Non sia detto forestiero alcuno, il quale non abbia almeno .,bitato tre anni continui nello Stato nostro ». « Niuno si elegga, il quale abbia qualche mancamento fisico che lo renda poco atto alla milizia )>. u Non si ammetta alcun mendico, nè chi sia a servizio d'altri» . « Niuno possa essere inscritto capo famiglia, che abbia gravezza cli q uattro figli piccoli, non superiori cioè ai 12 anni, o tre figlie fern18

mme >l. 1< Di niuna famiglia che vi sia un fuoco e che non passi il numero di tre uomini, se ne possa eleggere più che uno ; e da tre in su, due; e da sei in su, tre >>. « Di nessun Comune si possa eleggere alla milizia più che il quarto degli uomini che sono in esso Comune i> . Queste disposizioni> che regolavano nel Ducato la raccolta del personale per la costituzione della milizia, vennero ('Videntemente ispirate dagli esempi sabaudi, imitati con disposizioni, circa la durata dell'obbligo al servizio militare, assai più larghe che non nel

Piemonte, minaccìato, per la sua posizione geografica e politica, dai più gravi pericoli. Anche a Ranuccio Farnese sorrideva la speranza che il popolo, acquistata la coscienza dei propri doveri, comprendesse la necessità di rimanere fedele al suo Principe; mentre questi, ben conoscendo come le armi mercenarie fossero infide, chiamava alla difesa dello Stato gli stessi cittadini, convinto che questi sarebbero stati più fedeli a lui e meno molesti agli altri sudditi. L'arte della guerra impone, però, disagi e fatiche, che non a tutti è dato sopportare, e l'uomo da chiamare alle armi deve possedere le qualità necessarie a divenire un buon soldato. Occor.rcva, quindi, vagliare « le condizioni del milite da reclutare, sotto il duplice aspetto della for~a fisica e delle energie morali ». L'età dai 18 ai 40 anni comprendeva un periodo meno lungo di qudli già previsti prima per le milizie comunali e poi per quelle na(1) In Piemonte, secondo Emanuele Fili~rto, l'obbligo al servizio durava fino ai 50 anni e, secondo Carlo Emanuele 1, fino ai 6o.


33° z.ionali degli altri Stati italiani ; ma permetteva di servirsi di uormm robusti e di fare assegnamento su di loro per oltre un ventennio. Le eccezioni ed i temperamenti ammessi per l'arruolamento nell'interesse sociale si debbono attribuire a motivi ovvii, specialmente se si tien conto che il milite di allora doveva, in tempo di pace, limitare il suo servizio all'istruzione militare ed agli esercizi di tiro con l'archibugio, che si svolgevano soltanto, come già a Firenze ed in Piemonte, la domenica e negli altri giorni festivi. Perchè il vincolo al servizio militare fosse in qualche modo collegato con quello della religione, tutti gli ufficiali e tutti i soldati, dovevano giurare solennemente << fedeltà, devozione, obbedienza al Principe ", presso il Mastro di Campo Generale, « sopra l'evangdo » e secondo la formuìa seguente: cc Io ... giuro di essere fedele e obbediente al serenissimo Sign. Ranuccio Farnese, duca di Parma e Piacenza, e ai suoi legittimi successori, e non mancar mai con tutte le-forze mie di esporre la vita a tutte le ore, se sarà bisogno, al servizio di S. A., secondo l'obbligo del soldato d'onore e osservare li capitoli fatti da S. A. sopra la milizia, e di non fare, nè m eno prestare aiuto, consiglio, o fare in alcun modo cosa alcuna che torni in pregiudizio delle persone dello Stato, dell'onore di S. A. e dei suoi: anzi, se avrò notizia di trattato o altro che sia loro pregiudiziale, farò quanto potrò per impedirlo ed, al più presto che mi sarà possibile, glielo rivelerò, e così Dio mi aiuti e la virtù di questo santissimo vangelo » .

Dovendo formare buona milizia - è detto poi nell'Editto del 12 dicembre 1594 - - << e tener conto esatto di tutti i soldati e conoscere distintamente ciascuno di loro, ordiniamo che ogni milite, che sia eletto e rassegnato, debba essere descritto per nome, cognome, luogo di nascita, sito ove abita e contrassegni, e che di detti soldati così descritti e di quelli che per l'avvenire si se-rive-ranno, si debba formare un ruolo generale. << Oltre al Mastro di campo generale, abbiamo creato, per lo governo, istruzioni et rassegne della nostra milizia, li sergenti maggiori , capitani, luogotenenti et alfieri, incaricati pur anco di fare la scelta dclii uomini più atti al maneggio delle armi, tra li vari quartieri della città. « I soldati così scelti, eletti e rassegn ati, si dovranno ripartire tra i capitani, secondo si trovano nei loro quartieri, in base alla forza


33 1 , hc sarà indicata dal Mastro di campo; et ogni capitano avrà obbligo ti, :ivere un ruolo della forza et di conoscere di persona tutti i soldati dipendenti. (( Gli eletti e rassegnati riceveranno dall'ufficio del Mastro di 1 .1mpo il bollettino di inscrizione a ruolo et d'allora avranno obbligo d1 provvedersi gli archibugi, i morioni, le picche et corsetti... « E' fatto .divieto alli capitani di concedere permes~i nei dì delle r .lSSegne generali. <( Quelli tra i mil iti che andranno ad abitare fuori dello Stato nostro, ed in un Comune che non vi sia milizia, saranno tenuti a la..ciar le armi ordinarie anche sue proprie a chi succederà in luogo loro, ricevendo però il prezzo giusto e con veniente ; sono pure obbiigati a consegnare il bollettino ricevuto dal Mastro' <li campo al1'ingresso del servizio della milizia, sotto pena di tratti tre di corda e maggiore severità, ali 'arbitrio nostro ». Quindi l'Editto passava· ad enumerare i doveri degli appartenenti alla nuova milizia, con alcuni articoli raccolti sotto il titolo << Odi 'obbligo dei soldati ». « Come il soldato di questa nostra milizia sentirà comodo et :more per le concessioni et privilegi -::he go,:le, così è convcnif'ntr ~rn1~1 .incora qualche pow di fatica, la quale è fonte della virtù e gloria sua. _« Dovrà ognuno obbedienza al superiore, sotto pena all 'arbitrie Jcl capitano. « H a il soldato obbligo di provvedersi le armi e dì tenerle pulik e sempre pronte al bisogno e con esse armi deve comparire alle rassegne. (< Perchè ogni soldato possa più prontamente usare di dette armi, pel bene pubblico et servizio nostro, avuto riguardo alle condizioni dei tempi presenti, non sarà se n on bene che ciascuno soldato a piedi porti seco le armi, quando andrà a lavorare in campagna, se sarà distante dalla casa della propria abitazione più di un ti ro di archibugio circa, e colle armi da fuoco r,ortt le sue fiasche per po! vere e le palle et il fuoco, ovvero porti la picca, se piccardiere. « Non si potrà vendere, barattare, alienare le armi così acquistate, nè pottà il milite portare altre: armi che le sue proprie. <' Obbligo ad ognuno di presentarsi alle rassegne particolari ed a quelle del Mastro generale, sotto pena d'essere licenziato e frustato. << Nel dì delle rassegne nessun soldato può caricare l'archibugio con palla, o pallini di piombo, o carta masticata o con qualsivoglia metallo, in modo da poter offendere altrui.


33 2 " Quando il Principe voglia servirsi dei suoi soldati fuori di casa loro, accorra ognuno prontamente alla chiamata. " Se l'assenza sarà di tre giorni e non passerà i sette, gli sarà corrisposto un giulio al giorno; passando i sette giorni, gli si darà mezza paga per 15 giorni e, come comincia la mezza paga, cessa la concessione del giulio ». Dopo avere ricordato i doveri dei nuovi soldati,' l'Editto ne precisa le esenzioni ed i privilegi, destinati, come già in Piemonte, a fare megiio apprezzare il. servizio militare e, diremmo quasi, a nobilitarlo. « E' cosa conveniente che li soldati, li quali si affaticano in servizio del Principe, dello Stato e dei popoli, sieno ancora riconosciuti con qualche privilegio et esenzione, acciò che con più lieto animo e più pront:1mentc si adoperino al servizio comune, e però pare a noi ragionevole concedere - come concediamo - li infrascritti privilegi: « Licenza alli capitani, luogotenenti et alfieri delle nostre compagnie di milizia di portare le pistole ovunque, eccetto che in Parma et Piacenza. " Sieno esenti tutti i soldati di essa milizia da q ualunque opera personale, carreggi e guardie di comune, per la rata però che gli tocca per le persone loro sobmente e non per gli altri di lor famiglia. « Sieno ancora liberi ed esenti d 'ogni pagamento di legna, di paglia e di ogni altro che occorrerà, così per alloggiamenti di soldati e contribuzione di essi, ed anche esenti dall e tasse dei cavalli. <e N on possino essere messi alla tortura per inquisizione, se non per caso atroce, lesa maestà, omicidio premeditato, assassinamento con furto, ratto e stupro di vergine, sacrilegio. « Diritto di precedenza fra creditori. •< Autorizzazione a portar arme fuori della città e, pei soldati a cavallo, concesso l'uso della pistola da sei oncie » . Seguono non poche altre disposizioni, riferentisi al non autorizzato arresto per debiti, all'esenzione di tasse per chi avesse servito per più di 15 :inn i, ai giudici speciali per i militari; all'esenzione da certe cariche pubbliche ed all'autorizzazione del Principe per poterle disimpegnare in caso di gradita accettazione ccc. ecc.

All'elenco dei privilegi e delle esenzioni, non tardava, però, a seguire quello delle pene previste allo scopo di rendere più salda la compagine militare e più severa la disciplina della nuova milizia.


Alessandro Farnese.



335 « Essendo sempre tanto onorato il soldato - dice l'Editto quanto egli osserva più la disciplina militare, la via della giustizia e dell'ordine e la religione, è conveniente che, dove si aspettano fini virtuosi, non si veggano uscire atti scellerati. Laonde si ammonisce tiascuno che sia del Corpo di questa nostra milizia... perchè voglia essere, non solo nelle armi valoroso, ma nel resto della sua vita co~tumato e modello, perciocchè, se commetterà qualche ribalderia o ~celleratczza facinorosa e atroce, sarà punito et castigato inesorabilmente con severitudine; e particolarmente ricordiamo e comandiamo a tutti li descritti nel Corpo di detta milizia che onorino Dio, e non Ma alcuno ardito di bestemmiare il suo Santissimo nome et quello della gloriosa Vergine e d'alcun altro Santo, sotto le pene contenute nei nostri bandi, della fustigazione: e più severe, se recidivo. « Sieno puniti con pene corporah estensibili al supplizio estremo gli autori di risse gravi, con spargimento di sangue tra militari. « Proibizione di andar assieme con l'armi di notte in più di tre soldati riuniti, che non sieno di servizio pel Principe. « Il tratto di corda per un minimo di tre volte ed un ma ssimo lasciato all'arbitrio dell'ufficiale, per la disobbedienza, la mala volnnt~, la pigrizia e l'assenza volontaria alle parate, mostre e rassegne. << Chi è recidivo nel non obbedire al superiore o nell'allontanarsi senza il permesso del capitano, sarà espulso dalla milizia colla perdita di ogni privilegio. u Le pene per le: mancanze, essendo in fazione, saranno sempre corporali e sempre gravi )) . Le pene previste erano le seguenti: « la multa pecuniaria, l'arresto, gli esercizi di castigo, la prigionia militare, i lavori miJitari, i lavori forzati colla palla al piede, la morte sulle forche col laccio >•. Dalle misure di rigore comprese in questo Editto, parrebbe che il Duca Ranuccio volesse, per le sue milizie, una disciplina severa e che, come vedremo in seguito, non usasse alcun riguardo alle diverse categorie della scala gerarchica. Egli, che ben conosceva i soldati del suo tempo, sapeva come fosse necessario imporre l'obbedienza e la disciplina con la severità delle sanzioni, severità che egli, pur avendo dato prova, nei 30 anni del suo ducato, di essere un buon Sovrano ed un esperto organizzatore, rese verso la fine della sua vita per.fino eccessiva. Cosa, questa, che non potrà sorprendere, qualora si ricordino i mezzi disciplinari in uso presso gli eserciti del tempo, nel quale, presso le Fanterie svizzere, i ribelli ed i disertori venivano decapitati, chi


rubava aveva la mano tagliata, chi tradiva era lapidato dai compagni. In Spagna l'insubordinazione veniva punita con la forca ed il saccheggio con la fustigazione. ed, in Francia, chi bestemmiava era tenuto per sei ore legato ad un palo ed, in caso di recidiva, aveva la lingua trafitta con un ferro rovente, al ladro si tagliavano le orecchie, i disubbidienti ed i poltroni venivano fustigati.

Per quanto riguarda i Quadri ufficiali ed i graduati di truppa, la gerarchia nella milizia farnesiana era la seguente: Mastro di campo generale - Sergente maggiore - Capitano - Luogotenente - Alfiere · Sergente - Caporale - Soldato. Il Mastro di campo generale doveva prestare « giuramento nelle mani del Duca '> , obbligandosi ad adempiere i doveri della carica <~ con la fede, integrità, realtà e diligenza di un Cavaliere e Soldato onorato ». « Vedrà il detto Mastro di campo una volta l'anno - dice l'Editto - tutta la milizia raccolta insieme in una mostra generale e, oltre :1 tal mostr::i generale, debbe vedere una volta l'anno tutte le compagnie, sia ciascuna per sè, oppure riunite insieme, come a lui parerà più utile al servizio nostro, mostrando tanto a quelle a cavallo che a quelle a piedi cosa avranno da fare; e ai capitani particolarmente come dovranno esercitare li soldati; ed a tutti gli altri uffì. ciali quale sarà il loro ufficio, acciocchè tutti imparino e conoscano ciò che conviene a perfetta e buona milizia. « Che, quando il detto nostro Mastro di campo rivedrà dette nostre milizie e troverà che, per poca diligenza degli ufficiali o per ìnobbedienza ddli soldati, non si operi quel tanto che già egli avrà loro mo~trato o fatto mostrare dalli suoi sergenti maggiori, gli corregga e castighi, conforme gli errori e inobbedienze commesse. <( Che ogni qualvolta si dovrà fare la mostra generale, detto Mastro debba prima far riconoscere il sito per la formazione dello squadrone, ordinando alli sergenti maggiori quello che avranno da fare e dove. « Che il Mastro di campo dia il bollettino d'arruolamento al miHte, ordinandogli di portarlo sempre sulla persona, a fine d'essere conosciuto prontamente. « Che il detto Mastro di campo àvrà molto bene a fare che li capitani e luogotenenti alloggino in maniera alle loro compagnie,


3.17 ~e saranno situate in gran paese, che, non potendo così li soldati per la distanza in occasione accudir subito al capitano, il luogotenente ~ia posto in luogo, che gli altri possano accudire a lui. « Ogni qualvolta che occorrerà che il detto nostro Mastro di campo mandi i soldati col loro capo a qualsivoglia sorte di fazione per servizio nostro, dia in iscritto al capo loro l'ordine di tutto quello che avranno da fare, a fine di che, contravvenendo alcuno a tale ordine, sia punito et, intieramente eseguendo, siano onorati. « Che detto nostro Mastro generale non comporti che li capitani e altri ufficiali piglino presenti di sorta alcuna, nè che particolarmente li capitani possano esentare alcuno dalle sue fazioni . e, contro chi errerà, proceda col rigore che meriterà il caso, dando il castigo conveniente. « Il Mastro d i campo osserverà scrupolosamente che, durante le mostre, le rassegne et istruzioni, nè esso, nè gli ufficiali e solJati gravino li Comuni o le persone ».

Dopo avere così enumerati i doveri del Mastro di campo, l'Editto ricorda le attribuzioni degli altri ufficiali, a cominciare dai Sergenti maggiori, i quali dovevano vedere le milizie una volta all'anno, compagnia per compagnia, (( per vedere come li capit~ni tengono am maestrati li soldati e di tutto dar ragguaglio al Mastro di ompo generale». I Sergenti maggiori dovevano essere presenti ogni qual volta, per qualsiasi motivo, si dovevano riunire insieme due o più compagnie cd avevano l'obbligo, <( ogni volta che si doveva fare mostra generale delle milizie », di prendere gli ordini dal Mastro di campo generale, circa la località scelta per la mostra e di dare in tempo gli ordini necessari ai capitani ed ai sergenti circa la marcia che le compagnie dovevano compiere, lungo l'itinerario più breve, per raggiungere la località suddetta. Circa i Capitani, l'Editto prescriveva che essi dovessero passare in rassegna le loro compagnie una volta al mese, normalmente la prima domenica, ed informare tempestivamente il Mastro di campo generale ed i Sergenti maggiori, net caso che fossero costretti a fare la suddetta rassegna in un giorm, diverso da quello previsto. I Capitani dovevano, inoltre, badare che tutti i soldati si presentassero alla rassegna con le armi in efficienza e che fossero bene ad23


destrati ad assumere le diverse formazioni e ad impiegare bene le loro armi. « Saranno - dice l'Editto - li Capitani tenuti di andare armati innanzi alle loro compagnie: quelli di archibugieri col suo schioppetto e quelli di picca tutti armati colla sua picca, a fine che tutti li soldati imparino dai suoi Capitani tntlo quello che avranno da fare. « Che tutti i nmtri Capitani sieno obbligati a risiedere permanentemente alle loro compagnie, per essere subito ai nostri comandamenti e provvedere a tutti li disordini che nella compagnia potessero nascere; nè si possano partire dalle compagnie senza espresso permesso del Mastro generale ; in tal caso, però, lascieranno al luogotenente l'ordine che non si muova sino al loro ritorno ed, in caso che il luogotenente avesse legittimo impedimento, rimarranno presenti li al fieri. « Che detti nostri Capitani non _posson rimuover, nè far officiale alcuno, eccetto li caporali , senza ordine espresso del Mastro di campo generale. <e E, perchè le compagnie di milizia del nostro Stato, e particolarmente quelle di picche, sono di numero grande, ordiniamo che, nel partire che faranno le genti dall'alloggiamento, li Capitani li mettano in ordinanza, come farebbero se avessero da entrare in guardia, avendo prima riconosciuto il sito ove avranno da formare lo squadrone. « Che, dopo di avere insegnato ai soldati ad entrare in guardia, debbono ordinare lo squadrone, facendo marciare le Maniche, Guernitio11i et Manipoli (1) e a ciascuna di queste parti avvertirli dd suo luogo, acciocchè tutti sappiano quello che avranno da fare e, arrivati poi alla piazza d'armi, al luogo prefissogli, formare lo squadrone : il quale formato che sarà, il Capitano lo farà marciare alquanto, mostrando in qual maniera avrà da combattere l'archibugieria, moschetteria e adoperare le picche. (< E' fotto che avrann-0 tutto ciò, leveranno due Maniche, le quali verranno a scaramucciare con lo squadrone ed il capitano gli mostrerà in qual modo avrà da combattere l'uno e l'altro. « E perchè le occasioni e siti diversi sforzano a far <li diverse (1) Le maniche, le guernizioni ed i manipoli erano i reparti, quasi sempre di archibugieri o di moschettieri, che nello schieramento si mettevano intorno alle formazioni dei picchieri. Le maniche, ad esempio, corrispondevano, in certo modo, alle ali dello schieramento.


339 (orze li squadroni, i capitani saranno obbbgati a fare li squadroni q uadri di terreno e di genti ed alle volte prolungati ed altre parti, per poterli accomodare alla diversità delle occasioni e dclii siti, come li sarà insegnato dalli suoi superiori (1). « Dovranno finalmente i capitani d i archibugieria, nel partire che faranno dall'alloggiamento, mettere i loro soldati in ordinanza nel anodo appunto che si fa quando si entra in guardia e, fatto che .,vranno questo, porranno in fila i suoi soldati, o a cinque, od a sette, 1 onforme al numero che avranno di genti, esercitandoli in tirare, r voltare in ogni parte, a fine che, nelle occasioni, sieno pronti a tutto 1 iò che verrà loro imposto. « Che fuori delli giorni assegnati aUe mostre, li capitani sieno lcuuti, le altre feste, di an<lart a vedet e ura una squadra or l'.1ltr.1, e, ~e li loro caporali ]'esercitano bene, e mettere qualche premio all i picchieri, archibugieri e moschettieri, per quelli che maneggerà e tirerà m eglio ciascuna sorte di quelle armi; quali premi si compreranno dai danari che si saranno esatti dalle pene dei soldati. « Curino li capitani che, quando li soldati non sono in atto mi1irare di rassegna o di altra fazione, che nei giorni che si lavora, rnrnino all'esercizio loro e nehh;i no nd1':1rte loro servire a 6:1srnno, ricevendo la m ercede debita ; e, contrafacendo i giovani, non manchino provvedere, massimamente se i padri loro se ne quereleranno, e questo acciocchè non restino in oz io, e per detto ozio divengano poveri e dissoluti. « Curino ancora detti capitani di far ogni diligenza che li loro soldati vivino modestamente e non turbino in modo alcuno il quieto stato, nè del1a milizia, nè dei popoli nostri. « E, perchè l'ordine di questa nostra milizia non attende ad altro fine che alla quiete e salute dei popoli, avvertischìno li capitani e altri ufficiali a non gravare indebitamente nè soldati nè altri qualunque si sia; ma stiano contenti delli stipendi e professioni loro, vivino del suo, pagando le cose che pigliane . « Proveggano li capitani che li debiti contratti per conto di vettovaglie, quando li soldati sono in rassegna, mostra, o altra fazione militare, si paghino senza che sia necessario al creditore convenire il debitore innanzi al giudice o di far spese. · · ( •) Per guesta formazione in uso presso le Fanterie del temPo, si consulti la parte dd presente volume che riguarda le milizie piemontesi; parte nella quale ogni formazione viene presa in particolare esame.


34° « D'ogni cambiamento di domicilio di soldati dovranno li capitani informare il collaterale nostro generale ». In quanto ai luogotenenti, essi dovevano abitare presso la rispettiva compagnia e non allontanarsene senza permesso « per essere pronti così a vedere i soldati e per mettere in esecuzione li ordini superiori, procurando d 'intendere e saper bene che cosa convenga al suo ufficio e farlo compitamente >> . In caso di legittimo impedimento o di assenza del capitano, i luogotenenti dovevano curare l'addestramento delle compagnie. Anche gli alfieri, il cui grado corrispondeva a quello degli attuali sottotenenti, dovevano << stanziare in mezzo alle loro compagnie per tener l'insegna più sicura e presta a tutte le occasioni ed intervenire alle mostre con tutte le armi )) , Durante l'assenza del capitano e del luogotenente, gli alfieri dovevano <, vedere ed esercitare i soldati, come farebbero il capitano ed il luogotenente )I.

Attribuzioni analoghe a quelle degli ufficiali avevano anche i sottufficiali ed i graduati di truppa. I sergenti « sìcno obbligati dice l'Editto - a saper molto bene tutto quello che conviene all' ufficio loro, e particolarmente mettere in ordinanza, far marciare, far ritirare et insomma eseguire tutti gli ordini militari che gli vengono dati e come dalli sergenti maggiori sarà ioro insegnato; et sieno diligenti e presti in intendere ed eseguire quanto dai loro superiori gli sarà comandato». I sergenti dovevano, inoltre controllare successivamente l'addestramento delle singole squadre. Per guanto sì riferisce, infine, ai caporali, nei giorni festivi essi dovevano procedere all'addestramento della propria squadra « insegnando particolarmente agli armati come hanno da portare la picca e maneggiarla, come gli sad prima stato insegnato dalli nostri sergenti maggiori e poi dalli loro capitani, avendo particolar cura di vedere come tengono le armi all 'ordine e che non le vendano». Seguivano poi alcune prescrizioni circa l'impiego delle somme ricavate dalle multe pagate dai soldati per qualche mancanza commessa. Tali somme dovevano venire affidate, in ciascuna compagnia, ad un depositario scelto fra i soldati e « reputato idoneo per integrità et facoltà », il q uale doveva tenere nota di tutte le multe pagate, rila-


34 1 " i:irne ricevuta agli interessati e fare d a ,, cancelliere della compaHJlia ». Per i pagamenti, il depositario non poteva erogare alcuna \wnma senza un ordine scritto del capitano per ]e spese ordinarie, o del Mastro di campo generale per quelle straordinar.ie. •< E' perchè sieno spesi tali <lenan utiimente - conclude l'Editto et a comune bene et onore dei soldati e non convertiti in uso pro" io di persona alcuna, vogliamo et ordiniamo che se ne paghi prima 11 tamburi e pifferi et del restante si comperino armi, da d are in premio a chi delli medesimi soldati d ella compagnia tiri meglio di ,,rchibugio, o farà meglio alcun esercizio m ilitare, et detti depositari ~:,ranno tenuti, ogni principio di anno, a render conto della sua am111inistrazione nelle m ani del collaterale et alla presenza d.i un sold.no, a questo fine dalla compagnia eletto ». Seguono poi alcuni capitoli p articolari per le arm i a cavallo, sui 11uali reputiamo inutile indugiarci, poichè essi riguardano l'addestramento, l'armamento e le particolari esigenze della Cavaller ia.

Come si vede dai documenti che abbiamo riportato, ia n 1111z 1a farnesìana si basava. sul servizio obbligatorio per gli uomin i tra i. 18 n l i 40 anni, idonei fisicamen te e moralmente a servire il Duca e no n gravati da eccessivi obblighi familiari. Ufficiali appositamente incaricati provvedevano, come già in Pic1nonte, alla scelta di tali d ementi nei vari quartieri delle città e nelle campagne, compilando vere e proprie liste di leva. Gli inscritti veniva no poi ripartiti nelle: compagnie, i cui capitani risiedevano nel territorio di abituale dìmora degli iscritti stessi. Quindi un'organizzaz ione territoriale, quale si addiceva per una milizia, che non doveva distrarre i militi dalle normali occupazioni e per la quale le compag nie rappresentavano i centri di mobilitazione. Come in tutti gli altri Stati italiani, l' addestramento si effettuava nelle diverse _località in tutti ì giorni festivi . I capitani dovevano interven ire a nche per dirimere le eventuali vertenze fra datori di lavoro e militi, in conseguenza degli obblighi militari di questi ultimi, dirigere 1'amministrazione del loro reparto ; tenersi essi stessi sempre bene addestrati, in modo che le compagnie, ben preparate e bene istruite, potessero ben figurare in ogni circostanza. Oltre ad addestrare i corpi al buon impiego delle armi, bisognava - e Ranuccio Farnese ben lo comprese - educare gli animi, unirli


34 2 in un solo fascio di volontà, rendere i soldati devoti al loro dovere; ed a tale scopo miravano senza dubbio le ricompense, i castighi e l'opera educativa che dovevano svolgere gli ufficiali. A malgrado di tante sagge disposizioni, la Storia non ebbe a registrare alcuna impresa compiuta dalle Fanterie farnesiane che, benchè bene organizzate dal Duca Ranuccio, non ebbero occasione di dimostrare la loro efficienza sui campi di battaglia.


IX.

I.E f ANTERIE DELLA REPUBBLICA VENETA

Per quanto riguarda la Repubblica di S. Marco, Venezia può r~scre considerata, fin dal suo sorgere, come un libero Comune mari:wro, dimenticato dai barbari continentali, teutonici cd asiatici, per 11.11ura alieni dalle avventure di mare; arbitro, così, di vivere seco ndo lr sue esigenze morali e materiali, esigenze che imposero all a Repubblica una ben determinata linea di condotta. Priva di risorse agricole, Venezia dovette, infatti, fare assegnamento specialmente sul mare e, poichè l 'attività marinara, dalla pesca .u traffici, era l'unica fonte di vita e di prosperità, essa dovette affron1.trc le prime lotte appunto per garanùrsi il dominio del m are contro i pirati slavi e morlacchi della Dalmazia e dell'Istria (r), che infestavano le acque dell'Adriatico settentrionale, per impossessarsi dei loro porti e per soggiogarli definitivamente. Spintasi nel Mediterra neo per partecipare alle Crociate, Venezia dovette lottare contro Genova e poi contro i Turchi e, divenuta uno degl i Stati più potenti d'Italia, sentì la necessità di essere forte militarmente anche per terra, t:mto nella penisola, quanto nei suoi dominii d'oltremare. Secondo il Molmenti, l'appassionato storico dì Venezia, sulle prime navi venete uscite contro i pirati dalmati, militavano i cittadini tutti : quelli già dediti alla marineria, come marinai, nocchieri . maestri delle vele ... e gli altri come combattenti (2) o remieri, in quanto l'impiego dei condannati per delitti comuni, imbarcati sulle galere da battaglia come rematori, fu imposto in un secondo tempo, dal crescente numero delle imprese d 'oltremare. Tutti gli uomini che si imbarcavano quali combattenti. non potevano essere c he Fanti, (rì Morlacchi : gli originari della Dalmazia di in::-erta stirpe ; Slavi: gli uomini giunti al mare dai Balcani e daUa pianura Sarmatica. (:2) Si ricordi che, fino all'affermarsi delle armi da fuoco e delle artiglierie sulle navi da guerra, le truppe di terra erano quelle che combattevano anche sulle navi, in quanto trattavasi di lottare all 'arma bianca, durante gli arrembaggi.


344 perchè ad essi spettava di combattere, nelle azioni navali, contro gli equipaggi delle navi avversarie, oppure, sbarcati a terra, contro gli eserciti degli Stati nemici. Secondo le notizie riportate dal Dar6 (1), i grossi vascelli veneziani portavano 200 soldati, oltre al personale addetto ai remi. <t Oltre alle armi da tiro, come l'arco~ il giavellotto e la frombola, questi Fanti combattevano con lance, sciabole cd accette ed erano protetti da cor3zze e scudi >). Fra essi predominavano gli arcieri per le stesse ragioni. che, come si è detto, fecero tanto apprezzare gli arcieri e i balestrieri genovesi. In proposito, il Molmentì cita un documento in cui l'arco veniva definito « utile, necessarium >> e che stabiliva che, in Vcnezia, nei giorni festivi, tutti i cittadini maschi, di età non inferiore ai 15 anni, dovevano esercitarsi nel tiro con l'arco a San Nicolò del Lido. La Repubblica stimava, infatti, necessario, per la sua stessa vita, che tutti i cittadini fossero addestrati a ' e< balestrare continuamente et puramente, se::nza alcuna falacia, cum le nostre baliste, che sia bono et sufficiente ». l capicontrada ed i capisestiere, dirigevano e controllavano le adunate per l'addestramento, iscrivendo tutti i maschi che venissero :i trov:1r~i ndle ccndizioni volute e, tanto pc;- l'addestramento quanto per l'impiego, gli inscritti erano ripartiti in duodene (squadre), comprendenti per quanto era possibile sempre le stesse persone e ciascuna comp0sta di un capo, un sottocapo e dieci tiratori. Queste piccole Unità della Fanteria veneta durarono fin oltre i primi decenni dell'evo moderno e formarono, nel loro complesso, una milizia nazionale di facile e pronta mobilitazione. Le duodene di nobili furono distinte ·da quelle dei popolani, secondo gli ordinamenti della Repubblica. La mobilitazione si basava su queste elementari Unità organico. tattiche, che si costituirono anche nella terra ferma, man m;\no che Venezia vi estese il suo dominio, per ragioni di vita e di sicurezza militare. Tornei, gualdane, giostre ed altri esercizi d'arme servivano a completare e ad affinare la preparazione bellica dei cittadini. Oltre: alle duodene, concorrevano alla rapida mobilitazione le fai1ele , che - come ·risulta-da una serie di studi veneziani pubblicatisi nel secolo scorso, in occasione di un Congresso delle scienze in Venezia - erano squadre dì villici, senza istruzione militare alcuna, tratti dalle campagne vicine e da impiegarsi come rematori sulle galere, per economizzare i combattenti. (1) DARU: e< Histoirc dc V cnise ,,.


345 Venezia aveva foiziato la sua politica d' espansione nell'Adriatico, vr, so la Dalmazia, nel 990, sotto il Doge Pietro Orseolo ed anche al1111 a :wcvano avuto luogo i primi arruolamenti fra gli abitanti delle 1rrrc occupate, chiamati prima a servire per la difesa di quei domin1 r poi a partecipare ad ogni impresa di guerra. Una volta compiuta l'occupazione della Dalmazia, liberato, per quanto era possibile, l'Adriatico dai pirati e concluso il periodo di •r1eciale attività dovuto alle Crociate - alle quali Venezia parte' 1pò più per i trasporti e per gli affari che come Potenza militare I., politica estera veneziana si propose, nei secoli XIV - XV, due 111cle essenziali: -- affermare e consolidare i traffici con l'Oriente, acquistandovi tutte le basi navali necessarie per la sicurezza della navigazione, l liminando le concorrenze delle altre città marinare d'Italia, occup.indo così estesi òomin1 in Dalmazia e nei Balcani, che la portarono poi ad incontrarvisi coi Turchi; -- consolidare in Italia i suoi domini di terraferma, come era necessario per disporre di proprie risorse, per rendere più sicura la djfesa, che .le frequenti calate degli Imperatori tedeschi dimostravano mòispensabile e per impedire, infine, che: Padova, V erona, Vi..,cfrt.J, ' l'reviso, allora liberi Comuni, trasformandosi in Signorìe, potessero .,~pirare al dominio del Veneto. · Se noi ricordiamo che il Sacro Romano Impero, quale successore dell'Impero Romano d'Occidente, considerava allora l'Italia come un proprio feudo, dobbiamo convenire che sarebbe stato gradite agli Imperatori il poter scendere in Italia dal Brennero e dal Friuli, attraverso il Veneto, senza incontrarvi ostacoli e difficoltà. Scopo, questo, che si poteva conseguire con l'impadronirsi di Comuni come Verona, Vicenza e Treviso, già entrati ndla Storia d' Italia fin dal tempo delle invasioni barbariche e· Padova, già insigne fin dall'epoca romana. Queste città erano divenute liberi Comllni ùella prima metà del secolo XII, dopo varie vicende; avevano fatto parte della Lega contro, Federico Bar~aros_~a, _contro il _quale Verona controllava le provenienze dal Brennero; Vicenza è · rreviso quelle dalla Via di Aiemagna (Cadore); Padova quelle del Friuli. 11 degenerare dei C'..omuni nelle Signorìe (gli Eizelino, i Car~àra a Padova, gli Scaligeri a Verona) aveva po1 fatto sì che anche nel Veneto insorgessero rivalità e contese, che fecero spesso chi~dere aiuti non disinteressati ai potenti vicini o lontani, come l'Impero, il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia.


La Repubblica di S. Marco comprese subito i vantaggi che avrebbe tratto dal possesso delle città del Veneto, possesso che, permettendole il controllo delle provenienze dalla Val Lagarina, dal Cadore e dal Friuli, avrebbe completato quell'assetto territoriale, che già spingeva Venezia verso l'Isonzo; avrebbe aumentato il suo prestigio a·nche come Potenza di terraferma e le avrebbe infine dato la possibilità di opporsi ad ogni aggressione tedesca sulle Alpi, sia pure

Gali:uzzc dc:llu Repubblica di San ,\,!arco.

col concorso delle forti popolazioni alpine, tanto attaccate alle loro valli. Verona, trasformata lentamente in Signorla dal suo primo Capitano del popolo Martino della Scala (1269), dopo essersi impadronita di Treviso, Padova e Vicenza, cadde sotto i Visconti di Milano, fìnchè, nel 1405, dovette accettare di far parte dei domin1 veneziani di terra ferma; Treviso, conquistata dagli Scaligeri, venne da questi ceduta a Vtnezia nel 1339 ; Padova, gueifa, dopo aver tanto iottato contro Verona ghibellina con l'aiuto di Venezia, venne da questa sottomessa nel r4o6, con il consenso dei cittadini, acclamanti a S. Marco. I Dogi seppero poi amministrare le loro conquiste con tanta accortezza, lealtà e iiberalità, che, sulla fine del secolo XV, l'unificazione spirituale e materiale del Veneto poteva dirsi un fatto compiuto. Abbiamo ritenuto necessario ricordare queste vicende perchè da esse derivò quella stretta solidarietà che indusse i Veneti a partecipare


347 ,tic guerre della Repubblica e che permise alle Fanterie popolari di , onseguire meritata gloria anche nel Veneto. Dalla conquista della terraferma derivarono, infatti, le miiizie prrmanenti veneziane di assoldati di mestiere, per i presidi di pace r per la prima difesa del territorio in caso di guerra; come dalle 1 onquiste di oltremare derivò per Venezia la possibilità di disporre di quelle milizie straniere che, pur assoldate all'estero, si potevano dire anch'esse «Venete», poichè la Repubblica seppe rendersele fc. ,lclissime. Ma anche la Repubblica di Venezia volle disporre, oltre che dei mercenari nazionali e stranieri, di una milizia propria, non organiz'l.:Ua ex-novo nel secolo XVI, ma naturale continuazione delle ordin:inze comunali, gradatamente estese, salvo varianti di poca entità . ., tutte le città del Veneto sino all'Isonzo ed all'Adda. Quando, nel 13121 era stato eletto Doge Giovanni Soranzo, era stata, infatti, promulgata dal <e Savio alle Scritture » la legge che, riordinando le precedenti disposizioni sulla mobilitazione popolare ( r ), :aveva stabilito il principio della leva di tutti gli iscritti, distinti in marinai ed in soldati di terra; dalle liste dei quali si dovevano trarre a sorte le aliquote degli uni e deglì altri, che di volta in volta dovevano partire. Questa legge venne applicata per la prima volta nel r313, quando Padova entrò in lotta con Verona, perdendovi l'indipendenza, cosicchè Venezia dovette intervenire per stroncare le troppo pericolose ambizioni degli Scaligeri. Nel 1328 non fo necc~ssc1 rio neppure estrarre a sorte i componenti delle duodene pcrchè accorsero àlle armi molti volontari. Nel 1336- 1337 (nuova lotta contro V crona) furono iscritti nelle liste di leva ben 30.000 Fanti, il cui valore è dimostrato dai successi della politica estera veneziana e dal continuo ingrandirsi dei dom.1ni del.la Repubblica.

Le Fanterie venete raggiunsero la maggiore efficienza spirituale nel 1378- 1379, quando Venezia dovette far fronte prima agli Scaligeri di Verona ed ai Carrara d_i Padova, aiutati dagli Ungheresi, e poi anche ai Genovesi, giunti minacciosi a Chioggia (2). Allora,

i,.

( 1) Eucrnio MusAITl: « Venezia e le sue conquiste nel medio-evo (2) Cfr. MusATTI, op. cìt. e MICHELE foSCARI NJ : << Historia della Repubblica

veneta », Venezia, 1696.


34~ per l'opera di Vittor Pisani, tutti i cittadini furono iscritti in massa e vennero tutti armati; parte imbarcati per combattere sul mare, parte avviati in terraferma; mentre i ricchi mercanti, un po' per amor di Patria ed un po' per essere poi compresi nelle liste ufficiali dei nobili, facevano a gara nell'arruolare a loro spese balestrieri ed arcieri in ogni parte d'Italia. L'evento bellico, che meglio dimostrò lo spirito delle istituzioni militari venete e delle Fanterie popolari, fu l'assedio di Padova del 1509, assedio durante il quale i Fanti padovani, rinforzati da quelli di Venezia, dettero prova del loro valore. Già fin dal 1507 l'Impero, a Costanza, aveva deciso di non tenere conto alcuno del rifiuto opposto da Venezia al transito delle truppe tedesche dirette in Italia; rifiuto, dal quale erano già derivate in Cadore, in Trentino e sull'Isonzo, azioni di guerra nelle quali le truppe venete d'ogni specie, condotte da Bartolome? d'Alviano, erano state sostenute da quelle francesi agli ordini del Trivulzio. La Francia, padrona del Milanese, teneva infatti moltissimo all'amicizia della Repubblica di San Marco, la cui opposizione all'Impero riduceva le possibilità d'invasione del Ducato di Milano, da parte dei Tedeschi, alle sole orovenienze dalla Valtellina. Dal 1507 al dicembre 1508 i Veneziani avevano, infatti, contenuto sulle Alpi e lungo l'Isonzo ogni tentativo d'invasione germanica ed avevano anche conseguito in Cadore, a Gorizia, conquistando Trieste e procedendo verso il Quarnaro, tali vantaggi, da suscitare invidie e preoccupazioni in tutti gli altri Stati d'Italia. Tali invidie e preoccupazioni indussero il Papa Giulio li a collegare contro Venezia, oltre all'Imperatore, già in guerra da oltre un anno con la Repubblica, Ferdinando il Cattolico di Spagna, Firenze ed alcuni altri Stati ed a formare la Lega detta di Cambrai ( 10 ÒÌ· cembre 1508). A tale Lega aderì anche Luigi XII, Re di Francia, che riteneva opportuno staccarsi da Venezia ed unirsi ai collegati perchè la Francia non poteva disinteressarsi della potenza ormai raggiunta dalla Repubblica di San Marco, confinante sull'Adda coi possedimenti francesi della Lombardia. Nella nuova guerra l'Alviano ed il Trivulzio, già uniti nella vittoria contro l'Impero sulle Alpi nel 1508, si trovarono a combattere l'uno contro l'altro. Stretta fra i Tedeschi al nord ed al nord- est, i Francesi ad ovest sull'Adòa, le milizie italiane a sud -ovest verso Ferrara, Venezia tentò difendersi con una grandiosa manovra per linee interne; ma, troppo infer!ore alla Lega, fu battuta durante il primo tempo dalla manovra l


349 1 ivolta contro i Francesi, ad Agnadello il 14 maggio 1509. Fortuna1.11nente Luigi XII si appagò ài questo successo, che umiliava la pericolosa vicina sull'Adda e, sostanzialmente nemico degli Asburgo, iimase poi inoperoso e pronto a patteggiare. Tuttavia l'invasione d~l Veneto venne compiuta e l'esistenza stessa di Venezia ·sarebbe stata messa in pericolo, se l'eroica difesa di Padova non avesse salvato . la Repubblica dalla rovina. Infatti Mario S:muto (1) il 1° marzo 1509, scriveva che (< il mondo era in gran combustione, o, per dir meglio, Italia et il dominio nostro veneto, perchè una potente unione, col re di Pranza, con volontà del Summo Pontefice Julio secundo e col Re di Spagna, et fino i Fiorentini si metevano in questo moto, quasi alla ruina veneta ». Verona era già stata occupata dal Vescovo di Trento in nome dell'Imperatore; Vicenza dal vicmtino Vicario imperiale Leonardo T rissino, che aspirava a divenirne Signore e che, chiamato dai nobili padovani, desiderosi di riprendere l'antico potere, occupò anr.hc Padova. Soltanto Treviso rimase fedele ai Veneziani; ma, dopo le facili vittorie, i nodi della coalizione cominciarono ad indebolirsi poichè i Re di Francia e di Spagna erano ormai soddisfatti dei territori loro .1ssegnati; il Papa, ottenute le terre di Romagna, cominciava a preoccuparsi dei rapidi successi degli stranieri; l'Imperatore, che aveva fatto occupare dai suoi vicari gran parte del territorio veneto, indugiava in grandi apprestamenti bellici, che furo no, però, così lenti, da dare a Venezia il tempo di rioccupare Padova e di organizzare la resistenza di quest'ultimo bastione difensivo rimastole in terraferma.

L'assedio di Padova. Il 17 luglio il Procuratore della Repubblica Andrea Gritti, che fu poi l'anima della resistenza, accompagnato da Lattanzio da Bergamo e da Citalo da Perugia, con le loro milizie, e da alcuni nobili veneziani, riusd ad occupare di sorpresa Padova, catturandovi il presidio e lo stesso vicario imperiale Leonardo Trissino, che vi era entrato il 6 giugno. Se i nobili erano favorevoli al dominio imperiale, il popolo padovano esultò della vittoria veneziana; mentre i contadini, ( r)

MARIN SANUTO :

<1

Diari », VIII.


35° ostili agli Imperiali, sollevatisi, ne resero penosa e difficile la vita con le loro imboscate ed assalendo e depredando i convogli. I collegati, che si erano illusi di avere abbattuto il dominio veneto in terraferma, rimasero sorpresi. Niccolò Orsini di Pitigliano, ricondotti con lungh~ marce gli avanzi dell'esercito veneto da Agnadello a Mestre ed a Marghera, si diè a ristabilirne la disciplina con i severissimi metodi allora in uso. Vietò i'ingresso nel campo, piantò le forche per i ladri, ordinò alle donne di malaffare di sloggiare entro due ore e fece mozzare il naso e le orecchie ai disertori, qualcuno dei quali venne impiccato « poichè il potere del comandante si estendeva u sque ad capite ». Alla severità, necessaria a ripristinare la disciplina, !'Orsini seppe aggiungere anche le cure per il benessere dei dipendenti, facendo dare di tanto in tanto « un bon beverazo a li soldati » e portando, per evitare la malaria, l'esercito a Treviso, dove cominciarono ad affluire i rinforzi, e poscia a Padova (28 luglio). Al momento dell'assedio si trovavano ìn Padova 15.000 Fanti ed 800 uomini d':mne, oltre a molti Stradiotti (r) ed a numerosissimi villici rifugiatisi nella città ed impiegati . prima come lavoratori e posd::i. come combattenti e balestric.ri. A yuesti elementi si aggiunsero tutti i cittadini atti alle armi e gli uomini del contado ostili all'Imperatore; nonchè molti nobili venezi:mi che, in vista del pericolo, accettarono di combattere in terraferma. L 'efficienza di questo esercito improvvisato aumentò notevolmente con la disciplina, con la puntualità nel fornire i viveri e nel pagare il soldo (2), con la propaganda del Senato e dei Comandanti, intesa a tenere alto lo spirito delle truppe. Durante l'assedio si trovavano in Padova circa 80.000 persone. Contro le milizie mercenarie venete, completate e sorrette dai cittadini di Padova e dagli uomini del contado, si portava intanto l'esen:ito imperiale, tutto mercenario, fornito di buona Artiglieria e la cui forza, aumentata dalle aliquote degli altri confederati contro (1) Gli Stradiotti erano soldati di Cavalleria, che Venezia assoldava nella Dalmazia e che servivano fedelmente la Repubblica per generazioni e generazioni, da padre in figlio. (2) Si spendevano di soldo 00.000 ducati al mese: 30.000 per la Fanteria, 25.000 per la Cavalleria leggera, ufficiali ~uperiori ed uomini d'arme, 5.000 per i Capi.


Erasmo Gattamt:lata.



353 Vrnczia, ascendeva, a quanto sembra, a 16.000 Fanti ed a 17.000 ( '.,valieri. Come già si è detto, comandava i Veneti l'Orsini, uomo di Hucrra assai prudente, energico, rispettato dai dipendenti e tenuto 111 grande considerazione anche dalla Repubblica. Egli era coadiuv.110 dal Procuratore Gritti che, pur rimettendosi a lui per le opera1to ni militari, gli riusciva prezioso per le sue doti di organizzatore, 1K"1' la sua competenza di cose guerresche e soprattutto per la sua l''ontczza di decisione (1). [I comandante dei collegati, l'Imperatore Massimiliano, era mal 1 onsigliato da alcuni fuorusciti, che egli teneva sempre al suo fianco, , poco coadiuvato dai comandanti in sottordine, di nazionalità diversa, fra i quali egli non sempre riusciva a mantenere il necessario .11 ordo. Le artiglierie, sulle quali tanto assegnamento faceva l'Imperatore (romplessivamente il parco d'assedio, ancora incompleto, contava r36 bocche da fuoco, dal calibro di 35 mm. a quello di 46o mm.), fecero perdere molto tempo per raggiungere, lungo l'Adige, su chiatte, e pr r strade, la pianura veneta e di questo ritardo profittarono i Veneti per rafforzare le loro difese e per costruire le loro artiglierie. alle 11uali in Venezia si lavorava febbrilmente, giorno e notte, non soltanto presso l'Arsenale, ma anche in tutte le altre fonderie. Con questa specie di mobilitazione industriale, fu possibile inviare a Padova, dal 21 luglio al 31 agosto, I 17 pezzi di vario tipo (in maggior parte, secondo le richieste, di piccolo calibro : fakonetri e colubrine), 6.351 barili di polvere e 18.637 palle di piombo. Queste artiglierie, se erano insufficienti contro le mura di una fortezza, avevano una gittata per quel tempo assai notevole. Padova aveva una doppia cd, in certi punti, 'una tripla cinta di mura, costruite in epoche successive, fra il . II95 ed il 1505. Il perimetro esterno della cinta raggiungeva i IO lun. ed aveva 9 porte, con ponti levatoi sul fosso pieno dell'acqua fornita dal Bacchiglione e da un canale (Brentella) derivato dal Brenta. Molto si lavorò attorno alle mura per aumentarne la resistenza e per completarle con opere campali in terra. (1) Il Gritti aveva già dimostrato il MIO valore negli anni precedenti e continu~ nella sua instancabile opera, finchè, nel 1523, fu nominato Doge (1523 - 1538). 24


354 Questi preparativi vennero compiuti con un ardore patriottico continuamente stimolato dal Senato di Venezia, il quale, in un proclama in data del 31 agosto 1509, dopo avere ricordato la situazione politica, gli scopi della guerra, i successi già conseguiti, i molti provvedimenti già presi, esortava i combattenti a fare ogni sforzo per salvare Padova, e con essa Venezia, dall'invasione tedesca. I difensori avrebbero dovuto mostrarsi degni della fiducia in essi riposta, affermando << la loro fede, valorosità et virtù singular, de la qual, in tute le future historie et annali, se ne tenirà special conto e farassene par· ticular memoria et mentione. Sono gli occhii dc tuta Italia, imo de tuto d mondo, redrezadi et axspectanti ad veder le magnanime operationi vostre. Vui tuti combatete per la patria, per la libertà de la povera Italia dai barbari lacerata, de la fede dei quali et dispositione verso tutti Italiani se ne ha vedute tante antique et recentissima experientie, quante ogniuno sa, et noi ne siamo perspicuo et amplissimo exsemplo a tuti li posteri>), Il proclama ricordava, inoltre, che i difensori di Padova combattevano per la fede in Cristo e prometteva premi e retribuzioni ai più valorosi.

Mentre Venezia si preparava così all'imminente lotta, l'Imperatore: Massimiliano perdeva un tempo prezioso in attesa di due colonne sussidiarie, che dall'Austria e dal Friuli avrebbero dovuto unirsi alle sue forze : quella del Duca di Brunswick, che non potè oltrepassare Cividale, e quella di Cristoforo Frangipane, che fu costretta ad arrestarsi davanti a Gradisca dall'eroismo delle popolazioni friulane. Fallito il tentativo di distruggere le condutture dell'acqua potabile, non restò agli Imperiali che cingere d'assedio Padova e, dopo alcune azioni preliminari, svoltesi tra il 20 agosto ed il 15 settembre con qualche successo dei Veneziani, il 16 settembre venne iniziato l'assedio e, giunte le ultime artiglierie, queste vennero schierate, sotto il fuoco della difesa, intorno al saliente che la cinta delle mura padovane formava fra porta Codalunga e porta Savonarola; saliente intorno al quale i fossi avevano poca acqua. L'Imperatore, occupatosi personalmente dello schieramento delle artiglierie, fece iniziare, nello stesso giorno r6, contro la città il bombardamento, che andò sempre più intensificandosi. Alcune bocche da fuoco tiravano con palle incendiarie, mentre la maggior parte delle artiglierie batteva le mura ed il bastione di Codalunga. La notte sul


355 colmato il fosso con fascine, si tentò un attacco su Codalunga ; gli Imperiali vennero respinti. Ripreso il bombardamento, la sera del 20, dopo avere abbattuto 1. irca 150 m. di mura, i mercenari spagnoli ritentarono per due ore l'attacco; ma dovettero retrocedere, poichè i difensori, ritiratisi sui 1rrrapieni interni, li battevano di fronte e d'infilata. Il 22 l'Imperatore fece tirare con l'arco, appesa al dardo, una lettera diretta ai difenwri per esortarli (< a lasciar questi ribelli di Santa Madre Ecclesia et ~uoi, e per promettere, sotto parola di principe et fede cesarea, di nccettarli ai suoi servizi, con aumento di stipendio, per farli militare 1ontro li sporcissimi Tuchi )>. Le lusinghe dell'Imperatore rimasero senza risposta ed il giorno 16 venne tentato un altro attacco, durante il quale alcuni soldati riu) < imno a por piede sul bastione per venirne subito ricacciati; mentre gli stradiotti eseguivano sortite dalla parte sud della città, facendo r :1pidissime incursioni nel campo nemico. e catturando convogli di viveri e munizioni. L'attacco, per il quale l'Imperatore aveva promesso ricchi doni :1gli assalitori, venne rinnovato all'alba del 29 settembre; ma vennr ti),

111a

,m\.ura una volta .respinto.

L'Imperatore si convinse allora che gli sarebbero occorse Fanterie più numerose di quelle che aveva e pensò di appiedare la Cava lleria, che rimaneva inutilizzata. Chiamati pertanto i Capi francesi cd invitatili a muovere all'attacco a piedi~ ne ebbe la risposta che i Cavalieri non' patevano combattere da semplici Fanti, sai.va il caso che anche i nobili tedeschi, discesi dalle loro cavalcature, :.wessero partecipato all'attacco. l Tedeschi, però, si rifiutarono di combattere a piedi ; l'Imperatore non riuscì ad imporsi e, pur disponendo di un maggior numero di armati, non avendo altri Fanti da mandare all'assalto e vi~ta la penuria delle vettovaglie, decise di togliere l'assedio e fece riprendere più intenso il bombardamento per mascherare la ritirala. Alle ore 10 dd 29 settembre i difensori udirono tamburi e trombe e << grandissimo rumor di gridori, con i quali patria essere - scrisse Andrea Gritti - che c.ostoro persuadessero spa:ventarne ii . Nella città si diede l'allarme e si suonarono le campane a martello. « Si presentò al bastian de Codalunga cinque bandiere di inimici tra Alemani, Spagnoli, Taliani, et nostri si lassò montar suso, poi coi fuochi artificiali et con lanze combateno, sono rebutati con occisione de molti ... le fosse restano piene de corpi morti ».


Ad un'ora dopo mezzogiorno tacque ogni rwnore di armi in­ torno al contrastato bastione e l'assedio venne apbandonato. L'Imperatore incolpò di tradimento i fuorusciti, che, erano al suo campo, forse per giustificare lo scacco subìto e per mascherare la propria impotenza, e ne fece impiccare sette; ma, avendo egli rim­ proverato il fuoruscito Antonio Capodivacca, a lui fedele, per avt>r­ gli promessa la ripresa di Padova in soli 3 giorni, giustamente questi risposegli (1) <' Sacra Maestà, si quando vegnesti a campo li davi la battaglia, l'avevi senza dubbio. Hora è ben munita dì zente .et repari, et hanno victuric per un anno e mezzo». La ritirata si svolse per le strade rese impraticabili dalle piogge, fra le continue molestie dei Veneziani e la diserzione di molti villani del rraino; ma l'lmpcrarorc riuscì, àopo un mese di marcia, a por­ tare in salvo le grosse artiglierie. Quei di Francia, i Mantovani ed i Pontifìcii, ritiratisi per Bovo­ lenta, vi furono raggiunti e battuti il 2 ottobre e lasciarono nelle mani dei Veneziani 25 bocche da fuoco, munizioni e viveri. Lo stesso Cardinale d'Este potè salvarsi a stento. La guerra non cessò e, anzì, si complicò per nuovi interventi; ;:irsc- 11n po' òapertntto e durò anc0ra fino al r521. Nel 1514 si ebbe la gloriosa resislenza di Osoppo, durante la quale uomini, donne, vecchi e fanciulli concorsero a respingere e finalmente costrinsero gl'lmpe· riali a rinunziare all'impresa. La guerra, durata dal 1507 al 1521 rappresenta la lotta del più forte Stato italiano d'allora contro lo straniero, per riaffermare l'in­ di pe ndenza nostra, l'inviolabilità del nostro territorio, il diritto di decidere noi stessi delle nostre cose. Se, ne! campo della politica, er­ rori furono commessi, in quello militare questa guerra riaffermò la potenza anche terrestre della Repubblica di San Marco cd il valore delle sue Fanterie, poichè Venezia potè salvare il suo territorio per la virtù di Capi italiani, per la fedeltà delle milizie assoldate, per il ge­ neroso concorso dei cittadir•i e dei Fanti di Padova, di Cividale, di Osoppo, di Gradisca e di Brescia.

Reputiamo opportuno dedicare ancora qualche pagina alle ·Fan­ terie, particolarmente importanti, della gloriosa Repubblica di Venezia. (1) SAN\JTO: «Diari» e « Duchi di Venezia».




359

.Per la sua ricchezza,, Venezia credette possibile di non distrarre, prr la guerra, le sue genti dal mare e dai traffici e fece quindi asse~namento sulle truppe mercenarie, non per ragioni di politica in1crna, ma per ragioni economiche. Queste milizie, . composte di soldnti di mestiere, all'inizio dell'evo moderno, avevano nomi diversi: marinai, galeotti, stradiotti, Dalmati, cernide od ordinanze, Montenegrini, Croati a cavallo, oltremarini, corazzieri, cappelletti, dragoni, .tabardieri, carabinieri, travagliatori (zappatori e minatori) ccc. Riesce senz'altro chiaro che gli stradiotti, i Dalmati ecc. doves,cro far parte delle milizie di terre non venete, ma occupate da Venezia; mentre le altre milizie, prettamente italiane, dei domini di 1erraferma, erano in parte - per esempio: gli alabardieri - forma1.ioni di speciale prestanza per cerimonie, parate, scorte ecc. Tutte le milizie non italiane si arruolavano con una ferma di ,ci anni rinnovabile ; quelle venete avev~no in parte anch'esse un arruolamento volontario con ferma di sei anni; ma alcune di esse erano costituite con un arruolamento obbligatorio. Poco prima che si iniziasse la lunga guerra dal 1507 al 152 r era tt:lta decisa .la costitU2ione di speciali reparti di Fanteria per presiJi_J.1c le principali località di terraferma e per iniziarne, all'occorrcn·1.a, l:i difesa, per la quale si faceva sicuro assegnamento sull'intervento delle popolazioni. Finita la guerra, il Senato veneto riprese in esame, nd i'524, il progetto per la costituzione di questi reparti di Fanteria territoriaJe cli leva, la cui forza a molo avrebbe dovuto ascendere a 24.100 uomini, ripartiti come appresso: nel Bresciano 4.000, nel Veronese 3.000, nel Polesine 6oo, nel Bellunese 500, nel Padovano 3.000, nel Friuli 4.000, nel Cremonese 500, nel Vicentino 3.000, nel Trevigliano 3.000, nel Fdtrino i:::oo e nelle altre località minori 2.000. All'~opo venivano iscritti d'ufficio nelle liste delle cernidc (però con numerosissimi casi di esenzione dal servizio) gli elementi d'ogni località ritenuti idonèi alle armi, accettando anche le sponLanee offerte dei volontari. Gli iscritti, in tempo di pace, non dovevano essere distolti dalle loro normali occupazioni, ma soltanto istruiti militarmente in posto nei giorni festivi e chiamati ad operare solo in caso di bisogno. Criterio fondamentale, questo, che, col volgere degli anni, attraverso successive regolamentazioni, subi mutamenti notevoli, senza però che venisse intaccato il principio delle obbiigatorietà del servizio. Per esempio, nel 1533, fu dispost~ che dal complesso degli uomini delle


cernide, 9.100 di essi, tra volontari ed estratti a sorte, venissero passati a prestar servizio sulle galere, restandone in territorio solo 15.000, poichè, con gli elementi di Venezia città, non era stato possibile far fronte a tutte le esigenze della guerra marittima. I soldati delle cernide avevano l'archibugio ed erano suddivisi, come in Piemonte, in Colonnellati o Colonnelli; ciascuno dei quali aveva I propri capitani e tutti gli altri uffizìali che occorrevano. Tali Quadri venivano tratti, non dalle cernide stesse, o dai nobili di provincia ; ma dalle altre milizie professionali, militarmente più efficienti . Ogni domenica gli iscritti eseguivano gli <( esercizi comunali »; una volta al mese r< gli esercizi distrettuali )> : i primi servivano all'addestramento formale degli uomini e delle minori Unità; i secondi erano vere esercitazioni di campagna. Anche oggi, nel Veneto, si chiamano « campi delle cernide » quei piazzali che, nel 16oo e nel I 700, servivano per gli esercizi di queste Fanterie territoriali. Le cernide furono definite, con frase pittoresca, « sorta di miliz ia campestre »; ma tale definizione non risponde a verità. Nell'organizzazione delle cernide, come in tutte le umane cose; r.o:i do·:ettern :r..:rncarc gli errori e gli abusi, specialmente quan<lo lo spirito guerriero della Repubblica cominciò ad assopirsi. La Storia non ci ricorda gloriose imprese e lo stesso Ippolito Nievo, buon conoscitore della sua terra, ricorda le cernide con sorridente indulgenza ; m a, comunque, esse costituirono una vera e propria organizzazione di Fanteria italiana e bisogna non dimenticare che sorsero alla fine deila lunga guerra ricordata; guerra dopo 1a quale Venezia, offesa dal contegno di tutti gli Stati e Staterelli della nostra penisola, si appartò dalla vita politica europea e tutta si diede alla cura dei suoi affari in Oriente, dove la crescente potenza dei Turchi le imponeva sforzi costanti per non perdere le posizioni raggiunte. Per conseguenza mancò alle cernide quell'ambiente guerresco, che avrebbe potuto aumentarne l'efficienza. Ben diverse furono le Fanterie delle molte altre milizie che, assoldate da Venezia, le furono poi sempre devote e fedeli, perrhè comprese dei vantaggi morali e materiali derivanti dall'appartenere alla gloriosa Repubblica ed a questa legate, oltre che dalla comunanza degli interessi, anche da quella della religione, di fronte all'Islamismo dei Turchi. Così le eroine serbe che, per difendere gli i nteressi balcanici di Venezia, si contentavano del solo vitto; tali i famosi Cavalieri stra-


diotti, la cui virtù principale era la devozione alla Repubblica .:hc ~crvivano di generazione in generazione e della quale volevano essere onsiderati cittadini. Infatti, visto che le truppe mercenarie prese al u,tdo dalla Repubblica erano poste agli ordini di Italiani di altre provi ncie, gli stradiotti chiesero di essere comandati da un nobile vene·1.i:mo t< e non da un estraneo, come gli altri soldati » (1). Sembra che Venezia, dopo avere esperimentato questi Cavalleggeri nelle guerre in Oriente, li abbia usati per la prima volta in Italia, nella guerra iniziata .nel 1482 contro il Duca di Ferrara. Gli stradiotti venivano trasportati sino a Venezia, sbaroti al I.ido e, dopo una sommaria istruzione, avviati al fronte. Essi furono dapprima pari alla loro fama e costituirono la preoccupazione cki Francesi, costretti a restar chiusi entro Novara perchè, a quanto riferi~ce un inviato del Governo veneziano nelle Provincie napoleta ne, •< li amazavano e portavano le teste su le lanze ed i loro caval li andavano per le montagne come per piano )). Quando i Francesi stavano per partecipare alla Lega di Cambrai contro Venezi:i, i loro soldati si preoccupavano di sapere <e si la Signorìa haverà t~tnti stradio.ti come si dice >> . Oltre la paga, Venezia assegnava agli stradiotti , so tto cem: w <' dizioni, terre nei paesi d'origine, liquidava pensioni ai soldati, ai loro figli ed ai loro parenti, lì insigniva di onorificenze, soddisfaceva la loro vanità con segni esteriori che distinguessero i più degni dai loro commilitoni. Dalla regione di Cattaro provenivano inoltre gli Schi:ivoni, ai quali Venezia volle intitolare una delle sue p6ncipali arterie e che, nel 1797, 110n vollero riconoscere l'infausto trattato di Campoformio e per dieci anni combatterono contro Austriaci, Russi e Francesi, in difesa del territorio veneto. Quando Perasto: insieme ad altri piccoli paesi della val Trompi a, dovette, il 22 agosto del 1797, cedere agli Austriaci, il comanda nte della fortezza, che era un Dalmata, dopo aver consegnato ::il generale austriaco la piazza, prese il gonfalone di Venezia e lo portò nella Chiesa del paese, seguito da tutta la popolazione, e nel tempio, levando in alto quello che ormai non era più che un glorioso cimelio, disse, nel suo armonioso dialetto : " Per trecentosettantasett'e anni la nostra fede, el nostro valor t'à sempre custodlo per terra e per mar, dove ci à chiamà i to nemici ; per trecentosettantasette anni le nostre ( 1) MARIN S ANUTO:

" Commentari della guerra di Ferra ra "·


sostanze, el nostro sangue, le nostre vite xe state sempre per ti e felicissimi s'avemo reputà: per trecentosettantasette anni, ti con nu e nu con ti, semo stati sempre vittoriosi. Nissuno con ti n'à visto fugir, nissuno con ti n' ha visto vinti! « Zacchè no n ne resta altro por ti, el nostro cor sia l'onoratissima to sepoltuta e el più grande elogio, el vero, le nostre lagrime ». Poi, piangendo, piegò religiosamente il gonfalone, lo rinchiuse in una cassetta e lo seppellì sotto l'altar maggiore, come una santa reliquia.

Per concludere quanto si riferisce alle milizie veneziane, occorre aggiungere anc<>ra qualche notizia circa i condottieri e le cernide. La Repubblica disponeva di qualche condottiero che, avendo ricevuto terre in feudo, aveva l'obbligo di tenere degli uomini sotto le armi, a disposizione della Repubblica. Vi erano anche - come scrive il Pieri nell'opera già citata - ~uadre di veterani tenute a soldo ridotto, ivi comprese le squadre colleonesche vecchie e nuove ~ l1c, Jvpu la morte dd Colleooi (1475), parteciparono alle guerre della Repubblica e che si trovarono a Fornovo. Si direbbe anzi che, come le schiere dello Sforza si erano stabilmente sistemate nel Milanese, io stesso avvenisse per quelle del Colleoni, ed in generale per i Bracceschi, nel territorio della Repubblica di S. M:trco. Non mancavano, del resto, le famiglie n obili, -cittadine o paesane, che fornivano condottieri come i Gambara a Brescia, i Novello a Verona, i Manfro ni a Vicenza, i Porcia e i Brugnera nel Friuli ; ma è innegahile che l'aristocrazia della Serenissima era aliena dall'occuparsi di armi in terraferma, ed a questo contribuiva la generale, reciproca diffidenza. Un condotti.ero patrizio, con larga clientela in città e con un esercito nel territorio, avrebbe potuto trasformarsi in tiranno. D'altra parte le vecchie aristocrazie locali spodestate costituivano un elemento ancora malfido. Di conseguenza, Venezia reclutava condottieri fuori dei propri confini e soprattutto a Mantova, nelle Romagne e nelle Marche, mentre pure traeva la sua Cavalleria leggera dai propri domini d'Oriente. L'elenco dei condottieri veneziani, nel. 1483, ci mostra un esercito molto vario: delle sue 123 squadre, un quarto appena è di stipendiati o di sudditi della Signorìa; quasi un terzo viene dallo Stato Pontificio e specialmente dalle Romag ne, il resto dalle terre confi-


11.111ti o v1cme di Mantova, Mirandola, Parma (1). Anche riguardo 11 Fanti, Venezia recluta i suoi provvisionati, non solo nel proprio 1rrritorio, ma, in misura crescente, in Romagna, ove Ravenna le app,1rtiene dal 1441. La Serenissima cura, però, in modo particolare le cerne, ossia i , on tingenti di Fanteria che, nei paesi di confine, i Comuni devono 11untenere per un mese almeno, per la difesa del territorio. Ed in pr:itica li adopera anche in guerre di carattere offensivo, purchè non lungi dai confini dello Stato (2). Così che esse costituiscono una milizia mobile di circa 120.000 uomini, tutt'altro che disprezzabile. In complesso, nello Stato veneto, la cui capitale è già natural1nentc protetta dalle lagune, le forze permanenti erano scarse ; m a in 1 ornpcnso quelle di complemento erano in huona quantita e ben pre<lisposte, sebbene una percentuale pur sempre troppo alta di esse \I trovasse fuori dei confini e fosse costituita da quegli elementi che, presso l'esercite !>forzesco, rappresentavano le ulteriori forze inte· gratrici. _ Nel 1500 i Veneziani usavano già da molto tempo le ccrne ed i provveditori dovevano, come ahbiamo già detto, prender nota, nella ri spettiva provincia, -di tutti ~li u1)111ill; a ti.i alb gilel.f:.i c.1 ;:. ;,;·,;;;·.:: rome soldati guast~tori o c~nducenti dei traini.'-- Gli uomini , cosl cerniti, dovevano passare la rassegna una o due volte al mese e vcn i\'ano chiamati alle armi in caso di guerra. Nel 1490 la Repnhbl ica, fatti venire da ogni parte esperti tiratori cli archibugio, li mandò in tutto il territorio dello Stato ad istruire i giovani nel tiro ed> all'uopo, vennero costruiti bersagli in tutti i capoluoghi ed assegnati premi ai migliori t iratori. A questa milizia si (1) E precisamente: 10 squadre sono di collc:oneschi; altretta nte di feudatari, nobiltà locale, Avogadro, Martinengo, Gambara, Malvezzi e nobiltà m ilitare recente:, Brandolini, Fortebraccio; 6 di stradiotti, 2 del castellano di Rimini, terra della Rcpubblic.1, I di Nkcclò da Rimin i. Il :·estc ; preso, si p1JÒ dirr, da tutta l'Italia: 26 squadre appartengono al luogotenentt: generale e :il governatore generale Roberto Sanseverino e Renato di Lorcba; 24 sono di condottieri dello Stato Pontificio : signorotti feudali come Anguillara, Savelli, o condottieri veri e propri, quali Gianiacopo Piccinino e Gaspare di Perugia; 8 di signori delle Romagne (Forlì e Pesaro), 5 di Mantova, 7 del conte Rossi di Parma, 4 di Galeotto della Mir:mdola, 3 di Agostino di Campofregoso, fuoruscito genovese, ecc. . (:2) In questo caso l'onere dei Comuni si prolungava, volontariamente o no, oppure il Governo assumeva il pagamento delle cerne, mutandole, di fatto, in provvisionati.


univano, in tempo di guerra, i partigiani, che venivano impiegati come Fanti leggeri. Presso il Governo della Repubblica erano i Sav1, nel numero di sedici, divisi in tre ordini. Quelli del primo dovevano riferire al Senato sull'amministrazione dello Stato e ~ulla polizia; quelli del secondo dovevano provvedere alla milizia terrestre e quelli del terzo a quanto si riferiva ai commerci ed alla flotta. Due cittadini scelti, chiamati «provveditori », dovevano, come i commissari fiorentini, seguire l'esercito. Con questa milizia di terraferma, dalla quale Venezia, come già i Comuni, teneva lontana la nobiltà, la Repubblica combattè, al tempo della Lega di Cambrai, contro le forze di quasi tutta l'Europa. Più tardi la milizia di terra ferma venne divisa in due classi: una composta di 15.000 Fanti pronti a m arciare dovunque ed in qualsiasi momento, e l'altra, di 40.000 uomini, che èostituiva la riserva. Nel 1558 le milizie venete dell'Istria formavano 6 compagnie di 500 uomini ciascuna.


PARTE TERZA

LE MILIZIE TOSCANE E LE f ANTERIE PIEMONTESI



I.

