Il volume affida ai ricordi di un giovane di Cattaro la descrizione della occupazione italiana della Jugoslavia; testimonianze integrate, ove necessario, dalle memorie e dai diari storici custoditi presso l'Archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Un giovane, il cui padre fu imprigionato dagli italiani, ma giustiziato dai tedeschi, e che fu attore della locale lotta di liberazione. Le sue esperienze, le sue impressioni danno un quadro completo e chiarificatore di moltissimi avvenimenti occorsi in quello Scacchiere e tuttora poco noti.
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Soldati italiani che assistono alla sepoltura di un cittadino di Cattaro morto nel 1941 per cause naturali.
STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO UFFICIO STORICO
STORIA DI UN PRIGIONIERO DEGLI ITALIANI DURANTE LA GUERRA IN MONTENEGRO (1941-1943)
ROMA - 2014
Traduzione del volume: "PRESA: campo di concentramento" Autore: Vasko Kostié Traduzione italiana: Mila Mihajlovié Curatore delle bozze: Elio Carlo
PROPRIETÀ LETTERARIA Tutti i diritti riservati . Vietata la riproduzione anche parziale senza autorizzazione. © UFFICIO STORICO SME - ROMA 20]4
ISBN 978-88 -96260-37-1
Finito di stampare nel mese di Settembre 2014 dalla T ipografia Mancini s.a.s. Via Empolitana, 326 - 00019 Tivoli (Roma) - Tel. 0774.411526 - e-mail: tipografiamancini@libero.it
Presentazione
Quest'opera di Vasko Kostié, tradotta in lingua italiana da lv[ila Mihajlovié, è qualcosa di diverso dalle precedenti monograjìe edite dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. È una storia che integra e completa i precedenti saggi sull'occupazione italiana della Dalmazia avvenuta durante la seconda guerra mondiale. Descrive, infatti, le vicende umane e personali del padre dell'autore - nativo di Cattaro - e, attraverso i suoi racconti, è possibile trarre delle conclusioni su argomenti ed avvenimenti che costituiscono un interessante capitolo della Storia d'Ita}ia. Per queste ragioni, l'Ufficio Storico dello Stato Afaggiore dell'Esercito ha ritenuto importante diffondere l'opera, sia per il suo interesse storico sia perché chiarificatrice di alcuni luoghi comuni che tutt'oggi circondano l'attività svolta dall'Esercito italiano in quello Scacchiere. La pubblicazione di questo volume non sarebbe potuta avvenire senza il prezioso e fondamentale contributo dell'Associazione Nazionale Venezia-Giulia e Dalmazia che ha reperito le risorse e che ringrazio sentitamente.
li Capo Ufficio Col. Antonino ZARCONE
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Grafia Per i nomi geografici si sono generalmente usati, quando esistenti, quelJi italiani, senza citare per quelli maggiormente conosciuti la corrispondente forma slava. Quest'ultima è invece citata per le località minori insieme a quella italiana. I nomi slavi della Dalmazia sono spesso ci tati con la grafia italiana: ad esempio Metcovich, dove "eh" ha il suono della "c" dolce. Peraltro i nomi inseriti in citazioni riportate da altri scritti, sono trascritti come in questi ultimi. Per la loro lettura si descrive di seguito la pronuncia delle lettere e dei gruppi di lettere con particolari segni diacritici o che comunque hanno un suono di verso da quello posseduto in italiano: - e ................................ come la "z" di "speranzà '; - Ê .................................. come la "c" di "pace"; - e .................................. come la "c" di "braccio"; - dj o gj o dz ........ come la "g" di "giorno"; - g ................................. come "g" di "gabbia" anche se la precede la "i" o la "e"; - lj ................................. come "gl" in "gli"; - nj come "gn" in "pegno"; -s come la "se" di "scena"; - z .................................. come la "s" di "rosa";
- z .......................... 4
come la "j" francese di "jour''.
Introduzione
Una delle campagne militari meno conosciute fra quelle combattute dagli italiani nel corso del secondo conflitto mondiale è certamente l'occupazione della Jugoslavia, oggetto di non molti studi e priva dell'epopea nata dalla memorialistica del dopoguerra, quella che ha caratterizzato soprattutto le campagne di Russia e d'Africa settentrionale. Solo di recente gli studiosi hanno iniziato ad avvicinarla con maggior sistematicità L_ Eppure, quello dell'occupazione italiana della Jugoslavia è uno degli argomenti fra i più scottanti della storiogratìa militare italiana, soprattutto per le difficoltà incontrate nel controllo del territorio conquistato dopo pochi giorni di operazioni, peraltro in concorso con le forze tedesche certamente più efficaci, e per le modalità con cui i comandi italiani fecero fronte alla successiva guerriglia, tanto da far parlare in molti casi della necessità di una "Norimberga" italiana2 . .L'invasione della Jugoslavia fu la naturale conseguenza di una politica che, ricollegandosi al mito della "vittoria mutilata" ed al progetto dell'Adriatico come «mare italiano': fece dei Balcani un obiettivo prioritario dell'espansionismo nazionale fascista , tanto che l'attacco alla Grecia, con il quale si apriva l'avventura balcanica italiana, venne deciso da Mussolini proprio per cercare di recuperare, di fronte alle conquiste di H itler, l'egemonia che egli pensava dovesse competere all'Italia in quell'area3 . Ma le difficoltà incontrate dall'esercito italiano in territorio greco, dal quale era stato respinto fino a perdere anche parte dell'Albania, vennero superate quando Hitler decise di intervenire contro la Jugoslavia, che un colpo di stato stava allontanando dall'Asse, per ristabilire un pieno controllo sui Balcani, strategicamente molto importanti prima dell'attacco che stava pianificando contro la Russia, e portare nel contempo aiuto all'alleato italiano. Le operazioni militari per l'occupazione congiunta della Jugoslavia, iniziate il 6 aprile del 1941, non furono particolarmente impegnative, tanto che la campa-
1 Alcu ni esempi: G. RoCHAl; Le guerre italiane 1935-1943. Dall'impero di EtiopiCI alla disfatta, Einaudi, Torino 2005; G. RooO GNO, 11 nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione de/1'.Ttalia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003. 2 Tra gli altri: C. D1 SANTE, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati, 1941 1951 , Ombre Corte, Verona 2005; M . BATTTNI, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza, Roma -Bari 2003; F. FOC ARO! e L. KuN KHAMMER, La questione dei criminali di guerra italiani e una commissione d'inchiesta dimenticata, in "Contemporanea': a. VI, n. 23, luglio 2001, pagg. 497528. 3 G. ROCHJ\T, Le guerre italiane... , op. cil.; G. SCHREIBER, I militari italiani internati nei campi di concentramento del terzo reich 1943-1945, SME-Utlìcio Storico, Roma 1998; i'v1. MONTANARI, La cam pagna di Grecia, Slv1E- Ufficio Storico, Roma 1991; M. CERVT, Storia della guerra in Grecia, Sugar, M ilano 1965.
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gna si concluse il 17 aprile con la resa senza condizioni jugoslava, a cui seguì la spartizione dei suoi territori fra i vincitori. All'Italia andò la Slovenia occidentale, in cui venne istituita la Provincia di Lubiana, parte integrante del Regno d'Italia, e la Dalmazia, che con decreto reale del 20 maggio divenne un governatorato, comprendente le province di Zara, Spalato e Cattaro. Il resto del territorio del nord Jugoslavia venne annesso al nuovo Regno di Croazia nato dal dissolvimento della monarchia jugoslava e governato dal leader ustasa Ante Pavelic, diviso in due aree di influenza: tedesca ad oriente ed italiana ad occidente. Ante Pavelic offrì il trono di questo giovane stato ad un membro della Casa Savoia, Aimone, che però non ne prese mai possesso. Ma se la conquista militare non aveva incontrato particolari ostacoli, la gestione ed il controllo da parte delle forze del!' Asse, in particolare di quelle italiane, fu estremamente difficile, soprattutto a causa di un forte ed esteso movimento di resistenza che divampò già fin dall'estate del 1941 in Slovenia ed in Montenegro. La rivolta in Montenegro, che ebbe riflessi anche a Cattaro, colse di sorpresa gli italiani e nel giro di pochi giorni la ribellione si propagò nel Paese, fino ad attaccare i presidi militari italiani. Per riprendere il controllo della regione fu necessaria un'azione repressiva da parte delle forze affidate a l Comandante del XIV Corpo d'Armata, che ebbe l'incarìco di sedare l'insurrezione secondo le direttive del generale Alessandro Pirzio Biroli, al quale erano stati affidati pieni poteri politici e militari4 . Secondo i suoi ordini si procedette con rigore ma "senza carattere di rappresaglia e senza inutile vendetta" 5 • Ad operazioni in Montenegro concluse, le perdite italiane arrivarono ad oltre mille soldati morti o feriti. Il crescente successo dei movimenti di resistenza che si manifestarono sia nei territori annessi al Regno d'Italia sia in quelli sotto influenza italiana suggerì una politica di maggior rigore, che portò alla creazione di Tribunali Militari ed alla realizzazione, a scopo preventivo e punitivo, di un sistema di deportazione selezionata della popolazione, con la detenzione in carcere o in appositi campi creati in Italia e nel territorio jugoslavo occupato6 . Ma sia i Tribunali militari sia le deportazioni non furono sufficienti a tenere sotto controllo la situazione, per cui fu necessario l'intervento continuo dell'esercito in azioni militari, spesso in collaborazione con organi di polizia, senza però ottenere risultati duraturi nel tempo nei confronti di una guerriglia che operava mediante attentati nelle città o imboscate lungo le strade, con migliaia di morti;
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C. VALLAUIU, Soldati. Le Forze A rmate italiane dall'armistizio alla liberazione, UTET, 'forino 2003; E. AGA Rossi, M.T. G1usTJ, Una guerra a parte. I militari italiani nei balcani 1940-1945, li i'vlulino, Bologna 20 11; P. Iuso, Esercito, guerra e nazione. 1 soldati italiani tra Balcani e lvfediterraneo orientale I 940- 1945, Ed iesse, Roma 2008. 5 O. TA LPO, Dalmazia: una cronaca per la storia, Voi. I, I 941, SME- Ufficio Storico, Roma 1985, pag. 436. 6 S.A. KERSEVAN, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentra.mento fascisti per civili jugoslavi, 1941-1943, Nutr imenti, Roma 2008; C.S. CAPOGRECO, I campi del Duce. /;internamento civile nell'Italia jàscista (1940- 1943), Einaudi, Torino 2004.
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anzi, queste azioni contribuirono ad alimentare l'appoggio popolare al movimento di liberazione ed il risentimento antitaliano. Questi, in estrema sintesi, i fatti riguardanti l'occupazione italiana della Jugoslavia, che vide la sua conclusione 1'8 settembre 1943. In essi possono essere indi viduate le premesse per le più importanti e negative conseguenze della sconfitta italiana, cioè l'acuirsi dello scontro fra le popolazioni al confine orientale italiano, con le ben note conseguenze sugli italiani residenti in quella zona, e le perdite territoriali con cui si concluse la guerra di Mussolini. Ma, come accennato nelle prime battute, questa campagna non ha avuto la stessa attenzione di altre campagne del nostro esercito nel corso della seconda guerra mondiale, pur se il soldato italiano si venne a trovare in una delle più difficili situazioni militari e politiche di tutti i fronti in cui ha combattuto. rufficio Storico dell'Esercito ha pubblicato un'opera di Salvatore Loi dedicata alle operazioni militari in Jugoslavia negli anni 1941-1943 ed un'altra di Oddone Talpo, "Dal mazia, una cronaca per la storia", con prefazione di Renzo De Felice, il quale mette in evidenza come l'autore affronti, oltre agli aspetti tecnico-militari, a~1ehe quelli connessi con l'occupazione: da quelli socio-economici a quelli amministrativi, da quelli giudiziari a quelli scolastici. Al di fuori di questo contesto, altri autori hanno prodotto studi di diversa valenza, in alcuni casi condizionati però da preconcetti ideologici supportati solo da memorie locali trasmesse oralmente, che generalmente mettevano in luce solo ciò che di negativo è stato fatto dagli italiani. Certamente anche queste fonti orali hanno la loro dignità storica, soprattutto se sono sollecitate direttamente dallo storico nell'ambito della sua ricerca. Ma le fonti orali non sono sempre oggettive, perché nascono nel momento della ricerca e non dell'evento, perché possono essere soggette a climi politici o perché possono essere ricostruzioni parziali. La storia orale, perciò, si configura essenzialmente come una storia della memoria, che consente di far riemergere esperienze e fatti dimenticati, ma per essere u.tilizzata correttamente ha bisogno di una sufficiente documentazione di appoggio. Qciando ciò accade, allora i risultati che si ottengono sono significativi e le fonti orali, supportate dai documenti, possono restituire identità e dignità a comunità offese, nella prospettiva di un loro risarcimento storico. Può essere questa la chiave di lettura di questo volume edito dall'Ufficio Storico dell'Esercito che affida ai ricordi di un giovane di Cattaro la descrizione della occupazione italiana della Jugoslavia, controllando però la corrispondenza di quei ricordi con le informazioni presenti nei suoi archivi. ' Certamente il ricordo di quel giovane, il cui padre fu imprigionato dagli italiani m a giustiziato dai tedeschi, e che fu attore della locale lotta di liberazione, può essere condizionato dal sentimento di "italianità" che traspare dalle sue parole di cittadino da Cattaro, centro di raccordo fra le due sponde dell'Adriatico e di antico legame con Venezia, tanto che a Cattaro e nelle Bocche è ancora vivo il ricordo del locale d ialetto veneto; ma egli, senza m inimizzare errori ed orrori che possono essere stati commessi, vuole completare il quadro sulla storia degli italiani in Jugoslavia, in genere raccontata negativamente, "girando la medaglia" per mettere in luce anche gli aspetti positivi della presenza italiana, cercando di far conoscere come si sono svolti realmente i fatti e non "secondo la maniera in cui 7
ci siamo messi d'accordo': allo scopo di offrire un risarcimento morale a gran parte
dei soldati che operarono in quel Teatro di guerra. Ecco, allora, che questa opera può entrare a far parte delle testimonianze orali a disposizione di coloro che intendono studiare l'occupazione italiana della Jugoslavia, da utilizzare per le proprie esigenze e secondo la specificità propria di questo tipo di testimonianza.
Gen. C.A. (aus) PINO Enrico
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Premessa
Per l'Associazione dei Dalmati Italiani nel Mondo seguo le comunità italiane che si sono riorganizzate in Dalmazia dall'ultimo decennio del secolo scorso. Nel 2010 la Comunità degli Italiani del Montenegro, con sede a Cattaro (Kotor) e composta in massima parte dagli Italiani autoctoni della Dalmazia montenegrina, mi comunicò che il Sig. Vasco Kostié aveva scritto un libro che desiderava fosse pubblicato in Italia. 11 libro, scritto in montenegrino in caratteri cirillici, era incentrato sulla prigionia italiana subita da suo padre durante la seconda guerra mondiale e metteva in luce l'umanità degli Italiani. [autore affermava di avere scritto solo per il bisogno spirituale di fare conoscere gli avvenimenti raccontati. Dalla lettura ritengo trasparisca la profondità e la sincerità di questa motivazione. Il Comitato di Padova dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, con la sua presidente prof.ssa Italia Giacca, prese a cuore la ricerca. La pubblicazione di questi ricordi risponde a quanto previsto dalla legge 92/2004 che istituisce il "Giorno del Ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati e della p iù complessa vicenda del confine orientale". Purtroppo quanti avevano precedentemente negato foibe ed esodo li stanno ora giustificando con l'enfatizzare oltre misura le colpe, vere o presunte, del fascismo fra le due guerre mondiali e delle Forze Armate italiane durante la seconda. Questo ha portato ad una notevole produzione di scritti che denunciano i crimini del fascismo, dai quali sarebbero iniziati i problemi, e ancor più delle nostre Forze Armate. Per quanto riguarda questi ultimi particolare interesse hanno dimostrato gli editori e gli storici per i campi di prigionia, privilegiando il ricordo cli quelli gestiti con minore umanità. Indubbiamente le colpe italiane, quelle vere non quelle presunte, rientrano nelle "complesse vicende del confine orientale': ma non sono le uniche e non sono assolutamente sufficienti per giustificare quanto avvenuto al termine della seconda guerra mondiale. La pubblicazione di questo libro è quindi stata ritenuta utile per dare un quadro piLt completo degli avvenimenti storici. Per questo libro controcorrente si è ritenuto opportuno trovare la collaborazione di un editore che lo rendesse credibile con la sua serietà e la sua autorevolezza in campo scientifico: l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito è sembrato il più idoneo. Sarà ora opportuna qualche considerazione. Innanzi tutto, anche per confutare la tesi secondo la quale i problemi sarebbero cominciati con il fascismo, è opportuno parlare della Dalmaz.ia. Questa regione, lunga circa 500 chilometri comprende, ed ancor più comprendeva prima delle «pulizie etniche" che si sono succedute negl i ultimi 150 anni, zone ed ambienti molto diversi uno dall'altro. Regione complessivamente plurilingue, la cultura italiana vi era egemone, come tuttora testimoniato dalle architetture. L'italiano, a metà del 19° secolo, era la lingua 9
materna di circa il 15% della popolazione ed era concentrata, in varia misura, nei centri della costa e d elle isole. Di lingua slava, prevalentemente croata, era la popolazione delle campagne e dell'interno. La nazionalità non era comunque un elemento dì divisione. Iniziò ad esserlo con i Risorgimenti italiano, croato e serbo. L'Austria fino al 1848 si presentò come l'erede di Venezia, ben conoscendo il buon ricordo lasciato dalla stessa, specialmente fra i Dalmati di tutte le stirpi. Perasto (Perast), nelle Bocche di Cattaro da!Je quali provengono i ricordi di questo libro, aveva avuto l'onore di custodire e difendere, in pace e in guerra, il gonfalone della marina da guerra veneta. Lo seppellì, con grande solennità e commozione, il 23 agosto del 1797, ben tre mesi dopo che la Repubblica aveva dichiarato la propria fine a Venezia. Nell'occasione il Capitano di Perasto, Giuseppe Viscovich, aveva pronunciato il famoso discorso del quale le parole "ti con nu e nu con ti" sono attualmente il motto della Nave San Marco della Marina Militare. Successivamente l'Austria avversò, specialmente in Dalmazia, l'elemento italiano favorendo quello croato, che si dimostrava il più fedele. Nel 1861 tutte le amministrazioni comunali della Dalmazia erano rette dal partito autonomista, italiano o tìloitaliano. Nel 1918 era rimasto italiano il solo Comune di Zara. Dopo il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 che assegnò alla Jugoslavia la Dalmazia, tranne la piccolissima provincia di Zara, iniziò l'esodo degli Italiani, che ebbe il suo picco massimo e più drammatico nel 1921, ben prima dell'affermazi.one del fascismo. Continuò poi strisciante fino al 1941. Per quanto riguarda il comportamento delle nostre Forze Armate è facile tro vare avvenimenti che di per se stessi suscitano orrore, come ad esempio la fucilazione di ostaggi per rappresaglia. È più che frequente che storici non militari valutino glì avvenimenti al di fuori del loro contesto bellico. La "rappresaglia» e la "repressione (o sanzione) collettiva" erano previste dal diritto di guerra in linea con le Convenzioni di Ginevra, che avevano lo scopo di rendere, con il loro potere dissuasivo, la guerra meno inumana. Vi riuscirono nella prima guerra mondiale. Nella seconda in Jugoslavia, come altrove, i partigiani comunisti ricercavano spesso le rappresaglie per strumentalizzarle. Con questi metodi spregiudicati riuscirono ad accrescere la propria importanza, giungendo a sostituire i cetnici quali referenti e destinatari dei rifornimenti anglo-americani. Gli Italiani non poterono sottrarsi dalla logica di una simile guerra. Possiamo però dire che complessivamente si comportarono nel modo più umano possibile. ln Jugoslavia, come in tutti i paesi europei (Francia, Grecia, Polonia, Romania e la stessa Italia) i partiti comunisti disponevano di reti clandestine capaci di sottrarsi all"'intelligence" degli Stati borghesi o fascisti, come quello greco di Metaxàs. A causa de] patto Ribentrop-Molotov queste reti clandestine furono tenute "in sonno" fino all'invasione tedesca dell'URSS del 22 giugno 1941. I partiti comunisti non mossero un dito né al momento dell'invasione tedesco-sovietica della Polonia nel 1939, né al momento dell'attacco tedesco a Francia, Belgio, Olanda nel maggio 1940 o dì quello italiano alla Grecia nell'ottobre 1940 e nemmeno dell'invasione della Jugoslavia nell'aprile 1941. La resistenza, fino all'invasione dell'Urss, fu Jasciatfl aì partiti "borghesi" e al patriottismo dei militari fedeli ai governi spodestati. In Jugoslavia, tranne che nel Montenegro, la guerra del partito comunista con-
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tro gli occupatorì iniziò dopo il 22 giugno gradualmente con il terrorismo, crescendo progressivamente. La rivolta del Montenegro, come testimonia il Kostié, scoppiò improvvisa e inaspettata non solo dagli Italiani. Nel Montenegro il partito comunista, clandestino, era particolarmente sviluppato. Nel 1939 vi erano circa 600 membri del partito, mentre in tutta la Jugoslavia, con una popolazione circa trenta volte maggiore, ve n'erano 3.000. La rivolta divampò il giorno dopo la proclamazione, il 12 luglio, dell'indipendenza del Montenegro. La politica italiana, nel dare l'indipendenza al Montenegro, era stata coerente con quella tenuta dopo la prima guerra rnondiale, quando l'Italia era stata l'unico Stato che ne aveva sostenuto l'indipendenza, giungendo anche a sostenere gli insorti contro la Jugoslavia concedendo loro di addestrarsi a Gaeta. Purtroppo la concessione dell'indipendenza era stata cohcepita con una certa superficialità e cedendo all'Albania parte dei territori che erano stati del Montenegro. Frustrava quindi il sentimento patriottico dei Montenegrini. Peraltro una certa limitazione all'indipendenza era conseguente alla stessa situazione bellica ed all'occupazione militare. Conseguentemente l'insurrezione aveva potuto assumere un carattere patriottico, oltre che ideologico, coinvolgendo buona parte della popolazione. Ritengo ora opportuno qualche cenno sulle Bocche di Cattaro (Kotor), dove sono stati vissuti gli avvenimenti raccontati, e sul relativo ambiente umano. Le Bocche di Cattaro sono costituite da un insieme di valli invase dal mare, analogamente a quanto si riscontra in altre parti della Dalmazia, come a Sebenico (Sibenik). La catena di monti che separa nettamente la Dalmazia dall'interno balcanico, qui vicinissima alla costa con i suoi monti compresi tra i 1.000 e i 1.700 metri e particolarmente impervi, divide due ambienti naturali completamente diversi. Le Bocche appartengono quindi alla Dalmazia geografica, che la maggior parte dei geografi considera arrivare a sud fino al fiume Bojana. Più sfumato è il limite meridionale, storico, culturale ed umano. Il limite tra la Dalmazia Prevalitana e la Dalmazia dipendente da Salona passava poco a sud di Budua (Budva) e divise l'Impero Romano d'Oriente da quello d'Occidente, lasciando a lungo le sue conseguenze. Budua è conseguentemente l'ultimo Comune che si dette uno Statuto analogo a quello degli altri Comuni latini della Dalmazia. Successivamente Venezia acquisì, insieme con la Dalmazia esclusa Ragusa (Dubrovnik), anche parte dell'Albania. Quando poi Venezia perse i territori albanesi il nome di Albania veneta restò alla parte di Dalmazia, comunque dipendente dal Governatorato di Zara, a sud della Repubblica di Ragusa. Quando, nel 1797, la Repubblica veneta finì, il suo limite meridionale era a sud di Castellastua (Petrovac na Moru), dove il cartello stradale indica Kufin ( da Confin). Nel 1878, con il trattato di Berlino, il Montenegro acquisì la costa da Antivari (Bar) verso sud. Il Regno di Dalmazia austriaco portò il suo confine meridionale subito a nord di Antivari, a Susanj ed al porticciolo di Spizza (Spie). Tale limite divide attualmente la diocesi cattolica di Cattaro, i cui fedeli sono in maggior parte croati, dall'arcidiocesi di Antivari, competente per il resto del Montenegro ed i cui fedeli sono in maggior parte albanesi. Può essere considerato anche il limite meridionale della Dalmazia storica. Alla fine del 18° secolo la marineria delle Bocche di Cattaro era la maggiore dell'Adriatico orientale. Decadde dopo la fine della Repubblica veneta, venendo ampiamente superata da quella di Lussino (Losinj). Dalla fine del 19° secolo sono 11
aumentati i rapporti con l'interno anche grazie alla realizzazione di strade. La prima strada collegante la Dalmazia storica con l'interno fu costruita nel 1892 tra Cattaro e Cettigne (Cetinje). Fino alla prima metà del 20° secolo la componente cattolica della popolazione delle Bocche era maggioritaria. Come ancora oggi, era maggiormente presente nelle località costiere più legate alla navigazione e meno nel mondo contadino. La situazione nazionale della Dalmazia montenegrina, dalla seconda metà del 19° secolo aJ 1941 aveva seguito le stesse vicende del resto della regione. Una minoranza italiana era presente in tutte le Bocche, inclusa Budua (Budva). Era maggiore a Cattaro dove, grazie all'eccezionale forza della sua posizione naturale, la presenza latina non era stata travolta dall'invasione avaro-slava del 614-15 e si era potuta evolvere in italiana, sia pure riducendosi. Nel 1900 vi era riuscita ad esprimere, per l'ultima volta, il Sindaco (allora denominato Podesfà). Successivamente si era notevolmente ridotta, come nel resto della Dalmazia non annessa all'Italia, per l'esodo successivo alla prima guerra mondiale. Litaliano, con il dialetto veneto-dalmata che oggi è poco più di un gradito ricordo, era ancora la lingua materna di una parte della popolazione. Era comunque abbastanza conosciuto anche dagli altri. !.:italiano era peraltro la lingua che fino al 19° secolo era stata usata non solo dai letterati, ma anche dagli scrivani di bordo dei trabaccoli e negli ex-voto dei marinai. Nel 1941 l'arrivo di nuovi abitanti, generalmente ortodossi, successivo alla prima guerra mondiale aveva già ridotto percentualmente anche la componente croata, ulteriormente ridotta dalle tensioni conseguenti alle guerre interetniche che hanno dissolto la Jugoslavia. La componente cattolica è oggi complessivamente ridotta a circa il 10%. I nuovi arrivati peraltro hanno continuato ad inserirsi facendo propri il dialetto slavo locale, caratterizzato da frequenti italianismi e venetismi, e le tradizioni corrispondenti. La popolazione ortodossa si divideva nel 1941, come tuttora, anche in base ai propri sentimenti, in serba e in montenegrina. Particolarmente sentito era, specie per quest'ultima, il legame con la Regina Elena. Il matrimonio tra un Savoia ed una Petrovié si era peraltro inserito in legami pit'.1 antichi esistenti tra l'Italia ed il Montenegro. Limportanza di questi rapporti sembra evidente qualora si consideri che il Montenegro si era formato intorno a Cettigne, distante in linea d'aria circa 14 km dalla veneta Cattaro. Njegos, luogo d'origine dei Petrovié, era ancora più vicino. La suddivisione tra cattolici ed ortodossi non ha portato nella Dalmazia montenegrina gli stessi scontri che ha portato nel resto della regione. Quando gli Ortodossi non disponevano ancora a Cattaro di una propria chiesa, le loro necessità di culto erano state soddisfatte dall'ospitalità in una chiesa cattolica. Peraltro la Diocesi di Cattaro è dipesa fino al 1828 dall'Arcidiocesi di Bari nella quale gli Ortodossi avevano ed hanno tuttora, in determinate occasioni, la disponibilità di un altare nella chiesa di San Nicola. Le peculiarità della Dalmazia montenegrina ed in particolare delle Bocche di Cattaro hanno portato gli abitanti a riconoscersi principalmente come Bocchesi. Un'identità dalmata è maggiormente sentita solo da Italiani e Croati, legati alle rispettive nazionalità presenti in Dalmazia. La distribuzione delle diverse componenti etniche o nazionali dipendeva, come tuttora anche se in percentuali diverse, dalle diverse aree. Nel settore nel quale inizia il racconto di Presa, ad occidente di Teodo (Tivat), prevalentemente contadino,
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era maggiore da secoli la componente ortodossa. Più distante dal nucleo storico del Montenegro, dal quale era separata dal golfo di Cattaro e dal relativo ambiente umano, si sentiva in buona parte serba. In particolare la zona del Grebaglio (Grbalj), maggiormente serba e più vicina al movimento cetnico, si dimostrava più impermeabile al comunismo. La provincia italiana di Cattaro, costituita con Regio Decreto del 7 giugno 1941 nell'ambito dei confini definiti con Decreto Legge del 18 maggio, comprendeva circa 547 kmq e 39.800 abitanti. Considerazioni varie avevano fatto in modo che i suoi confini si discostassero, tranne che verso l'interno, da quelli storici delle Bocche. Quello con fa Croazia, a nord, includeva infatti territori già appartenenti alla Repubblica di Ragusa. Quello meridionale lasciava invece al Montenegro la cittadina di Budua e altri territori considerati bocchesi. I confini peraltro erano stati definiti con una certa approssimazione e dovevano ancora essere ben delimitati. Ugualmente da completare era rimasta parte dei numerosi provvedimenti legislativi necessari, come quelli relativi alla cittadinanza degli abitanti, che conseguentemente non erano soggetti agli obblighi di leva. Gli stessi problemi riguardava.no anche il resto della Dalmazia di recente annessione: la provincia di Spalato e l'ingrandimento della precedente provincia d i Zara. Questi motivi e l'occupazione italiana del territorio circostante rendevano meno percepibile l'ubicazione dei confini. Diversi motivi, quali il particolare ambiente ed il ricordo dell'epoca veneziana come l'età migliore, fecero in modo che la rivolta del Montenegro ebbe nelle Bocche di Cattaro un'adesione relativamente limitata. Attualmente le Bocche sono ben inserite nel Montenegro, che rispetta e valorizza le peculiarità delle diverse zone e delle minoranze che lo compongono. Utalia, benvoluta in tutto il Montenegro, lo è in modo particolare nelle Bocche. Questa situazione ha portato alla nascita nel 2004 a Cattaro di un'attiva Comunità degli Italiani del Montenegro. È quella che si è interessata per fare pubblicare in Italia la presente testimonianza storica. Per concludere mi sembra appropriato, per le analogie esistenti, raccontare quanto avvenuto ad un cugino di mio padre. Dopo avere iniziato la guerra come ufficiale di complemento dei bersaglieri, aveva prestato servizio con le «camicie nere" fino al 1943 in Montenegro, in prossimità della provincia di Cattaro. Per questo periodo, rientrato in Italia, aveva subito pesanti umiliazioni. Circa trenta anni dopo era stato invitato a Zemonico (Zemunik), presso Zara, da un sacerdote ortodosso che vi si era trasferito dal Montenegro. Fu ricevuto al porto di Zara da due poliziotti che dissero d i essere stati pregati dal sacerdote di accompagnarlo in auto a Zemonico. Trovò iJ sacerdote che aveva voluto ringraziarlo, di fronte ad una grande tavolata di paesanì, per il bene che aveva fatto con il suo reparto al suo paese in Montenegro. Nel 1992, Colonnello in servizio con la Missione di pace europea in Jugoslavia, cercai il sacerdote per ringraziarlo. Non potei farlo perché era già deceduto. Colgo ora l'occasione per ringraziare, da Italiano, l'autore di questo libro. Elio Ricciardi Vicepresidente Comitato di Padova dell'A.N.V.G.D. 13
Presentazione dell'Autore
In eterna memoria di mio padre Afirko Kostié, detenuto nella prigione di Cattaro, nei campi di concentramento di Presa, i'vlàmula e Prevlaka, nel reparto di detenzio ne dell'Ospedale militare di 1vlelligne e, di nuovo, nella prigione di Cattaro, dai tedeschi giustiziato per impiccagione il 22 novembre 1943, a soli 37 anni. Si è immolato per non recare vergogna agli avi e per permettere alla sua numerosa famiglia, rimasta senza mezzi di sostentamento, di sopravvivere alla guerra. Con questo libro intendo proseguire la strada indicatami dalle generazioni della mia Jàmiglia che mi hanno preceduto; analogamente esse hanno agito sempre in favore della verità: con costante e indicibile fatica, ma combattendo dignitosamente ingiurie, accuse e altri impedimenti. A ricordo dei Ji·atelli di sofferenza di Mirko ed anche (sebbene ciò non sia usuale) delle vittime italiane, nostri amici o nemici e dei loro patimenti, con vivo ricordo soprattutto della loro bontà e del bene che hanno fatto, e non solo del male che hanno arrecato. (Le Jotograjìe di Presa sono state portate dai detenuti Djuro Todorovié e Mirko Kostié, sono state conservate, in memoria, dai loro jìgli Nenad Todorovié e Vasko Kostié).