LE ISTITUZIONI MILITARI DI FIRENZE

In Firenze, con ia decadenza delle milizie comunali, era scomparsa la milizia cittadina cd era rimasta in vita, ma non efficiente, quella del contado o delle leghe, conservata più per la forza deila consuetudine che per un'efficace difesa. Qualche volta le Fanterie delle ieghe dello Stato fiorentino furono chiamate sotto le armi, se non tutte, almeno quelle dei territor1 più vicini ai confini minacciati. Esse servirono in occasione delle di~cese degli Imperatori in Italia o per opporsi alle minacce delle compagnie di ventura od, infine, per costituire i presidi delle forten.c . Q u.;!che volta le Fanterie vennero chiamate alle armi qua::ido b P.e pubblica si trovò esposta ai più gravi pericoli, come avvenne ndle guerre contro Castruccio ed in quelle contro i Visconti. Nel 1327, ad esempio, venne ordinato ai soldati iscritti nei ruoli di tenersi pronti e furono armati e pagati per quindici giorni. Come ricorda .il Canestrini nell'opera già più volte citata, verso la fine del secolo XIV, era stata tentata una riforma ddla milizia delle leghe nel domi nio della Repubblica e, riveduti i ruoli e scelti 4 uomini per ogni centin:iio, era stata formata una ordinanza di 6.000 Fanti, divisi .in tre schiere, di 2.000 uomini ciascuna. La prima doveva essere composta dei più notevoli, più fedeli allo Stato e riconosciuti per veri Guelfi., che potessero armarsi a proprie spese e venire a Firenze alla difesa della Signorìa; la seconda era destinata aJla guardia del le fortezze e la terza, unita ai mercenari della Repubblica, doveva seguire nella guerra e nelle spedizioni il Capitano generale della guerra. Per conseguenza, l'ultima schiera formava l'esercito mobile della Repubblica. Nella prima metà del secolo XV si ricorreva ancora alle Fa nterie del contado ed Averardo dc' Medici, nel 1430, passò in rassegna gli uomini di tutte le leghe. Tuttavia le milizie fiorentine, nel corso di due secoli, rimasero in tale abbandono che si dimostrarono assai meno efficienti, sotto molti aspetti, delle compagnie di ventura. Sarebbe


stato necessario adeguare le disposizioni milita~i alle necessità del tempo ed ai progressi dell'arte della guerra, poichè le disposizioni del secolo XIII non erano più sufficienti nei secoli XIV e XV. Invece le F anterie ancora inscritte nei ruoli non venivano esercitate ed erano chiama te alle armi soltanto temporaneamente, per pochi giorni. Per conseguenza esse erano poco addestrate e poco disciplinate e, come dice il Canestrini, non altro avevano che il coraggio. Per questo Fire nze e le altre Repubbliche e le Signorìe erano state costrette a vaìersi delle compagnie di ventura, accrescendone l'importanza. Tuttavia la milizia comunale risorse in Firenze, quando la città, cacciati i Medici e riconquistata la libertà, armò tutti i sudditi per difendere la Repubblica. Verso la metà del secolo XVI, anche Siena 1..hia111Ò alle armi tutti i cittadini per difendere la sua libertà.

L' Ordinanza fiorentina ideata ed organizzata da Niccolò Machiavelli. Xlhttco B2ndd!o, :1.el ri~ord:.i:-e, :i:::?lc su::: nov.:!le, l'incontro tra il Mac.: hi:ivelli e Giovanni dc' Medici, avvenuto presso Milano .nell'agosto <lel 1526, racconta : << Messer N iccolò quel dì ci tenne al sole più di tre ore a bada per ordinar tre mila Fanti, secondo quell'ordine d1c avev.1 scritto, e mai non gli venne fatto di potergli ordinare... Ora, veggendo Giovanni de' Medici che Messer Niccolò non era per fornirla così tosto, per cavar tutti di fastidio ed affrettare il desinare, detto allora al Machiavelli che si ritirasse, in un batter d'occhio, con l'aita dei tamburini, ordinò q uella gente in vari modi e forme, con ammirazione grandissima di chi vi si ritrovò >). Questo episodio non deve farci considerare gli influssi eser~ citau dal Rinascimrnto sul pensiero militare degli Italiani come limitati Jl campo astratto della teoria, poichè essi riuscirono egual~ mente efficaci anche nd campo dell'azione, la quale - pur non potendo allora svolgersi in teatri troppo vasti e .tanto meno proporsi l'indipendenza della Patria comune - per il risorgere delle Fanterie, per la disciplina e per il valore delle compagnie di ventura nazionali, per le imprese dei nostri condottieri e per le savie riforme dei Principi più illuminati, doveva ben presto affermarsi in tutta l'Europa, con una nuova prova del nostro primato, anche nella difficilissiméct arte del combattere e del vincere.


Quando il Machiavelli scrisse, infatti, i sette libri sull'Arte della J<Ucrra, egli s'ispirò. senza dubbio, alle cognizioni teoriche da lui ucquisite attraverso i libri e soprattutto al ricordo di Roma, vivificato ,I.dia lettura e dallo studio dei classici; ma egli aveva già una certa r,perienza, avendo organizzato nel 15o6 l'ordinanza fiorentina, ed unche i ricordi suggeritigli dalla pratica esperienza acquisita dovet1r ro unirsi ai suggerimenti dei classici, quando, nei forzati ozi di ~. Casciano, egli si accinse a fondere la pratica e la teoria nel compilare la sua principale opera militare. E' interessante ricordare quanto, in proposito, scrisse recentemente Giorgio Berzero, nell'introduzione alle <• Pagine scelte dell'Arte della guerra di Niccolò Machiavelli » : (< E' un fatto, come os· M'rva l'Hobohm, che le riminiscenze e le citazioni classiche, così frequenti e, talvolta, ingombranti ndl 'Arte della guerra, mancano tJUasi del tutto nella stesura delle carte riguardanti l'attività impiegata <lal Machiavelli nella costituzione della milizia fiorentina. Ciò ~ignifica che il Machiavelli, assecondato e sostenuto, anche nell'esilio, cb lla passione che l'aveva per anni ed anni animato intorno ali '<· orclinanza n, ha trovato l' ispirazione e la forza di scrivere i suoi sette libri auraverso gli !>chemi eò i moddl i ld terari. E questa gu 1<..1>i v ,g;,n:c;; dell 'opera si riflette rnlla primit iva concezione della milizia, fornitagli dal travaglio ddl'esperien:z.a, la irrobustisce di nuovo sangue, la amplia e la inquadra nei lineamenti di una prospettiva storica, ,m1, nello ste~so tempo, la astrae dalle esigenze concrete del '50 0 e dagli sviluppi che via via l'arte bellica prendeva nell'urto delle forze storiche, le une contro le altre armate. Gli nocquero l'isolamento di San Casciano ed il forzato sequestro dalla feconda attività di un tempo, in quanto che gli impedirono di osservare, controllare, confrontare, in nuovi cimenti e nuove esperienze, le vicende militari che vanno dalla battaglia di Ravenna (12 aprile 1512), di cui egli fa una critica così superficiale e manchevole, a quelle di N ovara (1513), di Marignano (1515), della Bicocca (1522), di Pavia (1525), a non citare che le più importanti per l'impiego tattico delle armi da fuoco, anche nell'offensiva, e per l'efficace cooperazione delle tre Armi, Fanteria, · Artiglieria, Cavalleria. <( L'esperienza della guerra di Pisa gli nocque e gli giovò. Gli nocque: pcrchè, stomacato dàl contegno degli aiuti francesi , indignato di tutte le « condotte n che gli parevano aver trasformata la guerra in un mercato - ove bisognava saper trafficare bene il capitale militare, ricavando., col minimo dispendio di forze, il massimo 25


37° rendimento - pensando, per averlo sentito molte volte raccontare, che nel 1440 ad Anghiari, nella zuffa tra le bande di Niccolò Piccinina e quelle di Micheletto Attendalo, vi fu un solo morto e< non di ferite o di altro virtuoso colpo, ma caduto di cavallo e calpesto n e a Zagonara (1424), nella mischia tra Fiorentini e Milanesi, erano morti solo tre Cavalleggeri, precipitati da cavallo e affogati nel fango, coinvolse nella medesi ma condanna eroi e affaristi, guerrieri e faccendieri, mestieranti ignobili e comandanti forti e sagaci, che tennero sui campi di battaglia alto l'onore delle armi italiane: da Bartolomeo Colleoni all'Alviano, da Federico di Montefeltro a Prospero Colonna, da Giangiacomo Trivulzio a Giovanni dalle Bande Nere. Ma ora è dimostrato ( 1.) che, proprio ad Anghiari e a Zagonara, come ad Aquila (1424), S. Fabbiano (1460), Riccardina (1467), Campomorto (1482), Madodìo (1427), Rimini (1469), le perdite non furono per nulla inferiori a quelle delle altre battaglie dell'epoca, che il Machiavelli esalta, perchè combattute da milizie tedesche, spagnole, svizzere e francesì. « Gli giovò perchè, intelligente e assimilatore q uale era, gli offri la possibilità di studiare da vicino: l'opportunità di comprendere la tecnic:a degli ;m:i.lti, la risoluzione dei problemi di ordine logistico, il valore della Fanteria operante a masse q uadrate di picchieri con l'appoggio degli scoppiettieri, le deficienze e le competenze nell' arte dd , ninando e, soprattutto, l'importanza, da lui non una sola volta affermata e ribadita, delle artiglierie nella guerra d'assedio; sia per chi difende come per chi assalta. Di ciò si deve tener conto quand•) si va ripetendo <.:he il Machiavelli non comprese la funzione delle armi da fuoco e la loro decisiva efficacia nel combattimento. Possiamo dire che non valutò a dovere il rendimento deHe armi da gitto nella battaglia manovrata e contro le fortificazioni campali per due motivi: 1° - perchè, avanti la battaglia di Ravenna (anche a Cerig nola nel 1503), le artiglierie avevano rappresentato una parte molto secondari;i nrl conseguimento della vittoria; (sappiamo che le vittorie di Carlo VIII in Italia non furono certo dovute alla superiorità di armamento e alle sue 40 bocche da fuoco, ma al tradimento, alla discordia, al caos diplomatico e politico dei potentati italiani); 2° - perchè egli, tagliato fuori dal mondo e dalla quotidiana esperienza delle cose pubbliche, non potè far tesoro, nelle sue meditazioni, dei pro(1) BwcH: Schlachten ».

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Die Condottieri, Studien iiber die sogenanten unblutigen


37 1 gressi militari in quegli anni, veramente rivoluzionari nel campo tattico ed in quello strategico. Valorizzò, invece, il tempo che aveva di raccogliersi e concentrarsi sui iibri classici, intorno al fuoco della ~ua ammirazione, del suo orgoglio e dell'entusiasmo che sentiva per 1 Romani antichi, intorno alla luce della sua fede circa l'avvenire della ua e nostra Patria, allora più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che li Ateniesi, senza capo, senza ordine, battuta spogliata, lacera, còrsa (1), ma nata per risuscitare le cose mor te, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura (2); valorizzò, per l'organica, per i servizi logistici e i reparti rudimentali del genio, la sua personale esperienza che gli bruciava ancora nel ricordo e lo spingeva a uscire, ad ogni modo e ad ogni costo, d a quella sua rugginosa ed avvilente inerzia ». E' vero - come scrive il Sombart (3) - che il nuovo spirito cd il progresso dell'Artiglieria contribuirono alla formazione degli eseriti permanenti ed il Machiavelli, di conseguenza, per un certo senso, era impigliato nella contraddizione di chi vuole l'incremento d: questi, senza vedere a fondo la necessità di un largo im piego d i q11ella; è vero......, come scri•;e il Pieri (4) - che il Segretario fiorentino, con la sua formazione legionaria del probìema t attico " rnmc I ui •,111.. 1 L ; : q uadrato dei picchieri oltramontani »> quadrato che gli artiglieri e gli arc hibugieri dovevano « str:icciare » con opportune manovre di fianco e schieramenti successivi lungo la direzione dell' attacco front:iie Jdl'avversario, non risolve del tutto il problema stesso . C'..osì pure si ammette che le formazioni organiche del Machiavelli, composte solo òi elementi del contado, sono al disotto delle formazioni organiche dei Romani, composte di cittadini e carnpagnuoli con gli stessi diritti e doveri, e l'azione distruttiva del combattimento, la rottura delle linee avversarie, che il Segretario affida agli armati di scudo e spada, nella legione romana è affidata prima alle armi da gitto. Ma, anche ammesso .tutto questo, non si può certo dire - conclude il Rerzero - che il Machiavelli non tenga nessun caicoio degìi ostacoli passivi del terreno, che m anchi in lui, almeno nelle guerre d'assedio, il concetto dell'azione logoratrice delle artiglierie, che non riconosca l'efficacia, anche nel combattimento aperto, delle armi da (1) (< Il Principe », XXVI. (2) « Arte della guerra l}, Lib. VII, fine. (3) W. SoMMRT : « Krieg und Kapitalìsmus », Munchen und Leipzig, 1913. (4) Op. cit., pag. 453.


37 2 fuoco portatili, che sia contrario all'azione sui fianchi del nemico, pur pr~diligendo l'azione frontale. Se po~ aggiungiamo la ~elice intuizione della Fanteria nazionale, da lui proclamata Regma delle battaglie, l'infusione dello spirito romano nell'esercito, destinato, anche secondo lui, a sviluppare la coscienza nazionale nei cittadini ed a forgiare la tempra virile e guerriera della stirpe, il concetto di una milizia che educa ed immedesima il cittadino nel soldato ed il soldato nel cittadino, l'idea della caserma, della piazza d'armi, del terreno di manovra e dei campi di battaglia come palestra del popolo alle p iù alte virtù civili, militari e patriottiche, come scuola in cui la massa, osservata nel « Principe >> con un triste fatalismo natur1listico, è avviata ed educata al vaJore e a sacrificarsi generosamente ~:>er un b~ne comune, che trascende l'interesse individuale, l'utile economico a cui è legata. per profondo istinto di natura; se aggiungiamo ancora il suo supremo appello ad un Dio che spiega ed assiste 1 legittima e illumina l'opera del Principe, il quale esplica virtuosamente la sua missione di unificare l'Italia, si accinge a governaria coi buoni e con le buone leggi ed a presidiarla con un esercito di cittadini - soldati sani, forti, c arditi, perchè <c sani le sue ferite, ponga fine a' sarchi di Lomb:m:!i:l, :il!e taglie dd Reame e di T oscana. e là guarisca di quelle sue piaghe, già per lungo tempo infistoiite >,; si comp renderà come non stoni sulle sue labbra l'accento profetico e la metafora che sa di miracolo biblico. Comunque, è fuor di dubbio che i concetti sviluppati dal Machiavelli nei sette libri deU' Arte della guerra, coll'aiuto dei classici e quale risultato dei suoi studi teorici, furono gli stessi che lo avevano guidato nel fare le sue proposte per la costituzione dell'ordinanza fiorentina, come mise efficacemente in chiaro Eugenio Barbarich nell'opera già citata.

J)er meglio far risaltare la figura di Niccolò Machiavelli quale scrittore militare, 1a grande influenza che egli esercitò, se non subito, sui grandi scrittori militari dell'immediata antirivoluzione francese e del secolo XIX, si riportano le seguenti parole del Foscolo che ben definiscono l'ambiente letterario militare nel quale il Machiavdli scrisse: ,, Le divisioni provinciali, il sistema ancora feudale d'Europa, le cattedre della letteratura usurpate da gente senza amore di patria e senza cuore, allontanarono dalle guerre del secolo decimosesto le

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Elmo e scud o di Don Giovanni d'Austria.



375 generali teorie degli antichi. Molte furono le battaglie, poche le rcultanze, si operò sempre e non si meditò mai. E, mentre la fortuna e le passioni governarono la guerra, innumerevoli tr:aduttori ed interpreti desunsero esattamente le istituzioni ed i metodi della Grecia, prima inventrice della disciplina militare, e di Roma conquistatrice del mondo, ma si tradusse col lessico e si commentò Cùlla g rammatica, si ammirò da antiquari l'antica milizia, si notomizzarono ad una :, d una le imprese, ma nessuno seppe risalire alle ragioni universali delle vittorie greche e romane ». Sarà opera di Niccolò Machiavelli - ~c risse testualmen te 11 Bark 1rich ·- di indagare e di vedere, colla su:t singolare facoltà di analisi, le vere ragioni dei fatti storici.e sociali , le crnse per le quali Roma fu grande; e sarà rno titolo_di g loria imperitura l'aver ciò fa tto per due ahi scopi patriottici : quelli doè di riformare lo spirito militare in rralia, in quei secoli nei qnali la patria nostra volgeva a profonda decadenza politica, e di preparare milizie nazionali capaci di cacciare lo straniero. Egli quindi ci appare, non solo, come dice il Ca no nge 11 il primo dei precursori dell'arte m iiitare modern.1 , poichè al! 'alha di un' era novella ha precorso i tempi, sollevando con stupefacente ~3.gacità. il velo del!'avvenire }>; bensì com~ u:v) dei riù ~r:indi !L~~ liani che mai siano esistiti. Popolo armato e libero, virtù civili e militari sono i concetti fo ndamentali sui quali il Machiavelli basa la grandezza di Roma. Queste due idee egli pone come fondamr.nto di tutto il suo pensiero militare e, per conseguenza, la cognizione dell'Arte della guerra è pe r lui una parte essen ziale della scienza dello Stato; la virtù è b forz::: vera degli eserciti, allo stesso modo come lo è della nazione; senza di essa un esercito non sarà mai forte, non sarà mai nulla di grande. 11 Bisogna, egli dice, che vi sia armonia ed accordo tra la vita civile e la vita militare. La contraddiziorre che esiste tra queste due istitn7.ioni non ha altra ragione di esistere ·che nel nostro erroneo g iudizio. l migliori soldati di G recia e di Roma erano anche i m 1gliori cit-

tadini>>. La virtù non può trovarsi nelle bande mercenarie, per le quali sono ignoti l'onor militare, la fede ai patti giurati, la fedeltà alla propria bandiera; nei mercenari che fanno la guerra senza servire ad alcun principio, ad alcuna patria; ma bensì nel cittadino - soldato. Ed il Machiavelli è così convinto di questa verità, che tutta la sua vita, tutta la sua opera, con passione di apostolo, egli rivolge nel predicare questo principio, di armare il poPolo, di educarlo a combattere e a


morire per la patria. L 'educazione militare di un popolo è la base della sua indipendenza. Per ottenere ciò è necessario che l'eseròto sia disciplinato, di una disciplina basata sull'obbedienza proveniente dalla persuasione dell'inferiore sulle preminenti qualità morali ed intellettuali del superiore. ,< E ' meglio, per comandare una moltitudine, essere umano che superbo; esser pietoso che crudele ... tr:t. quelli eserciti nei quali non è affezione verso di quello per cui combattono, non mai vi potrà essere tanta virtù che basti a resistere ad un nemico poco virtuoso H .

L 'esercito dev'essere composto solo di buoni cittadini: <' Devesi soprattutto riguardare nel soldato ai costumi, che in lui siano onestà e vergogna, altrimenti egli diventa strumento di scandalo e principio di corruzione, e ciò perchè, nell'educazione disonesta e ne!l' animo bruto, non può capere alcuna virtù che sia in alcuna parte lodevole)>. L' uomo quindi bene educato, bene addestrato, bene armato è il prnno fondamento di una buona istituzione militare: « Gli uomini, il fer ro, i danari ed il pane sono il nerbo degli eserciti, ma di qùesti yuallro sono necessari i primi due, poichè gli uomini ed il ferro trovanu i dana ri ert il p:rne, il pane ed i danari non trovano gli uomini ed il ferro ),. L"esercito popolare nazionale porta di necessità, secondo il Machiavelli, la p rcpondernnza dell,1 Fanteria. Gli eserciti che stimeranno i Cavalieri più dei F anti, saranno sempre deboli e si esporranno a molti pericoli. E nella Fanteria bisogna, all'u sanza dei Romani, riporre tutta la forza dell'esercito. Con ciò non si deve rinunciare totalmente alla C.walJeria, potente Arma ausiliaria, « buona a fare scoix:rte, a correre e guastare il paese nemico, a tenere l'esercito di quello tribolato e sempre in sulle armi, ad impedirgli le vettovaglie \> . Per quanto concerne l'Artiglieria, il Machiavelli è del parere che essa nuoccia più a chi si difende che a chi attacca. Il miglior modo di lottare contro l'A rtiglieria è quello di portarsi risolut;unente avanti. e< Fra la prima ~ seco~da scarica corre sempre un certo lasso di tempo, che permette d1 guadagnar terreno, e ciò si può fare tanto nell'attacco delle _artiglierie di una piazza forte, quanto in aperta campag~a >i. Eglt prospetta anche .che <' l'artiglieria ha bisogno dì esser difesa, se no cade nelle mani del nemico }).


377 Scopo della guerra deve essere la vittoria decisiva, riportata sul nemico in campo aperto. « 1l fine di chi vuol fare la g uerra è òi poter combattere con ogni inimico alla campagna e poter vi ncere 11 na giornata » e la vittoria è la conseguenza del valore del <apitano r dell 'abilità manovriera dell'esercito. Il capita!lo dc,ìe t ssere, per il Machiavelli, investito in tutto e per tutto di quell'antorità neces~.1ria per esercitare efficacemente il comanào, non legato dalle òeci&ioni dei Capi di governo o dei Gabinetti militari, in quanto <( in finiti r rrori si fanno, non essendo sul luogo e non sapendo infiniti partirnlari che sono necessari sapere, a voler consigliare bene ». L'esercito deve essere mobile, mano vriero e capace di mut:1re forma facilmente, in presenza di ogni nuovo evento. •< Importa più t he cosa alcuna avere i soldati che si sappiano mettere negli oròini 1osto ed è necessario in questi tenerli, esercitarveli, andare forte, in11a nzi o indietro, passare per luogh i difficili senza turbare l'ordine, pcrchè i soldati che sanno fare bene questo, sono soldati pratichi. Messi che sono, e poi essendo rotti per qualche accidente che na!,Ca o dal sito o dal nemico, è bene esercitarli a fare che in un rnhito si riordinino. Questa è l'importanza e la difficoltà e dove b isogna assai •·sercizio e pratica )>. Poichè nella battaglia è d' uopo tener ~empre presenti a 11d1t i f:i ttori casuali> il Machiavelli è fautore delle riserve in mano al comandante: sja per sfruttare la vittoria, sia per parare ai rovesci cd ali'imprevisto. Egli chiama errore il sistema dei contemporanei di dare ;,ll 'esercito una sola linea di battaglia, costringendolo ad un impeto olo. Coefficienti di vittoria sono dal Machiavelli ritenuti: la fiducia nelle proprie forze, la chia~·a, netta visione della situazione ed il rapido adattamento delle decisioni ad essa. « N elle cose di guerra nascono da un'ora ad un'altr~ infinite varietà, per cui non sj deve pigliare troppo animo dalle prospere, nè viltà dall'avverse, perchè spesso nasce qualche mutazione ; e ciò deve insegnare che, a chi &i presenta l'occasione, .non la perda perchè dura poco ». Per il primo egli, nonostante l'imperfezione delle armi da fuoco, ne prevede tutte le conseguenze nelle future guerre e, benchè sostenitore dell'ordine profondo, egli indica tutti i difetti dell'ordinanza svizzera, troppo rigida nelle sue articolazioni, mancante di flessibilità, mentre la Fanteria deve essere mobilissima e soprattutto pronta all'offesa più che alla difesa. All'uopo egli costituisce in Firenze la sua ordinanza, cioè il suo battaglione di 6.000 uomini, diviso in IO


378 battaglie> a somiglianza delle IO coorti m ..:ui si divideva la legione romana. Per quanto riguarda la fortificazione> animato come è da spirito al tamente offensivo, egli ritiene le fortezze più dannose che utili. Soprattutto egli ritiene che la miglior difesa delle piazze forti è la difesa attiva. << Niente di più dannoso per una fortezza che avere altri forti, sui quali è possibile ritirarsi, perchè la speranza che gli uomini hanno di potersi salvare, abbandonando una località, è causa di far perdere il luogo stesso e, questo perduto, la piazza è intierameme perduta». Secondo il Barbarich> il Machiavelli precorse i tempi, poichè solamente: quando uomini e tempi furono maturi per l'evoluzione, ii suo conceuo si avverò e ie sue dottrine, modificate pci nuovi progressi tecnici, cd applicate sul campo di battaglia dalla Rivoluzione francese, fecero rivivere le forme più degne dell'arte militare. Il Machiavelli fu il primo in Europa che., elevandosi contro i pregiudizi durati per così lungo tempo, dichiarasse essere la m ilizia una istituzione nazionale e non u n mestiere e dimostrasse la superiorità della Fanteria sopra la Cavalleria (1). Egli, 0ltre :ill'aver posto i fond:1menti degli es{'.rciti moderni, dettò e scrisse, dal 1507 al 1512, le norme per la formazione, l'istruzione e la disciplina della nuova milizia, che egli stesso, segretario dei Dieci, nel dicembre del 15o6, fece ist ituire, formata quasi inte(1) Come abbiamo già accennato, dopo il Machiavelli, e sino al Montecuccoli ed anche dopo, fu grande il numero degli scrittori d i argomenti militari. Il Rocq ua ncourc, nella sua letteratura militare, posta in fine al volume IV del suo « Corso di Arte e Stori:~ militare», non ricordò altri autori italiani, tranne il Villani, il Guicciardini, il Machiavelli, il Giovio ed il Montecuccoli. Ma gli rispose il <l'Ayala, con una Bibliografia militare italiana, che comprende più di cinquecento autori, tra i quali molti scmo ancora assai più pregiati. Basti citare alcuni fra i principali del secolo XVI, cioè: Cornazano Antonio di Piacenza, Ruffo Giordano calabres(;, Tartaglia Niccolò da Brescia, Mirandola Francesco, Moncenigo Andrea, Fran~esrn di Giorgio Martini, Assinito Angelo, Busca di Milano, T izzone da Polfi, Gandino Marc'Antonio, Cataneo Ji Novara, Cataneo Pietro di Siena, Pigafetti Filippo, Zanchi da Pesaro, Ad riano Adolfo, Bombini di Cosenza, Castriotto di Urbino, Cicogna Giammatteo, Mc~a _Domenico di Bologna, Alghisi da Carpi, Cemorio Ascanio milanese, Ferretti Francesco di .Ancona, Garimberto da Parma, De Lauteri Iacopo del ffresc1ano, Montemelhno Francesco <la Perugia, Da Coniano Giovacchino, Morozzo Achille, De Pasino Aurelio da Ferrara, Rocca Bernardino da Piacenza, Ruscelli da Viterbo, Sansovino Francesco veneziano, Chieregatto da Vit:enza,


379 r.1mcnte di Fanteria, e per la quale compilò le leggi, gli ordini ed i

h:i ndi. La sua proposta o prouvùione per istituire nella Repubblica fiorentina m ilizie nazionali di Fanteria, porta la data del 6 dicembre 15o6 (1) e noi reputiamo opportuno riportarla integralmente, data l'importanza del documento, per quanto riguarda la Fanteria del l<'mpo e l'importanza che la nostra Arma avrebbe sicuramente acqui~tato negli eserciti e nelle guerre dell'avvenire.

Le fanterie nell'Ordinanza fiorentina. Per l'iscrizione dei nuovi Fanti nei ruoli della milizia, si ordinava a tutti i Podestà di, coovo(are i .sindaci dei Comuni, coadiuvati da due cittadini soelti, per formare, in ciascun Comune, il ruolo di tutti gli uomini daì r5 anni in poi dei rispettivi abitanti, indicando l'età di ciascuno. Nel caso che venisse deliberatamente omesso qualche nome, i sindaci venivano puniti con due tratti di corda. Venivano iscritti nei ruoli i volontari ed anche i cittadini temroraneamente non idonei alle armi all'alto <ldl'iscri:t.ionc per ;i,fcrmità; ma che potevano riacquistare in seguito l'idoneità fisica al ~crvizio militare. !)'Evoli Cesare da NaPoli, Fenetto Giulio da R:wenna, Fioravanti da Bologna, M:irtino Giovambattista da Napoli, Roma.no Bartolomeo, Aconcio Iacopo da Trento, Belici e Bellucci di San Marino, Bran.;::tccio fra Lello cl.i Napoli, l:lran cnccio Giulio Cesare, De' Marchi F rancesrn da Bologna, Capobianco Ja Vit enza, Carafa Diomede Conte di Maddaloni, Lorini Bonaiuto da Firenze, Lapicini Antonio da F irenze, Ramelli Agcstin() :.b Milano, Rovere Francesco Ma 1 ia Duca d'Urbino, Sarvognano Mario, Theti Carlo <la Nola, Tarducci Achille ùa Siena, Flammelli e f;;,lcone da Firenze. (,) Agostino Lapini, nel suo <e Diario Fiorentino )) ricorda in propasito : ., 1\ dì t5 fcbbra:o si Ee una n1ostr.:: in Pi~zz~ de' Signori Ji 400 Fa.nti., 1 quali aveva ordinati Piero Soderini, gonfaloniere, che furno de' nostri contadini; e dava loro a ognuno un farsetto bianco et un paio di calze bianche ,. rosse; et una berretta bianca e le scarpette, et un petto di ferro e le lance cl a chi scoppietti. E questi si chiamavano battaglioni e dava loro uno Conesrabile che li guidassi et insegnassi loro a adoprare !'arme. E questi erano soldati e stavonsi a casa loro; et erano obligati, quando risognassi, andare dove (ussi loro comandato; e con questo ordine ordinava di far mohe m:gliaia di ge nte, per tutto il nostro contado, di mode che, quando fossi bisogno di far gente, non accadrebbe mandar per altra. gente forastie ra; e questo fu tenuto da ognuno bell°ordine, nè mai più usato q u i per noi ». 1

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Nel compilare i ruoli degli uomini in ciascuna comunità, si doveva prendere nota anche delle armi possedute da ciascuno od in proprietà o per averle avute affidate dalla Repubblica. « Per non rendere troppo gravoso il servizio militare, di ogni famiglia di quattro uomini se ne iscrivevano soltanto due; delle famiglie di tre persone, soltanto una. Degli iscritti venivano istruiti un terzo per volta. Dai ruoli generali si estraevano due liste; una dei giovani atti alle armi al momento della loro iscrizione e l'altra dei meno atti >• . Gli iscritti nei ruoli della milizia godevano di alcuni privilegi. Veniv:rno graziati delle multe od ammende pecuniarie, nelle quali fossero incorsi fino al giorno dell'iscrizione, per delitti o cause criminali, e potevano portare !e :irmi in qualunque luogo, e perfino dentro il palazzo della Signorìa. Quest'ultimo privilegio venne più tardi limitato fino ad un'ora di notte, dati gli inconvenienti che si verificavano. Si davano le armi prima ai militi della città; poi a quelli del contado, popolo per popolo. Nessuno degli iscritti poteva rifiutare k armi a lui affidate dal Podestà dd luogo e, pur lasciando agli iscritti le armi di loro proprietà, la distribuzione delle diverse armi era fatta in modo che, per ogni centinaio di Fanti, settanta fossero armaci di picca e altri trenta di ronche, di grossi spiedi, di baiestre o di archibugi. Questi ultimi venivano distribuiti nel numero di otto od, al massimo, di dieci per ogni cento armati . Si teneva nota degli iscritti forniti di armi proprie e di quelli che le ricevevano dalla Repubblica. Le corazze venivano acquistate presso gli armaioli di Brescia o di . Milano ; per le knce si facevano venire gli abeti dall 'A ppen nmo. Pochi giorni dopo avere ricevuto l'armamento, i Fanti venivano passati in rassegna presso ogni podesteria e venivano distinti in due classi: una di quelli che potevano venire confermati; l'altra di quelli che non sembravano atti al servizio. 1 Comuni erano tenuti a formare anche le liste dei non iscritti; ma che potevano esserlo non appena guariti dalle infermità che li avevano fatti giudicare temporaneamente inabili al servizio. Si usava, in questo, il massimo rigore, perchè, come si legge nell'istruzione data dal Machiavelli a Piero Guicciardinì, « questa è arte da giova~i e pochi ne è de' giovani, che non siano o non possino diventare aptt ».


T_Tna volta iscritti ed armati tutti gli uomini dello Stato, distinti per popoli, per podesterie e per provincie, si procedeva alla formazione delle compagnie col riunire gli uom ini dei piccoli Comuni, in numero proporzionato alla popolazione, sotto una bandiera _fregiata da un leone e dal numero de!la compagnia. Per ogni bandiera o compagnia v' ern un capitano; diverse compagnie o bandiere erano riunite sotto un Connestabile, scelto normal1nentc fra i sudditi o che fosse almeno toscano od italiano. Il capitano veniva eletto dai Nove; qualche volta dal Connestabile e confermato dai NovC', spesso dal Consiglio comunale. Le compagnie avevano la forza da roo a 300 Fanti, secondo i! numero degli abitanti. Più compagnie, ed in generale quelle della stessa provincia o della stessa vallata, formavano il battaglione agli ordini del Connestabile. Formate le compagnie, consegnate ai capil.in~ le bandiere, riunite le compagnie pc. vallata o provincia al comando di un Connestabile, s'iniziava l'addestramento. Ordinariamente ogni mese si riunivano in mostra generale tutte k bandiere delìa provincia e, dopo la messa, detta all'aperto in modo che tutti potessero ascoltarla, veniva tenuto un discorso sui doveri della milizia e sul1'amore della patria e della libertà. Assistevano alla mostra i Commissari mandati dai Nove. Una volta al mese gli iscritti erano riuniti dal Connestabile per gli esercizi c:li tiro con Un alabardit:;·e gli schioppi. Le compagnie venivano addestrate del sec. XVI. anche d' inverno, tutti i g1orrn festivi, e l'istruzione:: veniva fatta ad imitazione delle Fanterie tedesche. Nei giorni festivi i Connestabili sorvegliavano l'addestram ento, andando ad ispezionare i militi di ciascun Comune.

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Severi erano gli ordini dati dal Machiavelli per la disciplina. Era, infatti, proibito presentarsi alle riviste, se non con le armi

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già indicate per ciascuno nell'apposito registro. Se un Fante si presentava senza le armi o con armi diverse da quelle stabilite, gli venivano sequestrate e rotte in presenza dei reparti. Chi mancava alla mostra, una volta fatto l'appello, veniva punito con una multa o come preferiva il Machiavelli - con la prigione. Spesso i mancanti venivano poi presentati ai Nove, che li ammonivano o li condannavano. Ogni Connestabile doveva sorvegliare i suoi uomini, badare alla disciplina del suo reparto e perseguire i delitti commessi dagli iscritti nella milizia alla sua dipendenza. I militi venivano spesso ammoniti negli ordini che si leggevano loro durante le mostre e si procurava di tenerli concordi, inducendoli a rimandare ad altro tempo la soluzione delle vertenze personali. Era prevista la pena di morte per chi induceva i compagni ad abbandonare la bandiera durante le operazioni di guerra; per i capitani che si servivano della loro compagnia per qualche questione privata o per conto di un privato; per chi arruolava persone per risoh-ere questioni private ed, infine, per chi, durante le mostre, provocava disordini, risse e ferimenti. Il mancare a sei mostre consecutive veniva considerato come un reato gravissimo, punibile secondo la deci~ione dei Nove. Molto severe erano le pene previste per i bestemmiatori, i giocatori e coloro che vendevano le armi. Tali reati potevano venire puniti, secondo la gravità, con la morte o col confino. Se un milite inviato al confino se ne fosse allontanato illecitamente, veniva punito con la morte o col taglio di un piede. Per i capitani colpevoli, oltre la pena di morte, era prevista anche la possibilità di togliere loro la compagnia e di privarli del grado. Ogni arruolamento per parte di u n altro Stato era severamente proibito e gli ingaggiatori dovevano essere perseguiti inesorabilmente dai Cop.riestabili." · Gli uomini in scritti nelle milizie, che fossero passati al servizio di un altro Stato, venivano trattati come ribelli, specialmente se portavano con loro le:: armi avute dalla Repubblica. Nell'assenza del colpevole, veniva punito il di lui padre od il di lui fratello. Come si è già detto, i Connestabili venivano scelti di massima fra i sudditi della Repubblica e dovevano comunque essere tmcani od, al· meno, italiani. Essi dovevano presenziare alla distribuzione delle armi, fare le mostre generali e le rassegne, esercitare i Fan~ nei giorni festivi, sor-


vegliare che le armi non venissero perdute, abbandonate o vendute, ,,vedere le liste dei non iscritti, chiamarli alle mostre e farli passare nei reparti, se ritenuti atti alle armi. Essi dovevano, inoltre, tenere u.qgiornato il registro degli uomini inscritti alla milizia, distinti per l,:indiera; quello degli uomini iscritti, ma non ancora presenti nei reparti; quello dei caporali; quello dei dimessi dalla milizia od as~cnti o morti, distinti per bandiera; un registro degli uomini ancora privi di armi; un altro delle armi disponibili presso lo stesso Conne,1nbile, perchè esuberanti rispetto al numero dei militi o perchè ricuP rate per la morte o per la partenza degli uomini. I Connestabili potevano arrestare e consegnare al Podestà del luogo i soldati colpevoli, purchè le mancanze si fossero verificate alla ioro presenza. In caso contrario dovevano farne rapporto ai Nove. I Connestabili venivano spesso trasferiti da una provincia in 11n'altra. Ricevevano la paga di r2 ducati d 'oro al m ese, e, neHe ,cdi delle bandiere a loro sottoposte, avevano diritto all' alloggio, alla legna; nonchè alla paglia per un cavallo, a carico della comunità. Spesso, in nome dei Nove, il Machiavelli ebbe a raccom anda re :1i Connestabili dì tratt::ire i militi con um::mit?i, di correggedi, d~1ra nte gli esercizi militari, senza umiliarli e di non m altrattarli. L 'Ordinanza a cavallo era formata di Cavalleggeri arm ati di ba· lestra o di scoppietto. Portavano la lancia soltanto i capisquadra e rn uomini per ogni centinaio. Era divisa, come quella a piedi, in bandiere, ciascuna al comando di un capitano. Ogni bandiera com prendeva alcune squadre di circil 20 cavalli ciascuna. I capisquadra venivano eletti dal Connestabile, il quale aveva ai suoi ordini più b:mdiere. La forza di ogni bandiera non doveva essere in feriore a cinquanta cavalli. I Connestabili ddl'Ordinanza a cavallo si chiamavano condottieri e ricevevano come paga 450 fiorini all'anno; mentre i capitani ed 1 capisquadra ricevevano 2 ducati ·a1 ·mese ed i balestrieri r ducato al mese. All'Ordinanza a cavallo andava unita - come ricorda il Canestrini - una banda di quattrocento Fanti, tratti da Castiglion Fiorentino e dal suo contado, dai diciotto ai trentun'anni; e due bandiere, ciascuna di trecento uomini a piedi, dai diciassette ai trentacinque anni. Il che: dimostra che:, per rinforzare:: l'Ordinanza a cavallo, si sceglievano i Fanti più giovani.


La milizia .fiorentina subì qualche trasformazione nel 1514 e per l'eroica difesa di Firenze del 1530. Quando, nel 15r2, il Machiavelli lasciò l'ufficio di Segretario e ritornarono in Firenze i Medici, l'Ordinanza venne ricostituita il 19 maggio 1514, sempre secondo le idee del Machiavelli e subendo soltanto lievi trasformazioni. Soppressi i Nove, la suprema vigilanza sull'Ordinanza venne affidata ai Dieci di Balia e poi agli Otto di pratica, ai quali spettò di ordinare l'iscrizione dei militi, la formazione delle compagnie in tutto lo Stato, dove i Fanti raggiunsero il numero di 10.000 ed, infine, 1a nomina dei Connestabili. Cacciati nuovamente i Medici nel 1527 e ripristinato il governo popolare, vennero rimesse in vigore le disposizioni date per la milizia dal 15o6 al r512. Gli Otto di pratica vennero sostituiti dai Dieci di libertà e pace, detti anche di Balia e si ricostituì l'ufficio dei Nove dell'ordinanza e milizia. Secondo il Varchi, nel 1527, la milizia costituiva, in tutto lo Stato, trenta bandiere; mentre quella del Machiavelli era divisa in quarantasei compagnie. Al comando delle trenta compagnie del 1527, venne preposto Babbone di Paolo di Naldo da Brjsìghella e nel 1528 la nuova m ilizia venne ordinata nel modo seguente. Le trenta bandiere vennero distinte in due divisioni: una di sedici ordinanze, agli ordini diretti di Babbone da Brisighella, composta dalle bandiere di Pescia, Vicopisano, Barga, Pietrasanta, Fivizzano, Castiglion delle Terziere, Scarperia e Barberino di Mugello, Borgo San Lorenzo, Vicchio e Dicomano, Pontassieve e Scascia, Firenzuola e Piancaldoli, Marradi e Palazzuolo, Castrocaro e Portico, Modigliana, Calleata e Valdibagno, Poppi, Castel San Niccolò e Pratovecchio, Bibbiena, Castdfocognano e Subbiano. L'altra divisione era forte di quattordici bandiere, al comando di Francesco del Monte, e comprendeva quelle di San Miniato, Campiglia, Pomarance, Radda, Greve e Colle, San Giminiano e Pocrgibonsi, Terranuova, Castelfranco, Laterina, Bucine e Montevar~hi, Monte San Savino e Foiano, Civitella, Montepulciano, Cortona, Castiglion Aretino, Arezzo, Anghiari, Montedoglio e Monterchi, Borgo San Sepolcro, Pieve San Stefano, Chiusi e Caprese. I due c_oman_danti erano stati assoldati per due anni, con cinquecento Fanti. F.ss1, che dovevano ubbidire ai capitani generali, avevano piena autorità sopra le compagnie cd i militi; ma non potevano congedare i Connestabili ed i Capi-eletti dai Nove di Ordinanza e milizia, senza l'autorizzazione di questi.

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La formazione delle trenta compagnie era affidata a quattro :Ommissari, mandati dai Nove nelle diverse parti dello Stato ed inaricati della distribuzione delle armi, acquistate in Germania. Le ompagnie venivano esercitate dai loro capitani anche nel tiro con 'archibugio. Nel 1528 furono iscritti nella milizia tutti i cittadini dai diciotto 1i trentasei anni; ma se ne armarono soltanto ro.ooo alla volta, per 10n sottrarre troppe braccia alla agricoltura.

Con questa milizia, e con uomini assoldati, i Fiorentini si prepanvano a resistere alle minacce ed alle armi, con le quali Papa Clenente VII dovt"va poi, nel 1530, por fine alla libertà della Repubblica. Oltre alle trenta compagnie o bandiere delle quali abbiamo già letto, con le leggi del 6 novembre e del 14 dicembre 1528, venne isti11ita in Firenze una milizia speciale per la città, la cui forza non uperò i 7.000 uomini, j quali concorsero alla difesa di Firenze duante l'assedio. Le leggi del 1528, che disposero l'istituzione di questa ,1ilizia, furono emanate specialmente per frenare l'in:;ulcm,a Jdla ~uardia di Palazzo, composta di trecento giovani. La milizia cittadina di Firenze venne costituita, come nel pasato, per gonfaìone, di giovani dai diciotto ai trentasei anni. Dei :.ooo uomini che la costituirono, r.700 vennero armati di archibugio, .ooo di picche ed il resto di alabarde, spiedi e spade a due mani (T). sedici gonfaloni o compagnie erano riuniti in quattro battaglioni: ino per ogni quartiere della città, agli ordini del rispettivo Commisario. -Ogni compagnia eleggeva il suo capitano (che veniva poi conermato dal Consiglio degli Ottanta), il luogotenente, il banderaio eci capis<Juadra. I capitani erano tutti fiorentini; i quattro sergenti naggiori (uno per quartiere), che dovevano istruire i militi, erano taliani: Giovanni da Turino, Amico da Venafro, Pasquino Corso e ~iovambattista da Messina, il quale ultimo era già stato sergente naggiore nelle bande di Giovanni de' Medici e venne . assoldato, econdo il Varchi, col titolo di generale e maggior sergente di tutte ~ milizie dello Stato per due anni, con lo stipendio di trecento ducati l'oro l'anno. (1) Come si vede, in un solo ventennio, la proporzione degli archibugieri, a un decimo era aumentata fino ad oltrepassare la metà dei soldati.


Per eleggere gli ufhciali ed i capisquadra, le compagnie si riunivano nelle rispettive Chiese, alla presenza dì un Commissario inviato dal Consiglio degli Ottanta. Le compagnie si riunivano ogni mese in una piazza, dove i sergenti maggiori insegnavano ai militi gli esercizi militari, il maneggio delle armi ed il tiro al bersaglio. Tutte le sedici compagnie si riunivano insieme una volta all'anno e percorrevano la città, dalla piazza della Signorìa al prato d'Ognissanti, dove si esercitavano nelle evoluzioni militari e per il combattimento (r). Come già si u sava per l'Ordinanza istituita nel r5o6, anche per la milizia nazionale dello Stato e per quella cittadina di Firenze, venne disposto che ogni anno un giovane dell'Ordinanza cittaclina, vesiilo Jd cursalc:ttc; e con la spada in mano, arringasse neUa Chiesa principale di ciascun quartiere i militi ivi radunati, per esortarli alla difesa della Patria e della libertà; e che il 15 maggio dì ogni anno un giovane venisse incaricato di tenere un discorso nella sala dd Gran Consiglio del Palazzo della Signòrìa, in memoria della rìcuperata libertà e di Gesù Cristo, considerato protettore della Repubblica fiorentina. Questa rnn tava allora tra i suoi difensori : i! Biliotti, il Bichi, Goro da Montcbenichi e Fran~esco Ferrucci; fra i suoi fortificatori il Buonarroti cd il San Gallo; fra gli storici il Nardi, il Varchi, il Segni ed il Nerli, che combattevano nell'Ordinanza. Furono deputati dalla Signorìa ad arringare la milizia : Giovambattista Nasi, Domenico Simoni, Pier Filippo Pandolfini, Baccio Cavalcanti, Lorenzo Benivieni, Pier Vettori, il Pandoìfini, Filippo Parenti, ecc. Dei loro discorsi ci restarono soltanto quelli del Cavalcanti, del!' Alemanni, del Pan<lolfini e dei Parenti. Il discorso del Cavalcanti, che fu anche scrittore militare (2), fu più volte stampato; di quello dell'Alemanni si trova soltanto una stampa assai rara e qualche manoscritto, come manoscritti si trovano i discorsi dd Pandol.fini e del Parenti. Di-tutti questi discorsi gli argomenti essenziali erano: il rispetto alle leggi della Repubblica, l'obbedienza ai suoi magistrati, la <lisci{1) Come vedremo, le stesse disposizioni vennero poi segu ite ìn Piemonte, per le milizie paesane di Emanuele Filiberto e dei suoi successori. (2) Egli tradusse, infatti, da Polibio: 1< Della castrarncntazione » e « Com· parazione dell'armatura e dell'ordinanza de' Romani e de' Macedoni ».


plina, l'amor della patria e della libertà. « Guardate oltremonte diceva, ad esempio, Luigi Alemanni ai suoi compagni d'armi gran parte di quelle fazioni hanno con le proprie armi difeso e con~crvato il vivere libero dai loro vicini, e voi vi vergognerete d'aver lasciata lungamente la nostra libertà: misera Italia e miseri noi stessi, che non veggiamo parte alcuna, in essa e in noi, che non sil macchiata da vergogna e da servitù, perchè sempre neghittosi in mezzo dell'ozioso fango ci abbiamo procacciato straniero e venale esercito. Abbiamo cercato presso 1 forestieri tutte le cose che vagliano a corrompere li animi delle donne, ad effeminare quelli de' giovani ». L'Alemanni deplorava anche Ja corruzione mantenuta, protetta , in· roraggiàta dai ricchi che, senza patria, senza onore nazionale, senza dignità , « consumansi nell'ozio e nei piaceri, adoratori, imitatori di mim_i e d'istrioni d'ogni genere e d'ogni sesso ». « I ricchi - di ceva il Cavalcanti - vivono a guisa di donne, pigri e lenti ad ogni onorata impresa; fuggono tutti i pericoli, quantunque pieni di gloria e di libertà, e odiano la virtù, siccome quelli che di gran lunga si senrono vinti da lei , e insidiosamente la vanno distruggendo ». Poi, rivolgendosi ai suoi commilitoni: « Qual più degna cosa v'è - egli I' •, I • • 1 1 u,~eva - qu.:ul ptu u.1 n111vere elle u· 1 prcnoere 1e pu1o b'' uc he arn11' 'u1 mano, per la difesa della religione, della giustizia, della patria , della libertà e del! 'onore nazionale, nel campo glorioso delle armi? A questo santissimo esercizio bisogna muovere il piè e venire con riverenza, come al trattare le cose divine >> . A malgrado dell'eroismo dei suoi difensori, la Repubblica fiorentina cadde, come è noto, nel 1530 e la sua fine - così amaramente rimpianta nei ben noti romanzi. del Guerrazzi e del D'Azeglio - fu così gloriosa e la sua resistenza cosl tenace, che reputiamo opportuno indugiarci sull'argomento, anche per ricordare l'eroica figura di Francesco Ferrucci e la devozione dei cittadini alla Repubblica. Quanto abbiamo detto più sopra basterà, speriamo, a dare un 'idea delle prescrizioni più importanti circa l'ordinanza fiorentina; ma, per i lettori che desiderassero maggiori particolari, pubblichiamo in nota al presente capitolo le appendici n. 1 , 2 e 3 1 nelle quali abbiamo riprodotto, parte ifl riassunto e parte integralmente, Je provvisioni del Machiavelli per la Fanteria (appendice 1) ; l'istruzione dei Nove della Milizia sull'esercizio del tiro· (appendice n. 2) ed il conmlto o parere di Niccolò Macl:µavelli per l'd~ione del Comandante delle Fanterie (appendice n. 3). :

ri.


APPENDICE N . 1 PROVVISIONI DI N. MACHIAVELLI PER ISTITUIRE MILIZIE NAZIONALI NE.LLA REPUBBLICA FIORENTINA <1> PROVVISIONE PRIMA PER LE F ANTERIE (6 dicembre 1506). « Considerato i Magnifici ed Eccelsi Signori come tutte le Repubbliche che, ne' tempi passati, si sono mantenute ed accresciute, hanno sempre avuto per loro principal fondameot:o due cose, cioè la giustizia e l'armi, per poter raffrenare e correggere i sudditi e per potersi dtfendere da' nemici, e considerato che la Repubblica vostra è di buone e sante leggi bene instituita ed ordmata circa l'amministrazione della giustizia, e che le manca solo il provvedersi bene dell'armi, ed avendo per lunga esperienza, benchè con grande dispendio e pericolo, conosciUlo quanto poca speranza si possa avere nelle genti çd a~mi esterne e mercenarie, perchè, se sono assai e reput.a tc, sono o insopportabili o sospeuc e, se sono p0t:he o sen,.a rcpmazione, non sono di alcuna uùlità: Giu<lic1nu esser bene d'armarsi d'armi proprie, e di uomini suoi propri, de' quaìi ii dominio vostro ue é copioso, in modo che faci lmente se n e potrà avere quel numero d 'uomini bene qualificati che si disegnerà. I quali, essendo del dominio vostro, saranno più obbedienti cd , errando, si potranno più facil· mente .:.;siig.:u c e, rneritan<lo, si potranno più facilmente premiare e, stando a çasa loro armati, terranno sempre detto vostro dominio sicuro da ogni repentino insulto ; nè potrà così leggermente da genti nemiche esser cavalcato e rubato, come da qualche tempo in qua, non con poca infamia di questa Repubblica e danno grande dc' suoi cittadini e contadini, è occorso. « E pertanto, ml nome dell'Onnipotente Iddio, e della sua gloriosissima madre, madonna Santa Maria sempre Vergine, e del glorioso P recursore di Cristo Giovarmi Battista, avvocato, protettore e padrone di q uesta Repubblica F iorentina, provvidero ed ordinarono: ,, Che, per virtù della presente provvisione, e quanto più presto far sì potrà, pei Consiglio Maggiore si deputino nove cittadini (2) fiorentini :lbiii al d etto Consiglio, netti di specchio e di età di anni quaranta finiti u. Dopo avere stabilito le modalit~ per l'elezione dei nove d'ordinanza e milizia fiorentirza, il Machiavelli continua: « Cominei l'ufficio di detti Nove Ufficiali il dì che accctterann~ e giunge·

(1) ~esca fede di battesimo ddlc Fanterie nazionali italiane si trova all'Archivio delle Riformagioni, cl. Il, Dist. ll, N, HJ9, 6 dicembre 15o6. (l) I Nove di Ordinanz.1 e Milizia Fiorentina.


r11nno detto ufficio, e duri otto mesi continui allora pro~sum seguenti » ma _,mpre in modo da mmbiarc soltanto una parte dei Nove, così da assiwrare I continuità dell 'ufficio. " Debbano detti ufficiali, alla presenza dei Magnifici cd Eccelsi Signcri e 1111 0 venerabili Collegi, udita prima la messa dello Spirito Santo, di tempo 111 tempo accettare e giurare detto ufficio, in quel modo (hc acct:ttano e giurano l'ufficio loro i Dicci d i Libertà e Pace. « Il titolo di detto ma gistrato sia: I N ove Ufficiali della Ord ina nza e Milizia F iorentina, ed abbiano per segno del loro suggello l'imag1ne di San C aovanni Battista, con lettere intagli:m· d'intorno, significative d, quale ufficio ~ia detto suggello ... 1< Abbiano detti U fficiali u n cancelliere, con un coadiutore tJ più; quali e ,ome parrà a' Magnifici cd Eccelsi Sign ori, e detti Nove U fficiali pc' tempi riincnti, u a Jùt: terz i di detti due magistrAti in suffici~nti nu:~lt~ri r:lgnn~ti, e con quelli salari ed emolumenti che giud icheranno ce>nve11irs1, Ja paga1~i ,aie salario in quel modo e da qu~l Camerlengo che sono pagati i c~111cellicri 11rdinari del Palagio. « N on abbiano detti Nove Ufficiali salario alcuno, ma solo abbiano IJC1le, pc:i bisogni loro e di detto loro ufficio, nove fanùgli, un ·,.omand:uurc, 1111 tavo b, cino a l un provveditore, da eleggersi e deputarsi ciascuno de' predrn i nel modo e forma e come al presente si deggono e si cieputano quelli che •er,m10 111 magistrato de' Dicci . . ( 1). « Abbiano detù Ufficiali p iena autorità e potestà di poter wlloc:11 c 11cìlc terre e luoghi del contado e di~trtttu di Firenze, bandiere (2), e sotto quelle scrivere uomini :per militare a piè, y U.tlus,qtJe a lorv parr;i e pi::cc:: :, ; d i descritti per le cose c riminali solamente punire e condannare io he 11 i cd in persona, cd infino alla morte inclusive, come a loro liberameme pa1rà e pìaterà, salvi nondimeno gli ordini e modi infrascritti . .. « D ebbano detti primi Ufficiali, subito che :w ranno aC<cltato e giurato detto ufficio, ri vedere i quaderni e liste delle bandiere infioo a lJUCsto d ì pc' Magnifici Dieci ordinate, cd al loro cancelliere far copiare detti quaderni e liste in su un libro o più, distinguendo band iera per bandiera, t' foce ndo nota dc' Connestabili c.:he l"ha nno in governo . .. « Debbano tene r sempre scritti, 3rmati ed ordinati sotto le bandiere, ed ,, governo dei Connestabili che l'esercitino e rassegnino, tra uel co ntado e (1) Sul servizio di Caucdk ria della Rcpubblic:.. fioremina, si ,cJ.i: D. MARZI : " La D ncella-Ì3 ddla Repubblica lioccntina &, Rocca S3n Casciano, C;ppclli ed,t. , 1916, C:l p. X: Gli alti d ~fla Cancelln-ia. (2) Lo Staio di Fircnu era diviso in Leghe cd ogni 1..c:ga co mprendeva vari Comuni, con una propria Bandiera. qgni B~ndicra si suddividt\.':\ io più compagnie, a seconda della popolazione. Jn ogni compagnia, :.ilm cno ogni djeti uomini, si eleggeva un c3porale designato dal Cornm1ss:uio inviato dai Nove. Infine ogni 8;111rljcra :IV(V3 un capita no ,cclto dai Nove, e più Bandinc un Cooncstabilc. Le B.mdìcre avc1·an o un numero d'ordine progressivo, corrispondente quasi ~ q11~11o degli odierni t(:ggimc.mi.


distretto di Firenze, almeno diecimila u-0mini, e quel più che crederanno poter tenere armati secondo l'ahbondanza o mancamento degli. uomini; 11011 potendo però scrivere sotto alcuna bandiera se non uomini natii, ovvero stanziali in quella potesteria, o capitanato, dove sarà collocata detta bandiera. E debbano detti primi Ufficiali avere adempiuto il numero di diecimila uomini tra sei mesi, dal dì che avranno accettato e giurato detto loro ufficio prossimi futuri. « Debbano detti Ufficiali, oltre alle armi ... tener sem pre , nella munizione del palagio de' Magnifici ed Eccelsi Signori, almeno due mila petti (r) di ferro, cinquecento scoppietti e quattromila lance; e tutti quei denari che bisognassero per gli scoppietci, e per ogni altra arme e per fare ban<liere, sia tenuto e debba il Camerlengo del Monte, pe' tempi esistente, pagarli a qualunque per il loro ufficio sara nno stanz;ati . .. « Debbano detti ufficiali, in ogni bandiera che si farà, fare dipingere solamente un Leone, e: Jc:1 color naturale, in quei modo che ai presente sta nelle bandiere deputate e fatte per ordine dc' Dieci. Nè possano in dette bandiere, così fatte come da farsi, dipingere nè altra fiera, nè altr'arme o segno, eccetto che il detto Leone; debbano però variare i campi di dette bandiere, acciocchè gli uomini che militano sotto di quelle le riconoscano; e debbano in ogni bandiera descrivere qu~l nwnero che gli tocchèrà dalla sua creazione, come è descritto nelle fa tte insino a qui. « Possanc, deLti Ufficiali, per desniverc gli uomini come di sopra è detto, v l""' , ..,.,c:goare e -r iveòerc ic mostre nel modo che d 1 sono si dirà, eleggere e mandar fuori loro commissari, con salario al più d'un ducato d'oro il dl, da pagarsi nel modo e da chi e come si pagano i Commissari che si eleggono nel Comiglio degli Ottanta. Nè possano mandarli fuori per più tempo che per un mese, nè mai averne fuori più che tre per volta; a' ·q uali commissari possano dare quella medesima autorità che ha il magistrato loro : di punire sol:i mente di persona i descritti sotto dette bandiere: ma le pene pecuniarie s'intendano essere, e siano in tutto, riservate a detti Ufficiali. « Debbano sempre tener Connestabili che rassegnino tutti gli uomini descritti e che li esercitino 1ècondo la milizia ed o,-dine dei Tedeschi, dando a ciascun Connestabile in governo quelle bandiere che parrà loro conveniente; non Potendo dare in governo ad alcun Connestabile manco di trecento uomini; uè possono dare per provv.isione ad alcun Connestabili: più che dodici d ucati d'oro il mese, intendeAdosi il mese di trentasei dì; con obbligo di tenere un tamburino che suoni al modo degli oltramontani. E debbano detti Connestabili essere eletti da detti Ufficiali, e confermati dagli Eccelsi Signori, V enerabili Collegi e Consiglio. degli Ottanta, in sufficiente nu mero ragunati . , . E ciascuno di detti Con nestabili sia tenuto ed obbligato a stare continuamente in su i luoghi, appresso alie sue handiere, e radunare gli uomini che lui avrà 111 governo a lmeno una volta al mese, dal mese d i marzo inclusive nno al (1) Peni, cioè piccole corau .c.


39 1 mese di settembre iuclusìve, e dal mese di ottobre inclusive fino al mese <li febbraio inclusive, di ciascun an no, almeno tre volte in · tutto, ed in quei dl di festa ,omandata che delibereranno detti Ufficiali; e detti uomini tenere Lutto il giorno negli ordini ed in · esercizio, e dipai rassegnarli uomo per uomo, e dare notizia degli assenti a detti Ufficiali, acciocchè li possano punire, , ome di sotto si dirà. Ed in quei dì di festa che non li radunerà insieme, 1ebba , iascuno di detti Connestabili, con l'aiuto del magistrato di detti Nove Uffi. 1..1:ili, comune per comune e popolo per popolo, far loro fare qualche esercizio militare, come' sarà giudicato convenirsi; ed il Connestabile sia obbligato cav11lcare per detti luoghi, e rivedere detti esercizi. « Non si possono eleggere per Connestabile, o per governatore di elette bandiere, alcuno che sia natìo di ,1uel vicariato, capitanato o podesteri a, donde fossero gli uomini che gli avessero ad essere dati in governo, o che in deuo luogo, o luoghi, avesse casa o possessione. « Debbano detti Ufficiali, ogni anno, in calendi novembre, pigliando ancora venti dì innanzi e venti dl poi, permutare tutti i Conn~stabili, face ndo a t utu mutare governo di bandiere e provincia, come a loro p arrà e piacerà. « Ed abbia un Connestabile permutato divieto due anni a poter gover11:ire q uelle bandiere che avesse governato prima; e solamente l'elezione nuo\ a di nuovi Connestabili debba t'Ssere approvata nel Consiglio degli Ottanta, ,·r,me di sopra si dispone, e non altrimenti. << Quei Connestabili che per alcuna cagione saranno ca~si ( 1) da detti Ufhl ,ali, non possano, fra tre anni dal dì che saranno cassi, prossimi futu ri , mi lit.are m alcun luogo nella milizia della Repubblica Fiorentina. ,1 Debbano ancora detti Ufficiali, ogni anno in calcndi novembre, e fra venti dì innanzi a venti di poi, come di sopra, rivedere tutti i quaderni degli uomini descdtti, e cancellarne, e di nuovo riscriverne, in aumento e. corroborazione, e non altrimenti; cancellino quelli che per cagioni legittime fossero diventati inutili, e scrivendo degli utili. E, passato detto· tempo, non poss;:no :,I numero dei descritti aggiungere, nè levarne alcuno. « E le bandiere che tra l'anno fuori del tempo sopradetto si scrivessero di nuovo, si debbano saldare e fermare in termine di un mese, dal dì che avranno fa tto la mostra, pr<>ssimo futuro; fra il qual tempo s:a lecito di tali bandiere ..assarne e scriverne di nuovo. Ma, passato detto tempo, non si possa scriverne nè cassarne, se non al tem po che di sopra si dispone, salve nond imeno le cose infrascritte. ,, Debbano ad ogni Connestabile eleggere un cancelliere, che tenga conto degli uomini scritti sotto di lui, e che sia natìo di quei luoghi che avrà in governo detto Connestabile. E, da tutte quelle podesterie e luoghi che saranno . .rotto un medesimo Connestabile, sia dato per suo salario a detto canceiliere

( 1) Casti per cassati , can<:ellati, esclusi.


39 2 un ducato d'oro il mese, in modo che: non gli tocchi l'anno più che dodici ducati d'oro di salario. « Debbano in ogni compagnia descritta sotto una bandiera, deputare capi di squadra, pigliando quelli che giudicheranno di miglior qualità, cd in modo che a detti Ufficiali parrà; non potendo però deputare più che dicci caporali per ogni cento uomini descritti, come di sopra si dice. te E, per ritrovare gli uomini del contado e distretto, debbano detti Ufficiali ordinare che tutti i Rettori de' popoli e Sindachi particolari dc' Comuni, o chi sotto altro nome avesse simile ufficio, portino ogni anno in calcndi novembre al magistrato loro le liste di tutti gli uomini che abitano nel popolo 0 comune loro, che siam> d'ctèl d' anni quindici <> più, sotto pena di due tratti di fune almeno, da da rsi a quel Sindaco o Rettore che ne :.vessc lasciato alcuno indietro, e di più sotto q uella pena pecuniaria che al loro magistrato parrà e piacerà. E, per poter mc-glio ritrovare le fraudi di dette portate, debbano tenere in ogni pieve, o altra simile chiesa principale di quei luoghi ch_c saranno uomini descritti, o dove ne volessero scrivere di nuovo, un tamburo (1), il quale si apra almeno ogni due mesi una volta per chi parrà a detti Ufficiali; e quelli che vi fossero trovati notificati possano subito essere scritti, ctiam fuori del tempo sopradetto di calendi novembre. « Non possano forzare di nuovo a scriversi alcuno che passi l'età d'anni cinquanta, ~ non in caso di necessità; nè possano degli scritti forzare alcuno :i n, ili,,,,,.., qu:mdo avrà pa~s:ito l'ct.à cli ann.i sessanta, se u-On in caso òi necessità, essendo questo caso di necessità giudicato dagli Eccelsi Signori, e loro Venerabili Collegi, e per due terzi dì loro. E , pcrchè della maggior parte di quest i uo111ini non si può trov:ire il tempo appunto, sia rimesso tale giudizio nella coscienza e d iscrezione di tali Ufficiali_ E, quando alcuno fosse scritto che gli paresse che alle qualità sue non si convcmsse militare a piè, o gliene paresse aver altre giuste cagioni, abbia tempo un mese dal dì che sarà scritto a ricorrere a pie' dc' Signori e Collegi. Ed, essendo approvato tale suo ricorso per due terzi di loro o più, tra detto mese, non possa dipoi essere forzato, nè descritto, per soldato a piè _. _ (_1) Circo gli scopi di questi « tamburi ~ si veda la lcner:i del 5 ottobre 1507 di Niccolò Mach,a~elli a ~iovanni Pcru1.2.i, vkario di San Giovanni : ~ Vogliamo :ancora che tu ordini :i tutt, 1 Pocksta dr quelle Pocks:erie dove ~ono dcscriue bandiere nel ruo Vicariato, che ciascun<:' d, lor~ fa~cia fa~~ una cassetti ad _uso di tamburo, dipintovi dentro un San Gionnrn e _de~cntcov'. òa p1c : « t:unburo d:ordmanza ccc.•; e quelli così fatù ognuno app:cch i ,ull:a pr111c1pal ch,csJ oclla sua Podcsreria. Ed •ppiccati d1c siano, far:ù bandire sui mercati per parté nostra, che se alcuno not.i6chcrà per via di detti tamburi alcuna persona che aves.~ fa n~ armare, o ndunanza di uomini pa fare insulto, o c:he avesse vendute o comprate armi del Comune, o che avesse f:atl? alcun'altra cosa contro l'ordinanza, gli sarà dato il quarto . della ~ondannag,onc pccunrnrta , e tenuto il segreto, Usa d iligenza neUo ordinare i tamburi, cd in tutte quelle cose che ti commet tiamo, acciò ti possiamo commendare. Vale •. (G1uuPPE C.01E;n1N1: « Documenti per servire alla storia della Milizia italiana dal Xlii al XVI = ol~ •, _in Archivio S1<:>ric? Italìano, tomo XV, p . .µ9, Firenze, 1 851), .· li !amburo _d _ord 11;~nz.a c.ra, qumd1, una e.mena per la deposizione delle denunzie dei rcnncr.11 al scr v1z10 m1hta.rc.


393 « Debbano detti Ufficiali manten,:,re gli uomini descritti con le infrascritte 1111i, e cioè: « Tutù per difesa abbiano almeno un petto di ferro, t per offesa, in ogni t r nto fanti, sicno almeno settanta lance e dicci scoppietti, ed i restanti possano 11ortarc balestra, spiedo, ronche, targoni e spade, come meglio parrà loro. 11 PoSiano nondimeno ordinare Ire o quattro bandiere, o più, WtJe di

,, oppiettieri (1). « Debbano ogni anno due volte, cioè l'una nel mese di febbraio, l'altra ori mese di settembre, in quale dì di detti mesi parrà loro, fare mostre groiSt d, tutte le loro bandiere in qudli e quanti luoghi per il dominio fìor~ntino ur~ per loro deliberato, non potendo raccorzarc per mostra nella provincia ,1, Toscana meno di sci bandief"e. E debbano ordinare che al luogo deputato per la mostra d'uomini, vengano un dì e paninsi l'altro; cd a ciascuna Ji deue mostre debba intervenif"c o il loro cancellief"e, o il loro cornmi~)ariu, u i I , cuore ,lr' luoghi a chi fosse dal magistrato loro commesso. l \ quale commissario, o 11hro deputato come di sopra, debba la mattina seguente, che saranno il dì in11:inzi convenuti in~icme, far dire una messa solenne ddlo Spirito S:w ro, in luoghi che tutti ragunati la possano udire. E doPo la detta messa ,I drpur:110 ,tcbba far loro quelle par-ole che a simile cerimonia si crmvc11go110; ù11,c,i lrggere loro quelle e quanto per loro si debba osservare. e darne 1oi o çolrnnc wuramento, facendo ad uno ad uno toccare con mano il libro d c ' SJ nti E van ~1eli. E debba leggere loro, 1uuauzi a tale giuramento, tutte ie pe ne L.'I""']; .i che sono sottoposù, e , tutti quegli ammonimenti che sar:innr, ord in:lll Ja 1lcui Ufficiali, in conservazione e fermezza dell'unione e fede loro, agg, a, ando ,I giuramento con tutte quelle parole obbligatorie Jdl'an im.t e d I .:orp<>, cht " potranno trovare più efficaci. E fatto questo, sieno licenziati e ritornino 1utti alle loro case >>. Come si vede:, queste adunate periodiche d i tutte le bandien: non avevano \Oltanto lo scopo di controllare gli uomini presenti, ma specialrncme gucllo ,li educarli alla osservanza della f"cligione ed all'adempimento dc1 doveri mili tari. cc Non Possano detti Ufficiali continua il Machiavelli - coma ndare ., tutte o parte di dette bandiere, ed uomini descritti sotto quelle, o ad alcune di loro cosa alcuna che riguardi od alcuna frazione di guerra, o .1lt,a cosa che w n arme da loro s'avesse ad operare, fuori delle cose sopra scritte:; ma ~ia riserbato il comandare loro nella guerra, cd in ogni altra fazione che con arme ,i avesse ad espedire, agli Spettabili Dieci di Libertà e Pace. « E dello stipendio e premio loro con che s'abbiano a pagare .:>pcranJoli, ne sia riservata l'autorità a quei magistrati che infino a qui hanno ordinato i pagamenti degli altri soldati a piè del comune di Firenze. Questo però i nteso, (1) Qucsu :iurorizz:izioDc èimo.str3 la crescente importanu delle armi da fuoco e come già s'intuiSs: I ·opp<,rtunit.ì di ~vere qual.:hc repmo form •to soltanto da scopi,erricri o d:i archibugieri. Quesù, nelle handicrc comuni , erano, risperto ai picch ieri, nella propoczione di un settimo.


394 che st debbano pagare uomo per uomo e non altrimenti: e di tutti quei privilegi, esenzioni, immunità, onori e benefizi, e di qualunque altro premio straordinario che si avesse a dare a questi descritti, o per rimunerarli di alcuna operazione che facessero in benefizio pubblico, così tutta una bandiera in comune, come in particolare qualunque uomo descritto o Connestabile di esse, se ne intenda essere e sia data autorità a' Magnifici Ecc.elsi Signori ·e loro Venerabili Collegi, ai Magnifici Dieci di Libertà e Pace, ed <1,' detti Spettabili Nove; e, non vegliando il magistrato de' Dieci, in loro luogo agli Spettabili Otto di guardia e di balìa, ed a due terzi di detti magistrati insieme in sufficiente numero ragunari. Questo però dichiarato, che per modo alcuno non si possa concedere loro autorità o privilegio, di potere p01'tare armi dentro al cerchio delle mura della città di Firenze. « Debbasi nelle guerre ed in ogni fazione, dove si avessero ad operare questi descritti, adoperare quei medesimi Connestabili che da detti Ufficiali fossero stati deputati per c:!pi dell'Ordinanza; i quali Connestabili, t-tiam quando fossero in fazione ed in guerra, si debbano permutare nel tempo e nel modo soprascritto. Possano nondi1r.eno gli Spettabili Dicci ordinare ed eleggere capi di Colonnelli (1), come a loro piacerà; i quali capi non abbiano divieto alcuno, ma possano stare quanto durerà il tempo della fazione a che saranno preposti, e come a detto magistrato de' Dieci parrà e piacerà. ,< Non si p<nsa ammettere, nè accettare scambio d'alcun descritto, ~ in sulle mostre, o in alcuna fazione. « Non si possano, o tutti o parte di questi descritti come di sopra, o con le loro bandiere o senza, da alcun magistrato levare con le armi dalle case loro, per mandarli a fare alcuna fazione Ji guerra, o àlcun'altra impresa, senza il partito de' Magnifici ed Eccelsi Signori, e loro Venerabili Collegi, e .Consiglio degli Ottanta ... ,, Delle cose e cause criminali che nasceranno tra i detti descritti, o fra loro ed altri non descritti, quando !oro non fossero in fazione di guerra, ne possano conoscere e punire i detti Nove Ufficiali, e qualunque altro magistrato, rettore cd ufficiale che ne avesse autorità . . . Ma-, quando fossero in fazione di guerra, ne conoscano quelli che possano punire gli altri soldati, e se pure durante tale fazione il loro eccesso, maleficio o delitto non fosse stato conosciuto e punito, ne possano essere puniti da detti Nove Ufficiali e da qualunque altro magistrato, rettore ed ufficiale cht n_e avesse autorità . . . « Debbasi punire con pena capitale e di morte. qualunque di detti descritti fosse capo o principio, nelle fazioni di gucrra, di abbandonare la bandiera; e qualunque Capitano di ·bandiera che traesse fuori tale bandiera per .ilcuna fazione .privata o per conto di alcuno privato; e qualunque, etiam senza bandiera, facesse radunata alcuna di detti descritti per conto d'inimicizie o per conto ( 1) Colon11(/li erano, :tllor:i, i reparti composti di più bandiere e non già, çome si usa ora per i reggimenti, i loro con1andan1i.


395 tl1 tenute di beni, o altrimenti in alcun modo per alcuna fazione privata. I avendosi eziandio con simile pena capitale e di morte punire infino a tre d1 detti descritù che in tali radunale: si trovassero; e quando di detti o altri eccessi ne fosse fatta alcuna querela, o alcuna notificazione, a detti Nove Uffir iali, le quali il loro cancelliere sia tenuto registrare nel dì che le saranno clate, debbano detti Ufficiali :iverla giudicata tra venti dì <lai dì che sarà ,uta data proxime futuri .. .

« E, pcrchè il fare severa giustizia de' predetti o simili eccessi è al tutto la vita e l'anima di quest'ordine, acciocchè più facilmente possano essere notifi1.ati, debbano detti Ufficiali appiccare ta mburi in tutti quei luoghi dentro alla <,; lltà di Firenze, dove li tengono appiccati i magistrati degli Otto e dei Conservatori delle Leggi. « Qualunque degli scritti . come ~opra, non comparirà alle mostre ordinate 11d modo soprascriao, s'intenda essere e sia, per ogni volt .. d,c ,ai ; l• ovJtù nssente senza legittima cagione, condannato in soldi venti ; ed essendo un medesimo trovato assente sei volte in un an no, cominciando l'anno il dì di c:ilendi novembre, diventi il peccato suo criminale; e sia castiga to in persona ud arbitrio di detti Nove Ufficiali; e r.01ldirnenc debba p-àgan: tuuo qudio 1.he, secondo le cose cli sopra disposte, fosse tenuto a pagare pt.:r 11011 essersi 1rovato alla rassegna . E le cagioni legittime dell'assenza siano quand o fos~t'ro malati, o quando fossero assenti con licenza de' Nove Ufficiali ; e tulle !e con J ,mnagioni predette, et etiom qualunque al era che facessero d cu i l;,h, ,,.,i, possano detti Uffic:ali applicàre al !oro magistrato per le spese ordinarie d i quello; e ad ognj provveditore di detto magistrato, nel fine dd l 'uflicir> suo, ne sia riveduto il conto da' Sindachi del Mor.te ed, avanzandosi in m::mo ccs:: :ilcuna, rimetta tutto al Camerlengo del Mon te. « Ed, acciocchè questi uomini armati, e scritti come di sopra, abbiano cagione di obbedire, e che chi !i ha da appuntare lo possa fare, si provvcùe: che per l'avvenire si tenga continuamente un Capitano di guardia del contado e distretto di Firenze, da eleggere secondo che si eleggono gli al1 ri condottieri della Repubblica Fiorentina, al quale si diano a lmeno ,trenta balestrier i a cavallo, e cinquanta provvisionati; e lui debba obbedire a detti Nove Ufficiali per conto di detta Ordinanza e di ogni altro magistrato o comm issario che potesse comandare agli altri soldati della Repubblica Fioren1i11a. << Nè si passa eleggere per detto Capitano alcuno della città, contado o distretto di Firenze, nè di terra propinqua al dominio Fiorentino a lJuaranta migfia. u Siano tenuti, e debbano detti N o ve Ufficiali osservare qu anto nella presente Provvisione si contiene, sotto pena di fiorini venticinque larghi d'oro per ciascuno di loro, e per ciascuna volta che contraffacessero, per h quale ne siano sottoposti ai Conservatori delle Leggi_ Ed acciocchè non possano allegare o pretendere ignoranza alcuna delle cose predette, sia tenuto il loro c::mcelliere a capitolare la presente Provvisione in brevi effetti, e tenerla in un


libreuo continuamente nella udienza loro, sotto pena di fiorini cinquanta larghi d'oro, e di essere privato di detto ufficio. <( E di tutte le deliberazioni che, per virtù della presente Provvisione, s'avranno a fare alla presenza de' Magnifici ed Eccelsi Signori, soli o insieme con altri, ne sia rogato il primo cancelliere della Signorìa, eccetto quelle che si facessero nel Consiglio degli Ottanta o nel Consiglio Maggiore, delle quali sia rogato il cancelliere delle Tratte, come per gli altri uffici si osserva» (tì1 Nove furono eletti il 10 gennaio 1507; il 12 prestarono giuramento, il 13 venne pubblicato il bando, scritto dal Machiavelli per tutto lo Stato, bando che rese esecutiva In « provvisione >>,

APPENDICE N. 2 ISTRUZIONE DEI NOVE DELLA MILIZIA SULL'ESERCIZIO DEL TIRO 12>

"Considerato i Jes!:ritt: delle padesteri:: di Sant:1 ~faria Jmpruneu e di Fiesole, aver bisogno di essere esercitati ed istruiti a maneggiare le armi, massime gli scoppiettieri; e volendo che i Connestabili che li hanno in governo li eserciùno; e che detti descritti ogni volta che sar:mno richiesti da dctù Connestabili, per andare ad imparare a trarre, abbiano causa <li obbedire: deliberai 0 110 , che, <la ora :i tutto dì XI di Gennaio prossimo, detti Connestabili debbano, ogni mese, tre volte, in dì di festa, ed in q uei dì che a detù Connestabili parrà, radunare insieme detti descritti in questo modo, cioè: ogni lega (3), una volta al mese, e ciascuna lega di per sè; di modo che, in ·capo del m ese, abbiano radunati tutti i -descritti, una volta per lega e non più. •< E non raccozzino mai tutte le tre leghe insieme, senza licenza del MagistraLO; e quel dì che radu neranno gli iscritti d'una lega, insegnino a trarre con lo scoppietto, e fare qualche esercizio militare a quelli di quella lega sola; e, fa tto q uesto, li rassegninò, cd appunù no quelli che non fossero compariti, ( 1) ~cguc il verbale_ di vocazione della Provvisione nel Maggior . Consiglio, con 841 voti favorevoli e 317 contrw . (o. N . M.<cmAvii.u " (Opere complete), Milano, Giovanni Silvestri,

18ui, voi. IV, pp. 565-567).

(2) Dalle _lettere scritte d a scr France$CO di scr Tommè da S. Geminiano, coadiutore ddl'Uffk10 dei Nove ali~ Miliz ia, durante le varie a=nzc di Niccolò M:ichiavcUi dal m:.~zo- l;i0 7 al novembre 1510. L.~ tr:idizi(,ne italica dégli csc~cizi militari nei d1 festivi; è ant1ch!ssuna : sc ne rrova u a~ci~ _linu__d•l)'Vl)I seco lo a Ravenna e poi, largamente, a Venez ia (G. CA.~:ESTJttNr : ~ Sentii mcdm dt N1ccoU, Machiavelli ri1,'llard:mri la storia e la m ilizia ccc. », Firenze, 1857, p. 362). (3) Raggru pp:tmcnto di Comuni ruraii '16rentini.


397 r non a '/essero giusto impedimento; e così successive facciano lega per lega : r quelli che si troveranno essere appuntati, s'intendano essere e siano caduti 11ella medesima pena che quelli che non compariscono alle mostre; cioè che 1•aghino soldi 20 per ciascuno, o stiano due dì in prigion~. " Li spcctabili e degnissimi Nove d 'Ordinanza e Milicia Fiorenti na, consi1lc.rando come per la legge del Magistrato loro si dispone che alcuni cxccssi r' quali per il passato non erano capitali, si debbino in ogni modo punire , on pena capitale e di morte; e desiderando che nessuno ineot ra in tale pena ; o se pure v'incorra, posserlo più lecitamente punire, per haverlo facto intcnd~rc pubblicamente; fanno bandire e ;iotificare che si punirà con pen:i capitale e tli privatione di vita qualunque de' descripti sarà capo o pr incipio, nel le factioni da guerra, d 'abbandonare la bandiera sotto la quale ubbidi rà, e q ualunque çapitano di bandiera che trarrà fuora tale bandiera per alcuna factione p rivata, o pt.T conto d'alcuno privato. Et q ualunqu :: et:am s:mza b::mdier:i far:ì. r:igunata :alcuna di dccci scripti per conto di inimicitie, o per conto di tenute di beni, u altrimenti in alcun modo per alcuna faction:: privata, punirassi anchor:i con pena capitale e di morte, fino in tre di decti scripti che in tait· ra gu11atc si uoveranno, e tucti li altri puniti nel modo ::he parrà al loro Magistrato. « Fanno anchora bandire e: notificare ad qualunque dcscripto come ~it sopra, che ferirà, o sarà capo d 'alcuna questione in su le ragunatc e mo~crt eh:: pe' tempi si faranno, sarà subito punito c:tiam infino alla morte. m mc · :il loro Magistrato parrà e piace.rl; uè d , tali ù , c;;;i o dclkti ;.: ne ~:.:.;·::::~ ::~:~::. :i cagione alcuna. 1< Et perchè e' p0ssa essere notificato secretamente al loro Magistrato quello 1ale o tali che e' soprad<lccti excessi o dclicti ccmmetter:inno; far::in no ,k_-ni spectabili Nove appiccare tamburi ne' luoghi publici, e ad simik w ~c oporLuni. « Fanno anchora bandire e notificar::: ad qualunque descripto che no n comparirà alle mostre ordinarie, , he non sia malato o abscnte con licenza del loro Magistrato; le quali monstre quando si haranno ad fare, saran no giornalmente notilicate; s'intenderà, subito che non sia trovato alla rassegna, condannato in XX soldi, e per ciascuna volta : e quando per la hor:1 :id calendi novembre dell'anno 1507 proxime futuro, uno medesimo sarà trovato absente sci volte, diventerà el peccato suo criminale e sarà punito >> (1). Per deliberazione dei N ove in data dell '8 maggio, ii Machi avelli venne mandato a passare personalmente in rassegna le cinque bandiere del Vicariato della Valdarno di Sotto, i( et la faccia di tutto insieme, et cum li palvesi fatti per quelle bandiere; ec, facta la detta mostra, si trasferisca ad Pescia ad rivedere le tre bandiere di Valdinievole, e descrivere gli uomini apti all"arma di Montecarlo per collocarvi la bandiera l>. ( 1) r'.omc si vede, in qu~u Istruzione dei N'>ve di Ordinanza e Milizia ?:1 materia noo è bene ordin3ta, Il suo contcnuro si riferisce prima ai necessari esercizi di tiro • a trarre con gli scoppictai » con gli archibugi e quindi alle pu nizioni, çomprcsa 11 pena capitale, da infliggere ai miliwi che si fossero resi rei di d is..rdini o non si fossero prcsenrnti.


APPENDICE N . 3 CONSULTO O PARERE DI NICCOLÒ MACHIAVELLI PER L'ELEZIONE DEL COMANDANTE DELLE FANTERIE 0 >

" Nessuna cosa può disordinare o vituperare le Fanterie ed Ordinanza vostra, quanto essere comandate indifferentemente; ancora nessuna cosa può forvi portare pericolo quanto avere poco ordine nel capo vostro. C redo che, a volere fuggire l'uno o l'altro di questi disordini, non ci sia altro mezzo, nè più comodo, che fore il signor Jacopo (2) capitano delle vostre Fanterie, perchè ogni altro modo che si pigli, o e' sarà tardo, o ei sarà pc:ricoloso. « E per discorrere la prima parte, circa il d isordine delle Fanterie, come se si avesse a ragionare di fare esercito sùbito, si direbbe che questi Capi non vagliano, e qualunque volta · o voi toglieste nuovi Capi, o voi proponeste a questi Capi uomini bassi e non conosciuti ; voi, nel primo caso, fareste Fanti inutili, nel secondo fareste sdegnare detti Capi per non poter fare nulla di bene, perchè subito ci sarebbe chi v:>rrebb,:; che Ccccotto, o il Guicciardini, o simili, menassero questa danza, o alcun altro che voi non conoscete, che sarebbe peggio di costoro, e voi credereste che fosse meglio, di che ne nascerebbe che ~an:bbc turbato ogni ordine cd ogni bene. « Ma, se voi fate Capitano delle Fanterie il s:gnor Jacopo, i Connestabili lo adoreranno, lui li vezzeggierà, perchè conosce chi ci sono, e con osce i Fanti. Voi turate b. bocca a chi dicesse che le Fanterie non avessero capo, ed egli le aiuterà, perchè, essendo fatto ed introdotto per la via che sarà, conoscerà ~ne esser fatto per dare riputazione a quest'ordine, ed io ve ne fo fede, perchè, due anni fa, noi ragionammo insieme di quello che io ragiono ora. Quanto alla sufficienza <lei signor Jacopo, voi sapete quello che ne ho detto, vedete quello che Alessandro ve ne scrive, mandate ad informarvi da Antonio Giacomini, parlatene con N iccolò Capponi, ed io vi dico di nuovo che, ad un condott:ero che lo passi d i sufficien1.a, bisogned esser molto innanzi. Que~to Cap;tano di Fanterie, quando voi non faceste altro capitanato generale, vi ordina in tutto o in gran parte l'esercito vostro, perchè, avendo ad obbedienza i Fanti e la sua compagnia, cd essendoci i cavalli d'ordinanza, egli con il Commiss.'lrio avrà un tanto esercito da loro, che sono per tenere un campo unito. << Fa questa deputazione un altro bene : voi non state ~ne senza capitano d i gente d'arme: farlo è pericoloso, o per offendere alcuno di questi gran •

(1)

La sc~ittura risale al maggio dd

1 5 ll

r• N ,

MACHlAVE.LI.I

» (Opere complete), voi. IV,

Milano, 1820 1• (2) Si ~tta di Jacopo Savcl,Li (~ice Ricci, 6 maggio r5n , Codice 47, LVIII, p. 152 dc)La ~arbcn_nrana. d 1 R?ma) .. 'cdas,. la . nota delle pp, 166-67 nel voi. II del • Niccolò Mach1avdli cd I suo, tempi •, d, M , V1llan (Milano, U . Hocpli, 1913).


399 Principi, o per dare in un poco fedele e poco sufficiente. Dimodochè, non vi via più si.:ura che cominciare a dare riputazion~ ad un suo creato, per 11rarlo con il tempo a quel grado, nè gli si può dare riputazione nè farne prova meno nociva nè più a proposito c-hc q uesta, perchè questo non è grado hc dia alterazione alle altre genti d'arme. Pigliate per esempio i Veneziani l hc avevano per capitano dei loro Fanti Giovambattista Nomaggio, ed avevano per condottiere !'Alviano, e tanti gran signori, i quali ma i pigliano :ilter:izione di quella condotta. E vedete ùra che il Papa ha fatto Capitano delle Fantc1ie Marcantonio Colonna, e gli altri stridono. Dipoi voi avete di due ragioni 1 ondottieri, vecchi e nuovi: i nuovi quando trovino questo grado dato, non nvranno cagione nè di dolersi, nè di maravigliarsi: tra' vecchi non ci è chi ~ia per dire · cosa alcuna se non Muzio, e questo è bene che se ne varia ; sì d,c, se mai fu ' tempo a pigliare un simil partito, egli è ora, avanti che qu este w ndotte vi siano quì appresso. Dandogli questo grado, voi fa 1c 1-1aniwla,c rsperienza della virtù, dell'animo, del consiglio e del governo suo ; ,:, q ua nòo si trovi da edificarvi su più riputazione:, voi lo potrete fare. E<l, avendone l'c)pc· ricnza di mezzo, voi lo farete con più sicurtà della città e più riputa:lionc: sua. « Quel che mi muove è il bene della città, e la paura che io ho che, fa cendosi Capo, l'ordinanza non disordini, non avendo in Capo uomo di r iputn ionc ~he la sappia difendere e comandare; ed un'altra ragione ci è ch'io vi Ji, ò a hocca. Quel che si avrebbe a fare, s;;.rebbc far lo per il Consiglio degli Oua;m Capitano delle Fanterie vostre, con quei patti che Aicssanàrn i..;.i~i ;,vn, c convenuto seco, ed a Pietro Guicciardini p:ace, ed a Francesco cli Antonio d1 T addeo, e gli altri ancora ci converranno. - Valete ,,. ~


Il.

L'ASSEDIO DI FIRENZE DEL 1530 E QUELLO DI SIENA DEL 1555 L' assedio di f irenze. Nel 1930, i11 oo..:asione del IV centenario della morte del principale difensore di Firenze, vennero degnamente commemorati l'eroismo dei Fiorentini nel resistere all'assedio del 1530 ed il generoso sacrificio di Francesco Ferrucci a Gavinana. In ricordo dell'eroe venne quindi istituito un apposito Museo ; fu restaurata la piccola casa pres~o la quale egli, più volte ferito, tentò l'cstrtma resistenza; vennero pubblicate alcune opere che ricordano la di lui fervida vita e la sua nnbili ssima morte, permettendoci di considerare nel Ferrucci, non soltanto il morente che, anche tra gli spasimi dcll' agonia, seppe stoicamente trovare la forza di umiliare per sempre) con l'ultimo sarcasmo, il suo crudele nemico ; ma anche e specialmente il cittadino integerrimo, l'eroe purissimo, l'ultimo difensore della libertà fiorentina e che potremmo anche considerare, forse con non minore esattezza storica, anche come l'ultimo difensore della libertà e dell'onore d'Italia. E ciò, non già perchè alla mente del Ferrucci, chiamato quasi improvvisamente all'esercizio del comando, mentre la sua città era nel più grave pericolo, pote~e balenare la visione della gran madre comune o sorridere la speranza di vedere l'Italia già raccolta in una unità statale, corri<:pondente ·alla sua mirabile unità geografica; non già pcrchè i 3.200 armati, che con il Ferrucci lottarono e con lui in gran parte morirono a Gavinana, potessero pensare di combattere e di morire per tutta l'Italia; ma perchè, nel tormentato periodo storico. ael quale l'austera, ferrigna figura dell'eroe rivelò la sua virtù e conseguì la sua morte e la sua gloria, Firenze ben rappresentava, dopo l'incompleta vittoria di Fornovo e dopo la Lega Santa contro i barbari, l'unico faro che ancora splendesse di vivida luce tra le crescenti ombre di quel crepuscolo, nel quale - · come altri ben disse -


prQprio mentre nasceva l'Europa moderna, cadeva così pietosamente l'ftalia, che pur l'aveva generata; l'Italia che, secondo il Folengo, ,e fosse stata già unita e c0ncorde, avrebbe potuto dominare il mondo anche con la forza delle armi, così come indubbiamente lo do-minava con la luminosa potenza del pensiero e con la divina bellezza dell'arte! La nostra Patria, infatti, che per l'umano progresso sapeva donare al mondo, con grembo inesausto, l'acume dell'indagine scientifica, l'eccellenza dei suoi superiori intelletti, il sorriso delle più alte espres~ioni artistiche, non aveva visto verificarsi un processo storico, simile .1 quelli che avevano già determinato l'unificazione degli Stati cielI'Eurnpa occidentale e, passata dai Comuni alle Signorìe cd ai Principati, era ancora rimasta, come abbiamo già detto, divi sa in troppi piccoli Stati diversi. Fra questi, ricca per l'attività dei c;uoi banchieri e dei suoi rnr rcanti, dominatori dei traffici e dei commerci di tutta l'Europa ; bell.1 così che Ludovico Ariosto ebbe a definirla più grande ddla ~tessa Roma, qualora si fossero raccolti i suoi sparsi palazzi e le sue ville sotto un medesimo nome; signora di Pisa, di Volterra, di Arc1:m, di Pistoia t: <lì Cortona, n-0n.:hè di altre 30 Comunità e di ben 4~c bc::-ghi murati; madre di Dante, fucina feconda dell'Umanesimo, mac~lra efficacissima dell'antico e del nuovo sapere, sede preferita di pen satori e di artlsti come Niccolò Machiavelli e Michelangelo Buonar roti, Firenze era già da due secoli il centro della cultura italiana e quindi della cultura europea.

Ora, appunto. in Firenze, si era verificato, sulla fine del Quattrocento, uno strano fenomeno, per il quale la città; che più di tutte aveva contribuito alla Rinascenza, con l'apparire, nel le sue Chiese e nelle sue piazze, dell'austera figura di Gerolamo Savonarol a, venne a poco a poco ad essere dominata da un uomo, che non poteva appartenere se non al medioevo. In proposito, Francesco Ercole, nel suo volume <e Pensatori ed uomini di azione », scrisse: << Gli Italiani dell'età di Lorenzo il Magnifico parlo, s'intende, non tanto delle masse popolari urbane e specialmente rurali, quanto delle classi superiori e medie, fra cui sovrattutto si recluta27


402

vano gli elementi più rappresentativi e significativi di ciò che suol dirsi la civiltà dell'Umanesimo e del Rinascimento - non credevano più, nella loro maggioranza, ai valori religiosi ed etici, che avevan per secoli retto e governato, con l'impero da essi esercitato sugli animi, la vita morale dei loro avi e dei loro padri ... ». Ed appunto a questo mondo scettico e dubbioso Gerolamo Savonarola, nella sincerità del suo desiderio di vincere - come egli stesso scriveva al padre -- <e la cieca malizia degli Italiani del suo tempo », aveva predicato nou invano ia necessità della fede in Dio, l'austerità della vita, la solidarietà nella sofferenza. << Mentre i due fenomeni caratteristici dell'Italia politica medioevale - scrisse ancora l'Ercole - l'universalismo imperiale e il particob re citt:i.dino, potevano considerarsi nell'Italia delle Signorìt é dei Principati, morenti tradizioni di un passato senza ritorno, sta d i fatto che i nuovi Stati signorili o principeschi - per la natura stessa del loro processo formativo, abbandonato per lo più all'arbitrio o alla fortun a di tiranni più o meno improvvisati o di uomini dì ventura erano tuttora estranei ed assenti all'anima ed alla coscienza degl'individui destinati a mbirne le alterne vicende. Sicchè non è meraviglia che gl'individui, incapaci di aderire al Signore o al Principe: con quella stessa intensità ed intimità di devozione. con cui avevano, un giorno, essi o i loro padri, aderito all'Imperatore od al proprio Comune, tendessero a farsi legge del proprio arbitrio e a. fare della servitt1 alle proprie passioni la norma della propria vita ». F.bbcne, Gerolamo Savonarola, con voce possente e con zelo inesausto, aveva richiamato le anime al culto della religione, alla disciplina dei singoli verso la collettività, al disprezzo dei piaceri del mondo. ,, 1, el Cinquecento l'Italia - come ben a ragione· ebbe a ricordare il Rebora - percorsa da brividi d'odio fazioso e di cinico scetticismo, unicamente intesa alle cose dell'arte ed alla volubile passione retorica delle belle frasi o delle belle forme, non poteva trovare in sè alcuna fede sufficiente, onde potersi creare un ideale morale e nazionale, che le desse la forza, la concordia e la coesione ncce~saria per difendersi e per riprendere iniziativa di vigore politico e sociale ». Ed ecco che l'austero frate ferrarese, atterrendo le anime con la minaccia dell'inevitabile espiazione, rivolgendosi anche alle donne e JX:rfino. ai fanciu_lli, perseçuendc tenacemente la sua opera ritempralnce, ribellandosi temeranamente all'autorità dei Medici ed a qudla


Frnncesco Fe,-rucci.



dello stesso Pontefice, era riuscito a sostituire le gioconde canzom del .Magnifico coi suoi canti religiosi. Durante le lezioni da lui tenute dal 1481 al 1486 ai novizi del convento di S. Marco, commentando il Vangelo nel piccolo giar1lino dd convento, Gerolamo Savonarola aveva visto crescere a poco u poco il suo uditorio, sicchè egli, per le richieste degli ascoltatori. aveva dovuto passare dal giardino del convento nella stessa c hiesa di ·. Marco e, quindi, non bastando nep pure questo tempio ad acco~licre la crescente cale~ dei suoi uditor i, aveva finito coll'essere chiamato nella chiesa di S. Maria dei fiore, dove, predicando il Vangelo, .1vcva a poco a poco compiuto la co nquista dei F iorentini . Com1uist:i r hc, invano avversata dagli oppositori, non fu soltanto q uella delle ,tnime semplici e delle menti incolte, poichè il fascino esercitalo dal Savonarola non tardò ad estendersi anche sugli uomini appartenenti J lle migliori classi della cfrtà ed anche aìle menti più colte, come dimostra la devota amicizia, che per il frate di Ferr:ira finì. per .avere lo stesso Pico della Mirandola. Per quattro anni, dal 1494 alla sua morte - come nota :1c11t:1inente l' Ercole - Gerolamo Savonarola aveva finito, cosi, con l'cs:ere il vero dittatore di Firenze, l'ispi!atore di tutti gli ;:, t ri ,1,..1 r.n. verno, il consigliere ascoltato in ogni più importante viccnd,1, pi.:r fi nire poi col consacrare la sua fede sul rogo eretto in piazza dd la Signorìa, il 23 maggio 1498.

Era dunque inevitabile che, ricacciati per fa seconda volta i Medici, la Repubblica fiorentina si dim ostrasse ancora fedele allo spirito del Savonarola, al cui ricordo i cittadini continuarono a chiedere consiglio e conforto e nel cui nome combatteranno poi l'estrema battaglia dell'indipendenza italiana. · Ora i tre ammonimenti più importanti per la vit.i politica dclh Repubblica più volte ripetuti dal Savonarola ; quelli, che il Governo ed il popolo di Firenze dovevano quindi ritenere come dogmi fondamentali, erano stati: l'opposizione ai Medici ; il mantenimento della nuova costituzione; l'alleanza con la Francia. Appunto per quest'alleanza, che pure avrebbe dovuto avere già deluso le speranze dei Fiorentini, Firenze non aveva partecipato alfa Lega Santa promossa da Giulio Il contro i barbari ; mancata partecipazione, questa, il cui ricordo contribuirà a lasciare poi sola, nell'e-


stremo pericolo, la città, che pur « fra le rovine della Patria comune aveva ritrovato la libertà popolare, quando - come ricorda Gino Capponi - tutto il peso delle armi straniere cadde sopra ad essa, per quivi estinguere l'Italia>>. Nel momento della sua eroica decisione, l'alleanza con la Fran eia non poteva, infatti, arrecare a Firenze alcun soccorso, poichè Francesco I, non avendo potuto trarre dalla vittoria di Ravenna alcun durevole nntaggio. per la morte di Gastone de Foix, ed avendo egli stesso perduto a Pavia tutto fuorchè l'onore, prigioniero prima e coi fig li ancora ostaggi della Spagna poi, aveva da pen· sare a ben altro ; così che, mentre Papa Clemente VII, falliti defi, nitivamente i suoi sogni cli egemonia, dopo aver esitato fra Carlo V e F rancesco I, si alleava coll'Imperatore e si recava a Bologna ad incoronarlo, il Re di Francia non poteva rispondere ai ripetuti ap· pelli di Firenze, se non con semplici, fallaci promesse. « Occorre ricordare - scrisse bene a ragione Cecil Roth (I) che il movimento rivoluzionario a Firenze era stato, al suo inizio, avvinto 5trettamentè alle speranze di aiuto da parte dell'Impero e che i ~uoi Capi erano stati in intimo contatto con le forze del furbrint:. P~rfì no dopo l' insuccesso della prima rivolta, la pratica era continuata cd il Capponi, con Alfonso Strozzi, aveva seguitato nei suoi tentativi di accordo pel tramite del Duca di Ferrara ; e l'espulsione J ei Medici era stata salutata dagli imperialisti come un trionfo della loro Causa (2). E, subito dopo, mentre il Governo .fiorentino stava ripetendo la propri a fedeltà alla Lega, venivano altresì ·aperte trattati.ve dirette con l'Imperatore ed istruzioni segrete venivano inviate all' ambasciatore fiorentino in Spagna per chiedere l'appoggio di Carlo V, con l'ordine, peraltro, di attenersi a formule generiche, senza venire a promesse definite. Per il momen to non potevano assumere obblighi; queUo cui mira.vano era un ordine ai Comandanti degli Imperiali in Italia di non molestare le loro città. Si sperava così di evitare tanto le mcognite quanto le spese di una guerra. Ma la Spagna era distante ed il pericolo urgente; e cosi, al tempo stesso, venivano iniziate trattative dirette col rappresentante di Carlo V in Italia, a traverso gli agenti del suo alleato, il Duca di Ferrara. {t) C i;c1L RoTH: « L 'ultima Repubblica Fiorentina l> . (2) L'Abate di Najera, - Provveditore Generale, - a Carlo V, 27 m;;ggio « A los 24 del presente mio :;.viso... como F lorencia ... habian pueste se y su liberta<l a la ,devocion y servìcìo de V. M. ,,.


Una terza via tentavasi a traverso Siena, tanto direttament<::, quanto pel tramite dei messi ferraresi. Era naturale che, alla caduta dei Medici, le due Repubbliche vicine, unite dall'odio comune, si legassero più intimamente. Inoltre furono iniziate relazioni dirette col Lan11oy, vicerè imperiale; ma questi, che aveva esperìmentat,~ la portata del suo potere sulle truppe, ammetteva francamente di non poterle dominare. Perciò la decisione dipendeva dai Capi militari , ai quali il Lannoy indirizzò i ~uoi postulanti. L'obiettivo dei Fiorentini, all'inizio di queste trattative, non era ~tato soltanto quello di assicurarsi la salvezza, ma anche di assicurarsela con la maggiore economia possibile. Avevano informato l'Imperatore che, :ilmeno per il momento, non avrebbero potuto rifornirlo di denari in cambio del suo ordine che la città fosse risparmiata. Ma i Capi militari, ai quali essi erano stati ora indirizzati, non co ncepivano politica e trattati che a termini di moneta sonante ed ai Fiorentini furono fatte proposte molto simili a quelle che aveva no ri evuto dal Papa: il pagamento di 300.000 ducati entro un mese ed un versamento addizionale di 20.000 ducati mensili per la durata ddb guerra. Inoltre i Fiorentmi avrebbero dovuto dimostrare al Duca d1 Ferrara la loro gratitudine per i! suo intervento, con la c nrtr><.i:1 ,~i~pendiosa di assumere ai proprt servigi il figlio come Capitano gene rale. Date queste richieste eccessive, le trattative con gli I mpcri:il i fallirono ; ma si ritenne generalmente che, ove l'Imperatore fesse ~tato più vicino, un accordo sarebbe stato raggiunto (r). Nè più agevoli erano le relazioni con la Lega. Furono inviate, è vero, al Guicciardini alcune somme di denaro, m a in quantità inadeguata ed accompagnate sempre d2 grandi proteste. I generali confederati si dicevano pronti a proteggere Firenze, ma aggiungevano, sospettosi, « soltanto qualora il Governo d im ostrasse che desidera va di esser difeso ». Sollecitati dall'ambasciatore inglese a mettere per iscritto le loro promesse, essi aggiunsero condizioni così equivoche, da rendere guell'a~sicu1azione, in pratica, priva d'ogni valore. Al tempo stesso i sospetti accresciuti si estrinsecarono in una richiesta formale che Firenze confermasse l'alleanza conclusa dopo il tumulto del Venerdì. La richiesta fu respinta, ma in forma non compromettente, dicendo che la cosa non era necessaria. Ciò nonostante, gli alleati continuarono a far pressione col pretesto che ( 1) BARDI: " Cado V e l'assedio di Firenze », Cfr. anche dispaccio del Najera del 23 giugno r527, in State Papers. Spanish, 11, 11 , 93.


il Re di Francia stesso lo desiderava e l'ambasciatore veneziano ricorreva talora alle argomentazioni, talora alle minacce, per arrivare al suo scoPo, predicendo che altrimenti sarebbe vc~uta m.eno qual~fasi protezione e la città sarebbe stata abbandonata a1 Lan.z1_chen~cc~1. Il Guicciardini continuava, dal campo, a far notare tutti I pencoli del procrastinare (, ), e perciò divenne inevitabile addivenire ad una dr.cisione.

Francesco Fr:rrucci.

Comocati gli Ottanta, fu loro presentato il problema da esaminare e subito si accese una viva discussione : Tommaso Soderini perorò a favore della politica tradizionale dell 'alleanza con la Francia, oer la ouak t>ra caduto sue zio. Esortò la città a mantenersi fedele e ;d assic urars: la propria salvezza, confermando l'adesione alla Lega. Il Capponi, con Zanobi Buondelmonti, dirigeva invece il partito & coloro che avevano intrigato con gl'lmperiali prima della rivoluz.ione e ora erano favorcvdli ad un'alleanza coi vincitori, ritenendola una garanzia maggiore per la sicurezza della città, che non quella con 1

( 1) Lettere del maggio e del giugno 1527 in « Opere», voi. -JX. Rossi : I, 48 - 52. Cfr. anche s .~NUTO: XLV, 250, 315, 336, 339 - 40.


1-1li alleati dei suoi passati tiranni. Ma le difficoltà incontrate nel , ondurre le trattative formarono un ostacolo insormontabile e la lnione, dalla quale la memoria del Savonarola era tenuta ancor sa1 ra, rammentò i di lui insegnamenti politici, sintetizzati nella racco111andazione che << i gigli dovrebbero .fiorire coi gigli », quelli di Firenze, cioè, con quelli di Francfa. Risultò dunque vincitore il partito nel quale il sentimento tradizionale guelfo faceva udire più forte la sua voce; fu nominata una commissione con Baldassarre Carducci alla testa, per deliberare la forma del nuovo trattato; fu convenuto di mantenere 4.000 pedoni e 400 cavalli con l'esercito della Lega e fu finalmente concluso il patto (22 giugno).

Tuttavia le trattative di Firenze con l'Imperatore conùnuarono e, malgrado la disapprovazione dei confederati, fu concesso un sal-

vacondotto, attraverso il territorio fiorentino, ai messi imperiali inviati a prender possesso di Parma e di Piacenza, in seguito alla recente convenzione col Papa. Al tempo stesso i Fiorentini vid ero con ,.u~petto l'occupazione di Ravenna da p arte delle truppe ver. c;:i:mc u per guardarla alla Chiesa ,;, trattarono con gli altri confederati, sebbene senza successo, per occupare, inveçe, con le proprie truppe la Romagna pontificia e -cercarono di indurre Faenza a por~i d i nuovo sotto la loro protezione, come durante il secolo precedente. Le forze della Lega erano insufficienti. Esse raggiungevano appena la metà dei 20.000 uomini previsti, ed il numero dei soldati, costretti all'inerzia, diminuiva ogni giorno per le numerose diserzioni. l comandanti seguivano intenti del tutto diversi (1); un piccolo scontro presso Terni, in cui, tutto sommato, non si trovarono impegnati più di 2.000 uomini, fu la sola azione di qualche importanza durante tutto il corso della campagna (2). Un'altra causa di dissidio con gli alleati si verificò quando fu sollevatà la quéstione dei movimenti dell'esercito confederato. I Fiorentini avevano raccomandato che, nell'abbandonare la campagna inefficace per la liberatione del Papa, esso non dovesse: nè ritirarsi sul territorio fiorentino> per non aumentarne i danni; nè fare incursioni contro Siena, per non eliminare la possibilità di relazioni ami(r) Gu1cc1ÀllDINt: « Lettere )) dd giugno 1527. Guicc rARDINI : « Storia d'Italia », IV, I 39.

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chevoli con la Repubblica vicina e per non attirare le forze imperiali in Toscana. Queste raccomandazioni non ebbero alcun effetto sugli alleati ed almeno una parte dell'esercito della Lega attraversò, nella sua ritirata, la Toscana con le solite conseguenze. La medesima condotta tenne Andrea Doria, il grande ammiraglio al servizio dei Francesi, giunto circa in quel tempo nelle vicinanze di Livorno, per sostenere la campagna della L ega nel mezzodL Il Governo fiorentino dispose che i suoi militi fossero accolti con cordiale o spitalità , ma con tutte le dovute precauz ioni, ed inviò a riceverli Luigi Alamanni, come Commissario Generale ( r) ; ma Andrea Doria bloccò il porto - sembra allo scopo di impedire che i rifornimenti gi ungessero agli Imper iali - non per mettendo l'ingresso che alle vettovaglie.

In q uanto agli altri Stati d'Italia, essi non potevano cer to dimostrare ai Fiorentini alcuna efficace solidarietà, attratti com ·erano dall'allea nza dell ' lmperatore col Pontefice ; mentre, all'inizio del secolo X V, a malgrado della grande luce del R inascimento e delle sublimi :, ffrrmnio ni clella sua arte, l'Tt.1! ia contin11av:1 ad app:irire <legna di compiante e, così come invano Dante av~va sperato che Arr igo VII ,·eni~s·~ fi nalmen te a prendere il timone della « nave senza nocchiero in gran t"mpesta ", e Francesco Petrarca, nella ~u:i canzon:: a Cola di Ricnzo, aveva dovuto invocare un Cavaliere che traesse pei capelli la neghittosa Patria ad uscire dal fango, invano il Machiavelli aveva dovuto non esitare, per por fine agli accresciuti mali della Patria, ad immaginare la poderosa figura del Principe. Per conseguenza, quando F iren ze fu costretta a convincersi della vanità dei pacifici tentativi e della inutilità delle ambascerie; quando, al congresso di Bologna, risultò vano il generoso intervento dei Duchi di Savoia in suo favore e l' Imperatore ingiunse agli ambasciatori fiorentini_di umiliarsi al Pontefice, e lo stesso Clemente VII impose a Firenze di r ifo rmare la costituzione della _Repubblica e di affidarsi alla sua benevolenza, la città si trovò nel pericolo terribilmente sola, da tutti abba ndonata e da tutti delusa. Eppure, mentre il nemìco si era ~ià impadronito di Assisi, di Arez zo el avanzava sempre p iù minaccioso, seppe scegliere i pericoli ed i disagi della glor iosa resistenza, per ergersi, contro l' Imperatore ed il Pontefice collegati ai suoi danni. (1 ) H ,w ) Ell E: " Luigi Alamanni, sa vie et son oeuvre ».


41 I con la saggezza dei suoi governanti, col valore del suo popolo, con la fede e la disciplina delle sue milizie, dando così a tutti gli Stati d'Italia quel mirabile esempio di fierezza, che doveva poi essere esaltato, durante il nostro Risorgiment~, dalle opere del Guerrazzi e del D'Azeglio. Anche se i magistrati di Firenze non erano tutti ben preparati· al loro non facile compito, le loro decisioni furono tempestive, la fo rza delle loro leggi, imposte dal pericolo, fu veramente mirabile, la severità con la quale, istituitisi nella c ittà i Sindaci, furono condanm ti i fuorusciti, divenne esemplare; la prontezza dei cittadini a tutto offri re ad a tutto patire per l'esistenza e per la libertà della Repubblica, fu prov.a eloquente del loro patriottismo. Quando, il 25 giugno 1529 - racconta Cccii Roth - ii Consigiio maggiore con<iannò la bestemmia, in vitò i cittadini a perdonarsi a vicenda ogni ingiuria, riconfermò Gesù Cristo com:: Re di F irenze, lo spirito del Savonarola si .[fermò, anche nelle decisioni del Go\'<"rno, ancora presente. Sì volle - dice il Caggese --· eh(:: radessero le ire partigiane, gli udi dì classe, le ambizioni personali, g li istin ti malvagi, mentre il pensiero del popolo ritornava agl'insegnamenti ..!d suo pavero m artire e l:i speran z:1 che il suo sentimento rdigi0s0 Potesse compiere il miracolo illuminava gli estremi momenti della Repubblica. Tutte k ville d ei sig1,ori, eretle con tanta magnificenza su i rnll ì, :il di là delle mura, vennero distrutte, per non offrire agli ~ssecfon ti alcun asilo ; i beni dei fuorusciti confiscati e gli stessi loro gioielli furono venduti all'asta, a beneficio della Repubblica; mentre un nuovo p restito forzoso di 80.000 ducati veniva imposto ai cittadini, per pagare i mercenad, e si richiamavano in onore le milizie. Prima della rivoluzione i Fiorentini avevano sostenuto la spesa del m antenimento di più di 7 .000 Fanti nelle forze della L ega, oltre alla Cavalleria (1) e alle truppe che servivano in nome del Papa. Attualmente si supponeva che mamenesscro circa 5-000 Fanti (2); ma in realtà questi non ammontavano a più di 3.000, date k perdite per malattia e per diserzione_ Queste - ed un reparto di Cavalleria, anch'esso diminuito in proporzione - erano tutte le forze, sulle quali i Fiorentini potevano contare n el caso di un attacco da ( r) Gu1ccV,RDlNI: « Lettere agli Otto di pratica >1; 16 maggio 1527, m Opere, IX, p. 6. (2) Col patto dell':iprile; ridotti :1 4-000 con quello di giugno.


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parte delle truppe imperiali. Al riguardo, anche se non fossero bastati gli avvertimenti del Guicciardini, l'attacco dei Lanzichenecchi alla piccola città di Narni e la visita di uno dei comandanti imperiali a Siena vennero a confermare i timori e ad affrettare i preparati vi di Firenze. Si procedette, infatti, alla nomina di un Commissario per il controllo delle forze e, dopo avere pensato al Guicciardini, venne chiamato a tale carica Raffaello Girolami. Sotto il Girolami. le forze .fiorentine incominciarono ad aumentare e la città ebbe la fortuna di poter chiamare al proprio servizio il Corpo di truppe, di cui l'Italia poteva maggiormente gloriarsi. Gio~ vanni de' Medici, membro del ramo cadetto della famiglia, aveva istituita quella Banda di mercenari, che più tardi divenne nota sotto il nome delle « bande nere )) . Morto Giovanni de' Medici, le sue forze si erano disgregate e soltanto parte di esse potè passare al soldo di Firenze, rappresentando, secondo il Varchi, « la più insolente, la più fastidiosa, la più rapace Fanteria di quel tempo »; ma anche la più abile nel combattere con le Fanterie spagnole e tedesche. Agli uomini dalle bande nere rimasti al servizio della città, si aggiunsero ben presto gli altri reparti, finchè la forza già agli ordini di Giovanni de' Medici fu quasi totalmente ricostituita e posta al comando di Orazio Baglioni. Nello stesso tempo fu costituito un forte repartQ di Cavalleria e vennero restaurate le fortezze: Alla notizia del saccheggio di Narni, fu formalmente proibito a tutti i sudditi fiorentini di prender le armi sotto capitani stranieri, salvo che al servizio della Lega, e furono richiamati in patria tutti coloro che ne erano lontani, per costituire altre forze per la difesa della città. Inoltre fu riorganizzata, sotto i Nove, l'antica milizia fondata dal Machiavelli e rinnovata nel 1514, con i _sudditi dai diciotto ai trentasei anni. La milizia fu divisa in trenta « ordinanze » ed ebbe armi importate dalla Germania. I Dieci della Signoda avevano descritto la terribile situazione a Carlo Capello, oratore di Venezia a Firenze, dicendo: « Noi siamo, non solamente per esporre le facultà nostre; ma eziandio per morire, noi vecchi stessi, con le armi alla mano, alle mura e per la difesa di questa Patria » e non esitarono a chiedere ad ognuno il contributo della_forza fisica, del~e virtù, dell'intelletto, della personale esperienza, scegliendo per le cariche pubbliche i cittadini migliori e preparandosi ad affrontare impavidamente ogni pericolo per la libertà della Repubblica.


Panorama d i Fi•·enu c;,•1 i'acc:rn pumento dd Pri•1cipe d'Orange.



Appunto per questa affannosa ricerca di energie, in questa gara generosa nel contribuire alla difesa comune, sorse improvvisamente, da un'oscurità quasi completa, Francesco Masotto Ferrucci. All'appello della Signorìa, egli rispose semplicemente di essere pronto ad ogni ordine e ad ogni sacrificio, compreso quello della vita; e tale promessa seppe nobilmente mantenere per la salvezza della sua Firenze. Poco ci dicono, della sua vita, gli storici e notizie indubbiamente insufficienti troviamo in quella stessa « Cronaca » che, con l'animo ancora commosso dalla immatu.ra morte dell'eroe, Fil ippo Sassctti pubblicò nel 1570. Possiamo dire soltanto che Francesco Ferrucci era nato in Fi1cnze, nel quartiere di S. Spirito, presso il Ponte della Carraia, il 14 agosto 1489, da nobile famiglia dedita ai commerci ; ma che aveva già dato uomini capaci di tenere con onore importanti cariche pubbliche. Un antenato di Francesco, contemporaneo di Dante, era stato, infatti, Gonfaloniere e Priore; un Leonardo Fcrrucci Capitano del popolo di Pistoia nel 1413; un altro Leonardo, nipote del primo e fratello del padre di Francesco, era stato Commissario delle g-alere nella Repuhhlica, al comancfo rleHe quali era riuscito ;i tor,lil'rf' ,ii Pisani l'Isola del Giglio. Sappiamo anche che Francesco Ferrucci, alto di statura, robusto ed aitante della persona, ebbe fronte spaziosa, capelli ricci, occhi neri, lineamenti marcati, un maschio volto che dimostrava tutta la sua forza volitiva. Di lui sappiamo ancora che egli era nato proprio quando la fortuna cominciava a mancare alla sua famiglia, così che, anche se non ebbe a soffrire molte privazioni, divenne presto consapevole delle gravi inquietudini che assillavano il padre; che, per venire avviato agli affari, egli fu messo, ad appena dodici anni, al Banco di Raffaello Girolami, presso il quale trascorse tre anni della sua adolescenza, riluttante a quella ~mmobile vita, così che, c1ppena libero, torna.va suhit-am~n(e ai gioochi propri della sua età, preferendo quelli nei quali egli potesse esercitare sui compagni l'imperio della sua volontà. Egli dovette sentire, per conseguenza, assai presto il culto del!'amici-zia e dimostrò precocemente un forte carattere ed una tenace forza volitiva, finchè, giunto all'età dell'amore> amò molto le donne e ne fu riamato, a malgrado del suo carattere chiuso, che lo rendeva quasi sempre taciturno.


Il $assetti lo definisce « homo capace di farsi respectari » ed egli, se non di lingua, dovette essere spesso di man prode, pronto come era a ribellarsi aò ogni sopruso ed a trarre le armi per respingere un insulto, per difendere un amico, per tutelare l'onore della donna che accompagnava. Sappiamo ancora che Francesco Ferrucci non partecipò mai a congiure o ad intrighi di sorta, che odiò le chiacchiere vane, tanto di moda al suo tempo, che dimostrò sempre molto interesse alla narrazione degli eventi storici e specialmente di quelli che si riferivano alla guerra; cbe, infine, quando il padre, probabilmente per la poca attività degli affari, si ritirò nei suoi poderi del Casentino, Francesco si abituò alle più rudi fatiche, dedicandosi specialmente all'agricoltura, alla caccia, all'uso delle armi, e leggendo, nei brevi riposi, libri di storia e vicende di eroi. Egli completava così la sua preparazione, rafforzava il suo carattere, maturava la sua virtù in una vita interiore intensissima, alieno da ogni interessata sottomissione, accettando come un dovere le cariche pubbliche, che successivamente gli vennero affidate. Egli fu, infatti, podestà di Lanciano nel 1519, di Campi nel 1523, di Radda nel 1c:;27, ed amministrò dovunque la giustizia con equa, ma inesorabile severità, serbandosi sempre impar:zfa~ e dimostrando una forza Ji carattere ed una rettitudine a tutta prova. Nel 1528, per desiderio di Gian Battista Soderini, che di lui ebbe sempre a lodarsi e che lo amò come un figliuolo, Francesco Ferrucci venne inviato con funzioni amministrative presso .l'esercito francese all'assedio di Napoli, insieme con i superstiti delle bande nere, passati al soldo della Repubblica Fiorentina dopo la fine di Giovanni de' Medici, caduto nel 1526 a S. Giorgio dj Mantova, nei generoso tentativo di arrestare la marcia minacciosa dei Lanzichenecchi. All'assedio di Napoli, a contatto con quei rudi soldati che ancora ricordavano con rispettoso affetto il loro capitano, Francesco compì quasi il suo pratico tirocinio, conobbe le qualità necessMie per ben comandare, fece, Ntraverso i memori racconti dei soldati, di Giovanni dalla bande nere il suo ideale maestro, sentì rinascere in lui l'innata vocazione a combattere, così che, benchè rivestito, come abbiamo detto, di una carica amministrativa, prese parte con onore a qualche fatto d'arme, contribuendo a rendere vani i tentativi di sortita fatti dalla Cavalleria spagnuola. Quando la peste, più che la guerra, decimò i combattenti e lo stesso Lautrcc, comandante dell'esercito francese, morì, il Ferrucci


venne preso prigioniero e, dopo aver contratto, per riottenere la libertà, un debito con Tommaso Campi Importuni, si ritirò a Firenze e si dedicò tranquillamente ai suoi poderi cd ai suoi affari. Ma ne venne ben presto richiamato dalla Signorìa, che gli affidò alcune trattative diplomatiche coi Francesi e quindi lo elesse Commissario di. Prato (ottobre 1529), incaricato, con 8oo Fanti, di rimettere l'ordine, di tener disciplinati i soldati, sicure le vie, abbondanti i rifornimenti; cose tutte che, per quanto non facili, il Ferrucci eseguì mirabilmente; mentre il debole Lorenzo Soderini, suo predecessore in questa carica, nulla aveva potuto ottenere. La Signorìa, riconoscendo i suoi servizi, non esitò a mandarlo allora, con pieni poteri, ad Empoli, dove, come già a Prato, Francesco Ferrucci dimostrò mirabili qualità di organizzatore ed un'indomita energia.

Consapevole dell'importanza di Empoli e della necessità di tenerla ad ogni costo, per poter rifornire Firenze, il Ferrucci vi raccolse tutte le risorse che gli fu possibile requisire nelle terre vicine: ricostituì l'ordine; mantenne la disciplina, amministrò con rigi<la onestà, non esitò a marciare per domare le rivolte, come a Castel Fiorentino, o per respingere i nemici come a S. Miniato, che egli ritolse alle soldatesche spagnole, scalandone tra i primi le mura, costringendo il nemico alla fuga e non esitando a fare impiccare ad una porta dell'abitato alcuni cittadini ribelli, quali traditori della Patria in pericolo. Quindi si dedicò a fortificare Empoli, traendo probabilmente efficaci insegnamenti da quanto aveva imparato a Napoli e da quanto lo stesso Michelangiolo aveva fatto a Firenze, sistemando la città in modo, « assestandola di sorte - come egli stesso scriveva alla Signorìa con visibile compiacimento - che le donne con le rocche la potrian guardare ». _ Pur chiedendo con la necessaria energia ai cittadini ogni doverosa prestazione, il Ferrucci costrinse i soldati rei di essersi dati al saccheggio a restituire il maltolto e: li condannò alla morte; ed, a malgrado di ogni difficoltà, potè aliment~e efficacemente la resistenza di Firenze_ con le preziose informazioni, con i necessari rifornimenti, inviando alla Signorìa perfino il salnitro necessario per fabbricare la polvere. 28


Da Empali, che egli lasciò a malincuore e con quella trepida­ zione che ben gli suggeriva un doloroso pr�sentimento (la città venne presa, infat6, dagli Spagnoli appena un mese dopo), il Ferrucci venne inviato a Volterra che, nel marzo del 1530, ribellatasi improvvisa­ mente a Firenze, si era offerta al Pontefice. Egli partì, per conse­ guenza, con 500 Cavalieri e con 2.000 Fanti. Benchè tenacemente difesa, Volterra, attaccata contemporanea­ mente da tre parti, venne presa; ed il Ferrucci, che nell'attacco aveva combattuto con grande valore, fece impiccare i cittadini che gli ne­ garono i mezzi per la paga dei soldati, requisendo con indomabile energia l'oro e l'argento necessari a coniare le monete. Quando seppe che Fabrizio Maramaldo si avvicinava con le sue truppe a Volterra, Francesco Ferrucci, che aveva appreso la caduta di Empoli piangendo di rabbia, sì preparò a difendere la città. Avuta, infatti, intimata la resa, egli avvertì il parlamentare in­ viatogli che, se fosse tornato con le stesse proposte, lo avrebbe fatto impiccare; minaccia questa, che infatti mantenne, resistendo poi ai ripetuti assalti del M:uamaldo e del Marchese del Vasto ed inflig­ gendo loro perdite cosi gravi, che essi dovettero rassegnarsi a rinun· 7.!are pe!"ft.�c :!!l ':!.�s�dio. Il Marchese del Vasto ebbe anzi a dire in proposito che, t< men­ tre egli si sarebbe sentito capace di prendere d'assalto un abitato di­ feso da uomini, non avrebbe potuto ostinarsi a teptare di prendere una città difesa da demoni J). Nelle notturne sortite e nella tenace difesa di Volterra contro gli assaiitori, Francesco Ferrucci aveva intanto nuovamente dimostrato il suo adamantino coraggio, acquistato sui suoi soldati tutto il neces­ sario ascendente e, benchè gravemente ferito, aveva voluto rimanere, durante il combattimento, fra di essi, per meglio aiutarli con la sua presenza. Ma intanto, man mano che la resistenza della Repubblica si prolungava, le speranze dei Fiorentini divenivano sempre più in­ certe, le strade mal sicure, i rifornimenti scarsi, le esitazioni di Mala­ testa Baglioni apparivano sempre più pericolose ed il suo tradimento sempre più evidente, Era quindi naturale che la Signoria riponesse allora ogni spe­ ranza nel valore di Francesco Ferrucci e gli affidasse la carica di Commissario generale di campagna delle genti .fiorentine. Per conseguenza, egli venne inviato a Pisa, dove giunse il 17 lu­ glio, trovò i rinforzi cqnd_ottigli da Gian Paolo da Geri, costrinse ì cittadini a rifornirlo di denàro, ricevette 20.000 scudi raccolti da Luigi


Ga11imina 11ttaccata dali,• milizie dell'Orange.



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Alemanni presso i componenti la colonia fiorentina di Lione, dolente - come egli scrisse alla Signorìa - di dover provvedere a queste neLCssità materiali ed al denaro « per pagare le genti; che mi ha dato più fastidio questo, che se io avessi avuto altrettante più oppressioni dai nemici )> . Non ancora guarito dalla ferita di Volterra, colto da febbre e rimasto infermo in Pisa, egli continuò con indomita tenacia ad occuparsi di quanto era necessario per migliorare ed accrescere l'efficienza delle sue truppe, le quali complessivamente raggiungevano una forza di poco sup:'.rÌore ai 3.00(1 uomini. Ricoverato nella Chiesa di S. Caterina, mentre i medici lo avvertivano inutilmente che non sarebbe guarito della febbre c he lo tormentava qualora non si . fos>e concesso l'indispensabile riposo, egli ricevette gli ultimi ordini. La Signorìa gli ingiungeva di accorrere in Firenze con quanti uomini, vettovaglie e denari potesse portare e di lasciare il com ando a Gian Battista Corsini, qualora, per la sua infermità, non potesse egli stesso guidare verso Firenz.e le sue truppe. Fu allora che egli, levatosi subitamente dal letto e sdegnando ogni cura ulteriore, disse: " l\ndiamo dunque .i morire >i e confidò allo zio Taddeo Giudici che << sarebbe morto volentieri in servizio della Patria >1 . Tale rassegnata prontezza all'olocausto mpremo, la giustezza di questo suo presentimentCI l'eroe doveva poi dimostrare a G::ivinana.

L 'impresa da compiere appariva, infatti, ormai disperata. Occorreva che il piccolo esercito, tenuto insieme dal Ferrucci con la rigida disciplìna e con l'efficacia dell'esempio, marciasse attraverso i monti verso Pistoia, raggiungesse Montale, tra Pistoia e Prato, e da Montale, procurando di rompere la resistenza dell'esercito assediante, cercasse di penetrare in Firenze, ormtli q n:isi priv.1 d i tutto, per ravvivarne le ultime speranze. Nel dare tali ordini -- come nota acutamente il Sassetti - · la Signorìa ormai non comandava più ; ma chiedeva al Ferrucci questa ultima, difficile prova, con una preghiera che, mentre dimo3trava CQme l'ultima speranza di Firenze fosse ormai riposta soltanto in lui, non poteva. non aver presa sulla generosità del suo animo. Alla sera del 3l luglio Francesco Ferrucci lasciò Pisa ed, attraverso i monti, per ripide mulattiere cd impervi sentieri, raggiunse


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Pescia. Durante la marcia, compiuta per quelle strade, con quell'esucito, in quelle condizicni, egli era stato seguito con ostinata te~ac~a dal !\.faramaldo, impaziente di piombargli addosso, menti;~ a P1sto1a già si trovava il Vitelli, pronto a tagliargli la strada. Il 2 agosto, vigilia della battaglia, vigilia della morte, Francesco Ferrucci non può sperare più nulla; egli è perfettamente consapevole del sacrifizio che sta per compiere, ma ricorda bene che, in Firenze affamata, tradita, agonizzante, i suoi concittadini soffrono un'angoscia ancora più disperata della sua. Forse per questo egli scrive alla Signorìa la sua ultima lettera, nella quale non si ribella contro il destino, non muove alcuna accusa, non si duole della sua sorte, non esprime alcun dubbio; ma, raccogliendo ancora nel saldo cuore le ultime energie, le dedica a confortare gli assediati. ,, Questo giorno -- egli scrive - abbiamo la vostra e non occorre altro ,lire, senonchè c1 troviamo alla terra di Pescia, a I miglio, e troviamo tutti li popoli contrari a noi. Però non temiamo ed a quest'ora marciamo alla volta di Castelvecchio, sperando di essere domani da sera al Montale, ancor chè Fabrizio (Maramaldo) abbia fatto gran pr~parazione. « Se ii nemici faranno esperienza di noi. allora faremo vederr c~i noi siam~ e ci ingegneremo tenervi avvisati dei progressi nostri giorno per g10rno. « Nè altro ho da dire alle Signorle vostre, salvo che io mi trovo in sul fatto e guarito, Deo gratia >>. Ma ia ~ituazione è :mcora assai più grave di quanto il Ferrucci supponga. Oltre Fabrizio Maramaldo, che lo segue da presso, oltre Alessandro Vitelli, dal quale teme di aver tagliata la strada, lo stesso Principe d'Orange, il comandante in capo dell'esercito assediante, reso sicuro, pel tradimento di Malatesta Baglioni, che gli assediati non avrebbero effettuata intanto alcuna sortita, gli è mosso incontro con 9.000 uomini ed ha raggiunto anch'egli Pistoia, mentre gli abitanti, atterriti ed ormai dimentichi della Patria, aumentavano il numero dei nemici. Tuttavia Francesco Ferrucci abbandona Pescia e raggiunge Castelvccchio; ma, invece di muovere verso il Montale, ingannato dallt. guide, marciando di notte, sotto la pioggia, per difficili mulattiere, prosegue verso nord e raggiunge S. Marcello, come se ormai fatalmente tutto concorresse alla fortuna dei suoi nemici. Infatti, non soltanto gli muove incontro da Pistoia il Vitelli, non soltanto lo segue sempre più da presso, con i suoi uomini, Fabrizio Maramaldo ; ma


già anche lo stesso Principe d'Orange ha raggiunto Gavinana con ì suoi Cavalieri. Siamo così al 3 agosto; la passione del condottiero diventa epica; la prova suprema è prossima, il sacrifizio è ormai certo, il dramma precipita. Consapevole del suo destino, tuttavia il Ferrucci riunì le sue truppe :id est di S. Marcello, al campo di Ferro, dd quale un distico dice:

Ferreus hic ager est, ex quo Ferrucius olim sive hostem stati,it vincere, sive mori (1). Egli diede allora ai suoi uomini gli ordini opportuni. Riunite le salmerie in località riparata e lasciata ad esse una scorta, il Fcrrucci J ivise il suo piccolo esercito in due parti: l'una, al comando di Gian Paolo da Geri e costituita da r5 compagnie, doveva opporsi al Vitelli; l'altra, già avanguardia, forte di 14 compagnie ed al comando dello stesso Ferrucci, doveva riconquistare Gavinana, per vedere se fosse ancora possibile di aprirsi, con il combattimento, un varco verso Firenze. Lo storico Bernardo Segni, che attribuì al Ferrucci perfino l'idea di marciare su Roma, per far prigioniero il Papa, riporta J'allocu2ione rivolta dal Commissario generale alle sue truppe ; allocu2.ione che, nel testo del Segni, è invero troppo manierata e gonfia per ri portare le parole effettivamente pronunciate dal Ferrucci. Certo è che questi ebbe a ricordare ai suoi uomini la necessità di difendere Firenze e l'onore delle armi e li avvertì che ormai loro restava solo ,, la disperazione di ogni soccorso, salvo quello che potesse esse.re loro fornito dallo stesso valore ». Così come è certo che egli, pur conservando nel volto e nel tono della voce. la fiera espressione di chi comanda, rivolse alla fedeltà dei suoi soldati un estremo appello, perchè, per il bene della Repubblica, non lo abbandonasse in quel pericolo. Quindi egli mosse arditamente all'attacco di Gavinana, mentre già si iniziava il tramonto.

La battaglia fu tutta una mischia accanita. Contro la Cavalleria ddl'Orange il Ferrucci fece adoperar~ con grande successo le sue trombe di fuoco e, per ben due volte, a malgrado della grave spro(1) Qui è il campo di ferro, \Ul quale un tempo Ferruccio delibè:rò di ,·incere o di morire.


424 porzione numerica, mentre Gian Paolo da -~ri resisteva al_ V~telli, primo fra i suoi uomini, sprezz_a ndo ~gm nparo ed ogni difesa, rimbrottando sdegnosamente quei fedeli che, come Goro da Monte Berichi, cercavano di fargli scudo ddla propria persona, il .Ferrucci riuscì a respingere la Cavalleria e la Fanteria dell'Orange, che rimase ucciso nella mischia, così che ancora per un istante potè sorridere al Ferrucci, rimasto senza elmo tra le sue truppe già decimate, la

La battaglia di Gavimma.

speranza della difficile vittoria, quando sopraggiunse Fabrizio Maramaldo, implacabile come l'avverso destino, mentre Gian Paolo da Geri veniva costretto dai ripetuti attacchi del Vitelli a ripiegare. Quando gli venne intimata la resa ed al Ferrucci i seguaci chiesero: <e Messer C.Ommissario, dobbiamo dunque noi arrenderci? », egli rispose .fieramente : (i Io voglio soltanto morire J> e la mischia si rinnovò furibonda, mentre sul corpo dell'eroe aumentavano le ferite, a malgrado delle quali, egli riusciva con pochi superstiti ad u scire da Gavinana e ad aprirsi la via verso il castello. · Ma, incalzato da ogni parte daile truppe del Maramaldo e già quasi morente (le sue armi, conservate in Palazzo Vecchio, ben ci fanno immaginare il numero e la gravità delle sue ferite!), con un pugno dei suoi valorosi riuscì a trovare ancora un po' di respiro nella piccola casa dei Geri, ben presto presa dalle truppe del Maramaldo.


L'eroe morente venne cos1 a trovarsi dinanzi al suo nemico, che 10 colpì col pugnale e che comandò ai suoi di finirlo, dopo il breve diaiogo che c'è stato tramandato. La cronaca del Sassetti dice, a proposito della morte dell'eroe e le parole del cronista, forse senza che egli l'abbia voluto, acquistano, nella loro semplicità, un ben solenne significato - << dicono non se li

La casa dei Geri dove il Fen·ucci, ferito, venne preso prigioniero.

essere veduto uscire di dosso gocciolo di sangue e, così cornc era, fu poscia preso e sepolto lungo il muro della Chiesa di Gavi nana. Ed era a ragione che il maggior uomo, che nella gnr-rr:i :ivrv:1 la Repubblica, avesse per sepoltura il Monte Appennino! >) . Così Francesco Ferrucci, a 41 anni di età, concluse 11obilmentc la sua giornata. Egli non può certo considerarsi un insigne:: maestro nella difficile arte del vincere le guerre ; m:i fu, senza dubbio, un nobilissimo esempio di carattere e di fedeltà al dovere. Quando gli eroi come lui si sono immedesimati del compito affidato loro ; quando essi vedono inutile ogni loro impeto, vano ogni tentativo, fallace ogni ~peranza e sono costretti a riconoscere che una


volontà sovrumana condanna ormai inesorabilmente la loro Patria, allora la morte si presenta ad essi, non come una desiderata liberazione, ma come un sacrificio necessario a concedere alla Causa che difendono, se non la vittoria, la luce di un gesto eroico. Pèr questo sentimento, per questa sua disperata ricerca della morte, la fine di Francesco Fcrrucci somiglia all'offerta consapevole di un martire. Non essendo riuscito ad assicurare col suo valore ai suoi concittadini Ja libertà sospirata, egli volle lasciare ai posteri alm eno l'efficacia del suo nobi lissimo esempio: non avendo potuto insegnare a vincere, Francesco Ferrucci insegnò a nobilmente morire!

T ornati i Medici in Firenze, il Duca Alessandro disarmò i cittadini ed armò invece le Bande del contado e di alcune città, fra le quali Pisa, accordando ai militi molti privilegi per assicurarsene la fedeltà. Cosimo II ed i suoi successori rimisero in vigore le ieggi del 15o6 e del 1514, che ordinavano la milizia dello Stato, cioè la Fanteria, in tu tto il territorio della Repubblica ; mihzia della quale non potevano for p::.:-t;: i .:.itt~.::lini di Firenze, volendo i MeJid assicurarsi Jdla tranquill ità della città e non fidandosi dei sudditi più vicini.

L 'assedio di Siena del 1555. Se il Savonarola, i Piagnoni, Francesco Ferrucci, furono gli esponenti della resistenza di Firenze, il fiorentino Jacopo Strozzi fu l'anim atore di quella di Siena. Anch'egli fu sorretto dalla consapevolezza dei doveri verso la Patri.a e dal desiderio della sua libertà e, rifugiato in Siena ancora libera, si pose a capo dei fuorusciti fiorentini e tentò invano di iiberarc Firenze. Carlo Botta nella sua « Storia d'Italia » ha definito i Senesi « gente di mente molto accorta e attenta l>. Infatti essi ben compresero la situazione dell'Italia e della Toscana in quel tempo e, convinti che cedere ai Medici. significava cedere all' Impero, cioè ai T edeschi ed agli Spagnoli, si affidarono, per aver salvezza e libertà, allo Strozzi, che invocò l'aiuto deila Francia. Siena aveva subìto le stesse vicende degli altri Comuni italiani ed aveva dornto sopportare la signorìa della famiglia Petrucci, estintasi nel 1525. Il Papa Leone X aveva pensato di costituire·in Siena un pie-


colo Stato pei suoi nipoti; ma i Senesi, « fatta donazione della città alla Vergine con solenne cerimonia in Duomo e ricevuta la benedizione come alla vigilia di Monteaperti, al comando di G iulio Colonna e di Giovanni Maria Pini, combatterono e vinsero le truppe mviate contro di loro dal Papa, éatturandone le artiglierie, i cavalli e gli ~tendardi ». Allora l'Impero, d'accordo col Pontefice, intervenne, cercando in un primo tempo (1528- 1540) di fare da pacificatore e di imporre ,t Siena governatori spagnoli; poi apertamente a favore del Pontefice, facendo costruire una fortezza sul colle di San Prospero, fortezza che, presidiata dagli Spagnoli, doveva assicurare la sottomissio ne di Siena al volere imperiale. Ma nel 1552 il popolo senese, profittando della tempornn ea assenza del governatore spagnolo, insorse cd, aiutato dai fuorusciti e dai Francesi, caçciò dalla città gli Spagnoli (28 luglio 1 552) e rase :il suolo la fortezza. L'Imperatore Carlo V fece allora cingere d':issedio la città, la cui resistenza non fu meno tenace di quella d i Firenze nel 1530. Nel 1553 sbarcarono a Livorno 1.000 Cavalieri napoletan i (mercenari), 400 lance e 2.000 Fanti spagnoli. Altri 8.000 Fanti g iunsero dal Napoletano a Cortona e Don Garzia di Toledo invase il territorio senese dalla Val di Chiana, occupando Sinalunga, investendo Pienza, invano a~sediando Montalcino, difesa da 2 .000 Fanti senesi, agli ordini di Giordano Onini e di Mario Sforza. Cosimo dei Medici s1 assunse allora ie spese per la guerra contro Siena, nella speranza che l'Imperatore gli concedesse p-0i altre terre in Toscana ed, il 26 gennaio del 1554, gli Imperiali, agli ordini del Marchese di Marignano, occuparono la zona presso porta Camo!Ha e cinsero d'assedio la città. Il Re di Francia inv.iò allora, in aiuto detla Repubblica, poche truppe al comando del Maresciallo Monluc, il quale riuscì ad entrare in Siena, per assumere la carica di governatore e trovò i St>ne,;i, :mimati da Piero Strozzi, decisi a resistere ad oltranza. La gravità del pericolo fece dimenticare ai cittadini ogni particolare discordia. Anche ie donne vollero partecipare alla guerra e 3.000 di esse, appartenenti ad ogni ceto sociale, formarono tre squadre, rispettivamente al comando d'una Forteguerri, d' una Piccolomini e di Livia :Fausti, e combatterono sugli spalti con ·tanto valore, che lo stesso Monluc scrisse : << • •• donne senesi, voi siete degne d'immortal lode quanto furono donne giammai )> .


Lo Strozzi, impetuoso ed impaziente, non potendo rassegnarsi all'assedio, volle effettuare una sortita ed, uscito il 1° agosto 1554 da Siena, si spinse verso Marciano e Camollìa, fino alle difese dell'assediante e non riuscì poi a sottrarsi al contatto col nemico ; così che il Marchese di Marignano, comandante gli assedianti, non si lasciò sfuggire l'occasione cd impose ai Senesi il combattimento. Questo, che prese il nome di Marciano, si concluse con la sconfitta di Siena, che vi perdette 4,000 uomini. Lo stesso Strozzi potè salvarsi a stento, rifugiandosi a Montalcino. L'assedio, cominciato nel gennaio del 1554, venne ripreso e l'inverno fu particolarmente penoso per gli assediati, che dovettero sopportare anche la fame ; mentre i fuorusciti toscani, animati dall'esempio dello Strozzi, rimanevano nella vana attesa dei rinforzi francesi per ritentare la battaglia. Per prolungare la resistenza, il Monluc fece uscire dalla città tutte le bocche inutili, dimise i mercenari assoldati, inviandoli a rafforzare le colonne dello Strozzi (1) e razionò i viveri; ma i soccorsi francesi non giunsero. Venne quindi deciso di tentare l'ultima pròva con tutta la _popolazione, comprese le donne, presso la porta Ovile~ fortemente baltuta dalic artiglierie nemiche; ma tutto fu inutile,, come furono inutili le. t rn tt~tive p('r ottenere aiuti da V enezia e d a F errara. Siena cadde il r7 di aprile 1555 cd, un giorno prima del termine imposto per l'evacuazione della città da parte della guarnigione francese, un lnngn stuolo di cittadini, con le loro donne, i bimbi e le cose più care (oltre 240 famiglie patrizie e 345 popolane) uscì, seguendo il Monluc, da Porta Romana, non ancora .disperando delle sorti della Repubblica. · Rimasta fedele a Siena, Montalcino tentò di continuare la lotta; ma la resistenza non potè protrarsi oltre il 31 luglio. Era fa tale che Firenze unificasse la Toscana, come Milano la Lombardia, T orino il Piemonte, Napoli l'Italia meridionale; e, per questa fatalità, la sorte di Siena non poteva essere diversa da quella di Firenze ; ma abbiamo ritenuto opportuno ricordare questa bella pagina di Storia toscana, a dimostrare di quali virtù fossero ancora capaci gli Italiani, anche mentre la nostra Patria discorde soggiaceva ( 1) l combam:nti senesi dovetteru, così lasciare ~sposti ai maggiori pericoli · Quattro cittadini ebbero l'incarico di scegliere quanti potevano considerarsi inutili alla difesa ed oltre 1000 cittadini dovettero lasciare la città e finirono col cadere in un agguato degli Spagnoli, che ne fecero strage.

le mogli ed i figli.


alle forze straniere. Nè le gesta dei cittadini di Siena, chiamati a difendere la città con la leva in massa, potevano non essere ricordate nella Storia delle nostre Fanterie che, come abbiamo cercato di dimostrare nella lunga premessa al I volume di quest'opera, è anche la Storia del popolo italiano.


lii.

LE FANTERIE NELLE MILIZIE PIEMONTESI In quest'ultima parte del volume tratteremo meno sinteticamente delle i5tituzioni militari e delle Fanterie piemontesi, per tre diversi motivi. Il primo deriva dall'importanza conferita alla Savoia ed al Piemonte dalla posizione gwgrafica; posizione che favorì, senza dubbio, · la politica interventista degli Stati Sabaudi. Il secondo è costituito dal fatto che le istituzioni militari del Piemonte furono le più durature, si andarono perfezionando ed adattando ai tempi e vennero imitate, come abbiamo già detto a proposito delle milizie farnesiane, da quasi tutti i piccoli Stati italiani. Il sorgere degli eserciti nazionali ed il loro graduale trionfo sulle milizie mercenarie diede, infatti, nel Piemonte i risultati migliori poichè, in quel piccolo Sta to, la fiamma dello spirito militare, un a volta accesa, non si spense di poi subitamente come avvenne, purtroppo, altrove. Pn i 'opera sagace e previdente dei suoi governanti che, anche durante la scrv.itù della Patria, poterono meglio raccogliere tutto ciò che nella nostra stirpe era rimasto ancora forte e sano, il Piemonte potè .usufruire, infatti, di una legislazione militare che, attraverso i secoli, gli permise di smcitare le speranze migliori dei nostri Padri e di guidare l'Italia verso l'indipendenza e l'unità nazionale. Il terzo motivo ci viene suggerito dal fatto che le tradizio~i di alcune Unità del nostro esercito ebbero inizio nella stori:.l guerriera del Piemonte, tra il 1560 ed il 1748 (1), fatto che non può non contribuire a rendere opportuno prendere in particolare esame le Fan(r) Questo vale specialmente per i più antichi nostri reggimenti dti Fanteria e per i Granatieri di Sardegna. Per esempio, i reggimenti 1° e 2 ° della brigata « Re >l portavano, anche nel nostro esercito, le cravatt.: rosse, già concesse, nel 16:24, all'antico reggimento sabaucfo de Challes, chiamato poi, per volontà di Carlo Emanuele II, Reggimento Savoia e successivamente Reggi' mento Re.