I.:autore sig. Vasko Kostié
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(I
1.
Introduzione In merito al titolo di questo libro si dovrebbe, per prima cosa, descrivere il campo di concentramento "Presa" e dire la verità sulla vita all'interno di quel campo. Ma coloro che non vissero tale periodo difficilmente potrebbero immaginare, senza un aiuto introduttivo, il quadro reale di quei tempi. Ancor più difficile sarebbe per loro comprendere le difficoltà e le sofferenze di allora, se non venisse detta la verità - per lungo tempo strenuamente tenuta nascosta - sui rapporti tra i bocchesi7, i montenegrini 8 e gli italiani, durante il periodo della Seconda guerra mondiale. Chi ha visto solo una faccia della "medaglia", ha nella mente un quadro parziale - il che produce una semi-verità. 1àle verità parziale, imposta e persistentemente ripetuta, h a prodotto un'immagine negativa degli italiani, identificandoli tutti come fascisti. Tale tendenza non sarà qui perseguita; questo non dovrebbe essere interpretato come tentativo di negare o di sminuire meriti, crimini, atti pavidi o eroici che siano, azioni stupide o intelligenti. Tutto ciò che è stato scritto finora in diverse raccolte e in molti libri sulla Seconda guerra mondiale nel territorio delle Bocche di Cattaro (cfr. fig. I), tale rimanga. Purtroppo, quello che è stato scritto e divulgato in migliaia e migliaia di copie, non si può cancellare, ma si può completare girando "la medaglia", facendone vedere anche l'altra faccia, quella che volutamente n on è stata neanche intravista con lo sguardo, né tantomeno scritta. Spesso si sente dire: "Quello che non è stato scritto, non è neanche successo': Questo libro intende far sì che sulla carta vada almeno una piccola parte di quello che veramente è avvenuto e di cui finora nulla è stato scritto, oppure è stato scritto, ma in modo parziale, senza obbiettività, in modo tendenzioso e falso. Ogni singola persona e ogni gruppo è caratterizzato da qualcosa di positivo e qualcosa di negativo. I:.i mportante è ciò che prevale. Questo libro presenterà un quadro più realistico s ugli italiani, gli occupatori, almeno in relazione ai bocchesi e alle loro relazioni con il campo "Presa·: in modo minore agli altri campi e altre prigioni, offrendo molti dati finora sconosciuti o irraggiungibili, molto diversi da quelli contenuti nella storiografia ufficiale. Per questo mi aspetto accuse di tentato falso "revisionismo storico" sui fatti della Seconda guerra mondiale, il che non sarebbe la prima volta.
7 Abitanti della parte costiera dell'odierno Montenegro che abitualmente chiamano loro stessi "bocchesi'', ovvero abitanti delle 13occbe di Cattaro in senso lato - nota del tr. 8 Tra la gente del Montenegro, per montenegrini si intendono gli abitanti delle "Gore", ovvero dei mon ti. Con tale nome sono indicati abitanti della parte dell'odierno Montenegro lontano dalla costa, Ja gen te dall'entroterra montuoso - nota del t1:
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Il libro può e vuole essere un contributo alla revisione di quella parte falsa della storiografia ufficiale (jugoslava - n.t.); non sarà sicuramente meno obbiettivo di questa, visto che i "sarti" di quel vestito storico erano uomini politici che tagliavano e cucivano gli avvenimenti, secondo quanto loro conveniva. Oggi, le condizioni politiche sono cambiate e, a distanza di sette decenni, la "verità" storica necessita di essere rivista e rivalutata. Molti la storia l'hanno scritta su diktat ricevuto, dovevano farlo. Li comprendo, perché anch'io ho subito pressioni per "non scrivere come i fatti si sono svolti': ma "secondo la maniera in cui ci siamo messi d'accordo''. Se avessi dato ascolto a quelle pressioni, avrei avuto una vita migliore. Ma n on potevo, perché possiedo l'esperienza che ad altri manca. Lo dimostrerà anche questo libro, specialmente nel capitolo "I maestri italiani". Chi scrive queste pagine non è un nemico del Movimento per la liberazione della Seconda guerra mondiale, ma è un componente dello stesso, che non aveva ancora compiuto 13 anni il primo agosto 1943, quando divenne membro della allora clandestina Lega della gioventù jugoslava (USAOJ), venendo subito eletto membro del Consiglio comunale. Per tali meriti di combattente, attivo fino alla liberazione, gli è stata destinata un'onorificenza tradotta in due salari mensili (secondo quanto stabilito per gli ex combattenti). Io appartengo quindi alla storia della Lotta per la liberazione (NOP), non solo come diretto partecipe tra le fùe combattenti, ma anche per quanto ho raccontato con i miei scritti. Tanto più sento quindi il desiderio di fare quello che ancora posso, in favore di questa lotta, per renderla più vera e più giusta. Sono uno dei pochi che ancora custodisce la tessera della Lega giovanile USAOJ del 1943, che costituisce il certificato e la bilancia della mia testimonianza. Fin dall'inizio della guerra era usuale identificare gli ìtaliani con i fascisti, come se i due termini fossero sinonimi. Questa è un' ingiustizia nei confronti degli italiani, perche da queste parti tutti i crimini della Seconda guerra vengono attribuiti ai fascisti, e quindi agli italiani. Nonostante il fatto che, durante l'occupazione italiana del Montenegro il sangue versato e i crimini siano stati di gran lunga minori che durante il periodo d'occupazione tedesca o durante la guerra civile. Il registro dei caduti durante la Lotta per la liberazione per i comuni delle Bocche di Cattaro, Teodo e Castelnuovo, separa i dati dei caduti in combattimento da quelli delle «vittime del terrore fascista"9 • Nella parte "vittime del terrore fascista" sono stati dencati i nomi non solo delle vittime dei fascisti italiani, ma anche delle vittime degli ustascia, degli albanesi, dei nazisti tedeschi, dei cetnici e di tutte le altre fazioni in guerra, oltre che delle vittime delle varie vendette locali e dei bombardamenti tedeschi o alleati, delle vittime delle mine, dei proiettili vaganti e delle vittime casuali e collaterali. Tutto è stato attribuito e messo sul conto di fascisti e, se non ci si informa o non si sta ben attenti, solo gli italiani appaiono carnefici e criminali, nonostante il fatto che
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"Pali za slobodu - Boka Kotorska 1941-45': Kotor, Tivat, H -Novi 199 1.
siano gli italiani stessi ad aver subito più crimini di quelli che hanno commesso, almeno per quanto riguarda le Bocche di Cattaro e il litorale montenegrino. Misurare le attività delle parti opposte con lo stesso metro ( un crimine resta un crimine, a prescindere da chi l'ha commesso) contribuisce in modo decisivo alla verità e all'obbiettività, e qui non c'entrano le opinioni. Una grande parte di quello che finora è stato scritto parla, di regola, delle conseguenze e molto poco delle cause. Se non interessano le cause o è sconveniente parlare di esse, se cercassimo i colpevoli solo esaminando le conseguenze delle loro azioni, senza interrogarci sulle cause che hanno determinato gli eventi, non potremo mai imparare dal passato. Ci attenderanno, per l'ennesima volta, dure sofferenze, vittime e lutti. In questo libro citerò anche altri autori, quando ciò si renderà necessario per sostenere la verità. Citare gli altri potrebbe apparire ad alcuni un "uscire" dal contesto", "cambiare il senso" del pensiero originario. Chi si sentirà confuso, è invitato a leggere le fonti dalle quali la citazione è stata "estratta". In questo modo potrà verificare se il senso è stato cambiato e avrà possibilità di guardare ancor più chiaramente tutte e due le facce della medaglia. E potrà trarre, da solo, le conclusioni. rautore del presente testo evita il termine "occupatore" per indicare i militari italiani (tranne quando cita gli altri). Non per impressioni soggettive, ma per ossequiare la realtà dei fatti, perché l'Italia aveva annesso le Bocche e trattava i bocchesi come propri cittadini. In favore di tale affermazione, il libro porta tanti esempi, anche se ciò non combacia con la storiografia ufficiale montenegrina. Nel testo viene evitata anche la terminologia da comizio, molto sfruttata nella letteratura locale sui temi della Seconda guerra mondiale: compagno, compagni, partito, attività secondo le aspettative del partito, larghe masse del popolo, direttive, traditore del popolo, quinta colonna, elementi degenerati del popolo, "odioso malfattore': "criminale assetato di sangue", "crudeli esecutori", "morte al fascismo" e simili. Il contenuto di questo libro potrebbe essere d'aiuto sia ai politici che ai sociologi, per meglio comprendere (purché lo desiderino veramente) episodi del cosiddetto "separatisrno bocchese': e per ascoltare più fedelmente la voce del popolo, a patto che questo rivesta ancora qualche interesse. Come ragioni del sentimento separatistico e del desiderio cbe lo mosse, verranno elencati gli avvenimenti noti del passato, quello lontano o prossimo, ciò che la gente delle Bocche ancora ricorda. I problemi si potrebbero superare e le scontentezze sanare evidenziando le vere motivazioni alla base degli eventi: gli attori del separatismo fecero quel che fecero non per noia, ma a causa della povertà e della fame, sia loro e sia delle famiglie. Alla stessa maniera, i fiumi di sangue che fluirono dal 1941 al 1946 si possono nascondere e falsare, ma non a lungo. Perché anche i regimi periscono e le nuove generazioni, un giorno, chiederanno la verità, la quale peraltro, abbastanza spesso, viene a gaJJa da sola, anche se con ritardo. Ai ricercatori storici questo testo farà da traccia, ma solo per una parte degli avvenimenti critici, perché ci vorrebbe molto più spazio per descrivere tutto quello che è accaduto dettaglialamente. Questo libro è stato scritto senza diktat o costrizioni di natura politica, a dist,mza di ben 70 anni.
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La colpa di molti dei mali che si sono abbattuti sulle Bocche negli anni tra il 1941 e il 1946, specialmente durante il periodo dell'amministrazione italiana, è dei montenegrini, non degli italiani. Ancora, non di tutti i montenegrini, neanche della maggioranza del popolo montenegrino, ma dei titolari della politica del terrore e del male. Urlavano i loro motti sulla "lotta contro il degenerato regime alienato dal popolo e contro il governo straniero", solo per potersi - loro stessi - sedere sulle poltrone governative e per instaurare un regime che, per il popolo delle Bocche, non sarebbe stato molto differente da quelli instaurati, per lunghi secoli, dai governi stranieri. Dunque, finora la storiografia locale sulla Seconda guerra mondiale ha scritto tutto il male possibile sugli italiani. Io porterò alla luce del giorno l'altra parte della medaglia, come contributo per scoprire la verità storica, senza pretese che questa mia ne sia l'unica testimonianza completa ed assohuta.
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2. Le prime impressioni sugli Italiani Avendo in mente le storie sugli italiani ascoltate all'asilo nido, noi bambini li immaginavamo come gente di bassa statura, di pelle olivastra, capelli nerissimi e ricci o ben lisciati e oliati di brillantina, vanitosi e pavidi, insomma dei furbi latini mangiatori di gatti e di rane, ladri di uova e di galline, violentatori di donne, giovani e anziane. Forse qualcuno, da qualche parte, li vedeva davvero così, ma sono convinto, non soltanto dalle prime impressioni ma anche dalla mia successiva esperienza, che i sentimenti verso gli italiani della grande maggioranza dei bocchesi erano simili ai miei (che adesso descriverò). Per tale ragione penso che la mia esperienza potrebbe pienamente esprimere il parere medio comune. Visti i preconcetti, il mio primo incontro con gli italiani mi sorprese non poco, in particolare per la loro sensibilità umana e le bellissime canzoni che cantavano nel tempo libero. Verso i bambini erano protettivi e mai violenti, offrendo loro caramelle e altri dolciumi. Inoltre, gli italiani non erano di bassa statura. Tra le file degli Alpini, la statura dei militari italiani superava quella media della nostra gente. Non rubavano né galline, né uova. Non rubavano nulla e, quando desideravano cogliere da soli un fico o un grappolo d'uva, o qualche cosa d'altro dall'orto, chiedevano sempre al proprietario il permesso e si offrivano di pagare quanto raccoglievano. Siccome non volevano cogliere frutta per portarla via, ma solo per mangiarla, nessuno gliela faceva pagare. Nel 1983 ho osato dire questo pubblicamente intervenendo durante un convegno scientifico del NOR (guerra per la liberazione del popolo - n.d.t'.) e l'intervento è stato pubblicato nella Raccolta 10 . Mi aspettavo reazioni e critiche, ma non sono avvenute. Più tardi, quando è iniziato l'anno scolastico, noi bambini chiedemmo alla nostra maestra italiana se in Italia davvero la gente mangiasse gatti e rane. Ci spiegò che, in alcune parti al sud della Penisola, le persone mangiavano effettivamente gatti e rane ed anche alcune specie di serpenti: si trattava di tradizioni locali, retaggi di periodi di estrema povertà. Da tantissimo tempo tali tradizioni erano in disuso e venivano coltivate da pochissime persone, più che altro per mantenere vivo il ricordo del passato. È probabile che durante l'amministrazione italiana non si sia verificata alcuna violenza carnale, perché mai si è saputo di un fatto del genere. Di sicuro, in un paese così piccolo e poco numeroso, un fatto di tale gravità difficilmente si sarebbe potuto nascondere. Tutti ben conoscevano le pesantissime pene previste per
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Zbornik "Radnicki pokrel, narodnooslobodilacki rat i revolucija u Boki Kotorskoj'; k.njiga druga, H -Novi 1983, str. 299.
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lo stupro, anche se tentato e non consumato, pene che minacciavano tutti, ci.vili e militari, senza distinzione. In Montenegro c'erano donne poverissime, specialmente nelle città, che vendevano il proprio corpo per sfamare i figli. Ma questo feno meno esisteva a prescindere dall'arrivo degli italiani, esisteva nel periodo precedente ed anche in quello successivo. I militari italiani erano molto più sensibili e dolci dei nostri uomini. Qualche volta piangevano, ma questo non si poteva interpretare come codardia. Erano in maggioranza molto giovani, appena strappati dalla propria terra e famiglia, mobi litati e contro la loro volontà mandati in una terra ostile e straniera, per uccidere o per essere uccisi. Prima e durante la guerra, il villaggio Cartolle era un comune, il cui centro e l'amministrazione, la scuola, la canonica, l'ufficio postale e l'unica osteria, si trovavano nella parte centrale denominata "Vara': Lì si svolgevano e si commentavano molti fatti importanti. La mia casa distava qualche centinaio di metri da Vara ed io ero continuamente presente, il che mi ha permesso di essere testimone diretto degli avvenimenti. Nonostante l'arrivo degli italiani Vara era rimasta come prima, l'ombelico della vita del paese. La canonica era stata requisita ed era diventata la caserma dei carabinieri. Di fronte, nella casa vuota dei fratelli Barbié che vivevano all'estero, gli italiani avevano insediato la caserma della guardia di finanza. Sia i carabinieri che i finanzieri portavano la stessa divisa di guerra verde scuro, come tutti gli altri appartenenti al Regio esercito, e li si poteva distinguere sofamente dalle insegne sui copricapi. Dopo la sospensione (per la guerra d'aprile), la scuola riaprì già nei primi giorni di maggio e le lezioni continuarono senza alcuna variazione rispetto al programma scolastico precedente, fissato dal Regno jugoslavo, per permettere agli alunni di finire il proprio anno scolastico. Anche la data di tìne anno scolastico rimase invariata ed infatti l'anno terminò a San Vito (la ricorrenza religiosa ortodossa che corrisponde al 28 di giugno - n.d.t.) con la distribuzione dei diplomi in lingua serba. Non mancò neanche la tradizionale gita fuori porta alla Svetosavska Prevlaka (una località nei pressi - n.d.t.). Dalle pareti di ogni classe fu tolta la fo tografia del re Pietro, ma non quella di San Sava di Serbia (patrono serbo della scuola - n.d.t.). Al proprio posto rimase anche il preside, Vaso Barbié. Aspettando l'arrivo dei maestri italiani, egli, rimasto solo, fu sommerso dal lavoro, perché le maestre Jelena Milié (dalla scuola di Radoviéi) e Ester Doklestié (la classe in Djuraseviéi), entrambe originarie di Erzegovina, avevano lasciato il nostro villaggio già durante la guerra d'aprile. In quel tempo, l'amministrazione italiana non interveniva sul lavoro della scuola, a parte la concessione che la classe in Djuraseviéi non venisse chiusa. Come maestro per questa classe fu temporaneamenle ingaggiato Pietro Brinié, professore in pensione di Cartelle. Anche dopoGJa fine dell'anno scolastico, alla fine del giugno 1941, la vita continuò a scorrere normalmente, come prima della guerra. I maschietti, come sem pre, si raccoglievano nel cortile della scuola a giocare a «imito", una specie di antico gioco di squadra dei tempi d elle repubbliche marinare. Allora era molto in voga, oggi è completamente dimenticato. I Militari italiani, nel tempo libero si se-
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devano davanti alle loro caserme, le quali racchiudevano per due lati il cortile scolastico. Assistevano a quel gioco, che un tempo fu giocato anche dai loro avi, e tifavano: i carabinieri per una ed i finanzieri per l'altra squadra, scommettendo una bibita sulla squadra vincente. Non esisteva alcuna ragione d'odio, nÊ da una nÊ dall'altra parte. E si facevano amicizie. I sentimenti cominciarono a cambiare dopo i primi arresti degli abitanti del paese. Come testimone diretto, posso descrivere soltanto come è stato arrestato mio padre, fatto che ho d escritto anche in altri miei scritti.
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3. Come è stato arrestato Mirko Kostié Gli arresti erano più o meno drammatici, anche se spesso venivano raccontati esagerando oltre modo gli avvenimenti. I:arresto di Mirko potrebbe costituire comunque un'immagine tipica di come avvenivano. In ogni caso, gli arresti ci fecero cambiare sentimento verso gli italiani, perché, allora, nessuno di noi si interrogava sulle ragioni di tal i fatti. Mio padre Mirko, a cui ho dedicato questo libro, è stato arrestato più volte, ma soltanto il primo arresto, che qui descriverò, era legato a «Presa". Non è stato arrestato nel modo in cui si potrebbe immaginare: in qualche agguato, rastrellamento, inseguimento, durante gli arresti di massa. Mirko non si nascondeva perché non ne aveva ragione, o almeno così pensava. Non è stato arrestato con una irruzione a sorpresa in casa nel pieno della notte, ma in un bel pomeriggio assolato d'estate. Prima d'allora lo avevano già convocato tre volte per sottoporlo a degli interrogatori. Mai cercarono di costringerlo, con la tortura, a rilasciare qualche confessione, né gli attribuirono qualche colpa. Semplicemente cercavano, con modo educato e tutto sommato delicato, di convincerlo a rientrare al suo posto di lavoro così da garantire alla famiglia i mezzi di sostentamento. Le pressioni si intensificarono dopo il 18 maggio 1941, quando con il Regio decreto n. 452 fu proclamata l'annessione all'Italia: le Bocche di Cattaro cessarono di essere territori occupati, diventando la "Provincia di Cattaro': facente parte del Regno d'Italia. I bocchesi diventarono così cittadini italiani e con ciò anche coscritti. Non fu attuato l'obbligo del servizio militare, ma gli uffici civili dovevano continuare il loro lavoro. Ciò valeva particolarmente per gli ospedali, le scuole, gli uffici del com une e nessuno correva il pericolo di potersi macchiare di colpa per il fatto di lavorare per l'occupatore straniero. Prima dello scoppio della guerra Mirko era un ufficiale di stato, non militare o di polizia, ma civile. Era un impiegato fiscale e, se fosse tornato al lavoro, nessuno avrebbe potuto rinfacciargli di servire lo straniero. Nessuno disse mai una parola sul conto di centinaia di operai dell'Arsenale, nessuno dei quali abbandonò il lavoro, nonostante l'Arsenale fosse una struttura militare e facesse parte dell'industria bellica: gli operai dovevano dar da mangiare alle loro famiglie. Anche Mirko aveva una famiglia numerosa: una madre anziana e vedova, una moglie disoccupata, tre figli piccoli e una sorella divorziata senza mezzi, con una figliola minorenne. Non era una famiglia agricola e non avevano terre con le quali potersi sfamare. Nonostante ciò, per non dar adito ad alcun rimprovero di collaborazionismo, Mirko decise di non tornare al lavoro. Non agì sulla base di alcuna "direttiva di partito': come interpretarono il suo gesto più tardi, semplicemente perché non era membro del Partito comunista che, in quei tempi, ancora non aveva né alcuna influenza, né una cellula operativa sul villaggio di Cartelle. Mirko non
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era comunista, era un patriota, un antifascista e un impiegato statale che aveva giurato fedeltà al Regno jugoslavo, il cui Governo ancora esisteva ed era attivo all'estero. Era discendente di una famiglia che aveva dato tre illustri sacerdoti, era figlio di un padre insignito di alte onorificenze e non voleva permettere a nessuno di potergli rinfacciare di essere stato servo dello straniero. In quei tempi non si poteva sapere quale corso avrebbe preso la guerra, né quanto sarebbe durata. Pertanto, Mirko decise di attendere lo sviluppo della situazione; noi due passavamo intere giornate a pescare, spesso si rimaneva anche di notte: d'altra parte, la pesca era la nostra unica fonte di cibo. Inoltre, questo era l'unico modo di ascoltare, nella baia, le notizie che venivano trasmesse da 'feodo in lingua italiana, e che, grazie a grossi amplificatori, si potevano sentire perfino in mare, sulla nostra barca. I carabinieri e i finanzieri conoscevano molta della gente del posto, la cui maggioranza capiva l'italiano, e frequentavano le persone d el luogo senza problemi. Nell'osteria si giocava insieme alle carte, "tre sette" o briscola. Nello spazio antistante si giocava alle bocce. Però, dal 22 giugno gli italiani non entrarono più nell'osteria, erano in stato d'allerta, e la gente locale non sapeva il perché. Solo tre giorni più tardi, sulla barca, M irko sentì la notizia dall'amplificatore. Dalla pesca tornò prima quella sera e si recò in osteria per parlare con gli amici delle cose appena sapute, visto che nessuno aveva radio o giornali. La notizia era molto preoccupante: Ja Germania aveva attaccato la Russia (che i locali chiamavano Unione Sovietica) e avanzava inesorabilmente. I nuovi fatti di guerra cambiarono la situazione e le autorità chiesero con maggiore fermezza ai locali di rientrare al lavoro precedentemente occupato. Divulgarono richiami e preavvisi, minacciarono e, alla fine, cominciarono ad attuare tali minacce. Così, il 25 giugno, quattro carabinieri entrarono in osteria ma con i fucili, il che era inusuale. Si avvicinarono a Mirko, spiegando che avevano l'ordine di accompagnarlo alla polizia, perché non aveva risposto all'invito di rientrare al lavoro. Mirko sapeva bene cosa lo aspettava e chiese al brigadiere la gentilezza di passare prima per casa, per salutare la famiglia e prendere il necessario. Il brigadiere acconsentì, ma lo fece andare sotto scorta. Si può solo immaginare quante urla in casa, quando Mirko comparve sotto la scorta armata dei carabinieri. Ancora più doloroso fu il distacco, quando lo dovettero allontanare dalle braccia dei suoi cari. La scena non lasciò indifferenti neanche i militari, i quali non usarono la forza bruta ma solo una lieve spinta, scusandosi perché dovevano eseguire gli ordini ricevuti. Quando dovettero scostare Mirko dall'abbraccio della sua madre anziana, vedova del sacerdote, signora Darinka, ogni carabiniere aveva il viso contrito e gli occhi umidi. In quel momento tutti loro sicuramente pensavano alla propria madre. Il giovane carabiniere che doveva prendere dalle braccia di Mirko la figlia Olgica di sette mesi, non poté nascondere le laç;rime e gli mancarono le forze per farlo. La bimba fu presa dal brigadiere, l'unico militare di professione. Gli altri tre carabinieri erano infatti semplici cittadini mobilitati per la guerra. Tra loro vi erano anche antifascisti e pacitìsti: in fondo erano tutti "poveri cristi" che detestavano la guerra e la violenza. Mirko fu arrestato 18 giorni prima delJa rivolta scoppiata in Montenegro e
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con essa non poteva quindi avere alcun legame. Gli arresti venivano operati anche prima, ma si trattava per lo più di perturbatori o di ladruncoli. Gli arresti politici erano pochi, ammesso, ma non è certo, ci fossero stati prima dello scoppio della rivolta. .Ma l'arresto di Mirko non fu il risultato del suo rifiuto di tornare al lavoro, ciò rappresentava soltanto il movente. La vera ragione era la sua poesia "Messaggio al tiranno"ll, anche se in essa non si menzionavano né gli italiani, né altre nazioni. La poesia era stata scritta alla vigilia della guerra, in tanti la copia vano a mano e finì facilmente nelle mani della polizia. Su cosa successe a lvlirko dopo l'arresto, su quando e come fu trasportato a Cattaro, egli non parlò mai molto durante gli intervalli tra una prigionia e l'altra. Non menzionò la tortura, né alcun altro tipo di violenza subita. Raccontava delle condizioni difficili di vita, delle carceri sovraffollate e maleodoranti, del cibo scadente nel carcere di Cattaro. Forse voleva risparmiare ai suoi cari le sofferenze subite? Oppure, forse la tortura semplicemente non veniva attuata, o forse non contro di lui, visto che era un intellettuale. Gli italiani apprezzavano gli intellettuali, quelli che conoscevano l'italiano piLt ancora degli altri. Scrivo secondo coscienza e mi limito a quello di cui sono perfettamente a conoscenza e a quello che sento. Altri autori hanno raccontato le cose in modo diverso dal mio. Forse hanno esperienze diverse? Dopo l'arresto del mio amato papà, le personali impressioni positive nei confronti degli italiani subirono grandi cambiamenti. Avevo capito che quello che avevano fatto gli era stato imposto; ci avevano assicurato inoltre che papà sarebbe tornato presto, e non gli usarono violenza. Non avevano arrecato, fino ad allora, alcun disturbo alla nostra famiglia, ma a noi preoccupava la voce secondo la quale presto avrebbero allontanato dalle loro case i familiari dei detenuti politici, per approntare degli alloggi destinati alle famiglie degli ufficiali. Così fu. A casa nostra, un giorno, venne un carabiniere per chiedere le chiavi dalla nostra baracca da pesca sulla costa di Bjelilo, dicendo che occorreva farla ispezionare da una commissione. La baracca era vuota, dentro c'erano solo due letti e gli attrezzi per la pesca. Era vicina al porto. Per questo motivo mia nonna pensava volessero prenderla per usarla come magazzino. Senza fia tare consegnò la chiave, sperando che non ci cacciassero di casa; non voleva inoltre aggravare la posizione del figlio. Il giorno dopo, la stessa commissione venne ad ispezionare anche la nostra casa a Vari. La casa era relativamente nuova, di circa 200 metri quadri, allora una delle più belle del villaggio Cartolle; portava il nome della nonna, era conosciuta come "Villa Dara". Ispezionarono tutto, misurando, disegnando, stilando il verbale; ci dissero che dovevano temporaneamente requisire la casa, e che noi tutti, entro dieci giorni, avremmo dovuto traslocare nella baracca sul mare. Subentrò molta confusione, il pianto delle donne e dei bambini; solo la nonna rimase calma, sempre per non recare danno al figlio; in fin dei conti, diceva, non ci avevano buttato fuori lasciandoci senza un tetto sopra la testa.
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Mirko Kostié, "Valovi lutanja': Tivat J990, str. 56.
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Il terzo giorno, a casa nostra tornò, senza commissione al seguito, il vicebrigadiere Palilo Paglia (vicecomandante della stazione dei carabin ieri). Ci spaventammo, pensando che il tempo di dieci giorni per lasciare la casa fosse stato accorciato. Specialmente quando vedemmo che nella mano teneva la grossa chiave di ferro della nostra baracca al mare. Il nostro spavento fu notato dal vicebrigadiere, che subito si affrettò a dirci che lo Stato non aveva bisogno della baracca, perché ci aveva già requisito la casa, e che comunque della casa sarebbe stata usata solo la stanza più grande (di 30 metri quadri), sul pianterreno. Aggiunse inoltre che la stanza non sarebbe stata abitata dalla famiglia di qualche ufficiale ma dai maestri, vista la vicinanza della scuola. Ci spiegò che la commissione aveva deciso di lasciarci lì, considerato che nella nostra famiglia c'erano molti bambini. Le donne scoppiarono di nuovo in pianto, questa volta di gioia, e la nonna benedisse il vicebrigadiere, come se lui in persona ci avesse regalato di nuovo la nostra casa. (Per non pregiudicare la cronologia dei fatti, riprenderò il racconto sui maestri italiani che vissero a casa nostra in un momento successivo. La loro pennanenza in casa nostra lasciò infatti un'indelebile traccia nei miei rapporti e sentimenti sugli italiani, che ha influenzato questo libro).
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4. Primi schieramenti e divisioni di un popolo confuso
Questo capitolo non è direttamente legato al campo "Presa", ma racconta delle ragioni per le quali avvenivano gli arresti e le prigionie a "Presa" e in altri campi e carceri. Ha una grande importanza perché spiega le ragioni delle divisioni poi avvenute tra i bocchesi; q ueste divisioni hanno certamente contribuito allo scatenarsi della successiva guerra fratricida, la quale condusse ancora tanta gente alla prigionia o alla morte. Già è stato detto che il cortile della scuola di Cartolle costituiva un punto di raccolta e un campo di gioco per i bambini, anche quando la scuola era chiusa. Il cortile aveva lo stesso ruolo anche per i carabinieri e i finam,ieri, che non avevano altri spazi per le attività ludiche; non per questo ci vietavano di giocare lì. Improvvisamente, un giorno, ci impedirono l'ingresso. Erano tutti insieme nel cortile, raccolti in piccoli gruppi vicino alle note panche di pietra presso i recinti. Erano tristissimi e si confortavano gli uni con gli altri; alcuni piangevano, fatto insolito per uomini i1, divisa. Neanche a noi bambini era difficile capire che ai militari era successo qualche cosa di terribile, ma non ci dicevano nulla. Non c'era la barriera della lingua, noi tutti capivamo .l'italiano, anche se ancora non lo parlavamo benissimo. Cosa fosse successo lo sapemmo dai grandi, ai quali le notizie erano giunte. Terribili per gli stranieri, suscitarono infuocati dibattiti tra i locali e, nei nostri teneri animi non ancora adolescenti, che ancora non avevano saggiato la guerra ci lasciarono una profonda e dolorosa impressione, mista ad empatia e condoglianza. La notizia del p rimo raccapricciante evento per i militari italiani che arrivò anche a noi proveniva da Brajiéi, vicino Budua, villaggio e territorio dell'omonima confraternita, del quale noi più piccoli non conoscevamo nemmeno l'esistenza. Di quell'evento si è talmente tanto parlato che è sorprendente che ne sia stato scritto così poco. Fino al 1981. Ma neanche allora in maniera obiettiva. Inoltre, fino a quella data, per tutti i 40 anni passati, di quella storia era vietato proferire parola. La gente litigava e si divise intorno al parere se quello che era successo al villaggio di Brajiéi fosse stato un atto eroico, la vittoria sul nemico predominante, o una disfatta morale che avrebbe portato a rappresaglie sulla popolazione e alle prime serie divisioni in schieramenti in gran parte delle Bocche di Cattaro. Tali divisioni influirono pesantemente sulla rivolta in Montenegro (che nelle Bocche di Cattaro non ebbe seguaci), ma anche sull'ingrandimento numerico delle file degli oppositori dei comunisti, portando ad una lunga e strenua guerra civile. I principali argomenti d elle discussioni erano costituiti dalle seguenti domande:
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- È questo il momento giusto per la rivolta, con le sp alle scoper te e senza un
amico forte, mentre i nemici sono tanti, predomina nti e in m assima espansione e potenza? - Chi e perché fomenta la rivolta in Montenegro e nelle Bocche di Cattaro che, in questo momento, non so no pronti per un avvenimento d i tale impor tanza? - I.a rivolta in Montenegro contro il governo fantoccio ha davvero qualche importanza per la gente delle Bocche? - Quali guadagn i e quali perd ite può portare ai bocchesi un'eventuale rivol ta? - È più saggio c ustodire le vite umane attendendo un momento più proficuo, o buttarle via senza alcun senso? Perseguire u n obbiettivo praticamente irraggiungibile alle condizioni attuali oppure aspettare, accoglie ndo le ragioni di un sano inte ndimento? E così via dicendo. La maggior parte di quei pensieri e quesiti più tardi fu attribuita ai cetnici e agli allri "traditori locali". Ben ricordo, p erò, che queste d iscussion i s i facevano molto prima della divisione tra partigiani comunisti e cetnici. Si facevano s ia a Grebaglio, dove circa 1'80% della popolazione era fermamen te anticomunista, sia a Cartolle, dove oltre 1'80% della popolazione era a favore della resistenza. La gente di Cartelle era antifascis ta, a prescindere dalle d iverse opi n ioni sulle modalità da attua re per opporre resistenza. La maggioranza e ra schierala per una resistenza passiva e non violenta: rifiutando l'impiego civile o militare, boicottando le attività delle organizzazion i fasc iste o delle loro multiformi organizzazioni per il "dopo lavoro", sottraendosi al dovere di salutare a braccio alzato con il "saluto romano", rifiutando i giuramenti e le dichiarazioni di lealt à di ogni tipo, mettendo ben in chiaro che il fascismo non era il benvenuto. Anch e quelli che proponevano una resistenza più radicale, tip o sabotaggi, non contemplavano la perdita di vittime umane, affinché le eve ntuali rappresaglie non venissero fat te in modo c ruento, n é in caso di r itorsione con p resa di ostaggi, né in caso gli ilaliani fossero riusciti a prendere i resp onsabili. Quasi nessuno voleva un a rivolta armata e, anche se l'approvava, a nessuno veniva in mente di passare con i rivoltosi e d i mettere a repentaglio la propria vita. T villaggi Cartolle e Grcbaglio sono stati spesso citati co11"1e esempio dei dilemmi di fron te ai quali si trovarono gli schieramenti opposti della popolazione ma, d a quello che s i è venuto a sapere dopo, fu chiaro che tu tto il territorio delle Bocche d i C attaro s i trovò in realtà nella medesima situazione. Ogni discussione apriva nuove domande e tutte richiamavano alla mente lo spargimento di sangue avvenuto a Brajiéi. I più anziani e, dunque, i più saggi, condannavano fermamente l'accaduto: ~ella tradizione della gente di queste parti, la c r udeltà del vincitore nei confronti del v into era considerata tra le peggiori vergogne. Nell'elencare le varie domande intorno alle quali maggiormen te si discuteva, ho t ralasciato le due che si riferivano più specifìcatamente a Brajiéi, il villaggio sul territorio delle Bocche:
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- La popolazione di Brajiéi poteva essere considerata capace, agguerrita e sufficientemente convinta per compiere un'azione di tale rischio, o furono essenziali le forti pressioni e le forti minacce dei rivoltosi del vicino Montenegro 12 ? - Quello che avvenne a Brajiéi costituì un fatto da lodare come esempio d'eroismo, o da condannare come una grande vergogna? Ho intenzionalmente tralasciato queste due domande perché meritano un'attenzione particolare e perché presto smetteranno di rappresentare dei veri quesiti. Si chiariranno da sole, dopo i capitoli successivi. AUora: che cosa successe di così grave a Brajiéi, così fatale per il corso futuro degli eventi, per le division i, gli schieramenti e per la successiva guerra fratricida?
12 Come già spiegato, per la popolazione dell'attuale staio di Montenegro, la denomi nazione "Montenegro" si riferisce solo alla parte montuosa interna del paese. Tutla la parte della costa viene chiamata Bocche di Cattaro e la sua popolazione i bocchesi. Comprende anche la baia, ma il nome è inteso in senso lato.
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5. Il primo sconfinamento della rivolta dal Montenegro alle Bocche di Cattaro Già credo si sia capito che è impossibile parlare obbiettivamente della rivolta del 13 luglio 1941 nel Montenegro e delle sue conseguenze per le Bocche di Cattaro, senza menzionare Brajiéi e le discussioni su quel triste episodio. Chiariamo in primo luogo quanta responsabilità ebbero, in questa tragedia, gli italiani. Le generazioni più giovani non hanno la possibilità di informarsi su cosa successe veramente in quei tempi lontani 70 anni fa. Si sono raccontate storie, qualcosa è stato anche scritto, ma solo dopo diversi decenni e sulla base di ricordi e di varie fonti, più dubbiose e politicamente colorate che serie e affidabili. La maggior parte di queste fonti afferma, senza alcun dato sicuro, che la "miccia della ri volta di tutto il popolo del Montenegro" fu accesa il 13 luglio 1941, ma questo non è mai stato provato, né è mai stato neanche trovato un accordo storico su quando e dove questo fatto accadde realmente. Tutte le fonti menzionano Brajiéi. In quel villaggio, ancora tre mesi dopo la capitolazione del Regno jugoslavo, era stata lasciata aperta la stazione della gendarmeria jugoslava, per mantenere l'ordine pubblico, fino al consolidamento del nuovo regime. Ciò non costituiva una rarità. I gendarmi ricevevano le loro razioni e gli stipendi e, oltre alla guardia della loro stazione e al pattugliamento, non prendevano parte ad alcun'altra azione. 11 giorno della rivolta, secondo gli scritti di Marko Ivanovié 13, "un gruppo di 30 uomini, in maggioranza dal villaggio Ugljesiéi, partì in direzione della stazione della gendarmeria di Brajiéi. Sette gendarmi presenti consegnarono le armi senza reagire e tre di loro passarono con i rivoltosi di propria volontà". Se si ammette che tale evento possa ritenersi l'inizio di una rivolta generale, allora nulla vieterebbe di poter indicare, come data dello scoppio della rivolta nelle varie parti delle Bocche, il 18 aprile 19i11, quando il popolo scacciò i gendarmi (i quali, secondo gli ordini ricevuti, stavano a guardia dei magazzini) e, per i giorni ancora a seguire, svaligiò magazzini e negozi, portando via tutto quel che t rovava, con la scusa "di non far cadere nulla nelle mani del nemico". Proseguendo il testo citato e ritornando sui fatti di luglio, Ivanovié ha aggiunto: "Lo stesso giorno fu catturato un militare italiano sulla strada che porta a Obrovica, senza che tentasse reazione alcuna, scampato all'attacco di rivoltosi a Prekornica e Ljubotinje. Pii\ tardi, di pomeriggio, circa 20 uomini di Brajiéi partirono in aiuto ai rivoltosi in azione sull'Obtovica".
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Marko Ivanovié, "Vrijeme zloèina", Budva 2003, str. 24.
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È chiaro da questo racconto che quel prigioniero italiano non fu "catturato" ma si arrese: infatti non reagì ma consegnò semplicemente le armi. Non si capisce se gli uomini di .Brajiéi fossero anche tornati dalla battaglia, né quale fu l'esi to della stessa, se tutti loro, la stessa sera, tornarono ali.e proprie case. Rimanga, dunque, così fino alla rivelazione delle prove, perché in ogni caso è poco importante se la rivolta scoppiò il giorno prima o quello successivo, e se fu su questo o quel monte, o in questo o quell'agguato, visto che, in ogni caso, non si può parlare di una battaglia frontale perché, semplicemente, non ci fu nessuna vera battagl ia. È molto più importante chiarire se davvero si trattò di una rivolta generale, o di un assurdo azzardo da parte di pochi indottrinati, o forse di benintenzionati patrioti, ma senza lungimiranza. Se davvero la rivolta scoppiò da una piccola miccia, trasformandosi subito in un'eruzione grande e permanente, o si trattò in realtà di una fiammella accesasi e spentasi come un fiammifero, non appena cominciò a bruciare le dita di coloro che la tenevano in mano, desiderando che continuasse a bruciare più a lungo di quanto le fosse possibile. Ancora: se tale rivolta non poteva esserci e non accadde mai davvero, ma fu ingrandita sulla carta, quanto serviva per soddisfare la vanità nazionale, magnificandola molto più delle altre grandi battaglie che i montenegrini combatterono veramente, e per le quali ci fu veramente di che andar fieri e per le quali gli onori militari furono effettivamente riconosciuti. Se a qualcuno va di festeggiare quel giorno, faccia pure. I bocchesi sicuramente non lo vogliono fare. Lasciamo agli storici il compito di trovare la verità, o almeno di mettersi d'accordo su quale "verità" potrebbe essere maggiormente opportuno inserire nella storiografia ufficiale della Resistenza. Comunque, cinque giorni più tardi, il 18 luglio, quando la fiammella della rivolta nei dintorni di Cettigne cominciava già a spegnersi, fu deciso di accendere con la stessa anche le Bocche di Cattaro. Analizzando i ricordi e le testimonianze scritte, il fatto si potrebbe, in breve, ricostruire come di seguito. Fu organizzato un agguato e furono messe delle barriere sulla strada che passava per il territorio di Brajiéi (n.d.r. 1). Chi ordinò ed eseguì l'atto si verrà a sapere nel capitolo successivo. Nelle Bocche, dunque sul territorio annesso, gli italiani non si aspettavano una rivolta, né furono mai allertati in tal senso dai loro servizi informativi. Nulla preannunciava una rivolta: né i fatti, né le sensazioni. I servizi militari, se fossero stati ben informati, avrebbero soltanto potuto riferire che la popolazione delle Bocche si teneva lontano da quello che accadeva nei paesi confinanti. In quei giorni, a Budua era pronto per partire un lungo convoglio militare di camion e altri mezzi. Per assicurare la piena protezione al convoglio, i dintorni della strada che portava a Cettigne nei pressi di Brajiéi erano stati oggetto di pesanti bombardamenti: da terra, dal mare e dall'aria. Gli abitati erano stati protetti e non sHbirono alcun danno, neanche collaterale. Rimase danneggiata solo la vecchia strada secondaria, rotte le pareti rocciose e distrutta la scarsa macchia vegetale che la costeggiava. Il convoglio si snodava tranquillamente da Budua lungo la strada, diviso in due scaglioni distanziati l'uno dall'altro di circa mezzo chilometro. In questo spazio marciava il mezzo di comando il quale manteneva il con-
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tatto con la testa e con la coda della colonna via radio o attraverso le staffette sulle moto. Nel momento in cui la testa della colonna si fermò davanti alla strada interrotta, sul convoglio si riversò da diverse parti il fuoco, in modo disorganizzato e senza un comando esperto. Ai militari italiani fu subito chiara la difficile situazione nella quale si erano venuti a trovare: sul territorio delle Bocche non si sarebbero mai aspettati un simile avvenimento. Tnoltre, il terreno non dava loro alcuna possibilità di ripiego. Pensavano di aver a che fare con combattenti d'onore, rispettosi delle convenzion i internazionali sul trattamento dei prigionieri di guerra. Vista l'impossibilità di ripiegare, scelsero di non reagire, pensando che sarebbero stati trattati meglio se avessero scelto di non spargere sangue. Per questa ragione e per evitare maggiori perdite, alla prima colonna fu ordinato di non sparare, ma di trattare. Giovanotti spaventati, perché per molti questo era il vero "battesimo del fuoco': cominciarono a gettare le armi e arrendersi in massa. Non avevano i teli bianchi e sventolavano le fasciature, segnalando che c'erano dei feriti. Alla seconda colonna fu ordinato il dietrofront, per tornare a Budua. Così non subirono perdite. Per un attimo fu fatto cessare il fuoco, per permettere a tutti i militari italiani d i uscire dai ripari. Uscirono con le braccia alzate e in modo disciplinato cominciarono ad allinearsi ammucchiando, secondo le usanze di guerra, fucili, cinture, zaini e borsette. Fatto questo, molti pensavano che sarebbero potuti tornare da dove erano venuti. Invece, su di loro si riversò il fuoco di tutte le cinque mitragliatrici che i partigiani possedevano. Si fecero sentire anche i fucili dei rivoltosi, divenuti nel massacro completamente superflui: l'unico risultato fu che anche i nomi dei loro possessori vennero iscritti nella lista degli "eroi", o meglio, degli assassini. I poveri prigionieri cadevano falcidiati dai colpi. T partigiani uccidevano i superstiti spaventati e feriti come li trovavano, sul posto, senza pietà. Erano queste le scene che poi si raccontavano tra di loro: dei poveretti che piangevano, che si gettavano in ginocchio con le mani giunte implorando misericordia, che gridavano di non essere fascisti, di odiare la guerra, che offrivano ai partigiani i propri portafogli, gli orologi da polso, mostravano le foto dei genitori, delle belle fidanzate, delle teneri mogli e dei figli sorridenti. Per molti, le ultime parole furono: ''.Addio, madre mia': Sicuramente, ognuno era figlio di una mamma sventurata, alcuni erano figli unici. Molti figli quel giorno rimasero orfani. Chi e perché ha voluto questo? I ribelli non avevano dinamite per minare le strade, non avevano fucili controcarro, né lanciagranate, né lanciafiamme, né bazooka. late fatto ci fa chiedere: gli italiani avrebbero subito un tale massacro se avessero deciso una qualsiasi reazione? Che non si fossero macchiati del sangue dei ribelli lo conferma il fatto che tra i ribelli stessi ci fu solo un caduto, morto "in attacco" (ma non ci fu alcun attacco da parte italiana, né poteva esserci in tali condizioni). Rimase uccisa anche una un'anziana donna, prima del combattimento, da una scheggia staccatasi durante i bombardamenti. La colonna militare italiana massacrata non era co.m posta da "camicie nere': dai fasc isti di Mussolini, il che potrebbe eventualmente permettere di invocare la vendetta come giustificazione del massacro. .M.a anche se tra di loro ci fossero stati dei fascisti, di quali crimini avrebbero dovuto essere colpevoli per meritare una
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così brutale morte, visto che prima di questo massacro nelle Bocche nessuno era " stato ucciso, nessuna casa era stata bruciata, non c'erano stati né saccheggi, né stupri? Come poteva una persona essere additata come fascista dalle mani sporche di sangue innocente, se nessuno era stato mai accusato di nulla o interrogato? Né, d'altra parte, sarebbe stato mai possibile che 200 fascisti cedessero le armi, senza combattere, davanti ad un pugno di settanta ribelli! La guerra era al suo inizio e ancora non erano avvenute grandi uccisioni. Pertanto, anche una sola vittima suscitava in quel tempo un orrore molto maggiore che nei tempi che vennero dopo. Dieci persone uccise senza alcuna colpa, a prescindere da chi fossero, costituivano un fatto più che orribile. Che cosa dire allora di diverse centinaia dei giovani militari italiani, innocenti e disarmati, massacrati senza pietà? Gli assassini li lasciarono insepolti e, per diminuire il fetore che producevano i cadaveri in decomposizione, i poveri resti furono annaffiati di benzina e di gasolio e dati alle fiamme. La benzina non era sufficiente a bruciare completamente i cadaveri fino a carbonizzarli. In questo modo, i corpi dei morti rimasero orribilmente bruciati a metà, come arrostiti allo spiedo. Questo scempio evocava un'immagine d'inferno. Nessuno, prima di appiccare il fuoco, si prese la briga di assicurarsi che tutti fossero realmente morti. È possibil.e che qualcuno fos se stato bruciato vivo? I cadaveri erano tutti scalzi. Furono derubati delle scarpe e degli stivali. Avevano le uniformi crivellate di colpi e intrise di sangue. Le armi, l'equipaggiamento, gli oggetti personali e i documenti erano spariti. Portati via come bottino di guerra. Chi li prese? Del primo scaglione del malcapitato convoglio poté sopravvivere so]tanto qualche raro fortunato, buttandosi giù e rotolando sulle ripide pendenze montuose verso Budua. Nessuno seppellì i caduti, perché né i ribelli, né la gente del posto pensò di doverlo fare, neanche per pietà cristiana. Si può ammettere che la successiva propaganda italiana abbia esagerato descrivendo l'orrore dell'accaduto, magari per far desistere i militari, in analoghe situazioni, dal cedere facilmente le armi e arrendersi. Ma, anche senza alcuna esagerazione, il fatto suscita indubbiamente un orrore profondo. Mesi dopo, perlustrando la zona intorno al massacro, i militari trovarono i resti dei cadaveri. Si raccontava che vennero trovati anche a 2 chilometri dall'accaduto (in un caso anche a cinque chilometri). Questo signitìca che c'erano stati superstiti feriti che per giorni si trascinarono cercando salvezza, per poi morire nel peggior tormento. La seconda colonna riuscì a tornare a Budua e di quella nessuno ha mai scritto nulla. I ribelli non partirono all'inseguimento, erano soddisfatti. Rimasti quasi indenni, avevano un gran da fare per ammazzare i prigionieri e portare via il bottino. Nonostante quello fosse stato un massacro a tradimento, a qualcuno potrebbe sembrare un atto eroico, perché "la guerra è la guerra': Ma nessuno potrà definire "atto eroico'' il trattamento riservato ai prigionieri dopo la resa. A qualcbe conoscitore delle usanze balcaniche potrebbe venire in rnen te che forse si trattò della cosiddetta legge del sangue, o legge del taglione, che chiama alla vendetta coloro che hanno subito una qualche grave offesa, per esempio coloro a cui sono stati uccisi uno o più parenti, o a cui hanno saccheggiato la proprietà, o bruciato la casa. Più tardi queste cose sarebbero successe davvero, ma 36
prima del massacro dei militi italiani, non vi era alcuna ragione di vendetta, né a Brajiéi, né su tutto il territorio delle Bocche. Nella successiva spedizione punitiva gli italiani bruciarono qualche casa e misero agli arresti 60 persone del posto. La storia è lunga, ma anche quel poco che ho raccontato basta per capire di chi sia la responsabilità del male, e sulla coscienza di chi vanno le vittime di entrambe le parti. Anche gli italiani commettevano dei crimini, ma mai per vendetta, odio, umiliazione, insofferenza razziale, o tantomeno per capriccio. La voce di tutto quello che successe, come sopra descritto, si diffuse velocemente e diventò la causa delle divisioni tra schieramenti nella popolazione delle Bocche. Il raccontare, però, non basta per un fatto così importante e ancora non completamente risolto, se non viene confermato anche dalle fonti scritte. Pertan to, esse non saranno mai superflue, anche a rischio di qualche ripetizione.