43 1 terie piemontesi, ]e cui vicende, cQnsiderate nei loro particolari, ci possono dare un'idea sufficientemente precisa e completa anche delle milizie paesane degli altri Stati italiani e ci permettono di non indugiarci nella storia dell'organizzazione militare di quelle regioni, che giacquero più a ]ungo sotto la dominazione straniera e che, comunque, come que1le de1l 'Ita1ia meridionale, non poterono partecipare attivamente agli avvenimenti europei.

Nel Ducato di Savoia (Savoia propriamente detta, Piemonte, Nizzardo e Contea di Oneglia) la geografia, la dinastia, il popolo costituivano un ambiente alquanto diverso da quelli che contribuirono a formare le istituzioni militari degli altri Stati italiani. Stretto fra gli Asburgo: padroni del Milanese, ed i Borboni affacciati al di qua delle Alpi Cozie e Graie, dopo il disgraziato tentativo di neutralità <li Carlo III il .Buono, lo Stato sabaudo fu lanciato da F.m:rnude Filiberto e dai suoi successori in una politica di intervento, profittando del fatto che, per la sua _posizione geografica, il Piemonte .,c,stituiva una minaccia sul fianco per le com unicazioni Vi~r.na Madrid; passanti per l'Alta Italia; mentre poteva meglio o pporsi anche ad un'invasione francese. All' uopo i Savoia, più che rafforzare i loro domint nell'oitr'alpe, geograficamente legato alla Francia, preferirono mirare alla valle Padana, per aprirsi la via verso q uel le maggiori fortune, che non si potevano meritare, se non combattendo . Dato l'ascendente del quale godeva sul suo popolo, la dinastia ducale potè affrontare le tempeste, che più volte ne posero in grave pericolo l'esistenza, rafforzarsi ::d aumentare i suoi domini in I tali:1, per lo spirito di sacrificio e la disciplina delle sue milizie, tratte dal popolo ed organizzate nelle salde file di un esercito, nel guale l'elemento mercenario venne a poco a poco sostituito da quello nazionaie. Per queste ragioni il Piemonte ebbe istituzioni militari che durarono nei secoli e che furono destinate - quando lo Stato, militarmente più forte e politicamente meglio organizzato, potè unificare tutta la penisola - ad iniziare le gloriose tradizioni del nostro esercito, la vita dei nostri più antichi reggimenti, il lunghissimo elenco delle battaglie che fu ne~essaxio co mbattere per le crescenti fortune della nostra Italia. Vinte o pC'rdute, tali battaglie dimostrarono nei secoli che, per ottenere la vittoria, non conta la mutevole fortuna;


43 2 ma la volontà tenace dei combattenti, il loro spirito di sacrificio, il sentimento del dovere e dell'onore militare. L 'azione militare italiana del secolo XIX, per conseguire l'unità e l'indipendenza della Patria, dovette quindi inevitabilmente conformarsi allo spirito dd vecchio esercito piemontese, destinato, come gli altri, a trasformarsi, attraverso le dure prove superate nella buona e nell'avversa fortuna, in esercito italiano, al quale vennero tramandate, come prezioso retaggio, le tradizioni di quei soldati, che furono g1à ammirati e lodati dallo stesso Bayardo.

A proposito della c~stituzione delle milizie paesane di Emanuele Filiberto; nonchè delle istituzioni militari dei suoi predecessori e <lei suoi successori, il conte Gianfrancesco Galeani N apione (r), in una sua_m~moria sulle milizie piemontesi, premette le seguenti consideraz1om . ,, Que' moderni politici che, come l'autore de Lo Spirito ddle Leggi, ed altri non pochi, asseriscono dannosa cd ingiusta la Legge che didt.i;Ha ogni suddito atto alle armi tenuto a militare in difesa dello St:1to, e doversi perciò tal ordine abrogare, furono autori nè di savio, nè di sicuro consiglio. Dicono essi che, a questo modo, presto si ridurrebbero tutti i popoli dell'Europa a vivere come Toratari; (1) Discepolo del T erraneo, il conte Francesco Ga!eani Napione rappresenta la tendenza degli storici piemontesi a guardare, oltre che al loro Piemonte, all'Italia. Egli pubblìcò dal 1818 al 1826 ben dieci volumi. Fanno parte delle sue opere, oltr~ ad alcune " Vite " cd a nu!'flerosi « Elogi ,. di illustri Italiani - fra i quali quello del Muratori - ed " molte traduzioni, séritti paròcolarmeme importanti, come quello « Dell'uso e dei pregi della lingua italiana », pubblicato per la prima volta a Torino nel 179,(, per esaltare l'italianità del Piemonte; le << Osservazioni intorno al progetto di pace tra S. M. il Re di Sardegna e le Potenze barbaresche »; il patriottico « P rogetto di una Confederazione delle diverse Potenze d'Italia », compilato dall'A. allo scopo di « far rinascere la potenza navale d'Italia nel Levante ». In tutti quest! scritti e nei m olti altri da lui pubblicati, il conte Francesco di~ostrò sempre una profonda dottrina, nonchè una piena consapevolezza, denvante anche dalla sua C'rudizione sterica, dei vincoli che avrebbero dovuto riunire un giorno in una sola na7,ione tutti gli Stari, nei quali era allora, ptu· • . troppo, divisa l'Italia. Inoltre egli scrisse il volume : « Dell'antica milizia del Piemonte e del modo di ristabilirla n, dal quale qui riportiamo parte del primo capitolo.


433 che così fatto instituto è proprio di società nascenti e semibarbare, ma che, dopo che nato è il commercio e stabilite sono le manifatture, nasce pure quasi un tacito contratto tra il Governo ed i sudditi, in vigor di cui il Governo si obbliga a difenderli e proteggerli ; i sudditi a fornirne i mezzi, pagando le imposte; aggiungono che, appunto per sottrarsi dal personale servizio e dall'esser levati per soldati, si sono i popoli sottoposti a pagar regolarme-nte le tasse; che la m ilizia ha sempre dato in Francia luogo a doglianze e richiami, come pure le coscrizioni militari stabilite in Germania (1); che insomma stabilimenti di tale natura fanno riguardare i Governi come di spotici ed arbitrari. · « Quanto però vadano lungi dal vero tutti coloro che così ragionano è troppo agevole il dimostrarlo con palpabili argomenti e colla sperienza medesima. Si ha, in primo luogo, a distinguere il d iverso fine per cui si tengono uomini in armi. Una qualità di soldati ed un determinato numero di essi può essere sufficiente in tempi q uieti e qualora si tratti unicamente di mantenere la tranquillità intern3, od, ancorchè si abbia da far guerra, le guerre siano soltanto tra Principe e Prmcipe, non di popoli contro popoli ; si combatta per la g loria, non per l'csi~tenza. Ma quandù avvampi una guerra generale:, yuauJu una nazione intera tenti d'invadere e soggiogare un'altra , restano allora necessari mezzi molto più efficaci. Mezzi straordinari richieggono per opporsi a straordinarie guerre e per una straordimri:1 difesa ; quali saranno m ai que' tesori, che possano supplire ;1d ;1rm :i menti di tale natura, se devono occorrere alla comune difesa? « L'Italia divenne barbara nè tempi di mezzo, non già pcrcliè i suoi popoli fossero tutti soldati; ma appunto perchè, caduto l':mtico Impero Romano, si trovarono gli Italiani affatto disarmati, preda perciò di tutte le nazioni barbare. Famoso è un passo di uno storico vissuto circa il mille (2), il quale asserisce che, ogni qualvolta que' feroci conculcatori dell'Italia volevano insultare col nome più odioso che sapessero un nemico, gl i dicevano Romano. cc Per ottenere una valida difesa, conviene che tutta la Nazione, non una parte sola della Nazione, sia armjgera. In questa conformità si mantiene vivo lo spirito marziale in tutti gli ordini di persone. La (1) Si allude alle difficoltà incontrate da Re Federico Guglielmo di Prussia, padre di Federico il Grande, nell 'introdurre nei suoi Stati la coscrizione militare. (2) Qui si vuol ricordare Liutprando, vescovo di C remona, ambasciatore di Ottone I a Costantinopoli ed al brano contenu to nella «Legatio ad N icephoru m». 29


434 forza necessaria trovasi pure sul luogo, distribuita per tutto lo Stato ed in ogni parte di esso; laddove, destinando una parte della Nazione, ancorchè n umerosa assai, al solo mestiere della guerra, tale sistema è infinitamente più dispendioso, corrompe i costumi, lascia indifesi i popoli nelle occasioni subitanee; e di una Nazione ne forma in certo modo due, una oppressa e vile, l'altra che opprime ... « Deggiono i Re - continua il Galeani Napione - se vogliono vivere sicuri, avere le Fanterie loro composte dì uomini che, quando è tempo di far guerra, volentieri vadano a quella, e quando viene poi la pace più volentieri se ne ritornino a casa; il che avverrà sempre, quando essi terranno uomini che sappiano vivere di altr'arte che di questa. 1 " VolPr de,. "g 1· pr;nc;p,. \'Pnu•a la par,. ·.a. '"''"'' che ; gen ..1· uom1·111· r1 tornino alla coltivazione delle loro possessioni, i Fanti alla loro particolare arte e ciascuno di essi faccia volentieri la guerra per aver pace, e non cc-rchi turbar la pace per aver guerra. Ora chi oserà affermare che dispotico chiamar si debba un tale Habilimento ? Dispotico ed arbitrario si è quello che ridonda in male, inteso ad esclusivo vantaggio di chi governa, non già cosa che, come questa , mira all'utile vero ed alla felicità, tanto del Sovrano come dei sudditi. Di fatto questo sistema venne, nel sopraccennato secolo XVI, adottaro da c-1uasi tutte le Potenze d'Italia, mentre si stabilì quel diritto pubblico che, per due secoli, formò la felicità dell'Europa, e nelrepoca appu nto che i carichi pubblici si sistemarono e divennero progressivi, non essendo la rnilìzia la sola spesa de' Principati n. 0

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Accennati, così, ai motivi che ci hanno indotto a prendere particolarmente in esame, come permette anche la più ricca documenta· zione, le istituzioni militari della Savoia e del Piemonte, passiamo senz'altro alla trattazione dell'argomento. Ed, anzitutto, per quali cause, sul finire del secolo XV, gli eser citi allora costituiti da due elementi: il feudale ed il mercenario, rÌ· ccvettero efficace impulso all'acquisto di una forza nuova e migliore, dal concorso di un terzo elemento: dall 'de mento nazionale, che agli altri due, al feudale prima ed al mercenario poi, doveva gradatamente sovrapporsi? V arie e di diversa natura furono queste cause, alcune delle quali abbiamo avuto già occasione di illustrare.


435 Fra i grandi fenomeni sociali d'ogni tempo, molti ve ne sono, pei quali sembra che, quasi per un improvviso risveglio di meravigliose energie, l'umanità compia subitamente un grande passo verso ere più progredite : fenomeni sociaii, che lo spirito della nostra incljvidualità singola e collettiva ama di attribuire quasi esclusivamente al trionfo di quei nobilissimi ideali, il cui pc-nsiero ci è caro come un ·motivo di . ben giustificato orgoglio, come una prova ancora necessaria a renderci più sicure quelle speranze negli alti destini dell'umanità, che tanta serena fede nell'avvenire ci infondono sempre. Così, quando c.onsideriamo, ad esempio, l'abolizione graduale della schia,..itù, ci riesce sponta neo n ritenerla come la più bella affermazione della migliorè bontà, predicata, con la nuova dottrina di amore e di fratellanza, dag1i apoAmedeo Ili. stoli del Cristianesimo. E tale credenza risponde cosÌ: perfettamente all 'attitudine dell'animo nostro, che stentiamo poi a p restar fede alle p rove, pure evidenti, con le quali la realtà e lo studio dell'economia politica ci dimostra, invece, che gli schiavi poterono volgere: lo sguardo ag li orizzonti lumi nosi della loro redenzione ed alla conquista della libertà, non solo perchè alle coscienze dei dominatori ripugnasse, finalmente, il considerare ancor~. ut rcs, tlt pecunia il loro simile ; ma anche perchè .l a necessità di chiedere con più validi mezzi alle terre l'alimento per una popolazione più numerosa, costringeva a rendere più produttive le fatiche degli schiavi , elevandone la condizione cd ammettendoli ad una compartecipazione adeguata, se non alla proprietà, almeno agli effetti di essa (1). (1) RtccA SALrnNo : ,, Corso di econom ia politica ».


Non altrimenti nell'impulso di imprescjndibili necessità materiali - e non soltanto nel trionfo di nobili sentimenti di amor di Patria od in un risveglio veramente efficace del sentimento nazionale - vanno ricercate le cause prime che negli eserciti, al cominciare dell'evo moderno, aprirono definitivamente la via all'elemento nazionale. La crescente potenza delle armi da fuoco, l'importanza sempre maggiore della Fanteria, la difficoltà di aumentare la forza degli eserciti, resa più grave dal ricordo di secolari pregiudizi, dalla riluttanza dei nobili a lasciare le loro armi di Cavalieri e dall'impossibilità di trasformare in buoni Fanti gli infimi vassalli ed i servi della gleba, avevano fatto sì che, accanto all'elemento feudale, sorgesse a vita sempre più rigogliosa, negli ordinamenti militari, anche l'elemento mercenario, in tutte le forme nelle quali esso partecipò all'attività bellicosa di quei tempi. . Ma il decadimento al quale erano già fatalmente condannate le milizie feudali, oramai non più rispondenti alle condizioni sociali, il danno derivante dal sottrarre troppe energie al commercio ed alle industrie già sviluppate in Italia, l'aumentato benessere e la conseguente f; '!ccht:'222 del popolo, fecero presto considrrare, nel contrasto sempre vivo delle ambizioni e ne1le guerre sempre più lunghe e frequenti, le soldatesche mercenarie come il principale mezzo di offesa e di difesa per i Signori e le Città, che di esse si servivano anche in forza d i speciali contratti, come ad esempio, quello pel quale, nel 1290, per aiutare Milano ed Asti in lega contro Guglielmo di Monferrato, Ameòeo V , « Comes Sahaudae, convenit ire ad civitatem Ast, et ibì stare per tres menses et secum ducere usque ad 400 homines ad arma in equis, ultra illorum quantitatem, quem <lieto comuni dare tenetur » ( 1 ). Molto s' era poi accresciuta l'importanza di tali milizie al principio del secolo XV, essendo divenuto, per il prolungarsi delle discordie e per le frequenti sedizioni, ormai permanente il bisogno di essere forti; cos~ che le milizie mercenarie furono chiamate a servire, anche durante i brevi e rari periodi della pace, per provvedere alla quiete interna, come per esempio a Lucca, dove era costantemente un Corpo di stìpendiarii di più di 500 uomini (2) ed a Ferrara, nei patti con la quale, nel r300, Papa Clemente V ordinava che la città (1) « Cod. Ast. » , app. 1026. (2) Bm,cr : cc Bandi», n. 102.


437 tenesse continuamente 100 Cavalieri e 6oo Fanti (< cum eorum cap1taneis » (1). Ora, per la cresciuta domanda, non poterono i condottieri non aumentare enormemente le !oro pretese, rendendo assai costoso il mantenimento di tali truppe, specialmente in Italia, dove, combattendo i Signori senza tregua e venendo a combattere sempre gli eserciti stranieri, le milizie mercenarie trovavano più facilmente occasione d'impiego; mentre, per lo sviluppo finanziario già verificatosi e per la conseguente necessità di non sottrarre energie all'attività commerciale ed alla cultura dei fertili campi, gli avventurieri sapevano di poter più facilmente- trovare i mezzi per la loro sussistenza. Così, nel 1448, Francesco Sforza si obbligava a pagare a Guglielmo di Monferrato, per 2.100 cavalli e 500 Fanti, ben 6.600 ducati al mese, per almeno « otto mesi fermi e continui , con riferma di altri otto mesi, a beneplacito di esso Sig. Conte, con questo che, di due mesi innanzi il fine della ferma, debba avvisare il Sig. Guglielmo della sua intenzione e, non avvisandolo, si intende rifermo li ; nonchè a dare, a titolo di anticipo o di (< prestanza » da scontare nella detta provvigione mensile, ben 40 ducati per ogni lancia e 5 per og11 i .Fante (2). Gli oneri imposti da tali forze divennero tali, che spesso Città e Principi dovettero prolungare gli impegni assunti . soltanto per l'impossibilità di pagare, all'atto di licenziare i mercenari, le somme loro dovute: circostanza per la qud.le, tanto crebbe l'indisciplina t l'arroganza di quei soldati, solo legati alle m ercedi, che essi si diedero presto al saccheggio, calpestando ogni diritto dei deboli abitanti, (( passando di provincia in provincia, taglieggiando l'una e l'altra terra per conto proprio, quando non potevano farlo all 'ombra degli altrui stipendi •• (_3).

Nelle angustie finanzia rie più gravi si dibattevano, infatti, quei Principi che non volevano rassegnarsi a vedere i loro domini preda di rivali più potenti e che, avendo ancora un'aspirazione da conse(1)

« Bull. ,,, IV, 2oS. (2) MURATORI: (( Script. »,

(3)

PuTILE ;

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xxm,

720.

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Sto.ria del d iritto pubblico e fonti del d iritto n, II, pag. 58.


guire, una potenza da affermare, un diritto da difendere, di tali truppe avevano in special modo bisogno. Così ben potremo citare Amedeo VI, il « Conte Verde», che, stretta lega, il 7 luglio 137.2, col Papa Gregorio XI, con l'Imperatore Carlo IV, colla Regina Giovanna, aderenti anche il Marchese di Monferrato, il Marchese Nicolò <l'Este, .il Signore di Padova ed il Comune di Firenze, contro Bernabò Visconti, venne poi in Bologna a prendere il comando in capo delle forze collegate. Fu . appunto in questa occasione, che egli, alla fine del 1373 (18 novembre) dovette chiedere al Marchese Nicolò d'Este, per pagare le truppe e per sopperire alle ingenti spese di guerra, un prestito di 476o ducati d'oro, come dimostra la promessa di restituirli, per la quale, come abbiamo già avuto occasione di ricordare, AmeA medeo VI. <.Ìeo VI impegnava, sui propri beni presenti e futuri, se stesso e gli eredi a << dare, solvere, reddere et restituire, seu' dari, solvi, reddi et restituì faccre, hinc ad tresdecim menses proxime venruros ))' promessa che però, a malgrado della sua solennità, non potè essere mantenuta da lui e forse neppure dai suoi eredi. Anzi, appena 25 giorni dopo, il 13 dicembre 1373, lo stesso Amedeo V! - :il quale per aiuti finanziari si doveva rivolgere anche il Marchese di Monferrato - allo scopo di contrarre un mutuo di 6.000 ducati d'oro da Bonaventura Consilio e da Vitale Manuello, banchieri ebrei di Ferrara, era costretto a chiedere in prestito allo stesso Nicolò V d'Este « monilia, jocalia et res » per il complessivo valore dì ottantamila ducati d'oro, come dalla promessa di restituzione rilasciata, con l'elenco delle gioie avute, a Francesco de Unzola: « Notario et familiari illustris et magnifici domini, fratris nostri carissimi domini Nicolay Marchionis Estenseis etcetera n .


439

Nè le cose apparivano mutate nel secolo XV; mentre, nel 1449, 1ella lettera del 14 febbraio, già da noi in parte riportat a, il Duca ~udovico scriveva al padre Amedeo Vlll, confessando di aver do1uto, per pagare la sua truppa, impegnare i gioielli propri e quelli k lla ~oglie, e finendo col chiedere una sovvenz ione di ben cin1uanta mila ducati (I). E, due mesi dopo, lo stesso Ludovico tornava a chiedere al paure 1ltri sussidi, mentre, nel ,< Memoriale es_ponendorum per vencrabiem dom.inum minìstrum, sanctissimo domino nostro patri », scrivern fra l'altro: t ( quod ipsae gentes armigere, quia non fi unt eis solu:iones stipendiorum, faciunt multas robarias sublitis ducalibus; cx. 1uo populi indignantur et perditur eorum devocio erga domi num ... Sed non est remedium: dicunt enim quod eis non soìvirur, qnod 110n volunt mori fame ,i (2). Ove sì voglia avere poi un'idea anche· dei danni prodotti dagli ;serciti di allora alle città cd alle terre per le quali passavano, b:ister i ricordare la lettera di protesta, mandata, nel I 525, dal Duca Carlo IU il Buono al cognato Imperatore Carlo V; lettera, nella quale si dice che: « par troys fois J'armée a pillé, cornposé et raczoné en ro utc :xtremité, et nor. point en ung seul lieu; m ais génèrakment, p·11• , ,.., , , le pays » e si afferma che le truppe imperiali producevano, per il loro mantenimento, danni da 3.000 a 4.000 scudi al giorno, per ,l complesso di un milione e mezzo di scudi, senza contare le case e le terre arse e saccheggiate, « che non si po~sono stimare 11 (3).

Era, quindi, inevitabile che, queste essendo le circostanze, e così gravi· le angustie nelle quali ormai si trovavano i Principi e t::i nti i mali che le truppe mercenarie arrecavano, e così pochi ed incerti i vantaggi che esse offrivano in compenso, si cercasse un rimedio, una nuova fonte di forza, poichè pure si doveva efficacemente provvedere alla sicurezza ed alla tranquillità degli Stati e la pace allora appariva nè come un desiderabile bene, nè come una spera nza che si Potesse effettuare. E questa nuova forza, per necessità ormai imprescindib ili , non poteva essere rappresentata che dal popolo, al quale il P rincipe dedi" Istituzioni della Monarchia Sabauda 11. Documenti e sigilli Jci Principi di Casa Savoia )l. op. cit.

( 1) Clll:R.ARIO:

(2) PttOMIS: «

(3)

PROMIS:


cava le sue cure ed amministrava la giustizia, dal popolo che tutto il gravissimo peso .risentiva delle milizie mercenarie e che ormai poteva meno difficilmente fornire buoni soldati, dal popolo che, infine, avrebbe ben partecipato, come ai vantaggi delle vittorie, così ai molteplici mali che dalle sconfitte sarebbero indubbiamente derivati. Ad armare il popolo appunto, a provvedere alla costituzione di milizie nazionali, come imponeva, ormai in modo manifesto, la poca efficacia delle truppe mercenarie e gli oneri gravissimi che, come s'è visto, tali milizie importavano, i Principi venivano indotti anche dal ricordo di esempi antichi e recenti. Vivissima era tornata allora, mentre il trionfante Rinascimento aveva fatto volgere tutte le menti al glorioso passato, la memoria dei Romani, dal ricordare gli usi e le legislazioni dei -quali_ sembrava che venisse conferita una speciale autorità ad ogni disposizione, ad ogni provvedimento di allora. , Anche per gli ordinamenti militari dei tempi della sua più fulgida gloria, Roma appariva come esempio lontano; ma ancora effi. cace., come faro luminoso, più che mai capace di attrarre gli sguardi e le menti di coloro che cercavano un ammaestramento da seguire, uc ::cP.~i;lio d:i ch!edere,_un:i dispo~izione legislativa da imitare. Ed agli esetnpi dei Romani, anche nell'istituire le milizie nazionali, s'ispirarono i Signori e le città che al loro ricordo facevano appello, nd testo stesso delle loro legislazioni, specie là dove occorresse un argomento d'indiscutibile efficacia a persuadere le menti dei dubbiosi ed a dimostrare la necessità e la legittimità delle nuove riforme. Così le leggi eterne di Roma, nel rinnovare alle sue milizie la promessa dei privilegi, allora così importanti, ricordava il Duca Carlo Emanuele I che, nell'Ordine del 1° settembre 1682, Ordine il quale dichiara : « de' quali privilegi dovrà godere la militia n, scriveva: « Ci è parso, colla presente, di dichiarare come dichiariamo che li soldati di nostra militia debbano godere di tutti li privilegi, che dalle Leggi civili da Imperatori Romani sono stati concessi alli soldati di quel tempo » ( 1). Nè di milizie paesane mancavano esempi non lontani, anche nell'Italia nostra, dove, come abbiamo visto, si erano già costituite le (1) BORELLI: " Editti antichi e nuovi di Casa Savoia )), Ordine in forza di legge perpetua, concernente i Decreti e Stabilimenti per la Milizia paesana di Carlo Emanuele l, in data dal 15 giugno 1594.


44 1 milizie comunali : istituzione che, al tempo della Lega Lombarda contro il Barbarossa, s'era allargata e perfezionata, costituita dalle Società e C-ompagnie delle città e del loro contado, divise per capitani ed insegne in ogni quartiere della città, o per Parrocchie come a Pisa, per porte o contrade come a Siena, o per le bandiere ed i gonfaloni nei quali si dividevano le milizie di ogni quartiere. di Firenze; milizie cittadine, che avevano dovuto però decadere lentamente e fatalmente col decadere delle libertà comunali ( r). Ma, se necessarie apparivano, ormai, per gli altri Stati, ind ispensabili erano tali riforme pe.r la Savoia ed il Piemonte; Stati picrnli, ma importantissimi, che delle guerre avevano subìto tutti i mali, che alle guerre, più o meno giuste e gloriose, avevano visto dedicarsi quasi sempre i loro Principi. Ma, anche per la Savoia e pd Piemonte, ad indurre efficacemente i cittadini alle armi, doveva essere purtroppo necess~rio che la dura esperienza si prolungasse, affermandosi negli effetti pe~giori della servitù; occorreva un Principe che avesse soprattutto volontà costante e forza bastevole per superare tutte le difficoltà , he a lu i si opponevano, per distruggere subitamente tutte le tracce del p;1 ss:110 ,,vn onorevole, per porre .rimedio a tutti i mali, inaug uramiu vna · mente una nuova era, togliendo i sudditi alla soggezione straniera, all'ozio, alla miseria e chiamandoli non invano al lavoro) alle industrie, alle armi per la difesa della Patria. E fu questi Em anuele F iì iberto, ben a ragione ricordato come il secondo fondatore ed :rnzi come il vero fondatore morale della Monarchia sabauda. Ma, prima di esaminare tutta l'importanza dei provvedime nti, con i quali egli - scriveva poi il figlio Carlo Emanuele I - (< m irando al bene ed alla tranquillità dei suoi Stati, con l'occhio dell'antivedcn7.a, aveva fino dal principio cretto et introdotto una militia paesana •> , sarà bene esaminare, in rapida sintesi, per quanto riguarda gli ordinamenti militari, I'opera legislativa dei suoi predecessori.

( 1) CANESTRINI :

op. cit.


IV.

GLI ORDINAMENTI MILITARI PIEMONTESI NEI SECOLI PRECEDENTI Reputiamo opportuno ricordare il Conte Amedeo III , il q uale, nel partecipare, insieme al Re di Fra~cia Luigi VII,. alia stconda Crociata, rnndusse m Trrra Santa un notevole contingente di Cavalieri e di Fanti Savoiardi e Piemontesi, che si distinsero all' attacco di Damasco. Dovremmo anche accennar~ agli Statuti di Pietro Il, detto dai contemporanei « il piccolo C arlo Magno i,, pubblicati, per volontà e consenso dei nobili e non nobili della Contea di Savoia e di Borgogna « de voluntate et consensu nobilium, innobilium Comitatus Sabaud:ie et Burguudi.tc » ( , ) , c.J •• ,1uei pn.:lvveJirnèn.ti .::he o:.gli, che tant:i fama s'era già acquistata in Inghilterra, volle prendere per quanto si rifer iva alle mil izie, ricordandolo come fortificatore dei suoi Stati, nei yuaii collocò, nei centri delle varie provincie, tanti Balii con giuris-dizione civile e militare (2), e come uno dei Principi che sostituirono trnppc mercenarie - · per lo più inglesi - al Banno od Eribanno che già componeva 1.t forza degli St:iti feudali (3). Ricorderemo lo « Statuto generale contro i ladroni di strada )), dato ad Ivrea il LC) ottobre 1318 da Amedeo V , che s'.er:i personalmente tro vato a trentaci nque assed ii (4) e che da Enrico VII era stato nominato Principe con Decreto em anato in Asti, nella casa di Tomaino Rotario, cÌovc l'Imperatore alloggiava, il 24 novembre 1310 (5); il Coòice òi Odoardo il Liberale, alle cui leggi sernlJra che si sia poi (1) OscAR Pio: « Storia della Monarchia dì Savoia », I, pag. 154. (2) OsCAR Pio, op. cit., l, pag. 153. (3) GALLENGA: « Storia del Piemonte dai primi tempi alla pace di Parigi del 30 marzo 1856 ,,, voi. I, pag . 249. (4) Ciò secondo una cronaca del suo t<::mpo. V. CrnRARIO: « Istituzioni della Monarchia Sabauda )>. (5) DoENNIGES: « Acta H enrici VII , imperatoris Romanorum et monumenta q uaedam alia Medii · Aeyi ,,. Berlino, 1839. parte I.


443

ispirato Amedeo VI, del quale vanno ben ricordati i provvedimenti legislativi per « l'abbreviazione delle liti ,1, l'ordine dei giudizi, la ~icurezza degli atti tabellionati, gli accordi in materia criminale e la creazione dell'ufficio pietoso dell'avvocato dei poveri (1379); nonchè l'attuazione di un Congresso monetario, tenutosi nel 1370 per eliminare il corso abusivo delle monete d'oro e d'argento. Amedeo VI partecipò, nel 1366, con circa 2 .00 0 F anti e molti Cavalieri, alla Crociata bandita da Papa Urbano V per cacciare i Turchi dalJa Tracia, si distinse per il personale valore alla presa di Gallipoli, a Mesembria ed a Varna, e riusd ad entrare in Costantinopoli, dopo avere liberato Giovanni II Paleologo. Ebbe poi l'onore di risolvere, in qualità di arbitro, le co ntese fra Venezia e Genova per il predominio in Oriente. Di questo Conte, che abbiamo già ricordato a proposito dei gravissimi oneri imposti dalle milizie mercenarie ed al quale si deve l'istituzione della carica di Maresciallo di Savoia - carica che fu poi resa stabile ed a vita da Amedeo VITI ed abolita da Emanuele.: Filiberto - ci sembra opportuno qui riportare, come riferentesi agli ordinamenti militari di quei tempi, un estratto dei privilegi eh l11 i concessi ai horghesi ed agli abitanti di Avigliana, il ro fcbbr:i io r-;3.;, ri nnovando consuetudini antiche; estratto già pubblicato dallo Sclo pi s 11ell'appendice al volume sulla « Storia della legislazione itali:1n;1 » . D a tale estratto si rileva che « ad honorem domini et ipsorum l,urgesium, homines villarum circumstantium castellatae et m;indarnenti castri A ...·elliauiae consueverunt i.n cavalcatis et exercitibus venire sub_vexillo Avellianiae et cum eo se tenere usqu'e ad obtenutam licentiam recedendi » (1). Ad Amedeo VI succedette, nel 1383, Amedeo VII, detto il Conte Rosso, che fu principe di grande valore personale, provato anc he in Fiandra ed in Francia, e che potè annettere, nel r388, ai suoi Stati Nizza e Ventimiglia, estendendo così i suoi domini'. fino al mare.

N atura prevalentemente accentratrice e tutto inteso :id affermare sulla nobiltà-il potere del Principe, tutte queste leggi cercò di raccogliere e di ordinare Amedeo VIII, primo Duca di Savoia, nei cinque libri degli « Statuta Sabaudae che, già a capo dei suoi Stati da ben >)

(1) Archivio del Comune d'Avigliana.


444 37 anni, egli pubblicò a Chambery il 17 giugno 1430, davanti ad una grande assemblea di grandi e di popolo, radunata nel castello (1). Nè la legislazione di Amedeo VIII - ricordato da Enea Silvio Piccolomini come un altro Salomone (.2) e che, durante il suo pontificato, un così importante monumento doveva poi lasciare negli otto volumi del suo « Bollario » - ebbe solo lo scopo di fornire ai sudditi - dice lo Sclopis - il beneficio dell'uso incontaminato della giustizia, poichè, pur manifestando tendenze pacifiche e scrivendo appunto nei suoi <· Statuta >> di volere che i suoi eredi si volgessero a << procurare la pace ed avessero in odio le guerre ingiuste », egli conferì anche una certa stabilità agli ordinamenti militari del suo Stato. Così, nel 1430, rese stabile ed a vita la carica di Maresciallo di Savoia, già fondata da Amedeo VI, carica che, come si vede nel Decreto del 17 giugno 1430 (3), egli volk affidata « viris generosis in arrnis et artibus bellicosis, exercitatis militiae, decoratis, et ad exercitus militare conducendum et gubt"rnandum idoneis'» poichè a tale altissimo ufficio riteneva « pertinere auctoritatem, curaro, regimen et sollecitudinem tempore guerrae conducendi et ordinandi ». Desiderò che i soldati fossero <, strenuos, audaces et feroccs contra hostes, sic mire5 ac inuocuos c:rga subditos et patriae incolas ,; (4) e volk accrescere le fortezze dei suoi Stati, con quella cura che si può ben rjlevare anche daila lettera patente del 5 febbraio 1431, con la quale egli affidò ad Antonino del Pozzo la visita delle fortificazioni del (1) Cfr. G .\LJ. ENGA: (( Storia dd Piemonte ne ScLOP1s : "Storia della legislazione italiana ». (2) P1ccOLOMINI : « Aepistola ad Petrurn ~oxetanum ». (3) (I Decreta seu Statuta Ducis Amedei VIII. De qualitate, officio et juramcmo Marescalorum ». (4) << Decreta seu Statut:. )> già cit., cap. 215: << Quia militares debent esse contenti stipendiis sibi datis, hoc edicto prohibcmus omnibus 'et singulis, marescalis, capitaneis, militibus et armigeris, equitibus et pcditibus, ac sagittariis nobis in armis et guerris servientibus praescntibus et futuris, ne transeundo per loca patriae nostrae aut munitiones castrorum, villarum, aut passuum tenendo, sint onerosi, aut damno si quibuscumque subditis nostris mediatis et immediatis, aut ecclesiasticis viris seu eorum hominibus, et subditis, nec ab eis victualia, vel quaecumque alia bona auferre seu extorquere aut recipere prae~u~anr, ne.si quod eis voluenrint sponte et liberaliter dare, sub pocna ìndignauoms nostrae, et una cum resùtutione ablatorum seu extortorum damna passis facienda. Quoniam ~icut volumus ipsos m ilitares nostros esse strenuos, audaces, et feroces contra hostes, sic eis iubemus ergo subditos nostros, et patriae nostrae incolas, esse mites et innocuos l>.


445

l'iemonte e dei Paesi limitrofi (1) « Intdleximus displicentes quod multa esse loca et castra in patria ista Pedemontium fortificacionum :t fortaliciorum reparacionibus vehementer exigencia. Sane igitur 11ostrorum affectantes futuris obviare subditorum periculis, deliberavimus super praemissis fortifìcacionibus providere ne earum deffectus quidquam sinistri, quod absit, in dies contingere valeat » e, fidando

Cavalieri e picchieri piemontesi ,;otto le mw·a di Damasco.

nella sua sagacia, diligenza e tedeltà », gli diede mandato di riparare tutte le fortificazioni esistenti in Piemonte e nei luoghi circostanti, attribuendogli all'uopo pieni poteri presso i suoi vassalli e castellani, perchè potesse verificare quali provvedimenti fossero necessari « pro ipsorum locorurn castrorum subdictorumque nostrorum securitate et tutela "· Chiese al Parlamento, nel 1433, « di tenere et soldearc 200 equìtes espertos in armis ad defcntìonem et custodiarn patriac ll , ed isti<<

( r) DusmN, op. cit.


tuì in Savoia, sopra basi esclusivamente feudali, una milizia regolare, distribuita in guarnigioni stabili ed equipaggiata come le Fanterie svizzere, divisa in Bande etablies . al comando di capitani; lasciando, invece, che nel Piemonte prevalesse l'elemento mercenario, pagato spesso dalle città, in cambio del privilegio dell'esenzione dei cittadini da ogni servizio militare, come, ad esempio, Chieri, che si obbligava a mantenere cento lance : ogni lancia composta d'un uomo d 'arme e di almeno due scudieri a cavallo, trentadue Fanti e cinquanta balestrieri. L'uso di fornire denari in cambio del privilegio dell'esenzione di ogni servizio militare era, del resto, come abbiamo già avuto occasione di dire, assai diffuso nelle città d 'Italia, dove sembrava che i Signori cercassero di distrarre a bella posta dalle armi e dalle fatiche guerresche i cittadini, per averli P!Ù facilmente soggetti, come ebbe a verificarsi con Giovanni e Luchino Visconti, a Milano, dove, nel I330, tutti i cittadini furono dichiarati esenti dal servizio militare (1). Ma, per quanto (come si rileva dal nome, già antichissimo nelle milizie feudali, dato a tali truppe, dette anche Etablies, dalla parola italiana « stabile ,>, che indicava infatti il loro servizio) (2), questi presidii dovessero già esistere in Savoia, spesso composti, anzi, dei cittadini che, potendo servire nei luoghi stessi dove risiedevano e provvedere ugualmente_ ai loro interessi particolari, si arruolavano volentieri, attratti anche dalla paga loro assegnata (3); pure le bande, riorJinate da Amedeo VIII e poi disciplinate da Emanuele F iliberto e da Carlo Emanuele I, segnarono, in ogni modo, per la loro stahi lità, un certo progresso, del quale non possiamo non ·tener conto. Scrisse, infatti, Alessandro Saluces, nella sua ,<Storia militare del Piemonte ))' che : « quelque faible que fut par lui m~me l'avantagc de la formation des établies, il ne laissa pas d 'etre très utile cri ce qu'il donna au prince des moyens propres, dont il pouvait user à son gre, et qu'il avait toujours sous la main: jointes aux troupes étra~gères, les bandes de gamison servirent à faire respecter l'autorité royale ». Nè i provvedimenti militari di Amedeo VIII dovettero essere di poca importanza se, durante il suo regno, la Bandiera o -Squadra di Savoia numerava ben 1500 uomini d'arme a cavallo, tutti nobili, se(1) Così ì Fiorentini nel x351. V. CANESTRINI, op. cit. (2) Così il SALUCES: « Histoire militaire du Piemon.t )), I, chap. V, 149. (3) SALUcEs, op. cit. Nel 1339 tale paga era di 4 gcnovini d'oro per mese.


447 guiti da 7.000 Fanti, per lo più arcieri e balestrieri (1), e se, secondo lo storico C'.osta de Beauregard (2), il Duca poteva, nelle più gravi contingenze, disporre di 20.000 uomini. Gli statistici italiani, come il Sanuto, sostengono che, dopo Amedeo VIII, nel 1454, il Duca di Savoia tenesse a stipendio ben 8.000 uomini d 'arme: cioè 24.000 soldati e che, per la forza milita re, il Ducato teneva il quarto posto fra gli Stati d'Italia, m eno for te solo di Napoli, di Milano e di Venezia; poichè disponeva di una forza militare, che rappresentava già la te rza parte delle milizie di Francia e d'Inghilterra (3). Ma, anche con Amedeo VIII, come coi suoi successori - coi quali, per le discordie continue, le frequenti reggenze, l'intervento non sempre opportuno delle donne, la Monarchia perdette nuovamente prestigio - nulla ancora ci permette di salutare il sorgere di vcrr e proprie milizie nazionali; mentre, anche sotto lo stesso Amedeo V III , l'elemento feudale conservava parte della sua importanza almeno nella Savoia e l'elemento mercenario costituiva ancora quasi esclu sivamente 1a difesa del Piemonte.

Dovremo ancora ricordare il Duca Ludovico, lasciato al governo dal padre AmC"deo VIII nel 1434 e del quale abbiamo gi1 ri,xnd.~10 le richieste di aiuti finanziéìri per l' esercito ; Amedeo IX 1! Beato, drl quale ci sembra opportuno ricordare l'Atto, col quale, il giorno 8 ottobre 1446, egli confer mava e rinnovava ai nobili, comunità e p::irticolari del Piemonte, i patti, le franchigie, i privilegi di prima e del quale ci sembra degna di nota la lettera con cui , il 19 febbraio 1468, solennemente ratificava la convenzione fatta d::llla Duchessa lolante col suo << capitaneus mari Cristophorum Iouffredi~ per un::i galeazza, sub vocabuk Sancta Maria de Auxilio, de p roximo costruenda reipublicae utilitatem ,, (4). Seguì poi Filiberto, durante il cui ducato, nel 1472, s'introdusse la stampa in Piemonte con una tipografia a Mondovì; Carlo il G uer(r) SALUCES, op. cit . (2) CosTA DE Buuu:GARI>: " Mai son dc Savojc 11. (3) SANUTO: 1c Duchi di Venezia ,,. GALLENGA, cp. cit. (4) DuBOIN, op. cit., lib. XIV. La Sancta Maria de Auri/io, costruita nel 1468, dovette essere la prima nave della M arina militare sabauda, allo sviluppo della quale provvidero Poi Emanuele Filiberto ed i suoi successori.


riero, energico e crudele - come si dimostrò contro le rivolte suscitate da Claudio di Racconigi e nel sottomettere il Marchesato di Saluzzo -· il quale, nel 1485, assunse il titolo di Re di Cipro, Gerusalemme ed Armenia, per atto di donazione della Regina Carlotta; Carlo II e per lui la madre Bianca di .Monferrato; Filippo Senza Terra, che tentò di rimettere in vigore le buone leggi, ma invano; Filiberto II, del quale rimase una lettera « portante conferma ed approvazione dello stipendio, privilegi, esenzioni accordate al governatore ddle fortificazioni di Torino » (1) e che morì a soli 24 anni d'età; e, finalmente, il debole Carlo III, che, su 49 anni di governo, vide per 41 i suoi Stati continuamente devastati dalle guerre e dagli eserciti; che emanò leggi contro ì Luterani, concedendo che << ove occorresse per la difesa della fede adunare armati, i Signori della Chiesa, i nobili e gli altri dovessero provvedervi senza risparmiare le loro persone ed i loro beni ,, ( 2). Egli fece tradurre dal latino in francese gli « Statuta » di Amedeo VIII perchè patessero essere « mieux entendus, incorporés, et observés et du prince et des subiectis » (3) e finl col vedere i suoi Stati, per cosl lungo tempo afflitti da tante guerre e da tanti mali, « quadro di desolante miseria, campo di battaglia di Francesi e Spagnoli, devastati dagli incendi e dai saccheggi delle soldatesche straniere ))' cadere infine in mano dei Francesi. Egli cessò di vivere quasi privo di un palmo di terreno in cui morire Sovrano (4) e non ]asciando all'unico figliuolo superstite che Nizza, Cuneo e Vercelli (5). <( L'edificio, innalzato dai Conti di Savoia e quasi compiuto sotto Amedeo VIII in. terre subalpine, si era sfasciato sotto i duchi suoi successori e venne quasi del tutto demolito sotto Carlo III. Ove Emanuele Filiberto fosse stato sconfitto a San Quintino, avrebbe potuto ben gridarsi finis Sabaudiae (6). Ma il Principe vinse, riguadagnò i suoi Stati, e la Savoia ed il Piemonte poterono riprendere la loro vita, destinata ad avere tanta importanza nella Storia d'Italia.

op. cit., lib. XIV, pag. 230. (2) A. B.: « La Casa di Savoia», Torino, 1853. (3) A. B., op. cit. (4) V AYllA: « 11 museo storico della Casa di Savoia », Torino, 1890. (5) SEZANNE : " La Casa di Savoia >Y, Firenze, 1859. (6) GALLENGA, op. cit., II, 110.

(1) DusOIN,


V.

LE RIFORME MILITARI DI EMANUELE FILIBERTO

Niccolò Machiavelli, nel concludere la sua opera sull'arte della guerra, aveva fatto dire a Fabrizio Colonna: « lo affermo che, qualunque di quelli che tengono oggi Stato in Italia, prima entrerà per questa via - cioè avrà creato un esercito nazionale - sarà, prima di alcuno altro, Signore di questa Provincia e interverrà allo Stato suo come al Regno dei Macedoni, il quale diventò, con questi ordini e con questi esercizi, mentre che l'altra Grecia stava in ozio e attendeva a recitare commedie, tanto potente, che potette in pochi anni tutta occuparla, e al figliolo lasciare tale fondamento, che potette farsi Prin cipe di tutto il mondo >> . Ebbene questa sicura profezia si verificò, almeno in parte, come vedremo, con Emanuele Filiberto di Savoia, il quale, creando nd r56o, appena tornato in possesso degli Stati Sabaudi, la sua miliz ia paesana, vi impresse un carattere speciale, che divenne col tempo il distintivo del suo popolo. Di questo popolo - che egli, precorrendo di due secoli ciò che in Francia compì solo la rivoluzione, aveva nobilitato, rendendolo libero, - egli creò una nazione armata. « In nessun altro modo migliore - scrisse il Vayra ( r) - nè più tenacemente poteva essere cementata la fede e la solidarietà tra il popolo ed il Principe, che in quella comunanza di vita nelle guerresche fatiche. Il popolo si avvezzò a non considerarsi estraneo alle sorti dello Stato e da quel punto le inclinazioni militari ebbero grancle prevalenza hei costumi del Piemonte ,,. · Abbiamo voluto premettere alla trattazione dell'importante argomento delle milizie sabaude le « osservazioni generali intorno al sistema delle milizie» del Conte Gian Francesco Galiani Napione, per meglio precisare l'ambiente nel quale Emanuele Filiberto di Savoia istituì, anche in Piemonte, una milizia paesana, ispirandosi alle idee

30

(1) Cfr.

VAYRA:

((

Jl musco storico di Casa Savoia ».


del Machiavelli cd a quanto aveva già fatto al riguardo la Repubblica fiorentina. Nei precedenti capitoli abbiamo già ricordato come l'elemento mercenario avesse sostituito in Italia ]e antiche milizie comunali e come tale elemento, ritenuto costosissimo, costringesse le Repubbliche ed i Principi a sopporta.re gravissimi oneri finanziari. Quando Emanuele Filiberto tornò in possesso dei suoi Stati, dopo la vittoria di S. Q uintino, il Piemonte era esausto e non avrebbe potuto certo fornire ai Duca ì mezzi per assoldare truppe mercenarie; mentre i pericoli più gravi minacciavano ancora la sicurezza dello Stato ed era quind i indispensabile disporre delle forze militari necessarie alla sua difesa (1). Per conseguenza, fra i g ravi p roblemi che il Duca doveva risolvere appena tornato in Piemonte, c'era anche quello della costituzione dell'esercito, per il quale era inevitabile che si cercasse una forza colla quale provvedere efficacemente, e con minore dispendio, alla sicurezza dello Stato. Vedremo il modo nel quale Emanuele Filiberto, che Torquato Tasso considerò « come 11 più valoroso e glorioso Principe d'Italia i>, risolvesse, per il bene dei suoi Stati , tutti i problemi impostigli dal destino. Ricuperando, infatti, i dominii aviti - scrisse Costanzo Rinaudo (2)- egli fece italiana la sua Casa, scelse a sede Torino, vi stanziò (1) Emanuele Filiberto, secondogenito del Duca Carlo III, nacque a Chambery nd luglio del 1528. Di costituzione gracile e di malferma salute e perciò ritenuto non adatto alla vita militare, era stato destinato al sacerdozio, quando, morto improvvisamente, nel 1535, il fratello suo primogenito e divenuto egli erede del Ducato, si reputò necessario mutare l'indirizzo della sua educazione e procurare di fornirgli quella robustezza del corPo, che la natura non gli aveva elargito. Da allora. molte ed assidue cure furono poste nell'addestrare il fanciullo nel nuoto, nella corsa e nel cavalcare : esercizi fisici, che E manuele Filiberto continuò a coltivare poi durante tutta la sua vita. All'età di sette anni, il padre lo affidò alle cure di Aimone da Ginevra, barone di Lullin, uomo di grande senno e di ,·asta cultura, che gli insegnò Lettere, Filosofia, Diritto e Storia, stimolandone l'animo alle più degne imprese. Ancora adolescente, a soli r3 anni, Emanuele Filiberto chiese all'Imperatore Carlo V - allora di passaggio in Genova - di Poter partecipare alla guerra contro i Mori nell'Africa settentrionale. Gli fu negato pc:r la sua giovane età; ma ebbe promessa di essere accontentato non appena possibile. F u cos~ che egli intensificò la sua preparazione fisica e culturale per la vita militare che l'attendeva. (2) R1 NAUD0: " Lenure del Risorbrimento )).


45 1 la Corte ed il Governo, la fortificò, avviandola a grande città. Cfoamò poi gli uomini di scienze e di lettere· da varie provincie d'Italia, in qudla terra sua, che fu creduta gran tempo Beozia ed era piuttosto Macedonia d'Italia, e prescrisse che la lingua legale fosse l'italiana. Riordinò infine l'esercito con impronta cittadina, rialzando la dignità del popolo e preparandone la coscienza naz ionale ». Appunto per l'esercito, - dati i difetti ed il costo delle milizie mercenarie -, la nuova forza necessaria non poteva esserè rappresentata se non dal popolo, al quale il Principe dedicava le sue cure cd amministrava la giustizia; dal popolo, che anch'esso soffriva dei gravi danni arrecati dagli stranieri e che ormai poteva meno difficilmente offrire buoni soldati; dal popolo che, infine, avrebbe parte!cipato, come ai vantaggi delle vittorie, così ai molteplici mali che dalle sconfitte sarebbero indubbiamente derivati. Ad armare il popolo appunto, a provvedere alla costitu zione d1 milizie nazionali - come imponevano, ormai in moJo m:i ni (e~to, l'incerta efficienza delle truppe mercenarie e gli oneri gravissimi che, come s'è visto, tali milizie importavano - i Principi venivano indotti, del resto, anche dal ricordo di esempi antichi e recenti . Nel rinnovato culto per il mondo classico, Roma, la gloriosa caput m undi. app~r:•:;i, anche in fatto di ordinamenti militari, come un lontano, ma al\cora efficace esempio, al quale potevano bene ispirarsi e s'ispiravano, come abbiamo visto, i Signori e le città, che le leggi dell'antica Madre ricordavano nel testo stesso delle loro disposizioni. Se il fare nuovamente appello al popolo per la difesa dello Stato appariva necessario dovunque, era poi indispensabile per la Savoia ed il Piemonte, sempre minacciati dalle Nazioni vicine e governati da Principi guerrieri e nei quali, per indurre quei popoli alle armi, non era mancata la dura esperienza e l'umiliazione della servitù, come era avvenuto con Carlo III. Per conseguenza, Emanuele Filiberto doveva avere volontà costante e forza bastevole per superare tutte le difficoltà, per distruggere subitamente tutte le tracce del passato no n onorevole, per porre rimedio a tutti i mali, inaugurando veramente una nuova èra, sottraendo i sudditi alla soggezione straniera, all'oz10, alla miseria e chiamandoli non invano al lavoro, alle industrie, alk armi per la difesa della Patria. Su Emanuele Filiberto e la sua benemerita opera innumerevoli sono le pubblicazioni e molto si è scritto anche nel 1928, in occasione del centenario della sua nascita, quando la sua figura venne rievocata., in tutti i suoi aspetti, da storici eminenti .


45 2 Noi, perseguendo il particolare scopo di quest'opera~ ci limiteremo ad esaminare i1 modo nel quale egli risolse il problema militare.

Morto Carlo lll nel !553, investito Emanuele Filiberto, nel 1554, da Carlo V, presso la cui Corte era cresciuto (r), del diritto alla successione negli Stati Sabaudi ed, ottenuto finalmente, dopo la vittoria di S. Quintino, per il trattato di Castel Cambrese, il possesso di quei paesi e terre che già Carlo HI aveva tenuto di là e di qua dei monti, il giovane Duca, che nelle molteplici avversità della sua vita aveva potuto temprare l'animo e conseguire una preziosa esperienza, non pateva certo esitare, una volta tornato in Piemonte, a dedicarsi tenacemente alla diffo:ilissiina opera di ricostruzione che appariva indispensabile. I ricordi dell'infelicità del padre, la .conoscenza profonda di tutti i difetti delle milizie del suo tempo, le tracce della servitù patita dalle sue terre e le difficoltà superate per riottenerle libere, facevano comprendere a lui, che tutto doveva a se stesso ed alle sue vittone, la (1) Egli 11011 avcv.a ancora dicias.,;ette anni quando partl (27 maggio 1545) J a Vercelli per raggiungere Carlo V a Worms, accompagnato, fra gli altri, anche da! Pro , ana e dal Lullin, datigli come consiglieri dal padre. Appena ricevuto <la Carlo V, gli presentò un memoriale sulle necessità del Piemonte ed, in tutto il tempo passato presso l'Imperatore, non tralasciò di ricordare allo zio le dolorose condizioni degli Stati Sabaudi. Riesce interessante leggere, in proposito, la corrispondenza tenuta da Emanuele Filiberto col padre. All'inizio della guerra contro la Lega di Smalkalda, Carlo V prevenne il Duca Carlo III Jei pericoli nei quali sarebbe incorso il figlio, se fosse rimasto al suo seguito; ma Ema nuele Filiberto pregò il padre di lasciarlo partecipare alla guerra, nella q uale egli dimostrò qualità militari non comuni. . Nominato, il 18 agosto 1546, Capitano dello squadrone della guardia impenale e di tutta ia Cavaileria di Fiandra e di Borgogna, ebbe il battesimo del fuoco a Ingolstadt. Dopo aver. resistito alle lusinghe del Re di Francia, - - che lo invitò inutilmente ad abbandonare Carlo_ V - cd avere partecipato, nel 1547, al~a battaglia di Muhlberg, volli: serbarsi fedele allo zio e seguirlo ~elle successive ca~pagne. All'assedio di Metz si distinse tanto che, nel 1553, l lmperato~e ~o des1'?nò, non ancora venticinquenne, « Capo e Capitano generale c~n. p1~m poter~ sulla_cond~tta della cavalleria e fanteria e sull'artiglieria : muruz1001 ». Nominato, in ultimo, Governatore dei Paesi Bassi, ebbe nel 1557 11 comando dell'esercito imperiale ed inflisse ai Francesi la decisiva sconfitta ,di S, Quintino.


Emanude Filiberta.



455 necessità di esser forte ed anche l'impossibilità di esserlo, ~e non armando il suo popolo. Da questo popolo, che egli, come abbiamo già visto, doveva rendere libero coll'abolizione delle ultime tracce di servaggio personale, egli creò, infatti, una nazione armata, facendo di ogni cittadino un soldato in difesa della Patria. Avvenne quindi che il nuovo Duca Emanuele Filiberto, come riuscì a richiamare i suoi sudditi ad una operosa attività, seppe pure provvedere perchè tutte le sue riforme, volte a tale scopo, si potessero compiere nella tranquillità necessaria, protette dalla forza stessa del popolo, il quale non poteva non accorgersi - e lo no ta un co ntemporaneo ambasciatore veneziano, il Boldù - come « si facesse per il bene di esso l'. A rendere appunto sicura la pace - indispensabile ai suo i ~udditi e della quale aveva anche egli bisogno per lo svolgimento dì quel mirabile programma, al quale dedicò tutta la ferrea costanza del suo ca rattere - egli mirò, subito, con quello stesso Editto col quale provvide alla indispensabile riforma militare; Editto da lui em::inato il 28 r!icembre r56o in Vercelli, proprìo dove il padre era rimasto neg hit~oso ed incerto eè era morto inonorato. Tale Editt~ deve ritenersi come fondamentale nell.a legislazione di Emanuele Filiberto e riteniamo opportuno trascriverlo q uasi per intero, togliendo]o dal1a rarissima raccolta del Duboin ( 1) : <(

Emmanuel Philibert

'{ Per la grace de DieuJ Due de Savoie, Prince de Picmont ccc ... cc Comme, depuis qu' il a plu à Dieu envoyer entre les princcs chretiens sa sainte paìx, tout notre desir est de conserver, :naìntcnir, garder nos Etats en tranquillité, tenir nos sujets en vraye union et concordie, les garder en securité; et à ces fins nous ayons pourvu sur le faict de la Justice et administraction d'icelle, sans laquclle !es pcuples ne peuvent etre tenus en bonne union et concordie; rcstait seulement dc pourvoir aux: cho~es militaires, pour la tuition et dcffence de nos dits sujets et conservation de nos Etats. « A quoy voulant donner ordre aux moindres frais et meillet•re commodité que fa ire se pourroit, ayons avi~, avec meure dcliberation de notre Conseil d'Etat, établir gens dc guerre qui soic:nt de nos (1) DvsoIN: << Ra,colta delle irggi <cc. - Edit de S. A. portant ditlèrcnts privileges et imrnunités cn faycur des gens de guerre " , Torino, 1818.


propres sujets, estimant qu'il nous seroient plus fìdeles et moins facheux à nos autres sujets, outre ce que ils ne serviront comme mercenaires, mais comme en leur cas propre, pour la deffence et conservation de leur prince nature! et de leur propre patrie. A cettc cause avons crée et deputé certain nombre de chefs de guerce, colonels, capitaincs et autres officiers necessaires pour la conduite et gouvernemcnt d'une armée et pour faire levée de ceux de nosdits sujets, qu'ils vcrront ètre plus p.ropres et aptes aux armes, chacun en la province que nous avons departie et ès lieux èsquels ils devront faire l'életion et description dcs personnes plus habiles à l'art militaire, qui toute fois ne seront d'àge moindre de dix'huit ans, ny excedant cìnquante (r); les quds seront tenus s'armer et mettre en l'ordre et équipage qui leur sera dcclaré par leurs superieurs. Savoir faisons que, nous voulant que ceux qui suivront les armécs soient en quelques endroits plus privilcgiés que les autres, afin qu'émeus de zele et d'honneur, ils aspirent plus volentiers à si honorable exercice, avons aux dits gens de guerre donné et octroyons les privileges, franchises et libertés, qui s'ensuivent ci après ». E seguono, infatti, i privilegi che si accordavano ai componenti le nuove milizie ; privilegi pci quali il Duca raccomanda ed ordina ai Consiglieri del Senato e della Camera dei Conti di Savoia ed agli altri suoi giudici, ufficiali ed ai loro luogotenenti, perchè: « Chacun d'eux, si comme a luy appartiendra, les privileges et exemptions ils gardent, entretiennent et observent, fassent garder, entrenier et observer, sclon forme et teneur, sans les enfreintendre, car tel est nòtre plaisir » .-

Esaminiamo brevemente questo importante Editto, scritto ancora in lingua francese ; mentre, per volontà dello stesso Duca, la lingua italiana doveva ben presto venir dichiarata lingua ufficiale negli Stati Sabaudi. E notiamo, prima d'ogni cosa, la prontezza del provvedimento, prontezza non minore dì quella usata per la· difesa marittima: poichè, nel dicembre 156o, il Duca aveva fatto fortificare Villafranca e Nizza, costruire un forte a Monte Albano ed iniziare la costituzione (l) Come abbiamo visto, l'obbligo al servizio militare per le Fanterie degli Stati italiani ebbe durata maggiore o minore.


457

di qucJla Marina militare, che il padre Carlo llI aveva invano desikrata, « stimando avere per sudditi i migliori marinai che solchino 1 mari ». Notiamo, poi, che l' Editto non contiene alcun accenno ad )rdini tassativi ed a severe punizioni: segno della piena rispondenza della legge alle condizioni del popolo. Si afferma, invece, il fermo proposito di voler provvedere all'esercito v aux moindres frais et meilleure comodité que faire se pourrait »; ed in special modo si

la battaglia di San Quintino.

parla dei privilegi concessi per rendere ai sudditi meno grave il nuovo dovere. Privilegi, i quali non dovevano sostituire soltanto, per queste truppe nazionali, quelle che erano già state le paghe pc:- le milizie mercenarie; ma rispondevano anche allo scopo di maggiormente stimolare lo zelo dei sudditi e di elevare prontamente in essi il senso dell'onore militare. Tali privilegi - alcuni dei quali, come l'esenzione dall'arresto per debiti, dal pagamento dei pedàggi, dalla tortura, dalle spese di giudizio ccc., in quel tempo importantissimi (1) - ponendo i soldati

(1) Come: tali privi legi rispondessero ad una vera necessità, ci dimostrano, infatti, le numerose: conferme che di essi furono , in diverse occasioni, emanate dallo stesso Emanuele Filiberto (Editto del 2 1 febbraio 1561 cd altri) e poi dai suoi successori, fra i quali Cari<• Emanuc:le I, dd quale: basterà ricordare


sotto la diretta protezione del Principe - che li voleva << rispettati et honorati da tutti >> - dovevano prontamente affermare, infatti, il prestigio delle nuove truppe ed esercitarono tale influenza sull'animo del popolo che, pur essendo stata fissata la prima leva ad un contingente di 22.000 uomini (dei quali 15.000 Piemontesi e 7.000 Savoiardi), per gli arruolamenti volontari, la forza delle milizie raggiunse presto quella di 37.000 uomini (1). Questa rispondenza è ancor più evidente, ove si guardino gli scopi che il Duca si proponeva con la sua riforma militare. Scopi, che - come la fedeltà al Principe, il minore aggravio dei popolo, la fine del servizio mercenario e la sostituzione all'interesse materiale dell'altissimo fine del.la difesa della Patria che si identificava coi Principe - erano ~tati evidentemente suggeriti al legislatore dalla esperienza della sua vita di guerra. Quante volte aveva dovuto reprimere gli ammutinamenti di quelle truppe raccogliticce ·(e anche punire di morte, con le sue stesse mani, l'insubordinazione del Conte Waldek, alla presenza dei 4.000 uomini che questi comandava); quante volte si era trovato nei più gra'\IÌ imbarazzi per pagar le costose milizie mercenarie ! A tutto questo egli voleva porre riparo, sicuw che i n11nvi nrnin::imenti militari sarehbero stati meno gravosi anche oer i sudditi.

Ben poco sappiamo, dalla legge del 28 dicembre 156o, circa le disposizioni secondo le quali dovevano condursi le operazioni per . la leva ed intorno ai requisiti richiesti per poter far parte della milizia paesana, essendo stata lasciata ai Capi cd agli ufficiali, all'uopo designati, la scelta di quei sudditi « qu'ils verront etre plus propres et aptes aux armcs )l . Soltanto l'età utile per prestare servizio viene tassativamente fissata, scelta dal Principe, a quanto sembra, oltre che per i suggcrinH::nlÌ della esperienza propria, anche per i ricordi delle prime milizie comunali italiane, alle quali abbiamo accennato in precedenza. Il periodo dai 18 :ii ')O anni (Carlo Emanuele I, con l'Editto del l'Ordine del 1° settembre 1582 e le ,, Confirmazioni » del 22 giugno 1595 e quelle del 15 gennaio 16o3. Così poi Cristina di Francia; così Carlo Emanuele II. Cfr. BORELLI: ,, Editti antichi e nuovi della Casa di Savoia », Torino, 1861. (1) Tosi: « De vita E m. Philib. )), Lib. IV.


La battaglia di S . Quintino.



15 maggio 1594, le. aumentò poi fi'!o ai 60 anni) corrisponde, infatti, i Comuni avevano fissato per chiamare alle armi il maggior numero di cittadini, obbligando questi a servire dai 15 ai 70 anni (Firenze nel 1335, secondo il Villani) o dai 16 ai 6o (Treviso, Genova e Pinerolo) o dai 18 ai 60 (Brescia) o dai 18 ai 70 (Mantova, Padova), ecc. Al ricordo dì tali milizie Emanuele Filiberto dovette poi indubbiamente ispirarsi, nell'emanare, circa l'ordinamento delle sue Fanterie, disposizioni più complete e definitive ; il che fece soltanto nel 1566. Molto interessante sarebbe, anzi, paragonare tali disposizioni con quelle dello Stato di Firenze, la cui milizia - che abbiamo visto invocata e promossa nel 1506 da Niccolò Machiavelli ed ordinata secondo le disposizioni da lui date, in nome dei Nove, dal 1507 al 1512 - potrebbe sembrare quasi un modello scelto per la mil.izia paesana del Duca di Savoia, tanto simili sono i provvedin1enti rigu:irdanti l'arruolamento, l'armarnento e specialmente l'istruzione delle truppe. A dare, intanto, un'idea meno incompleta della prima rnilizia nazionale degli Stati Sabaudi, basterà ricordare l'ordine del 1° aprile 1566, col quale Emanuele Filiberto faceva obbligo -« alli molto diletti fìdeli nostri, sindaci, homini et Comunità, di dichiarare. co ns1gnare et dare in nota tutte le persone, c he saranno in nostra tcrr:1 et. insieme tutte quelle armi che si trovano appresso di loro, ai Colonnelli ed ai Sergenti maggiori del Ducato ,,; nonchè « l'istnur ionc: di quanto havete a fare », dedicata agli stessi Colonnelli e Sergenti maggiori « delegati per la descrizione delle persone habili alle arm i >i . <e Primieramenk h avete, con patenti nostre, d 'andare alli luoghi che rispettivamente vi sono consignati, et ivi far consig narc da li sindaci et Comunità, tutte le persone habili a portar arme, prendendone mostra, acciò che si possa far giudizio de' più habili et garbati per esser soldati, et nota dei nomi et cognomi loro, et di tutte le qualità d 'armi distintamente, luoco per luoco; et, udita la vostra rellatione scpra ciò, possiamo risolvere co me converrà ,i. Molto interessante sembra anche la raccomandazione, contenuta nell'Istruzione suddetta, di segnalare in ispecial modo quei sudditi, ai quali sarebbe sembrato opportuno conferire qualche grado, richiedendo all'uopo che essi fossero cc paesani, acciò che possano più amorevolmente trattare con li soldati di nostra militia, essendo anco giusto che quel soldo che volerne darli sia più presto a beneficio de' nostri sudditi che d'altri », e prescrivendo che i graduati vccissero scelti fra quelli che si mostrassero anche « più habili, di credito et amati dalli a quelli che


sudditi nostri 11 . Requisiti, questi, che corris_pQndono perfettamente a quelli che anche ora dovrebbero presentare i nostri graduati di truppa ed, anzi, tutti i Quadri dell'esercito. Di tale istruzione ci sembra poi che non si possa tacere la conclusione, la quale tanto chiaramente ci dimostra anch'essa come ad Emanuele Filiberto non mancasse certo quella conoscenza profonda del suo popolo, che gli permise di provvedere sicuramente a tutti i suoi bisogni più impellenti. « Avvertiamo a fare sapere alli detti subditi_ che questo si fa per la conservatione dei nostri Stati, la quale è la medesima di loro stessi; e che perciò si contentino disporsi volentieri ad esercitarsi, siccome gli sarà ordinato, et a provvedersi cl'arme, et a quelli che non ne avranno gli faremo provvedere noi, con tempo di pagarie in due anni, et che non vogliano mancare, perchè tale è la mente nostrn ». In una nuova Istruzione ai Sergenti maggiori, emanata il 30 marw 158o, il Duca disponeva che i soldati fossero ben provvisti d'armi e munizioni, che venisse presa nota dei puniti e che fosse avvertito il Governatore della città, qualora si trovassero nelle caserme forestieri, banditi, persone scandalose et di mala vita », e concludeva raccomandando vivamente la concordia tra i soldati, la pulizia degli alloggiamenti, la severità nel concedere i permessi, la proibizione del giuocc e della bestemmia, la necessità di fare osservare, in ogni circostanza, i doveri imposti dalla più severa disciplina. (<

Questo, in complesso, il contenuto della legislazione di Emanuele Filiberto circa l'istituzione della milizia paesana. Poco aggiungeremo sulle norme, con le quali Emanuele Filiberto volle sottrarre anche i giovani della nobiltà - da lui resa, per abbassarne l'alterigia, molto più numerosa -- agli ozi della Corte, arruolandoli in quei 4 Corpi di Cavalleria di linea (uno di archibugieri, due di gendarmi e l'ultimC> di cavalleggeri), che egli volle stabilmente sostituire alle tredici compagnie di cavalleggeri, già da lui stesso prima costituite e poi sciolte, forse' perchè nel loro ordinamento restavano ancora troppo evidenti le tracce delle consuetudini feudali. Nota poi è la cura, con la quale il Duca volle ben mu~ire e tenere in sua mano le fortezze dei suoi Stati, alla cui custodia destinò gli 8oo veterani. che, per la sua volontà, avevano conferito nuova forza alle Bande stabili già ordinate da Amedeo VIII. Anche l'Artiglieria,


destinata a maggiore importanza sotto Carlo Emanuele I, ebbe assicurate dal vincitore di S. Quintino le fonderie nazionali per la costruzione delle bocche da fuoco, che prima era stato necessario acquistare altrove, con gravissimo dispendio. Vanto, anche questo, di Emanuele Filiberto, che iniziò il lungo e faticoso cammino della sua Casa. La milizia paesana istituita da Emanuele Filiberto costituì un esempio per alcuni Stati italian~ e sì manifestò, per conseguenza, ef.fì. cace anche in altre regioni della penisola, nell'affermare il dovere dei cittadini di servire con le armi la Patria. Sull'efficienza della milizia paesana del Piemonte l'arnbascialorc veneto Lippomano, nelle sue Relazioni del 1573, afferma che il Duca disponeva di oltre 20.000 uomini armati e soggiunge che, q uando Emanuele Filiberto viaggiava per i suoi Stati, in ogni paese si raccoglievano i Fanti della milizia per rendergli omaggio e per dar prova davanti al Duca del loro addestrame.'lto. L 'ambasciatore veneto, che accompagnava spesso Em:inuc:-lt Filiberto in queste visite ai diversi luoghi del Piemonte, scrive: " lo, che continuamente l'ho seguitata, ho avuto occasione di vedere <li essa milizia una gran parte e così bene mi sono riusciti che io per mc g1t1dicai ::he fossero bastanti ad ogpi fo1ione )> . Lo stesso Lippomano precisa che, volendo fare uno sforzo, F.,nanuele Filiberto avrebbe potuto trarre quasi 20 .000 Fanti solt:into dal Piemonte. Anche il Tonso ed il Cambiano affermano i progressi corn.eguiti dalla milizia in pochi anni ed il Galeani Napione, nella memoria già citata, cfrca il numero dei Piemontesi arruolati nella mil izia scrive quanto segue: « Qualora poi si bramasse sapere qual propori;ione passasse tra detto numero di armati a disposizione del Sovrano e l'intera popolazione degli Stati posseduti a' tempi del Lippomano dalla Rea.I Casa di Savoia in Italia, egli stesso ce ne mmministra i dati con dire ,:he il Piemonte era p:;pobto a que· tempi da settecentomi!J J nimc. N~, in questo numero, deve computarsi la popolazione della Sav(1Ìa, la quale, a norma di ciò che attesta lo stesso ambasciatore veneto, ascendeva allora a 500.000 anime, come quella che comprendeva peranco la Bressa ed altri p aesi, passati poscia sotto il dominio della Fra ncia nella pace di Lione del 1600. « Si dee avvertire, inoltre, che nella milizia non entrava la soldatesca presidiata di continuo in Torino, in Nizza ed in molti altri luoghi : annoverati per voce comune, secondo il Lippomano, ascen-


devano al numero di 7.000; non le compagnie dei Cavalleggeri, non le guardie del Principe e tutta la rimanente Cavalleria. ,e Quanto poi alla fama che si avesse acquistata in così breve spazio di tempo la milizia del Duca Emanuele Filiberto ndle rimote e strarnere contrade, il Lippomano, molto tempo prima del Cambiano » ci ricorda anch'egli la ridùesta del Re del Portogallo al Duca di Savoia del personale necessario ad organizzare una milizia consimile anche nel suo Regno. E' da notare che, con la costituzione della milizia paesana, il Piemonte non rinunziò del tutto alle milizie mercenarie, alle quali rimasero affidati i presidii e l'Artiglieria, i Cavalleggeri e gli Archibugieri a cavallo. Per queste 'truppe il Ducato spendeva oltre roo.ooo scudi d'oro all'anno; mentre la milizia doveva armarsi a proprie spese od a spese delle comunità locali e quindi non gravava sull'erario ducale.


VI.