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6. Descrizione del successivo massacro di Brajiéi Quello che negli anni seguenti è stato scritto su questo crimine concorda in generale con ciò che viene raccontato dall'inizio. Le differenze sono poche e qui saranno brevemente indicate. Sarà sufficiente per orientare il lettore su dove e come fare le necessarie verifiche, per poter arrivare da solo alla verità. La maggior parte dei dati raccolti, compresi quelli di provenienza italiana, afferma che il convoglio rnilitare partito da Budua per sbloccare l'assedio di Cettigne era costituito dal 108° battaglione d'assalto (motorizzato) della Divisione di fanteria "Taro" con la punta d'assalto "Pizzoli" (n.d. r. 2). Le stesse fonti affermano che in quella occasione furono fucilati oltre 200 militari italiani, che si erano arresi, e che i loro corpi furono bruciati (n.d.r. 3). D'altra parte, in quel territorio roccioso, chi avrebbe potuto scavare tante buche per seppellire tutti quei corpi? Era molto più urgente portar via il grande bottino di guerra prima dell'arrivo della spedizione punitiva, la quale fece di tutto per agevolare quella turpe attività, arrivando con oltre dieci giorni di ritardo. Immaginare il volume del bottino non è difficile. Ogni militare, oltre alle armi e all'equipaggiamento personale, possedeva anche degli oggetti personali. In più, c'era quello che si poteva sottrarre dai camion danneggiati. Gli assalitori annoveravano un solo morto, N. Vujacié di Podgora e, come conseguenze dovute al successivo sviluppo dell'assalto, M. lvanovié indica altre 15 vittime, perite in episodi differenti14. Anche queste vittime vanno messe sulla coscienza degli organizzatori di questo efferato crimine di guerra, per il quale nessuno è mai stato giudicato, e che è stato attribuito alla gente di Brajiéi. Una volta arrivata, la spedizione punitiva trovò tutta la popolazione del villaggio Brajiéi nelle proprie case: erano tutti tranquilli come se il fatto non li riguardasse minimamente. Avevano la coscienza a posto e nelle loro case e nei dintorni, non si era trovato alcunché del bottino. tarrivo della spedi.:ione punitiva italiana ritardò per via deJle preparazioni. Gli ital iani dovevano riorganizzare l'antiguerriglia, studiare il territorio per l'attacco da tre parti, pianificare nuove tattiche di movimento, raggruppare diversamente la truppa, costruire un buon coordinamento, perché le file assottigliate dalle perdite dovevano essere riempite da alpini, carabinieri e fascisti. Se gli italiani avessero agito come agirono i tedeschi, fucilando o impiccando 20 ostaggi per ogni militare ucciso, ci sarebbero state 4 mila vittime innocenti. Dove li avrebbero presi? Tutta la città dì Budua contava allora circa 700 abitanti (precisamente 688, secondo il censimento del 1938), ma i tedeschi non avrebbero mai perdonato un simile affronto. Difficilmente lo si perdonerebbe in una guerra balcanica. E quale è stala la rappresaglia italiana?
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Op. cil.
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Sia gli istigatori al crimine che quelli che materialmente lo eseguirono oggi non sono più tra i vivi, per poter essere portati in tribunale. Pertanto è tìnalmente giunta l'ora per confessare chiaramente: i crimini, almeno quelli avvenuti nelle Bocche durante l'amministrazione italiana, furono la conseguenza dell'atroce uccisione dei prigionieri italiani che si erano arresi gettando le armi. Furono conseguenza delle provocazioni, delle sfide, degli attentati, degli agguati che non erano necessari, anzi, senza i quali si doveva restare, perché tali fatti non solo non aiutarono la resistenza, ma la danneggiarono enormemente. Come già detto, gli arrestati italiani vennero brutalmente eliminati, a centinaia. Ciò fu fatto ubbidendo alla direttiva: "Senza prigionieri': la quale però non fu opera dei bocchesi, e mai applicata da essi. La direttiva precisava che nei rapporti di guerra doveva essere scritto: "Tutti sono stati uccisi mentre facevano resistenza armata': Su questo si potrebbe aggiungere la testimonianza di Nedjeljko Zorié 15: "Comunisti che non eseguono l'ordine - pallottola in testa!". Si tratta di una direttiva riservata del 27 marzo 1942 del Comitato regionale del Partito comunista jugoslavo per Montenegro. Rappresenta la prima prova scritta dell'o rrore, perché gli ordini dei comunisti, dall'inizio della guerra, si trasmettevano solo oralmente. La prima più dettagliata descrizione scritta dello scontro presso Brajiéi fu fatta da Nedjeljko Dapcevié 16 in occasione del Convegno scientifico a Herceg Novi (Castelnuovo - n.d.t.) del 26-28 novembre 1981, trascritta nel Documento riassuntivo dei lavori. Secondo Dapcevié i ribelli erano soltanto 67 dei quali 10 senz'armi, ma avevano tre mitragliatrici di produzione ceca "Brno': facilmente procurabili nel caos della disfatta dell'esercito jugoslavo. Come i ribelli si fossero procurati due mitragliatori italiani "Breda': Dapcevié non seppe spiegarlo. Potevano averli solo quelli che presero parte ai precedenti scontri con le forze italiane. Ed era gente di Brajiéi. Comparve anche una terza mitragliatrice "Breda': completamente nuova. Si raccontò che fu trovata in uno scontro precedente con l'equipaggio ucciso. Ma non si precisò mai dove si svolse questo scontro precedente, chi fu ucciso e chi trovò l'arma. Chi altro avrebbe potuto se non quelli che uccisero così brutalmente i prigionieri italiani? E se la mitragliatrice "Bredà' era nuova di zecca, ancora scomposta, non significa forse che dalla mitragliatrice non era mai partito un colpo, che nessuno degli italiani aveva aperto il fuoco, che nessun italiano aveva sparato? Nessuno dei ribelli sapeva comporla e usarla tanto che, per farlo, erano stati costretti a portare sul posto un ufficiale italiano catturato precedentemente. Chi lo aveva catturato e chi lo aveva portato lì? };ufficiale aveva composto la mitra gliatrice sperando che gli sarebbe stata risparmiata la vita. Non poteva conoscere l'atroce direttiva del Comitato regionale del Partito comunista jugoslavo per Mon-
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Nedjeljko Zorié, "Svjedocenja o jednom vremenu'; SB NOP, H -Novi 2007, str. 245. Nedjeljko Dapcevié, "Barba na Brajiéima'; Zbornik str. 359-368, H-Novi I 983, 359-372.
tenegro: "nessun prigioniero''. Dunque, tutto parla chiaramente di un travasamento della ribellione dall'occupato Montenegro alle Bocche di Cattaro annesse. Dapcevié 17 si richiama alle fonti italiane e fornisce dati più precisi, secondo i quali all'attacco di Brajiéi era stato fatto precedere un bombardamento dal cielo e dalla terra. Dagli aerei sarebbero state lanciate 180 bombe e sparati 500 colpi di mitragliatore. Dalla nave da guerra "Basini" sarebbero state sparate 128 granate da 122 111111 e dalla nave "Solta" 160 granate da 66 111111. E tutto ciò per far morire una nonnina dalla paura, visto che non era di sicuro tra le file dei ribelli! Il battaglione della divisione "Taro" procedeva da Budua verso Cettigne in due scaglioni. Il primo aveva un'avanguardia di quattro motocicli, un mezzo corazzato, 16 camion con l'artiglieria e circa 200-250 militari i quali, prima di arrivare presso Brajiéi, erano scesi dai mezzi e procedevano in ordine d'assalto, messi in allerta dalle barriere sulla carreggiata. Il veicolo con il vertice si trovava tra il primo e il secondo scaglione. Dapcevié non menziona il numero dei soldati del secondo scaglione, ma menziona sei carri armati, nove camion, tre mezzi sanitari e quattro motociclette. Tra i ribelli "non c'era coordinamento e ogni gruppo agiva come meglio credeva, perché non esisteva un comando unico''. Del caos organizzativo e dell'anarchia nelle file dei ribelli parlano anche altre fonti . Come vittime tra i ribelli, Dapcevié cita anche i nomi di tre membri della confraternita dei Pastroviéi e, senza citare la fonte, afferma: "Gli Italiani uccisero questi tre Pastroviéi che portavano nei loro camion come ostaggi''. Si è venuto a sapere che uno di questi tre Pastroviéi rimase vivo dentro il camion crivellato di colpi. Chi, dunque, uccise i Pastroviéi? Quelli che si arresero cedendo le armi, o quelli che spararono sui camion crivellandoli di colpi? Dusan Zivkovié, prima del Convegno scientifico di Castel Nuovo, ma sempre 25 anni dopo il fatto, ha scritto sullo scontro presso Brajiéi in modo soggettivo, glorificando il successo dei ribelli 18 . Ci informa che, oltre ai 58 fuc ili di Brajiéi e ad un mitragliatore "Breda" che i ribelli ricevettero dai Ljubotinjani, c'erano 45 fucili e due mitragliatori di Crmnicani (Ljubotinjani e Crmnicani non sono gente delle Bocche di Cattaro). E delle perdite italiane cosa scrive? "Secondo il rapporto del prefetto d i Cattaro dello stesso giorno (18 luglio), ci sono stati o ltre 20 caduti, circa 40 feriti e oltre 160 dispersi". Ciò s.ignifica una perdita di 220 militari visto che, oltre quei 20 morti nella prima sparatoria, i feriti e i dispersi ricevettero una sorte ancora più terribile. Nello stesso rapporto si dice che, tra l'altro, andarono perduti 12 camion e tre mezzi sanitari. Il che ci permette di non avere dubbi sulla sorte dei feriti, in caso fossero riusciti a raggiungere quei. mezzi sanitari. Il rapporto non menziona alcuna partecipazione dei fascisti, le camicie nere.
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Op. cit. pagg. 364-365. Risto Kovijanié, "Preza'; u rukopisu, Prese 194, str. 73-74.
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Secondo molte altre fonti, i tre mezzi sanitari si trovavano nel secondo scaglione, mentre nel primo non ce n'erano. Lo afferma anche Nedjeljko Dapcevié. "È stato neutralizzato un contingente di 221 militari nemici (184 morti e 37 feriti). Di questi, 39 si sono arresi ...". Di questi, "32 erano fascisti e sono stati fucilati, mentre altri 7 sono stati rifasciati': Non ci sono i dati sui dispersi, né sulla sorte dei feriti, né viene riportata alcuna spiegazione su chi (e su come) avesse stabilito chi tra gli arresi fosse fascista e chi no. Questo convoglio militare non aveva delle formazioni miste, come avrebbero avuto alcune successive spedizioni punitive. I fascisti si distinguevano per la loro durezza e per la devozione a Mussolini. Avevano le loro formazioni e i loro comandi. Portavano l'uniforme con la camicia nera e sul capo i fez neri con la frangia laterale nera. E se pure gli italiani fossero stati fascisti e avessero portato tali uniformi, perché avrebbero dovuto meritare la pena di morte dopo essersi arresi senza sparare un colpo, se non avevano ucciso nessuno né commesso alcun reato? In quale rnodo furono uccisi gli altri, oltre questi 32 non fu spiegato. "Il Lessico della storia del Montenegro" 19 spiega a suo modo la "verità" sul massacro "del 17 luglio presso Brajiéi... Uno dei maggiori scontri tra i ribelli mcmtenegrini e gl'italiani': Già solo questo conferma efficacemente che i colpevoli furono i montenegrini, perché le Bocche di Cattaro, sulla metà del 1941, territorialmente non appartenevano al Montenegro, né la sua popolazione era montenegrina. In questo "Lessico" la presenza dei fascisti non viene menzionata e i dati numerici si diversificano dagli altri resoconti. Secondo il "Lessico", i ribelli erano circa 50 e "distrussero un intero battaglione italiano, che subì la perdita di 130 morti e di circa 30 soldati, fatti prigionieri': Neanche qui si parla dei dispersi, né delle fucilazioni dei prigionieri, né delle conseguenze di questo atto. Per avere almeno un dato oggettivo, il Lessico cita per due volte sulla stessa pagina che la ribellione scoppiò il 13 luglio e che l'offensiva italiana ebbe inizio il 14 luglio, proseguendo fino al 14 agosto, quando "la ribellione fu soffocata". Dunque, la ribellione fu soffocata, nonostante il fatto che nella storiografia della Resistenza la parola "soffocata" o "finalmente soffocata" relativamente alle ribellioni sia stata sempre sostituita con un termine più blando, come: "temporaneamente diminuita", "riorganizzata per la guerriglia': "ha cambiato la tattica" e simili. Se il fatto fosse successo nel territorio d'occupazione tedesca, la descrizione per i posteri sarebbe stata "la ribellione fu soffocata nel sangue': Ma il fatto successe nel territorio ital iano. Per minimizzare l'insuccesso della ribellione, viene fornito il bilancio numerico di quel mese. Gli italiani subirono circa 735 morti, circa 1.123 feriti e circa 2.970 furono fatti prigionieri. In totale: perdite per "circa" 4.825 unità. Se fossero stati subito prigionieri, o entro un mese, I.asciati liberi, sarebbe stato inutile menzionadi. Non vengono, però, menzionati né i prigionieri uccisi, né i militari
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Istorijski leksikon Crne Gore, str. 1148, Podgorica 2006, str. 366.
dispersi. I Ribelli subirono 72 morti e 53 feriti - una perdita totale inferiore a 125 uomini. Siccome la tradizione montenegrina non accetta Ia resa perché considerata alla stregua di una grande vergogna, si presenta la situazione senza montenegrini fatti prigionieri. Dunque, non ci sono. Da qui la domanda: da quale gente gli italiani presero i prigionieri con i quali riempirono i loro numerosi campi di concentramento? Dunque, 4.825 il numero delle perdite italiane e 125 quello dei ribelli, ovvero dieci battaglioni contro una compagnia numericamente modesta. Nonostante nelle affermazioni sopracitate si parli di numerosi dati "incompleti" e ci siano molti "circa", ovviamente per dare qualche possibilità di salvataggio in caso gli autori fossero stati messi di fronte alle loro menzogne, sarebbe mai possibile davanti a questi numeri, così inverosimili, dar loro fede? Alcuni fascis ti si macchiarono di crimini di guerra, ma non tutti e neanche la maggioranza di loro. Molti tra i bocchesi erano fascisti: gioventù balilla, gioventù GlL, studenti GUF. Diversi di loro facevano parte delle formazioni militari sotto il cornando militare italiano MVAC (Milizia Volontaria Anticomunista). Lo confermano alcune foto nel libro di N. Zorié. Qualcuno di loro è stato incriminato per i crimini di guerra? Se anche fosse stato così, si trattava di un numero esiguo. Se per colpa di questi casi isolati, tutti i fascisti si potessero equiparare a criminali di guerra, la stessa cosa potrebbe, oggettivamente parlando, valere anche per tutti i comunisti, visto che anche tra di loro c'erano dei criminali. Nella seconda edizione, modificata e corretta, del suo libro20, Zivkovié ignora del tutto l'episodio di .Brajiéi, ma esprime una valutazione: "Quella comune vittoria dei Crmnicani, Brajiéi, Maine e Pastroviéi (i nomi delle antiche trib1:t montenegrine che si usano ancora per riconoscere le parentele - n.d.t.) fu tra le più belle in tutto il Montenegro durante la ribellione del 13 luglio". Dunque vi sono i Cnnnicani, ma questi non sono né bocchesi, né appartengono al territorio annesso alfltalia. Inoltre, la regione Crmnica non si trova sufficientemente vicino a Brajiéi da consentire ai Crmnicani di correre in aiuto dei Brajici quando la battaglia era già cominciata. Di conseguenza, diventa chiaro chi attuò l'attacco, chi diede inizio alla ribellione e con quali modalità la ribellione fu travasata dal Montenegro nelle Bocche di Cattaro. Se questa fu una delle "più belle vittorie" montenegrine, c'è da chiedersi che aspetto abbiano quelle più brutte. Davanti a questi fatti ci chiediamo cosa avreb bero detto gli antichi avi montenegrini che, a loro volta, rifiutavano la resa del nemico rimasto senza munizioni, proclamando appositamente una temporanea tregua; nonostante le munizioni scarseggiassero anche a loro, durante la tregua le dividevano con il nemico, per rendere la vittoria più pulita e più onesta, secondo la regola della "umanità nell'eroismo':
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Dusan Zivkovié, "Prva bokeljska NOU Brigada'; Kotor 1984, str. 74.
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Dieci giorni dopo l'agguato, in direzione di Brajiéi partì, da tre parti, ìl corpo della spedizione punitiva, sostenuto dai ben addestrati alpini. Dal racconto di Dapcevié, pubblicato nel Documento riassuntivo 2 1 dei lavori del citato Convegno scientifico, diventato la fonte storiografica ufficiale, riprendiamo i punti più importanti: "I ribelli di Brajiéi sono stati trovati nelle loro case, sono stati arrestati e chiusi dentro un campo di prigionia improvvisato. :Coccupatore ha portato via dalle loro povere case tutto quello che ha trovato. Gli animali sono stati macellati e il grano distrutto. Per rappresaglia tutto il villaggio è stato bruciato. Nessuna casa è stata risparmiata. Subito dopo l'arresto, l'occupatore ha portato dieci ribelli di Brajiéi sulla strada Budua-Cettigne, sul posto dove giacevano i resti bruciati dei militari italiani. Durante il tragitto li percuotevano con bastoni e con calci di fucile. Così malconci, furono obbligati a raccogliere, pezzo per pezzo, i corpi dei militari italiani carbonizzati o bruciacchiati, metterli nelle bare di legno che poi dovevano sistemare sui camion... Il comandante delle forze militari italiane ha tenuto un discorso a Brajiéi, dichiarando che inveire con il fuoco sui corpi dei caduti non si poteva perdonare.. :: Esistono documenti originali italiani con gli ordini di bruciare le case, ma soltanto quelle dalle quali partiva la resistenza, o quelle dove venivano trovate le anni. Non ci sono dati dai guaii risulta che la spedizione punitiva fosse ostacolata con alcuna resistenza . Qualche casa potrebbe veramente essere stata data a fuoco, in segno di intimidazione, ma suona strano che gli italiani abbiano bruciato tutto il villaggio, distrutto tutti i raccolti, macellato tutte le bestie, per doversi dopo prodigare, come fecero, a sistemare e sfamare tutta la popolazione civile! Se questi villaggi distrutti fossero stati situati sul territorio altrui (Montenegro occupato), tutto questo potrebbe essere anche comprensibile. Ma distruggere i villaggi del proprio paese (le Bocche di Cattaro erano annesse all'Italia), veramente sfugge ad ogni logica. Inoltre, sembra poco probabile che solo dieci ribelli malmessi riuscissero a raccogliere e sistemare nelle bare 184 corpi trovati in uno stato terribile, in piena decomposizione dopo giorni passati all'aperto, nel pieno della calura estiva di luglio. M. Ivanovié, nel suo libro pubblicato nel 2003, quando le informazioni raccolte erano più numerose e quando si poteva fina lmente parlare di quei temi, rimasti fino ad allora un tabù, ha fornito un racconto più preciso, ma non esente da contraddizioni. Pertanto, bisogna analizzare l'evento in modo più puntuale, per avvicinarsi alla verità. Il libro citato22 porta come sottotitolo "Sul perire delle genti di Budua, Maine, Pastrovicchio e Grebaglio durante la guerra 1941-1945': Il sottotitolo non cita abitanti di Brajiéi, anche se, durante il periodo menzionato, erano loro i protagoni-
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Op. cit. pag. 367. Op. cit. pagg. 24, 28-33.
sti, in misura maggiore rispetto alle altre genti citate. Forse per non far saltare agli occhi la gente di Brajiéi, mettendola in copertina? Nonostante siano assenti dal sottotitolo, dei Brajiéi si parla in più parti del testo e all'avvenimento del 18 luglio 194 1 l'autore dedica un capitolo intero. Il racconto glorifica questa lotta impari e fornisce i dettagli che mancano negli altri testi sul tema. Secondo Ivanovié23, la battaglia durò più ore (il che si scontra con le altre fonti) e le perdite italiane furono: "un carro armato, più camion, motocicli e altro materiale da guerra. Il numero di morti e di feriti è difficile da precisare senza conoscere i dati delle fonti italiane. Ciò nonostante, alcune informazioni indicano il numero di ufficiali e militari morti in circa 60': Segue la nota a fine pagina: "In cinque bare di legno sono stati sepolti, dieci giorni dopo lo scontro presso i Brajiéi, i resti dei corpi dei militari italiani uccisi. È noto che le bare sono state costruite per accogliere 6 corpi, dunque i corpi erano in totale 30. Secondo i testimoni oculari i corpi non potevano essere disposti allungati ma flessi. Il che significa che nelle bare c'erano meno di sei corpi. I ribelli di Crmnica hanno portato via circa 30 prigionieri e li hanno buttati nelle foibe di Sutorman. U n ufficiale è stato portato dai ribelli di Maine presso il loro campo Unista e lì è s tato ucciso". Si pone la domanda: da che cosa "è noto" che le bare sono state costruite per accogliere sei corpi? A prestar fede a questa affermazione, 5 x 6 fa 30 e non 60, il numero di morti citato da questa fonte. Certamente dentro ogni bara non c'erano solo 6 corpi, visto che di questi, dopo dieci giorni di decomposizione, potevano restare solo le povere ossa. E che cosa è successo ai 140 dispersi? Inoltre, in base alla documentazione fotografica pervenuta, si potrebbe mettere in discussione la località dove è stata scattata. In luglio, non solo a Buclua ma anche sui monti, c'è un grande caldo. La foto rappresenta invece i militari italiani nelle loro uniformi invernali, al.cuni sono addirittura coi pastrani. Nonostante glorifichi la vittoria e sminuisca il numero dei militari italiani uccisi, aumentando però il numero dei caduti tra i ribelli, sulla fine del capitolo lvanovié denuncia gli organizzatori del vile agguato e li condanna: "Le decisioni del Partito comunista fatte a Ogradjenica e la scelta che si è fatta di Brajiéi come punto d'agguato hanno avuto fatali ripercussioni: quasi tutto il villaggio è stato distrutto e la sua popolazione condotta in schiavitù. Le conseguenze dell'agguato di Brajiéi sono state gravi. Oltre i 15 uccisi, un grande numero di persone della popolazione civile è stata portata a perire nelle prigioni e nei campi di concentramento, le loro case e i loro averi sono stati distrutti. È stato un grave errore dei comunisti sacrificare questo grande villaggio. Tali conseguenze sarebbero state evitate se fosse stato scelto un altro posto per l'agguato, per esempio Romo Zdrijelo''.
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Op. cit. pagg. 29 e 33.
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Nella nota, Ivanovié parla anche del danno recato da questa scellerata azione alla Resistenza nazionale: «A quei tempi, non c'era una significativa distinzione politica tra le file dei ribelli comunisti e non comunisti, i ribelli allora raccoglievano un grande numero di persone che, dopo quei fatti, non vollero più stare con i partigiani': Dopo gli arresti, il corpo della spedizione punitiva fucilò tre capi villaggio e 41 arrestati furono portati nella prigione "Bogdanov kraj" e nel campo di concentramento "Klos': in Albania. Probabilmente subirono la tortura, ma è noto che le storie su.Ile torture sono spesso piene di esagerazioni. Una cosa è certa: i ribelli di Brajiéi non presero parte di loro iniziativa all'agguato né agirono da soli. Non erano neanche veri ribelli perché la spedizione pun itiva li trovò nelle loro case.
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7. Il secondo sconfinamento della rivolta dal Montenegro alle Bocche di Cattaro Come prova che la rivolta del 13 luglio 1941 fu capeggiata dal Partito Comunista jugoslavo, si cita la seduta del Politburo del Comitato Centrale del parti to, svoltasi nei giorni 4 e 5 luglio a Belgrado, ove sarebbe stata presa la decisione sulla resistenza; ma a Belgrado in quei giorni non si poteva certamente sapere che a Cettigne, il 12 luglio, sarebbe stato proclamato lo Stato Indipendente del Montenegro. E se anche ci fosse stata di mezzo l'opera di qualche veggente, dal 6 al I 2 luglio non vi era abbastanza tempo per trasmettere, da Belgrado a Cettigne, la decisione di avviare la rivolta, in assenza di collegamenti stradali e di telecomunicazioni; non c'era tempo per mobilitare l'esercito, in mezzo alla completa disfatta e alla confusione, per organizzare la struttura del comando, per pianificare i compiti di guerra, senza i quali risultano sempre inevitabili caos e anarchia. Inoltre, non c'era tempo per equipaggiare l'esercito dell'essenziale equipaggiamento e posizionarlo, sotto l'occhio vigile delle spie e delle truppe d'occupazione. T giorni furono in verità solo tre, visto che soltanto il J O lugl io il Partito Comunista per Montenegro, Bocche e Sangiaccato accettò, al Ravni Laz vicino a Piperska Stijena, la decisione sull'inizio della rivolta. Secondo questi indicatori (tralasciamo quelli tagliati e cuciti su misura dalla storiografia della Resistenza popolare), non era possibile per il Partito Comunista jugoslavo organizzare la rivolta, che difatti scoppiò spontaneamente, come risposta ai fatti del 12 luglio di Cettigne. Portata avanti caoticamente e senza un piano d'azione, senza rispetto per le regole internazionali, umanitarie e militari e per la tradizione montenegrina di umanità con il più debole ed il vinto, la rivolta finì ingloriosamente, nonostante l'onore postumo che gli viene ancor oggi attribuito. I montenegrini, comunque, possono continuare a festeggiare il 13 luglio, perché non è l'unica cosa che glorificano senza motivo. Di tutto questo i bocchesi non hanno alcun bisogno. Dispongono infatti di un patrimonio di così tanti valori storici e morali, che non hanno alcun bisogno di esagerare. Non hanno motivo di festeggiare il 13 luglio, hanno invece motivo di rattristarsi per le disgrazie che quell'avvenimento ha causato loro. In ogni caso, durante i primi mesi dopo lo scoppio della guerra, i bocchesi ebbero così tanti problemi da non avere proprio il tempo di preoccuparsi degli avvenimenti del 12 e 13 luglio a Cettigne, che, tra l'altro, apparteneva allora ad un altro Stato (la cui giurisdizione non comprendeva le Bocche). La vicenda fu seguita invece dall'illegale Comitato Regionale del PCJ (partito comunista jugoslavo - n.d.t.), il quale, senza permesso alcuno da parte dei bocchesi, utilizzò il loro nome, definendosi "per Montenegro, Bocche e Sangiaccato''. Neanche uno dei bocchesi era membro di questo Comitato Regionale, nonostante tra i bocchesi vi fossero ancora prima della guerra dei comunisti, alcuni membri del PCJ, ed un considerevole numero di intellettuali capaci di guidarlo.
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Per tutto quello che riguardava le rivolte nelle Bocche, gli ordini arrivavano da Cettigne e da Niksié. Secondo tali ordini, nel Orahovac, il 22 giugno 1941 l'unitaria organizzazione del Comitato fu divisa in due comitati locali. Dunque, divisioni inutili e incomprensibili furono create dentro il PCJ a danno della unità delle Bocche ancora prima dello scoppio della rivolta. Tutto questo poi influì sulle divisioni in cetnici e partigiani. Uno dei primi ricercatori storici del vicino passato delle Bocche, Dusan Zivkovié, nel suo primo libro 24 ha scritto, tra l'altro, che nella notte tra il 13 e il J4 ottobre 1941, sul territorio del Comitato locale per Castelnuovo, arrivarono Radoje Dakié, il segretario del Comitato regionale di Niksié e il membro del Comitato Vojo Kovacevié, il quale rimase come istruttore del Comitato regionale fino allo smantellamento del battaglione di Orijen. Inoltre, accanto al racconto delle discussioni del 22-23 ottobre, ha scritto: "Oltre alla alquanto fertile e costruttiva discussione, alla conferenza si è di nuovo manifestato il frazionamento che si avvertiva già dapprima, nella cellula di Castelnuovo e di Krusevik". Con parole ben scelte, Zivkovié tende a sminuire il problema. "Il frazionamento" in realtà era il rifiuto di diktat dannosi, e tale rifiuto - aperto o nascosto - era presente non solo lì, ma in tutte le cellule illegali. A quel punto, dal partito furono radiati i membri che si erano manifestati troppo passivi o che erano passati dall'altra parte, e con loro altri antifascisti poco convinti. Su questo tema ha scritto un altro meritevole ricercatore della storia contemporanea montenegrina, Nedjeljko Zorié; nel suo ultimo libro che è una vera banca dati 25, scrive: «Ancora non fu compreso il perché nelle Bocche si verificò la divisione del partito in due parti, delle quali una era sotto la competenza di Cettigne e l'altra di Niksié, quando la situazione nelle Bocche annesse chiedeva un'azione unitaria .. :: Sulla questione si era diffuso un grande scontento tra la maggioranza dei bocchesi, specialmente tra gli intellettuali, ma pochi avevano coraggio di dirlo apertamente. Il più audace osò esporsi: si chiamava Gligo 1v1andié. Le sue parole acquistarono grande peso, per il fatto che proprio lui era l'organizzatore della rivolta nelle Bocche e che durante la resistenza era sempre al comando: prima del battaglione del Orijen, poi della 1a Brigata dalmata, della 17• Divisione, del 12° Corpo d'armata. Dopo la fine della guerra Mandié era il comandante dell'armata e del Comitato della Liberazione Nazionale della Jugoslavia e uno dei più amati capi della resistenza nelle Bocche. Egli osò fare la seguente domanda davanti al numeroso pubblico del Convegno scientifico26:
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Dusan Zivkovié, "Boka Kotorska i Pastroviéi u NOB'; Beograd 1964, pag. 96. Op. cit. pag. 125. Op. cit. pagg. 605, 606, 607.
"Anziché creare due comitati locali nelle Bocche, perché il Comitato regionale non ha riformato il preesistente Comitato provinciale di Cattaro in Comitato regionale per le Bocche, tenendo presente la specificità di quel territorio e il parere di Milovan Djilas? ... Automaticamente viene da domandarsi: perché accettare la divisione delle Bocche fatta dalle forze d'occupazione? Perché una soluzione nuova, se sappiamo che le Bocche da sempre comprendono anche Budua ?". "Se il Partito comunista aveva una così alta influenza tra la gente ed era tanto rinomato, come i singoli affermano, da dove sono giunte allora le formazioni di cetnici e della milizia anticomunista e le orde controrivoluzionarie dopo lo smantellamento del battaglione di O rijen? (. .. ) Saremmo tutti di gran lunga più utili alle giovani generazioni se cominciassimo a giudicare con senso critico anche le nostre omissioni durante la guerra e la rivoluzione ( ...) Non ho la pretesa di sostenere che tutto ciò che dico sia esatto, ma ritengo che la storia co.m e scienza dovrebbe valutare tutte queste cose, a.nalizzarle e trattarle per l'appunto scientificamente, dicendo, senza timore, pane al pane e vino al vino". Gligo Mandié ha pagato cara questa sua posizione, perché il suo nome non viene neanche menzionato nel "Lessico storico del Montenegro". La cosa, comunque, non dovrebbe arrecargli torto, visto il valore storico di tale volume: semmai ciò costituisce un titolo di onore per lui. Ora è a tutti chiaro (allora era chiaro solo ai più intelligenti), che tale divisione fu il primo passo per l'annessione delle Bocche non all'Italia, ma al Montenegro. Per questa ragione sorsero i tentennamenti, i comportamenti indecisi e le difficoltà nel reclutamento per la rivolta, anche tra le file dei più provati antifascisti. Persistenti spiegazioni circa i "collegamenti recisi" tra gli insorti della rivolta nelle Bocche del 13 luglio potrebbero trovare giustificazione se la rivolta fosse durata solo qualche giorno, o qualche ora di più di quanto realmente accadde. Ma visto che la rivolta durò solo 7 giorni e che i collegamenti non furono realizzati, malgrado la distanza fosse di soli 50 km (la distanza tra Cattaro e Cettigne), la responsabilità dovrebbe essere cercata tra i capi e non tra i corrieri. La rivolta "generale" del 13 luglio del Montenegro non significò la rivolta anche nelle Bocche, che allora non facevano parte del Montenegro. Questa valutazione è presente anche nei libri dlegli storici italiani. Qualche sparatoria sporadica provocata da irresponsabili giocatori d'azzardo, o dalle loro orde, oppure qualche attentato locale fatto al buio non poteva rappresentare una seria rivolta, tantomeno la rivolta "generale". Era la rivolta montenegrina che, per volontà di qualcuno (non dei bocchesi), si travasava anche nelle Bocche. Se ciò non fosse successo, non ci sarebbe stata neanche Presa, né Klos, né le decine di prigioni più o meno dure e i campi di concentramento e neanche le sofferenze dei bocchesi i quali, da quella rivolta, non ottennero alcun beneficio, semmai tantissimo danno. I bocchesi non si assunsero la responsabilità neanche degli attentati (figuriamoci la "rivolta generale" del popolo) nelle Bocche, perché tutto quanto fu realiz-
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zato e posto in opera secondo istruzioni altrui27 . Gli "Istruttori del Comitato regionale" erano: Veljko Miéunovié di Cettigne, Nikola Gazevié di Sotoniéi e Yojo Nikolié di Niksié. Un po' più tardi furono inviati nelle Bocche Jovan Kapicié di Cettigne e Milinko Djurovié di Niksiéka Zupa, con il compito di interrogare i membri dei due comitati locali e di smantellare i comitati per l'insuccesso della rivolta nelle Bocche. Ciò valeva particolarmente per il comitato locale di Castelnuovo, nel quale il Partito comunista montenegrino rinvenne il primo responsabile dello sviluppo degli avvenimenti. Solo cinque mesi dopo !"'insurrezione generale popolare" in Montenegro, il comitato locale di Castelnuovo fondò - su ordine degli organi pit'.1 alti - il "Battaglione di Orijen" e i battaglioni di Cattaro e di I3udua, dopo l'armistizio d'Italia. Quanta vita abbia avuto il Battaglione di Orijen, quanto le Bocche abbiano guadagnato e quanto abbiano perso in questo - lo si può analizzare facilmente, ma qui non lo si farà, essendo questi eventi fuori dall'orbita della testimonianza che questo libro vuole offrire -. C'entra invece, eccome, con "Mamula': con "Prevlaka" e con altri campi di concentramento e, ovviamente, c'entra con la MVAC (Milizia volontaria anticomunista), con i nazionalisti e con i cetnici, nelle cui fùe travasò un importante numero di ex membri delusi del Battaglione di Orijen. In questo modo salvarono le loro giovani vite, le loro famiglie e i loro averi, che non furono distrutti. Una futura oggettiva storiografia (se ci sarà) potrà valutare davvero se avevano avuto altra scelta. Il comitato locale di Castelnuovo fu smantellato più tardi e tutti i suoi membri persero misteriosamente la vita, nel modo più perfido possibile. Non avallarono le decisioni del Comitato regionale, ma furono uccisi in combattimento dagli italiani con l'ausilio di "traditori interni" come sta scritto nell'attuale storiografia montenegrina della resistenza. Gli italiani erano gli esecutori, ma chi li informò riguardo al posto dove era convocata la riunione del comitato locale? Potevano farlo solo quelli che lo sapevano, e lo sapevano solo in tre, se escludiamo i membri del comitato locale uccisi. Oggi questi tre non sono più tra i vivi, ma, durante la loro esistenza sette vite furono spente per non far scoprire questo macabro scenario. Di questi avvenimenti, il primo a sapere fu un partigiano della prima ora, Tonko Surjan, ancora durante la guerra. Ma neanche lui è ancora in vita per poter testimoniare. E proprio questo evento fu la motivazione che lo indusse a rinunziare all'idea di scrivere un suo libro di memorie. Eg[i confermò sempre il di retto coinvolgimento dei "traditori interni': non solo di quelli dei quali si sapeva, ma anche di quelli indiretti, della cui rettitudine mai si sarebbe potuto dubitare. Un detto insegna che "dopo la battagl ia è facile fare il generale". Ma i bocchesi più saggi, ancora prima dello scoppio della rivolta, avevano paura di quello che sarebbe potuto accadere e misero in guardia invano le teste calde sulla necessità di calcolare bene le conseguenze. Forse gli istruttori del Comitato regionale avevano il giusto obbiettivo di facilitare la situazione dei rivoltosi montenegrini.
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Op. cit. pagg. 30-35.
Ma sacrificare le vite dei bocchesi non ha portato loro un grande aiuto, perché fecero continuamente errori, a destra e a sinistra. Ma molto male fu fatto agli italiani e ai bocchesi; molti fra questi ultimi sarebbero passati tra le file dei partigiani e sarebbero tornati vivi a casa, se i capi comunisti avessero ascoltato gli ammonimenti dei più saggi. Grazie ad una propaganda di parte e a una storiografia altrettanto di parte, la rivolta del 13 luglio è stata presentata come "sollevazione generale del popolo" e raccontata in modo da sembrare continuativa e crescente, tìno alla fine della guerra. Però 28 , quando viene analizzata l'ingente documentazione ora disponibile a tutti, questo parere non può che cambiare. Diventa chiaro quanto pretenzioso, parziale ed anche ridicolo risulti definire così la rivolta del 13 luglio, visto che la sua fiamma non ha illuminato alcun popolo, perché si spense in meno di una settimana. Inoltre, con quella rivolta non fu raggiunto nessun obbiettivo, ammesso ce ne fosse alcuno, se si trascura il bottino di guerra. Non si riuscì neanche a destituire il governo "fantoccio" montenegrino (dello Stato Indipendente), ragione per la quale si era accesa la miccia della rivolta, cosiddetta generale, del popolo. Non appena la rivolta venne soffocata, secondo la storiografia montenegrina «appianata': il 19 luglio fu tolto il blocco di Cettigne e dopo pochi giorni i militari italiani, senza scontrarsi con alcuna significativa resistenza, ripresero tutte le località, salvo quelle nel nord del Montenegro, dove la insurrezione resistette per quasi un mese, fino alla metà dell'agosto 29 . Tanto fu necessario ai militari italiani per raggiungere quei luoghi, con tutto l'equipaggiamento, prudentemente e senza correre. Dunque, il sollevamento popolare durò solo sei giorni e, se anche conteggiamo quello che continuò in alcune parti del nord del paese - che naturalmente non può essere considerato né "generale" né di "massa" - la durata della ribellione fu al massimo di un mese. Ma quale ne fu lo scopo? Quale fu il reale fine dietro i molti morti, i villaggi distrutti e bruciati, la popolazione sfollata, i patimenti di massa, le sofferenze degli arrestati e delle loro famiglie, che durarono non per soli sei giorni o per un mese, ma degli anni interi, interminabili? Fino alla fine della guerra, che durò complessivamente quattro anni, non fu raggiunto neanche lo scopo principale della insurrezione, ovvero la destituzione d el governo fantoccio e la cancellazione dello Stato indipendente montenegrino. Nonostante la glorificazione della ribel lione, Zivkovié conferma la non riuscita della stessa, giustificando l'improvviso e veloce calo degli entusiasmi della popolazione nel perseguire nella lotta intrapresa dal Partito Comunista, "coerentemente e senza riservé'. E ciò non soltanto nelle Bocche e nel Sangiaccato, ma anche nella maggior parte del sud del Montenegro allora inglobato nella "Grande Alba nia': oltre che in molte altre parti del Montenegro. E poi, quale sarebbe potuto essere il significato d i un "primo territorio libero in una Europa sconfitta': se solo si pensa a guelle località rocciose e inaccessibili
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Op. cit. pag. 37. Op. cit. pag. 35.
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abitate soltanto da animali feroci, ai monti impervi che stanno in lungo e in largo su tutti i Balcani, ma anche in tante altre parti d'Europa? Ed anche se in quei luoghi ci fossero stati esseri umani, che importanza avrebbero avuto per loro dieci soli giorni di libertĂ ? I bocchesi hanno pagato un pesante conto per questa insurrezione non riuscita, furono arrestati e portati nei lager senza aver aderito a nessuna rivolta e senza che fossero nemmeno solidali sia con lo scoppio della ribellione, sia con i modi con i quali fu portata avanti.
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La famigerata prigione di Cattaro Nonostante il tema principale di questo libro sia il campo di concentramento "Presa", non si può non parlare della famigerata prigione di Cattaro, il punto di accettazione e di transito per la stragrande parte degli arrestati, prima di essere inviati a "Presa': l.:episodio precedentemente descritto dell'arresto di Mirko Kostié, è un esempio di come si finiva in quella prigione. Sui patimenti dei detenuti ci sono le altre testimonianze, spesso contraddittorie, pubblicate nelle varie raccolte storiche (vedi note 30 e 31). Viado Porobié di Castelnuovo ha descritto come avvenivano gli arresti dalle sue parti30 . Quel gruppo di arrestati ebbe la fortuna di non dover passare per la prigione di Cattaro. Ecco qualche passaggio di quella testimonianza: "Il pomeriggio del tredici luglio hanno avuto inizio gli arresti di massa, eseguiti a caso. Le camicie nere irrompevano nelle case, dalle quali uscivano senza alcun risultato, arrabbiati e consci che qualcosa non funzionava, che della benevolenza ospitale raccontatagli prima di partire in questa guerra non c'era traccia. Nonostante ciò, con insistenza, per l'intero giorno proseguirono a frugare nelle case ... Non riuscirono ad arrestare nemmeno un membro del Partito comunista jugoslavo fra i nominativi della lista degli organizzatori del le cellule illegali. Tutti furono informati in tempo del rastrellamento e scapparono, o già da tempo si trovavano nei nascondigli". Nelle Bocche, prima della guerra, il Partito comunista jugoslavo aveva pochissimi iscritti; iscriverne nuovi era diventato ancora più difficile durante i primi tre mesi dell'amministrazione italiana. "Il mattino del quattordici luglio, il gruppo, tenuto sotto stretta sorveglianza, fu fatto salire sui camion. Non si conosceva la destinazione. Ognuno degli arrestati era immerso nei propri pensieri, ma pronto a tutto, anche al peggio. Dopo un breve tratto, il convoglio si fermò, tra le grida delle guardie nel porto di Dobrota. Gli arrestati furono trasferiti sulle motovedette e portati in direzione della nave di trasporto '.Alessandro'.. :'. A differenza del Porobié che, descrivendo le condizioni della nave, scrive "si dormiva per terra", Vicko Brajié nella stessa Raccolta delle testimonianze dice: "Le celle per i detenuti erano le precedenti cabine da viaggio. Ognuno doveva restare nel posto dove si trovava al momento d'arrivo sulla nave, o nel
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Op. cit. pagg. 397, 403-,106, 408.
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posto successivamente assegnatogli, poiché si doveva impedire che i detenuti si accordassero tra loro. Le cabine erano molto calde e maleodoranti.. :: Proseguendo il racconto, Porobié elenca i nomi degli arrestati che qui salteremo, ma che riprenderemo più in là, in modo ordinato. Parlando della prigione di Cattaro, per essere obiettivi, è doveroso fare una digressione temporanea al periodo dopo l'armistizio d'Italia. Sebbene le condizioni di vita nella prigione di Cattaro fossero dure, erano molto migliori durante l'amministrazione italiana che durante la disumana occupazione tedesca. Basta dire che, quando vennero i tedeschi, gli abitanti dei palazzi vicini alla prigione dovettero blindare le finestre che si affacciavano sulla prigione, per non dover sentire le continue grida di dolore e gli strazianti lamenti dei prigionieri torturati, dai quali i tedeschi cercavano di estorcere la confessione anche per quello che non avevano fatto, oltre che i nomi dei compagni. Si diceva che li torturassero appositamente in quelle stanze perché da lì, all'esterno, si potesse sentire tutto. Era un modo per intimidire la popolazione. Le condizioni di vita nella prigione di Cattaro non divennero migliori neanche dopo la fìne della guerra, quando furono riempite di "nemici" di ogni specie, solo che le torture allora erano più silenti; i nuovi usavano infatti metodi meno chiassosi. Le torture non erano massicce come durante l'occupazione tedesca e si applicavano in modo più selettivo. Ad alcuni venivano inflitte per puro sadismo, per il piacere di far soffrire, più che trarne confessioni o tradimenti. Anche se non c'entra con il tema dell'amministrazione italiana, bisogna menzionare almeno un caso di "tortura senza chiasso" del periodo del dopoguerra, giusto per poter fare un paragone. Il protopresbitero, uno dei più noti e rispettabili abitanti di Cartolle, finì nella prigione sulla base di accuse inventate, senza colpa (come in seguito venne dimostrato, anche se questo non sarebbe più stato per lui di nessuna utilità). Dopo un interrogatorio infinito, chissà quante volte reiterato, lo riportarono in cella. Due guardie gli sputarono addosso, gli strapparono la barba e poi, come ulteriore gesto di umiliazione e di crudeltà, gli immersero la testa nel secchio che i detenuti usavano per i bisogni corporei. 11 secchio era pieno d'escrementi e, per non farlo soffocare, la testa del povero protopresbitero non fu immersa a lungo. Ma questo giuoco fu ripetuto più volte. Sfortunatamente e probabilmente al di là delle intenzioni, il presbitero morì. Gli aguzzini avvolsero il suo corpo in una coperta e, notte tempo, lo gettarono in una fossa biologica. Scomparve così. Nessun colpevole. Durante l'amministrazione italiana, una cosa del genere sarebbe stata impensabile.
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9. Le prigioni "galleggianti"
Per la maggioranza dei bocchesi arrestati, la prima e forse più dura pena era costituita proprio dalla permanenza nella prigione di Cattaro. Dovevano subire la procedura investigativa, che durava anche pill giorni, prima di essere trasferiti in luoghi con condizioni piLt sopportabili. Tra la prigione di Cattaro e il campo di concentramento "Presa" vi erano le prigioni "galleggianti': le navi con le quali si trasportavano i prigionieri fino all'Italia e all'Albania. Per questo scopo furono ancorate nel mare davanti a Cattaro la nave ''Re Alessandro C una volta lussuosa nave bianca, e la nave di trasporto civile "Kumanovo" - tutte e due bottino di guerra italiano -. La descrizione più dettagliata "Le navi come lager" (o meglio, le navi prigioni), è stata realizzata da Andrija Dabovié31 , secondo ricordi che furono successivamente arricchiti attraverso nuove ricerche. La nave "Alessandro" - la parola "re" era stata cancellata - era stracolma di prigionieri, il cibo scarseggiava come nelle altre prigioni, ma almeno c'era aria pulita, la vista sulla città e sul mare e non faceva freddo, perché era estate. A confronto delle celle buie e fredde della prigione di Cattaro, su quella nave le condizioni erano buone. Con questa valutazione non sono ovviamente d'accordo quelli che non sono passati per la prigione di Cattaro, ma che sono stati portati direttamente sulle navi. Siccome la prigione di Cattaro era sempre stracolma, in continuazione riempita di nuovi arrestati, dopo poco tempo davanti alla città fu fatta arrivare un'altra nave, la "Monrosa': nave per trasporto merci che aveva appena sbarcato sulla riva il proprio carico militare: muli. In silenzio, durante la notte, attraccò vicino all"'Alessandro". Rintonò l'allarme su tutte e due le navi, i detenuti furono fatti svegliare e furono trasferiti, la maggior parte, dall"'Alessandro" al "Monrosa'', sotto stretta sorveglianza e con le torce accese, per impedire che qualcuno si gettasse in mare. Sulla nave "Alessandro" rimasero le donne, gli anziani, le persone con la salute peggiore ed alcuni intellettuali, tra i quali anche i protagonisti di questo libro: Risto Kovijanié e Mirko Kostié. Alcuni erano contrari a questa selezione, come si legge nella testimonianza di Vlado Porobié. "Gli arrestati sono stati costretti a trasferirsi sull' altra nave appena arrivata. Sul ponte della nave c'erano le Camicie nere. Le loro risa beffarde di assassini professionisti ci seguivano mentre scendevamo sottocoperta. Dietro di noi è rimasta la nave bianca con le nostre madri, sorelle e mogli, per le quali l'occupatore ha predisposto 'l'ordine nuovo' in qualche altro lager':
31 Zbornik "Zatvori i logmi u Boki Kotorskoj i Bokelji u zatvorima i Jogorima van Boke...': Titograd 1987, pagg. 399-403, 499.
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La "Monrosa" era ricoperta di nero, per il fumo del carbone delle macchine a vapore, visto che le navi da lrasporto merci non avevano l'obbligo di filtri sulle ciminiere. Ma anche se ci fosse stato quesLo obbligo, in quei tempi di guerra nessuno se ne sarebbe fatto cura. Nonostante fosse slata disinfettata dopo aver sbarcato il carico di muli, la nave non aveva un buon odore. Per ironia, il nome della nave nera ("Monrosa") era: il monte delle rose. Non ci sono dati della durata della permanenza degli arrestati sulle navi, ma è un dato che Mirko trascorse nella prigione di Cattaro il periodo tra il 25 giugno e il 12 luglio 1941. Secondo lo scritto di Viado Porobié, le navi con gli arrestati salparono dalle Bocche di Cattaro all'alba del 23 luglio 1941. Navigavano in convoglio, con davanti un cacciatorpediniere di scorta, come protezione per eventuali attacchi sottomarini. In coda al convoglio navigava una vecchia nave vuota, come scudo posteriore, ma anche per il salvataggio dei superstiti, in caso di naufragio. Per fortuna dei passeggeri della "Monrosa" il mare era calmo e non pioveva. In caso di pioggia, avrebbero dovuto chiudere i "boccaporti" sulle stive e le stive sarebbero rimaste senz'aria, luce e sole. Così la stiva rimase aperta, ma era possibile uscire sulla coperta uno alla volta; così i detenuti avevano la possibilità di respirare l'aria e di salutare con lo sguardo la costa del proprio paese, che nessuno sapeva se avrebbe più rivisto. Le condizioni erano migliori sulla "Alessandro': ma vigeva una grande tristezza e il pianto delle donne, sebbene soffo cato e senza voce, toccava in profondità l'animo ferito dei detenuti. Premeva loro il pensiero di cosa ne sarebbe stato delle loro madri, mogli, fìgli, di loro stessi. Nessuno sapeva dove venivano condotti né cosa sarebbe successo; inollre giravano parecchie voci senza alcun riscontro. Generalmente provenivano dalle guardie e viene da chiederci se veramente neanche loro sapessero, o piuttosto fosse stato ordinato loro di diffondere fandonie appositamente. Durante tutta la lentissima navigazione vicino alla costa, alla luce del giorno, non avevano ricevuto neanche l'abituale miserabile rancio di prigionia. Con terrore cercavano il rombo degli aerei, per i quali quel convoglio sarebbe stato un bersaglio facile. Cosa dire poi delle mine e dei sottomarini! Tra i detenuti l'umore era nero. Ciascuno era occupato dal proprio dolore. Erano affarnati, tristi e passavano tutto il tempo in silenzio. La cosa peggiore era l'incertezza e in tanti desideravano la fine di quella tragica avventura, anche se, magari, ciò avrebbe potuto coincidere semplicemente con la morte. In queste condizioni non sorprende che i sopravvissuti raccontassero spesso le sofferenze passate in modo esasperato. Specialmenle se quei racconti servivano a fini politici. In questo modo, dopo la fi ne della guerra, girarono storie enormi sui maltrattamenti subiti per opera dei fascisti. Si diceva che "fascisti ubriachi spendevano il tempo e la noia della navigazione brutalizzando i detenuti: li oltraggiavano, ingiuriavano le loro madri, sorelle, mogli, sputavano loro addosso, li battevano con gli scarponi senza alcuna ragione" e così via. Queste storie non reggono per varie ragioni. Nei primi mesi dell'amministrazione italiana le Camicie nere non effettuavano i servizi di accompagnamento dei prigionieri. Quel lavoro era affidato ai ri-
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serv1st1 o ai feriti durante il periodo di convalescenza. Tra di loro c'era un gran numero di antifascisti e, specialmente, di pacifisti, valutati dai loro stessi Comandi Militari come poco affidabili per i combattimenti (temevano infatti che si sarebbero arresi subito al nemico, al primo scontro a fuoco). Gli italiani erano generalmente noti come gente di buon cuore, spesso cercavano di consolare gli arrestati, a volte erano davvero pieni di compassione e spesso raccontavano di quanto anche loro soffrissero la lontananza dalle loro famiglie e dalla loro terra. Appena possibile, aiutavano gli arrestati per quanto potevano, con un occhio di riguardo anche per i fumatori, per i quali il tabacco rappresentava la naturale valvola di sfogo per i ma.li subiti. Si commetterebbe peccato non affermando questo, perché è la sacrosanta verità. Nonostante le fatiche, I.a traversata sulle navi si concluse tranquillamente. La sera tardi, il convoglio entrò nel porto di Durazzo. Le giornate di luglio erano hmghe e la visibilità era ancora buona. Dall'acqua, come spettri, spuntavano gli alberi delle navi affondate e qualche ciminiera. Tutto intorno si vedevano le rovine dei palazzi portuali e i piloti che guidavano le navi nel porto avevano un gran da fare per condurre le navi, senza danno, fino alle banchine. Gli arrestati non vedevano l'ora di posare i piedi sulla terra ferma, qualsiasi cosa fosse poi capitata. Quella notte, però, la avrebbero passata ancora sulla nave. Il tempo trascorso sulle navi non è stato descritto dagli storici come appartenente ad una prigionia separata. È stato aggiunto alla detenzione della prigione · di Cattaro o a quella del campo di concentramento dove i detenuti sarebbero stati condotti, ma di questo non esistono dati precisi. Il signor Porobié non ha menzionato la nave "Kumanovo': che ha menzionato però Andrija Dabovié32, dandoci anche una più dettagliata descrizione delle navi -galere, incluso il passato di quelle navi, con le informazioni più importanti: questo però non è il nostro tema. Per il suo racconto, Dabovié si è basato su quello che, prima di lui, aveva scritto Viado Porobié e, per non ripetere le stesse informazioni, da Dabovié prenderemo solo quei dati che non abbiamo trovato negli scritti di Porobié. In contrasto con le condizioni "paradisiache" presenti sulla nave "Alessandro" (rispetto a quelle nella prigione di Cattaro - come sanno bene quelli che ci sono stati) - Dabovié, che non era tra quelli, ha descritto la sua prigionia sulla navegalera in altro modo. Secondo il suo libro, dal momento dell'arresto a Castagnizza vicino Morigno, il 16 aprile 1941, e del successivo trasporto con camion fino a Cattaro e dalla riva con la barca fino alla nave "Alessandro': egli e gli altri arrestati subirono molte angherie: "Bisogna sottolineare che, lungo tutto il tragitto, eravamo oggetto delle bestiali ingiurie e minacce dei fascisti e dei soldati italiani ... In ogni angolo del salotto c'erano le guardie con i fucili spianati. Dovevamo sederci sul nudo pavimento (dove abbiamo anche dormito). Tutte le porte del salone (ventila-
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Op. cit. pagg. 66-68.