IL REGOLAMENTO O' ESERCIZI DI EMANUELE FILIBERTO Non meno importante delle disposizioni legislative già esaminate, appare, inoltre, ove si nbbia riguardo alle armi ed alla tattica di quel tempo, il regolamento per l'istruzione delle truppe; guak deve venire senza dubbio considerato il Discorso del sergente maggiore Giovanni Antonio Levo da Piacenza, Discorso che lo stesso Emanuele Filiberto (1), con Decreto dato a Torino il 5 luglio 1566, <1 havendolo ritrovato buono et molto al proposito per exercitare b. militia >', ordinava venisse « accettato et interamente observato in detta militia, senza replica et contradditione alcuna )>. Il Levo, col suo Discorso, ci permette di osservare i risultati dell'esperienza e ci fornisce, sulle ,armi, sul modo di combattere dd tempo e sui capitani di ;1llora, notizie così. minuziose, che T1on si può non attribuire a quest'opera 1'irnportanza di un vero e proprio documento Morico. Il Discorso venne dedicato a Carlo Emanuele, allora quattrenne, che portava il titolo di Principe di Piemonte. A rnalgradc delle diligenti ricerche fatte presso la stc:ssa Biblioteca Civica di Piacenza e presso gli Archivi di T orino, poco sappiamo, in verità, della vita di Giovanni Antonio Levo. Egli dovette na(r) LEvo : « Discorso dell'ordine et modo di armare, compartire et e xercitare la militia del Serenissimo Duca di Savoia », Torino, appresso Martino Gravoto, 1566. Il Discorso venne ripubblicato nel 1567 in Vercelli, dal tipografo Giovanni Maria Pdlicari e venne ricordato anche nella « Bibliogaifia militare italiana antica e moderna» di Mariano d'Ayala e ildla « Bibliografia storica degli Stati della Monarchia di Savoia » , compilata da Antonio Manno e da Vincenzo Promis, Torino 1884. Le due edizioni erano divenute rarissime e si poteva trova re qualche copia del Discorso soltanto presso l'Archivio storico di Torino, la Biblioteca estense di Modena e quella civica di Piacenza. L'opera del Levo venne però ristampata a Roma nd 1936, nella collezione « La guerra e la milizia negli scrittori italiani di ogni tempo », diretta da Francesco Grazioli e da Gioacchino Volpe. 31


scere a Piacenza nelle prime decadi del secolo XVI ; ma lasciò presto la città nativa, nella quale, intrapresa la carriera delle armi, probabilmente non fece più ritorno. Secondo quel che cortesemente ci scrisse anni or sono il Conte Emilio Nasalli Rocca, direttore della Biblioteca Passerini Landi di Piacenza, non si conservano in quella città notizie biografiche del Levo, neppure nelle cronache piacentine. Soltanto nelle 1, Memorie per la stori:1 letteraria di Piacenza >) di Leopoldo Cerri, il Levo viene ricordato come autore del Discorso, a proposito del quale si può leggere nei conti del Tesoriere generale di Savoia (anno 1566, cap. 260) la seguente nota: t<Più ho pagato scudi JS di 3 lire !'uno al sig. Capitano Giovanni Antonio Levo da Piacenza, sergente maggiore generale della milizia di S. A ., per tanti che egli ha sbor· sato per ordine di S. A. al stampatore per imprimere i discorsi della milizia diretti a S. A ., come appare per il mandato fatto il X maggio 1566 » . Il Cerò stesso non ~a del Levo neppure l'anno della nascita, nè quello della morte , essendo ogni indagine al riguardo riuscita vana. Il Bertolotti, nella sua ,e Descrizione di T orino i>, definisce il Levo H valente soldato e profondo nella tatt.~ca >1 • E certo egli ebbe buona cùltura, fewnd:itJ. dall'esperienza; .::c.nsu!::è. gli antichi scrittori milit.iri; lesse forse anche il Tartaglia, così da potersi considerare, come egli stesso afferma, allievo spirituale del grande fortificatorc. Nel suo Discorso cita spesso scrittori antichi, tra i quali Polibio, Vegezio, Eliano, ed autori contemporanei o quasi, come il Valturio, il Machiavelli ecc.; nonchè il francese Langey, cioè Guglielmo di Bellay, signore di Langey, già Vice Re in Piemonte per Francesco I, buon cavaliere e anche uomo di lettere, anch'egli autore, a quanto pare, di un libro sulla disciplina militare. · E' probabile che Giovanni Antonio Levo si sia recato ancora giovane in Piemonte, dove Io troviamo presso Emanuele Filiberto nel1'anno 1564, con la c;.;rica di organizzatore della milizia paesana (1) e col grado prima di capitano, poi di sergente maggiore generale della milizia stessa (2). ( 1) Nel suo « I storico Discorso l> Giuseppe Campiano di Ruffia, gran mae~tro d 'Artiglieria, a proposito degli avvenimenti del 1566, afferma, in fatti, che il Levo « fu lo stesso sergente maggiore che aveva drizzata la milizia in Piemonte >,. (2) Il Levo aveva il grado di capitano, ma era anche sergente maggiore generale, come organizzatore della Miliz ia.


Il Duca dovè avere per lui molta stima se, nel 1572, dietro richiesta di quel Re, lo inviò in Portogallo, a riordinare quelle milizie (1). Il Levo scrisse anche << Considerazioni sulla battaglia di Farsaglia » ; ma senza dubbio il Discorso deve considerarsi come la sua opera maggiore. Esso contiene tutti i dati organici relativi alla milizia e può considerarsi anche come il regolamento per l'istruzione di essa, come lo ha definito anche il N apione. Dal Levo appunto apprendiamo che l'esercito ducale, che doveva riunirsi per l'istrnzione due volte l'anno (Pentecoste e S. Martino) in « battaglia generale n , era diviso in colonnelli. Il colonnello, che doveva esercitarsi tutto rìw1ito q uatt!"c volte l'anno, (e come se li farà sapere )>, dividevasi poi in 6 compag nie. La compagnia, che si doveva esercitare, in ciascu n mese, almeno una volta e precisamente l'ultima domenica, dividevasi in 4 centu rie, obbligate a riunirsi per l'addestramento ogn i quindici giorni ; ogni centuria era composta da quattro squadre, che venivano chi;rnutc agli esercizi tutte le feste, od almen o le do meniche, dopo la in c,\;1, come già a F irenze. li Levo nporta nd suo Discorso moiti dati e: consilje ra1, io n i interessanti. Buona conoscenza egli dimostra delle armi e di ogni mezzo di offesa e di difesa in uso ai suoi tempi. Egli suggerisce, ad esempio, l'opportunità che gli archibugi abbiano le canne di ferro. lungJ1c circa tre piedi e con un calibro tale da poter lanciare pallottok ::i venti il peso di due terzi d 'oncia; consiglia d i tenere, du rante il combattimento, sempre accesi i due capi della corda, della quale gli archibugieri _si servivano per dar fuoco alle polveri; raccom::inda che !e pie~ che, per essere più maneggevoli, siano d'un legno ;i ncora più leggero del frassino e lunghe da quindici a diciotto piedi, in modo da potere usufruire, nelle form azioni serrate allora in uso, delle picche delle quattro prime righe di picchieri; consiglia l'impiego di alabarde forti e pesanti, t< bene inchiodate e r ibattute », e così di seguito. (1) Possiamo fissare la data dell'in v:o dei Levo in Portogallo da quanto scrisse il Lippomano, ambasciatore veneto alla Corte di Savoia, il quale, nelle sue « Relazioni n del 1573, scriveva che l'anno preceden te era stato richiesto dal Re del Portogallo, desideroso di formare una milizia di gente del paese, al Duca Emanuele Filiberto, un sergen ce maggiore ed alcuni capitani, che p<>tessero provvedere a tale incarico. La scelta, come afferma anche il Cambia.no già citato, cadde appunto sul Levo.


Anche circa il metodo da seguire nell'addestramento del soldato, si trovano nel Discorso del Levo consigli così opportuni, che potrebbero riuscire efficaci anche ai giorni nostri. Frequente è la raccomandazione dell'ordine, dello zelo, della disciplina e non sembra vero che alle famigerate compagnie di ventura si fossero, con tanta prontezza, sosùtuite, in Piemonte ed in Savoia, truppe :calde e disciplinate. Per la marcia e le esercitazioni, il Levo richiede l'uso del tamburo, « per meglio apprendere il bell'ordine, il passo et il tempo del marchiare))' l'allineamento delle righe, la copertura delle file ed il silenzio : « • .. Il soldato debba haver notato la ~ua dirittura di numero nella fila che li va dinanti e sempre andare dintto e dietro a quella, cosa che li officiali avvertiranno li soldati nel mettere l'ordinanza )). Gli uomini doBandiaa di Emanuele Filiberto vevano marciare << tutti generalmente ben diritti delle loro persone, arditi et disposti a larga ordinanza giusta, che non pieghi in parte alcuna » ed allineati « da spalla a spalla con li suoi compagni i>, e dovevano abituarsi cc se possibil fosse, od al manco quelli d'una stessa fil a, a rn11oversi, da principio, con le s.imili gambé e piedi in un medesimo tempo et modo» (1). Circa il modo di portare le armi, il Levo prescrive: « Li archibusieri, essendo in ordinanza, porteranno 1i suoi archibusi tutti con la bocca indietro, ben spianati su la spalla; et la mano con la quale teneno gli archibusi, non più alta e più bassa di quella delli altri dell 'istessa fila, per che di dietro gli archibusi si mostreranno più uguali >i. Anche gli archibugieri debbono badare molto all'allineamento, e prendere l'abitudine di esercitarsi « senza strepito di parole o voci tra di loro )) . Durante l'istruzione in ordinanza (che ora diremmo formale, in ordine chiuso), molto il Levo raccomanda, inoltre, che le truppe acquistino attitudine a cambiare rapidamente le formazioni e prontezza nell'eseguire le diverse evoluzioni, prescrivendo che venga spesso (1) Questa prescrizione viene, come è noto, osservata anche attualmente. I reparti della nostra Fanteria, ad esempio, iniziano sempre la marcia col piede sinistro per facilitare i• movimento e renderlo più ordinato.


« raddoppiata l'ordinanza in più raddoppi, per farla quindi tornare, con buon ordine, come era prima », e che gli uomini sieno esercitati nell'eseguire il caracollo (1).

Ma, più che le prescrizioni riguardanti l'istruzione formal e, per la quale specialmente si raccomanda la precisione dei movimenti, il <t bell'ordine e quanto può riuscire bello a vedere », :mcora più interessanti ci sembrano i consigli del Levo circa l'istruzione tattica. Egli consiglia di « mettere qualche imboscata che assalti la compagnia all'improvviso, tirando senza balie, a ciò così, a poco a poco, i soldati cominciano a imparare li ordini di battaglia, per che sapranno meglio tenerli in quelli dei suoi Colonnelli, poi della Battaglia generale et di là contro al nemico faceudosi >>. Non appena avvistato il nemico e dato l'allarme, mentre gli archibugieri avanzavano per i primi, l'ordinanza doveva marciare « al suo vantaggio con le picche arboratc (2), e quindi, dopo aver sostato un poco, << come per fare l'horatione a Dio inanti il comb:Htere », abbassare Ie picche a cominoarc dalla prima fila. Poscia, mentre gli archibugieri fingevano di iniziare il fuoco, i picchieri assumevano in questa maniera Ja loro formazione rii combattimento: « la prima, la seconda, la terza et quarta fila piglicno le picche Yerso il calzo, con tutte e due le mani, l'una ben vicina ::i!l'altra, in modo che le possano sostenere ben ferme e basse; !'altre al più basso che potranno, serrandosi tanto stretti insieme da petto a schiena, che le punte delle dette quattro file, et anche della quinta se arrivassero, sopravanzino tutte le prime file davanti, alla volta del nemico, al costume delle falangi antiche ». Tali finte battaglie dovevano ripetersi spesso, anche simulando qualche attacco alle spalle o sui fianchi, perchè le truppe si abituassero a rovesciare improvvisamente la fronte, oppure, a seconda del caso, « a fare dd fianco testa, ove vi sarà un poco di difficoltà ». Degna di particolare menzione ci sembra, infine, la speciale cura (1) 1l caracollo consisteva nel fa r ritirare , uccessivamente dietro le ultime righe ddla formazione gli uomini della prima riga che avevano già sparato, i n modo da dare loro il tempo di ricaricare le armi e di ripresentarsi al nemico in grado di sparare un nuovo colpo di archibugio. Lo adottò, per la sua Cavalleria, Gustavo Adolfo di Svezia. (2) Con le picche arborate, cicè con le picche alzate, col calcio verso terra.


47° con la quale il Levo raccomanda le bandiere, prescrivendo che sempre alcuni uomini (alabardieri con corsaletti e confidati) rimangano « alla guardia dell'insegna l>, alla quale erano destinati, come abbiamo visto, come speciale scorta; e che, « nell'ordinanza et nelle battaglie dovevano avere speciale. cura della persona dell'alfiere et dell'insegna, per conservarla in tutti i casi e mantenerla diritta, ancor che in generale tutti li soldati di un medesimo esercito siano a ciò obbligati ». Per amore di precisione e per timore di non essere del tutto compreso, il Levo finisce col ripetersi spesso e col cadere in minuzie eccessive. Consapevole fo;:~ di questo difetto, egli ritenne necessario di aggiungere al suo « Discorso )) un « Summario de' ponti sostantiali »; sommario chè noi fedelmente pubblichiamo, in appendice a questo capitolo. Esso costituisce, nello stesso tempo, un indice, un riassunto ed un commento del libro. E benchè, nel compilarlo, l'autore dovette preoccuparsi della brevità assai più di quanto non avesse fatto nel compilare il testo, il Sommario finisce col dare, sul contenuto del testo stesso, qualche efficace chiarimento.

Le formazioni organiche e tattiche della Fanteria. Dal « Discorso » <lei Levo e dal relativo « Summario >> apprendiamo le più interessanti notizie circa i reparti organici, l'armamento, l'addestramento e le formazioni tattiche della milizia sabauda istituita da Emanuele Filiberto. Il « Colonnello » - corrispondente al nostro attuale reggimento - aveva la forza di 2.400 Fanti e 40 ufficiali principali. Esso si divideva in 6 compagnie, di cui una di archibugieri ed era costituito nel modo seguente : Picche o armi d'hasta . 850 Archibusieri con morioni 1150 Archibusieri . . . . . . . 36o Alabardieri, con corsaletti, aìl'insegna . 40 Ogni compagnia aveva la forza di 400 uomini e 10 ufficiali (1) un capitano, un alfiere, due sergenti,. 4 centurioni e due tamburi. Essa si divideva in 4 centurie, ciascuna delle quali di 4 squadre di 25 uomini ciascuna. (1) Il Levo comprendeva fra gli ufficiali non principali anche i sottufficiali.


47 1 Ogni centuria era comandata da un gentiluomo ; ogni squadra da un caporale o dal soldato « più segnalato e pratico ». Assai diverso era l'armamento dei Fanti: sia per quanto riguardava le armi difensive (corazze, corsaletti (1), giacche di pelle, elmi, morioni (2), scudi, rotelle (3); che per quanto riguardava le armi offensive .(archibugio, picca, alabarda, spada). In ciascun colonnello 1510 Fantt erano archibugieri, 40 alabardieri e 840 picchieri : il che dimostra come le armi da fuoco si fossero già diffuse in modo da superare nei colonnelli il numero delle picche. Ogni compagnia di picchieri era composta di r50 picchieri, rn alabardieri e 230 archibugieri. La compagnia archibugieri aveva 36o archibugieri e 40 alabardieri, quasi sempre incaricati di scortare l'insegna. Le centurie e le squadre dovevano avere un'aliquota di tutte le armi della compagnia, proporzionata alla loro forza « per potersi tutte esercitare, nel}j loro partimenti, con ogni sorta d'armi » e con « i loro comandanti ». · Gli ufficiali erano armati in modo diverso, anche per ewrc più facilmente riconosci.uli dai soldati. In proposito il Levo prescrive che il Capitano, l'Alfiere cù i ,1 Centurioni per compagnia dovevano essere protetti dai corsaletti cd il resto degli ufficiali << segnalatamcnte l'un più di l';iltro, secondo loro gradi 1>, I C'.,enturioni, « per meglio essere riconosciuti cd osservati », dovevano portare anche uno scudo di acciaio « con il spontone in mezzo, a differenza delle rotelle (4) che staranno nel squ.1drone, et una corsesca (5) da lanciare, bisognando, ad imitaz ione de' (1) I corsaletti erano corazze leggere, usate prima dalla Cavalleria e pai dalla Fanteria, e servivano a proteggere il petto e l'addome. Differivano dalle corazze propriamente dette perchè privi ddle parti accessorie. (:2) I morioni servivano a proteggere il capa dei combattwri ; rrann rimi senza visiera. (3) Le rotelle erano scudi di forma circolare, convessi vc:rso l'esterno. Potevano essere di legno coperto di pdle o di cuoio cotto, come di metallo. (,I) Qui, con la parola « rotelle », si vogliono indicare gli armati di scudo. Negli scrittori del tempo è frequentissimo l'uso del\'indicaz(onc dell'arma per indjc.arc anche gli armati, od anche un gruppo di a rmati, come, ad esempio, con la parola « lancia ». (s) La cor~sca ft1 un'arma in uso principalmente presso le Fanterie corse, dalle quali le derivò il nome. Era una spedi: di giavellotto, costituito da un'asta in legno e da un:i punta di ferro, punta fornita a volte di due ali.


47 2 pili (1) de' Romani ». Essi potevano, stando fuori delle file, servirsi della corsesca per comandare coi cenni, indicando « a' picchieri quando spianare, quando arborare (2) et quando abbassare le picche». « Detti Centurioni - scrive testualmente il Levo - saranno compartiti ne le prime semplici ordinanze et poi ne le battaglie, come s'intenderà; e così. de' corsaletti con le buffe (3), le quali, poste con essi Centurioni a suoi debiti loghi in dette prime ordinanze, serviranno ancora da segnali per meglio discernere gli partimenti, o sia tagliate (4) di esse, per mettere più presto insieme i loro squadroni, dichiarando che, per semplici ordinanze, s'intende di qual si voglia sorta d'ordinanze, che si facciano avanti per mettere le battaglie; « Gli dua Sargenti (5), che saranno de' p:iù esperti et pronti, oltre le alabarde, si armeranno più ligiermente, come de morioni, maglia e bufalo (6), per poter scorrere, secondo il lor'ufficio, et confermare gli ordini et, per evitare confusione, l'uno si dirà et sarà il sargente della parte destra, l'altro de la sinistra; però, mancando uno, supplirà l'altro per tutti due. e< Gli Tamborri, al loro solito, però trovandosi in un combattere serrato, se avesero morioni in testa et qualche petto all'antica, o corazzi~:t, con certi mezi bracciali ligieri che coprano lo disopra fino al cubito, pur che possano battere, non lo troverei fuor di posto, per meglio contraguardarli, per che, mancando simili Ufficiali (7), non si può, ne gl i strepiti del combattere, intendere il commandamcnto dei superiori, nè mantenere gl'ordini de i soldati, li quali generalmente haveranno ne le ordinanze, et b2ttaglie le loro bande, o segnali di Militia, differentiate però da quelle de gli Ufficiali, secondo gli gradi, come fatto se gli farà sapere. (( Gli sedici Capi di squadra o Caporali per compagnia, acciò siano loro ancora meglio conosciuti et ubediti, saranno differentiati da gli soldati in questo modo, ciò è de li dieci con le rotelle e corsaletti, persone segnalate, i quali nelle ordinanze saranno appresso la ( 1) Armi da gitto, giavellotti usati dai Romani. (2) Arborare le picche: tenerle alzate, verticali. (3) La buffa era una parte dell'elmo, destinata a coprire il viso fino alla bocca ed a completare la visiera in modo da difendere il guerriero, (4} Panimenti o tagiiate cioè i diversi reparti dell'ordinanza. (5) Sergente deriva da serra - gente, la cu i funzione era q uella degli attuali serra file. (6) Bufalo cioè corsetto di pelle di bufalo. (7) l i Levo considera ufficiali anchè i tamburini.


473 Insegna, otto saranno Caporali e gli doi che avanciano si diranno Confidenti ordinarii dell'Insegna e così sarà ancora de gli dieci Alabardieri con corsaletti, che gli otto saranno Caporali e gli doi che avanciano saranno Confidenti come sopra: e tutti questi quattro Confidenti, quando l'Insegna sarà in campagna, o altrove con la compagnia, loggieranno con l'Alfiere et gli faranno sempre compagnia, eccetto uno, che resterà a guardia dell'Insegna, et puoi ne le ordinanze e battaglie, gli saranno sempre più appresso di tutti, havendo special cura de la persona de l'Alfiere et dcll'Imegna per conservarla in tutti i casi e mantenerla dritta, ancor che in gtncrale tutti gli soldati di un medemo servitio siano a ciò ubligati i, (1).

Il Levo, che aveva letto e che cita spesso, specialmente a proposito delle formazioni tattiche, l'« Arte della guerra » del Machiavelli, usa spesso il termine di e( battaglia generale>: per indicare tutto l'esercito o la sua formazione per il combattimento; ma non scgu(' Li nomenclatUia del Machiavelli per quanto riguarda i diversi rc par11, i quali, vengono chiamati cc bandiere », << drappelli » , (< insegne ,, e non esercito, battaglioni, battaglia. Per quanto riguarda i Quadri, mentre il Machiavelli li distingue in connestabili, centurioni, decurioni o capodicci, il Levo considera invece i colonnelli, i capitani, i centurioni ed i caporaìi. Per quanto si riferisce alle formazioni tattiche, quelle previste dal Levo ~li vengonc suggerite dal ricordo dei classici , e spçc ial mente di Eliano (2), dalle idee del M achiavelli e, come l'autore ricorda più volte non senza orgoglio, anche dalla sua personale esperienza di soldato. Il Levo scrisse il suo discorso nel 1566, vale a dire dopo 46 anni da quando il M achiavelli aveva scritto I' ,e Arte c!cll:i r;uerra )) e, nelle formazioni da ·Iui previste, tiene conto di tutte le armi in uso ai suoi tempi ed attribuisce la dovuta importanza anche agli archibugieri . (r) L' insegna era, come è chiaro, la bandiera del reparto. Sono notevoli tutte queste minute disposizioni, intese ad assicurare la custodia dell'insegna, simbolo del reparto stesso, che occorreva difendere ad ogn! costo. (2) Non ci sembra molto sicura ed oppartuna la citazione, più volte fatta in q uesto <e Discorso i) , di Eliano, il quale, pur essendo nato intorno all'anno 170 d. C. e vissuto nel Lazio, scrisse quasi tutte le sue opere in lingua greca.


474 Per questo le formazioni tattiche da lui proposte sono più complesse e le diverse armi della Fanteria .ed i diversi elementi delle formazioni stesse (battaglie, maniche, ali, sussidi ecc.), rendono le formazioni, nonchè i passaggi da una formazione all'altra, assai complicati. Ecco, p. e., una formazione di 100 p icchieri e 100 archibugieri:

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Le formazioni di cui parla il Levo e che noi indichiamo nelle pres~ti pas-ine, ed in quelle che seguono, ci forniscono interessanti part1_c ol~i su.ila rat~i~a del tempo. Esse erano numerose: orbe, globo, /orbi.cc, q~drato, croce, rombo, cuneo ecc.; ma anche per il Levo l~ f?rmaz!one da usarsi più comunemente era il quadrato, che egli distingue m quadro di terreno e quadro di gente.


475 Col primo la formazione occupava un'area quadrata del terreno, anche se il numero delle file degli uomini non era eguale à quello delle righe, data la distanza fra le righe, naturalmente maggiore dell'intervallo tra le file. Nel secondo, poichè il numero delle file doveva essere eguale a. quello delle righe. ed ogni lato del quadrato doveva '

II' Battaglia quadra di gente si mostra in ordinanza dii modo che siegue: dua mite tanto longa come larga, e più ma col combattere poi, s i serra Lanto che resta ancor quadra di terreno o poco meno, e più forte da tutte parli, e.be la qu.ndra di terreno e non <li gente, qual resta troppo sottile, per longo serr an dosi, perc:hè, a questo numero à 40 huomini per il Jar~o e 21 per il long o , antn7.a 10.

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essere formato dallo stesso numero di uomini ( 1), data la maggiore distanza ddle righe rispetto all'intervallo tra le file, l'area OCC;~pa,t~ dal reparto finiva per avere la fo,:ma di un rettangolo. (1) Così si esprime il Levo al riguardo: ,e Quanto a la forma della battaglia quadra di terreno, per meglio chiarire la mia opinione, io così l'intendo, come


Ecco una formazione in quadrato, che il Levo chiama battaglia quadra di gente e per la quale l'a1;1torc giustamente _osserva che · la formazione, pur avendo una forma rettangolare « due volte tanto lunga come larga » in movimento, cc si serra tanto per combattere che resterà ancora quadra di terreno o poco meno e più forte da tutte le parti che la quadra di terreno e non di gente >i. Le formazioni, che occupavano un'area quadrata del terreno, secondo il Levo, una volta serrate le righe, sarebbero state poco profonde per opporre al nemico una valida resistenza. Davanti e dietro il quadrato di picchic:ri ci sono le ali costituite dagli archibugieri ed, inoltre, gli archibugieri per l'eventuale formazione delle maniche e del sussidio. Il Levo scrisse che, una volta serrale le file verso il lato minacciato, questa formazione di picchieri avrebbe imitato le antiche falangi. Le formazioni quadrate, oltre a conferire la necessaria compattezza alla Fanteria, specialmente contro la Cavalleria, si prestavano molto bene a far fronte immediatamente al nemico, qualunque fosse la direzione dell'attacco. Anche le Fanterie greche avevano usato, come è noto, il sintagma e quelle romane le formazioni falangitiche. Il Levo si mostra particolarmente favorevole a questa formazione, perchè essa, mentre assicurava contro il n:emico una fronte sufficiente rjspctto alla forza complessiva del reparto, ne assicurava anche la solidità. Infatti, come l'autore sostiene in seguito, paragonando il quadrato con le altre formazioni, soltanto col quadrato si rendeva difficile all'avversario di rompere lo schieramento. Certo è che i quadrati di moltissimi uomini presentavano l'inconveniente di rendere la formazione poco mobile in terreni accidentati ed impossibile l'impiego, contro il nemico, dei picchieri delle ultime righe. a dire IO huomini in fila, gionti da spalla a spalla per fianco, e cinque file di tale 10 huomini per il longo o sia I O per il largo e 5 per il longo, e volendo ciascuno di essi 10 gli suoi piedi trè per il largo, non possendo un huomo di sua persona e gomiti più restringers~ nè allargarsi in ordinanza, saranno in tutto piedi 30 per il ·largo, e dando piedi 6 per ciascuna delle cinque file per il longo, saranno pur piedi 30, e all'hora si mostra la quadratura di terreno, salvo quel paco di sotto i·piedi di spacio tra le file, anci si serrano tanto insieme, che Aeliano non li da, in quell' hora, che un piede e mezzo: et il Machiavelli, nel secondo Libro, dove, tra altri Autori, dice che la più utile forma di battaglia è in sostanza quella che io chiamo quadra di numero e di genti, gli dà due b:accia, e quà si .danno tre piedi rispetto all'armamento, tanto che essa, quadra d1 terreno nell'atto del combattere, resta molto debole e sproportionata per il longo e la quadra dc genti più utile, forte e proportionata da · tutte le parti ».


477 La lunga dissertazione del Levo circa i vantaggi e gli svantaggi delle diverse formazioni, ricorda le discussioni dei secoli successivi e specialmente del secolo XVIII sulle formazioni sottili o profonde : discussioni tornate in auge quando i progressi e la diffusione delle armi da fuoco fecero preferire le formazioni sottili, che permettevano il contemporaneo impiego di un maggior numero di fu6 li, a scapito della solidità dei reparti. Le formazioni sottili erano più adatte :il fuoco; mmtre qudk profonde erano più adatte all'urto. li 11

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La « battaglia quadra di terreno » costituì, nei secoli XVI e XVII, una delle formazioni da combattimento più usate dalle Fanterie italiane. Di essa il Ferretti da Ancona, nel sue brey_e trattato « Dell'osservanza militare l> (1568), scrisse: << Pare a me che sia la


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479 più soda et ben fondata et la più atta a caminare di tutte le altre

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glia quadrata di terreno aveva più file che righe e si distingueva pèI· ciò dalla battaglia quadrata di gente, che aveva tante file quante righe ed aveva, quindi, più profondità che fronte. A noi oggi non parrebbe difficile risolvere il problema di disporre un certo numero di uomini in battaglia quadrata di terreno; ma il farlo non era certo facile nei tempi ai quali ci riferiamo.


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Rhombo più allo nella fanLeria, di 61. il s uo piì1 prossimo quadrai.o è il 7. avan1.a IZ.

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Il Tartaglia - nel libro « Delle traugliate inventioni » - suggerisce questa regola: « Bisogna quadrare il numero 49, cioè moltiplicarlo in sè medesimo, che farà 2 401 , et questo 2401 : moltiplicherai per quella quantità di soldati. che vorrai porre in battaglia, et partirai il prodotto per il numero 1000 et del prodotto poi -cauerai la radice quadrata,: la qual radice sarà il numero de' soldati che entrano per fìla ,,. · La formula del Tartaglia è dunque questa: dati N soldati da disporre in battaglia quadrata di terreno, si fa un numero di file X = (49)!N 1000

Per conseguire lo stesso scopo, il Ferretti segue, invece, quest'_a ltra formula: « Partendo la quantità dei soldati che si deono porre in battaglia per 21 et dcll'evenimento cavandone la radice quadrata ... poi moltiplicando detta radice quadrata per 7, s'haurà il numero de' soldati che entrano per fila ». Ossia il numero delle file è dato dalla formula . N X = 7-

21

Oltre un secolo dopo (1676), un altro scrittore militare italiano - il Marchese Porroni - dava quest'altra regola: « Proponiamo.che s.iano picche 36, .. . ; prima cauisi la radice q uadra di 36, che è 6;


leuisi da tal radice il terzo e sottraggasi questa da quella, che avanzerà 4, numero che deve formare il fondo alla proposta battaglia quadra di terreno». Ossia, essendo N 21 il numero degli uomini, il numero delle righe (non delle file, qui, adesso) è 2

Y= - N 3

Se proviamo a fare un'applicazione numerica, cioè a formare una battaglia quadra di terreno per esempio con 144 uomini, colla formula del Tartaglia, si hanno

file 18 e righe 8 Poichè gli stessi risultati si ottengono anche con la formula del Ferretti e con quella del Porroni, trattandosi di scrittori appartenenti ad epoche differenti, possiamo dedurre che, per quasi due secoli, l'ordinanza delle Fanterie italiane, per quanto riguarda la distanza tra le righe e l'intervallo tra le file, non è cambiata. Nè potrebbe essere, del resto, diversamente, non essendo cambiato lo spazio 11cccssario al singolo uomo. Il Porroni, nel suo « Trattato universale militare moderno ,, , dice che lo spazio tra gli uomini era cli « tre piedi da spalla a spalla e ài sette da petto a schiena » Il Levo, invece, come abbiamn gi~ visro, considera gli spazi suddetti rispettivamente di tre e di sei pjcdi.

Circa le armi, il Levo ne raccomanda la robustezza e l'efficienza. Della ca.ana degli archibugi la lunghezza più opportuna era ru tre piedi e doveva lanciare una palla del peso di due terzi di o ncia uguale per tutti gli archibugi. Le fiasche da polvere dovevano poterne contenere oltre due libbre. Agli ardùbugic:.ri erano inoltre indispensabili la corda e la miccia, il fiaschetto per il polverino, una tenaglietta ed una lima per pulire le palle prima di introdurle nelle canne degli archibugi, per evitare ogni inconveniente. Le picche dovevano essere di legno ben secco, lunghe almeno 15 piedi, in modo che, contro la Fanteria o la Cavalleria nemica, si potes~ sero spianare contemporaneamente quelle di almeno quattro righe. Le spade non dovevano essere molto lunghe; ma taglienti e bene appuntite. · 32


Frequenti sono, nel «Discorso» del Levo - e questo è, senza dubbio, assai importante - i richiami alla disciplina, alla fedeltà al Principe, all'importanza dell'insegna ed al sentimento dell'onore militare. Egli raccomanda poi sempre che, nelle prime file, si mettano i graduati ed i soldati più valorosi, poichè « le file dinanti, non si doverebbero mai sgomentare e disordinare, ma risolversi a quel fine per il quale sia condotto a questo fatto, che è di vincere o di morire ciascuno da coraggioso valente huomo, piuttosto che mai abbandonare la sua Insegna, et suo locho di battaglia, così portando l'honore e obligo da veri Soldati, li quali, facendo altramente, possono sapere che incorreno, per costume et leggi militari, tutti in pena capitale con perpetua infamia >>. Queste ultime raccomandazioni, che ricordano le disposizioni già vigenti in Roma per le formazioni falangitiche, ben dimostrano quanta cura si _ponesse nel cercare di elevare il morale òelle milizie nazionali e di infondere in esse le più nobili virtù del soldato: il coraggio di fronte al nemico, il culto per la disciplina, la dedizione al dovere, il sentimento dell'onore militare. Il che deve indurci a constatare 1 progressi compiuti, :.mche nel!:i. p::-ep:1r:1zionc spirituale della F antel'ia, rispetto alle compagnie di ventura straniere ed alle milizie mercenarie. Il Levo raccomanda, infine, con particolare imjstenza, l'addestramento all'impiego delle varie armi, addestramento che, per no n di~ strarre i cittadini dalle loro ordinarie occupazioni, si doveva svolgere, come abbiamo già detto, la domenica, dopo la messa, e negli altri , giorni festivi per le squadre, ogni quindici giorni per le centurie, una volta ogni mese per le compagnie, quattro volte l'anno per i colonnelli e due volte, in occasione della Pentecoste e di S. Martino, per la battaglia generale, cioè a dire per tutta la milizia, la qua~ doveva riunirsi in campagna, anche per venire adde5trata nel prendere gli alloggiamenti. Come si vede, man mano che le forZè del rèpaito aumentavano, i giorni da dedicare all'addestramento diminuivano di numero: si2 per la maggiore necessità di curare l'istruzion~ dei reparti minori, in modo che sì potesse passare senza inconvenienti all' addestramento di quelli più numerosi e complessi; sia per la difficoltà di riunire le diverse squadre nelle sedi delle centurie e le centurie in quelle delle compagnie. Molta cura si doveva porre, secondo il Levo, nell'addestrare oli archibugieri al tiro, stimolando l'emulazione dei soldati con gart a


premi. A tale scopo doveva servir-: il giuoco detto del « pappagallo » e poi dell'c< ar~hibugio ». Il Duca Carlo Emanuele II volle anzi . r.he tutti i citt;idini si addestrassero nel maneggio delle armi da fuoco e partecipassero alle gare di tiro a segno. Un decreto di Carlo Emanuele II stabiliva che chi vinceva t:ili gare venisse nominato, per tutto l'anno, « Re degli archibugieri » e con questo titolo fosse accompagnato, nel giorno di S. Barbua, alla Chiesa del Cvrpus Domini, dove si celebrava una messa solenne I! si distribuiv~ il pane benedetto.

APPENDICE SUMMARIO DE' PONTI SOSTANTIALI DEL DISCORSO

SULLA MILJTIA DI EMANUELE FILIBERTO O) "A m rn mnzt-> di quem1 Milicia. sad in parte d c picche con corsalcui , alcuni de' quali haveranno !;1 buffa, pezza da tuore et da mettere qual gionta alb celata cuopre tutta la faccia, et ciò principalmente per guarnire le fronti, ~p:ilk, et fianchi delle grosse battagli<: per le cause contenute. Alcuni con alaba rde et corsaletti, altri con rotelle d i ferro et corsaletti : et tutto il rcstv puo i dc buoni Ard1ibusìeri con m orrioni. « Spade et daghe. - Ma le spade che siano bt"n L:iglianti et Pongenti , ~:ir:inno somamentc tanto longhe et cinte ferme, di sorte che con l:i sola 111a n ~Irina si possano sfodrare. << Per haver picche stcche, bisognando per prevenire in qualche fattm ne, si faranno lasciare i corsaletti o tuorgli alcune pezze per alleggerirli.

,1 Compartimento di questa militia le compag nie di essa haveranno picchèri con corsaletti : 50 e li 30 haveranno la bu ffa, Alabardieri con corsa letti aìrinsegna ro, altri con rotelle e corsaletti all'i nsegna 10, Archibu sicri ,.on morriò ni 230. « Per ogni Colondlo una compagnia J"Archibu sicri, numero 36o, ::t Abbardieri con corsaletti all'insegna 40.

1-1}

011,çs"to • summ:i,lo • degli argomemi più impor13nti S\'olu nel ,·olumc era, nclk

.iJllcm:i!/llf. del Levo. :incfic un indice. tbJatti, nel 1csw <ldla :2• c<lizionc, pubblicata nel 1567 presso il tipografo Giammaria Pcllié:ir i di Vercelli, pc, CÌ3Scun argomento viene indicata la i)agi na che l'Autore, ndla sua meticolosa prcci,ion.c , chi3ma a1,2.i • pagindl3 ~ o ~ f:t2za1a • (facciata).


« Ufficiali di ciascuna compagnia ro. • Il Capitano, l'Alfiere, dua Sargenti et quattro Centurioni cou duoi Tamborri. " Ciascuna compagnia divisa in 4 Centurie, et cadauna cò 'l suo capo, detto il Centurione, con la sua quarta parte d'ogni sorte de armi della compagnia. « Ciascuna Centuria divisa in 4 squadre a 25 fanti per squadra con la sua quarta parte dell'armi di sua Centuria, e l'uno di essa, il più prattico, sarà il caporale, e tutti gli caporali ~aranno de quelli delle rotelle et alabarde che vogliono esser tutti persone isperimentate e saranno 16 capi di squadra per compagnia. « Il Capitano, l'Alfiere Cl gli quattro Centurioni armati di corsaletti et il resto segnalatamentc l'un più de l'altro, secondo loro gradi, et gli centurioni haveranno di più uno scudo di acciaio cò 'l spontone iu mezzo a differenza, delle rotelle che staranno nelle file, e li centurioni fuori a luochi da comandare; et di più una corscsca da lanciare et per alt10, Ja immicatione de i piii de Romani. « Semplici ordinanze saranno quelle che sì metteranno avanti di mettere le battaglie. « Gli dua Sargenti, oltre loro alabarde, havcranno morriòni puoi maglia, o buffali per puoter scorrere e conservare gl'ordini, e l'uno si dirà et sarà il Sargente della parte destra, l'altro ddla sinistra, et, mancando l'uno, suplirà l'altro. « Tamborri al loro solito, pur in UG combattere serrato non gli nocercbbe qualche pezza d'armi si veda nel libro. « Confidenti ordinarii dell'insegna (r). « Archibusù:n·: gli archibusi longhì circa 3 piedi di canna, tutti d'una medema patia· circa dua terzi d'oncia, le fiasche forti che tengano dua libre di polvere e più chi vorrà, con suoi fiaschcttini il polverino, et ·fossile fornito con buona Polvere e corda, tenaglìctlc e lime per pomr• le palle tenendole ben nette, e così gli morriòni tutti alla moderna.

« Picchèri : buone e forti le picche longhe per il manco piedi 15 e più che vorrà secondo le forze e come teneri~ all'investire Fanteria, Cavalleria, dovendo per il manco combatti:-re 4 file alla volta: modo cavato da Aeliano, oltre haverlo visto in fatto come si dirà più inanti, tenendole ben dritte e nette, et così gli corsaletti che saranno alla moderna, et !'altri ancora polite tutte le loro sorti d'armi.

cc Aeliano, imitato dall'autore, a cerca (circa) la qualità deile picche e modo di combattere con esse, et nei squadroni serrati, già usa.ti da tutte le nationi Christiane bellicose, mette diversità dc picche, di che si è fatta questa elletione, si veda la ragione al suo luoco. <e Il modo d 'esercitarsi i\ compagnia per compagnia e come ordinare e compartire Archibusieri, picchèri, et mettere la insegna, et Tamborro con l'armi

( •) <• Confidenti ordinari ddl'Insc"na ,. vale a dire coloro, ai qu3li ordinariamente vcniv~ · affidata I;, bandicr,1 del reparto. " '


curte, con suoi Ccnrurioni alle teste, et code delle ragliate, o sia qualità d'armi avendo prima separato da sè tutte rorte d'armi che si pongano nel medemo numero d'ord inanza, e puoi interporle come nel discorso. « Mettere sempre le prime et ultime file di cia~ una tagliata, dc persone prattiche et almanco uno di mezzo d'ogni fila perchè quelli guideranno tutto il resto della ordinanza, e questi io mezzo le file gl'inscgneranno andar giusta in fila da spalla a spalla per fianco. u De' corsaletti con la buffa, che servira nno ancora dc segnali a meglio conoscere le tagliate per unire più presto le battaglie, oltre gli Centurioni repartiti per le ordinanze come si dirà, ne saranno dua file in test.a et una alla coda di ciascuna tagliata, o parùmento delle picche.

« Si discorre sopra di volere alcune file de picche armate alla testa ~t coda dell'archibuseria, o sia di tutta la .:irdinanza di una tale compagnia c'haverà la mettà dcll'archibuseria alla testa et l'altra mettà alla coda, con l'oppinione dell'Autore (sie).

« Archibusieri come portare suoi archibusi in ordinanza e come mettergli facendosi alto, per ev itare il cadere delle scintie sù i fuogoni, per nun ammazzarsi da loro stes~i, e stroppiarsi le mani come si è visto, o vero offendrrt de' suoi, et di non ammortar'le corde delle canne de gli archibusi possendo sempre restar per le canne et su i fuogoni qualche scmentella cli polvere. <t Avvcrtunentu alle compagnie quanòo marchiaranno paesi pe, ""'"l"' ,.., spetto, et anco circa le guardie di giorno e di notte, rnasirne alle porte.

« Gli picchieri come portare bene le picche in c.rdinanza, et di qual pa1 te il più, et come lontane le file per adesso, l' una de l'altra, ma1Lhi:rnJo 1u11i ben dritti delle loro persone arditi e disposti, muovendosi tutti d 'un'1~tc~s:1 fila in un medemo tempo e passo con simili g:tmbe sotto l'armi che porearanno nello spianarle su la spalla puoi arborarle, cioè, l'armi d'hasta t'C ahbassarle alla l'arma e combattere secondo il discorso, e quelli di fuori via ,\clic file, puoi che così è solito per più bel vedere, et forsi anco per essere più 1spediti se bisognasse offendere o diffendere in un subito da quel ca mo, massime a parte destra, portt>ranno l'armi su la spalla d i fuori via.

« Radoppiar le ordinanze e voitaggiarle in più modi torn:mdolc poi con buon ordine, come era.no prima .:on fare alle volte de' car~:u..:!!: 1,,hc glova!io moltn per esercitare, avenendo all'intrarc: di lasciar'il spacio per uscire, ma volendolo tanto serrato che al fine resti come un globo condensato, o una propria limacha, si arboreranno le picche al serrarsi tanto torneando che non si puossi più sapendosi tutti ben tenere alle sue file, e all'hora, fermati un puoco e fatta la s.alva, per disfarlo si volterà faccia fac~ndo della coda testa; marchiando con qualche garbo, come à bissa o altrimenti tanto che basti a disuoltigliarlo, et a questo modo sarà di maggior esercitio de' soldati et più gran piacere a spettatori per la varietà del marchiare.


« Archibusìeri esercitarsi al tirar al precio (1) et altramenti e tutti puoi nell'agilità della persona: gli picchieri come portar le picche ben spianate su la spalla come arborarlc, e portarle con buona gratia di buoni pezzi arborati, la causa si veda come metterle nel far alto, come abbassarle alla l'arma, puoi al combattere restando sempre le file tra di loro d'una medema distanza. « Puoi far imbosrata che assalti la compagnia all' improvviso e: all'hora dar all'arma a voce e puoi col T amborro facendo subito sortire Archibusieri incontro de gli assalitori. guidati da qualche huomo prattico per intertenere la scaramuzza fin che la compagnia si sia posta in ordinanza di battaglia, acciò cominciano così a puoco a puoco a imparar gli ordini di battaglia, tirando gli archibusieri senza palle. « Agiust:ar bene insieme le teste e le file de !'aie d' :\rchibusieri con quelle de le picche, la caus., s'imenderà et l'ale resteranno lontane dalla battaglia de le picche per il spacio d'una picca ciH"a. « La insegna et T amborro tra le dieci rotelle e dicci alabarde, in mezzo della piccheria, quale resterà con le rotelle et alabarde per adesso a maniera d 'esercitarsi file 17 a 10 per fila, per che si sono solamente radoppiate le file, ma per b ragione del suo più prossimo quadrato an<lrebbero a 13 pt-r fila a,·anza uno, ma gli va a ltra sorte di ordinanza al principio: si veda il discorso come metterle. « Avertimento di sape, calcula rt- per ml'ttere "rdi n:J n?C ,. battagli:i con ragione alla più presto possibile con qualche discorse: e esempio sopra numero pari, o dispari, nelle prime semplici ordinanze, e più proporrionabili et ispedite per le battaglie, importando molto trovarsi presto in buon ordine di battaglia. <, La ragione dei quadrati di' bauaglia essere q uella che dona .la regola di che numero pari o dispari doversi mettere le prime semplici ordinanze, cC1me parti d ii suo tutto, che gli debbeno essere ben proportionati per unirli et disunirli con ordine che corrisponda. per essere presti a tutte le horc, per che volere che un solo n umero preciso e letto per maggiore in tutte ordinanze servi per tutti gli quadrati per grandi che siano, si perderà troppo tempo. « Non si discorre per voler derrogar a persona c'havesse altramer.tc scritto, o fosse di altra oppinione, né a quelli che fanno questo ufficio senza sapere la ragione de' quadrati ben esortando ogn'uno di saperla per che fa ranno sempre il suo ufficio con l'animo più quieto c:t risoluto in qualsivoglia numero, non vedendosi che, per varie rappresentatiorii· di forme di battaglia; si possa cavar regola generale per quadratare tutte le sorti d c numeri come si farà mediante la tal ragione che segue.

« Gli quadrati di battaglia di questo libro essere - secondo la ragione di quelle radici quadre che sara nno più prossime a quelli numeri che haveranno

. ( 1) Pres>0 i Duc hi di Savoia si ebbe molta cura onchc ocll'cscrci1arc gli archibugieri al tiro, con gare, premi, privilegi, ccc.


a quadrare; se non cadesero a ponto con tali numeri, et se alcuno come s"intcnde n'ha fatto tavole di prattica le quali, se laudano si crede chi l'havcrà pur fatte per questa via, ma non serviranno forse che per quelli propositi precisi numeri e forme di battaglia. « Quando si dirà un numero esser:: il quadrato d'a ltri numeri s'intenderà ch'hanno ad essere tante file di sold;iti per il longo e per il largo come quel numero che sì dirà essere il quadrato riservato il suo spacio all'insegna et Tamborro se non saranno nelle file come a l tempo del combattere in battaglia serrata. cc Perchè si accurtano le :,/e degli Archibusierì all'eguale dr ll a battag lia. u Come far ancora le maniche una o dua oltre le aie dc' tianchi della battaglia. « Come mettere la detta battaglia, non havendo tempo di spiegare la sua semplice ordinanza. « Altro modo di mettere battaglie, cioè sapere calcula re a q uanti per fila si debba mettersi nel squadrone per il longo o accostati l'una e l'altra, se~o11Jo che arriveranno di mano in mano perchè, venendo da gli alloggiarnen u ud · l'andare verso la piazza d'armc, si vanno comodando e gionti s':m rovano g1:i ordinati, ma bisogna che gli ufficiali sia no diligenti e che sappia no. « Si sono nominate ale et maniche d'Archibusierì, per il gran nu mcru l hc gliene a causa di ripartirli et comandar con ordine. « Alle volte marchiare tutta la battaglia al toccar de l'ordinan7.a con le picche arborate per quando bisogna puoi andare così dei buoni p<',u,i n~uctti per guadagnar qualche vantaggio per il combattere. Cess.; re di to, car l'orct,. nanza et puoi toccar il segno di far la oratione a Dio avanti il comb:m cie; 1l che fatto, si toccherà puoi una furiosa all'arma mn Tamborn . e ~li sol<lat, della battaglia con silentio abbasseranno le picche con buona grac ia de fila in fila, e gli Archibusicri fuoconati guardando di offendersi tr.1 loro, lascian do commenzare alla testa e puoi de mano in mano, osservando tutti la regola che si dirà, et tutti quelli de l'istcssa fila in un mcdemo tempo, quando gli toccarà, con la mano dritta a mezza picca andando alla volta della !><aramuzza, tenendo ben giuste le file delle aie de Archibusieri con quelle delle picche, per le cause contenute, tirando gli Archibusieri delle aie sec-ondo la opportunità, et facendone combattere p 3rte a roda com~ si dirà nel fo tto . « Gionta la battaglia alla scararnuzza la ,•, 1', 3• e 4• fib piglieranno le picche verso il calzo con l'ur.a mano lx:n'in:mti all 'altra, abbassandole e serrandosi insieme da petto a schiena tanto che tulle esse 4 file, e a nco la 5•, s'arrivasc, avanciano le prime fila con le loro ponte contro il nemico al costume delle falangi con loro s'arisse di piedi 2 1 onde combattere sino alhi 6• fila. « In un tal modo di combattere Esso auttore si è trovato con Tedeschi in fatto contro Turchi, havendo ancor visto 2 I! 3 huomini ag;uttar ad una sola piccha per meglio spinger inanti, e però I~ picche vogliono· esser Jonghe, ferme, ben tenute e ben serrate sul fianco et pante inanti.


« Il Machiavelli assentisse che si possa fare in 4 o 5 file, lo fanno Svizzeri e altri prattichi di guerra, et essere stato posto in disciplina dall'illustrissimo sig. Marechial Strozzi, trovandosi esso Auttorc in fatto. « Nell'atto dell'investire l'inimico squadrone, dette 4 file dinanti s'abbassaranno più che patranno su le picche perchè così daranno più forza al spingere ina nti et ancor saranno comodità di mano in mano alle file di dietro di meglio vedere quando soccorrere, et abbassar le loro picche avanti che il nemico sia troppa sotto. « Fare puoi assaltare la battaglia alla coda per far voltare faccia e marchiare e gionù alla scaramuzza fare come già haveranno fatto. « Ad altri tempi far dc' fia nchi testa, ove gli sarà un puoco più dc difficoltà a serrare la battaglia da quella parte da spalla a spalla per fia nco e dar ordine alle ale e maniche, il che si dirà agl'ufficiali. « Gli Centurioni e éapi squadra o caporali solicitar le sue centurie et squadre ad esercitarsi. << In un grosso squadrone non si abbassera nno mai tutte le picche in una stessa parte, si veda la causa. « La compagnia di Archibu~ini con suoi 40 alabard ieri alla Insegna come esercitarsi si veda. « Si usano q uei numeri de prime ordina nze, et di smembrarle, che più presto metteranno insieme quelle forme di battaglie, già usate ai nostri tempi. « ::,, la della cu1;11pa_gnia d'Archibusicri vorrà ancora lei far la sua battaglia, a le maniche et scaramuzza si veda et come far traversar la sua .piccola battaglia dalle alabarde. « Come mamenere una honorata, buona, bella e degna ordinanza. " Questo discorso, drizzato ad un esercito campale, e come conquistare terre s1 veda il sig. di Langè nel suo libro della disciplina militare nel libro terzo a cap. 2 , bench~ gli modi si variano secondo le occasioni. Per il compartimento di un colonello de sci compagnie si veda. Si possono anco mettere tutte le buffe dove si vorrà al maggior pericolo per meglio resistere a' primi impeti, e cosl dar cuore, e buon esempio al resto del squadrone. << Il debito dii buon soldato è diliber:irsi di morire da valent'homo più tosto che mai abandonar il suo luoco di battaglia: si veda al suo luoco. " Chi abandonarà il suo luoco di battaglia contro gli ordini, è infame con pena capitale: et se sarà tutto uno squadrone per il manco incorre nella pena della dccirnatione, co~ molto horribile. " Gran corrotclla dc' quelli soldari, che come vedono, o sentono la testa de la battaglia a manca, in luoco dc' instaurarla si pongano in rotta, il che non procede salvo dal non essere disciplinati, et esercitati avanti di ridursi a fatti d'armi essendo tenuti di combattere non solo sino all'ultima fila, ma · fino a un sol huomo in virtù del obligo et sacramcmo tolto o giurato. 1 < Molto saggiamente ha fatto adunque S. A. in prevenire una tale occasione, havendo instituito questa honorata militia, nella quale esercitandosi non se ne può sperare che gran bene et grand'honore.


« Si possono mettere chi vole quelle buffe de fianchi in ordinanza con l'altre avanti di mettere la battaglia, ma si perderà poi tempo a rimandarle e ritirar gl'altri al suo luoco. •<Gli

Centurioni repartiti per le tagliate delle ordinanze se troveranno po•,

fatta la banaglia, mettà alla testa e mettà alla coda ma saranno puoi compartiti

come si vedrà. " Le forme di battaglie quadre di questo discorso sono di numero , e di gente sono de l'harmi d'hasta non comprese per ordinario le alabarde della banda de' Archibusieri per essere destinate altrove ai suoi tempi. << Non trattarsi minutamente della forma di battaglie quadre di terreno possendosi vedere appresso altri, et le squadre di terreno, cioè, due volte tanto larghe come longhe conveni re più nella Cavalleria, che nella Fanteria quanto nel combattere, se ben in una mostra dilettassero fors i più stando, in quella quadratura et spacio delli sei piedi tra le file sopra di che se ne dice ancora più inanti, si veda alli suoi luochi ncn usandosi più saettarii e fonditori, ch'habbiano da trapassare l'altezza d 'una battaglia, ma tutta buona picchcria ben serrata e stretta insieme. « La moltitudine dei cavallieri posta di dietro non farà quella utilità a quelli dinanti, come fa la fanteria e però gli sta bene d'essere dtie volte larga come longa et alle volte li d ue terzi di più, si veda Aeliano dove m111a tielle squadre <le cavalieri e tro,•erà la cau5a (passo notabiie) dicenJo auL utd ,lv, ... torna a parlare della fa nteria, quando bisogna tenere le picche arborate. « Il quadrato di questo Colonello cioè l'ha rmi d'hasta 850 si è posto tli 28 file a 18 huomini per fila, et de 29 a 29 huomini per fiJa, Ja t1ual1 c:i11,uli:1ti si debbe tuore la regola di che numero mettere le prime semplici orctinan ze più ispedite e proportionate pari o dispari come venerà per la detta ragione. « Per il primo del 28 si fanno avanciare più soldati per altre imprese et l'altro per il 29 e il pìù prossimo quadrato di quel numero avanza 9 senza gli Alabardieri de la banda dc Archibusieri. « Chi amasse più la squadra di terreno che di gente saranno fi le 21 a 40 per fila, o sia file 20 a .µ per fila, avanciano 10, gli pra ttichi cli numeri lo comprendaranno. u Come gli detti òua quadrati Ji geut i rcstcran-no ancora quadri di terreno nell'atto del combattere, con qualche discorso a questo proposito, rispetto al spacio tra soldati per il longo et per il largo concesso da scrittori. « Battaglia di squadra :.li terreno !errandosi al combaltere come il dover porta resta troppo utile dalla fronte, nlle ~palle, e bisognando fare de fianchi testa, s'attroverl .troppo stretta, volendola refformare, può incorrere in quello che ~ dice nel libro. ,1 Essere cosa molto pericolosa di allargar troppo la fronte di uno squadrone a chi non ha più che gran numero dì gente, o ne sia più che necessitato.

e


49 0 ,, Potersi conclude,c · Ja battaglia quadra de genti essere di maggio r servltlo nella Fanteria, havendo ancora suoi numeri pronti per quadrarla con ragione, et che con maggior riputazione si farà sempre della squadra di genti quella di terreno, che per il co ntrario, et b causa con la opinione d:ll'Auttorc come intenda la quadratura di terreno. et dc-Ila sua sproportione nell'atto del combattere detto anticamente la constipatione, <!t della qualità e proportion della quadra de genti come più utile di tutte le altre forme, e questo si veda al suo luoco. Per mettere gli suddetti duoi quadrati di gente, e farli marchiare nelle prime loro semplici proportio nate o rdinanze, et più ispedhe si possono tulle dua met· cere a 7 per fila, a 9 et a 14, ma quanto al 14 se ne dirà nelle figure st:ittc poste per meglio esplicar gli ccncctti.

" Nel quad rato del 28 per il 7 prima ordinanza g li Archibusieri saranno 215 a vanza 5 si metteranno mettà di dietro e mettà dinanti la piccheria con Tamborro alla testa e coda tra alcune file. « Le picche lìle 121 a vanza 3, !'Insegne con suoi Tamborri fra .le rotelle, e alabarde in mezzo :1 tutte le armi d'hasta a file 61 dietro esse Insegne, e come smembrare, fare la battaglia si veda. " Il 9 in prima ordinanza Archibusieri file 167 avanza 7 l'armi d'hasta file 94, avanz a 4. « Il 14 Archibusieri fi le 107 avanza u l'armi d'hasta file 6o avanza 10, I<" insrp;nP l'I T~mhnrri, _A rr-h•l".l~ieri, et picche v:ir.no col!o.:ati al modo già detto, si veda come fare ioro battaglie. << L 'ale vicine alla battaglia circa il spacio di una picca et le maniche circa du:i volta tan to, o come piacesse. « L'ale, si possono mettere più longhe della battaglia come duoi corni chi ,'uulc:, o vero le maniche, cioè, ch'avancino per dinanti, e per di dietro d'essa battaglia gli sono le ligure in tutti dua gli modi. tu tte file

" Si possono g li Colonelli, doppo haYersi esercitati tutti insieme, partire alle \'olte in d ue parti uguali, e armi d'hasta col quadrato dc file 20 per battaglia con le sue aie e maniche proportionate, facendo loro sca r:i muzza all'esempio della sola compagnia s'.ano insieme, e in d ue parti et puoi andarsi ad incontrare fi no :il giongere delle picche et fatto tornar ciascuna compagnia alla sua prima semplice ordinanza, et retirarsi. « Repartire gii capitani, et tutti gli ufficia li ch'habbiano cura da tutte le parei della battaglia delle aie, maniche, e sussidio, dii quale si parlarà . ,, Il Colonello benissimo armato inanti alla sua battaglia, accompag nato dal suo Sargente maggiore per conferire et da 2 $argenti de banda per màndar dove bisognasse. « Di 6 capitani 1 niche, ciascuno con 1 battaglia che serverà dii sussidio pur con 1

per ciascuna compagnia Jdle teste delle 2 aie, et 2 masargcntc et con 1 Tamborro : et l'altro alla coda della di tergiduttorc, più con 1 sargentc, e I altro alla testa Sargcntc et I Tamborro.


49 1 « Di 24 centurioni con gli suoi belli scudi, et corscsche, n t" saranno 4 per ogni fazzata della battaglia fuori delle file per fa r combattere con o rd ine, che sono 16, et alle code delle d ue aie, : d ue maniche 4 vale 20, et gl'aitri 4 uno per fazz.ata al piccolo quadroneuo nel sussidio, la cui virtù, et o nde cavato si veda nd libro. « Degli Sargenti, et 12 Tamborri si ,·eda nella figura avertendo come collocare le Insegne et Tamborri tra l'armi cune secondo le tagliate pari, o dispari al m odo contenuto. « Modo di saper in un subito lasciare gl'Archibusieri per !'a ie a fi:m ch1, et mandare a fare la manica e tenerne per il sussidio, assottigliand o se bisognerà l'ordinanza delle maniche acciò aggiooghi, o trapassi la battaglia si veda nelle figure. ,e Archibusieri della banda d'Archibusicri : dove colocargli, resta ndo la loro Insegna nel squadrone. « Non si è posta figura per una sola compagnia con su:: centurie e ~quad re per essere cose facili a sapersi, m.;. si S<,no fatte alcune figure per le bauaglie de tali Colondli, et per esempio di maggior battaglie anco ra per <lar aJ imcndere la differenza et vantaggio del tempo e modo, seco ndo il n.0 delle 01 <l1 nanze, et tagliate da far più presto o più ta rdo le battaglie, le qu:ili s1 considerano, usando l'Auttore di mettere le sue battaglie in 3 t:.gl1:i te m l n." p.m o dispui comegli viene a prop0sito secondo la regola sudJcrta . « Glie l 'altro modo di radoppiare, et fare battaglie subin tra n<lo, o ateo standosi l'une file con !'altre, però esso A uuore trova più isp,:Ji111 fa 1 le ha t caglie a smembramenti o a manipoli, lascianJo a ch i vuole J, u ~;i,L J1 m olte tagliate per far battaglie quadre de genti, Cl terreno, il che proced e da voler statuire un solo preciso n .0 de ordinanze com e sopra, c he servi .i tutte le: sorti di quadrati, pcrchè chi cc nsidera quante volte quel ml n." bisog na intrarc:: per il largo, et per il longo di una grossa battaglia, vederà che gli 1--isogna tanto tempo che l'inimico gli potrebbe ben venire addosso g·à o rdina to rimet· tendomi però come ho detto. « Di variare la solita forma di battaglia con corni, o senza, d1 mettere Archibusieri in vari modi et farne comhatterc a roda d ivers:ime11tc, rnm r spingere le maniche, et a lle volte ammischi:irle dc armi d'h:1 ~1::i, e co~ì le a ie, et de interporre alabarde, et rotelle tra le file dc picche per dar spac:io di spiegar le picche di dietro, e di usare q..ialche stratagemma nell'assalire, con saper rispondere nel modo che il nemico ne verrà a t rovare, e sapersi vale re de' s1t1 si rimette all'occasione, et per comhattere :i un triangolo si vederà al suo fuoco. « Figura d'una compagnia ch'abuia picchcri busicri.

in

testa, et coda de gli Archi-

« Et altre per dare ad intendere come si mem:no le battaglie più presto o più t:i:rdi.


49 2 (( Altra figu ra come accurtar::: presto !'aie de Archibusicri per mandar a far le maniche, et tenerne per il sussidio. " Considerazione sopra la battaglia · quadra di genù, e di terreno con gli spaci per il largo, e per il longo, fecondo alcuni Auttori con gli intervalli dell'ordinare, coostipare, il che si intende per il longo, perchè di largo uno huomo non si può più allargare nè stringere più di quello che è, volendo sempre tre piedi >>.


VII.

LE MILIZIE PAESANE SOTTO CARLO EMANUELE I Carlo Emanuele I, mirando all'egemonia del Piemonte fra gli Stati italiani del suo tempo, conferì alla sua Casa - colle imprese da lui tentate anche quando esse dovevano sembrargli di troppo superiori alle condizioni economiche e morali del suo Ducato - una grande importanza. Le sue gesta vennero cantate dai maggiori poeti dd suo tempo e trovarono degna consacrazione anche nelle opere di Ludovico Antonio Muratori. A lui Fulvio Testi potè indirizzare l'invito a farsi paladino della libertà d'Italia: Spiega le insegne ormai, le schiere adu11a; fa che la tua ttittoria il mondo veggia. Per te milita il Ciel, per te guerreggia, fatta dal vole1· tuo serc1a, Fortuna. Chi fia, H: non tu se', che rompa il laccio onde tant'anni avvinta Esperia giace? Posta nella rna spada è la sua pace e la sua libertà sta nel tuo braccio!

Data la politica seguita da questo Principe, che ebbe dai contem-

JX>ranei il titolo di «grande », egli fu costretto, per l'ingrandimento dei suoi domint, ad una attività guerresca quasi continua. Infatti, acquistandosi fama di eccellente capitano, egli condusse le guerre seguenti : - per il ricupero .d i Ginevra (1581 -16o2); - per l'acquisto del Mar<:hesato di Saluzzo (1588- 16or); - per l'acquisto del Monferrato (1612 - 1617; 1620- 1631); - contro Genova e 'la Spagna ( 1625); - per la successione del Ducato di Mantova e pel Monferrato, contro la Francia (1628). Nel 1588, all'estinguersi del ramo diretto della famiglia dei Marchesi di Saluzzo, Carlo Emanuele I dovette intraprendere la lunga


494 cruerra contro la Francia per l'acquisto del Marchesato di Saluzzo, ~cquisto, che avrebbe dato al Piemonte più sicuri confini, eliminando l'incunearsi nella pianura piemontese, fino a Carmagnola, de1le terre dei Saluzzo, sulle quali la Francia stava per stendere i suoi artigli. La o-uerra durò tredici anni, dal 1588 al marzo 1601 (pace di Lione) e, pur senza grandi battaglie, servl a dimostrare la saldezza delle

Carlo Emanuele I.

istituzioni militari piemontesi, le quali, nonostante la superiorità delle forze nemiche_, l'asprezza dei luoghi, il durissimo clima invernale, la scarsezza dei mezzi è la lunga durata del conflitto, perseverarono in una lotta estenuante di piccole imprese, di operazioni di alta montagna, di imboscate, guidate dalla _sagace politica del Duca, che, destreggiandosi tra la Spagna e la Francia, riuscì al.fine a conseguire il suo scopo. Sicuro della saldezza dei legami che a lui univano le fedeli popolazioni piemontesi e s~voiarde, e consapevole che da tali popolazioni si traevano i buoni combattenti delle milizie « scelta e pac:sana », il Duca di Savoia fu sempre fedelmente seguito dai suoi soldati, desiderosi di liberare le loro valli dai Francesi, che troppo spesso vi discendevano orgogliosamente.


495 Quando, poi, in Europa, tra il 1618 ed il 1648, arse feroce ed implacabile la guerra dei trent'anni (la guale offerse il destro agli Asburgo ed ai Borboni di riprende1·e la loro gara per il predominio sull'Europa occidentale, sfruttando ai loro fini le forti passioni accese nelle folle dai contrasti religiosi), il Ducato di Savoia non potè rimanersene neutrale e non far valere i suoi diritti all'acquisto del Monferrato, acquisto che avrebbe portato il confine del Ducato verso il Ticino. Nel grande quadro della guerra europea, e come episodi di quest'ultima sul teatro italiano, si svolsero, per conseguenza, le due guerre sabaude per il Monferrato: la prima dal 1612 al 1617, la seconda dal 1620 al 1631; guerre seguite poi, fino al 1648, dalle lotte imposte ai Savoia dalla necessità di impedire che il Piemonte divenisse teatro delle operazioni militari della Francia e dell'Impero. Noi non potremo ricordare tutte le campagne e le battagìic. nelle quali furono impegnate le forze militari sabaude nella prima metà del secolo XVIII e ci limiteremo ad affermare che le F anterie piemontesi furono sempre oggetto delle più vigili cure e conferm arono, in ogni circostanza, la loro mirabile saldezza morale e materiale ed il loro attaccamento al loro Principe cd alla loro terra.

Per potere effettuare il suo ambizioso programma ed ing r;.indirc i suoi domint specialmente al di qua delle Alpi, Carlo Emanuele I a proposito del quale Papa Urbano VIII, in un suo Breve dei 18 aprile 1627, doveva lamentare che l'Italia veniva troppo spesso svegliata dal clangore delle trombe di guerra sabaude e< conquiescere non sinit ltaliam sabaudac tubae clangor 1> - fu costretto, come abbiamo ricordato più sopra, a guerre continue, che rappresentarono una non facile prova per i suoi Stati, soltanto da pochi anni ricostituiti oa! padre. Per conseguenza, poichè non è possibiie fa re una forte politica senza un forte esercito, egli dovette a vere molta cura delle sue milizie, al cui riordinamento ed alla cui efficienza consacrò tutte le sue energie, come si può rilevare dalle numerose norme legislative, <la lui dedicate alle istituzioni militari dell a Savoia e del Piemonte. La prima di queste norme è l'Editto in data del 1° settembre 1582, col quale il nuovo Duca volle confermare ed aumentare i privilegi già concessi da Emanuele Filiberto ai soldati della milizia paesana.


Questi, secondo l'Andrioli (1), non potevano essere, infatti, imprigionati per debiti; « il loro arredo di guerra era immune di staggimento (confisca); non potevano andar soggetti alle tutele ed alle cure ne' casi imposti dalla legge, non più che alle cariche amministrative de' Comuni; i loro processi esser doveano sommariamente giudicati ed il diritto degli emolumenti ristretto in lor favore. Non eravi prescrizione per essi, nè riserbanza alcuna per la caccia, tranne quella della Corte e dei feudatari » .' Non ostante tali importanti concessioni, la milizia paesana, specialmente nei primi tempi, non rispose, però, a tutte le speranze del Duca, i l quale se ne servì quasi sempre per la difesa territoriale e come riserva. Essa, infatti, secondo l'Ambasciatore veneto Barbaro, costituita « da gente poco atta alla guerra e poco capace della disciplina militare )) , non potè dar buona prova di fronte al nemico; tanto che, a guanto si afferma, nelle prime guerre sostenute da Carlo Emanuele I, bastarono un centinaio di archibugieri francesi a mettere io fuga 2000 uomini della milizia paesana e, nel 1592 -- come ricorda lo stesso Andrioli - le Bande paesane del Canavese, raccolte attorno a Vigone, vennero facilmente sorprese e sbaragliate. Occorreva dunque aument:ire l'efficienza delle milizie.- ed, :i tale scopo, il Duca emanò l' Ordine in forza di legge perpetua in data del 15 maggio 1594 e< concernente i privilegi, decreti e stabilim enti per la milizia paesana, con il comporto del nwnero delli soldati, quale ogni città, terra et luogo deve somministrare». Con tali disposizioni, infatti, « poichè molti dei descritti et arrolati nella milizia erano vecchi. infermi et inabili a sì lodevole esercizio, era più che mai necessario venfre ad una nuova scelta, ossia riforma generale, di detta milizia paesana >\ che il Duca desiderava tenere « in ottimo, perfetto stato ». Con tale Editto si dispose che tutti i sudditi « et abitanti in questi nostri Stati al di qua dai monti, abbi da portar armi dall'età deg-li anni r8 fino ai 60 (2ì, e che i cittadini -si facessero descrivere et arruolare entro quindici giorni dopo fatta la pubblicazione della legge ». ( 1)

al

Cfr.

A NDRIOLI :

<e Annali militari dei Reali di Casa Savoia dal

1000

1800 )) .

(2) Come abbiamo visto, Emanuele Filiberto aveva stabilito che l'obbligo al servizio militare durasse dai 18 ai 50 ann i. Carlo Emanuele I, più bisognoso di soldati per le sue guerre, aumentò la durata dell'obbligo stesso di ben dieci anni. ·


497 Per tale milizia generale era espressamente stabilito che i componenti di essa « non dovevano per alcun tempo partirsi dalle case loro; ma solo star pronti alla difesa » e non dovevano godere di privilegi oltre quello di portare la spada ed il pugnale, poichè - come doveva stabilire in seguito Maria Cristina -· « trattandosi di difesa dello Stato, in tempo di guerra aperta, ognuno doveva concorrere a far la sua parte».

La milizia scelta. Ma, ben consapevole del fatto che le milizie paesane non po· tevano essere efficacemente impiegate in guerre offensive - ed, infatti, Emanuele Filiberto le aveva istituite con scopi esclusivamente difensivi - Carlo Emanuele I doveva pensare all'istituzione di una speciale milizia, che potesse essere sempre disponibile cd, all'uopo, nello stesso Ordine in forza di legge perpetua del 15 maggio 1594 già citato (art. 5°), egli prescrisse che dalla milizia generale - basata, come s'è visto, sull'obbligo generale dei cittadini alle armi - se ne traesse un'altra, costituita di 8ooo Fanti cc scelti fra i più robusti et habili », la quale doveva considerarsi sempre armata e doveva essere sempre pronta « per m archiare in ogni occorrenza, dove li sarà ordinato ,1 . A rendere maggiore l'efficacia di tale provvedimento, Carlo Emanuele I fece una netta distinzione tra la milizia generale - i cui componenti venivano istruiti nelle diverse piazze d'armi, dovevano restare sempre « presso le loro case » ed erano obbligati a prestare servizio specialmente nel caso d 'invasione del territorio da parte del nemico; agli ordini dei Colonneili prÒvinciali - e la milizia scelta, la quale poteva essere mandata a combattere anche fuori dei confini dello Stato. Gli appartenenti alla milizia scelta avevano, quindi, un servizio molto più oneroso, al quale doveva corrispondere un maggiore compenso, ed, infatti, mentre, come si è detto, alla milizia generale fu lasciato l'unico privilegio di portare la spada ed il pugnale, per la milizia scelta, invece, non soltanto si rese più sicuro il godimento di tutti i privilegi già concessi da Emanuele Filiberto; ma si stabilirono altre notevoli concessioni. Gli 8ooo uomini della milizia scelta formarono cinque colonnel33


lati, ciascuno forte di circa 1600 uomini, costituiti com'erano da quattro compagnie di 400 uomini ciascuna. Anche queste milizie si dovevano riunire per le istruzioni in diverse epoche dell'anno. ed, a tale proposito, l'Andrioli afferma che « i colonnelli dovevano, in tempo di guerra, essere pronti alle mosse ad un cenno del generale, e riunirsi, in tempo di pace, per istruzione almeno due volte l'anno ; le insegne ogni trimestre, ed ogni mese le · squadre. I componenti la milizia scelta dovevano prestar servizio per q ui ndici anni, colla facoltà di farsi surrogare in caso di legittimo impedimento>). All'uopo i capitani dovevano sollecitare i Comuni (< a supplire a' mancanti nello spazio di dieci giorni ». 11 vantaggio di q_uesto nuovo ordinamento - assicura lo stesso autore - si fece immediatamente sentire ; tanto è vero che il Duca, raccolto un esercito di 13.000 Fanti e di 16 00 cavalli, lo destinò a riconquistare le piazze già occupate dai Francesi, mentre 4000 soldati scelti si segnalarono nell'assedio e nella riconquista di Bricherasio. Il castello resisteva tenacemente, quando 3 000 Francesi con 1000 cavalli giunsero a Bibiana allo scopo di por targli soccorso ; ma, visto il nemico e l'acca nimento degli assedianti, ripresero, senza combattere, la via delle A lpi. li castello di Bricherasio capitolò cd, in quella occasione, il Duca fece costruire, allo sbocco della valle di San Martino, la fortezza di Prélouis. La presa di Bricherasio, per i reparti di milizia scelta che vi parteciparono, dovette essere, senza dubbio, una prova assai onorevole; poich è lo stesso Carlo Em~nuele descriveva il borgo come formidabilmente fortificato << con bcllevardi di terra, sì ; ma provvisti talmente di legna grosse e di travi e di sacchi di terra, che non vi giova nè cannonate, nè zappe, et conviene consumarla a poco a poco et con tanto risigo che è troppo l>. Sembra, però, che tale prova abbia dimostrato, nelle milizie scelte, un'efficienza effimera ; poichè ben presto, per le continue guerre, si dovettero lamentare numerose diserzioni, tanto che Carlo Emanuel~ ritenne opportuno aumentare i privilegi già accordati, com'egli fece il 15 gennaio 1603 ed anche il 16 maggio 1610, allo scopo - come egli stesso ~crive nell'Editto di quest'ultima data - di <( rimettere in buono stato le milizie, le quali sia.mo informati essere molto in disordine ». Sembra, infatti, che molto avesse nociuto alla saldezza della milizia scelta. il fatto che, dopo i buoni servizi da essa prestati, il Duca, per dar prova a' Comuni della intiera sua fiducia, abban-


499 donò a' loro amministratori la scelta de' soldati di provincia . che, nel 1594, era stata ordinata col concorso di ufficiali delegati; condiscendenza, che mise in pericolo l'ins~ituzione: <( cotanto i rerroitori 5 :";> de' Comuni avevano, per mancanza di regole fisse, infetti i colonnellati di genti sconce, a malgrado che le nuovamente elette esser dovessero al veador generale appreseòtate, prima di venire scritte nei ruoli; ciò che la guerra, rotta poco dopo col Monferrato, fe' toccar con mano» (1).

A diminuire l'aggravio che derivava ai cittadini dalle guerre continue, nuove disposizioni vennero emanate da Carlo Emanuele nel 1618; anno, nd quale venne stabilito - secondo il Bragagnolo che ogni C,omune facesse un censimento dei capi-famiglia, i quali dovevano dare in nota i figli più atti alle armi, distribuendoli in tre gruppi, formati, in egual proporzione, di ricchi e di poveri, di artigiani e di proprietari. In tal maniera, quando uno dei gruppi fosse chiamato sotto le armi, il carico sarebbe equamente ripartito fra le varie classi sociali. Il Duca dispose, altrcsì, perchè si procedesse con tutto il rigore necessario contro coloro che non osservassero o non facessero osservare le sue disposizioni. Così i sindaci, che avessero omesso di trasmettere ai Governatori ed ai C,olonndli l'elenco completo dei capi-famiglia non nobili dei rispettivi Comuni, dovean venire condannati alla multa di 500 scudi d'oro; i padri di famiglia, qualora non avessero adempiuto all 'obbligo di dare in nota ai Colonnelli il loro figlio meglio atto al servizio militarè, alla pena di morte ed alla confisca dei beni. Se il figlio già designato non poteva prestar servizio, pcrchè infermo, dovevano provvedere gli stessi padd di famiglia a sostituirlo immediatamente con un altro. Tali severe disposizioni fecero aumentart , come era da prevedersi, il numero dei soldati in modo tale che, a non esaurire l'erario (2), Carlo Emanuele ,•enne indotto a stabilire che « triplice fosse il ~~(1) AN01uou, op. cit. (2) Questa ragione sembra più ri spondente alla realtà nel giustificare il provvedimento. Si trattava, in fondo, di un provvedimento simile a quello attuale della forza bilanciata rispetto al contingente di leva.


500

vero delle centurie, onde un solo terzo, durante la pace, militerebbe ogni mese; ed, affinchè gli obblighi gravassero egualmente su tutte le classi non nobili dello Stato, il Duca volle che ogni centuria fosse composta di un quarto di possidenti, di un quarto di borghesi e della metà di agricoltori, i quali ultimi costituivano la classe più numerosa>>, Il Duca dispose inoltre che, in tempo di pace, il servizio militare durasse un mese per ogni gruppo, o centuria, a turno, e che le compagnie fossero di 300 uomini, inquadrati da 3 ufficiali, 3 sergenti e 9 caporali. Non ostante tali disposizioni, avvenne che, nei momenti del pericolo, il Duca si trovò costretto alla mohilitazione generale. Durante tutte le guerre condotte da Carlo Emanuele [ con alterna vicenda le milizie veramente paesane, generali o scelte, vennero adoperate, però, insieme a truppe d'ordinanza mercenarie, senza dubbio meglio ~sercitate. Per raccogliere queste truppe, secondo l'esempio dei suoi antecessori, il Duca nominava Colonnelli, incaricandoli di arruolare, per conto suo, soldati anche di diversa nazionalità e di licenziarli appena terminata la necessità imposta dalle guerre. Nel 1618 si formarono i pr~i ,eggimenti d'ordinanza, costituiti da volontari piemontesi e savoiardi ed alcuni di essi, insieme ai Corpi d'ordinanza stranieri, vennero tenuti in servizio in permanenza (1). Il numero dei soldati permanenti aumentò poi gradatamente e, secondo l'occorrenza, anche le compagnie dei presidi, formate anch'esse con volontari mercenari, furono trasformate in compagnie mobili e vennero talvolta riunite in reggimenti. · Non vennero costituite Grandi Unità di guerra. Alcuni Corpi di Fanteria ebbero bandiere quadrate rosse con piccolo bordo azzur'ro e piccoli scudi di Savoia o croci di S. Maurizio. · Mentre la Cavalleria conservò, finchè fu _possibile, l'ordinamento (1) Negli anni seguenti sotto il Duca Carlo Emanuele II si aggiunsero, ai primi, altri reggimenti nazionali d'ordinanza; che furono: nel 1667 il reggimento di Crocebianca, soppresso nel 1710; nel 16-p. il reggimento di SaJuzzo; nel 1683 quello <lella Marina; nd 1687 quello di Chablais, sciolto nel 1704. L'anno 169<> tre dei suddetti reggimenti, quelli di Aosta, di Nizza e della Marina, vennero sciolti, mentre erano al servizio del Re di Francia. Nello stesso anno 16go si costitul un nuovo reggimento, detto dei Fucilien; nel 1691 _un altro reggimento d' ;tosta, sciolto nel 1704; e nel 1701 un reggimento Ni zza, detto poi la Marifla, e che fu sempre adibito a collaborare con la Ma rina da guerra.


501

feudale e venne poi costituita con truppe straniere e mercenarie, un grande sviluppo acquistò l'Artiglieria sotto Carlo Emanuele I. « I diversi rami òi questa milizia di Artiglieria - scrive, infatti, l'Andrioli - vennero in quattro classi distribuiti : di minatori, di artifizcri, di bombardieri e di cannonieri. I primi furono impiegati nello scavo delle miniere, gli altri divisi nelle piazze secondo i loro compiti. Carlo Emanuele I, nel 16o2, provvide anche perchè i metalli , estratti dalle miniere ed · adatti per fabbricar cannoni, venissero consegnati, mediante pagamento, al generale di Artiglieria ; prescrisse un:i ricognizione di tutte le piante idonee a fabbricar ruote e carretti e ne vietò il taglio senza licenza; volle assicurarsi il necessario cordame; nel 16o6 dettò parecchie disposizioni sulla fusione dc' cannoni, sulla formazione della polvere, delle corde, sulla costruzione degli affusti da cannone e sulla conservazione del legname. Circa gli alloggiammti ed i viveri, Carlo Emanuele dispose, nel 1622, che gli oneri relativi venissero più equamente di quanto avveniva nel passato ripartiti fra i Comuni. Il Piemonte venne, a tak scopo, suddiviso nei territori circostanti alle dodici città più importanti di allora: Torino, Susa, Pinerolo, Saluzzo, Sa vigliano, Cuneo, Mondovì, Ivrea, Biella, Vercelli, Chieri ed Asti e si stabilì d1e le.: milizie di ciascun territorio venissero alloggiate (secondo le disposizioni del 16o5, con una camera per due soldati) e vettovagliate collettivamente da tutti i Comuni esistenti nel territorio, i guali <Ìovevano contribuire, fornendo secondo le loro risorse pane, carne, vino, fieno ed avena, od in natura od in danaro, salvo ad ottenere il rimborso delle spese incontrate sull'importo delle imposte dovute all'erario.

Ma, oltre che con le imprese militari, Carlo E manuele I mirò a rendere la sua Casa .sempre più italiana, estendendone i domiru cd il prestigio nella Valle del Po----, mmc ben dimostrano i matrimoni delle figlie del Duca: Margherita ed Isabella, sposate rispettivamente ai Duchi di Mantova e di Modena - con il tenace, costante orientamento della sua politica; politica che, sebbene fatta più di impeti generosi che di accorgimenti sottili, indusse lo stesso Richelicu a riconoscere nelle sue <{ Memorie » di e< non aver.e mai conosciuto un ingegno più alto e più attivo di questo Principe ». C.Osì, nel 16o5, dopo aver sognato di guidare quasi una nuova Crociata a Cipro, in Macedonia ed in Albania e di 'divenire Re di


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Macedonia, egli pensò di riunire in lega contro gli stranieri tutti· gli Stati italiani del suo tempo e - mentre a Pietro Contarini, Ambasciatore della Repubblica Veneta a Torino, diceva : « Bisogna che c'intendiamo fra noi, perchè l'appoggio degli stranieri ci viene concesso soltanto per levarci quanto possediamo e per assoggettarci tutti più facilmente >> (1) - egli stesso dimostrava come, non ostante le temporanee alleanze, non si facesse alcuna illusione sugli effetti degli interventi stranieri nelle cose di Italia. « Il Francese - scriveva egli infatti - fieramente percuote ed opprime; lo Spagnolo studiosamente usurpa ed inganna; il Francese a forza leva il giubbone e pone in farsetto; lo Spagnolo con destrezza disveste e lascia nudo. Sì che, per conclusione, o sia l'uno o l'altro è da schivare come il canchero e da fuggire come la peste, essendo ambedue costoro egualmente contagiosi morbi per la povera Italia n. Nè, per quanto il suo ap pello fosse riuscito purtroppo vano, poichè il Papa, il Duca di Mantova, la Repubblica di Venezia non credettero di accogliere l'invito loro fatto per il bene della Patria comune, il Duca rinunziò ad attuare una così nobile speranza. Deciso, infatti, nel 1613, a non osservare i patti già stipulati a Milano per la questione del Monferrato (2) ed avuta dalla Spagna già mediatrice fra i Savoia cd i Gonzaga, per l'effimero accordo ~ l'intimazione di disarmare l'esercito entro sei giorni, Carlo Emanuele I, strappatasi dal petto l'insegna del Toson d'oro, scacciò da Torino l'Ambasciatore di Spagna e tentò nuovamente di riunire attorno a sè gli altri Principi italiani contro lo straniero. Delle generose illusioni del Duca di Savoia si rese allora, tra gli altri, eloquentissimo interprete il Tassoni, che, rivolgendosi agli Stati italiani del suo tempo, additò loro la necessità di liberarsi per sempre dalla sfruttatrice prepotenza degli Spagnoli. « Tu, Stato di Milano - scriveva allora l'Autore de La secchia rapita - tu, Regno di Napoli ; tu, Sicilia; tu, Stato ecclesiastico, come vi trovate? Esaminate una volta voi stessi e considerate la vostra distruzione ; avvertite come vi levano continuamente i vostri figliuoli e le vostre sostanze; (1) 8RAGAGNOt..o e 8Err11zz1: << Torino nella storia dd Piemonte e d'Italia)). (2) Il 18 giugno 1613 la questione del Monferrato era stata comPosta con un accordo, pel quale tanto i Savoia quanto i Gonzaga dovevano disarmare. l Gonzaga dovevano consegnare alla madre la principessa Maria e concedere il perdono ai sudditi ribelli. Carlo Emanuele I doveva restituire le terre del Monferrato già occupate.


e così va il Re di Spagna nutrendo col vostro sangue guerre ingiustissime ». Ma anche questa volta il tentativo del Duca di Savoia di far cessare - cc,me scriveva il Boccalini - - ogni passione di parte, di dimenticare le singole ambizioni ed i diversi interessi per u nire tutte le forze italiane contro l'oppressore straniero, non diede luogo ad alcun risultato; la generosa speranza fu vana, il fervore patriottico di Carlo Emanuele I, nel nome ddla dimenticata Patria comune, non suscitò proseliti ed egli si trovi) ancora solo contro gli Spagnoli. Tuttavia egli scriveva fieramente al figliuolo: « Noi ci andiamo apparecchiando ed accomodando ad ogni evento, perchè io non voglio essere schiavo di nessuno!>). E combattè, non senza gloria, alla Motta, a Crescentino, a Lucedio, mentre nel 1617 Vercelli - l'eroica città del 1859, la gloriosa madre delle sedici medaglie d'oro della prima guerra mondiale - resisteva tenacemente a 30.000 stranieri, in una gara di coraggio e 'di !.acrificio, alla quale partecipavano anche k donne. E, se la nuova guerra non procurò al Duca alcun ingrandimento di domini, egli si guadagnò - afferma l'alta voce di L udovico An ton io Muratori - « una singolare riputazione en tro e fuori J' Il,, li .•, per esSt:rsi fatto conoscere sì coraggioso in guerra e sì generoso conservatore della sua dignità, essendosi specialmente compiaciuti gli Italiani di trovare in questo Principe ch i non si voleva lasciare soperchiare dalla prepotenza spagnola 1>. Ma neppure l'aver cos1 affermata la sua Casa già pronta ad ogni impresa contro gli stranieri; neppure il maggiore ascendente cosl conseguito sugli altri Principi del suo tempo, bastò a far trionfare Carlo Emanuele I sulle particolari competizioni che dividevano e dovevano, purtroppo, ancora per tanti anni dividere gli Stati italiani ; e vano riuscì anche il terzo tentativo di unire tutte le nostre forze, fatto dal Duca nel 1626, dopo l'eroica difesa e la vittoria della Verrua ; q uando, opponendosi gli stranieri all'invasione della Lombard ia, mentre, come ricorda il Muratori, i Ministri di Spagna, di F rancia e della Repubblica Veneta intervenivano a T orino per sollecitarne l'amicizia, egli dovette allearsi alla Spagna contro la Francia, impegnandosi nella sua ultima guerra. Dopo la vittoria di Sampeyre (4 agosto 1628), l'effimera pace di Susa, la tenace difesa delle fortificazioni di Rivoli e di Avigliana, effettuata per sbarrare ai Francesi la via di Torino, il Duca, accorso in aiuto di Savigliano, vi morì, dopo una brevissima malattia, il 26


luglio 1630, lasciando al figliolo ammonimenti preziosi. e< Farà amministrare - scrisse infatti il Duca - .il mio successore retta e buona giustizia ugualmente per tutti. Sarà facile nell'ascoltare e lento nd credere. Sarà padre dei poveri e li soccorrerà nei loro bisogni largamente e prontamente. Sarà pio, misericordioso ed osservatore della sua parola )>.

Il regolamento per la milizia. Degna di speciale esame ci sembra, infine, l'ultima disposizione di carattere militare di Carlo Emanuele I, quale deve considerarsi l' « Ordine contenente 54 capi di regolamento per le milizie », emanato il 21 marzo 1630 e nel quale, secondo l'Andrioli, i soldati << ritrovarono quanto essi deggiono a Dio, al loro Sovrano ed a' loro commilitoni ». Infatti gli articoli 1 , 2, 3 si riferivano al rispetto dovuto alle cose sacre e gli articoli 4, 5, 12, 20, 26, 29, 30, 41, 46, 47 e 50 raccomandavano la disciplina e la pulizia nelle caserme e negl i alloggiamenti e prescrivevano ::he gli uffici:ili rimanessero fra i soldati dd proprio reparto. Veniva contemplata la pena di morte per chi adoperasse le armi al campo, nelle caserme e nei corpi di guardia, senza averne ricevuto l'ordine, c si proibivano, infine, il giuoco, le contese fra i soldati e l'alienazione degli oggetti dati loro in consegna. Gli articoli 8, 9, 10 e 2 1 riguardano, invece, l'arruolamento ed i congedi e vietano le assenze abusive; gli articoli 27, 42, 43 impongono la subordinazione ai superiori e l'obbligo di porgere soccorso e e di dimostrare rispetto anche agli ufficiali Commissari (nn. 22 e 25). Speciale interesse hanno le prescrizioni che si riferiscono al servizio (articoli 6, 7, 16, 17, 32, 38, 40, 44, 45 e 49), con le quali si prevede la pena di morte per ogni relazione col nemico, i clamori e l'abbandono del posto, anche se fatto col ·pretesto di andare a cercare le munizioni o <li soccorrere i feriti; e quelle con le quali si proibisce l'omicidio, l'incendio ed il saccheggio anche in territorio nemico (articoli 1 3, 1 4, 1 5, 1 8, 2 3, 2 4, 2 9, 31 , 33, 34, J7 e 48). Gli articoli 52 e 53 fanno obbligo agli ufficiali di consegnare all 'auditorato di guerra i delinquenti e l'articolo 54, infine, raccomanda di riferire sempre, con rapporti veridici e fedeli, sul contegno tenuto e sul valore dimostrato dai dipendenti, per le eventuali ricompense.


L'evoluzione delle milizie dal 1630 al 1675. Nel periodo di tempo (16.30 - 16ì5), durante il quale governarono successivamente Vittorio Amedeo I, Maria Cristina e Carlo Emanuele II, le milizie continuarono a vivere; ma non sempre a prosper:ire. Vittorio Amedeo I, con l'Editto in data del 16 settembre 1639, prescrisse che ogni comunità continuasse a provvedere uomini ; sia alla milizia ordinaria, sia alla milizia scelta, sia anche al rinforzo da fornire all'ordinanza. L'Andrioli, nell'opera già più volte citata, scrive in proposito che « avendo fatto compilare un esatto annoveramento da commessari, inviati nelle provincie))' Vittorio Amedeo - dopo aver riordinato ed aumentata la Cavalleria -- prescrisse che tutti gli abitanti non ancor giunti ai sessant'anni, eccettuatane ]a nobiltà, fossero iscritti nella milizia generale, la quale fu ordinata in insegne di 400 soldati, divise in 8 squadre di 50 uomini. Dalla milizia generale furono scelti 8ooo uomini, che furono divisi in compagnie di 200 soldati: 8o armati di archibugio, 40 di moschetto, 40 di picche. All'uopo vennero incaricati gli armaiuoli delle provincie di fornire le armi ai soldati ad un prc,:zo stabilito. Anche Vittorio Amedeo I dedicò molti provvedimenti a favore dell'Artiglieria ed aveva perfino progettato di fondare una Scuola. principale nd càstello di Momegliano e nella cittadella di Torino, per l'istruzione degli Artiglieri. Il Duca abolì le troppo numerose insegne già esistenti per compagnia e le concesse soltanto ai reggimenti. Secondo quanto scrisse il Generale Brancaccio, nella sua pregevole opera e< L'Esercito del vecchio Piemonte >), sotto Vittorio Amedeo I ed i suoi successori, la Fanteria fu divisa in: - Fanteria d'ordinanza nazionale; - Fanteria presidiaria; - Fanteria della milizia"scelta ed ordinaria; -'- Fanteria straniera. La Fanteria presidiaria cessò di esistere dmante il regno di Carlo Emanuele II.

La fanteria d'ordinanza nazionale. Durante il regno di Vittorio Amedeo I, il numero dei reggi· menti di Fanteria d'ordinanza · nazionale fu piccolo, perchè il paese, esausto da un lungo periodo di guerre, non forniva più il necessario


506 contributo di uomini volontari e perchè i pochi reggimenti che erano in armi vennero alimentati da leve fatte nel paese. A rinforzare l'esercito piemontese servirono i reggimenti di milizia scelta; ma, ciò malgrado, il D uca non avrebbe potuto sopportare il peso della guerra, ove non fosse state; appoggiato dalle numerose truppe dei suoi alleati. Dopo la sua morte furono organizzati nuovi reggimenti di Piemontesi e di Savoiardi ed è molto probabile che, a causa delle diffi. t:oltà di reclutamento, cresciute per la guerra civile, questi reggimenti siano stat i formati da contingenti della milizia e da soldati di leva, appositamente scelti. (< Non è possibile ~ dice il Brancaccio esporre con sufficiente esattezza i mutamenti organici che, in questo burrascoso periodo, subirono tutti questi reparti. Molti documenti sono andati smarriti e regnò grande confusione negli organi amministrativi; infatti, terminata la guerra civile, anche coloro che avevano seguito i Principi pretesero le paghe dall'ufficio del soldo e non è nemmeno raro il caso che, durante la guerra, i Principi stessi mandassero a quell'ufficio ordini di pagamento per alcune loro truppe. <, li reggimento ebbe prima da 6 a 17 compagnie, poi da 2 0 a 25, e si stabilì, in quelli di S. A., uno stato maggiore, 11 quale consisteva negli aiutan ti (1), nel sergente maggiore, nel cappellano, nel prevosto ed in un certo numero di arcieri. Nel 1643 fu licenziata una gran parte degli alfieri e non avvenne <li poi alcun altro notevole cam~ biamento nell'organico dei reparti. Diminuì soltanto, dopo il 166o, la forza dei reggimenti, che furono resi più leggieri, riducendosi tutti ad avere in media 10 compagnie)).

La fanteria presidiaria. Durante il regno di Vittorio A·medeo I, l'organico dei reparti addetti ai presidt era stato molto diminuito, essendosi attinto ad essi per rinforzare le truppe d'ordinanza. Allo scoppiare della guerra civile le truppe presidiarie, che si supponevano propendere per i Principi, vennero licenziate e si diede incarico ai governatori delle piazze di formare i reggimenti per la custodia di queste; fu per altro stabilito che i nuovi reggimenti non avrebbero avuto carattere sedentario ; ma che sarebbero stati adoperati anche in operazioni campali. ( 1) Q uesti aiutanti furono poi detti aitttanti maggiori e garzoni maggiori.


Questi reggimenti presidiari vennero licenziati al termine della guerra civile; salvo alcuni dei presidi più importanti o non sufficientemente sicuri. Rimasero così ai governatori alcune compagnie, le quali furono dette appunto compagnie dei governatori e non differirono dai reparti presidiari precedenti, se non nel fatto che erano -considerate truppe mobili. Quando poi Carlo Emanuele II assunse il governo, il numero delle fortezze presidiate era stato diminuito di moito, e poco numerose erano quindi le compagnie dei governatori, meno in alcune fortezze; c_ome Demonte, Bard, in cui ve n'erano parecchie riunite in reggimento; nella cittadella di Torino nella quale era poi un presidio speciale, formato da due compagnie piemontesi e da due savoiarde. Il numero di queste compagnie andò quindi man mano diminuendo sino al 166o, anno in cui tutte quelle rimaste vennero incorporate nei reggimenti d'ordinanza. Il servizio e la custodia delle fortezze fu da quell'anno affidata ai reggimenti che vi venivano dislocati, pur cambiando frequentemente di sede. Nel 1668 vennero di nuovo temporaneamente formate compa_gnie presidiaric, destinate ai forti di N izza e di Villafranca.

La milizia ordinaria e scelta. Per la milizia, secondo quanto dice il Brancaccio, presso ogni Comune si formarono quattro squadre di milizia ordinaria, che non dovevano rimanere a1lc armi più di 100 giorni, ed una di milizia .scelta, le cui squadre prestavano, invece, servizio per un tempo indeterminato ; talora per un anno continuo. Il contingente destinato all'ordinanza era tenuto disponibile nella quantità prescritta per ogni -COmune, mentre i dispensati da ogni servizio erano obbligati a fornire ognuoo un moschetto ed, una bandoliera. Nel 1638 venne disposto che gli uomini della milizia scelta. invece di rimanere alle armi per un anno, non fossero trattenuti in servizio più di quindici giorni ; però, in caso di invasione dello Stato, sia. la milizia scelta che quella ordinaria, dovevano servire per tempo indeterminato. Non ostante queste prescrizioni, nel 1639 si rese necessario un nuovo censimento degli abili alle armi e venne considerevolmente


508 ridotto il numero degli individui esenti dal servizio per privilegi. Nel 1644 tale censimento venne rinnovato ; ma non si potè, a quanto pare, giungere a risultati concreti, perchè nel 1647, chiamati alle armi i reggimenti di milizia scelta, ben pochi furono gli ufficiali e i solàatì che si presentarono. Si provvide, perciò, nel 1647, con un nuovo censimento, ad una nuova suddivisione dei colonnellati; furono scelti buoni ufficiali, nominati con patenti ducali, e gli uomini per la milizia scelta vennero designati da appositi delegati. Tutti gli altri, nessuno eccettuato, furono assegnati alla milizia ordinaria e divisi in quattro squadre per ogni Comune. Ma, contemporaneamente a queste buone disposizioni, la Duchessa Reggente, per le strettezze finanziarie, ne diede altre contraddittorie, concedendo l'esenzione dal servizio nella milizia, sì scelta che ordinaria, a coloro che pagassero una somma tra i 6 ed i 25 ducatoni; in tal modo si allontanarono probabilmente dall'esercito gli elementi migliori. La milizia scel ta fu adoperata spesse volte nelle operazioni di guerra; ma gli organici seguitarono a non essere mai al completo, :mche all'inizia del duc:!to d:. C:ir!c Emanuele II, per i numerosi abusi che si verificavano nel reclutamento, abusi lamentati in un Ordine del 12 marzo 1649 (1). A rimediare a questi inconvenienti, fu prescritto che il reclutamento degli uomini per la milizia scelta non venisse più fatto sui registri alfabetici della milizia generale; ma che invece fosse fissato per ogni comunità un contingente, che i sindaci dovevano avere cura di tenere al completo. Gli uomini destinati a questo contingente dovevano essere di età fra i 16 ed i 55 anni, armati e pagati dalle comunità, ed avevano l'obbligo di servire per 40 giorni consecutivi. Per pagarli, le comunità furono autorizzate a porre una tassa personale su tutti coloro che erano esenti d;ll servizio militare. , Da queste disposizioni non si ebbero i buoni risultati che se ne erano attesi, poichè gli ufficiali stessi della milizia mercanteggiavano (1) L'Ordine dd 12 marzo 1649 cominciava: « Essendo noi pienamente informati che... non si sono potute levare le milizie scelte ... perchè, quando si è comandata la levata della predetta miliz.ia, si sono ritrovati li rolli pieni di sindaci, consiglieri e segretari di comunità, preti, frati, morti, soldati delle nostre guardie e soldati già descritti nella nostra fanteria e cavalleria... ». V. DueoIN : " Raccolta leggi e decreti ll, XXVIII, 855.


coi soldati, esentandoli dal serv1z10 mediante compenso e riscotendone le paghe, come se essi fossero presenti; sicchè le compagnie rimanevano sempre piccole. Tutti i provvedimenti emanati per riparare, con disposizioni di controllo, a tale .inconvenient.e, risultarono vani, come risultò inutile anche l'espediente di diminuire di un terzo il contingente stabilito per ogni Comune. Si dovette quindi pensare ad una trasformazione più radicale, la quale diede luogo alla costituzione del battaglione di Piemonte, costituzione promossa con l'Editto del 15 luglio 1662 ed effettuata coi migliori elementi della milizia scelta e, soprattutto, coi volontari presentatisi in grande numero. Però anche il battaglione di Piemonte, adoperato per la prima volta nella campagna del 1662, non diede molto buona prova, anche perchè i volontari chiamati in servizio per la guerra non si presentarono colla stessa affluenza colla quale s'erano iscritti. A malgrado dei provvedimenti ricordati più sopra, le milizie paesane, una volta condotte fuori del.la rispettiva regione, non dimostrarono tutta la necessaria efficienza, tanto che i Duchi di Savoia dovettero continuare ad affidare le sorti del loro Stato alle F anterie svizzere o tedesche o francesi nelle successive guerre che si svolsero nel periodo preso in esame. Tali guerre furono: - quella per la successione di Mantova, già iniziata da Carlo Emanuele I; - quella contro la Spag na e l'Austria, iniziatasi nel 1635 e finita nel 1659 colla pace dei Pirenei; - le operazioni contro i Valdesi ; - le operazioni contro i Turchi ; -" la guerra contro Genova.


VIII.

LE ISTITUZIONI MILITARI DI CARLO EMANUELE Il Il vero ordinatore della Fanteria nazionale in Piemonte fu Carlo Emanuele II che, nel 1664, portò a 6 il numero dei reggimenti. Essi ebbero, si può dire per là prima volta, una .fisionomia propria, oltrechè un'impronta prettamente nazionale - essendo stati esclusi, poco alla volta, tutti gli stranieri - e presero nome, non più dai loro comandanti, ma da una provincia dello Stato. L 'istituzione di questi reggimenti nazionali d'ordinanza permanenti fu voluta dai Duca anche per ragioni economiche. I reggimenti, in ordine d'anzianità, furono, sotto Carlo Emanudc II, i seguenti : - reggimento di Savoia, - reggimento delle Guardie, ·- reggimento di Aosta, - reggimento di Monferrato, - reggimento di Piemonte, - reggimento di Nizza. Quest'ultimo ebbe vita breve e fu soppresso insieme ad altri due, nel 169<>, da Vittorio Amedeo II, succeduto sei anni prima alla madre, Duchessa Maria Giovanna; ma, nel 1701 , le probabilità di guerra costrinsero il Duca ad ordinare una chiamata straordinaria, in seguito alla quale - con l'Ordine del 16 aprile di detto anno - veniva stabilita la costituzione di un altro reggimento d'ordinanza. Questo, analogamente a quello disciolto nel 16go, doveva essere formato dal contingente della Contea di Nizza e del Principato di Oneglia ed assumere il nome di Nizza. Il reggimento << Nizza }> fu formato dapprima da 6 a 17 e, più tardi, da 2 0 a 25 compagnie, ciascuna delle quali ebbe forza variabile da 40 a 50 uomini. Lo stato maggiore del reggimento era costituito


da aiutanti, da un sergente maggiore, un cappellano, un prevosto (1) e da un certo numero di arcieri. Le compagnie avevano ciascuna un proprio comandante, il cui grado variava tra quello di capitano e quello di colonnello. Colonnello comandante il reggimento era precisamente il comandante la compagnia detta colonnella, che aveva forza e prestigio maggiore delle aJtre. T ale ufficiale, per assumere il comando del reggimento - e ciò avveniva in caso di guerra, o comunque, quando tutte le compagnie erano riunite - lasciava il comando della sua compagnia al luogotenente. Nel 1685, per rendere più spedita ed efficace l'azione di comando, fu istituita l'unità battaglione. Il I bat taglione era costituito di 10 compagnie. Nel 1664 il reggimento era, come tutti gli altri dell'epoca, armato per due terz i di mosch etti e, per un terzo, di picche. Nel 1685 vennero istituiù i granatieri, soldati scelti per speciali compiti che richiedevano particolare arditezza e che vennero poi riuniti in una compagnia. Nel 1672 tutti i reggimenti furono armati di m oschetti, forniti della baionetta, dapprima a manico pitno, cht: veniva infilata ndb canna e che ordinariamente era portata appesa al cinturino, accanto alla spada; più tardi, nel 1702, venne distribuita la baionetta a ghiera. Ogni soldato era armato anche di spada. Gli ufficiali avevano una spada ed uno spuntone, cioè un'asta munita d'una punta di ferroa sezione triangolare. Quasi a conferire ai diversi reggimenti di Fanteria una propria. caratteristica anche esteriore, Carlo Emanuele II fece distribuire, nel 1664, ai suoi soldati un vestito uniforme, con distintivi diversi per ciascun reggimento. Nel 1664 l'uniforme fu la seguente: un giustacorpo azzurro a lunghe falde, foderato di panno rosso, pantaloni corti rossi con calzette bianche lunghe sino al ginocchio, un cappello di feltro a larga tesa, rinforzato internamente da una croce di ferro. Sul giustacorpo i soldati armati di moschetto portavano una bandoliera, alla quale erano appese le cariche della polvere, già pronte dentro bossoli di legno coperti di pelle; avevano inoltre la scarselletta per le pallottole, (1) Il prevosto era colui che aveva l'cbbligo di vigilare sui delitti e, a mezzodei suoi arc:eri ed aguzzini, di infliggere le pene. Aveva grado e nome di. sergente prevosto.


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il fiaschino a polverino per l'innesco e la miccia. Gli ufficiali vestivano un'uniforme analoga a quella della truppa, con speciali distintivi, coccarde e bottoni. . Ogni compagnia aveva una sua bandiera fregiata dalla croce di Savoia. La bandiera della compagnia colonnella, denominata comunemente « la colonnella », era più ricca delle altre. Con il sorgere del battaglione, non già nel senso attribuito a questa denominazione dal Machiavelli; ma come reparto del reg._gimento, le bandiere delle compagnie, non ostante il malcontento delle truppe, troppo legate alle tradizioni, vennero soppresse e, durante la reggenza di Maria Giovanna, scomparvero definitivamente. Una bandiera \'~nne invece data a ciascun

battaglione con i colori ed i distintivi del rispettivo reggimento. Circa i successivi mutamenti del nome dato ai diversi reggimenti, i contemporanei ---, osserva il Guernon compresero rini l'importanza della riforma, Moschettiere piemontese. per la quale, quando, ad esempio, il reggimento de Challant div~nnc reggimento Aosta, non s~ trattò di un semplice cambiamento di nome ; ma cli una solenne affermazione dell'autorità ducale. Quando il Duca potè dire, non più il « reggimento del signor di Challant >l, ma il « Nostro reggimento di Aosta» riuscì a tutti manifesto che i reggimenti, che prima erano proprietà dei colonnelli, diventavano proprietà del Principe. Quantunque il Duca, nello stabilire il provvedimento, avesse detto semplicemente: « Abbiamo risolto di fare una piccola riforma nelle Fanterie », egli aveva in realtà gettato le basi di quella che do-


veva essere, circa due secoli dopo, la Fanteria dell'Italia riunita in nazione. Costantino Salvi, in un articolo pubblicato nel I934 sulla Rit1ista di Fanteria (1), in occasione della ricorrenza del terzo centenario della nascita di Carlo Emanuele II, ben a ragione definì questo Duca come il creatore della nostra Fanteria; e ciò, non solo perchè, avendone fondato i primi reggimenti, egli meritò che gli venisse riconosciuta tale benemerenza, ma specialmente perchè le Fanterie sabaude rappresentavano finalmente il popolo. Infatti esse non erano più imbastardite dalla presenza di soldati stranieri; ma i reggimenti erano costituiti soltanto con elementi nazionali rigorosamente scelti e portavano i nomi di regioni o di città sabaude, nomi che ad essi ormai conferivano un carattere nazionale.

Secondo quanto scrissero gli Ambasciatori veneti nelle loro « Relazioni », Carlo Emanuele II .volle che le Unità militari non s'infiacchissero nell'ozio delle guarnigioni; ma si addestrassero continu;imente e si preparassero ai pericoli ddla guerra; e perciò fu ben lido di poter mandare i suoi soldati alla difesa di Candia, assalita dai Turchi. Essi si comportarono con tale spirito di disciplina e con tale valore, da meritare gli elogi dei Veneziani. 11 Duca riformò ànche la milizia paesana, della quale costit11ì 12 reggimenti, obbligando j Comuni a provvedere delle armi necessarie tanto i soldati ordinari, quanto quelli scelti; si dedicò all' Artiglieria, aumentando il numero dei cannonieri e promovendo l'industria delle polveri e dei proiettili; ristabilì la scuola dei bombardieri e prepose al materiale da guerra un provveditore o sovraintendente generale. · Appunto per migliorare le sue artiglierie, il Principe chiamò a Torino il bavarese Bartolomeo Robilat, ì1 veneziano Sigismondo Alberghetti ed il francese Simone Bucheron, valenti fonditori ; nonchè il napoletano Mario Paulelli, il quale, secondo Edoardo Maria Scotti, in un giorno era capace di fondere qualsivoglia pezzo d'artiglieria e costruiva armature atte a resistere ai colpi di moschetto. Si attribuisce a Carlo Emanuele II la fondazione dell'Arsenale di Torino. (1) Cfr. CosTANTINO Su.vi: t< Carlo Emanuele II di Savoia e l'origine della Fanteria italiana » in Rivùta di Fanteria, anno I, fascicolo nn. 8 e 9, 1934.

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A tutte le milizie il Duca volle aumentare lo stipendio, che allora si dava sotto tre titoli: come prestito al soldato, come mantenimento e come deconto per l'acquisto dell'uniforme. Egli ordinò, inoltre, che i comandanti visitassero frequen~emente le caserme, che le promozioni si facessero per anzianità o per merito e che l'esercito venisse posto sotto gli ordini di un Commissario generale. Seguendo 1'esempio dei suoi predecessori, anche Carlo Emanuele II incoraggiò, con gare, con premi e con privilegi, il tiro a segno, affinchè tutti i cittadini si addestrassero al maneggio delle armi da fuoco e si preparassero alla difesa del paese.

primi reggimenti di fanteria . lL REGGIMENTO « SAVOIA >). - Non ci sembra privo d'interesse un rapidissimo esame della storia dei reggimenti costituiti da Carlo Emanuele II, a cominciare dal reggimento dì Fanteria « Savoia», sdoppiatosi poi in una brigata, il cui nome fu mutato nel 1860, quando, insieme a Nizza, la Savoia fu ceduta alla Francia . Forc:!ato prim a di soli Sa,\c;Ìardi, il rcgt.un.:nto Poi accolse nelle sue file i Valdesi di Pragelato e di San Martino ed, infine, i soldati d'ogni località del Piemonte; ed ebbe reparti che ricevevano gli ordini in lingua italiana e ripetevano nei loro canti il famoso distico del trovatore cavaliere Beroldo : Saint Maurice et Bonne Nouvelle Dieu soit en aide aux bons soldats! Lo storico grido A rdì ezfans, grepenne! (« aggruppatevi » !) risuonò a Staffarda contro il Catinat, alla difesa di Vercelli contro il Vendome, ed a quella di Cuneo. All'assedio di Torino, nel 1706, la brigata, dopo ventiquattro sortite, viene ri.d otta a soli 576 superstiti; alla difesa di Siracusa, dodici anni dopo, le compagnie della brigata resistono un'intera giornata al fuoco, quasi digiune; al combattimento di Camposanto il colonnello de Vargas col suo eroismo risuscita in proprio onore la leggenda cinquecentesca di quel Jehan d'Yvoire au bras dc fer che, con cinquanta uomini, riuscì a tenerne in iscacco sedicimila ; l'anno dopo, alla battaglia dell'Olmo, il soldato Guillot toglie una bandiera al nemico; tre anni più tardi, alla battagli: dell'.Assietta, le rosse cravatte savoiarde si coprono di sang ue e d1 glona, come faranno nelle guerre del Risorgimento e nella


515 prima guerra mondiale i primi due reggimenti della Fanteria italiana, alle cui bandiere vennero conferite complessivamente, oltre alla. Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia, quattro medaglie d'argento e tre di bronzo al valor militare. Nel passato si discusse a lungo circa la priorità della costituzione fra il reggimento delle Guardie (oggi Granatieri) e quello di Savoia, per il fatto che al primo, come reggimento dì Fanteria speciale, era stato assegnato il primo posto di anzianità nel riordinamento dcli' esercito fatto da Carlo Emanuele II nel r664; ma, in realtà, la costituzione del reggimento « Savoia » precedette quella del reggimento Guardie. « Sull'argomento - - scrisse giustamente il generale Guerrini nell'opera: t, La brigata Granatieri di Sardegna>>- si possono e si debbono avere per certe queste due cose: che il reggimento di Savoia è sicuramente pit1 antico del nostre delle Guardie e che invece il reggimento della Guardia è più antico di quello di Savoia come reggimento di ordinanza nazionale ». Del resto simili distinzioni e discussioni debbono considerarsi perfettamente inutili, trattandosi di antichi Corpi che, guardie o reggimenti di linea, combatterono tutti nelle stesse guerre, sui medesimi campi di battaglia, affratellati nel compiere gli stessi doveri, nel correre gli stessi pericoli. Le glorie del vecchio reggimento Savoia vennero, infatti, riconosciute con l'Editto del 5 dicembre 1699, col quale Vittorio Amedeo II, in premio della devozione sempre dimostrata da quel reggimento, determinò: << Après quinze ans de services, les soldats du Régiment de Savoie congédiés, outre qu'ils auront été avancés suivant leur mérite, auront le droit de porter l'épée toute leur vie, avec l'habit du régiment •). , La stona del reggimento Savoia e della brigata Re, da esso derivata, si confuse poi sempre con quella del Piemonte e dell'Italia. Nella difesa di Vercelli, fatta nel 1704 da 13 battaglioni e 600 Cavalieri del Piemonte contro 75 battaglioni e 59 squadroni francesi, e nella quale, non ostante la inettitudine e forse la poca fede dei più alti Capi, fu ammirevole la tenacia e l'eroismo dei difensori, la parte più gloriosa della resistenza dovette attribuirsi al reggimento Savoia. Ed, infatti, dopo la resa, Vittorio Amedeo II doveva scrivere: « Ai comandanti è mancato l'animo di contendere vigorosamente le mura di Vercelli al nemico; ma non è mancato alle truppe per gagliardamente bagnarle col loro sangue; specialmente hanno fatto buona


5r6 prova gli ufficiali ed i gregari del reggimento di Savoia, ai quali va dunque il primo onore )). Lo stesso Guerrini, nel ricordare la resistenza di Vercelli, scrisse: « Il ricordo dell'assedio di Vercelli non è alle nostre Guardie inglorioso; ma, dovunque se ne parli, esse debbono tirarsi indietro e lasciare il primo posto ai fratelli del reggimento Savoia» (1). E, dopo Vercelli, la Verrua, la difesa di Chivasso, quella di Torino assediata, gli eroismi di Cesana, l'assedio di Fenestrelle, e così di seguito, .in tutte le guerre combattute dal Piemonte, il reggimento di Savoia non costituì una particolare eccezione, poichè tutti i reggimenti della Fanteria d'ordinao~ nazionale poterono vantare, con giustificato orgoglio, le stesse vir.::ù militari. IL REGGIMENTO « PrnMONTE ,, - scrisse il Caffardli (2) - parte~ cipò al primo fatto d'armi nel 1658, allorchè gli ufficiali ed i gregari dell'allora Colonnellato, che tuttora portava il nome del suo fondatore e comandante, Conte Catalano Alfieri, ~i lanciarono nei fossati di Trino e, sotto il fuoco della moschetteria nemica, con l'acqua sino alla vita, sprovvisti di acconci strumenti, a forza di braccia abbatterono la palizzata della difesa, la superarono e con impetuoso assalto restituirono al Duca di Savoia quella importante fortezza, della quale sei anni prima, di sorpresa, si erano impadroniti gli Spagnoli, già padroni del Milanese. Per questo così brillante .inizio e per le alte virtù militari del suo comandante, il reggimento divenne uno dei più stimati; e, nel 1670, venne prescelto da Carlo Emanuele II fra quelli per la guerra di Candia; nel 1672 era ancora al comando del Conte Catalano Alfieri che, con 3000 Fanti e 1000 cavalli, doveva impossessarsi della riviera ligure di ponente; nel 1691 fu condotto personalmente da Vittorio Amedeo II all'assalto contro i Francesi, che saccheggiavano Rivoli e che furono messi in fuga. Così, dopo quasi mezzo . secolo dalla prima impresa di Trino, quando nessuno dei vecchi eroi di quelle giornate si trovava più nelle sue file, il reggimento serbava fede alle sue tradizioni di valore, alle · <{Uali erano stati educati i nuovi, più giovani soldati. E la tradizione rappresentò una forza, non soltanto pel reggimento considerato come Unità costituita; ma anche per le virtù in( 1) GuERRINl: «

(2) CAFFARELLI:

La brigata Granatieri di Sardegna ». « Le tradizioni delle Fanterie di linea >>.


517 dividuali ; forza che si manifestò in molte circostanze e, ad esempio, nel 1703, nella guerra contro la Spagna, quando, essendo stato il 1< Piemonte » accerchiato da forze molto superiori e fatto prigioniero, gran parte dei suoi ufficiali e delle truppe, sfuggiti alla prigionia, raggiunsero il Duca di Savoia che accorreva a liberare i suoi e, sotto il comando del colonnello di Blagnac, ricostituirono il reggimento, subito pronto a nuovi rischi ed a nuovi ardimenti. Anche trent'anni dopo, nel 1733, alcuni soldati del « Piemonte », trascinati dall'esempio del granatiere Tirone, si lanciarono contro gli Austriaci, salvando il Duca Carlo Emanuele III che, spintosi ~n ricogni1.ione col Marchese de Villars, era stato accerchiato dal nerruco. IL ReGGIMENTO « AosTA >>. -- Dopo avere ricordato, sia pure sommariamente, i reggimenti « Savoia » e « Piemonte ,,, bisognerebbe in gran parte ripetersi per parlare degii altri, per quanto riguarda questo antico periodo di vita della Fanteria di linea piemontese. Anche il reggimento (, Aosta >), acl esempio, contribuì con fedeltà ed onore alle fortune dcì Piemonte. · . Costituito ex not10 col nome di Fucilieri di S. A. per orJine di Vittorio Amedeo II, da Gaspare Filiberto Costa, Conte della Trinità, nd febbraio del 16go, non ancora completo, poichè mancava della compagnia Granatieri, scoppiata nel giugno la guerra tra il Duca di Savoia ed il Re di Francia, partecipò prima alle picéole azioni attorno al campo della Ghisola e, nell 'agosto, ricevette il battesimo del fuoco a Staffarda, dove combattè con grande valore ed offrì il primo sangue versato sotto la bandiera di « Aosta la vecchia i>. Gli storici della brigata Aosta (1), trattando di quel tempo, così dicono: <1 Il reggimento F~cilieri prese parte alle guerre combattute dal principio del secolo, a cominciare da queiie per la successione di Sp:igna. Tra le dodici campagne susseguitesi dal 1701 in poi, poteva segnare e rammentare con orgoglio la parte presa nella difesa di Ivrea , che ritardò di un anno l'assedio di Torino, ed impedì per parecchio tempo la chiusura del cerchio che gli eserciti francesi andavano gradatamente serrando contro la Capitale del Piemonte. Tra gli episodi onde fu ricco l'assedio di Torino, il reggimento Fucilieri poteva vantarsi di avere lasciata gloriosa traccia di sè pel valore dimostrato (1) FABRls e ZANELLl: (<

Storia della brigata Aosta ».


518 nelle quotidiane scaramucce, combattute tra le estreme linee degli approcci nemici e gli spalti della fortezza e per la saldezza dimostrata durante le lunghe peripezie cui per quattro mesi fu sottoposto. I Fucilieri non smentirono mai la loro costanza, la loro calma tenacia: le situazioni ed i ruoli fanno testimonianza della fermezza con èui affrontarono le fatiche di quelle campagne ». Ed, a giustificare e confermare questo giudizio, se altro non vi fosse, potrebbe bastare la magnifica condotta del reggimento alla battaglia di Parma, il 29 giugno del 1734 e, nel luglio seguente, a Guastalla. Ma vi è, invece, molt'altro: vi sono le battaglie di Casteldelfino, di Nizza e di Villafranca ; le difese di Cuneo e di Asti; e poi Acqui e Valenza e Savona e Nizza; vi sono, insomma, nella sua storia, tutte le guerre aile quali partecipò il Piemonte nel secolo XVIII .

IL REGGIMENTO cc MoNFEFRATO » fu, cronologicamente, il più anziano di tutti, poichè, derivato dal reggimento Savoiardo de Cheynex, risaliva al 1619 ed era l'unico superstite dei reggimenti creati da Carlo Emanuele I nel 1615. Esso iniziò la sua splendida storia nella guerra contro Spagna e Genova nel 1625 - 26 e· la proseguì partecipando a tutte le altre lotte Jd fortunoso periodo, tanto che nelie sue vicende ricorrono i nomi più gloriosi della Storia militare sabauda. Il reggimento si distinse, infatti, a Nava (nd 1672), dove strappò al nemico la prima bandiera; nella guerra contro la Francia, dal 169o al 16<;7, a Villars sul Pellice, dove fece prigioniero un battaglione nemico ; alla difesa della rocca di Cavour, a Staffarda, a Bricherasio, ad Avigliana, dove catturò al nemico una seconda bandiera, nell'invasione del Delfinato, al Forte di S. Brigida, nell'investimento di Pinerolo, a Marsaglia (1693), a Casale (16g5), a Vicenza (16~. Poi partecipò alla guerra per la successione di Spagna, dal 1701 al 1713, e combattè a Luzzara, a Chiomonte, a Vercelli, ad Ivrea, a Bard ; partecipò alla difesa di Chivasso e di Torino ed all'assedio di Tolone, per combattere ancora ad Exilles, a Fenestrelle e durante l'invasione della Savoia. Il << Monferrato n passò poi nove anni in Sicilia, con Vittorio Amedeo II, in guerra contro la Spagna e le popolazioni insorte, e difese valorosamente Trapani. Quindi prese parte anche alla guerra per la successione in Polonia ed alla battaglia di Parma tolse agli Austriaci ben cinque bandiere ed a quella di Guastalla ne conquistò ancora un'altra. Dopo quattro anni di pace, ecco altri sei anni di sacrifizi e di lotte per la guerra di successione di Austria e quindi,


dopo quasi mezzo secolo, la bufera della rivoluzione francese, con tutte le sue vicende e le sue battaglie, durante le quali i soldati del « Monferrato » furono sempre tra quelli che conseguirono un maggior numero di m edaglie al valore militare, allora istituite da Vittorio Amedeo li!. IL REGGIMF.NTO << SALuzzo » debuttò a Staffarda, agli ordini diretti del Duca di Savoia che, raccolti, assieme a questo, il reggimento della Guardia e quello di Mondovì (quest'ultimo ebbe vita brevissima, dal 1690 al 1~)4), irruppe contro l'ala sinistra nemica. Poi il « Saluzzo » partecipò con gli altri reggimenti a tutte le guerre del Piemonte. Nel 1705, nella difesa del Castello di Parma, contrastando al nemico il terreno a palmo a palmo, un battaglione del reggimento fu quasi interamente distrutto; l'anno dopo, nel 17o6, alla difesa di Torino, il « Saluzzo >> si distinse con audaci sortite e fece parte delle truppe che, uscite da Porta Palazzo, attaccarono il fianco nemico, nella battaglia decisiva del 7 settembre, con la quale i Francesi furono costretti a ripassare le Alpi; quindi si battè a Parma ed a Guastalla, dove, secondo i sobri rapporti del tempo, dimostrò molto valore. Nel 1744, alla battaglia della lviadonna <lell'Olmo, i soldati del reggimento sostennero l'impeto delle soverchianti forze nemiche e, dùrante la rivoluzione francese, al Colle di Perus, riuscirono a sbarrare la strada ai Francesi minaccianti Saorgio ; a Tuek assaltarono il campo nemico, a T olone parteciparono a.ll'assalto del Forte di Faraone e si distinsero ancora a Pontferrand ed alla Thuile. IL REGGIMENTO '< Cumo )), derivato da quello di Nizza, dal 1714 in poi, col nome di reggimento cc La Marina », partecipò alle operazioni dell"Armata navale, con la principale attribuzio ne di fornire alie navi i reparti da imbarco. Ciò non impedì, però, che un ~uo battaglione di 10 compag nie partecipasse valorosamente alla guerra per la successione rii Polonia, acq uistando rino manza nella tenace resistenza al Ponte della Secchia e nella d ifesa di G uastalla. Prese parte, in seguito, anche alla guerra per la successio ne d'Austria, durante la quale, il suo I battaglione, a D roglin, tenne testa sul ponte a ben sei attacchi nemici, contrattaccando poi con tale violenza, da sbaragliare il nemico e da catturargli un ben fornito deposito di munizioni. Il reggimento si distinse ancora alla Madonna dell'Olmo, nelle battaglie dei tempi della rivoluzione francese, durante la quale, a Mof)tiers (1793), il valore del << Cuneo » fu riconosciuto ed elogiato


5 20 anche dal nemico, e nella difesa di Tolone, dove il granatiere Marciandi meritò una speciale « menzione », -più tardi commutata in medaglia d'oro al valor militare.

IL REGGJMENTO ii ALESSANDRIA ». - Più ricca è la storia del reggimento di Alessandria, tratto dall'antico reggimento Des Partes, den~ minato poi successivamente, per il mutare dei comandanti, Audibert (1739), Monfort (1746), De Sury (1769), Chablais (1774) dal nome del Duca di Chiablese, fratello del Re Vittorio Amedeo III. Costituito verso la fine del 1703, alla metà dell'anno seguente esso iniziò la sua vita di guerra, combattendo, con molto valore e forti perdite, alla Verrua e nella difesa di Vercelli, per distinguersi poi aìla Perosa, a Chivasso ed a Torino, dove difese strenuamente un 'opera della cittadella contro il violento attacco effettuato dai Francesi il 4 agosto; nonchè. in una sortita tentata pochi giorni dopo. E' molto interessante - scrisse ancora il Caffarelli (1) - ricostruire alcuni itinerari percorsi da questo reggimento, come si rileva dalla pregevole << Storia della brigata Acqui >), del generale Brancaccio, per farsi un'idea delle fatiche alle quali venivano allora sottoposte le Fanterie saballde e ricordare, ad esempio, quello che il reggimento « Alessandria H, al comando dell'Audibert, dovette percorrere nel 1742, primo anno della guerra per la successione d'Austria. li reggimento Audibert - scrisse il Brancaccio - partl nel marzo con le truppe destinate in Emilia. Fu a Parma, a Forlì, a Cesena, ove, a metà dì agosto, ~stò e poi riprese la via del ritorno con l'esercito che Carlo Emanuele III conduceva in Savoia. Fece parte della colonna che, comandata dal generale d' Aulembourg, da Val Susa passò il Moncenisio per fronteggiare il colle della V anoise, serpeggiò fra le creste, ridiscese in val Mariana a St. Jcan e giunse finalmente a Montmeillan. Due mesi di marce! Rimase col Corpo d'investimento a Montmeillan .... Dopo circa due mesi, il 28 dicembre, riprese la marcia verso il Piemonte con la retroguardia che proteggeva la . ritirata del1'esercito piemontese. Così 11 reggimento aveva raggiunto, in pochi mesi, dal Piemonte l'Adriatico e dall'Adriatico la Mariana. Per i suoi bravi soldati le distanze non esistevano ed i passaggi delle Alpi erano all'ordine del giorno in tutte le stagioni. Nel 1743, formando brigata con il reggimento delle Guardie, lo « Alessandria )> prese parte alla battaglia di Casteldelfino. Nel lu(1) Cfr. CAFFARELI.I, op. cit.


521 glio del 1744, ancora in brigata con le Guardie, combattè a Pietralunga, subendo così forti perdite, che dovette essere ritirato a Saluzzo per riordinarsi. Non appena riordinato, formò brigata col reggi· mento di Saluzzo e si trovò alla Madonna dell 'Olmo dove, combattendo accanitamente, perdette un terzo della sua forza e dovette esscre nuovamente ritirato a Fossano, per ricostituirsi. 11 30 settembre del 1793, nel tentativo di sbarrare la via ai Francesi eh~ tentavano di sboccare dal Nizzardo, una sola compagnia del reggimento ebbe un vivace combattimento durato l'intera notte contro le forze di un intero reggimento francese. Le stesse date - 1742, 1743, 1744 - e quasi tutte le battaglie già ricordate - Casteldelfino, Montalbano, Villafranca, Madonna dell'Olmo, Authion - si potrebbero ripetere anche per ia storia del reggimento <1 La Regina ».

Giunti a questo punto della nostra Storia, dobbiamo fare una breve digressione per tornare a mettere in rilievo la speciale importanza òelle Fanterie pie1uvll,cl.i, le .:ui tr.1dizicr;;. venncrn trasmesse a quelle del nostro esercito. Abbiamo già visto come, riprendendo e perfezionando il concetto per il quale, nel 1618, Cado E manuele I aveva costituito i primi reggimenti di Fanteria d'ordinanza nazionale, alcuni piemontesi, altri savoiardi, vissuti di vita intermittente ed in numero vario, Carlo Emanuele II diede, nel 1664, un primo ordinamento stabile alla Fanteria piemontese, detta Fanteria d 'ordinanza di S. A. e composta, come si è detto più sopra, di 6 reggimenti, i cui nomi vennero poi tramandati '. alle più gloriose brigate dell'esercito italiano. A questi reggimenti altri se ne aggiunsero poi a mano a mano che ricuperi o nupvi acquisti di territorio, o anche semplici necessità di guerra, lo imposero. Nel 1680, coì nome <li reggimento di Saluzzo di S. A., diveniva d'ordinanza il reggimento savoiardo creato otto anni prima dal Marchese Lullin de Genève e, successivamente, passato in proprietà dd Marchese Bagnasco (1676) e del Conte Masi no (1678). Nel 16go nasceva il reggimento Fucilieri di S. A ., cui, più tardi, nel 1774, nell'intento di dargli, come agli altri reggimenti, un nome regionale, fu attribuita la denominazione di Aosta, facendolo per tal modo erede della tradizione del più antico r eggimento u Aosta li , che nel 1705 era stato completamente distrutto alla Verrua.


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Seguirono poi : - nel 1701, un reggimento << Nizza » che, per la sua partico-lare destinazione a servizio dell'armata navale, nel 1714, assunse il nome di reggimento << La Marina », nome che mantenne sino al periodo napoleonico, per poi assumere quello di reggimento di Cuneo, quando, nel 1814, fu ricostituito: - nel 1794 il reggimento di Alessandria, derivazione diretta del reggimento Des Portes, fondato nel 1703 e costituito interamente di stranieri - in maggioranza francesi - sino al 1752, allorchè, unico fra i reggimenti sabaudi, fu autorizzato anche all'arruolamento dì Italiani non sudditi di Casa Savoia ; - nel 1814, all'atto della ricostituzione dell'esercito del Piemonte, prese nome di reggimento <( Regina », un reggimento, discendente dal battaglione << La Reine », fondato nel 1734, su 10 compagnie, dal Conte Cacherano di Bricherasio - il futuro eroe del1' Assietta - per ordine di Carlo Emanuele III ; - ed infine, sul principio del 1814, da due battaglioni di linea genovesi, nasceva l 'ultimo di questi vecchi reggimenti d'ordinanza: il reggimento ,< Genova n . Nello stesso anno 1815 (in previsione dello sdoppiamento previsto in caso di guerra, sdoppiamento che pochi anni dopo, nel 1831, fu adottato permanentemente), tutti i reggimenti di Fanteria di linea, pur conservando la loro costituzione ed i l(?ro nomi, assumevano la . denominazione di brigate. Non tutti quei vecchi Corpi del Piemonte - scrisse Egisto Caffarelli ( 1) - che abbiamo s_in qui ricordati, giunsero sino . a quel tempo e furono quindi :i. noi trasmessi; e, di quelli che a noi giunsero, non nttti ci vennero coi loro antichi nomi e coi primitivi posti di anzianità. Facendo astrazione da quelli delle ~uardie - ai quali è dedicato il volume VI di quest'opera - solo i reggimenti di Savoia (che molto più tardi ebbero il nome di Re) e quelli di Piemonte e di Cuneo sono pervenuti a noi, per diretta e non mai interrotta discendenza, eccet~ tuati gli anni del dominio francese in Piemonte, sino alla fine dell'Impero di Napoleone~ durante i quali l'ordinamento militare piemontese subì un'inevitabile crisi. Degli altri vecchi reggimenti, il più vecchio « Aosta>> (che aveva avuto origine dal reggimento « Sen~ntes », creato nel 1638 con ele(1)

Cfr.

CAF FARELLI ,

op. cit.


menti francesi e divenuto totalmente savoiardo nel 1648) scompariva, come già si è accennato, nel 1705, per essere stato completa mente distrutto nella ridotta di Ognissanti, alla Verrua, nella guerra contro la Francia. Sessantasei scli anni _di vita, dei quali quarantuno come reggimento nazionale d'ordinanza, druante i quali, in ben ventisette anni di guerra, dovette sicuramente guadagnarsi ottima rinomanza, se, a circa settant'anni dalla sua scomparsa, il suo nome, e quindi anche la sua tradizione, furono assegnati ad un altro pit1 giovane reggimento, il reggimento Fucilieri di S. A. R., dal qu ;ilc doveva poi derivare la brigata « Aosta ». Quindici anni prima dell' cc Aosta JJ , nel 1690, era già scomparso il reggimento di Nizza - il reggimento fondato da Don Felice <li Savoia nel 1643 _:_ che, trovandosi in Francia quando il Piemonte ruppe la pace con Luigi XIV, venne dichiarato prigioniero e disciolto. I reggimenti delle brigate « Monferrato », <( Saluzzo », <e Alessandria » e (< Genova », avendo partecipato ai moti liberali del 1821, f urono disciolti dal Re Carlo Felice ; ma, pochi mesi dopo, le brigate vennero ricostituite con nuovi nomi e con gli elementi della « Monferrato » si costituì la brigata <e Casale )); con quelli della H Saluzzo >1 si costituì la (C Pinerolo »; da <-tuelli <lella « Genova " venne la brigat;; « Savoia » e dall \< Alessandria 1i la brigata « Acqui >l .


IX.

LE GUERRE E LE RIFORME MILITARI DI VITTORIO AMEDEO Il Vittorio Amedeo 11 fu, senza dubbio, uno dei Principi più importanti della Casa Sabauda ed ebbe un carattere fermo cd energico, come richiedeva la dèlicata situazione del Piemonte; carattere che, insieme all'intelligenza ed all'intuito politico, gli permise di superare ogni difficoltà, di conquistare al suo Stato quei sicuri confini che posero in sua mano_, come egli stesso diceva - le chiavi di casa, con quella campagna contro la Francia del 1708, che viene anche ora reputata un mirabile esempio dì guerra di montagna, e di ottenere, infine, dopo la lunga lotta per la successione di Spagna, la corona regaìe.

Molte ed accanite furono le guerre sostenute da questo Duca, il quale, come quasi tutti i suoi predecessori, rivolse al suo esercito Je sue cure costanti e, spinto dalla necessità, si servì più volte della milizia per rifornire di uomini i suoi reggimenti d'ordinanza ed ebbe, in ogni occasione, dai suoi sudditi le prove più eloquenti della loro fedeltà .

La guerra della Lega di Augusta. La pace di Westfalia aveva conclusò, nel 1648, Ja guerra dei trent'anni e procurato all'Europa quasi un mezzo secolo di pace; ma il principio dell'equilibrio europeo non poteva impedire che la Francia del Richelieu, del Re Sole, del Mazzarino divenisse sempre più forte, patente e prepotente, così da determinarne la Lega, detta appunto di Augmta, nella quale l'Inghilterra, la Svezia e l'Olanda si allearono con l'Impero contro la Francia per una guerra preventiva, che ne abbassasse il prestigio e ne limitasse le ambizioni. Le opera· zioni della guerra della Lega di Augusta si svolsero tra il 169a ed il 1697 ed alla lotta contro la Francia partecipò anche il Ducato di Sa-


voia, temendo i rischi della neutralità e desideroso di ingrandirsi e di ottenere più sicuri confini. Ne conseguì -per il Ducato una lunga e terribil_e · lotta, dalla quale esso uscì, a Riswich, con un aumentato prestigio fra gli altri Stati italiani, perchè, secondo quanto scrisse Cesare Balbo « ... in questo trattato, uno dei più belli firmati da Casa Savoia, Vittorio Amedeo II fece da arbitro d'Italia )).

Vittorù, A.medec, Il .

Avrebbe potuto Casa Savoia firmare nel 1698, dopo essere stata sull'orlo dell'estrema rovina, un cosl vantaggioso trattato di pace, se le truppe d'ordinanza, le milizie, i Valdesi, i cittadini di Cuneo e di Montmèlian, i sudditi di tutto il Ducato non si fossero uniti in un sol fa.scio di Fanti intorno al Capo dello Stato? Dopo avere iniziato in Piemonte la guerra civile dei Valdesi, e mentre le migliori truppe piemontesi servivano nell'esercito francese


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delle Fiandre, Luigi XJV invadeva gli Stati del Duca di Savoia e, trattandolo come un vassallo ribelle, ordinava alle proprie truppe di ripetere in Piemonte gli eccidii che avevano desolato il Pal.atinato e di ridurre ad un deserto le sue fertili pianure. Esposto, quasi inerme, alle barbarie di un nemico, che l'orgoglio del vecchio Re e l'implacabile durezza del marchese di Louvois riducevano a tale stato di ferocia, da far ritornare col pensiero alle invasioni barbariche, Vittorio Amedeo fece appello alla fedeltà del suo popolo, invitando la milizia delle provincie non ancora occupate dal nemico a radunarsi al più presto nei dintorni di Saluzzo. In breve, sotto gli occhi dell'esercito francese e con grande sua meraviglia, 30.000 uomini si trovarono schierati sotto la bandiera di Savoia e, con queste forze, sorte quasi per incanto, Vittorio Amedeo lottò per tre anni con varia fortuna contro le vecchie truppe del Catinat. Il 17 agosto 16yo le truppe mobili di Vittorio Amedeo Il, rinforzate da truppe imperiali, condotte dal Principe Eugenio di Savoia, lasciati i loro trinceramenti del Sangone, di .Moncalieri e del Po, muovevano contro i Francesi, i quali puntavano su Saluzzo per passarvi il Po e proseguire, per la destra del fiume, su Casale e Milano.

Narra, in proposito, il Bragagnolo che, quando, per ordine di Luigi XIV, desideroso di punire Vittorio Amedeo - che stava per stringere lega con la Spagna, l'Olanda, la Svezia, l'Impero e l'Inghilterra contro la Francia - il Louvois mandò nel Delfinato 18.000 uomini, fingendo di inviarli contro i Valdesi ; ma col vero scopo di provocare il Duca di Savoia, cd il Catinat, comandante le truppe francesi, dopo avere fatte altre imposizioni, occupò Orbassano e chiese che venisse permessa ai Francesi l'occupazione del Forte della Verrua e della Cittadella di Torino, il Duca ben comprese come fosse venuta l'occasione di emanciparsi ad ogni costo dall'influenza francese. « Da molto tempo i Francesi mi trattano come vassal!o - disse Vittorio Amedeo - ma è venuto il tempo di mostrarmi loro Principe libero ed onorato ». Egli, però, dovette fingere di cedere alle richieste francesi e seppe così accortamente destreggiarsi che, quando il Rebenac, oratore del Re a Torino, gli presentò l'ultimatum col quale si domandavano le due piazze, il Duca aveva potuto già mettersi in condizioni di resistere.


Un giorno - narra il Bragagnolo - (e fu in questa circostanza che venne dimostrata l'energia del carattere e l'abilità politica di Vittorio Amedeo, inesauribile nel cercar ripieghi e provvedimenti efficaci, a stornar pericoli cd a vincere diffico1tà) - dopo avere cercato tutti i modi possibili per indurre i Francesi a più miti pretese - il Duca aveva raccolto attorno a lui tutti i maggiorenti di Torino ed aveva rivolto loro queste memorabili parole : « La Francia è irremovibile nelle sue pretese ; non ho tralasciato, nè trascurato alcun espediente per risolvere pacificamente iJ dissidio; ma nulla ho potuto ottenere. Sono, perciò) risoluto a tutelare il mio buon diritto colle armi. Gli eserciti alleati vengono in mio soccorso; ma, più che sulla loro forza, io faccio assegnamento sul valore e sulla devozione della mia .nobiltà e del mio popolo >> . In Italia non mancarono le approvazioni per l'atteggiamento di Vittorio Amedeo 11. Il Papa - che aveva avuto una grave questione col Re di Francia, che. voleva conservare il diritto di asilo - incitò il Duca alla lotta, ed il popolo romano celebrò con pubbliche dimostrazioni la fierezza del Principe .sabaudo ed il rappresentante del Ducato a Roma scriveva a Torino che << dopo la liberazione di Vienna, non si era mai vista a Roma un'allegrez2.3 simile" · Come si diffuse pel Piemonte la notizia della deliberazione dd Duca, immensa fu l'esultanza del popolo; il clero offrì spontaneamente al Sovrano gli ori e gli argenti delle chiese per provvedere alle urgenti necessità della guerra e l'entusiasmo patriottico giunse a tal segno, che si dovettero togliere le armi a quanti non erano soldati, per tema che non si facesse un nuovo vespro siciliano. Le milizie, chiamate alle armi, occuparono tosto la collina ed i luoghi dominanti Torino ; quindi, il 3 di giugno, secondo le norme diplomatich.: consuete, si intimò la guerra alla Francia, mentre i diplomatici piemontesi si mettevano in cammino verso l'Aia e Vienna, perchè si accogliesse nella Lega d'Augusta anche lo Stato sabaudo. Frattanto 8.000 Fanti e 2.000 cavaili spagnoli raggiungevano le rive della Dora; mentre il Principe Eugenio, precedendo le truppe imperiali, accorreva a Torino. Iniziate le ostilità, il Maresciallo Caùnal, con tutte le sue forze, parve gettarsi sulla Capitale, dove 1' Ambasciatore francese Rebenac macchinava, con alcuni congiurati, di appiccare il fuoco in diversi quartieri, per impadronirsi di sorpresa della Cittadella; ma la tr2ma fu scoperta ed egli stesso arrestato e condotto prigioniero ad Ivrea.


Il Catinat aveva ricevuto l'ordine dì condurre la guerra con estrema ferocia: « Distruggere, distruggere e ben distruggere » così che

innumerevoli furono le vittime, le devastazioni e le rovine. « Se le furie infernali - scrisse il "Botta --, fossero uscite dagli abissi con le fiaccole ad incendiare il Piemonte, non vi avrebbero fatto più guasto che i soldati di Catinat vi facevano. Fumavano incenerite le terre, fumavano i casolari sparsi, la violenza si mescolava coll'insulto, la libidine con la rapina e chi non era presto ad obbedire, pagava la renitenza col sangue 1> . Vittorio Amedeo avrebbe voluto attaccare subito il nemico; ma il Principe Eugenio consigliò di temporeggiare e di stancare l'avversario, non volendo ancora affidare alle sorti di una battaglia la for-. tuna ddl'impresa. I Francesi, intanto, avevano stretto d'assedio Cavour che, poco fortificata, venne presa poco dopo e dove tutti gli abitanti, senza riguardo nè a età, nè a sesso, vennero uccisi. Di là il Catinat si volse contro Villafranca di Piemonte, dove aveva posto i suoi alloggiamenti Vittorio Amedeo, il quale, di fronte a tante rovine, lasciatosi tram.! in inganno da uno stratagemma nemico, conlro il parere degli altri generali, si indusse ad accettar battaglia vicino l'Abbadia di Staffarda ( 18 agosto 169<>). In questa battaglia l'esercito collegato ebbe 4.000 morti, 1.200 prigionieri, 1 .500 feriti; perdè II cannoni e varie bandiere: mentre i Francesi ebbero soltanto un migliaio di uomini fuori combattimento. Doveva in questa battaglia - conclude il Bragagnolo - Vittorio Amedeo sperimentare a sue spese che la prudenza, a volte, è da stimarsi più dei generosi ardimenti e che spesso il valore non basta a riparare gli errori commessi.