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zione) erano chiuse a chiave, mentre la terrificante calura di luglio ci soffocava nel sudore e nell'aria stantia.. :'. Da Dabovié veniamo a sapere che sul ponte superiore c'erano gli uomini e su quello inferiore le donne, che il corpo di guardia era composto da un ufficiale, due sottufficiali e 37 militari, che il cibo era pane e acqua, che il sistema di acque reflue era inesistente e che lo stato d'igiene era scarso, il che trova conferma anche nei documenti italiani. Leggendo le memorie di Dabovié viene da concludere che la nave ''.Alessandro" serviva unicamente come nave prigione d'ancoraggio, mentre il trasporto fino ai campi di concentramento si svolgeva con le navi "Monrosa" e "Kumanovo". Porobié non menziona assolutamente la nave "Kumanovo", ma soltanto la "Alessandro" e la "Monrosa''. Milan Kovacevié33 non menziona i nomi delle navi, tranne quello della nave ''.Alessandro", con la quale fu trasportato fino a Durazzo insieme ad un gruppo di altri prigionieri, attorno alla metà d'agosto. I dati si contraddicono e non è facile distinguere che cosa sia vero e che cosa no. Tale fatto non ha molta importanza, a parte il dilemma se su queste navi si attuassero davvero maltrattamenti fisici, o si stesse al contrario in condizioni "paradisiache" rispetto a quelle nella prigione di Cattaro. La verità è, probabilmente, a metà strada. In ogni caso, sulle navi non si facevano interrogatori, nessuno dei prigionieri tentò la fuga e nessuno fu ucciso.
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Vasko Kostié, "Ratna hronologija krtoljskih sela': feljlon, 'l'itograd 1983.
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I Campi di concentramento Sono passati oltre sette decenni dagli internamenti di massa dei bocchesi in Albania, nel campo-lager PRESA (Prese in albanese) e ancora oggi la maggior parte della popolazione delle Bocche di Cattaro (e non solo) conosce ben poco di tale lager (cui meglio si addice il nome "campo"). Non solo perché il suo nome ufficiale era «Campo di prigionieri': ma perché questo termine è più corretto, visto ciò che dimostra la sostanza cli questo libro. Nonostante ciò, in molti altri testi citati in questo libro, "Presa" viene chiamata «lager'' perché tale termine era usuale nella letteratura montenegrina del tempo; questo però non deve necessariamente segnare una regola. Sebbene i termini di lager e di campo possano essere visti come sinonimi, era ben diverso essere internati in un lager che in un campo di prigionia. Con il passare del tempo diminuiscono gli spazi della conoscenza, diminuiscono il numero dei testimoni ancora in vita e le pagine scritte su Presa, già scarse. Più scarse sicuramente di quelle dedicate a tutti gli altri campi nei quali furono imprigionati i bocchesi, a voler far intendere che su Presa c'è poco da dire e da raccontare. In questo pensiero c'è un fondo di verità, perché di Presa non si può veramente parlare con gli stessi toni e con la stessa amarezza, se solo si rammentano le sofferenze e gli orrori accaduti in altri campi di concentramento e di sterminio. Tutto quello che è stato scritto sui campi di concentramento è stato scritto dopo la fine della guerra, allorquando si venne a sapere la verità sullo spaventoso numero di morti nei camp i. Non soltanto in quelli dei nazisti, ma di tutte le parti coinvolte nella seconda guerra mondiale e dopo la sua fine. Durante il primo anno della guerra non si poteva prevedere lo sviluppo della situazione e solo pochi, nella totale penuria d'informazioni, potevano distinguere tra le occupazioni straniere, quella italiana e quella tedesca. Nei primi anni dopo la fine della guerra, quando si menzionavano i vari lager o i ca.mpi di concentramento, subito il pensiero li associava agli orrori dei lager nazisti; a tutti coloro che vedevano le immagini riportate nei film documentari, rimanevano infatti profondamente incise, indelebili, nell'anima e nella mente, alcune tragiche scene, ed in particolare le lunghe file delle baracche con i letti «a castello" (come si chiamavano i nudi giacigli di legno con poca paglia e senza coperte), a tre livelli dal pavimento al soffitto. Nella maggior parte dei casi, lo spazio tra i livelli era così minuscolo che sui letti era impossibile restare seduti. I «letti" prendevano tutto lo spazio tra le mura delle baracche. Su ogni livello dormivano fino a un centinaio di "anime" (il termine più verosimilmente indicava gli internati, perché dei loro corpi non rimaneva altro che pelle e ossa). Le uniche aperture di queste gigantesche bare da morto si trovavano in mezzo, in corrispondenza del passaggio che attraversava la baracca. Dagli spazi sporgeva una moltitudine di magrissime teste dallo sgLrnrdo febbrile, inverosimilmente strette una all'altra, tanto da rendere difficile capire come riuscissero ad essere così stretti i corpi, ammesso
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che fossero più larghi dei crani. Le baracche servivano solo per dormire a quelli che potevano ancora muoversi, visto che di giorno svolgevano i lavori forzati. tigiene in quei luoghi era l'ultima delle preoccupazioni, nessuno se ne curava, visto che era tra le disgrazie e sofferenze la più blanda. Dalle fotogratìe e dai racconti non ci si può accorgere del terribile tanfo delle baracche. Al tanfo ci si doveva abituare, chi non poteva sopportarlo moriva. Esperienze strazianti e insostenibili, ma non uniche. Ancora peggiori erano le torture diurne, di ogni specie, le flagellazioni, le umiliazioni, gli insulti e gli oltraggi, la fame, il lavoro forzato fino all'estremo delle forze. La morte sotto i colpi dei calci del fucile e degli stivali, lo sveni re alla vista del cervello schizzato dalle teste di uomini colpiti dalle pallottole. Tutto avveniva come se nulla fosse, badando a lavorare per non fare la stessa fine. Dovevano abituarsi per sopravvivere, mentre si invidiava il morto che aveva smesso di soffrire. Cosa dire delle fotografie dei mucchi dei corpi accatastati, alti fino a due metri, completamente nudi, cumuli di pelle e ossa, dei "cadaveri" che ancora davano segni di vita, buttati disordinatamente l'uno sopra l'altro. Attendevano di essere gettati nei forni crematori, o che qualche mezzo meccanico di spostamento terra li spingesse, così ammucchiati, in una fossa già scavata. Sono immagini così crude e raccapriccianti che vederle anche solo sulle foto risulta insostenibile alla maggior parte delle persone. Se non ci fossero le foto originali, tale orrore sarebbe impossibile da descrivere fedelmente. Ben altro fu dover subire questo orrore in prima persona, e sopravvivere, in qualche caso fortunato, allo stesso. Le fotografie e i documentari non permettono di sentire l'odore insopportabile dei corpi putrefatti e bruciati, che usciva dalle ciminiere dei forni crematori. In quelle condizioni e senza una maschera per respirare, gli internati che ancora riuscivano a muoversi erano costretti a riempire le fauci di quei forni, coscienti che presto gli sarebbe toccata analoga sorte. Tutto questo ha contribuito a che si formasse, nella mente delle persone, una idea ed una immagine molto precisa dei campi di concentramento e di sterminio. Perciò, quando si sente la parola "campo di concentramento': quel pensiero sovrasta tutte le altre immagini di prigionia. E allora non sorprende che vengano automaticamente equiparati tutti i detenuti, tutti gli internati di tutti i campi, e che i campi dei nazisti siano confusi con quelli degli italiani. Come rendere giustizia ai giorni d'oggi agli italiani? Specialmente dopo che vari storici hanno scritto appositamente per confondere, o su ordine di partito, o per ingraziarsi i potenti? Oppure, se erano stati ex detenuti, per crearsi l'immagine di martire o di eroe, o ancora per ricevere onorificenze e privilegi? Il problema essenziale è di terminologia: tutti i lager si chiamano "campi", sia quelli nazisti di concentramento e di sterminio di massa sia quelli italiani di prigionia, tji accoglienza o di con finamento. Si chiamano "campi" quelli per i rifugiati, ma anche quelli del dopoguerra creati per i dissidenti, come quello sull'Isola Golli (Goli Otok). Quando si menziona il campo di concentramento, il pensiero subito va a quello della peggior specie. Ai tempi dell'amministrazione italiana si usavano diverse denominazioni, l'internamento e l'internato, ma erano semplicemente campi per i detenuti.
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Arrivo a Presa
Nel porto di Durazzo (Carta in figura 2), dopo la notte passata sulla nave, la mattina molto presto, al sorgere del sole, ebbe inizio la suddivisione dei detenuti nei vari camion, posizionati vicinissimo alla banchina, accanto alle navi. In questo modo i detenuti che scendevano dalla nave erano subito diretti ai camion, senza bisogno di percorrere lunghi cammini. Non si attendeva molto per la partenza. La strada portava a nord est e, secondo le indicazioni stradali, si andava in direzione di Tirana, che distava da Durazzo 50 km. Questo calmava almeno l'incertezza sulla destinazione finale. Il manto stradale era buono, come se fosse stato realizzato dagl'italiani. A metà strada circa, su un incrocio, si trovò la polizia militare, che fece dirottare alcuni camion su una strada polverosa e sterrata che conduceva a Nord, a qualche località sperduta di montagna. In quei camion si trovavano i bocchesi, solo uomini. Il fatto accrebbe ovviamente l'ansia e l'incertezza, molti cominciarono a diffondere disfattismo e disperazione, altri tentarono di consolare e consolarsi, pur sospdtando anch'essi che la situazione volgesse al peggio. Dopo circa cinque chilometri d i viaggio sulla strada sterrata, il 24 luglio 1941, i cam ion entrarono in una cittadina distrutta e quasi deserta. In realtà, erano passati sotto gli archi del muro di cinta della antica fortezza, ora disabitata. Tra queste rovine li attendeva un campo precedentemente costruito composto da tende militari di varie d imensioni. Stanchi, affamati e assonnati, i nuovi arrivati passarono "tra il cordone militare che inveiva e minacciava..." - come anni dopo scrisse Viado Porobié34 - . Mirko Kostié, con i ricordi fresch i del detenuto appena tornato da Presa, fa ceva dei racconti molto più miti. Non menzionò rnai il cordone militare «che inveiva e minacciavà·'. Raccontò invece che, appena si furono allineati per la prima volta all'interno del campo, venne a presentarsi il comandante. Si presentò in modo civile, spiegando che si trovavano in un campo denominato "Campo di concentramento Presa" ed espose le principali regole di comportamento, dalle quali d ipendeva la durata della permanenza dei detenuti nello stesso. Concesse loro tre giorni di riposo, dicendo che entro questo termine dovevano scegliere tra di loro un rappresentante che sapesse, però, parlare l'italiano. Tale persona avrebbe dovuto fungere da "capo", una specie di "responsabile civile" della parte del campo riservata ai bocchesi. Se non lo avessero scelto da soli entro quel termine, il comandante lo avrebbe nominato autonomamente. Dopo il breve discorso del comandante, ai detenuti fu offerto un caldo rancio, e gli animi si rilassarono. Non lontano dal campo si trovava una chiesa greca e
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proprio accanto al campo si ergeva, alto e bianco, il minareto della moschea, diviso dal campo da un filo di ferro e da una stretta stradina che ogni venerdì era percorsa dagli abitanti di Presa che si recavano a pregare. Più volte, attraverso il filo di ferro della recinzione, qualche anima pia passò pacchetti con tabacco, cibo e frutta di stagione. A prescindere da chi li raccoglieva, tutto doveva passare il controllo sanitario e solo allora poteva essere diviso, in parti uguali. La vicinanza della moschea e i modi gentili della popolazione calmavano gli internati, sebbene tra di loro non ci fossero musulmani. Giustamente sì supponeva che gli italiani, da buoni cristiani, non avrebbero messo accanto ad una moschea, ossia ad un luogo deputato al culto divino, un campo di morte. Trascorsi i tre giorni, il comandante del campo nominò quale "capo" Lujo Ivovié di Teodo, poliglotta che parlava perfettamente l'italiano, oltre ad altre sei lingue. Il suo compito era di trasmettere gli ordini del comandante del campo agli internati, di mantenere un quotidiano collegamento tra gli internati e l'amministrazione del campo e di tradurre i discorsi del comandante. Ci si poteva aspettare che gli italiani favorissero gli internati di fede cattolica, ma il comandante non ammetteva alcun privilegio o distinzione. Ciò valeva anche per i bocchesi di origine italiana, i quali d'altra parte possedevano anche cognomi di stampo italiano (tipo Benusi, Taliancié o altri). Anche il capo Lujo teneva un atteggiamento non discriminatorio, ed infatti sul suo comportamento non ci furono mai lamentele significative. A differenza di quanto succedeva nel campo di concentramento "Klos", dove spesso giungevano messaggeri e rappresentanti del governo quisling dello Stato Indipendente montenegrino, quelli dell'ex partito dei verdi, dei bianchi, di MVAC (Milizie Volontarie Anticomuniste) e di altri, che cercava.no di reclutare gli internati tra le loro file, con la promessa di una rapida fine dell'internamento, a Presa tutto ciò era vietato. Allo stesso modo in cui i bocchesi non si sentivano montenegrini, gli italiani vedevano i bocchesi quali loro concittadi ni e non come montenegrini. Il campo non era n uovo perché costruito per i prigionieri di guerra; i primi ad abitarlo erano stati i membri dell'esercito dell'ex Regno jugoslavo. Erano coloro che avevano sfondato il fronte ed erano entrati in Albania il 7 aprile e, dieci giorni più tardi, dopo la disfatta della Jugoslavia, si erano trovati circondati dai militari italiani, diventando prigionieri di guerra. Alcune tende ancora portavano le scritte: "ufficiali" e "sottufficiali': pur essendo tra di loro uguali. I prigionieri di guerra erano stati spostati sull'isola Mamula, o in località italiane, oppure erano stati rilasciati in libertà, per fare spazio ai greci, perché allora non si immaginavano internamenti per i bocchesi. Dopo aver spostato i greci altrove, furono condotti nel campo i bocchesi. Trovarono il campo vuoto, se si eccettua la presenza di alcuni albanesi, condan nati ai lat ori forzati. Loro avevano il compito di preparare il campo, scaricare il materiale da costruzione, trasportarlo e svolgere altri lavori pesanti. Tutti i bocchesi presenti nel campo erano uomini, di varie professioni e età. È stato fatto un elenco con i loro nomi, scritto secondo i ricordi degli internati. Ha 115 nomi, ma si pensa che il numero reale fosse di circa 150 persone, come afferma Viado Po-
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robié. Egli menziona ancora altri 350 uomini di Ceklinje e di Crmnica, arrivati dopo: fu così saturata la capacità di accoglienza del campo, di circa 500 persone. Secondo altri indicatori, gli uomini di Ceklinje e d i Crmnica non furono internati nel campo Presa, ma in quello di Klos, mentre a Presa ci sarebbero stati soltanto bocchesi. Gli internati di Presa, Klos e Kavaja non potevano sapere come erano i campi di concentramento nazisti . Se lo avessero sapu to, avrebbero ringraziato iJ cielo di trovarsi dove si erano effettivamente trovati, ed avrebbero reso grazie a Dio e ad Allah, la cui gloria il muezzin cantava tre volte al giorno dal vicino minareto. Nelle tende del campo Presa c'erano letti cli legno a livelli, ma erano separati uno dall'altro. A ogni internato era assegnato un letto con materasso riempito di paglia e due coperte militari. Le regole del campo non erano più leggere cli quelle presenti nei luoghi militari. Gli internati vestivano i propri vestiti borghesi, non le uniformi da prigione. Disponevano di numeri, ma per una più fac ile identificazione e il necessario controllo delle presenze; i numeri non erano messi però sui vestiti, né tantomeno tatuati sulla pelle. Non c'era obbligo di lavoro, non c'erano lavori forzati ma, chi lo voleva, poteva occupare il tempo facendo qualcosa. Per gli attrezzi e il materiale ci si poteva rivolgere alla direzione del campo, che provvedeva immediatamente. :Cunica attività "forzata" era il mantenimento delle regole del campo, che includeva la pulizia delle tende e dello spazio circostante, ma in fondo la pulizia era, prima di tutto, un interesse degli internati stessi. In questo senso, le regole d'igiene erano identiche a quelle presenti in ogni altro tipo di campo: turistico, sportivo o altro. Erano permesse le attività sportive e gli hobby, come il disegno o l'intaglio del legno. All'inizio, il giuoco a carte era vietato, ma poi fu permesso, a patto che non si giocasse per denaro. Non vi erano insulti, umiliazioni, sputi, schiaffi, percosse, perquisizioni del bagaglio personale, come succedeva negli altri campi. Chi si ammalava, riceveva buone cure mediche e, nei casi più gravi, veniva portato in ospedale o rilasciato in libertà. Nei sei mesi che i bocchesi trascorsero a Presa, fu segnalato soltanto un caso cli morte, per "vecchiaia e debolezza" - come scrive lo stesso Viado Porobié35 a proposito di un signore di cognome Doncié. Il nome non è stato mai da lui menzionato - . Nel campo c'erano due persone di cognome Doncié, Jozo e Milo. Fu organizzato un funerale con il prete ortodosso e il defunto fu sepolto dignitosamente, con la dovuta pietà e nel pieno rispetto delle regole cristiane. Oltre agli internati, ai funerali erano presenti il comandante e il medico del campo e alcune guardie. La direzione del campo ordinò anche una grande corona di fiori: a tale fatto, che sembra davvero incredibile, nessuno darebbe credito se non fosse stato documentato con un servizio fotografico. Le spoglie furono deposte in una bara di legno, cosa che non succedeva assolutamente negli altri campi di concentramento. Visto che nei pressi del campo non c'erano dei cimiteri per gli ortodossi e che,
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d'altra parte, il corpo non poteva essere seppellito dentro lo spazio del campo (per non farlo sembrare un campo-cimitero o un campo di morte), la sepoltura ebbe luogo fuori, accanto al recinto del campo, per permettere agli internati di recarvisi. Dall'altra fonte 36 veniamo a sapere che il defunto si chiamava Jozo e che la sua morte fu politicamente manipolata: "Per sviluppare l'odio nei confronti del nemico abbiamo usato la morte dell'anziano Jozo Doncié di Cattaro. Egli è stato sepolto sulla pendenza della collina vicino al campo.. :'. Gli internati, come già detto, portavano i propri abiti, quelli che indossavano nel giorno in cui erano stati fermati, dunque in piena estate. Passati i giorni caldi, si verificò ovviamente il problema dell'assenza degli indumenti intimi e del vestiario invernale. Al susseguirsi delle lamentele per il freddo, agli internati furono assegnati gli indumenti militari, l'intimo e le calze e, per alcuni - in funzione dell'usura dei loro vestiti - anche alcune parti di divise militari usate (prese direttamen te dalla tintoria). Inoltre, coloro che erano arrivati in campo con i sandali, o le cui scarpe erano così malconce che per il calzolaio del campo risultava impossibile rattopparle, ricevevano scarpe militari. Agli internati si cercò di mitigare anche una grande preoccupazione, quella per i familiari. Durante la guerra, in Italia scarseggiava il cibo. Ovunque, il cibo si poteva comprare solo con i coupon mensili per l'approvvigionamento e in quantità limitate, calcolate per singolo cittadino. Se l'unico che poteva provvedere per i bisogni della famiglia a carico era chiamato alle armi, ogni membro della sua famiglia riceveva coupon mensili gratuiti per farina, pasta, riso, zucchero, sale, formaggio, sapone e, a volte, anche per la carne in scatola. Lo stesso identico regime valeva anche per le famiglie degli internati o confinati, ma soltanto se si trattava di detenuti politici o di politici «in isolamento" che erano potenzialmente pericolosi, anche senza aver commesso alcunché. D i questo privilegio non godevano le famiglie dei prigionieri di guerra, dei ribelli, di coloro che si erano macchiati di crimini seri o di ,ùtre gravi violazioni. Ques to valeva per l'Italia, ma anche per le Bocche di Cattaro come territorio annesso, i cui abitanti erano equiparati agli italiani. Sebbene si trattasse di modeste quantità di cibo, ciò rappresentava un grande aiuto e un grande sollievo per la popolazione affamata. Nelle periferie delle città, l'amministrazione italiana dava sostegno anche alle famiglie più povere, anche se non avevano nessun parente imprigionato. Gli storici montenegrini del dopoguerra, non potendo negare qu.esto fatto, lo hanno ascritto ai perversi fini politici dell'occupatore e non al suo estro umano. Lo storico Dusan Zivkovié lo ha descritto così37 : "Quanto ci tenevano ad attirare dalla loro la gente di questo territorio lo conferma la cura che prestavano nell'aiutare socialmente i più bisognosi e i più poveri ... Dal mese di agosto, gli italiani hanno iniziato con l'approvvigio-
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Idem, pag. 408.
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Op. cil. pagg. 107 e 109.
namento regolare garantito alla popolazione secondo le categorie. Alcuni ricevevano farina, pasta, riso, sale e un poco di olio, mentre altri, che disponevano di un poco di terra, ricevevano soltanto sale, zucchero e qualche man ciata di riso': Una volta al mese, gli internati del campo Presa potevano scrivere e ricevere le lettere da casa. Naturalmente c'era la censura. La direzione del campo distribuiva anche le cartoline su cui scrivere. Chi parlava l'italiano, e tra i bocchesi erano diversi, poteva ricevere anche qualche libro. Per superare più facilmente le difficoltà e le preoccupazioni che li opprimevano, ed anche per far passare più velocemente il tempo, c'era chi tra gli internati portava uno spirito allegro e chi inventava passatempi. Non mancavano scherzi, inganni spiritosi, canti e, con il tempo, si riuscì a formare anche un coro che ogni tanto si esibiva. Risto Kovijanié lanciò una rivista di campo, scritta a mano, che si chiamava "Presa" e di cui fu conservato un solo numero. Nonostante fosse edito di nascosto, non rimase segreto per la direzione del campo che però lo tol lerò senza grossi problemi. Il nome del comandante del campo non fu ricordato da alcuno. Neanche l'internato Porobié, che non lesinava le male parole sul conto degli italiani, poté dire nulla contro il comandante 38: "Il comandante del campo era come il direttore di una banca in Italia. Non era fascista e il suo comportamento verso gli internati era piuttosto tollerante.. :'. Durante il periodo di reclusione dei bocchesi, si verificò solo un incidente serio, ma in questo non furono coinvolti i bocchesi. In questo caso, le testimonianze di Kostié e di Porobié sono quasi identiche. Il fatto accadde nei primi giorni dall'arrivo dei bocchesi nel campo, quando cominciarono a pensare che il grosso del pericolo era ormai rimasto dietro di loro. Nel cuore della notte, si udirono degli spari, che si protrassero a lungo. Tutti gli internati saltarono dai loro letti e si buttarono a terra, rimanendo così fino all'alba, quando il suono della tromba li chiamò al raduno. Dopo l'appello, visto che tutti avevano risposto, i bocchesi fu rono lasciati liberi di tornare nelle loro tende. Si venne a sapere il motivo della sparatoria . Prima dell'arrivo dei bocchesi, nel campo si trovavano guattro albanesi, che quella notte avevano tentato la fuga. Due riuscirono a fuggire mentre altri due, ai primi spari, desistettero. A questi due fu inflitta una dura punizione, probabilmente anche per far loro dlire i nomi delle persone che avevano organizzato la fu ga e per dare un duro esempio agli altri. Furono legati sulle colonne di metallo del recinto del campo e lasciati così per tutto il giorno, esposti al sole cocente di piena estate senza un goccio d'acqua, fino allo svenimento. Solo allora furono liberati e ricoverati in ambulatorìo. Tutti i detenuti conoscevano la sofferenza che provoca la sete, visto che in genere l'acqua scarseggiava ed era razionata. Da quelle parti non esistevano gli acquedotti e l'acqua veniva portava sui muli da grandi distanze. In verità, l'acqua, che significa vita, era la cosa che più mancava a tutti,
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Op. cit. pag. 401.