Tuttavia, nonostante la sconfitta, la ritirata degli alleati non fu disastrosa, perchè strenuamente protetta dal Principe Eugenio e dal Conte di Verrua. Passato il Po a Morretta, per Carmagnola e Carignano, i Piemontesi andarono a fermarsi a Moncalieri. Intanto Saluzzo, Fossano, Saviglìano e molte altre terre cadevano nelle mani dei Francesi, che yj portavano il saccheggio, l'incendio e la rovina. E' facile immaginare più che descrivere lo sbigottimento, che invase il Piemonte a notizie così dolorose; ma il Principe ebbe coscienza della grave responsabilità del momento e mise in opera tutto


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53I il suo accorgimento per rimediare a tanti mali. 11 suo contegno fermo e risoluto rianimò le popolazioni sfiduciate, specialmente quando ingrossò l'esercito coi reggimenti provinciali e chiese aiuto di denaro e vettovaglie ai Comuni e ai nobili, dei quali temperò ed abolì alcuni privilegi a sollievo del popolo. Venivano, nello stesso tempo, richiamati tre reggimenti che Vittorio Amedeo aveva inviato nelle Fiandre. e che il Re di Francia aveva disciolto, in seguito alla rottura diplomatica col Piemonte. Tutti ottimi provvedimenti, questi, che non valsero, però, a cambiar la sorte della guerra. I Francesi, infatti, s'impadronirono di Susa (13 novembre 169a), quindi occuparono gran parte della Savoia, tranne la fortezza di M ontmèlian. Magro compenso a queste disfatte fu la ripresa di Avigliana. Così la prima campagna non era stata favorevole alle armi piemontesi. Conveniva perciò, al rinnovarsi delle operazioni, procurarsi maggiori forze e trovare nuo vi mezzi di offesa. Fu radunato, a questo intento, un Congresso del!e Potenze collegate ali' Aia, e quivi fu stabilito di mettere sul piede di guerra un esercito di 200.000 soldati e di concedere all'Imperatore i mezzi per assoldare un Corpo di truppe da mandare in aiuto di Vittorio Amedeo, non stimandosi suffi<.:ientc rinforzo quello costituito da 5 battaglioni di Ugonotti, emigrati in Francia e stipendiati dall' Inghilterra. La guerra continuò anche negli anni seguenti. Sulle Al pi, il Catinat comprC":se che l'annientamento delle forze sahaude costituiva una condizione essenziale per ogni ulteriore progresso nell'Italia settentrionale e perseguì il suo scopo con molta fermezza. Nel 1691 Cuneo venne assediata ancora una volta da 9.000 uomini, comandati dai generali Bullonde e Feuquières. Quest'ultimo, anzi, ritenendo di potere impadronirsi facilmente della città, tentò di prenderla d'assalto, prima ancora di aver completato i lavori di approccio, attaccandone, all'alba del 2 giugno, le difese fra la Stura ed il Gesso; ma l'attacco fallì completamente per l'cnt:r~Ì<.:a 1caz.ione del presidio e dei cittadini e si concluse per i Francesi coJla perdita cli 8oo uomini. I lavori di approccio vennero allora ripresi ; ma tale era stata l'impressione dello scacco iniziale, che, il giorno 27, bastò la falsa notizia dell'imminente arrivo del Principe Eugenio di Savoia e di un Corpo di Cavalleria in soccorso della piazza, per gettare il panico fra gli assedianti e per fare abbaodonaie, nella notte sul 28 luglio, l'assedio di Cuneo. I Francesi, si ritirarono nel massimo disordine, ab-


53 2 bandonando molti materiali, un pezzo d'artiglieria e 400 feriti; rags giunsero poi il grosso dell'esercito a Villastellone, molestati lungo la _ marcia dagli abitanti, che ne uccisero oltre 300.

Nel 1t½)3, dovendo la Francia compiere il massimo sforzo sul Reno e nelle Fiandre, il Catinat ebbe l'ordine di rimanere in Italia ~ulla difensiva e si propose di impedire agli alleati di prendere Susa e Pinerolo. In conseguenza di ciò la campagna del 1i>93 ebbe due fasi. Nella prima l'esercito francese tenne un atteggiamento difensivo, chiuso in quella specie di campo trincerato che si stendeva dal Rocciamelone al Monginevra e che veniva a finire in piano tra Avigliana e Bricherasio. Nella seconda fase gli alleati, dopo aver a lungo discusso, riunirono le loro forze e si decisero per un'azione a fondo, volta a separare il Catinat da Pinerolo, per ricacciarlo nel cuore delle Alpi. Essi avanzarono, infatti, lìn sotto le mura di Pinerolo, ma non poterono espugnarla per la mancanza delle artiglierie, che dovevano giung~rc da T0riiì0. Dd dta1dv approfittò il Catinat, che fece eseguire una dimostrazione verso valle Stura da Barcellonette. Vittorio Amedeo II, preoccupato da tale mossa, credette opportuno inviare verso le locali tà minacciate 2000 uomini, al comando del Marchese Parella, ìl quale occupò San Damiano in Val Maira, pronto a manovrare per il Colle del Mulo verso Valle Stura; ma, eseguita la dimostrazione, il Catinat passò decisamente alla controffensiva, che si concluse felicemente per lui colla battaglia della Marsaglia. Il 4 ottobre Il>93 si trovarono, infatti, di fronte, nei trinceramenti di Moncalieri - Po: il Cati nat con 44 battaglioni, 80 squadroni e 30 cannoni; gli Austro - Piemontesi, condotti dal Principe Eugenio e da Vittorio Amedeo II, con 39 battaglioni, 79 squadroni e 31 cannoni. Il Duca di Savoia, schierato ii suo esercito su_due linee, aveva la sinistra al torrente Chisola, all'altezza di Piossasco, la destra alla boscaglia di Orbassano - Beinasco, al centro si trovava il Principe Eugenio. Il Catinat schierò le sue forze su tre linee, col concetto di esercitare lo sforzo principale con la propria destra per l'avvolgimento dell'ala sinistra alleata, previa occupazione di Piossasco. La manovra del Catinat riuscì perchè Piossasco, rimasta sgombra, facilitò l'avvolgimento della sinistra degli Austro -Piemontesi;


La difesa dcll,i Verrna.



53 5

i Francesi avanzarono su tutta la fronte, non ostante il terreno rotto ; ma gli Alleati, che non si erano trincerati e che avevano dovuto rinforzare d'urgenza la loro sinistra (quando Piossasco venne occupata dai Francesi), non disponevano di una riserva adeguata. Minacciato di avvolgimento, Vittorio Amedeo II decise allora la ritirata su Moncalieri. I Francesi, però, sia per le necessità urgenti degli altri fronti eurnpei, sia per la stagione inoltrata, non poterono sfruttare il successo e nel dicembre ripassarono le Alpi, verso i quartieri d'inverno. A Staffarda ed alla Marsaglia gli Austro - Piemontesi erano stati battuti; ma i Francesi non erano riusciti a passare, la Lombardia non era stata invasa ed il Ducato di Savoia era rimasto libero, per quanto in precarie condizioni, poichè la sconfitta toccata alla Marsaglia, dove l'esercito aveva perduto non meno di 9 o 10.000 uomini, aveva ridotto per la seconda volta il Piemonte all'estremo. Vittorio Amedeo II ricorse allora ad una nuova chiamata generale della milizia e gli uomini di essa accorsero nuovamente da ogni parte al campo del Duca, che si era ridotto a Moncalieri con gli avanzi delle sue truppe. In pochi giorni i Piemontesi si trovarono nuovamente in grado di far fronte al nemico, il quale non raccolse altro frutto dalla vittoria che la soddisfazione di incendiare pochi villaggi indifesi.

La guerra per la successmne di Spagna. Quando, durante il conflitto per la successione di Spagna, Vittorio Amedeo II potè rispondere fieramente alle proposte umilianti del nemico, ripetendo le parole di Pompeo: « Batterò la terra col piede e ne usciranno eserciti di combattenti ))' la guerra contro la Francia veniva ripresa nel 1704, dando luogo ad epi sodi g loriosi, come la difesa di Vercelli (1704) nella quale riful sero, come abbiamo già accennato, il valore e la disciplina del reggimento Fanteria di Savoia e come la difesa della Verrua, nella quale il presidio piemontese agli ordini del colonnello F resen resistette per due mesi agli attacchi delle truppe francesi che l'assediavano. La Verrua si arrese il 9 aprile 1705, quando ogni risorsa era or· mai esaurita ed alle truppe, lacere e spossate dalla lunga fatica, mancavano perfino i viveri.


l1 colonnello Fresen aveva iniziato le trattative per la resa il 6 aprile, ma il Vendome, comandante le truppe assedianti, aveva imposto la resa a discrezione ed il Fresen aveva sdegnosamente risposto, che, tra il combattere fino all'ultimo uomo ed il cadere in prigionia, il presidio sceglieva il primo partito. Nella notte sul 7 aprile il Fresen fece consumare contro le opere degli assedianti tutte le munizioni delle quali il presidio ancora disponeva e quindi offrì al Vendome nuovamente la resa, chiedendo che le truppe del presidio venissero lasciate in libertà. Il Vcndòme rifiutò ed allora il Frescn, raccolte le poche truppe superstiti nel maschio dell 'antico castcilo, ordinò ai minatori di far scoppiare tutte le mine già approntate nelle difese esterne, facendo saltare in aria la triplice cintura di mura e di bastioni deirabitato. . Pronti a difendere fino all'ultimo il maschio della fortezza, i difensori minacciarono a ncora i Francesi nelle giornate del 7 e dell'8 aprile e, d.igiuni da più giorni, finalmente si arresero la mattina del 9. La difesa della Verrua dimostrò ancora una volta la saldezza delle truppe piemontesi. In essa si distinsero i Fanti del reggimento di Alessandria.

Un altro glorioso episodio della campagna del 1705 fu anche la <lifesa di Chivasso e più ancora la tenace resistenza e la liberazione, dopo il lungo assedio, di Torino nel 1707. Nell'attesa dei soccorsi condotti dal Principe Eugenio, la città venne eroicamente difesa dalle milizie cittadine, che vennero ordinate dal Daun in otto battaglioni ed in un reggimento di milizie suburbane. Tali milizie insieme alie truppe regolari, nel respingere i ripetuti assalti dei Francesi, si comportarono molto bene. A dimostrare la partecipazione dei soldati al desiderio di difendere T orino) basterà ricordare una lettera, colla quale il Daun assicurava Vittorio Amedeo che (( ufficiali e soldati non avrebbero po.tuta condursi meglio >> e basta, soprattutto, l'eroico contegno di Pietro Micca, soldato minatore che, col sacrifizio della vita - come dice l'epigrafe a hii consacrata dal Parlamento italiano - fece salva là Patria. Torino, mediante l'interve~to delle truppe imperiali accorse al comando del Principe Eugenio, potè essere liberata e cos~ anche il popolo torinese potè trovare degno compenso alla sua eroica resistenza.


L'eroico sac1"1/iz10 di Pietro M, ,ca.



539 Nella difesa di Torino si distinsero i reggimenti di Fanteria « Aosta >J, u Monferrato ,i, <, Saluzzo )J, « Alessandria »; nonchè i battaglioni di milizia paesana che fu possibile costituire nella città per resistere ali' assedio. La campagna del 1707, concludendosi con la battaglia della liberazione di Torino, fu particolarmente gloriosa per le Fanterie piemontesi. L'anno seguente le truppe di Vittorio Amedeo II svolsero quella mirabile campagna del 1708 sulle Alpi che servì a conferire ai confini del Piemonte la necessaria sicurezza. Se le guerre sabaude furono, in generale, guerre di montagna e di alta montagna, per le quali i Fanti d'ordinanza e provinciali erano particolarmente idonei, la campagna di Vittorio Amedeo II del 1708 sulle Alpi Occidentali resta ancora un insuperabile esempio del come si debbano condurre operazioni di guerra manovrata in alta montagna; ardita trama di mosse e contro-mosse celerissime su per i collì della Vanoise, di Rho, di Chavière, del Galibier, delle Finestre e lungo le valli della Mariana, della Tarantasia, della Dora Riparia e del Chisone. L'averla condotta vittoriosamente rappresentò un successo p<>litico e militare di inestimabile irnpartanza pcrchè chiuse finalmente agli stranieri le porte del Piemonte, per essersi potuto portare ovunque il corso del confine franco - piemontese sul crinale alpino; successo dovuto, oltre che alla genialità del Capo, alle instancabili Fanterie piemontesi, che salirono ai colli e scesero lungo le valli, tacite e gagliarde, come non seppero fare i Fanti francesi agli ordini del Maresciallo de Villars. Tale forza e composizione furono, per ragioni ovvie, intimamente legate con le riforme militari di Vittorio Amedeo II ; riforme che permisero a questu Duca, destinato a conseguire la corona regia, di .poter disporre, in pace ed in guerra, di una salda Fanteria di ordinanza e di buone milizie nazionali o paesane.

Queste, in sintesi, le guerre combattute dai Savoiardi e dai Piemontesi sotto Vittorio Amedeo II. Ma, oltre ::i ricordarne le gesta, a noi occorre prendere in esame 1e forze militari che tali gesta compirono e cioè a dire la forza e la composizione dell'esercito sabaudo nel periodo preso in esame.


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La battaglia di Torino.

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Truppe d'ordinanza. Alla fine del secolo XVII l'esercito piemontese era così costituito: FANTERIA:

IO reggimenti nazionali: Guardie, Savoia, Aosta, Monferrato, Piemonte, Croce Bianca, Saluzzo, Chiablese, Fucilieri, Nizza; 2 reggimenti stranieri : Schulenburg (tedesco) e Reding (svizzero) . . Lo stato maggiore del reggimento era costituito dal colonnello, dal maggiore, dall'aiutante maggiore, dal garzon maggiore, dal cirugìco, dal cappellano e da un numero vario di arcieri ; più tardi si aggiunsero anche sei falegnami per battaglione. L'uniforme mantenne lo stesso taglio di quella del 1664; ma il giustacorpo si portò sbottonato, ebbe falde più lunghe ; il cappello, invece di avere la tesa orizwntale, l'ebbe rialzata. Il vestiario consisteva, quindi, in un giustacorpo di panno, con fodera di colore, con larghi risvolti alle maniche, in una veste lunga con tasche; in calzoni corti, stretti al ginocchio, in calze alte, sulle quali talvolta si calzavano uose. ll cappello era con tesa va1iamente orlata, le scarpe basse, spesso con fibbia . I vari reggimenti si distinguevano l'uno dall'altro dal colore del giustacorpo, della veste, delle calze, della cravatta e da quello dei risvolti delle maniche. L'armamento era costituito da fucili - sostituiti ai moschetti sin dal r69<> - recanti sulla canna l'arma ducale. Oltre la baionetta che, dapprima a manico pieno, fu, dal 1702 in poi, a ghiera - ogni soldato aveva la spada, che portava appesa, insieme alla baionetta, ad un cinturone a fibbia; una gibassiera (1) (gibecìère) con cinghie a tracolla, una poire à poudre con cordone, detto anche fornimento, una specie di zaino detto abersaqtte ed i Granatieri anche una scure ed una gibassicra per mettervi le granate. Scomparse le bandiere di compagnia ed istituiti permanentemente i battaglioni, ogni reggimento ebbe due specie d'insegne : la colonnella, che era anche inseg·na del I battaglione, e la bandiera di battaglione, insegna del Il. Tali bandiere erano, però, di colori diversi e di fogge svariatissime ed i tentativi fatti da Vittorio Amedeo II per renderle uni-

(1) Giberna.


54 2 formi incontrarono opposizione nell'attaccamento alle tradizioni dei reggimenti d'ordinanz?, i_quali preferir~no conserva~e le ~oro ve~chi~ bandiere, pur arrec:mctovi qualche modifica e sernplificaz1one, d1 cut la principale fu l'adozione, da parte_ di t~tti,. della grande croce bianca di Savoia, toccante con le sue braccia gli orli del drappo. Tra il r7or ed il 1704 (anno in cui si cominciò a combattere contro la Francia) si ebbero alcune varianti nei reggimenti d1 Fanteria. Colla cattura dì San Benedetto, ordinata da Luigi XIV (29 settembre 1703), scomparvero i reggimenti Aosta, Piemonte, Croce Bianca, Chiablese e Fucilieri; ma, con nuove levate e coi numerosi prigionieri sfuggiti alla cattura, pochi mesi dopo venivano ricostituiti Aosta, Piemonte e Fucilieri, cui seguì il reggiij mento Croce Bianca. '.! [ ,, ,,,,.,,1,r..a del!~ Fameri~ ('.,osl i reggimenti di ordinanz:i ·t piemontese a: t<'mpi di Vitto- nazionali, all'inizio della campagna ,io A mrdeo Il . del r704, erano 8 (Guardie, Savoia, Aosta, Monferrato, Piemonte, Saluzzo, Fucilieri, Nizza), e poi 9, in seguito alla ricostituzione del reggimento Croce Bianca. Nessun aumento di lali reggimenti si ebbe durante l'ulteriore corso della guerra per la successione spagnola; scomparve I'« Aosta », ' distrutto alla Verrua nel marzo 1705 ed il «Croc~ Bianca » si fuse col <- Piemonte » nel 1710. Per la guerra il Duca provvide ad aumentare invece i reggimenti di Fanteria stranieri. Ai 2 già in servizio: « Schulenburg » e ({ Reding » (quest'ultimo diventato « Ghidt >J n el 17o6 per il cambio del comandante), altri si aggiunsero alla fine del 1703 e nel 1704; ma, licenziati quasi tutti, rimase soltanto il « Dcsportes » (da cui ha origine la nostra brigata Acqui: reggimenti rt e 18°), al quale, nel 17n, si aggiunse il reggimento Rehbinder. C..WALLERIA:

- Guardie del Corpo (4 compagnie di Fanti e_2 squadroni di Cavalleria per la guardia personale del Duca);


543 - 3 reggimenti di dragoni (Dragoni di S. A . R., Dragoni del Genovese, Dragoni di Piemonte) (1); 2 reggimenti di Cavalleria: Piemonte Reale e Savoia (dai quali provennero gli omonimi reggimenti dell'esercito italiano). ARTIGLIERIA : 1 Stato Maggiore e 1 battaglìone di Artiglieria (6 compagnie cannonieri, I delle maestranze e I minatori).

Le milizie nazionaJi. Oltre alla milizia (ordinaria e scelta), che si costituiva all'atto del bisogno, si aveva il .Battaglione di Piemonte, milizia sceltissima, che venne chiamata alle armi nell'ottobre 1703. I 12 reggimenti di esso battaglione furono ridotti a 7, di 6oo uomini l'uno, e distinti coi nomi dei rispettivi colonnelli: reggimenti Maffei, La Trinità, San N azar, San Damiano, Este (o Dronero), Triviè e Curtanze. Ma, licenziati il San Dami~no, l'fate e il Triviè e costituito nd 17o6 il Santa Giulia, durante la guerra per la successione di Spagna, dal 1707 in pai, i reggimenti del Battaglione Piemonte furono effettivamente 5 (Maffei, La Trinità, San Nazar, Curtanze [ dal 1708 Chamousset 1 e Santa Giulia). · I reggimenti di Fanteria d'ordinanza erano ad uno o a più battaglioni (in genere 2), quelli del Battaglione di Piemonte tutti ad un battaglione. Ogni battaglione di ordinanza nazionale aveva una compagnia Granatieri, con arma particolare la granata (oltre il fucile). L'Artiglieria, distinta in Artiglieria grossa, per l'attacco delle fortezze, ed Artiglieria leggera, d a campagna, per le operazioni campali, impiegava pezzi di diversi ca libri, dekr111Ì11ali, per i ca nnoni, dal peso della palla, e per i mortai dal diametro della bocca. La gittata dei pezzi da campagna si può ritenere che fosse all'incirca da 300 a 6oo passi. Non si avevano Comandi di Grandi Unità permanenti: il reggimento era l'Unità maggiore, stabilmente ed organicamente costi( 1) Dal reggimento Dragoni di Piemonte provenne il reggimento Nizza Cavalleria; dai Dragoni ·dc:! Genovese in parte il reggimento Genova.


544 tuita ; le Unità superiori si formavano soltanto in guerra, a ~econda delle necessità, dandone il comando a generali (brigadieri, marescialli di campo, luogotenenti generali), i quali facevano parte dello Stato Maggiore dell'esercito. · La carica di brigadiere era provvisoria, concessa ai colonnelli quando, per le operazioni, 2 o 3 reggimenti si· univano in brigata. Tale carica spettava allora al colonnello del reggimento più anziano tra quelli che concorrevano a costituire la brigata e dal quale reggimento essa prendeva nome; e ciò senza riguardo all'anzianità di grado dei colonnelli. Talora il comando di una brigata veniva affidato a marescialli di campo, con brigadieri in sottordine. Comandante supremo, in pace ed m guerra, era il Duca, che alle operazioni militari partecipava di persona. T.a hnndi,-r(1 ,I,; ,·,::'!" ~:?!! Ci serr.hr~ opportur.o rìpartar,, in provinciali nel 1 71 3. appendice a . fine capitolo, per i particolari che esse dànno sulla costituzione d1 quei reggimenti di Fanteria, le lettere patenti per la costituzione del reggimento « Nizz:1 ,1 .

Per quanto riguarda la m ilizia, uno dei primi atti di Vittorio Amedeo II, era stato quello di occuparsi del Battaglione di Piemonte, ordinando, nel 1682, che i suoi colonnelli dovessero ogni tre mesi far conoscere all'ufficio del soldo la forza <li ciascuna compagnia, affinchè esso potesse provvedere a sostituir, gli assenti. C.On Editto 27 marzo 1691, il Duca Jiede poi àisposizioni affinchè si riorganizzasse la milizia generale; ingiunse a tutti gli abili alle armi di presentarsi ed assegnò ad ogni terra un numero di capitani e d'altri ufficiali, corrispondenti al numero dei soldati, in modo da poter formare altrettante compagnie di 50 uomini, da riunire in battaglioni. Le armi vennero provvedute dai Comuni e dai privati. Gli abitanti delle città si riunirono in milizie dette urbane; ma mancano dati che permettano di stabilire quando questa speciale istituzione ebbe vita.


545 Ma le vicende della guerra, il conseguente consumo di uomini e l'essere continuamentt in armi fecero rilevare l'opportunità di fondere assieme gli elementi abili delle milizie ordinarie e scelte ed m tal modo, nel 1706, si formarono, in ogni provincia, alcuni batt:iglioni. Sopraggiunta la pace, Vittorio Amedeo II, accintosi al riordinamento dello Stato, regolò meglio anche il servizio della milizia, trasfor-

mando l'istituzione del Battaglione di Piemonte in quella dei reggim,:nti provinciali. Fu, però, conservata la milizia ordinaria, alla quale erano ascritti tutti gli abili alle armi e che perciò si chiamò anche milizia generale; ma essa non ebbe ordinamento stabile e il suo servizio fu limitato alle circostanze straordinarie. Fra le numerosissime chiai11atc: <li milizia ordinate dal Duc:i, occorre fare cenno dei reggimenti del Battaglione di Piemonte, formati nel 1703, perchè presero parte Bandiere di ,-eggimento e di battagli<me nel 1714. attiva ed efficace alla guerra. Dopo il disarmo di S. Benedetto, fra le varie misure adottate per rinsanguare l'esercito, venne deciso di chiamare in armi i 12 reggimenti del Battaglione; fatta una cernita degli uomini presentatisi, i reggimenti vennero ridotti a battaglioni che, raggruppati, formarono reggimenti, alcuni ,dei quali servirono sino al· r713, altri furono incorporati nell'ordinanza ed altri, decimati all'assedio di Ivrea, venntro sciolti . Quelli che parteciparono alla liberazione di Torino si coprirono ài gloria.

E' interessante, rispetto alle milizie, quanto l':i.llora capitano Vittorio Dabormida scrisse in proposito nel 1877, nel volume intitolato: « La battaglia dell'Assietta », nel quale vengono date notizie preziose ed assai confortanti rispetto all'efficienza di tali truppe sotto Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III. 36


Secondo il Dabormida, le: truppe provinciali erano formate in reggimenti, i quali constavano di un battaglione attivo e di una compagnia di riserva (alla metà del secolo XVIII di tali reggimenti ve n'erano dieci, dei quali due reclutati in Savoia, uno nella contea di N izza e selte in Piemonte; ma essi raggiunsero presto il numero di dodici). Mentre i battaglioni attivi dei reggimenti provinciali erano incorporati nell'esercito di campagna, le compagnie di riserva ne costituivano i depositi e concorrevano a formare le guarnigioni delle piazze. La forza di queste compagnie era normalmente stabilita a 300 uomini ; ma esse furono portate fino alla forza di rooo uomini durante Ja guerra della Prammatica Sanzione e servirono, in questa, come nelle guerre della rivoluzione francese, a completare anche i reggimenti d'ordinanza nazionali, allorchè il reclutamento per mezzo di assoldamenti con premio divenne insufficiente o troppo costoso. Per tal modo anche nelle truppe d'ordinanza nazionali tendeva ad introdursi il carattere cittadino delle truppe provinciali. Il Corpo degli ufficiali dei reggimenti provinciali era formato in parte con ufficiali dell'esercito ed in parte con gentiluomini della rispettiva provin,ia T,e oprrazi<mi dd reclut1.TD.ento er:mo esegufre dai Comuni, sotto la sorveglianza delle autorità governative e colla scorta di norme prestabilite. Le reclute erano scelte fra i cittadini aventi dai 18 ai 40 anni di età cd erano prese, di preferenza, fra i membri delle famiglie più numerose. Dal reclutamento erano esclusi i nullatenenti e quelli che esercitavano professioni non considerate onorevoli o che avevano subìto pene infamanti. Le surrogazioni non erano permesse se non fra parenti, che portassero lo stesso cognome; ed i padri erano chiamati a rispondere dei figli che avessero disertato. La durata Jel servizio nelle truppe provinciali era di 4 anni. In tempo di pace, queste truppe erano però lasciate abitualmente in cohgedo alle loro case e chiamate soltanto temporaneamente per istruzioni. I capitani riunivano, :i quest'uopo, le rispettive compagnie in tre diverse epoche dell'anno ed in · località determinate, nelle quali erano custodite le armi della compagnia. Ciascun reggimento stava poi riunito per intero e per la durata di 15 giorni nel mese di marzo. Durante queste riunioni ed in tempo di guerra le truppe provinciali erano interamente assimilate a quelle d'ordinanza. Veramente preziosa riuscì, per le sue guerre, a Vittorio Amedeo II la milizia ·generale, la quale conservò, infatti, il carattere di leva in massa.


547 La milizìa - scrisse il Dabormi<la -, comprendendo nelle sue .file quasi tutti i cittadini atti alle armi, che non appartenessero all'esercito od alle truppe provinciali, costituiva una vera leva in massa. Essa era ordinata per compagnie, i cui ufficiali venivano scelti nella borghesia, la quale annetteva una grande importanza al conseguimento d1 questi gradi e li considerava come la più bella ricompensa, che si potesse ottenere dal Sovrano, quantunque non fossero parificati con queUi dell'esercito. Alle volte, in tempo <li guerra, parecchie compagnie di milizia venivano riunite in Unità maggiori, cui era dato il nome di Dipartimenti. Il comando di questi Dipartimenti era sempre affidato ad ufficiali dell'esercito. La milizia generale era obbligata a prestar servizio soltanto ne!la propria provi ncia. In alcuni casi venne però chiamata a comba ltere

nelle provincie finitime ed anche a Bandiera colonnella nel 1 739 · riunirsi tutta intorno al Sovrano. Essa era destinata al servizio di truppe leggere ed a compiere quelle operazioni, aHe quali si dava il nome di operazioni da partigiani, e consistevano in scorrerie, in sorprese di convogli e di distaccamenti isolati, in allarmi dati agli accantonamenti del nemico e simili. Sarebbe diffide stabilire esattamente a quale forza ascendesse la milizia dell'intera monarchia alla metà del secolo XVIII ; si deve credere, però, che essa fosse assai numerosa, se si pone mente che la sola provincia di Mondovì, nel 1744 (1), mise in armi non meno di 10.000 uomini di milizia. Dei grandi servigi resi ai Sovrani delia Casa di Savoia dalla milizia piemontese nel XVII e nel XVIIl secolo, sono piene le memorie dei contemporanei, così nazionali come stranieri. Le milizie delle valli alpine, in grazia ai vantaggi che la natura del loro terreno offre alla . guerriglia, si resero partioolarmente famose sotto i nomi di Valdesi

(1) V. Conte GASPAl!.E GALLEANI del Piemonte dal 1741 al 1747 o.

o'AGLIANO : « Memorie

storiche sulla guerra


e di Barbetti, che vennero, con poca proprietà di termini, estesi dai Francesi a tutte le milizie alpine; mentre sarebbero convenuti soltanto a quelle delle valli di Luserna e di S. Martino. E' vero che le popolazioni protestanti di queste valli, memori delle persecuzioni religiose cui erano state sottoposte ad istigazione della Francia, dimostrarono sempre un accanimento straordinario in quelle lotte ; il che spiega l'importanza che venne loro attribuita dai Francesi. Utilissime riuscirono, in tutte le guerre combattute sulle Alpi dalle truppe piemontesi, le milizie alpine, specialmente per il servizio informazioni. Mentre il nemico - affermò ancora il Dabormida anche spargendo l'oro a piene mani, riusciva di rado ad avere notizie, i Capi delle truppe piemontesi erano per lo più informati esattamente di ogni suo movimento. Quasi sempre in guerra, la milizia concorreva poi all'attività delle truppe regolari e spesso al suo concorso si dovette l'esito felice delle operazioni.

APPENDICE LETTERE PATENTI DI S. A. R. PER LA CREATIONE DI UN REGGIMENTO DI FANTERIA DA LEVARSI NEL CONTADO DI NIZZA (16 aprile 1701).

VITTORIO AMEDEO Il

Per gratia di Dio Duca di Savoia, Princi pe d i Piemonte, Re di Cipro. << Colla pubblicatione dell'ordine nostro del 3 marzo hor scaduto, per la consegna generale degli huornìni da r8 a 40 anni di tutto il contado nostro di Nizza, ci eravamo prefissi di voler stabilire un battaglione di militie scielte, per valersene in ogni occorrente del nostro servitio; ma, havendo fatto più maturo riflesso alla maggior utilità colla quale il suddetto battaglione ci havrebbe potuto servire, ci è parso ch'il meglio si è di comporre un reggimento qual sia aggregato al corpo della nostra ordinanza, non tanto per goderne i vantaggi stessi che gode la medesima, quanto per aver campo di maggiormente far apparire la loro fedeltà e zelo, cd illustrare con marche di valore la loro nationc, a fine anche di rendersi sempre mai meritevoli della nostra distintione;


549 onde, persuasi ch'ognuno de' suddetti nostri sudditi concorrerà volentieri ad effettuare questo nostro disegno, habbiamo perciò risoluto di creare un reggimento di fanteria d'ufficiali e soldati della sovramento\·ata natione, composto di dodici compag nie di soldati quaranta cadauna, compresi i sargenti c:J i tamburi, e di farne fare la levata fra tutte le città, communità, terre e luoghi del contado nostro di Nizza suddetto, a proportione degli abili di già come sovra consegnata, secondo il ripartimento che verrà fatto dall'intendente nostro di detto contado Mdlarede, qual ripartimemo intendendo tuttavia che segua senza verun aggravio o spesa delle communità ne' de' particolari; ordiniamo, con le presenti di nostra mano fu mate di nostra certa scienza, piena possanza ed autorità, che s'osservi quanto infra. (< 1 ° - Gli ufficiali che saranno da noi deputali per fare la levata degli huomini in ciascheduna communità, secondo il ripartimcnto sovra espresso, dovranno avvertire anticipatamente gli ordinarì, o sia baili, del giorno nel quale v'arriveranno, affinchè possano detti baili far congregare ne' loro rispettì"i luoghi tutti gli habili di già consegnati.

« 2 ° - Detti ufficiali, subito gionti, dovranno riconoscere le consegne già fatte per sapere se tutti gli descritti dell'età di 18 sino a 40 anni saranno comparsi e, mancandone qualched uno, s' informeranno della cagione della loro absenza, la quale non scodo fonùata sovra una legittima scusa, saranno censiti d1ssubidienti e come tali incorreranno nella pena di hvrc trecento d ·ammcnda od, in difetto di poterla pagare, di sei m esi di prigione, senza però che questo gli esimisca dall 'obbligatione di servire. (< 3° - Di tutto il numero di sudetti descritti ne scieglieranno il doppio di quello al quale ogni città o comm unità sarà tassata in seguito del sovr:i mentovato ripartimento, con procurare che la scielta si faccia nelle famiglie le più numerose, ne' più disposti o meglio organizzati, nubili piuttosto che maritati, figliuoli e non capi famiglia, e che abbiano già servito, p urchè siano capaci e che siansi ritirati dal nostro servitio colla licenza assoluta nella forma prescritta dall'Editto nostro de' 20 maggio 1692; fatta la scic:lta come sovra, dìmandcranno agli eletti se fra di loro vi è chi voglia servire cd accencranno quei che s'offeriranno volontariamente, che, ove pai nessuno s'afferi sse, li fa ranno tirar alla sorte per ha vc1 il :,uhlerv nccc~sa r;o, il qu.:!e non :.:.: rà 1.hc della mcttà degli eletti. << 4° - Fatta l'clettione, i castella ni o ba ili sude1Li ne roghe, a nno un ano autentico, nel quale inseriranno i nomi degli eletti che si sono sponta neamente offerti, o sovra quali sarà caduta la so ree per entrare presentemente al scrvitio, annotando la loro età, taglia, il colore d i capegli, la loro professione e se hanno di già servito nelle nostre truppe od altrove; ritireranno l'originale del loro atto e ne m anderanno una copia agli ufficiali che doveranno signarla e rimetterla al sudeto nostro Intendente, che ne farà tenere registro a parte.


55° « Inseriranno pure, nel fine dd suddetto atto. i nomi dell'altra metà degli eletti, sovra quali la sorte non sarà caduta, acciocchè possiamo haversi · il raccorso, che stimeremo dd nostro servitio ne' casi di rimpiazzamento. « 5° - Gli ufficiali ed i baili procederanno nella loro commissione con tanta integrità e dissintercssamento, che non fa\' oriscano nè aggravino alcuno per connivenza, mala volontà, nè per ritrarne alcun profitto, sotto pretesto di mercede, o spesa cibaria , ·sotto pena agli ufficiali d'essere cassati cd ai baili d'essere dichiara ti in capaci d 'og ni ufficio, e d i cinquanta lire applicabili la mettà al fisco e l'altra mettà al denunciatore che sarà ten uto segreto. « 6° - A misura che gli ufficiali fa ranno le loro levate, dovranno farli condurre a q uartieri t he saranno loro prescritta dal :narcho!se di Car aglio, luogotenente generale delle nostre armate, governatore e luogotenente generale di detto .:ontaJo, per indi condurle <li presid io ;n Nizza, e fa ranno osservare a soldati un'esatta disciplina in tutti i luoghi ch 'alloggcianno, O \'C d overanno sussistere: colla loro paga , alla mente dell 'Editto genc:r:ile d elle tappe dc' 3 agosto Jc:Ira11110 hoc scorso, senza pretendere da lo ro hosti cos'alcuna, e senza comm ettere alcun disordine, del q ua le gli ufficiali ne saranno responsabili. I medesimi distribuiranno la p:iga a soldati di d ue in due giorni, cominciando da q uello dell'elc:tione, h;ivendo noi dati gli ordini necessari all'Ufficio generale del Soldo per lo sbnrso del danaro.

« 1" - Giunte d ,e saranno nel presidio tu tte le levate, se ne farà la distributione per la fo rmauo nc del reggimento nella seguente maniera. La compagnia colonndla havcrà d irino di scegliere, e del rimanente se ne fa rà delle portioni ugualmente ripartite, le qunli si tirera nno alla sorte, affine di evitare tutte le preferenze e rnntr~tazioni. << 8° - I soldati lc:v::.ti nella suddetta confor m ità saranno tenuti d i servire quattro a nni consecutivi, i q uali spiraci , si d arà, nd principio di gennaro, licenza di ritirarsi a sedici per compagnia, compreso un caporale ed un appointe (sic), in caso che vi sia chi voglia ritira rsi, la prima volta ~econdo la loro età ed in seguito di due in due anni secondo la loro antianità, senza che si possano ritenere sotto q ualsivoglia p retesto qudl i che la ch :ameranno o la accetteranno e senza che i colonnelli od i capitani possano ·opporvisi direttamente, nè indiren::imente, sono pena della privauone de' loro rispettivi impieghi od altra maggiore, secondo l'esigenza de' ca si, mandando particolarmente a commissari cd ufficiali del soldo, a quali sarà partata qualche doglienza del rifiuto o ritardo delle sudettc licc:nzc, di darne incessantemente avvi so al Segretario nostro di g uerra, n cui daremo glì ordini nostri per l'esecutione delle sudettc pene . << 9° - Li sedici per compag nia che vorranno accettare: la loro licenza al tempa sovra specificato, dovranno dichiararsi al colonello o comandante del corpo, il quale a quest'effetto fa rà mettere il reggimento sotto le armi nel prin-


55r c1p10 d'ottobre, in presenza del commissario o dell'ufficia le del soldo, e con la nota degli ammalati, comandati od absenti, per formare in seguito lo stato di qucgl.i che vorranno ritirarsi o continuare al servitio, la quale manderanno indilatamcnte al Segretario nostro di guerra, affinchè possa avvertire le commuoità che dovranno rimpiazzarli con simil numero, in maniera che i nuovi possano arrivare alle loro compagnie il giorno avanti la partenza dc' vecchi, a quali si darà la paga e la tappa sino alle case loro, affinchè si ritirino honorevolmente, col vestito da soldato. « xo0 - Quanto a quegli ch'a luogo d'accettare la loro licenza, vorranno continuare al servitio, vi saranno ricevuti e n uovamente ringaggiàti, con ciò però che non sia per meno di due an ni, al che tuttavia il coloncllo, nè il comandante del corpo non dovranno invitarli per promessa, nè obbligarli per minacce come di cosl fare espressamente prohibiamo a' medesimi sotto l'iscesse pene portate dall'articolo quinto. II 0

- Ogni città, communità, terra o luogo risponderà de' soldati c'ha veva provveduto, rimpiazzando, in caso di licenza, m orte o dcsertione, conforme: sarà loro prescritto dagli ufficiali o commissari, che deputeremo, q uali doveranno osservare puntualmente l'istessa regola specificata nd l'articolo terzo.

<<

« 12° - Quanto a quelli c'haveranno descnato, al caso che vengano ad essere arrestati, subiranno la pena portata dagli Editti nostri et, oltre I.a pena, saranno confiscati i loro bc:ni a lxnciÌzto delle communità per loro inòennizzatione. « 13° · Tutti i soldati del sudetto regimento riceveran no l'istessa paga, pane ed altre cose, delle quali gode la nostra ordinanza, ed i capitani o comand~mi delle compagnie faran no loro di quartiere in quartiere il <leconto di tutto quello che haveranoo speso per il mantenimento del vestito, lingerie, scarpe, cappello e rimanente dell'equipaggio, sovra il quarto soldo c' havcranno ritenuto e pagheranno a ' medesimi tutto ciò che sarà sovranzato, detratte le spese fatte nelle forniture; delle quali ne faranno un conto fedele, marcandone il giusto prezzo; il che il comandante e il maggiore del corpo dovranno tener mano che cosl segua, sotto pena d'esserne lo ro stessi respor1sabili.

u 14° - Il capo della famiglia della q uale ogni soldato sa rà stato estratto goderà, pendente il servitio di detto ~c!d:ito, de!l'esemio nt: di tutti i r:irirht personali, ne' quali è compreso l'alloggio delle Lruppc. « 15° - I soldati che, dopo la loro servitù preslata per ti lempo !>Ovra specificato, si saranno ritirati alle case loro muniti del congedo del colonello o comandante del corpo e controllato dall 'ufficiale dd soldo o dal commissario, godranno della suddetta esentione, e del privilegio di porca re la spada cd ti vestito del reggimento, loro vita durante, come verrà specificato ne' 1.ongedi che saranno loro spediti, quali serviranno ad essi di titolo suffic iente per godere senza difficoltà dell 'csentione e privilegi sudetti, che loro accordiamo con la nostra speciale protetionc.


55 2 « Mandiamo finalmente al marchese di Caraglio, luogotenente generale delle nostre armate, governatore e luogotenente generale del contado nostro di N izza, ed a chionque altro sia spedie.nte, d 'osservar e fare inviolabilmente osser~·are il presente ordine, per quanto da ognuno si stima cara la gratia nostra; ed all'intendente nostro Mellarede di farlo stampare e pubblicare, e di so·mministrarc due copie a ciascheduna città, conununità, terra e luogo, acciò c:he l'una sia affissa, secondo il solito, e l'altra conservata ne' loro archivi, poichè tale è nostra m ente. <( Dato in Torino, lì sedici aprile millesettecentouno.

V.

AMEDEO"·


X.

LE FANTERIE SOTTO CARLO EMANUELE lii

Nel secolo XVIlI si ebbero le tre grandi guerre di successione di Spagna (1701.- 1713), di Polonia (1733- 1738) e d'Austria (1741 -1748) e la lotta imperversò in Europa per ben 26 anni su 48. Furono guerre dinastiche e di equilibrio europeo, mediante le quali leghe o coalizioni di Stati si opposero ad altre leghe e ad altre coalizioni, per impedire che i domini delle Dinastie s'ingrandissero tanto da far risorgere, sotto altro aspetto, quella-potenza unica, imperiale, arbitra dell'Europa, che il trattato di W-estfalia aveva decisamente condannata. In tutte queste guerre venne coinvolta anche l'Italia, dove i possedimenti stranieri ben si presti vano, c:imb::mdo dì padrone, al giuoco dei compensi territoriali tra alleati grandi e piccoli, fra vincitori e vinti, allorchè i lunghi conflitti venivano a finire. Il Reame di Napoli, la Toscana, il Ducato di Parma mutarono i Sovrani e le dipendenze al di fuori di ogni volontà dei popoli; Genova e Venezia vennero costrette colla forza a permettere il transito ddle truppe straniere per le loro terre, subendo i conseguenti d:mni , e vi furono rovine e stragi dappertutto: dal Piemonte alle Puglie (Bitonto), dal Lazio (Velletri), all'Emilia (Guastalla). Soltanto il Ducato di Savoia uscì da queste guerre sempre forte e spessissimo vittorioso (Madonna di Campagna - Guastalla - Assietta) con una Dinastia sempre più italiana che, nel 1713, pcl trattato di Utrecht, potè passare- dai Ducato al Regno per <{uella ~ua 1..ostante politica d'intervento, consentita ai Duchi ed ai Re sabaudi d:.ii buoni ordinamenti militari e dalla collaborazione tra Paese, esercito e dinastia. E, quando noi qui diciamo ,e esercito ))' noi diciamo specialmente « Fanteria 1>, perchè allora quest'Arma era tornata ad essere, come abbiàmo visto, il nerbo delle forze militari. Troppo lunga sarebbe l'esposizione di tutti i fatti d 'arme ; ma , a ricordare le virtù, i successi, l'immortale gloria dei Fanti sabaudi dal IJOI al 1748, basterà riferirsi a quelli che misero in maggior luce le


554

caratteristiche di una buona e salda Fanteria, vive ed operanti nei reggimenti piemontesi anche in quei for~unosi anni di guerra. Basterà descrivere lo spontaneo, efhcace concorso delle popola· zioni cittadine e rurali alle operazioni belliche e ricordare che, nei 26 anni delle tre guerre di successione, la Fanteria sabauda si dimostrò sempre efficiente: sia per i saggi ordinamenti militari già illustrati e per la rispondenza dì questi alle reali possibilità dello Stato piemontese, sia per la sanità fisica e morale di quelle genti prolifiche e lavoratrici e per la loro resistenza a tante distruzioni ed a tante stragi. Ma, per combattere insieme oppure contro le Fanterie, delle grandi Potenze europee, i cui eserciti, specie quando operavano in paesi stranieri, contavano più mercenari che miliziani - mercenari non più irregolari, come nel Medioevo e nel secolo XVI, ma soldati di professione, avvezzi alla dura vita dei campi cd alla severa disciplina ed ormai ben preparati ad ogni rischio~ erano necessari Corpi e reparti bene addestrati, disciplinati e di elevato spirito militare, come si dimostrarono i reggimenti d'ordinanza, coi quali potevano gareggiare anche quell i della Fanteria provinciale. Se il Piemonte pctè superare tante difficili prove, lo dovette, infatti. spccialmenrc. :ill:i ~• i:i Fanteria, c0me comprovano le molte battaglie cli questo secolo: da Luzzara (15 agosto 1702) all'Assietta (17 luglio 1747). Noi ricorderemo, a guisa di esempio, la battaglia di Guastalla (19 settembre 1734), durante la guerra per la successione di Polonia e la battagiia dcli' Ass1ctta ( 1 717) durante la guerra per la successione d'Austria.

La battaglia di Guastalla. Vittorio Amedeo II aveva partecipato, come abbiamo visto, alla guerra per la successione di Spagna; Carlo Emanuele III, suo successon:, considerando come j confini dei suoi Stati fossero ormai sicuri, lungo la displuviale delle Alpi occidentali, dal Piccolo S. Bernardo al Tenda, vide l'opportunità di riprendere i tentativi di rafforzare i confini del suo Stato anche verso il Ticino. Egli ritenne perciò più utile, nel 1731, l'alleanza con la ·Francia contro l'Impero ; il che lo portò a dover combattere verso il Milanese, nella pianura lombarda. Dopo varie vicende e dopo la battaglia di Parma del 29 giugno 1734, si ebbe l'urto decisivo dei Franco - Piemontesi, comandati da


Carlo Emanuele lii.



557 Carlo Emanuele III, contro gli Ispano - Austriaci comandati dal Konigscck, nei pressi di Guastalla. Al centro dello schieramento alleato franco - sardo si pose Carlo .Emanuele III coi suoi reparti provinciali, mentre alle ali si sduerarono i Francesi, col de Broglie a destra ed il Coigny a sinistra. Poichè le azioni decisive della battaglia s'ebbero proprio al centro, il suc· cesso alleato di Guastalla si può considerare come una vittoria piemontese, visto ~be, secondo il Corsi, << questa vittoria servì ad ingrandire il nome del Re di Sardegna e delle sue milizie, di fronte all 'insuccesso delle buone e preparatissime truppe mercenarie austriache» . La battaglia fu caratterizzata dal solito schieramento frontale su 3. 4 o 5 linee, con le artiglierie divise su tutta la fronte e la Cavalleria in riserva. Le Cavalierie contrapposte (escluse quelle della riserva) svolsero la prima fase della battaglia; l'austriaca agendo anche col fuoco da cavallo, secondo i procedimenti del (< caracollo »; la francese, più spigliata, più audace, più fiduciosa nella forza d'urto e nell'arma bianca. Alla fine la Cavalleria austriaca venne rotta e dispersa. L'attacco delle Fanterie austriache se~ì subito e s'accanì contro il centro alleato, a tergo del quale erano le vie che menavano al ponte sul Po. N e derivò una lotta cruenta, che indusse lo stesso Re C;irlo Emanuele IlI a combattere nelle primissime linee per animare le sue truppe; nonchè a decidere di profittare immediatamente del vuoto prodottosi nella fronte nemica per spingervi alcuni reggimenti, tolti dalla destra alleata, in modo da provocare la rotta definitiva del nemico. Il Konigseck tentò, a sua volta, di rompere le milizie sabaude del centro per impadronirsi del ponte sul Po e ne nacque una mischia furibonda, nella quale gli Austriaci cedettero, lasciando sul terreno oltre 8 . 000 uomini (tra cui 9 generali), 5 cannoni ed alcune bandiere. Questa battaglia, per l'alternarsi di attacchi e contrattacchi e per le manovre svoltesi sotto il fuoco nemico, è restata celebre nella Storia. In essa i Fanti del Re òi Sardegna furono esecutori valorosi e tempestivi delle concezioni del loro comandante. Alla fine del 1734 le truppe piemontesi, penetrate in Lombardia, assediavano contemporaneamente Tortona ed il castello di Milano. Tortona fu costretta alla resa nel gennaio del 1735; il castello di Milano, contro il quale i cannoni e le bombarde del Re di Sarde~na avevano aperto il fuoco il 21 dicembre, si arrese il 30 dicembre 1734. Durante la guerra per la successione d'Austria, nel 1742, si svolse una campagna invernale in S:ivoia.


55~ In tale anno, essendo in guerra contro i Borboni di Spagna e di Napoli (J ), ma non ancora contro i Borboni di Francia, il Piemonte inviò le sue truppe verso la pianura lombarda ed emiliana, per contenere gli avversari spagnoli ed austriaci, sino a costringerli, nell'autunno, a prendere i quartieri d'inverno a Rimini. Dell'allontanamento delle truppe sabaude dal Piemonte approfittarono gli Spagnoli, i quali, attraversando il territorio della Francia, ostile ai Savoia ed in procinto d'entrare anche essa in guerra contro di loro, invasero le valli savojardc. Benchè l'anno volgesse al suo termine e fosse imminente l'inverno (esempio miraqile di pronta decisiòne e di fiducia nel popolo e nelle truppe), il Re decise di liberare subito la Savoia e, per il Piccolo S. Bernardo e la T aranta~ia. con parte delle truppe, pel Cenisio e la Moriana con ie altre, costrinse gli Spagnoli, superiori di numero, a retrocedere. In r5 giorni la Savoia fu liberata e, durante l'inverno, i miliziani sabaudi rimasero a guardia dei confini. Ma faremmo torto ai valorosi Fanti piemontesi e savoiardi, se ci limitassimo a rievocare solo queste prove di valore e di capacità tecnica. Per loro era infatti dolorosa la visione delle terre invase dal nemico e ferma 1:-i volontà di liberarle ad ogni costo, sorrette ccm'c.r:inc di! ~-0n~en!:~ del!~ p~po!azione, che H :::iutava jn mille guise diverse, non rifuggen<lo neppure dall'impugnare le armi per combattere al loro fianco.

Abbiamo già detto come Carlo Emanuele 111, per la guerra di successione d'Austria, si fosse alleato con l'Impero contro i Borboni di Spagna e di Napoli prima e poi, dal 1743, anche contro i Borboni di Francia. Tutti questi nemici puntavano decisamente, per quanto riflette il teatro di guerra italiano, contro il Milanese che, sottoposto all'Amtria per la pace di Utrecht essi volevano ridare alla Spagna; mentre il Re di Sardegna vokva rnggiungère l'agognato confine al Ticino. · Nel 1744 i Re di Francia e di Spagna univano le loro forze per una offensiva a fondo contro il Piemonte, per attraversarlo e raggiungere Milano, e nove colonne di Franco - Ispani, dal Monginevra a11a (1) Alla fine della guerra di successione di Spagna, i Borboni avevano avuto i troni di Madrid e di Napoli; mentre gli Asburgo acquistavano il Milanese.


L'assedio d; Tortona.



Tinca~ attaccarono sulle Alpi, svolgendo l'azione principale per la valle Stura di Demonte, per occupare Cuneo e sboccare in piano. Il forzamento della linea di cresta riuscì: al Mondomir, alla Pietralunga, alla ridotta di Montecavallo in quel di Casteldelfino, alle barricate di Stura i Sardi furono costretti a ripiegare ed il nuovo assedio di Cuneo divenne inevitabile. La città si preparò con ogni mezzo ad affrontare la nuova prova, sotto la direzione del generale barone Leutrun, col concorso delle ~mtorità civili e del clero, attraverso il proficuo lavoro delle truppe d'ordinanza e di quelle provinciali. Oltre alla sistemazione della cinta, fu provveduto alla difesa contro gli incend1, co~ lavori diretti dal comandante <lell 'Artiglieria della piazza, colonnello d'Amsigny. Le .a utorità civili, sedendo in permanenza, stabilirono un calmiere per regolare il prezzo delle derrate alimentari e prevenire l'ingordigia degli speculatori, che avrebbe potuto suscitare nella popolazione il panico della fame; regolarono, d'accordo col governatore, i turni dei brentatori e portatori d'acqua, dei pompieri, degli operai, e presentarono già armate ie tre compagnie di milizia cittadina, comandate rispettivamente dal Cavaliere Trivier, dal Conte Ghibaud e dal Signor Caire .

L' assedio di Cuneo e la battaglia della Madonna dell'Olmo. Cuneo contava allora 12.000 anime; era presidiata da 6 battaglioni di Fanteria d'ordinanza e da battaglioni di truppe provinciali: in tutto : 146 ufficiali e ~098 Fanti. A complemento di dette formazioni regolari ed in aggiunta alle tre compagnie di milizìa cittadina , furono costituite, cogli abitanti della città, altre II compagnie, destinate a guardare le località meno esposte. Si formò un plotone di 40 volontari destinato aiic sortite cci, in complesso, la popolazione offrì altri , .500 combatlcnt i. Secondo gli appunti del Tmletti (1), e talvolta riportandone le stesse parole, ricordiamo, di questo assedio, qualche altro particolare. Intorno alla città le truppe francesi e spagnole dilagavano per la campagna e, sul finire d'agosto, i Francesi si trincerarono al convento degli Agostiniani, detto della Madonna dell'Olmo. Ogni giorno si €x): TuJU.ETil : « N el VII centenario della fondazione di Cuneo >>.

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svolgevano scaramucce, alle quali prendevano parte le compagnie franche o quelle dei contadini, assieme ai drappelli dei soldati. Ora era la compagnia di Olivero che arrestava nella cascina Quaglia una masnada di Spagnoli e le toglieva i sacchi di grano già sottratti ai coloni; ora si riusciva a togliere ai Francesi la farina; ora, infine, si disfacevano di notte i lavori in terra compiuti nella giornata dagli assedianti. Ma il nemico investiva la piazza in modo sempre più stretto ed ormai la circondava da ogni parte. L'Infante di Spagna, Don Filippo, comandante nominale di tutto l'esercito, aveva il suo quartiere generale a San Rocco; il Principe De Conti, comandante dei Francesi, lo aveva alla Madonna degli Angeli. Il quartier generale delle truppe direttamente impiegate nell'assedio era alla Castagneretta. Otto brigate di Fanteria, due reggimenti dragoni e due reggimenti di Cavalleria stavano fra Stura e Gesso. Gli ospedali, i magazzini e la cassa erano a Borgo San Dalmazzo. Nel dividersi i compiti dell'assedio, agli Spagnoli era toccato in sorte il settore del Gesso, ai Francesi quello della Stura. Il 18 settembre i Francesi iniziarono il fuoco delle artiglierie e per gli assediati cominciò il periodo più difficile della resistenza. Secondo il Tu:rletti, 6I pezzi di medio e grosse calibro :'. n mortai si accanivano contro Cuneo, dove la popolazione, rifugiata nelle cantim:, ma temprata ormai al pericolo, lasciati i bambini ed i vecchi nei rifugi, si univa in parte alle truppe ed accorreva all'estinzione degli incendi, al soccorso dei feriti, a riparare ogni danno, formando squadre di lavoratori per rafforzare i terrapieni ed i parapetti danneggiati dall'Artiglieria nemica. Si moltiplicavano, inoltre, le sortite diurne e notturne per impedire al nemico i lavori di approccio e la milizia cittadina gareggiava con i reparti regolari. Ma, a malgrado di così tenace resistenza; i Gallo- Ispani continuavano ad avanzare ed i }oro gabbioni venivano spinti avanti, come narra un cronista, <( da robusti zappatori vestiti di ferro, all'antica». Carlo Em:inuele III volle accorrere al soccorso della città assediata ed all'uopo raccolse quànte più forze mobili potè e si avvicinò alla piazza. II 30 settembre combattè alla Madonna dell.'Olmo; ma dovette ripiegare a Fossano ed i Franco - Ispani poterono continuare nell'assedio. Ma gli assediati, avuta notizia delle perdite subìte dai Francesi e dagli Spagnoli nella battaglia (4.000 uomini fra morti e feriti) e dei d~sagi che soffrivano gli assedianti, ai quali ì contadini si rifiutavano d1 cedere le vettovaglie, continuarono a resistere con rinnovata tenacia.


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Lo re.w del Ca.;tdfo di Milano.



In una sortita i miliziani :atturarono un convoglio di cento some di farina . cd il giorno 8 ottobre i Cuneensi ebbero un rinforzo di 1000 uomini, condotti dal Conte Rasini, che portò polvere e munizioni, permettendo alla cit tà di resistere ancora. Il 21 ottobre gli abitanti di Cuneo, delle campagne e delle valli alpine, che tanto contributo avevano dato alla guerra, videro i nem ici, ormai privi di ogni rifornimento, abbandonare finalmente l'assedio e poterono trovare nella conseguita vittoria il compenso a tanti sacrifizii ed a tanti eroismi. Le forti popolazioni di valle Stura insorsero specialmente contro i Francesi, sottoponendoli, col concorso di 10.000 miliziani della zona di Ormea e di molti Barbetti dell'alto Peli ice e delralto Chisone, ad una dura guerriglia e costringendoli a ripiegare al di là delle Alpi. Nella campagna del 1744 - scrisse il D 'Agliano (1) - <e trovaronsi i nemici ridotti quasi ad uno stato d 'assedio, non potendosi gran fatto allontanare dal loro campo e costretti a penuriare di viveri e di ogni sorta di sussistenza. Il pane ed il vino erano venduti nel loro campo ad un prezzo esorbitante; nè era poco il male che loro cagionavano le prede, che sopra di essi facevano i paesani ». Mentre in pianura e sulle pendici, Corpi di 4 o 5.000 uomini di milizia, sostenuti da poche truppe d 'ordinanza, non esitavano ad attaccare grossi distaccamenti nemici, nell'interno delle valli alpine la guerra contro i Franco - Spagnoli prese un carattere diverso, in quanto « che - come lo stesso D' Agliano ricorda - le truppe piemontesi si andavano ad appostare per le montagne, ora in un luogo ora in un altro, vicino alle strade, per dove passavano e ufficiali e soldati e provvisioni e mercanzie ed equipaggi e corrieri, quali tutti di Francia venivano all'armata, o da questa per quella volta partivano, e da quei loro nascondigh, uscendo improvvisamente ed assaltandoli, con grandissima facilità si rendeva no padroni e delle cose e delle persone e, nel mentre con quelle si arricchivano, conduceva no seco molti prigionieri di guerra >1. Secondo i documenti dell 'Archivio di Stato di Torino, la forza dell'esercito piemontese, al principio della campagna del 1747, nella quale si combattè la battaglia de ll'Assictta, con uno Stato che comprendeva 2.500.000 abitanti appena e con un reddito non superiore ai 30.000.000, era di 55.428 uomini, ivi compresa la milizia. Essa constava di due parti: truppe d'ordinanza nazionali (22.168 uomini), (1) Cfr. D'AcLIANO, op. cit.


566 cioè 17 battaglioni di Fanteria, 4 reggimenti di dragoni a 5 squa- . droni, 2 reggimenti di Cavalleria a s squadroni, 2 squadroni di guardie del Corpo e 2 battaglioni d'Artiglieria; e truppe provinciali (14.200 uomini) su 10 battaglioni attivi e IO compagnie di riserva. Concorrevano a formare i 55.428 uomini della forza complessiva, 21 .ooo uomini delle truppe d'ordinanza straniere, costituite su 31 battaglioni di Fanteria. Con tali truppe e con la vittoria dell'Assietta (1747), ancora così vivamente e con tanto orgoglio ricordata dal popolo piemontese, il nuovo Regno potè rimanere forte e libero.


Xl.

LA BATTAGLIA DELL' ASSIETT A

Sulla battaglia dell'Assietta (1) ci sembra opportuno riportare l'efficace esposizione che, nel 1923, ne fece, sul luogo stesso dell'azione, agli ufficiali della Scuola di Guerra l'allora colonnello Arturo Vacca Maggiolini, insegnante di Storia militare alla Scuola stessa. « ... La battaglia dcll'Assietta, merita ancora il nostro ricor,fo ed il nostro studio per parecchie ragioni. « Innanzitutto perchè essa è una delle nostre maggiori e più pure glorie militari ed è ben giusto non dimenticare le poche pagine di Storia che valgono a darci la rassicurante certezza che, se le vicende del medioevo e dell'evo moderno imposero all'Italia tanti secoli di decadimento politico e di servaggio, le virtù militari - quelle direttive dei comandanti e quelle esecutive dei soldati - non vi furono però mai spente totalmente e riapparvero limpide e salde ogni qualvolta l'occasione fu favorevole al loro m anifestarsi. << Vero è che, all' Assietta, ben pochi furono i reparti combattenti, schiettamente e completamente italiani, ma italiano fu Carlo Emanuele III che genialmente scelse queste posizioni per arrestare l'invasione straniera; italiano fu il modesto e valente ingegnere militare, il capitano Vedani, che saggiamente ideò e tracciò l'efficace sistema difensi,•o, sorto in pochi giorni di febbrile lavoro, le cui vestigia, dopo 204 anni, esistono ancora : italiani furono i generali che impegnarono e diressero con inte lligenz::i. e con fede l'azione; irn li~ ni i valorosi Granatieri che sostennero il maggior peso dell,1 battaglia e respinsero, con immutata fermezza, i reiterati, furiosi attacchi fran cesi, fiaccando l'orgoglio del generale di Bellisle ; italiani furono i più dei generosi che col loro sangue assicurarono l'incolumità alle terre piemontesi. (1) Si veda, in proposito, il volume V I di quest'opera, particolarmente dedicato ai Granatieri.


568 " In secondo luogo la battaglia dell'Assietta è degna di ricordo e di studio poichè essa ci è storica e tangibile conferma dell'importanza geografico-militare di questo agevole dosso che, dominando le: ampie e comode vie offertè all'invasore dalle valli della Dora e del Chisone, le preclude entrambe con mirabile efficacia, consentendo al difensore di tenere k proprie forze raccolte sull'alto, pronte a cadere minacciosamente sul fianco ed a tergo dell'audace che, senza preoccuparsene, osasse procedere pel fondo valle verso la pianura padana. " E, finalmente, la battaglia che infuriò su . queste vette nel pomeriggio del 19 luglio 1747 è interessantissima storicamente, perchè, confrontando le date, ci suggerisce e ci impone queste domande: - come mai, in un 'epoca in cui gli eserciti rifuggivano dalla battaglia e questa veniva, in ogni caso, preferibilmente impegnata nelle facili e sgombre pianure, atte a distendere ed a far muovere le rigide formazioni lineari allora impiegate e ad erigere coi -petti e coi fucili dei mercenari le ininterrotte muraglie di fuoco, che erano ritenute indispensabili per vincere; come mai, dico, il 19 luglio 1747, una grossa battaglia è stata offerta cd accettata proprio su questo terreno, rotto ecl impervin, :i. più che 2 .500 metri sul livello del mare? ... - e come mai poterono qui dimostrare tanta furia e tanto accanimento 11egl, attacchi quelle stesse truppe francesi che, dieci anni dopo, a Rossb:i.ch, dovevano essere rotte e messe in fuga vergognosa, dopo un quarto d'ora soltanto di lotta, da pochi battaglioni e da qualche diecina di squadroni di Federico II? )1 .

La guerra per la successione d 'Austria - scoppiata nel 1740, in seguito alla morte dell'Imperatore Carlo VI, che lasciava come erede la giovanissima, bella ed energica Maria Teresa, - nel 1746, cio.P? che Federico !J, ottenuto il riconoscimento del possesso della Slesia, aveva nel dicembre precedente desistito dalla lotta, si era ridotta quasi esclusivamente all'Italia, ove Francia e Spagna alleate contendevano a Maria Teresa il possesso del Milanese e del Piacentino. ci Quest'ultimo secondo il Vacca-Ma<Tgiolini - avrebbe dovuto costituire un grazioso dono destinato :il'infante Don Filippo, il terzo ed ultimo dei figliuoli di Filippo V di Borbone e di Elisabetta Farnese, al cui primogenito spettava naturalmente di diritto il trono


di Spagna, mentre al secondogenito, Don Carlos, era già stata procurata, dall'ambizioso affetto dei genitori, la corona delle Due Sicilie. « Nella lotta generale, che interessava intimamente l'I talia e l'equilibrio delle Potenze che vi dominavano, non poteva mancare d'impegnarsi altresì Casa Savoia, seguendo la sua tradizionale politica, che tendeva a mangiare, foglia a foglia, il carciofo italiano. E di dover partecipare alla guerra non dubitarono, infatti, neppure un istante il Re Carlo Emanuele III ed i suoi fidi ed illuminati consiglieri, il Marchese d'Ormea, ministro degli esteri ed ii Conte Bogino, mini stro della guerra; piuttosto pareva discutibile da qual parte dovessero schierarsi le forze del Re di Sardegna. « Poichè, mentre la situazione precaria dcli' Austria appari va oltremodo propizia a soddisfare la perenne aspirazione di Casa Savoia sulla Lombardia, l'esperienza dolorosa di Carlo Emanuele III e dei suoi predecessori, in fatto di alleanze coi Borboni di Spagna e di Francia, dissuadev;mo il Re dal mettersi a loro fianco. Aggiungendosi a ciò il pericolo; gravissimo, che si estendesse e si affermasse sempre più la minacciosa preponderanza spagnola in Italia, la Corte di Torino si persuase della necessità di unire: le: proprie arn:ii a quelle di Maria Teresa e dell'altra sua alleata, l'Inghilterra. « Alla lotta partecipava anche Genova che, temendo, a sua volta, le mire di C asa Savoia sulla Liguria occidentale, si era invece unita alla Francia ed alla Spagna ». Nel 1746 Genova era caduta nelle mani dì un esercito austriaco, ma il 5 dicembre di quello stesso anno, in seguito ad una violenta insurrezione - ben nota a tutti gli Italiani, grazie all'atto impulsivo e generoso di Balilla - gli Austriaci vennero buttati fuori dalla città .ed oltre l'Appennino, dopo cinque giorni d1 lotta, che ben possono essere paragonati alle cinque gloriose giornate, colle guaii, poco più di un secolo dopo, i Milanesi cacciarono dalle loro mura lo stc~so nemico. Fortissima fu l'emozione cag ionala in tutta Europa dallo scac.:o austriaco, in un' epoca in cui il popolo aveva d:n i ancora pochi saggi delle sue furie improvvise ed irresistibili. Maria T eresa e l'esercito suo lo considerarono come una grave onta, come una pt'.rirnlosa diminuzione al loro prestigio, che doveva essere reintegra to con una pronta e vigorosa rivincita. « Così - continua il Vacca-Maggiolini - i primi mesi del 1747 videro un forte esercito austriaco, comandato dallo Schulembourg,


57° aiutato da 12 battaglioni piemontesi agli ordin i del Della Rocca, stringere Genova d'assedio. . « Il noto Barone di Leutrun - · valoroso generale badese, che sm dall'età. di 14 anni (nel 1747 ne aveva 55) era fedele servitore di Casa Savoia e che si era reso popolarissimo in tutto il Piemonte per l'assedio vittoriosamente sostenuto a Cuneo nel 1744 - copriva le truppe assedianti, trattenendo sul Varo l'esercito franco - spagnolo )) .

Questo, nominalmente comandato dall'Infante di Spagna Don Filippo, aveva in realtà due comandanti indipendenti e rivali: lo spagnoìo Las Minas, che avrebbe voluto tentare di liberare Genova, r espingendo frontalmente il Leutrun e procedendo lungo la Riviera, ed il francese, maresciallo Conte di Bellisle (fratello m aggiore del generale di Bellisle che lasciò la vita sulle trincee dell' A ssietta), il quale, invece, av rebbe volu to, con disegno più gra ndioso, spostare le forze nel Brianzonese ed obhligare gli Austro - Sardi a rinunciare all'assedio di Genova, marciando, attraverso le Alpi C'..ozie, su Torino e Milano. << Dopo lunga Jiscussione tra la Corte di Parigi e quella di Madrid, si decise di compiere entrambe le azioni, affidando al Las Minas l'operazione principale lungo la Cornice e facilitando questa con una vigorosa puntata da Briançon su Torino, che obbligasse Carlo Emanuele III a rich iamare i11 Piemonte le forze del Della Rocca e del Leutrun. « Effettivamente i) Re Carlo Emanuele non aveva, lungo le Alpi, dall'Argentera al Moncenisio, che scarse milizie locali, appoggiate da pochi battaglioni regolari accantonati a Susa, Torino e C uneo, talchè la minaccia diretta sulla Capitale non avrebbe mancato di richiamare le forze dalla Liguria 1 All'inizio di giugno cominciò a farsi sent i.-e lungo la Riviera. la pressione franco-spagnola intesa a liberare Genova ed il Leutrun riusciva a stento - date le poche forze dì cui disponeva - ad eseguire: gli ordini del Re, i quali gli ingiungevano di coprire l'assedio ad ogni costo, disputando all 'occorrenza il terreno passo a passo, onde dar tempo allo Schulembourg di impadronirsi dell'agognata città. Tutta l'attenzione della Corte di Torino era perciò rivolta a Genova ed alla Riviera, allorchè, verso il .20 g iugno, la minaccia al1'ovest cominciò a prèndere consistenza. 1


57r « Cinquanta battaglioni francesi, due battaglioni spagnoli, cinque reggimenti di dragoni ed alcuni reparti di milizia brianzonese stavano, infatti, riunendosi nel Delfinato, per valicare poi il Monginevra, collegando le proprie operazioni colle truppe spagnole, che si erano impadronite, sin dal 1741, della Savoia e che, avanzando in Moriana, dove\'ano ora spingere alcuni battaglioni, pel colle della Rho, nella conca di Bardonecchia. « Uno spostamento di forze così numerose dal Nizzardo all'alta Durance non poteva certo sfuggire ai Piemontesi, che avevano organizzato un ottimo servizio di informazioni ; ma la strada che esse percorrevano risalendo la Durance doveva necessariamente lasciare sino all'ultimo incerti i Piemontesi circa la direzione effettiva della invasione, che avrebbe potuto compiersi egualmente per la Stura di Demonte, per la ~faira, per la Varaita, pd Po, pel Pellice o per la DoraChisone. E la località di Mont Dauphin, molto abilmente scelta dai Francesi come sede dei magazzini e come punto di concentramento delle truppe, era tale da dover tener vivi sino all'ultimo i dubbi di Carlo Emanuele III. « Il maresciallo di campo d ' Arnault, che era sul posto, in attesa che VL giungesse il Cavaliere di Bcllisle, cui era affidata !'impresa, con alcune puntate di piccoli distaccamenti verso l' Argentera e colla diffusione di false notizie, assolse egregiamente il suo compito di celare le vere intenzioni delle forze francesi. « Gravi pertanto erano le preoccupazioni di Carlo Emanuele III, il quale, non volendo scoprire l'assedio di Genova, non avrebbe po· tuto raccogliere a difesa delle Alpi più di dieci battaglioni e di trenta squadroni. D ' altra parte il Re mal volentieri si decideva a trarre truppe dalla Liguria, perchè era da temersi che i movimenti francesi nel Delfinato non tendessero appunto ad altro scopo ch e a facilitare l'avanzata dei Franco - Ispani verso Genova per sbloccarla >1 •

La fermezza e la chiarovc:ggcnza - ~r ri ~se 11 Dabormida ( 1) di cui diede prova Carlo Emanuele in q uesta situazione così spinosa, come in tutte le altre circostanze più critiche del suo regno, dimostrano come egli Possedesse in grado eminente quelle doti caratteristiche della sua Casa , la cui sorte fu di trovarsi conti nuamente in ( 1) V 1rroR10 DABORM!DA :

« La battaglia dell'Assicua », Roma, 1877.