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particolarmente perché nei dintorni non c'era vegetazione, ma solo un grande albero e due più piccoli. :Combra che facevano non bastava che per uno scarso numero dì internati. Sarebbe utile riportare anche l'aspetto deì dintorni del campo, per come lo ha descritto Viado Porobié39 . A differenza dei dintorni del campo, in lontananza il verde delle montagne circostanti era abbondante e dava un senso di sollievo agli occhi. Le colline più vicine erano ricoperte da uliveti e campi di fichi e agrumi. Sotto la collina sulla quale era sito il campo, si stendeva la vallata, alla fine della quale si scorge ancora Tirana. La cima del colle, dove Ahmet Zogu intendeva costruire il suo palazzo, offriva una splendida vista da tutte le parti. Verso NE si trovava la città di Kruja, che diede i natali a Scanderbeg. A N il famoso monte Tomari e il Lovéen, con la sua cima Stitovnik. Ad O si apriva lo sconfinato azzurro del mare. Sebbene agli internati sembrasse che i camion si muovessero su una montagna impervia, da Presa fino alla baia, tra i promontori Rodoni e Pali, la distanza non superava più di 15 chilometri in linea d'aria; certo alla gente abituata al mare ciò mitigava la tristezza e addolciva la nostaJgia. In una parola, l'ambiente avrebbe potuto anche avere un aspetto gradevole, se non fosse stato recintato dal filo spinato. In ogni angolo del campo c'erano torri di guardia, dalle quali sporgevano le canne dei m itragliatori. I:autunno arrivò, peggiorando la vita degli internati, cosicché ebbe luogo l' inizio del loro rilascio selettivo. Il primo gruppo fu rilasciato il 22 settembre. Si trattava per la maggior parte di impiegati postali e di altri lavoratori che avevano acconsentito a riprendere il servizio. Il secondo gruppo lasciò il campo il I O ottobre. In quel gruppo c'era anche Porobié, da cui veniamo a sapere che il rientro a casa fu organizzato non via mare, ma con i camion. Viaggiarono via Scutari e Podgorica tìno a Cattaro, dove finalmente furono liberati. li resto degli internati rimasti a Presa fu trasferito in altri campi in Albania, o fatto tornare nella prigione di Cattaro. Secondo il racconto di Viado Vujovic40, in tardo autunno, nel campo Klos, fu internato un gruppo dì 70 bocchesi, che gli italiani avevano classificato come "nostri". "In questo spirito, i bocchesi a Klos, anche gli intellettuali, ricevettero un trattamento privilegiato. Li sistemarono nella Prima baracca del settore B ( .. .) che aveva un pavimento dì legno nuovo di zecca. Verso la porta della baracca, il capo baracca aveva uno spazio separato dagli altri". Il capo era sempre Luj Ivovié, ma la sua competenza non si estendeva su tutti gli internati bocchesi, come a Presa, ma solo su quelli della Prima baracca del settore B. «In breve, sull'uscio della baracca è comparsa la scritta-avvertimento: 'Ingresso consentito solo ai bocchesi"'. Gli internati ancora rimasti a Presa, individualmente o a gruppi, venivano fatti rientrare nella prigione di Cattaro da dove, dopo una lunga permanenza, veniva-
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Op. cit. pag. 400. Op. cit. pag. 133.
no liberati e fatti tornare a casa. Ma per molti guesta libertà sarebbe durata poco. Mirko Kostié tornò a casa il 25 dicembre, dopo una decina di giorni trascorsi nella prigione di Cattaro, perché non voleva firmare il foglio con il quale accettava di rientrare in servizio nell'amministrazione pubblica. Non annunciato, il suo arrivo a casa fu una grande sorpresa per tutta la famiglia, anche perché rientrò vestito con parti di uniforme militare italiana (senza insegne) e con scarponi militari nuovi. Per chiarire le perplessità, spiegò subito che, dopo sei mesi, dei suoi abiti non erano rimasti che stracci e che gli abiti che adesso indossava gli erano stati dati in prestito, dovendoli restituire una volta tornato a casa. A questo punto, è già ben chiaro che tutti gli internati a Presa erano grandi patrioti, ma non necessariamente comunisti. In maggioranza, erano menti libere, intellettuali fuori dai partiti: impiegati della pubblica amministrazione, maestri, professori, presidi, medici, impiegati bancari o postali e altri la cui azione e il cui pensiero poteva influire su quella parte della popolazione che non voleva accettare l'annessione delle Bocche di Cattaro né una lunga sudditanza all'Italia. Essi, pertanto, non volevano accettare di servire l'Italia riprendendo il servizio che svolgevano precedentemente, durante il Regno jugoslavo. La storiografia della Jugoslavia del dopoguerra, e quella montenegrina, hanno collocato tutti quanti gli internati tra i comunisti o tra i loro simpatizzanti, il che implicherebbe anche la condivisione delle modalità con le quali fu portata avanti la resistenza, compresi gli "errori della sinistra". Un tempo, tale affermazione era fuori ogni logica. Oggi sembra addirittura ridicola. Per esempio, che senso ha menzionare il lavoro delle cellule comuniste nei campi nei quali i comunisti non c'erano? Oppure, indicare alcune persone come membri del Partito comunista (nel 1941) quando ancora non potevano esserlo? O ancora mettere in risalto alcune azioni illegali compiute dai comunisti nei campi, quando in quegli stessi campi non vi era alcun comunista?
* * * Dopo una approfondita analisi dello scarso materiale disponibile, si evince che le migliori condizioni di vita erano nel campo Kavaja, almeno fino alla fine del 1941. In quel campo furono portati gli ebrei, che ricevevano un significativo aiuto e protezione da parte d,ella Croce rossa. Si trattava di gente molto abbiente che, al momento della disfatta della Jugoslavia, riuscì a raggiungere le Bocche di Cattaro, cercando sostegno e protezione. Sapevano che arrivando nelle Bocche avrebbero avuto salva la vita e infatti trovarono rifugio nei campi italiani. È chiaro cosa sarebbe loro successo se fossero rimasti nel territorio occupato dai tedeschi o nello Stato indipendente croato. Dopo Kavaja, le più sostenibili condizioni di vita erano offerte dal campo Presa perché lì, in maggioranza, erano stati portati i bocchesi, allora considerati cittadini italiani. Pit'.L dure condizioni riservava il campo Klos, dove erano sistemati per lo più i montenegrini. Avevano però migliori strutture di alloggio, visto che disponevano di baracche in legno, mentre a Presa c'erano solo delle tende.
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Maestri italiani Cosa c'entrano i maestri italiani con il campo di concentramento "Presa''? A prima vista, nulla! Se però non vi fosse stato il "Presa" e mio padre non fosse stato rinchiuso lì dentro, non ci sarebbe stata la requisizfone della nostra casa, non avremmo avuto una maestra italiana dentro casa e, probabilmente, non sarebbe neanche stato mai scritto questo libro. L'inizio dell'anno scolastico 1941-42 tardava, perché si aspettava l'arrivo dei maestri italiani. Correva ta voce che i nuovi maestri venuti dall'Italia avrebbero trattato gli alunni delle scuole dei nostri villaggi come dei pidocchiosi selvaggi e maleducati. Ci avrebbero riabilitati con i famosi metodi duri fascisti. Non comprendevamo cosa ciò significasse, ma sentivamo che il periodo che ci attendeva sarebbe stato molto brutto. Fino allo scoppio della guerra le scuole duravano quattro anni e gli italiani avevano aggiunto altri due anni per quelli che già avevano superato la scuola elementare. Per tale ragione c'era bisogno di altri maestri. In questo modo, anch'io mi trovai iscritto al quinto anno delle elementari. Nel nostro villaggio Cartolle, i maestri non arrivarono tutti insieme. I primi ad arrivare furono gli uomini, ma non ci facevano paura, come avevamo temuto. Furono sistemati in varie case e da noi venne ad abitare, per un breve periodo, solo uno di loro, di nome Tito Romitelli (nato nel 1917). L'altro maestro maschio era Mario Jerrari (nato nel 1913). Il preside Vaso Barbié fu destituito 1'11 marzo 1942 e al suo posto arrivò, come "direttore didattico': Giuseppe Donatelli. C'erano pochi maestri maschi, erano stati tutti chiamati alle armi. Il maestro Romitelli non ci p agava l'affitto perché la nostra casa requisita era considerata proprietà di stato. Mai ci chiese se ci dovesse qualcosa, né noi pretendemmo mai nulla, contenti già di non essere stati buttati fuori. Le maestre arrivarono più tardi, ma non tutte insieme. Per prima arrivò la più anziana tra di loro, Carolina Colarusso Cipelletti (nata nel 1892), bruttina e di bassa statura. Guadagnava d'autorità con la sua voce tonante. Tutti la chiamavano per nome, Carla, e gli alunni le diedero subito un soprannome legato al suo cognome: "cipullà', espressione dialettale di "cipolla''. Nei primi giorni del suo servizio accadde il primo (e anche ultimo) incidente legato ai maestri italiani. Non ebbe ripercussioni, nonostante dovettero intervenire anche i carabinieri; l'episodio sarebbe stato dimenticato se non fosse stato formalmente registrato e, più tardi, nel 1996, iscritto anche nel libro sulla scuola di Cartolle4 1. Il caso non meriterebbe attenzione visto tutto quello che successe durante la guerra, se non rappresentasse una particella del mosaico che assume importanza solo osservando i fatti e con-
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Vasko Kostic, "Najstarija n arodna skola u Crnoj Gori" (o italijanskoj upravi 175-190) Beograd
1998.
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frontandoli tutti insieme, non solo quelli di allora, ma anche questi attuali che si susseguono nella pubblica istruzione del Montenegro di oggi. La maestra Carolina cominciò a introdurre alcune regole indigeste per gli alunni che erano, quasi tutti, di religione serbo -ortodossa. Ogni giorno, prima dell'inizio della prima ora scolastica, i bambini dovevano tutti alzarsi in piedi, fare il segno della croce al modo dei cattolici, sillabando dietro la maestra il "Pater noster" in italiano. Spontaneamente, in modo non organizzato, senza alcuna intromissione del Partito comunista - come dopo si cercò di far credere - i genitori degli alunni si ribellarono e già il terzo giorno vennero a scuola insieme ai loro fìgli per vedere cosa stesse accadendo. Scoppiò un'accesissima discussione e, dalla casenna che si trovava proprio accanto alla scuola, giunsero infine i carabinieri, impedendo a tutti di andarsene. rordine che fu emanato dalle autorità italiane era di far sospendere ogni pressione sulla religione, di lasciare liberi tutti di pregare e di fare il segno della croce come volevano e, ai carabinieri, di andarsene immediatamente via dalla scuola, perché la questione non riguardava loro e non era di loro competenza. Gli attivisti del Partito comunista locale spiegarono l'accaduto catalogandolo come una premeditata azione di propaganda. Senza dover elencare tutte le scuole nelle Bocche, dirò solo che, oltre alla maestra Carla, nella nostra piccola scuola di Cartolle, con una sola sezione distaccata, c'erano altre maestre: Maria Magnaboia (1907), Caterina Murbolini (1907), Maria De Julijs (1920), Caterina Ambrosini (?) e Laura Segafreddo (1921). Le ultime ·tre erano appena diplomate, avevano da poco passato l'esame di stato ed erano troppo fresche di corso per approcciarsi a noi, selvaggi balcanici. La più giovane, e la più bella, era la maestra Laura Segafreddo, ma del "freddo" del cognome non aveva proprio nulla. Mi dispiaceva che non l'avessero sistemata in casa nostra, ma dai Giurassevich, perché assegnata al servizio per la classe distaccata nella frazione di Radovici. Nella stanza requisita della nostra casa, dopo il maestro Tito Romitelli, venne ad abitare una maestra, la quale, a differenza del suo predecessore, ci pagò regolarmente l'affitto, nonostante noi non lo avessimo mai chiesto. Il denaro per l'affitto ci era di grande sostegno, visto che da quando mio padre era stato tratto in arresto, eravamo rimasti senza alcun mezzo di sostentamento. Si trattava della maestra Maria De Julijs. Scritto proprio così, "Julijs": da allora imparammo che, come il nostro, anche l'alfabeto italiano conosceva la lettera "Y: Forse aveva origini non italiane. Inoltre, quel "De'' del cognome poteva indicare anche origini nobili. Ma lei era molto modesta e vestiva allo stesso modo. Non si imbellettava mai, mai fu vista con il trucco sul volto. Non ne aveva neanche bisogno, a dire il vero. Anche così, acqua e sapone, era bella, gentile e molto cara. In quel tempo andavano di moda i capelli ondulati, ma lei li portava sempre al naturale; profumava di fresco sapone italiano. Sebbene si trovasse per la prima volta lontano dalla propria fa migfo,, si adattò subito, tanto che cominciammo a considerarla come parte della nostra famiglia. Le piaceva il nostro cibo casareccio, nonostante in quei tempi di stenti fosse molto povero. Spesso mangiava insieme a noi e imparò a cucinare i nostri piatti, condividendo ogni tanto i pacchi dono che i maestri ricevevano dalla Croce Rossa. Qualche volta, dentro si trovava anche il pacchettino col caftè vero,
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il che rendeva molto felici la mia nonna, la mia mamma e mia zia, che adoravano il caffè, ma erano costrette a prendere solo quello di cicoria. Quando notava che qualcosa in casa mancava, ce lo portava. Notando il mio talento per il disegno, mi portava le matite colorate, i pastelli e i colori ad acqua, oltre a tutto l'occorrente, incoraggiandomi a continuare. Questo mi rendeva molto felice e, più avanti, il saper disegnare m i è stato molto utile nei miei studi di architettura. Ho tralasciato la pittura ma, quando ho cominciato a scrivere, ho scoperto che anche nel pensiero dello scrittore è di aiuto combinare le idee con i colori. Ma questo non fu l'unico merito della maestra Maria per la mia vita futura. Sono in grande debito con la mia maestra Maria e credo che questo libro sia anche merito suo. Senza il suo ricordo, senza la memoria di tutto il bene che ci ha regalato, probabilmente non avrei potuto superare tutti gli impedimenti e decidermi a scrivere un libro che parla con comprensione degli italiani, i quali erano comunque occupatori del mio paese, oppressori del mio popolo. Non posso certo dimenticare che i fascisti italiani uccisero tre dei miei parenti stretti e tennero mio padre a lungo imprigionato. È molto raro che colui che durante la guerra non fu alleato, ma dall'altra parte della barricata, scriva in modo positivo dei propri nemici di guerra e, dunque, dei propri nemici «di sangue". Lo può fare soltanto una persona che non scrive su ordine di qualcuno e non ha altro interesse che quello morale. Ovvero, solo chi è motivato dalle proprie emozioni e dal ricordo di un passato di oltre 70 anni fa. E tutto per influenza di un maestro alle prime armi, una giovane signora italiana. A lei anche l'Italia dovrebbe esprimere tutta la gratitudine per aver contribuito a rendere giustizia all'immagine degli italiani e dell'Italia, per lunghi decenni volutamente distorta. Chiedo perdono se la mia memoria non è più così limpida e se le tuttora forti emozioni ogni tanto mi portano a fare digressioni e ad avere una visione delle cose forse troppo soggettiva. La maestra Maria trascorreva quasi tutto il suo tempo libero con noi, in casa, aiutava nei lavori domestici o studiava per passare alcuni esami. Quando si stancava, cominciava a studiare la lingua serba e allora il maestro ero io. Le volevamo tulti bene, specialmente io, l'unico maschio di casa. Conoscendola meglio, la mia maestra è diventata per me una grande autorità. Ogni qual volta mi rimproverava rimanevo senza parole. Anche i suoi rimproveri spesso erano senza parole, mi guardava in silenzio. Mi trapassava con lo sguardo che esprimeva uno strano miscuglio di rigore e di tenerezza; per quello sguardo e per la clemenza del suo sorriso ho conservato la sua foto. Ero l'unico figlio maschio con due sorelle ed ero un bambino molto viziato. Devo alla maestra Maria il mio precoce maturare nel periodo della pubertà. Con i suoi metodi pedagogici è riuscita ad ingentilire il mio carattere. Era profondamente credente e si faceva il segno della croce ogni qual volta litigavo con qualcuno bestemmiando, qualche volta anche in italiano. Non sapevo se si facesse il segno della croce scandalizzata dal mio errato comportamento o perché si rivolgesse al Signore per farmi perdonare e per aiutarmi a cambiare. Dopo i suoi rimproveri rimanevo sempre pieno dì vergogna e chiedevo scusa: tenevo al suo perdono! Ma alla mia maestra non bastavano le mie scuse perché io continuavo a fare i capricci. Per perdonarmi, pretendeva la mia parola d'onore
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di non dire mai più brutte parole. Mantenni questa promessa per tutto il resto della mia vita! Semplicemente, mi disabituai alle bestemmie. Grazie a lei non ho mai più usato parole volgari (tranne quando racconto le barzeUette, come possono confermare tutti quelli che mi conoscono). Questo fatto da solo basterebbe a ricordare quale merito ebbe la mia maestra per la mia educazione e per la formazio ne del mio carattere. Ma lei ebbe molti altri meriti, ancora più grandi. Cosa stava succedendo in quei giorni nella mia testa e nell'animo, forse lo potrebbero spiegare gli psicologi: per me è rimasto ancora oggi un mistero. Vicino alla maestra mi sentivo forte, di buon umore, pieno d'energia e di voglia di lavorare, di studiare, pieno di interesse per tutto ciò che manifesta la vita. Nulla mi pesava e, da allora, non ho mai perso l'abitudine al lavoro. Mi bastava la sua vicinanza. Il massimo era quando mi abbracciava e baciava, il che non succedeva di rado, ma mai di nascosto, sempre pubblicamente, come un genitore fa con i figli. Si trattava di un bene reciproco potenziato, forse, dal suo istinto materno. Mi trattava da madre ed io la ricambiavo con un grande rispetto e amore filiale. Ma non ero innamorato di lei, l'ho capito quando ho cominciato ad innamorarmi davvero. Nel tempo libero, Maria non andava fuori casa, evitava i corteggiatori. Aveva una ragione segreta per questo, che non svelava a nessuno. Quando usciva a fare la spesa, mi chiamava e mi chiedeva di accompagnarla. Qualche volta doveva, per servizio, recarsi a Teodo o a Cattaro ed io la accompagnavo fino al porto, visto che si transitava solo via mare. In questo modo le furono impediti gli assalti di noiosi corteggiatori e poi la mia compagnia le piaceva (sebbene avesse 10 anni più di me). Le piaceva che l'ascoltassi con tanta attenzione e mi raccontava tutto. Così venni a sapere di Venezia, di Roma, della storia di Pompei, di Verona e di altro, molto di più che se ci fossi andato di persona. C'è un altro merito della maestra Maria, non soltanto per quanto riguarda la formazione del mio carattere, ma per quanto attiene alla mia personalità; è un merito che può apparire insolito, e che però spiega la sua influenza sulla creazione di questo libro, a distanza di 70 anni. Credo che riuscisse a trasmettere le sue energie vitali su di me e questo non era una mera autosuggestione, perché durante Ja vita ho sempre cercato una simile sorgente d'energia. tho trovata specialmente nelle donne, non in tutte perché in fondo probabilmente solo poche persone dispongono di tanta energia in eccesso da poterla donare agli altri. Se poi avevano gli occhi brillanti e neri come il carbone ardente, simili a quelli della mia maestra, capaci di sprigionare forza vitale ... Spesso ho cercato tale sguardo nelle donne che ho incontrato. A volte ho ricevuto dei rimproveri: "Perché quello sguardo insolente?" - mi dicevano -. Ma io credevo di stare meglio trovandolo e ciò mi ha aiutato per tutta la vita. In gioventù non sapevo cosa era il carisma, non me ne intendevo di psicologia, ma ciò non mi ha impedito di vivere sensazioni sconosòute e invisibili, come oggi riesco a sentire e comprendere le forze donate dal Signore. Il carattere della mia maestra è illustrato nel miglior modo da un episodio legato ad un mio parente e vicino di casa, Ivo Stefanovié Kostié, che era il suo più tenace corteggiatore e che non lasciava in pace le maestre del villaggio neanche 72
prima della guerra. Da parente, veniva spesso a casa nostra. Ma da quando arrivò la maestra Maria - che gli era apparsa evidentemente come una facile preda - le sue visite diventarono piLt frequenti. Era di bell'aspetto, narcisista, conquistatore irresistibile di cuori femminili, specialmente di quelli delle straniere, le belle ragazze ceche dell'associazione sportiva "Sokol" (falco) che venivano in vacanza in campeggio Sokolovac sulla spiaggia Przina. Con la maestra Maria, però, il suo fa scino non funzionò come con le ragazze ceche in sottanine sportive corte. Superare i limiti del comportamento da gentiluomo poteva costare la vita; lui l'avrebbe persa se la maestra lo avesse denunciato. La maestra invece si limitò a raccontare il fatto alla "Nonna': come chiamava la mia nonna Darinka, scoppiando a piangere. La mia nonna, vedova di un sacerdote, pregò Maria di perdonare, perché il perdono salva l'anima. Ad Ivo fece una severa predìca e lo costrinse alle scuse. Egli fece come la nonna gli chiese, venne a casa e umilmente chiese scusa alla maestra Maria. Lei lo perdonò e non lo denunciò, ma gli impose di non farsi piLLvedere, sottolineando che quel gesto lo faceva non per lui, Ivo, ma per l'educazione cristiana che aveva ricevuto e per le preghiere della nonna Darinka. (Più tardi Ivo morirà _per mano dei fascisti. Non per questa o qualche simile stoltezza, ma per un fatto del quale si parlerà in un altro capitolo di questo libro: "sotto il Carrubo"). Non c'è dubbio che la figura della maestra Maria sia stato il fattore più importante per la formazione della mia visione sugli italiani. Ma non fu l'unico. Ci furono altri fatti legati al sistema scolastico durante l'amministrazione italiana dall'aprile 1941 fino al settembre 1943. Devo ad esempio menzionare il fatto che tutti gli allievi della scuola ogni giorno ricevevano un pasto liquido e caldo, il minestrone. A chi non bastava, veniva concessa un'altra portata. Con il minestrone si riceveva un pezzo di pane duro. A volte c'era anche un frutto di stagione o tre prugne ciascuno. Gli attivisti del Partito comunista dicevano che questo pasto era una miseria. Miseria o no, la distribuzione quotidiana e gratuita nella scuola del pasto caldo agli alunni era una cosa nuova, unica ed eccezionale. Non esisteva prima dell'arrivo degli italiani,, non esistette durante l'occupazione tedesca e nemmeno dopo la guerra. Quale sostegno migliore per i bambini in tempi di guerra e specialmente per le famiglie che avevano più figli che frequentavano la scuola? Durante le vacanze estive ci portavano per un mese in campeggio nella cosiddetta "colonia marina" sulla spiaggia Priina, nell'ex campeggio del "Sokol", sotto la stretta sorveglianza delle maestre e con tre abbondanti pasti al giorno per tutti. Ciascuno riceveva anche un equipaggiamento sportivo di colore azzurro che non doveva restituire: camicia e pantaloncini azzurri, cappello di tela, una maglietta bianca e le scarpe da ginnastica bianche. I dettagli non sono importanti, ma è importante dire queste cose perché si sappia che non si trattava delle uniformi fasciste nere. Da nessuna parte, né sui cappelli, né sulle tute, c'erano simboli fascisti. Sull'albero del campeggio veniva alzata soltanto la bandiera italiana, non quella del fascio, come invece accadeva davanti alle sedi istituzionali o sulle case private. Non si faceva neanche propaganda di regime. Questo probabilmente a causa dell'opinione pubblica internazionale, in quanto il campeggio spesso era visitato dalle varie delegazioni della Croce Rossa, le quali portavano in regalo palloni e
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molti altri attrezzi sportivi. Per noi bambini, la più grande felicità era rappresentata dalle scarpe da ginnastica. Sebbene semplici e di tela, erano una grande gioia perché d'estate la maggior parte dei bambini doveva andare scalza, la povertà non ammetteva sandali. E le strade erano tutte di pietra grezza o sterrate ... Non abituati a questo tipo di campeggio, i genitori delle bambine avevano difficoltà a dar loro il permesso. Specialmente vedendo che erano i militari a sistemare i terreni sportivi del vecch.io campeggio rimasto in disuso. Ma, una volta rassicurati del fatto che i militari potevano entrare nel campeggio solo prima dell'apertura delle colonie marine, i genitori delle bambine superarono ogni resistenza e diedero alle figlie la possibilità di usufruire della vacanza estiva. Nutrivano piena fiducia nella maestra Maria che era a capo della colonia, ma ella non era l'unica persona di fiducia. Allo stesso modo con il quale alcune camicie nere hanno annerito l'onore di tutti gli italiani, c'erano degli italiani che, con il bene che hanno fatto, hanno coperto di grande onore tutta l'Italia. Se era vero, come dicevano gli attivisti del Partito comunista, che queste colonie marine non erano altro che propaganda di regime, possiamo dire che tale propaganda è riuscita doppiamente: da un lato, ha fatto diminuire l'insofferenza della popolazione nei confronti degli italiani e, dall'altro lato, ha dato un ulteriore sostegno a bambini affamati. Tanto più perché i campeggi e le colonie marine non erano limitate solo al mio villaggio Cartolle, ma comprendevano tutto il territorio delle Bocche di Cattaro. *
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Nonostante la maestra Maria, che aveva una grande influenza su di me, fos se già in casa nostra quando arrivarono le uniformi "balilla': io non la volli, e non la ricevetti mai; dunque, mai la indossai. La maestra non me lo rinfacciò mai. Capiva che non era onorevole per me, mentre mio padre era in prigione, indossare l'uniforme fascista. Non ero l'unico a rifiutare di entrare nelle organizzazioni fasciste, quella dei bambini "balilla" o quella giovanile "GIL". Rifiutavamo non di propria volontà, ma sotto la pressione dei genitori o dei vicini. Al contrario, molti, nelle città, si pavoneggiavano in quelle uniformi. Dopo la guerra, alcuni di loro diventarono quadri del Partito comunista. Era facile, con testimonianze reciproche organizzate ad arte, provare che erano stati infiltrati, fascisti per "segreto ordine del Partito': Bastavano due testimoni. Altri si giustificavano dicendo che erano stati costretti, altrimenti sarebbero stati cacciati dalla scuola. Forse questo era vero da qualche parte, ma non da noi a Cartolle, dove le scuole erano più di una, e l'appartenenza al partito fascista era di libera scelta. Nessuno, non iscritto a Balilla o a GIL, ricevette mai alcun disturbo o subì alcuna ripercussione, né alle scuole elementari, né a quelle medie. (La storiografia della Resistenza montenegrina spiega il coatrario). La mia maestra Maria è sopravvissuta alla guerra, ma nulla più di lei rni è noto, nonostante tanti sforzi e ricerche. Dopo l'armistizio, il maestro Tito Romitelli si era unito ai partigiani italiani in Jugoslavia e divenne commissario politico del battaglione "Tito':
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Azioni odiose dei fascisti Solo una volta a Cartolle i fascisti esercitarono il loro metodo preferito di umiliazione delle persone, la cosiddetta "Procedura di rigore - ricino in laringe': come chiamavano il costringere delle persone ad ingoiare ricino in pubblico, davanti a cittadini appositamente adunati. Il fatto successe il primo di agosto del 1943 nel centro di Vara. Era domenica pomeriggio e, come d'abitudine, un gran numero di persone stava fuori di casa. D'estate si mettevano i tavolini fuori dal ristorante e tante persone si raccoglievano attorno, in piedi. Quel giorno non fecero uscire i carabinieri e i finanzieri dalle loro caserme, perché da Teodo era venuto un gruppo di fascisti condotto dal federale Bella. All'apparire del federale tutte le persone dovevano alzarsi in piedi e salutare con il braccio teso. Non lo fecero Joko Mikijeljevié, i fratelli Savo e Ivo Antovié e il mio cugino ed omonimo Vaso N. Kostié. E non solo. Si misero anche a discutere con dei fascisti affermando che, nel tempo libero, avevano diritto di stare seduti e di giocare "alla briscola". Gli animi si riscaldarono velocemente, si sentirono urla e insulti rivolti alla "dittatura': Il federale ordinò di far uscire i quattro fuori dal ristorante, per insegnar loro "la briscola". Il termine «briscola" deriva dal battere con il pugno il tavolo da giuoco, "calando" la carta più forte. In senso lato, significa battere, menare. I fascisti avrebbero potuto fare anche questo. Qualcuno descriveva le loro azioni caratteristiche in questo modo: "brutalizzare selvaggiamente, schiaffeggiare, insultare, sputare, bastonare, malmenare con pugni, scarponi, manganelli, calci di fucile .. :: Questo a Cartolle non successe ed è il momento di smentire chi dice il contrario. Quel giorno cadeva la festa cattolica della Madonna delle Grazie. Per tale ragione, il federale non volle mettere i quattro ai ferri e optò di "offrire loro" una bibita, un cocktail di ricino, sale amaro e chi sa che cos'altro, che aveva preventivamente mescolato dentro il bicchiere che teneva nella mano (cfr. fig. 12). La speciale bibita provocava un grande mal di pancia, ma non poteva uccidere. La somministrazione si svolse secondo il solito, orrido, rituale, davanti ai fotografi. Nedjeljko Zorié 42 ha pubblicato una foto simile nel suo libro ma non sapeva quando e dove il fatto fosse successo e chi fosse sulla foto. In quella situazione, contro i quattro disubbidienti i fascisti avrebbero potuto applicare una punizione ancora piLl pesante. Avrebbero potuto massacrarli di botte, arrestarli. Anche fucilarli, della qual cosa avevano paura gli anziani lì presenti. I tedeschi lo avrebbero fatto senza pensarci. Il federale, nonostante lo seguisse la fama del "famigerato': non lo fece, scegliendo una punizione minore.
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Op. ci t. pag. 90.