57 2 mezw a situazioni tali, che un solo errore poteva segnarne in modo ineluttabile la rovina. Senza appoggiarsi ad alcuna determinazione che potesse compromettere gravemente la situazione, egli si diede a sistemare la ~ifesa della barriera alpina colle sole forze che aveva sotto le mam o che poteva attirare a sè, senza sottrarle alla Liguria. Perciò - mentre il Conte Bogino veniva sollecitamente inviato a Milano per ottenere dal Braun, comandante delle truppe austriache in Italia, che dirigesse senz'altro m Piemonte tutte le forze disponibili in Lombardia cd, a trattenere il nemico che avanzasse lungo le vaili meridionali, veniva raccolta presso Cuneo tutta la Cavalleria piemontese e venivano ripristinate e migliorate le fortificazioni di Cuneo e di Dernonte - !'attenz ione dei Re si portava principalmente verso le valli della Dora e del C hisonc perchè più minacciosa per Torino era la loro direzione, più lungo e disagevole il portarvi soccorsi dalla L iguria e perchè la raccolta a Briançon di un parco di sess<ilìta grossi cannoni pareva palesare l'intenzione francese di assediare Fenestrelle ed Exilles. E il contrafforte Jell'Assietta - Jl cui valore militare era, del resto, apparso già in parecchit> r;imp:igne precedenti ed anche in t]uella recentissimJ del 1745 - attrasse subito l'attenzione del Re, iì quale ebbe però il merito di non ritrarre la difesa - come altre volte era stato fatto - ~i no al colle delle Finestre ed alle sue adiacenze, Jocalilà troppo arretrate rispetto ad Exilles; ma di spingerla sino a questa posizione dell'Ass1ctta, la quale veramente dà appoggio completo e sicuro alle piazze di fondo valle e, appoggiando le ali ai massicci imponer.ti dell'Andin e dell 'Albergian, consente al difensore di mantenersi raccolto, pronto a buttarsi addosso, in ottime condizioni, all'i nvasore, qualunque via questo scelga per aprirsi la strada. La difesa della zona veniva affidata al tenente generale, Conte Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio, già favorevolmente noto per la sua condotta nel!" rampagne precedenti. Gli venne assegnato come coadiutore, pei lavori di fortificazione, il capitano dd genio

Vedani. Questi ideò il sistema difensivo che doveva così ben servire alle truppe piemontesi, col concetto di cosùtuire un'ampia piazza d'armi trincerata al colle dell 'Assictta e di proteggerla, sulla fronte, con un'opera avanzata alla testa ddl'Assietta, ed a tergo con un'opera al Grand Sérin, che impedisse l'aggiramento della posizione, collegando poi le tre opere con una strada coperta, che le condizioni del terreno


573 fecero riuscir~ assai stretta, tra la testa dell'Assietta e l'opera centrale, assai più ampia, tra questa ed ii Grand Sérin, lungo il piano di Grammi. (< Ultimato il progetto il 29 giugno continua il Vacca-Maggiolini ~ veniva tosto dato mano ad attuarlo ·- essenzialmente mediante muri a secco - e ad ampliare e migliorare la strada d'accesso all' Assietta da Fenestrelle (onde renderla atta al traino delle artiglierie) mediante l'opera de.i montanari e dei soldati del 1° battaglione del reggimento Guardie e del reggimento di Fanteria provinciale di Casale. « Contemporaneamente piccoli reparti di milizia locale venivano destinati ad occupare il col del Piz, quello dì Adries, le montagne a nord di Exilles ; mentre le milizie di Pragelato e quelle Valdesi ben note ai Francesi per la strenua difesa delle loro .valli contro le truppe di .Luigi XIV - venivano tenute sulle falde occidentali dei colle di Sestrière e del Fraitève, per coprire i lavori e segnalare e trattenere il nemico. « Anche le milizie delle valli comprese tra il Chisone e la Stura di Demonte vennero chiamate al.le armi per arginare eventuali incursioni r..emichc in tali vallate; ma i! Re Carlo Em::m ude, di quella zona, non si preoccupò troppo, concentrando invece la sua attenzione, come si è detto, sui due estremi della fronte minacciata: e cioè sulle valli Cuneensi - ove però le truppe del Leutrun avrebbero potuto far sentire tempestivamente la loro azione, accorrendovi pel Colle di Tenda - e sulle valli di Pinerolo e di Susa, cui invece occorreva provvedere subito e direttamente. « Ed a Pinerolo, infatti, vennero irtviati i quattro magri battaglioni austriaci (Haguembach, Forgatsch, Colloredo, Traun), che il Braun aveva concesso all'alleato ». Più generoso il concorso degli Austriaci in fatto di Cavalleria: 21 squadroni furono avviati a Savigliano, altri 35 raccolti sul Ticino.

Frattanto - sempre secondo il Vacca-Maggiolini - b minaccia francese andava crescendo, cosicchè Carlo Ema nuele si persuase <lella necessità di chiamare in Piemonte almeno parte delle truppe impiegate in Liguria. Ma di abbandonare l'assedio di Genova - nel quale era impegnato il prestigio dell'Austria - il Braun e lo Schulembourg non volevano sapere: quanto meno esigevano che il Re ne assumesse


574 la re.sfX>nsabilità. Indebolire le truppe di copertura del Leutrun equivaleva a permettere all'esercito dell'Infante di giungere senza difficoltà alle spalle ddl'assediante. Arduo era pertanto il problema da risolvere; ma il Re seppe trovare una soluzione ... artistica: ordinò cioè ai suoi battaglioni che partecipavano all'assedio di allontanarsi da Genova e di congiungersi col Leutrun, il quale avrebbe così fX>· tuto inviare parte delle sue truppe, per Saorgio e Tenda, verso il Piemonte. In seguito alla determinazione del Re, lo Schulembourg si decise a togliere l'assedio di Genova, ma, anzichè avanzare verso ponente e far massa col Leutrun, ripiegò verso i Giovi per coprire la Lombardia. « L 'u luglio il Cavaliere di Bellislc giungeva a Guillestre, nei cui prt!>SÌ si trovavano già riuniti 40 battaglioni, 5 squadroni e 13 pezzi, destinati a costituire il primo scaglione dell'invasore. Un secondo scaglione (brigata di riserva) di 11 battaglioni aveva ordine di, agire dapprima dimostrativamente, per l'Ubaye verso la testata della Stura di Demonte e di seguire poi il grosso per la via del Monginevra. << Il primo scaglione doveva, a sua volta, scindersi in tre parti : una colonna di 16 battaglioni, agli ordini diretti del Bellisk, doveva passare il Moriginevra il 14 luglio e procedere per val Dora su Exilles; 15 battaglioni, agli ordini del Marchese di Villemur, dovevano lo stesso giorno varcare il ~olle Bourget e poi, pel col di Sestrièn:, scendere in val Chisone; le rimanenti truppe (9 battaglioni) dovevano seguire come retroguardia, a distanza di due tappe, e fornire un distaccamento destinato ad agire nella conca di Bardonecchia. ,<Primo ol>biettivo del Bellisle era di impachonirsi di Exilles (al cui assedio era destinato il grosso parco di 6o cannoni .già accennato), ma, poichè egli ebbe vago sentore che le truppe piemontesi si stavano rafforzando sul costone dcll 'Assietta, si persuase dell'assoluta necessità di scacciarle preliminarmente da quella posizione. (< Il movimento ideato si iniziò con qualche ritardo rispetto alle previsioni: soltanto il giorno 15 luglio l'avanguardia, agli ordini dcll'Arnault, potè passare il Monginevra, occupare Cesana e spingere avamfX>sti sino al ponte di Fenils. « Le milizie piemontesi ripiegarono senza opporre resistenza verso il col di Sestrière. « Contemporaneamente, un distaccamento francese penetrava nella conca di Bardonecchia (probabilmente pel coJ della Scala) e vi si riuniva ad alcuni battaglioni spagnoli, scesivi per il col della Rho. Questo distaccamento avrebbe poi dovuto risalire i_l vallone di Ro-


57 5 chemolles e, pel vallone di Galambra. o la regione dell'Ambin, scendere sul fianco ed a tergo del forte: di Exilles. Diciamo subito che questo ardito avvolgimento non si potè compiere e nessuna notizia precisa si ha sulle sue vicende: probabilmente il distaccamento non riusci ad avanzare in quel difficile cd intricato terreno e rinunciò al proprio mandato, non appena venne a conoscere lo scacco subìto dalle truppe del Bellisle » .

Pr~ma di procedc:re oltre, è ora necessario rendersi conto della psicologia con cui i Francesi si accingevano all 'operazione. Il Cavaliere di Bellisle era, come il Soubise, un cortigiano fortunato ed ambizioso, un soldato valoroso ed avventato, che si illudeva circa la difficoltà dell'impresa assuntasi, nella quale vedeva essenzialmente il mezzo sicuro per salire di grado e per acquistare gloria. Certo è che egli, in una lettera aJ fratello, scritta alla vigilia della battaglia, esprimeva candidamente la sua vanagloriosa sicurezza : « Demain je meriterai, commc vom , k baton de marécha! de France! ». Le notizie poi - in parte esatte, ma in notevole parte errate che gli inviava il fratello da Me ntone e le scarse informazion i raccolte dalle sue truppe dovevano cullarlo nell'illusione che la sorpresa fosse assicurata, che ben poche forze austro - piemontesi gli si oppones5ero e che facile quindi dovesse riuscirgli vincerne la resistenza per sboccare in pianura. Il 13 luglio il fratello maresciallo lo assicurava che gli Austriaci erano tuttora sulla Pokevera e che verso il Piemonte non marciavano « que ce quc M. de Bral!n a pu tirer des garnisons de Mantoue, dc: Modène et du chateau de Milan ; ce q ui ne com pose pas 3 o u 4 mille~ hommes au plus ... ie roi dc Sardaignc: a plu:. de craintc pou ; Dcmonte et Coni que pour Exilles: aussi j'espère que vous vous cm pererez de tous Ics postes projetès, sans y trouvcr beaucou p dc résistance ». Il giorno dopo garentiva che 14 o 15 battaglio ni piemo ntesi del Leutrun erano ancora dinanzi a lui in L iguria e che egli sperava di non permettere loro di allontanarsi. Ed il 15 insisteva: « ... Vous avez disposé vos troupes d'une manière qu'elles n'ont point demasquè votre projet.


« II parait que, jusqu'à présent, l'ennemi n ' en avait aucune connaissa nce, que sa principale attention se portait sur la vallée de Stura et que ce qu'il fait a Coteplane et au col d'Orgeuil (1) est d'une simple precaution générah: qu'il prend sur touts les debouchés•...• ,1 Je ne doute pas que vous y réussirez et ce sera une actìon brillante qui détruira 7 bataillons, portera la terreur chez les Piémontais et rendra ensuite l'opération dc votre siègc plus sure. J'aime beaucoup mieux que vous trouviez toutes les difficultés en débutant, parce que vous avez l'avantage d'attaquer, qui est grand avec nos troupes et surtout dans un pays tel que celui-là, ou vous trouverez d 'abord facilité partout... « En relisant votre lettre, je vois qu'on travaille aux retranchements des ccls d'Orgeuil et de wteplane, mais il ne sont pas faits et vous les ferez attaquer avant qu'ils soyent faits, et ccux-là, une fois forcés, vous savez m ieux quc mo1 qu'en attaquant tout de suite ceux du col de Fénétre, ils résisteront ancore moins ... e, Dans tous les cas... jc persiste à penser qu' ~ faut toujours, à quelque prix que ce soit, se rendrc ma1tre du col de la Fénetre et de toute la chai ne Jes montagnes depuis. le col de Sestrières jusqu'au col de la Fénct rr , clnnt l'n,·.-11ration est indisrns:i.b!e par:::e qu'cl!c vous met en toute suretè pour la suite de votre siège et qu'il vous faudrait beaucoup plus dc troupes que vous n'en avez, si vous n 'en etiez pas le maitre, et dans ce cas il vaudrait micux ne ricn entreprcndre ) 1 , I Francesi difettavano qui ndi d'informazioni (dal che appare con1e le popolazioni alpine fossero ostili ali' invasore, benchè le alte valli della Dora ·e del Chisone fossero state francesi sino al I 713); quelle raccolte erano errate o inadeguate alla realtà ed inducevano i due fratelli di Bellisle a credere che si trattasse di compiere una vera sorpresa, contro forze piemontesi scar se, mal protette da opere campali appena abbozzate, in terreno che ben si prestava ad attacchi risolutivi. Aggiungendo a ciò l'ambizione del Cavaliere di Bellisle, si spiega facilmente come l'azione dell'Assietta abbia potuto avvenire, contraddicendo a tutte le tendenze dell'epoca. « Non ad una grossa, sanguinosa battaglia - - continua il Vacca-

( 1) Non si sa quale colle intendc-ssero precisamente chiamare con questo nome i Francesi . Il Daborrnida annota che si tratta dcll'Assictta, ma l'affermazione non può essere esatta perchè in altri documenti francesi dell'epoca, si enumerano separatamente 1< l'A ssirtta et le col d'Orgcuil ».


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579 Maggiolini - credeva di marciare il Cavaliere di Bdlisle, ma - nella peggiore ipotesi - ad una facile e brillante azione, in cui pochi battaglioni piemontesi sarebbero stati facilmente schiacciati. " Quanto ai Piemontesi è O\'VÌo che la ferma risoluzione di ~alvarc la loro terra da una invasione francese li spingeva inevitabilmente a cercare la lotta il più lontano che fosse possibile dallo sbocco in pianura : la capacità di resistenza di Exilles e di Fenestrelle, la salvezza perciò del Piemonte e di Torino, dipendevano dalla conservazione del I'Assietta. L 'istinto stesso di conservazione voleva perciò che i Piemontesi accettassero battaglia e resistessero tenacemente sul]' Assietta. << D'altra parte essi non avevano più alcun dubbio sui veri intendimenti del nemico. ll 14 luglio si seppe a Torino della riunione delle forze francesi tra Guillestre e Montdauphin, della raccoita di artiglierie, cli munizioni e di vettovaglie a Briançon, dello spostamento di truppe spagnole nella valle dell'Arc. « Al Leutrun venne inviato l'ordine di dirigere dieci battaglioni pel colle di Tenda verso Saluzzc e Pinerolo ; altri tre battaglioni da Torino e da Cuneo furono avvjati su Fenestrelle. Con una nuova corsa a Miìano, il Conte: Boginv <>Uenne dal Rraun che 34 battaglioni austriaci, provenienti dall'assedio di Genova, fossero inviati a Carmagnola. 1< Naturalmente tali forze, mosse così tardivamente, non avrebbero potuto intervenire tempestivamente, se non nel caso che Fenestrelle ed Exilles, e perciò anche l' Assietta, trattenessero per qualche settimana i Francesi ; ma intanto occorreva contare sulle fortificazioni e sulle scarse truppe che le appoggiavano per fermare il nemico. E su quelle loro truppe i Piemontesi facevano sicuro assegnamento. Il 20 luglio un ufficiale scriveva da Torino in una lettera privata : « Noi non abbiamo lassù gran gente, essendo molti i luoghi che deb· bono essere provveduti ; con tutto guesto no n temiamo in conto alcuno )>. << E, mentre l'ignoto ufficiale scriveva, g ià infatti, il giorno innanzi, i battaglioni dell' Assietta avevano dimostrato di essere degni della fiducia che in essi riponeva il Paese ».

Il 16 luglio il grosso della colonna di sinistra, agli ordini dd Bellis)e, valicato il Monginevra, si portò su Cesana, mentre la sua


5~0 avanguardia, comandata dal d'Arnault, pervenne ad Oulx ed a Jouvenccaux, onde coprirsi dal colle di Costapiana, ove i Francesi ritenevano di trovare una prima occupazione. Contemporaneamen te la colonna di destra (Generale Villemur)1 da Cerviéres, passando il colle di Bousson, scese a Bousson, 5pingcndo avanguardie a Champlas du Col ed un distaccamento fiancheggiante a Thures, per guardarsi da eventuali provenienze da val Germanasca. La retroguardia fu lasciata a Bousson per assicurare le comunicazioni. La. brigata di riserva, dopo aver compiuta la sua dimostrazione offensiva verso la testata di val Stura, avanzò sino a Bourget. Il 17 il movimento proseguì: in val Dora l'avanguardia occupò Sauze <l'Oulx e Jouvenccaux, cd il grosso Oulx; le truppe del Villemur valicarono il col di Sestrières, arrestandos·i a Due e Chezal e cO: prendosi sia verso Costapiana come verso il col del Piz, sul quale ripiegarono, dopo qualche scaramuccia, le milizie valdesi. Anche il 17 il Villemur poteva confermare al suo comandante che non erano arrivati rinforzi ai Piemontesi, i quali non disponevano che di 7 battaglioni « dispersès a Balboutet, à l' Assietta et au col d 'Orgeuil » . Il Be!!:'.;!::: :,::: t:;..:;~ ;crr.prc mdggiùi· fon<lamc:nto alla persuasione che occorreva agire rapidamente e con decisione, nella certezza di trovare nel nemico una debolissima resistenza. Fu pertanto dato ordine : - che le avanguardie delle due colonne salissero da Sauze <l'Oulx e da Trev~rses di Scstrières al col Bourget e vi si unissero per procedere poi assieme su Costapiana e I'Assietta ; - che i due grossi salissero, invece, obliquamente i pendii del contrafforte: uno sul versante della Dora, l'altro sul versante del Chisone, così da aggirare da ambo i lati le truppe piemontesi e pervenire alle loro spalle; - che la retroguardia avanzasse sino a Sestrières, per assicurare le comunicazioni degli attaccanti contro azioni di partigiani e di milizie locali. Questi ordini non parvero però eseguibili al Marchese di Ville~ur _-. il quale aveva fama di paFticolare competenza nelle operaz1oru d1 montagna, competenza che appare confermata anche a noi d3!le sue_ lett:re - sia per la lunghezza eccessiva delle marce, sia per~ che la p1ogg1a, abbondantemente caduta il giorno 17, aveva ostacolato i movimenti.


Egli scrisse perciò al Bellisle che le truppe sarebbero state « pretes à se mettre en marche demain m atin sur le Puy de Pragclas pour le plan de l'Assiette. Nous tro uverons des chemins pour y arriver, mais il est impossible quc cette marche se fasse dans un jour ; ainsi, si ces messieurs veuleJlt la cérémonie toute entière le cioè se i Piemontesi vogliono davvero dar battaglia], il faut se résoudre à n 'opérer tout de bon que Je 19 au matin » . Soggiungeva il Villemur: t < Comme vous m 'ordonnez de vous mander mes riflcxions, je ne puis faire d'auties que celle d 'etre convaincu que les ennernis, se voyant tournés da droite et de gauche, ne laisseront que des postcs dans leurs retranchemens, qui ne seraient pas difficiles à for cer, y marchant aussi vivement que vous le faitcs » . Le autorevoli osservazioni del Villemur, mentre confermarono ancor più la cieca fiducia del Bellisle nel risultato, lo convinsero a rinviare al 19 l' attacco; inoltre egli riconobbe opportuno <li coordinare meglio l'azione offensiva delle colonne attaccanti, ravvicinandole. Pertanto l'avanguardia del Bellisle (Gen . d'Amault) e l'intera colonna del Villemur (tranne un distaccamento, sceso dimostrativamente lungo la val Chisone, si no a Souchéres basses) salirono il 18 a Cost:ipian:1 e !'ccrnp2rono. La mattina del 19 il grosso da Sauze d'Oubc, per Morfol e Margherie del Seu, mosse verso l' A ssietta ; contemporaneamente il d'Arnault ed il Villemur muovevano anch'essi da Costapiana verso lo stesso obiettivo; il primo percorrendo la cresta, il secondo tenendosi poco più basso, sul versante di val Chisone. I Piemontesi erano <lalle loro truppe avanzate e dalle fedeli popolazioni delle vallate tenuti perfettamente al corrente delle forze e dei movimenti dei Francesi; al Conte di Bricherasio era perciò ben nota 1a sproporzione grave delle sue forze r ispetto all'attaccante. Egli non poteva, infatti, contare che su nove battaglioni piemontesi e su quattro battaglioni stranieri, con un totale di circa 7400 uomini, contrc- .1 • ba,tag!:oni !: ::nce~i. forti <li o:irca 20.ono nomini e muniti di artiglierie leggere. Le fortificazioni erano lontane da li 'essere compiute; i lavori stra, dali erano ancora così arretrati, che non era possibile al Briclicrc1sio sperare di poter portare ali' Assietta le pesanti artiglit'ric di cui disponeva. Ma la situazione generale e g li ordini del Re non erano tali da far esitare: l'occupazione dell 'A ssietta da parte francese avrebbe inevitabilmente condotto all' aggiramento di Exilles e, !>Ucccssivamente~


anche a quello d1 Fenestrelle> mentre occorreva guadagnare tempo, onde raccogliere agli sbocchi in pianura della Dora e del Chisone le truppe piemontesi ed austriache richiamate dalla Liguria e dalla Lombardia. Nella giornata del 18 i battaglioni, lasciati sino allora presso Fenestrelle e presso Balboutet, furono fatti accorrere in cresta e dislocati al loro pasto di combattimento. Tale dislocazione fu la seguente: - alla tenaglia dell'Assietta - e cioè al posto d'onore cui avevano diritto - il battaglione delle Guardie e la compagnia Granatieri del battaglione provinciale di Casale; -- il resto del battaglione di Casale ai trinceramenti racchiudenti da ovest il piano dell'Assietta, nel tratto a sud del cammino coperto adducente alla Testa dell' Assietta; - i due battaglioni austriaci Traun e Forgatsch sulla destra del Casale, a nord del cammino coperto; - al piano dell'Assietta il battaglione svizzero del Meyer. e, più indietro, il battaglione austriaco del Collare<lo; -- i due battaglioni svizzeri del Kalbermatten ed il battaglione svizzero Roi al Grand Sérin e sulla strada coperta tra As~iett~ ~ Grand Sérin (piano di G rammi). Quattro battaglioni (uno del reggimento Savoia, uno svizzero del reggimento Monforte, uno svizzero del reggimento Sicilia, uno austriaco dell'Haguenbach) dovevano assicurare le comunicazioni ed evitare l'aggiramento ed occupavano perciò le posizioni a tergo del Grand Sérin, distendendo~i fino al colle delle Finestre. Notiamo questo eccessivo disseminamento di forze (4 su 13 battaglioni) per la protez ione delle retrovie, mentre già il Grand Sérin da per sè solo si prestava magnificamente allo scopo ed il col delle Finestre era troppo arretrato per essere minacciato.

Sempre secondo il Vacca-Maggiolini, la mattina del 19 all'alba, le truppe austro-piemontesi occuparono ovunque le linee; avamposti delle Guardie e del battaglione Meycr erano distaccati poche centinaia di metri innanzi alle trincee della Testa dell'Assietta e del rio Bacon. Tardando però il nemico a comparire e soffrendo le truppe pel freddo intenso, il Bricherasio ordinò che rientrassero nei loro accampamenti.


(< Alle 10 fu segnalato il nemico e tutù i reparti ripresero i loro posti di combattimento. « Gli avamposti piemontesi furono in breve costretti a ripiegare dalla Testa dell'Assietta e si vide allora un gruppo di ufficiali a cavallo coronare, fuori del tiro dei fucili - che era allora, non dimentichiamolo, dì 200 metri - l'altura abbandonata poc'anzi dagli avamposti. Era il Cavaliere di Bellislc col proprio seguito, che esaminava le posizioni piemontesi e che, dal silenzio che vi regnava, poteva arguire che non fossero provviste di cannoni. << Verso le II, truppe di Fanteria francese superarono la detta altura: gli avamposti. dovettero ridursi nei trinceramenti. « Poco dopo apparvero altre due colonne che progredivano a mezza costa lungo i due versanti. Quella di destra continuò a marciare, scese nel vallone dell'Assietta e prese poi lentamente a risalire verso il Grand Sérin, che i Francesi ritenevano non trincerato. « La colonna centrale e quella di sinistra, invece, giunte a poche centinaia di metn dalle trincee della Testa dell'Assietta e del rio Bacon, si arrestarono, si schierarono e sostarono a lungo ; i_ soldati francesi rimasero così alcune ore inattivi, le armi alla mano, seduti sui loro zaini. O rmai i Francesi sap::v:rnc r he i Pier.ior:.te~i non avevano Artiglieria e potevano quindi attendere tranquillamente ai limiti del tiro di fucileria. « Successivamente, sette cannoni furono posti in batteria dai Francesi sull'altura dinanzi alla Testa dell' Assietta, ove dapprima si era arrestato in osservazione il BelLisle col suo seguito. Essi aprirono subito il fuoco sui Granatieri che guernivano la tenaglia della T esta dell' Assietta. (< Gli avversari contrapposti rimasero così immobili, in presenza l'uno dell'altro, sino alle 16 e I/ 4. Il Cavaliere di Bellisle ritenne al lora che la colonna del Villcmur dovesse aver raggiunto il GrancJ Sérin ed ordinò pertanto alle altre d ue colon ne di attaccare le trincee della Testa dcii' Assietta e dei rio Baco11. (C La colonna di sinistra, che era agli ordi ni del Grneralc <li Mailly, fu presto arrestata e respinta; specialmente la sua ~•la des tra, esposta ai fuochi incrociati del rientranre, subì perdite gravissime, mentre invece all'ala opposta, verso valle, fu facile ai Francesi occupare le piccole lunette staccate. Ma neanche tale lieve vantaggio valse a mutare la situazione e, dopo reiterati, infruttuosi tentativi , che costarono a questa sola colonna quasi 2 .000 perdite:, il Mailly ordinò la ritirata.


« Più violenta e più lunga fu la lotta alla Testa dell'Assietta, dove due colonne affiancate, giovandosi abilmente del terreno, giunsero al coperto sino a tiro di pistola dall'estrema tenaglia del trinceramento piemontese e si lanciarono poi alla baionetta sulle trincee, con grande audacia e con mirabile vigore. Erano alla testa delle colonne due Marescialli di campo (d'Arnault e d'Andelot); li seguivano intere file di ufficiali, che davano un magnifico esempio di risoluto ardimento. « Anche da parte piemontese l'esempio era dato dai Capi: il Maggior Generale Alciati, il Brigadiere Martinengo, il Tenente colonnello di S. Sebastiano, comandante il battaglione Guardie, erano fra le loro truppe, sui parapetti, a respingere l'attaccante. Il quale si aggrappò alle trincee, tentò di scalzarle coi picconi, riuscì anche qua e là, sui fianchi, ad occupare momentaneamente qualche elemento; ma non potè mai prendere piede nell'interno dell'opera, grazie alla tenacia con cui i valorosi soldati delle Guardie e di Casale sì difendevano a colpi di baionetta cd a sassate. « Fu allora che il Cavaliere di Bellisle, non sapendosi dar ragione di una difesa tanto più stupefacente quanto meno attesa, accanendosi nel voler con<}n i~t :ir,., rolla Test?.. de!l'As$Ìett:::, :i.nche il suo bastone di Maresciallo, s1 lanciò egli stesso all'attacco con una bandiera alla mano, giungendo a piantarla sulle trincee piemontesi. Ma un colpo di baionetta " due palle di fucile troncarono per sempre il suo ardimento. e< Nonostante ciò, la lotta continuò ancora con tenacia alla Testa ddl' Assictta, senza che per altro i Francesi riuscissero ad ottenere alcun vantaggio, finchè, scoraggiati, ripiegarono, lasciando mucchi di cadaveri ai piedi della tenaglia. « Frattanto la colonna del Villemur era effettivamente giunta al Grand Sérin e ne aveva attaccate ripetutamente le trincee, senza riuscire ad espugnarle; essendo stati i difensori rinforzati coi battaglioni che il B~i(herasio vi av~va richiamati dal piano ddl'Assictta e dalla testata del Vallone dej Morti ( J ) . Il Villemur riconobbe inutile persistere nell'azione, t,m to più che il sopraggiungere della notte avrebbe

(1) Questo vallone, che giace imrnediarnmente :t leva nte del Grand Sérin sul versante del Chisone, non prese il sue, nome, come i piò credono, dal· l'azione del 19 luglio 1747. A quell'epoca esso aveva già tale denominazione, che pare rimonti al 1557 e sia dovuta ad un piccolo, ma sanguinoso combat· timcnto, ivi svollosi contro truppe spagnole. Cfr. Lu1c1 FRANCESCO PE~CCA: e< La battaglia dell 'Assietta l>, T orino, 1909, Tipografia Massano.


reso sempre più difficile la sua ritirata e il suo congiungimento al grosso. 1< Col calar delle tenebre, la lotta cessò dovunque n . Gravissime furono le perdite subite dai Francesi ; il parroco della Ruà (Pragelato), contemporaneo agli avvenimenti, assicurava che il 20 « i Francesi, rientrati ai loro precedenti accampamenti, trovarono mancanti 10.000 uomini uccisi o disertati, senza contare i 600 feriti che erano stati portati al Seu >> (1); il Tenente colonnello Priocca, comandante del battaglione di Casale, alla cui penna è dovuta la pregevolissima relazione ufficiale sulla battaglia, parla dapprima di 1.000 morti francesi, ma dichiara poi che i Francesi « avouent eux memes plus de six milles homm<:s entre morts, bkssés, prisonnieres et déserteurs » (2); il Dabormida assicura che « quando fu possibile appurare esattamente le perdite, esse ascendevano, dalla parte dei Francesi, a 5.300 soldati ed a 430 ufficiali, fra i quali 2 generali, 5 brigadieri e 9 colonnelli ». Qualunque sia la cifra esatta delle perdite, è indubbio che esse rappresentano una percentuale straordinariamente elevata rispetto al totale delle forze di cui disponeva iì Bellisle (20.000 uomini circa) e che il uumcr0 dei morti s:a per l ':1cc:'.!nimento c1dla lotta, svoltasi tutta specialmente alla Testa dell 'A ssietta, alle più brevi distanze: sia per l'abbandono in cui furono lasciati la maggior parte dei feriti e pel disagevole trasporto degli altri - fu anch'esso fortissimo, rispetto al numero totale dei mancanti all'appello. Del tutto sproporzionate furono poi le perdite francesi rispetto a quelle degli Austro - Sardi: dei Piemontesi caddero, infatti, all'As-sietta: 7 ufficiali e 185 soldati; degli Austriaci: 2 ufficiali e 25 soldati. Non vi fu inseguimento, ma l'indomani sul corpo del Bcllisle fu trovata una interessante corrispondenza militare, tuttora conservata negli Archivi di Stato di Torino. La ritirata francese si compì nella massima confusione vcr'ìO Briançon.

Sulla condotta dei gen erali piemontesi durante la battaglia del l'Assietta è stata viva per lungo tempo una leggenda cht solo nel (1) Riportato dal Peracca, op. cit. (2) La relazione ufficiale del Pcracca è ri portata integralmente dall 'ALBERTI : « La battaglia dell'Assictta >).


586 venne demolita dallo studio, ampiamente documentato, dell'allora tenente Adriano Al berti ( 1 ). Un successivo documento - e la minuta originale del rapporto Priocca, scevro dalle mutilazioni e dalle modificazioni che il Governo di Carlo Emanuele III credette opportuno introdurvi prima di pubblicarlo - rintracciato nel 1907 a Pragelato da Ferdinando Gabotto, studioso profondo e coscienzioso della Storia piemontese, valse a riaffermare ed a convalidare le conclusioni cui era giunto l'Albcrti, conclusioni che ormai possono ritenersi definiùve (2). Voleva la leggenda -· cui aveva dato autorità il capitano Vittorio Dabormida, col suo accurato studio sulla battaglia dell'Assietta, ed aveva dato popolarità Edmondo de Amicis, col patetico bozzetto (( La Marchesa di Spigno », incluso nel « Alle porte d'Italia i>, ed il Gramegna col suo interessantissimo romanzo storico << Il Cicisbeo l> - che il vero vincitore dell'Assietta fosse stato il Conte di S. Sebastiano, il quale si era tenacemente opposto allo sgombero dell' Assietta, ripetutamente ordinatogli dal Bricherasio, ma che l'ingratitudine del Re e l'antipatia che questi ed il Bogino sentivano per quel valoroso ufficiale avessero rinnegato all'eroe il riconoscimento dei suoi mrril1. L 'origine della leggenda risale alle Memorje del Malines, il cui manoscritto, tuttora inedito, è conservato nella biblioteca reale di Tor ino ; ma che venne in parte pubblicato dal Barone Manno nella « Miscellanea di Storia italiana >> . Tali memorie, essendo state redatte da un ufficiale piemontese contemporaneo, clic rbbe alti uffici a Corte, parve ai vari storici, il Dabormida compreso, fonte di eccezionale valore. Orbene il Malines afferma appunto che, allorchè il Grand Sérin fu attaccato, il Conte di Bricherasio, preoccupato, inviò àl Conte di S. Sebastiano, che comandava le Guardie alla T esta ddl'Assietta, l'ordine di ripiegare; ma che il S. Sebastiano, compresa l'importanza del suo posto, non volle abbandonarlo e si rifiutò di eseguire l'ordine, benchè questo veni~se rinnovato. Il merito della vittoria spettava dunque tutto, secondo il Malines, al S. Sebastiano, il quale, non soltanto non fu ricompensato, ma benchè tutto l'esercito e tutto il Paese conoscessero ed esaltassero il suo valore - venne poco appresso allontanato dalle Guardie e desti1902

ADRlANO Ai.sER1·1, op. cit. (2) F. GABOTTO: « La verità intorno alfa battaglia dell'Assietta » in Bollettino Bibliografico Subalpir,o. XI , III, 1907. .

(1)


nato ad un reggimento provinciale. Alla sua morte non avrebbe neppur ricevuto gli onori militari. Queste affermazioni vennero poi ampliate dagli storici più recenti, cercando di metterle in re1azione con altri documenti dell'epoca; la conclusione, ammessa dallo stesso diligentissimo Dabormida, fu che il Bricherasio effettivamente avrebbe, quando vide violentemente attaccato il Grand Sérin, temuto che i difensori della Testa dell'Assietta. venissero tagliati fuori e, per tre volte ed anche per iscritto, avrebbe inviato l'ordine al S. Sebastiano di ritirarsi, ordine cui questi rifiutò di dare esecuzione. Anche secondo il Dabormida, il merito principale della vittoria sarebbe dunque spettato al S. Seba.stiano, il quale tuttavia non sarebbe stato nominato nei primi rapporti ufficiali sulla battaglia, nor. avrebbe avuto ricompense adeguate e sarebbe infine stato m esso da parte: per il che sarebbe poco appresso morto di crepacuore nell'oscurità. Ragione di tutto ciò : l'essere il S. Sebastiano figlio di quella famosa Marchesa di Spigno, di cui il Re Vittorio Amedeo II aveva fatto la propria moglie m organatica e che Carlo Emanuele Ili era stato costretto - dopo che Vittorio Amedeo II aveva, per suggestione della Marchesa, tentato di stracciare l'atto di abdicazione - a far rinchiudere nel convento di S. Chiara a Pinerolo. Il Malines, cortigiano e uomo ài parte, più che soldato e cronista, raccolse pettegolezzi di salotto e maldicenze di caserma, unicamente per spirito basso di adulazione verso Re Vittorio Amedeo II di cui era stato primo scudiero, quando questi era Principe di Piemonte, e attorno a cui s'era raggruppato, regnando Carlo Emanuele III, un partito di vivace e subdola opposizione al Re ed ai ~uoi Ministri - e per odio verso il Bogino (spodestato da Vittorio Amedeo III il giorno stesso dei funerali del Re, suo padre), verso il Conte di Bricherasio e verso tutti g li uom:.n.i che erano stati mag na pars del Regno di Carlo Emam.:dc. L'Alberti ha potuto provare largamente quante inesattezze e quante menzogne esistano nel racconto del Mal tnes e, confronta ndo le onoriScenze concesse agli ufficiali che concorsero all a vitto ria dci1'Assietta e le carriere degli ufficiali dell 'epoca, è riuscito a dimostrare che i meriti del S. Sebastia no furono equamente, anzi largamente, riconosciuti e premiati subito dopo la battaglia ed in seguito, cosicchè l'ingratitudine e l'avversione del Re verso il misconosciuto eroe non furono che maligne supposizioni.


588 Molto probabilmente il S. Sebastiano passò dalle Guardie ai provinciali )) per sua domanda e non ebbe esequie militari per suo desiderio: il che però non è detto che provenisse da ragioni di carriera. Certo è altresì che i fratelli del S. Sebastiano, figli anch'essi della Marchesa di Spigno, fecero regolare carriera nell'esercito e godettero della benevolenza e dei favori del Re. Quanto all'andamento della battaglia, pare che effettivamente il S. Sebastiano sia stato uno dei più decisi nel perorare la tenace resistenza sul posto, durante le discussioni che precedettero la battaglia; che viceversa il Bricherasio non abbia dato alcun ordine di ritirata nè a lui nè ad altri; ma che il Generale Alciati, che comandava le forze al piano dell'Assietta, ad un ce1to punto, visto che il Bricherasio richiamava truppe al Grand Sérin, temendo la riuscita dell'attacco francese al Grand Sérin stesso, abbia avvertito il S. Sebastiano di (< se ménager une retraite >) (r), vale a dire di non dimenticare la necessità di assicurarsi la ritirata. Al quale avvertimento - avvertimento e non ordine - il S. Sebastiano giustamente non diede gran peso : sia perchè l'andamentò della battaglia io rassicurava ; sia perchè .le tagliate successive, costruite lungo la strada coperta. e l'esisten7.a di tn1ppe retrnsranti e l'a.ppro5Si marsi della notte gli davano affidamento che la ritirata avrebbe sempre potuto compiersi. Valoroso ed intellige-nte ufficiale fu dunque il S. SebastÌano ed a lui certamente spetta notevole parte del merito della vittoria; ma altrettanto fiduciosi neil 'es1to della battaglia, altrettanto meritevoli di fama e di onoranze, furono certamente, quanto lui, il Bricherasio, il Marinengo t:, fors':mche, lo stesso Alciati (2). t<

(1) Frase che esiste nella minuta Priocca e non nella relazione ufficiale. E " pro~abile c~e questa non abbia voluto sminuire l'opera dell'Alda.ti, anche per delicato nguardo al valoroso ufficiale, colpito d'apoplessia pochi giorni dopo la battaglia. (2) Così il Vacca· Maggiolini, nello studio citato.


Xli.

DALLA PACE D I AQU ISGRANA ALLA R I VOLUZ I ONE FRAN C ESE Nell'anno successivo a quello della battaglia dell 'Assietta, si ebbe:, come è noto, la pace di Aquisgrana (1748), dopo la q uale la rivoluzione francese, ormai imminente, doveva influire profondamente sull'arte della guerra e sulle istituzioni militari, per adattarle al n uovo ambiente sociale ed allo spirito dei tempi che, sui campi di battaglia, volevano ormai, come avevano previsto non pochi scrittori militari del secolo XVIII, non più mercenari al servizio di caste pr ivilegiate ; ma cittadini, preferibilmente volontari, consapevoli di compiere, combattendo, un loro preciso dove.re verso la Patria. Nei primi conflitti enrop1•; ~rg11it i al 1789, la sorte favorì le truppe francesi, incitate alla lotta dalle nuove idee contro gli eserciti reclutati ed istruiti secondo i vecchi sistemi, eserciti che erano allora detti << stanziali >;. Riesce dunque opportuno dire qualche cosa della F anteria di questi eserciti stanziali nella seconda metà <lel secolo XV lII per meglio collegare la materia di questo volume con q uella del III. Se accanto alle formazioni mercenarie c'erano state, come abbiamo visto, Unità di milizia, queste ultime avevano assunto una decisiva importanza, specialmente nei piccoli Stati, non rin unciatari a priori ad ogni progresso politico-militare (Piemonte); m a non in tanta floridezza econom ica da potere usufruire di esercit i troppo costosi. Nei period i dt p.1ct fra una gt1n r.1 " l'::iltr:i , non patcn<lo le milizie restare sempre sotto le armi, per non distoglie1e j citt~iclini dalle loro normali attività, gli eserciti erano compo1,ti solta11l<> dai re parti m ercenari, acquartierati in apposi re ca:.crmc e d,e, vii r..: ,id attendere al loro addestramento, disimpegnavano quel comples!>o ùi ~c rviz i, che anche oggi vanno sotto il nome cli servizi territoriali. A questi eserciti si era giunti progre!isivamcntc, mentre l'arruola. m ento mercenario cessava dall'essere caotico, occasionale cd indiscriminato, per divenire sempre più regolare e per avere leggi e regola-


59° menti che determinavano i diritti ed i doveri degli arruolati. I primi veri e propri eserciti stanziali, con una forza preventivamente bilanciata, con ferme e licenze, caserme ed uniformi, scuole e depositi, si erano avuti in Europa tra la fine del secolo XVII e l'inizio del XVIII. Di massima tali eserciti non avevano bisogno di mobilitarsi per la guerra e vi partecipavano senz'altro, lasciando a.i depositi il compito degli ulteriori arruolamenti per le necessità successive. Si mobilitavano, invece, le milizie, gli uomini delle quali spesso, durante le guerre, venivano immessi nelle file dell'esercito stanziale, quando gli arruolamenti dei mercenari non erano sufficienti a colmare i vuoti . prodotti dalle battaglie. La lunga permanenza alle armi dei mercenari professionali rendeva a poco a poco il loro addestramento perfetto ed il loro animo agguerrito e, siccome la Fanteria combatteva e manovrava, anche sotto il fuoco, in ordine chiuso per plotoni, compagnie e battaglioni (salvo pochi reparti specializzati, che combattevano in cacciatori), ne conseguiva che il muovere rigidamente, osservando le prescritte distanze ed i prescritti intervalli nelle piazze d'armi, fosse ritenuto lo scopo ultimo da rnggiungere nell'addestramento dei Fanti, perdendo c0sì di ~'!5t:1, per i! (ulto della. ferma, qudl:i che rl·;rebbe dovuto essere la vera sostanza di un efficace addestramento. Nel far seguire questa errata via, influì, nella seconda metà del secolo XVIII, il clamore sorto in Europa intorno alle Fanterie prussiane d i Federico II, vittoriose nel r757 a Rossbach ed a Leuthen, non considerando che, se queste Fanterie nazionali, derivate in parte dalla coscrizione, diedero prova ài valore, ciò fu dovuto, non soltanto al loro altissimo spirito guerriero ed all'abile azione di comando d'un grande Capo; ma anche alle troppe deficienze degli avversari, ostinati ad imitare la meccanicità delle manovre prussiane, dimenticando tutti gli altri fattori, che avevano concorso a dare rinomanza ai Granatieri di Pomerania ed ai Fanti di F ederico II.

Per quanto riguarda la Fanteria italiana, gli stessi erron s1 verificarono presso gli eserciti stanziali del Piemonte e del Napoletano : regio~i dove ormai regnavano le due Dinastie più rappresentative d'Italia. Ben poco o nulla si fece negli altri piccoli Stati della penisola nei 44 anni di pace dopo Aquisgrana, mentre Venezia e Genova si avviavano alla fine della loro indipendenza. Il lungo periodo di


S9I

quiete non potè dunque rappr::sentare, per la nosua Fanteria, sia d'ordinanza che provinciale, che un tempo di stasi e di decadenza. Fu durante questo periodo che sorse, per durare troppo a lungo, l'equivoco tra Armi dotte ed Armi non dotte. Sino a tutto il 1789, gli ufficiali si traevano, come è noto, dai nobili, ai quali la carriera delle armi garantiva avanzamenti e soddisfazioni, distribuite dai Sovrani secondo vecchie consuetudini, spesso al di fuori di ogni. merito effettivo. I nobili militavano di preferenza nella Fanteria e nella Cavalleria; ma poichè, appunto nel secolo XVIII, si ebbe un grande sviluppo delle artiglierie, l'uso dei proietti esplosivi, l'impiego del tiro preparato coi calcoli e con le esperienze, la costruzione delle fortificazioni, delle piazzeforti, dei ponti m obil i militari costrinsero ad immettere net Quadri dell'esercito stanziale ingegneri, architetti, chimici, matematici ecc., appartenenti alla borghesia e che, dapprima assimilati agli ufficiali, divennero poi ufficiali essi stessi, costituendo i primi Quadri permanenti dell'Artiglieria e del Genio. Questi ufficiali perciò furono qualificati <e i dotti >>, in confronto di quelli nobili << non dotti ». Cosa che, in quei tempi, poteva rispondere anche ad una certa verità; ma che doveva finire col rappiese11tare un vieto prcgi..:di,:io r.ei secoli XIX e XX. Non può e non deve, quindi,' recare meraviglia se, in Piemonte, i F anti di Vittorio Amedeo III, di Carlo Emanuele IV e di Vittorio Emanuele I, una volta tornati a combattere su quelle A[pi, che avevano assistito alle gesta gloriose dei loro antenati, non poterono resistere sempre vittoriosamente contro i nuovi eserciti francesi, sorretti da una volontà e da una fede nuove. Nella Storia della Fanteria italiana, i 41 anni di pace, dal 1748 al 1789, non furono di decadenza vera e propria, poichè favorirono una migliore organizzazione dei reparti di ordinanza e di quelli provinciali; nonchè le meditazioni dei pensatori e degli scrittori militari (1); ma il pa.ziente hworo compiuto non tenne il debito conto deli'evoluzione dei tempi, come se, al p10ssimo tuonare del cannone, i F anti avessero potuto marciare ancora come prima e conibattcre bene addestrati nella forma, più che animati nella sostanza da quelle energie morali, che la nuova èra richiedeva negli uomini per combattere e per vincere. Come abbiamo già ricordato, con la pace di A(luisgra na s'iniziò per tutta l'Europa, e quindi anche per l'Italia e per il Piemonte, (r) Ricordiamo : Oronzo Massa, il Palmieri, il Dclf1co,

Ct.c .


59 2 un lungo periodo di tranquillità, durato nove lustri, fino all'inizio della rivoluzione francese, che doveva imporre così profonde modificazioni nel reclutamento, nella composizione e nella tattica degli eserciti e confermare in modo ancora più manifesto l'importanza della Fanteria sui campi di battaglia.

Anche durante questo periodo di pace, i Sovrani, che succedettero a Carlo Emanuele III, morto nel 1773, e cioè Vittorio Amedeo III (1773 - 17<)6) e Carlo Emanuele IV (1796- 18o2) continuarono a dedicare le loro cure a quelle istituzioni militari, che tanto avevano contribuito all'ingrandimento dello Stato. Vittorio Amedeo Ili, ispirandosi agli esempi della Prussia, affermatasi, per le vittorie di Federico II, come una nazione militare per eccellenza, cercò di migliorare il suo esercito fin dall'inizio del suo regno e provvide a modificare la composizione organica dei reggimenti di Fanteria, a rendere più severa la disciplina, a migliorare l'addestramento con una lunga serie di disposizioni e di regolamenti, a modificare l'uniforme e lt- h;inoiere dei Corpi.. Con determinazione Jel 21 ottobre 1774 i reggimenti di Fanteria d 'ordinanza vennero costituiti su tre battaglioni, complessivamente di 1500 uomi ni . r reggimenti << La Marina », « La Regina » e <e Sardegna » furono, invece, formati ciascuno su un solo battaglione di quattro compagnie, più uno stato maggiore, del quale fecero parte soltanto il maggiore ed il personale di maggiorità. Ogni compagnia aveva la forza di un centinaio di uomini e di quattro ufficiali. In data del 22 giugno 1788 il reggimento « La Marina » venne portato a due battaglioni ed ebbe la seguente formazione : I stato maggiore; 2 battaglioni di 4 compagnie Fucilieri e di I Granatieri, ciascuno; I compagnia Carabinieri, detti anche Cacciatori; --- 1 compagnia di riserva. Le compagnie erano divise in due piotoni, i quali, in guerra, si suddividevano, alla loro volta, in due squadre di due manipoli, di due file ciascuno; mentre, in pace, ogni plotone si suddivideva in due camerate. . _Dur~n~e il tempo d_i pa~~' gli uomini delle compagnie Carabimen e d1 merva erano n part1t1 tra le compagnie Fucilieri. In guerra


593 le due compagnie Granatieri formavano una centuria che, unita a quella di un altro reggimento, combatteva come battaglione autonomo. L'armamento subi radicali trasformazioni : nel 1774 tutti gli ufficiali subalterni ed i sottufficiali vennero armati di fucile con baionetta inastata e, soltanto vent'anni dopo, nel 1794, agli ufficiali fu restituita la spada. Nel 1792 ai caporali ed ai Carabinieri fu data un'accetta e, nel 1793, a tutta la Fanteria venne distribuito un nuovo fucile con baionetta, che si fermava alla canna mediante un bottone a molla. Questo fucile - detto e< modello 1782 » - aveva le seguenti caratteristiche: lunghezza m. 1,48, lunghezza della baionetta m. 0,51, peso della palla once I (pari a grammi 30). In questo periodo vennero pubblicati alcuni regolamenti per coordinare le varie parti dell'istruzione e del servizio. Tra questi: il maneggio d'armi ed i fuochi (r775); il servizio in campagna e la polizia degli accampamenti (5 maggio 1792); le ordinanze (26 agosto 17']0); l'esercizio della Fanteria (:21 m?tggio 1791). Il Regolamento per il servizio in campagna prescrisse che i Corpi di Fanteria dovessero essere sempre provvisti di ciò che formava il loro equipaggiamento di campagna e cioè, per ogni compagnia : tende, corde per le tende, secondo il numero dei componenti, 4 badili, 2 gravine, 2 falci, 2 roncole, 2 scuri, i barilotti per l'aceto, ecc. e che, in servizio, il militare di truppa dovesse sempre avere il proprio equipaggiamento completo.

Diverse furono le modificazioni apportate, durante il Regno di Vittorio Amedeo IIJ, anche all'uniforme. Nel 1751 era stata abolita la diversità dei colori del giustacorpo, per il quale fu adottato il colore azzurro scuro, eguale per tutti i Corpi. Al nuovo giustacorpo, modificato alquanto nel tagliù, vennero adattati un colletto, i paramani ed i risvolti al petto - detri matelottes - i cui colori, come quelli della fodera del vestito, shvivano a distinguere i diversi Corpi. Nel 1774 il gìustacorpo prese il nome Ji abito e fu, per tutti, az.zurro; la veste ed i pantaJoni furo no bianchi con uose nere, alte sino al ginocchio; il cappello bicorno a falde rialzate, al quale, nd 1784, furono applicati una coccarda cd un fiocco - detto houppe di colore diverso, a seconda delle compagnie. 39


594 I Corpi si distinsero, quindi, l'uno daU'altro sempre per il colore dei risvolti, delle manopole, dd colletto, della fodera ed anche per la diversa disposizione dei bottoni. Gli ufficiali portavano ricami, alamari e cordelline diversi, a seconda del grado; in servizio e sotto le armi, cingevano intorno ai fianchi una fascia azzurra trapunta d'oro. Nel 1786 alla divisa degli uffi. ciali dell'esercito vennero aggiunte le spalline, che sino allora erano state portate soltanto dagli ufficiali della Marina e furono modificati i distintivi di grado, che vennero applicati sulle manopole e sul colletto.

Per quanto riguarda le bandiere, anch'esse subirono, nel 1774, importanti modifiche. La bandiera cer lonnella fu uguale per tutti i reggimenti e cioè azzurra con in mez1.0 l'aquila sabauda in nero con . sul petto lo stemma del reggimento, ·inquadrato con quello reale. Essa, come abbiamo già detto, era affidata Bandiera co/onnella del reggimento di FanJeria Regina :11 I battaglione. La bandiera d'ordinanza o di battaglione, affidata al II, nel 1786. aveva, invece, al centro il solo stemma del reggimento: Le aste, a quanto sembra, erano ricoperte d i velluto rosso ed il nastro era di colore azzurro. Per quanto riguarda la composizione dei reggimenti, Carlo Emanuele III aveva voluto che tutti i Corpi venissero ordinati su tre battaglioni ed aveva stabilito che, in tempo di guerra, avessero _un quarto battaglione, fornito da un reggimento provinciale. Vittorio Amedeo III, con l'Editto del 22 giugno 1786, ridusse, pel tempo di pace, i battaglioni dei reggimenti a due, ciascuno formato di una compagnia Granatieri e di quattro compagnie Fucilieri. Per la guerra ogni reggimento doveva costituire inoltre una compagnia di Cacciatori, la quale, come già quelle dei Granatieri, doveva unirsi a quelle degli altri reggimenti in modo da formare interi battaglioni Cacciatori, come si verificò durante la guerra 1792 - ~


595 contro ·la Francia rivoluzionaria (1); guerra, nella quale furono formati II battaglioni Granatieri e 2 di Cacciatori, scjolti poi nel 1796. Per i servizi di ricognizione e di sicurezza _,. servizi detti leggeri e prima affidati più specialmente alle milizie - Vittorio Amedeo III ordinò, fin dal r774, la formazione di una legione di truppe leggere, la quale, il 7 aprile 1795, si suddivise in due reggimenti (i e 2° di truppe leggere), licenziati dopo l'armistizio di Cherasco, il 29 ottobre 1796. Altri reparti di truppe leggere si erano formati durante la guerra contro la Francia, anche per iniziativa di alcuni ufficiali (Malabaila di Canale, Piano, Martini, Pandini, ecc.) composti di volontari e di disertori graziati; ma anch'essi vennero sciolti nd 17<)6 e sostituiti, il 12 aprile 1792, da Carlo Emanueie IV, con un nuovo reggimento di truppe leggere. Quando Carlo Emanuele IV, salito al trono proprio mentre la Francia minacciava di impossessarsi del Piemonte, partì nel I 798 per la Sardegna, tutte le truppe vennero sciolte dal giuramento di fedeltà, meno il reggimento di Sardegna, che seguì il Re nell'isola_ Per conseguenza, i reggimenti di Fanteria d'ordinanza vennero trasformati in meu.c brigate, scivltc n.::~ 1799. Dopo l 'abdicazione di Carlo Emanuele IV (18o2), gli successe Vittorio Emanuele I che rimase, come è noto, in Sardegna fino al 1814. Col ritorno in Piemonte del Sovrano, si ricostituirono i Corpi di Fanteria, completati poi nel successivo 1815. Essi furono i reggimenti delle Guardie, di Monfe"ato, di Piemonte, di Sa/uzzo, di Aosta, della Marina (detto poi Ctme.o), di Alessandria, della Regina, oltre a quello di Sardegna, rimasto aìle armi, ed al reggimento di Genova, formato il 1° aprile 1815 con truppe genovesi. Si formarono alcuni Corpi di truppe leggere, e cioè: 2 batta~lioni di Cacciatori piemontesi, detti poi Cacciatori di Nizza, il cui primo nucleo fu costituito dai soldati del 31° reggimento <li Fantt.:ria leggera, reduci drtl SCivizio in Fra:: eia; 2 battaglioni della Legione Reale Piemo11tesc, formata in Ing hil terra con prigionieri piemontesi; 1 battaglione d i Cacct(I /Ort della Regina; 1 battaglione 'd i Cacciatori di Savoia; 2 ba1taglio n1 di CtJc0

ciatori Italiani.

Il 3 ottobre 1815 fu dato un nuovo ordinamento al reggimento di Savoia, che si trasformò in brigata; come fecero, pochi giorni (1) Si consulti, in p,oposito, il volume 1H di quest'ope,::i.


dopo, tutti gli altri. reggimenti d'ordinanza. Contemporaneamente i reggimenti provinciali vennero sciolti e le rispettive zone di reclutamento vennero assegnate alle brigate, le quali rimasero composte di sei compagnie Fucilieri e di una Granatieri, per completarsi in guerra coi contingenti provinciali. Nel 1817 la Legione Reale Piemontese ed i secondi battaglioni dei Cacciatori di Nizza e Piemontesi formarono la Legione Reale Leggera, che ebbe quattro battaglioni.

Bandiera di battaglione dei ,.,.ggime,rto « Monferrato ;;.

Il 31 maggio 1821, in seguito agli avvenimenti politici di quell'anno, a Vittorio Emanuele I, al quale si <leve la costituzione del Corpo dei Carabinieri (1814) e che abdicò nel 1821, successe Carlo Felice (1821 - 1831), il quale soppresse le Brigate di Monferrato, di Saluzzo, di Alessandria, di Genova, i cui uomini, riuniti, formarono dapprima un deposito e quindi: quelli di M onferrato il I battaglione provvisorio di linea, quelli di Sa/uzzo il II, quelli di Alessandria il III, quelli di Genova il IV, trasformati poi, pel decreto 13 novembre 1821, il I nella Brigata Casale, il III nella Brigata Savona, il IV nella . Brigata Acqui. Nelle brigate stesse furono incorporati i battaglioni dei Cacciatori Italiani, parte dei 3 battaglioni della Legione Reale Leggera e parte dell'n° battaglione Cacciatori, formato di recente. L'anzianità di queste nuove brigate fu determinata dalla sorte. Il 26 ottobre 1830 venne dato altro ordinamento alla Brigata Savoia, esteso il 18 dicembre a tutte le altre. Ogni brigata fu compo-


597 sta di 5 battaglioni, formati sin dal tempo di pace, e che si completavano con provinciali per la guerra : 2 erano di Fucilieri su 6 compagnie, 1 di Granatieri su 4 compagnie, 1 di Cacciatori su 4 compagnie ed I di deposito con 4 compagnie Fucilieri. Questo ordinamento fu modificato da Carlo Alberto, successo a Carlo Felice il 27 aprile 1831, col decreto 25 ottobre 1831 ; le brigate vennero divise in due reggimenti: 1° e 2 ° (la Brigata Guardie in un Reggimento Granatieri ed uno Cacciatori); ogni reggimento fu composto di due battaglioni in pace e di tre in guerra; ogni battaglione ebbe 4 compagnie Fucilieri, una di Granatieri ed una di Cacciato:i Nelle brigate furono incorporati i militari dei battaglioni Cacciatori: Reali, Piemontesi, Savoia, Nizza, La Regina, Aosta, che furono soppressi. 11 loro speciale servizio venne affidato ai battaglioni da formarsi in gueru con le compagnie Cacciatori e Granatieri dei reggimenti di Fanteria. Il servizio dei contingenti provinciali venne da allora compiuto classe per classe, in modo continuativo. Con decreto poi del 9 giugno 1832, i terzi battaglioni divennero di deposito e furono stanziati nella zona di reclutamento assegnata al rispettivo reggimento. Questo era alì'incirca l'on.lina111cntu Jell'esercito p iemontese, quando, nel 1848, esso fu chiamato improvvisamente dall'appello dei Milanesi a partecipare alla prima guerra per la nostra indipendenza. Mentre, nd IH volume di quest'opera, ci riserbiamo di prendere in particol~re esame, per quanto tratta l'attività bellica, tutti gli avvenimenti più importanti che si svolsero in Italia durante il periodo napoleonico, ci limitiamo a ricordare che, appunto nel 1848, nel passare il Ticino, quasi a meglio significare la dedizione dell'esercito piemontese alla Causa nazionale, Carlo Alberto sostituì , per i reggimenti di Fanteria, alle bandiçre saba ude, quella bandicr:1 tricolore, che era stata già della Repubblica cispadana, rii q ucll:1 Cis:11pina e4 intorno aiìa quaic si era no raccoiti i Fanti del Regno 1i al iLU, per compiere le memorande imprese che indubbiament e prcp:ir:irono ed effettuarono il nostro Risorgi mento nazionale .



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INDI C I

40



INDICE DEL TESTO

P11.

"

Prefazione

VII

Premessa

Parte Prima

LE f ANTERIE 1TALIANE NEL MEDIOEVO I.

- Il medioevo e la decadenza delle Fanterie

Il.

- Le istituzioni dei' Longobardi .

11

III.

- Le istituzioni politico· militari dei Franchi

l I

IV.

- Le Fanterie negli eserciti feudali e nelle Crociate Le guerre del periodo feudale . Le Crociate

V.

- I Comuni e le Repubbliche marinare I Comuni . Le Repubbliche marinare Pisa • Genova Venezia L'Italia meridionale e la Sicilia

VI.

- Le milizie comunali italiane cd il risorgere delle Fanterie Il Carroccio

VII. - Le Fanterie comunali nella lotta contro il Barbarossa . La battaglia di Carcano . La Lega di Vcrona e 1a Lega Lombarda La battaglia di Legnano . t.a F "tdj eosunza

,,-

òl ( \

51 63 70 74 76 80 89


612 Pf.i.

VIII. - I Comu ni contro Fc:derico II . La battaglia di Cortenuova La battaglia di Parma . Le milizie bolognesi e la battaglia della Fossalt:1

IX.

- Le milizie comunali toscane . Le compag nie del popolo e del contado di Firenze Le milizie comunali di Siena . Le mili zie comunali di Pisa

X.

.

- Le lotte tra G uelfi e Ghibellini in Toscana L'est"rcito fiorentino nel 1259 L 'éSè1cito di Situa . La battaglia di Monteaperti La battaglia di Campaldino

XI.

91

93 102

107 107

114 115 119 I20

- Le Fanterie negli eserciti comunali 1 p icchieri . Gli arcieri cd i balestrieri I balestrieri genovesi

XII. - La decadenza delle milizie comunali Le Comp:ignie di ventura X lII. · Le Fanterie nelle Compagnie di ventura italiane Alberico da Barbiano (r325? - 1409) La battaglia di Brescia . La battaglia d i Castel S. Pietro La battaglia di Casalecchio Braccio F ortcbracci da Montone (1368 · 1424) . MuLio Attendalo Sforza .

XIV. · Le Fanterie straniere Le Fanterie svizz ere Le Fanterie francesi Le Fanterie inglesi . Le Fanterie tedesch e Le Fanterie spagnole I Giannizzeri turchi .

186 186 192

1 97

1 99 203 :206


Parte Seconda LE f ANTERIE ITALIANE NELLA STORIA MODERNA

I.

- Il secolo XV e l'inizio ddl'era moderna Le Monarchie occidentali Le scoperte geografiche Le grandi invenzioni Il Rinascimento La Riforma religiosa Gli Stati italiani all'inizio dell'era mo<lerna

Il.

- Le istituz ioni mllitari e le Fanterie nella Storia modc111:i

III.

- Il Rinascimento e la ricostituzione delle Fanterie italb tw

IV.

- L~ formazioni tattiche nell'opera del Machiavell i .

V.

- Le armi da fuoco e la loro diffusione negli cserci1i

VI.

- I condottieri italiani nei secoli XV e XVI Erasmo Gattamelata ( 1370 - t443) . Bartolomeo Colleoni (1400 - 1475) • Francesco Bussane detto il Carmagnola ( 1 Jlfo ) 1 4 ,1) Francesco Sforza (1401 - r466) . Federico da Montefeltro, Duca d ' Urbino (1442 1,11!.1) Gian Giacomo Trivulzio (1441 - 1518) Alfonso d'Este (1476-1534) Marcantonio Colonna (1535 - 1584) • Giovanni de' Medici (1498 - 1526) . Prospero Colonna (1442- 1523)

Vlf. - Le Fanterie nelle milizie dei diversi Stati itali:1111 Le milizie dc:llo Stato Pontificio Nel Reame di Napoli Le Fanterie nelle milizie di Genova Le istituzioni militari dd Ducato di Milano . VIII. - Le milizie Farnesiane Le disposizioni attribuite ad Alessandro Farnrn: Le istituzioni militari del Duca Ranuccio IX.

· Le Fanterie della Repubblica Veneta L'assedio di Pa<lova

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Parte Terza LE MILIZIE TOSCANE E LE FANTERIE· PIEMONTESI Plg,

I.

- Le istituzioni militari di Firenze . L'Ordinanza fiorentina ideata ed organizzata da Niccolò Machiavelli Le Fanterie nell'Ordinanza fiorentina . Appendice n. I : Provvisioni di N. Machiavelli per istituire milizie nazionali nella Repubbiica Fiorentina . Appendice n. 2: Istruzione dei nove della milizia sul!'esercizio del tiro Appendice n. 3: Consulto o parere di Niccolò Machiavelli per l'elezione dd comandante delle Fanterie

367

368 379 388 396 398

II.

- L'assedio di Firenze del 1530 e quello di Siena del 1555 L 'assedio di Firenze . L'assedio di Siena dc:! 1555

III.

- Le fanterie nelle mìlizie piemontesi

IV.

- Gli ordinamenti militari piemontesi nei secoli precedenti

442

V.

. Le riforme militari di Emanuele Filiberto

449

VI.

- Il regolamento d'esercizi di Emanuele Filiberto Le formazioni organiche e tattiche della Fanteria Appendice: Summario de' ponti sostantiali del discorso sulla militia di Emanuele Filiberto .

-:

430

.

VII. - Le milizie paesane sotto Carlo Emanuele I La milizia scelta li regolamento per la milizia . L 'evoluzione delle milizie dal 1630 al 1675 La Fanteria d'ordinanza nazionale . La Fanteria presidiaria . La milizia ordinaria e scelta . Vili. - Le istituzioni militari di Carlo Emanuele II I primi reggimenti di Fanteria IX.

- Le guerre e le riforme militari di Vittorio Amedeo II . La guerra della Lega di Augusta .

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493 497 5o4

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Pai .

La guerra per la successione di Spagna

Truppe d'ordinanza Le milizie nazionali llppendic~: Lettere patenti di S.A.R. per la creatione d i un reggimento di Fanteria da levarsi nel contado di N izza (16 aprile 1701) X.

- Le Fanterie sotto Carlo Emanuele III La battaglia di Guastalla . L 'assedio di Cuneo e la battaglia della Madonna dell'Olmo .

Xl.

. La battaglia dell'Assietta .

XII. . Dalla pace di Aquisgrana alla rivoluzione francese

Bibliografia

535 541 54 3

548 553 55 4 56 1


INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI Pag.

L'Italia sotto i Longoba rdi . Armi longobarde (dall'<( Enciclopedia Itati·ana ») Elmo longobardo (dall' « Enciclopedia Italiana 1,) L ' Italia al lempo dei Franchi Spade e lance dei Franchi (dall' « Enciclopedia Italiana ») Partenza di Amedeo III di Savoia per la II Crociata (Torino, Castello del Valentino) Enrico Dandolo bandisce la IV Crociat:1 (Disegno di L. Pogliaghi) Un Fante normanno (dall'(( Enciclopedia Italiana r,) Il giuramento di Pontida (Quadro di A. Cassioli, Palazzo Comunale di Siena) . Il Carroccic (Diseg no di L. Pogliaghi) Il Guerriero d i Legnano (dal monumento del Butti in Legnano) L::! b:itt:!,;k di Legnano (Quadro di Massimo d'Azeglio) Balestra . Balestra . Palvesi (dall\, Enciclopedia Italiana »). Picche Picche d'onore Farinata degli Ubcrti a Camp:ildino Picche dei secoli XV - XVII . Gli archi nelle loro diverse forme (dall'<, Enciclopedia Italiana ») Arcieri antichi (dall'« Enciclopedia Italiana n) La battaglia di Hastings ( 14 ottobre rn66} L 'arciere L 'an:itre <ld Carraccio (Frammento della Leggenda di S. Orsola. - Accademia di Venezia) L 'arciere del Perugino (Museo Cond.: - Chantilly) Balestre . Un balestriere Il Conciottìero (Disegno di Leonardo da Vinci) Compagnia di ventura (Quadro di Francesco Guarnacci) . Castruccio Castracani (da Mariani e Varanini: « Condottieri italiani in Germania )))

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Alberico da Barbiano (da Mariani e Varanini: « Condottieri italia ni in Germania ») Braccio da Montone (da Mariani e Varanini: « Condottieri italiani in Germania ») Muzio Attendalo Sforza (da Mariani e Varanini: << Condottieri italiani in Germania ,i) Ordini e formazioni svizzeri nella imminenza del combattimento (dal Maravigna : « Storia dell'arte militart". moderna ") Formazioni francesi per il combattimento (dal Maravigna: (( Storia dell'arte militare moderna ») Formazioni francesi e tedesche alla battaglia di Pavia (1512) (dal Maravigna: ,e Storia dell'arte militare mo<lerna ») Formazioni tattiche tedesche (dal Maravigna: " Storia dell'arte militare moderna ») Lanzichenecchi (Museo Stibbm - Firenze) Formazioni spagnole ( dal Maravigna; « Storia dell'arte militare moderna ))) . L 'impiego dei Fanti e delle pdmc artiglierie nell 'attacco di un castello (Affresco del portico del convento di S. Leonardo in Lecceto, daì1'<< Enciclopedia Italiana )l) L'accampamento del Duca d'Urbino presso Cassano d'Adda (dal Folard) Niccolò Machiavelli (dal ritratto di Stefano Uzzi) . Alloggiamento di una «battaglia» (dall'1i Arte della guerra» di Niccolò Machiavelli) Alloggiamento di esercito secondo N. Machiavelli (dall'« Arte della guerra >> di Niccolò Machiavelli) . La battaglia di Ravenna: prima fase (dal Maravigna: (( Storia dell'arte militare moderna i>) La battaglia di Ravenna : seconda fase (dal Maravigna: " Storia dell'arte militare moderna ))) Schieramento adottato da Alessandro Farnese per la battaglia di Borgherouth (2 marzo 1579) (da Mariani e Varanini: « Condottieri italiani i; Germania ») . Dispositivo dì marcia adottato da Alessandro Farnese nel novembre 155)0 (da Mariani e Varanini: (< Condottieri italiani in Germania ») . Figura che descrive Ja forma di una battaglia ordinaria nel camminare, ed in che modo si raddoppia per fianco (dati'« Arte della guerra >> di N iccolò Machiavèlli) .

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618 P12.

Figura che dimostra come una « battaglia » che cammina per testa, ed ha a combattere per fianco, si ordina (dall'« Arte della guerra» di N. Machiavelli) Figura che dimostra come s'ordina una « battaglia )) con due corna, e diPoi, con la piazza in mezzo (dall'{( Arte della guerra)> di Niccolò Machiavelli) «Battaglia>> in formazione a corni (dall'« Arte della guerra>) di Niccolò Machiavelli) Formazione di marcia di una « battaglia » di 400 fanti di pesante armatura (dall't< Arte della guerra i. di N. Machiavelli) Formazione d1 combattimento di una « battaglia » di 450 uomini di pesante armatura (schieramento sulla testa) (dal!'(( Arte della guerra» di Niccolò Machiavelli) . Figura che dimostra la forma di un esercito quadrato (dall'« Arte della guerra » di Niccolò Machiavelli). . Figura che dimostra la forma d'un esercito ordinato per far la giornata col nemico (dall'« Arte della guerra 1) di Niccolò Machiavelli) Spade icaliane dei secoli XV e XVI Gli scoppietti nel secolo XIV (dal Maravigna: « Storia dell'arte milita re moderna >>) • I primi scoppettieri (dal Maravigna: « Storia dell'arte militare moderna ») Archibugio a serpentino {dall'« Enciclopedia Italiana ») .

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2 79 280 281

Lance italiane Jei secoli XV e XVI (dal Maravigna: « Storia dell'Arte militare moderna ») Archibugi ed archibugieri del secolo XV (dal Maravigna: « Storia dell'arte militare moderna ») 283 Archibugi dei secoli XVI e XVII 284 Archibugiere con archibugio a miccia (dall'« Enciclopedia Italiana ») 286 . !"I Archibugiere tedesco (dal!'« Enciclopedia Italiana 1i) . J'~87 Partigiana 2&9 Bartolomeo Colleoni (Monumento del Verrocchio in Venezia) . 291 Federico da Montefeltro, Duca di Urbino (ritratto di Piero della Francesca · Firenze, Galleria degli Uffizi) . 2 97 Prospero Colonna . . 301 Moschettier(: del secolo XVI (dal Maravigna: « Storia dell'arte militare moderna ») . Moschetto e moschettiere del secolo XVI (dal Maravigna: « Storia dell'arte militare moderna >1)

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Pag.

I balestrieri Genovesi con Guglielmo Embriaco all'espugnazione <li Gerusalemme Alessandro Farnese Galeazze dèlla Repubblica di San Marco Erasmo Gattamelata (Monumento del D onatello in Padova )

3 17

Andrea Gritti all'assedio di Padova (r509) (Quadro di Palma il Giovane)

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Stradiotta Elmo e scudo di Don Giovanni d 'Austria (Armeria del Castello di

36 4

- Ambras_) . Un alabardiere del secolo XVI . Francesco Ferrucci (Statua di P. Romanelli nel Portico degli Ufhz1 Firenze [ Alinari]) . Francesco Ferrucci Panorama di Firenze con l'accampamento del Principe d 'Orangc ( A l· fresco del Vasari in Palazzo Vecchio - F irenze) . Gavinana attaccata dalle milizie dell'Orange (Affresco del Vasa ri 11,

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Pglazzo Vecchio - Firenze) . La battaglia d i Gavinana La casa dei Geri d ovt: il Ferrucci, ferito, venne preso prigioniero Amedeo III (Biblioteca Reale - T orino) Amedeo VI (Biblioteca Reale • T orino) Cavalieri e picchieri piemontesi sotto le mura di D amasco (dall'Adam) Emanude F iliberto (Galleria Sabauda - T orino) La battaglia di San Quintino (ciai Maravigoa: << Storia dell'artP. militare moderna ))) , . La battaglia di San Quintino (Quadro di Palma il giov:me) Bandiera di E manuele Filiberto . Battaglia quadra di gente (dai Levo: << Discorso sul modo di compa,. ·ti.re, armare t:<l esercitare la milizia di S.A.R. il Duca di Savoia ») Formazione a corni (dal Levo: « Discorso ~ul modo di cornr::inirt", armar_e ed esercitare la milizia d1 S.A.R. il Duca di Savoia ») . Formazi?rte di battaglia <lei colonnello (dal Levo: « Discorso sul m odo di compartire, armare ed esercitare la milizia di S.A .R. il Dul" di' Savoia ») Formazione a croce (dal Levo : « D iscorso sul modo d i comparti, c, armare ed esercitare la m ilizia di S.A.R . il Duca di Savoia ") . Formazione a rombo (dal Levo: << Discorso sul modo di compan i1 c. armare cd esercitare la milizia di S.A .R . il Duca di Savoi~ u) .

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Carlo Emanuele I . Moschettiere piemontese Vittorio Amedeo II La carica della Cavalleria imperiale alla battaglia della Staffarda (dal Parrocd, Museo del Risorgimento a Torino) La difesa della Verrua (Dipinto del Lapegna) . L'eroico sacrifizio di Pietro Micca (Dipioto di A. Gastaldi) La battaglia di Torino . La bandiera della Fanteria piemontese ai tempi di Vittorio Amedeo Il La bandiera dei reggimenti provinciali nel 1713 B:rndiere di reggimento e dì battaglione nel 1714 Bandiera Colon nella del 1739 Carlo Emanuele Ili L'assedio di Tortona (dicembre 1734 - gennaio r735) (Dipinto del Lapegna) La resa del Castello di Milano (30 dicembre 1734) (Dipinto del Lapegna) La battaglia dell'Assietta e la morte del Cavaliere dì Bellisle (Quadro di L. Grazzi - Circolo delle Forze Armate - Roma) . Bandiera Colonnella del Reggimento di Fanteria Regina nel 1786 Bandiu~ J~ ll.i.Ltaglione Jd Reggimeulu «Monferrato " .

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