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I fascisti talvolta eseguivano perquisizioni delle persone o delle case segnalate, ma non si appropriavano delle cose altrui. Almeno nessuno mai si lamentò. Una volta, a casa nostra, vennero con un carro alcuni militari non fascisti. Non attuarono la perquisizione, ma chiesero di farsi consegnare le antiche armi, corredo del vestiario tradizionale. Si richiamavano alle leggi di guerra e ai proclami sull'obbligo di consegna di tutte le armi. Ci rilasciarono regolare ricevuta delle cose portate via, promettendo di restituire quelle armi ornamentali dopo la fine della guerra. Avevano anche l'elenco delle nostre vecchie armi: un.a antica spada araba ricurva - lo yataghan - con l'iscrizione in oro del nome del primo proprietario, un pascià; un fucile corto monocanna che si portava tradizionalmente appuntato alla cintura; un fucile corto a doppia canna e una antica pistola montenegrina, di produzione russa. Tutte queste armi si trovavano esposte sulla parete della nostra casa, come ornamento, ed erano così vecchie che nessuna di esse era più utilizzabile. Mio padre era in prigione e sua madre Darinka lasciò che portassero via tutto, per non ledere in alcun modo la posizione del figlio. l militari ci consegnarono la ricevuta con tanto di firma e timbro, sebbene la nonna non l'avesse chiesto. Più tardi, quando seppe del fatto, la maestra Maria accompagnò la Nonna (la mia nonna Darinka) dal prefetto Franco Scasellati a Cattaro. Il prefetto la ricevette gentilmente e diede immediatamente ordine di restituire le armi. Ma, dal registro dei magazzini delle armi sequestrate, risultava che quelle armi non erano mai state fatte entrare lì dentro.
t•
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14.
Belle azioni degli italiani In genere, la storiografia ufficiale montenegrina definisce come odiose tutte le cose che, in qualche misura, erano riconducibili alle azioni degli italiani. Raramente qualcuno ha osato scrivere su di loro qualcosa di positivo. Io l'ho fatto, in modo scritto nel feuilleton 43 e oralmente, intervenendo al Convegno scientifico, saggio pubblicato nella Raccolta del 1983, di cui cito un passaggio (omettendo l'introduzione e la conclusione, che erano obbligatorie per evitare la censura e l'annullamento44): "Loccupatore ha pertanto cambiato, nell'autunno del 1942, tattica e ha applicato alcuni metodi di avvicinamento alla popolazione agricola locale, al fine di staccarla dalla Resistenza. Inviava veterinari per visitare e vaccinare gli animali, regalava piantine di ulivo e le istruzioni per la coltivazione delle particolari varietà, distribuiva le brochure per la lotta contro le malattie delle piante, specialmente contro la peronospora, organizzava i corsi per la potatura e per gli innesti dei vigneti e degli alberi da frutto, ed altro''. La Raccolta non poteva accettare altre affermazioni importanti ma, in questo libro, queste si possono e si devono dire, in ossequio al modo in cui i fatti si sono effettivamente svolti. Nei territori agricoli, la rivista più richiesta era la mensile bilingue 'Tagricoltura nelle Bocche di Cattaro", tradotto come "Poljoprivreda Boke Kotorske''. Si trattava di una brochure di dimensioni 18/25 cm di 24 pagine, più la copertina a colori. Ogni pagina pari era scritta in italiano e quella dispari in serbocroato. In questo modo si poteva, in qualsiasi parte della rivista, seguire il testo in parallelo nelle due lingue, il che, per la popolazione locale, era anche un ottimo metodo per imparare la lingua italiana. La rivista uscì per tutto il 1942, fino al settembre 1943, con l'editing e la stampa realizzati a Cattaro. La distribuzione era gratuita. Alcuni sono riusciti a conservarla fino ai giorni nostri, come qui illustra il Numero 5 del 15 maggio 1943, che tratta cinque temi agricoli. I temi trattati in questo numero sono i seguenti: l. Gara per la produzione agricola; 2. Qualcosa di più sulla peronospora della vite; 3. Lotta contro gli afidi (pidocchi delle piante) della vite; 4. Foraggio per gli animali; 5. Quando mietere il grano.
43 44
Vasko Kostié "Ratna hronologija krtoljskih sela, feljton, Titograd I 981. Op. cit. pag. 476.
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Sulla parte posteriore della copertina, all'interno e all'esterno, c'erano le pubblicità delle macchine agricole oltre che gli indirizzi dei negozi che vendevano sementi, pianline, fertilizzanti, delle farmacie veterinarie e tutte le informazioni utili a contadini e agricollori, dalla semina fino al prodotto finale. È importante sottolineare che da nessuna parte c'era una sola parola di propaganda politica o qualche segno, o anche solo qualche piccola menzione del regime fascista. Il villaggio Cartolle non aveva ambulatorio medico e i casi urgenti erano parecchi, sia per malattia sia per incidenti. I medici militari italiani presenti non rifiutarono mai di prestare aiuto e, se il caso era di quelli più seri, per cui le cure domestiche non erano sufficienti, la persona malata o incidentata veniva portata con i mezzi militari italiani in ospedale. Anche molli militari semplici si distinguevano per nobiltà d'animo, aiutando la popolazione in ogni modo possibile. Uno di questi era il signor Ricci, finanziere, sulla foto. Non ricordo il suo nome di battesimo. Prestava servizio a Cartolle dove, fino all'armistizio d'It alia, non si verificarono scontri. Fortunatamente i finanzieri furono evacuati per primi. Appena si venne a sapere dell'armistizio, con i camion, durante la notte, furono portati a Cattaro. Insieme ai funzionari e agli ufficiali, furono imbarcati sulla p rima nave e portati in Italia. In questo modo il finanziere Ricci riuscl a scampare dal macello balcanico diventando, più tardi, un partigiano italiano e ufficiale. Di casi simili di aiuto prestato alla popolazione si potrebbe narrare a lungo, casi ancora più concreti, dentro e fuori dal nostro villaggio Cartolle, in lungo ed in largo nelle Bocche. Non li menzionano solo quelli che non possiedono una coscienza. Pertanto, credo sia importante descrivere almeno un caso, per illustrare quanto la storiografia ufficiale sia di parte e quanto sia necessario, per puro dovere di verità e giustizia, raccontare tutto quanto. Quante nobili persone, senza alcuna colpa, furono uccise senza pietà non appena catturate, malgrado si arrendessero senza combattere? Bisogna tacerlo? Anche Marko Ivanovié ha descritto il bene ricevuto dagli italiani, sebbene iJ suo racconto si riferisca di più al Montenegro che alle Bocche45 :
"JI regime d'occupazione italiana era molto più leggero, aveva più carattere civile che militare... E il prefetto Scasellati adottava tulle le misure per poter garantire il cibo e tutto il resto che era necessario alla popolazione... Dal mese di agosto, l'amministrazione italiana ha cominciato la regolare distribuzione dei generi di prima necessità alla popolazione, secondo le categorie. Il diritto all'approvvigionamento era di tutti quelli che lavoravano; ricevevano: farina, pasta, riso, sale, olio e altro. Era istituito anche un fondo d'assistenza sociale per i più deboli e per i non idonei al lavoro. Inoltre, si distribuivano regolarmente le pensioni. Gli italiani disponevano di esperti per il servizio di consulenza e di aiuto per lo sviluppo dell'agricoltura ( ...). Ad alcune famiglie le cui case erano state bruciate ( ... ) fornivano aiuto materiale per potersi sisteli1are ( ... ) Nei tribunali, nonostante i tempi di guerra, si comportavano con
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Op. cit. pag. 20.
correttezza. Durante i giudizi del febbraio J 943, quando 57 persone furono condannate a morte, .Nlussolini personalmente ne graziò 48 ... su proposta proveniente da Zara dal Governatore di Dalmazia': La stessa cosa è stata confermata anche da Dusan Zivkovié nel suo secondo libro 46, nel quale si fa appello alle parole dello stesso Marko Ivanovié. Soltanto quando al posto degl i italiani vennero i crudeli tedeschi, malgrado fossero entrambi occupatori e stranieri, si riconobbe l'abissale differenza tra i due occupatori nei confronti della popolazione civile. Per dire tutta la verità, c'erano delle persone per bene anche tra i militari tedeschi, ma si trattava di casi più che isolati. Tra gli italiani, i casi isolati erano costituiti al contrario dalle persone crudeli.
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Op. cit.
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<J
15.
Le barriere contro il racconto su "Presa''
I sensi di colpa per aver a lungo taciuto su ciò che si sarebbe dovuto dire sono in me mitigati dalla convinzione che sia stata la provvidenza divina ha trattenenni, salvandomi da sicure e terribili conseguenze: dall'Isola Calva o da qualcosa di simile. Oppure, sarei potuto semplicemente sparire nel nulla e questo libro non sarebbe mai stato scritto. Dopo un periodo di purificazione spirituale e con l'aiuto delle persone care, ho ritrovato l'energia e ora mi è possibile raccontare, in modo più maturo e più concreto, quello che da tempo desideravo dire. Quale è il peso maggiore sulla mia coscienza, più grande di tutte le barriere e di tutti i pericoli? Per 30 anni ho pubblicato migliaia di pagine, ma senza parlare di "Presa': Ciò non significa che sul tema non abbia scritto nulla, ma "qualcuno" o "qualcosa'.' mi ha impedito di pubblicarlo prima. Quando dico "qualcuno" penso non soltanto agli oppositori, ma anche ad alcuni amici. sinceri. Tra di loro c'era anche Anton Suran, di. Teodo, combattente partigiano fin dai primi giorni della Resistenza, originario dell'Istria. Durante la guerra era tra i personaggi al comando e, per qualche tempo, fu un agente segreto di altissimo livello. Dopo la guerra, ricoprì alti incarichi istituzionali e conosceva bene la situazione. Sosteneva i miei interventi pubblici, che altri al vertice del potere giudicavano inaccettabili. Era più anziano, aveva maggiore esperienza e conoscenza di me e godeva di una grande autorità in tutte le Bocche di Cattaro. Conosceva, ma taceva, sia i nomi di quelli che «punivano" gli oppositori sia di quelli che fisicamente eliminavano i rivali. Non condivideva tali metodi di lotta di classe e probabilmente avrebbe pagato con la vita per le sue opinioni se il Partito comunista jugoslavo non avesse pubblicamente confessato i grandi "errori commessi dalla sinistra': Da quando si era ritirato dalla vita pubblica e politica, più volte gli ho fatto visita e abbiamo parlato a lungo. Di me si tìdava e sentiva il bisogno di narrare a qualcuno i molti segreti che conosceva. Non so perché avesse scelto proprio me. Forse perché sapeva che ero tra i pochi capaci di dire ciò che pensavo e di difendere le proprie opinioni. Da lui sono venuto a conoscere fatti sconcertanti che mi hanno sconvolto, ma che mi hanno allargato le vedute. Su tali fatti egli non intendeva scrivere un libro di memorie, ma non voleva comunque portare i suoi segreti nella tomba. Mi ha sempre messo in guardia sul rivelare i nomi di alcuni personaggi, alcuni non me li voleva neanche dire. Sapeva che ero nel giusto, ma paternamente mi suggeriva: "Lascia perdere e ciò che sai tienilo per te. Pensa ai tìgli. Nessuno ha il coraggio di indicarti come nemico, ma possono dire che sei diventato pazzo, un malato mentale. Già i tuoi interventi pubblici costituiscono per loro una prova valida della tua pazzia, visto che nessuno sano di mente avrebbe l'audacia per dire la verità su quei fatti. Ti possono rinchiudere in un luogo dove impazzirai davvero, diventando così un oggetto di imbarazzo e di disonore per la tua famiglia e per i tuoi discendenti':
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Dopodiché cosa potevo fare? Non avevo altra scelta che stare zitto. E che cosa posso fare ora, a grande distanza di tempo dai fatti (che, però, non ha comportato molti cambiamenti)? Dopo tutto quello che sono venuto a sapere, qui brevemente menzionato e non, potevo ancora rimanere imperturbabile, non fare nulla e avere la coscienza a posto? Quando ho detto che "qualcosa" mi impediva di parlare prima, intendo le condizioni, la situazione nella quale mi trovavo. Veramente, c'era una valanga di impedimenti. Uno dei maggiori ostacoli era il fatto che non avevo quasi nessun dato sul campo di concentramento "Presa': tranne quello che mi aveva raccontato mio padre Mirko e quello che mi aveva lasciato. Ciò sarebbe bastato per un articolo, ma non per il libro intero che "Presa" merita. Un impedimento era costituito anche dal mio desiderio di esprimere tutto quello che so, insieme alle mie opinioni ed ai miei convincimenti, nonostante fossero in contrasto con la storiografia ufficiale. Il che significa non narrare sola mente dei crimini commessi dagli italiani, ma anche del male di cui sono stati vittime. Come farlo e nello stesso tempo sfuggire alla rabbia dei potenti e dei loro servitori con altisonanti titoli accademici, i quali, prima di me, avevano già scritto quello che a loro era stato chiesto di raccontare? Come farlo e non essere giudicato male dai miei amici, ex combattenti, che però conoscevano solo una parte della medaglia? Come non essere dichiarato filo-italiano, o soprannominato "quinta colonna, settario, opportunista'' e chissà cos'altro ancora? In quello che qui si andrà a raccontare sulla vita di Mirko e sulla sua permanenza al campo "Presa'', ci sarà poco di mio. Saranno le testimonianze di altri che non possono essere giudicati imparziali a tracciare il filo della storia . Uno di questi è Viado Vujovié, pubblicista di Zagabria del dopoguerra. Anche lui fu tra i partecipanti al Convegno scientifico sulla Resistenza nelle Bocche. Ha parlato del campo di concentramento "Klos" dove era rinchiuso. La sua testimonianza è stata pubblicata su 20 pagine nella Raccolta del convegno 47. In quell'occasione egli sottolineò che: "Il campo di concentramento 'Klos' è molto importante per varie ragioni, ma è rimasto fuori delle ricerche storiche:' Tale fatto l'aveva motivato a scrivere un libro di testimonianze "Klos"48, mentre il libro "Presa'' ha dovuto aspettare altri tre decenni ancora (fino ai giorni nostri) per essere pubblicato. E questo nonostante "Presa'' e "Klos" siano stati entrambi campi di concentramento di grande importanza: il primo per i bocchesi, il secondo per i montenegrini. Dunque, il tema del libro di Vujovié era il campo di concentramento "Klos': Ma parlò anche di "Presa" e tutto ciò che disse su di esso era legato solamente a Mirko Kostié e alla sua influenza sulla vita spirituale degli internati a "Klos", sebbene Mirko lì non ci avesse messo mai piede. Poiché parlò soltanto di Mirko, lasceremo parlare solo il signor Vujovié. Ma la migliore testimonianza viene dalle poesie di Mirk<?_ scritte da internato.
'17 18
Op. cit. Viado Vujovié, "Prilozi o stradanjima i borbi Bokelja u logoru Klos" Zbornik (pagg. 43 I -45 1), H-Novi 1983.
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16.
Le poesie di Mirko galeotto Il valore aggiunto di questo libro sono le poesie scritte nel campo di concentramento, poesie di prigionia e prigionieri. Sono un contributo al genere "canti di galeotti", di cui la letteratura montenegrina non è molto ricca. Segue la poesialettera alla Madre scritta al campo "Presa»49 :
A mia Madre So, Madre mia, che sempre al calar freddo della sera ti stringe il dolore e il tuo pensiero vola a Presa. Il pensiero sulla mia sofferenza, fame e miseria, ti taglia il cuore e la carne nuda filiale ti fa rabbrividire. Per la notte intera guardi il cielo, preghi il Signore, l'animo pieno di fede appassionata credente, eppure, il cuore ti si ferma e disperatamente sospiri, all'apparir di una stella cadente. Lo so, Madre mia, che sempre al sorger del sole gli occhi tuoi celano lacrime e cera ti colora il volto, schiacciata da incubi notturni ti chiedi: perché un altro giorno ancora il figlio mio langue nelle catene dietro filo spinato sconvolto? Bramosa attendi le mie lettere, per un attimo allontanata dal pensiero dolente. E quando finalmente arriva il foglio pieno di triste ironia, Ah Signore, non credi alla parola stampata: "Sono in salute e sto bene, Madre mia". a Presa, il 28 ottobre 1941 Mir-ko Qui trascrivo il testo scritto da Risto Kovijanié, che egli inviò alla redazione del quotidiano "Pobjeda" insieme alla poesia "A. mia Madre» di Mirko Kostié per essere pubblicata. Dal giornale "Pobjeda" del 14 agosto 1977. teditoriale del Capo redattore: "Da Cattaro ci ha scritto il signor Risto Kovijanié affermando che l'autore della poesia "Messaggio all'occupatore" è Mirko Kostié, ucciso dall' occupatore come comunista" 50 .
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Mirko Kostié, "Valovi lutanja" Mostar 1929. M irko Kustié non era comunista. No n era membro del Partito. Era un antifascista e patriota (come testimonia la sua poesia) ed era un buon cristiano credente (fallo altrettanto confermato dalla 50
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La trascrizione del testo di Kovijanié: 'Tautore dell'impressionante canto patriota "Messaggio al tiranno" sottoscritta con il nome Mir-Ko, che avete pubblicato sul vostro quotidiano ' Pobijeda" il 8 agosto, è Mirko Kostié del villaggio Cartolle presso Teodo. Era un noto comunista, imprigionato e ucciso dal nemico per la sua ferma fede. Aveva abitudine di firmare le sue poesie con Mir-Ko. In questo modo ha firmato anche la sua poesia "A mia Madre", scritta in alfabeto cirillico. La poesia è nata il 28 ottobre 1941 durante la prigionia nel campo di concentramento 'Presa' (la località tra Durazzo, Tirana e Cria). Di sua mano, l'autore ha inserito la poesia nel giornale del campo «Presa" che in segreto redigeva e pubblicava Risto Kovijanié, allora direttore del liceo di Cattaro, internato insieme a Kostié. Tale giornale, nato nella prigionia, giravl1 per il campo. Era scritto per sostenere l'animo dei detenuti e per divertirli. Kostié era amichevole e teneva duro. Insieme a questa lettera vi invio il testo della poe,;ia di Kostié 'A mia Madre' raccomandandovi di pubblicarla. R. KovijaniC
Messaggio al tiranno 51 Tiranno, non toccare nuda pietra nostra, ti può schiacciare, bruciare e polverizzare. Questo suolo è fatto di fiamma assopita, di cenere - apparentemente solo spenta, col sangue. No, non osare nemmeno, qui ogni passo ne è intriso. Quei monti, che proditoriamente brami, sono le ossa pietrificate degli eroi. Le vallate queste, i campi distesi, il mare azzurro, cuore nostro sono, col sangue riscattati dai nostri avi. E chi li tocca, morte lo affligge. Qui ancora madri accendono candele per figli caduti, tombe loro terra ji·esca copre. Fazzoletti neri ovunque ci sono. Terribile storia ancor stringe il cuore. All'orrore nero qui terra è avvezza, innumerevoli volte, di sangue allattata, conosce sconfitta, ma non disonore, solo con la spada era conquistata.
sua poesia). Nel dopoguerra, ogni noto patriota, letterato, artista caduto, era dichiarato dal vincitore come suo affiliato. Ciò garantiva la pubblicazione postuma della sua opera, il che Risto Kovijanié ben sapeva.
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Tiranno, non toccare nostra pietra grezza, ti può schiacciare, bruciare e polverizzare. Questo suolo è fatto di jìamma assopita, di cenere - apparentemente solo spenta, col sangue. a Cattaro, 1939
Mir-ko
La poesia "Messaggio al tiranno» è qui presente perché più volte menzionata da Risto Kovijanié. Inoltre, fa parte dell'antologia "Con la vita e col canto" di Miroslav Djurovié52, di quella "Nell'ultima primavera di guerra" di Milo Kralj 53 e più volte è stata pubblicata sulle pagine delle riviste e dei vari quotidiani, indicata come "Versi da leggere»s4, ma a11che tra i testi proposti per l'inno nazionale, sotto il titolo "L'inno per ispirazione''55 . Di questa poesia di Mirko hanno scritto diversi autori: Savo Gregovié (in più articoli e in un feuiJleton), Vuk Minié (ha pubblicato una raccolta di poesie di Mirko Kostié), Dusan Kostié, Vlado Vujovié, Ivo Vulanovié, Bozidar Milosevié e altri. Questa poesia probabilmente non va collocata tra le poesie dei galeotti, in quanto non fu scritta in una prigione o in un campo di concentramento, né parla di prigionieri o di internati. Essa, però, ha portato il suo autore in galera e, più tardi, sul patibolo d'impiccagione. Come di seguito si vedrà, molti la trascrivevano a mano, in segreto, e molti per questo finirono arrestati. Ma la trascriveranno anche gli internati. In questo senso, potrebbe fare parte anche di questo genere. Segue una breve e profetica poesia di Mirko scritta in gioventù, quando aveva 17 anni 56. Probabilmente non fu diffusa nelle prigioni per non alimentare il disfattismo, ma nana del tempo che verrà negli ultimi anni della guerra "in cui i vivi invidieranno i morti''. Il titolo e il contenuto la avvicinano al tema della prigionia.
Alla morte Non dovrei neanche osare di parlare di te. Mi fai orrore, morte, mente dell'ingannevole sogno. Ma quando i sogni la vita li calpesta, di te non esiste un balsamo migliore, più degno.
51 52
53
Op. cit. M iroslav Djurovié, "Zivotom i stihom" Titograd 1981, pagg. 37-38. Milo K.ralj, " U zadnje ratno proljeée': Zbornik za jul, Capitolo "Stvaranje': Titograd 1984, pag.
893. 54
55
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Savo Gregovié, "Stihovi za citanké: "Novosti'; Titograd 5. 11.1981. Cedo Barac, "Himna je za nadahnuée': "Pobjeda" Podgorica 19.08.1992. Op. cit. pag. 33.
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17. Viado Vujovié sul campo di concentramento "Presa''
Vlado Vujovié non era internato a Presa ma a Klos. Ciò nonostante, aveva una grande considerazione per alcuni internati a Presa, specialmente per l'alto morale che trasmettevano a distanza, fino a Klos. Il suo intervento al Convegno scientifico 57 menzionato porta il titolo "Allegati sulla lotta e sulla sofferenza dei bocchesi internati in campo di concentramento 'Klos": Il titolo è relativo ai bocchesi ma parla di Klos, dove i bocchesi internati ti.1rono pochissimi. Di conseguenza, parlare di Presa sarebbe stato fuori tema. Ciò nonostante, Vujovié ha deciso che fosse indispensabile includere nel racconto la storia di almeno un bocchese, internato a Presa, che fisicamente non arrivò mai a Klos, ma fu spiritualmente presente in esso. Per questo ha scelto di parlare di Mirko Kostié. Di Mirko ha parlato in sette su di un totale di 13 pagine di relazione. Se questa relazione è potuta entrare integralmente a far parte della Raccolta del Convegno, sebbene il relatore non conoscesse Mirko di persona, essa può far parte certamente anche dì questo libro sul campo Presa, il cui autore è il figlio di Mirko. Non vi è alcun bisogno di trascrivere tutto il testo di Vujovié, basta solo la parte sull'influenza esercitata dagli internati a Presa su quelli a Klos. Tra gli internati a Klos c'erano dei bocchesi non provenienti da Presa, persone coraggiose e oneste, degne della maggiore attenzione. Ma Vujovié ha deciso di dar loro un piccolo spazio, nemmeno lontanamente vicino a quello do11ato a Mirko Kostié. C'erano anche degli internati bocchesi le cui origini erano altrove. Questi ultimi non erano molto simpatici a Vujovié. Perché? Ha fatto il nome di Krsto Mrdaljevié, di fede ortodossa. Al suo dialogo con Ante, del villaggio vicino a Skare, Vujovié dedica quasi una pagina intera. Qui riportiamo solo l'inizio e la fine 58: ''.Alcuni arrivano anche a vantarsi delle proprie origini italiane. Uno di loro - manco sa parlare l'italiano, con la faccia tipica del montanaro montenegrino - a tutta voce, grida di essere italiano! Italiano! - E tu, Krcun (Krsto - n.d.t.), sei cattolico più osservante anche della spia russa, il capitano. Corri! Salutalo. Gli sarai d'aiuto e anche lui a te': Mirko Kostié era ben voluto da tutti e tutti lo includevano tra i propri, sia i nazionalisti che i comunisti, sebbene egli non appartenesse ad alcun ordine politico. Era un intellettuale, un libero pensatore (apartitico) e un vero antifascista. I comunisti, come prova del suo orientamento filo-comunista, interpretarono la sua firma artistica "Mir-ko" come abbreviazione per "Mir (pace - n.d.t.) e komunizam
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Op. cit. pagg. 431-45 1. Op. cit. pag. 433.
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(comunismo - n.d.t.). Non si è saputo chi lo ha fatto per primo, seguito poi dagli altri. Tale valoroso interprete non sapeva che l'abbreviazione deriva dalla devozione di Mirko a suo padre Marko, che usava firmare come "Mar- ko" la maggior parte dei suoi testi. Durante le brevi pause tra l'una e l'altra prigionia, Mirko faceva parte del Comitato per la liberazione del popolo, ma in tale comitato, illegale, almeno a Cartolle non c'erano comunisti. Ciò è confermato dal libro «Caduti per la patria.. :'59 che elenca i nomi dei caduti, annotando accanto ad ogni nome la sua appartenenza alle organizzazioni comuniste o a quelle della gioventù comunista. Siccome tale libro è stato controllato e revisionato da tutti i 24 membri del Consiglio e del Comitato di redazione editoriale, dallo stesso si evince che nessun membro, e nemmeno Mirko, ciel Comitato per la liberazione del popolo di Cartolle era comunista. E non potevano far parte della gioventù comunista perché erano tutte persone adulte, di mezza età. Vujovié, più di tutto, fu commosso dalla poesia-lettera "A mia Madre': Quanto questa poesia fosse popolare tra i detenuti e quanto essa venisse trascritta a mano e diffusa, oltrepassando spazi e territori tra un campo e l'altro, lo dimostra il seguente brano60. "Con lo sguardo appassionato e lucente dei suoi occhi azzurri, Djosa Saban recitava, a voce alta per farsi sentire da tutti i presenti in baracca, la poesia ''A mia Madre", scritta dal suo compagno di sofferenza a Presa di solo qualche tempo prima.. :: "( ... ) Anche a Klos, dopo aver sconfitto i partigiani in Montenegro, gl i italiani hanno permesso agli internati la corrispondenza con le proprie famiglie. Come comprensibile, la corrispondenza era sottoposta alla censura ed era limitata a una volta al mese. ln questo modo, le lettere e le cartoline degli internati hanno assunto un secco aspetto militare, sono piene di pensieri non espressi e di una malinconica ironia. "Sono in salute e sto bene, Madre mia" - I:unico barlume di gioia è dato dalla prova di essere ancora in vita. Tra ansia e tragico presagio. E con un costante "pensiero sulla sofferenza, fame e miseria .. :'. "Mirko Kostié non si trova a Klos, ma è qui quotidianamente presente, tra le confidenze, i canti e i giuramenti della gioventù comunista rinchiusa. Il suo poetico messaggio al 'tiranno' alimenta il loro animo ed è un'arma di difesa, come le sue tristezze tradotte nei versetti diventano balsami per le loro sofferenze e strumento di sfogo nel dolore. Gravemente ammalato ai polmoni, Mirko è stato rilasciato - con anziani e bambini - dal campo Presa': Proseguendo, ~ Jado Vujovié scrive una parte della biografo.l di Mirko, dalla nascita nel 1906 fino al 1929, anno dell'espulsione dall'Accademia militare del Regno jugoslavo, dove era stato iscritto grazie ai meriti del suo anziano padre, par-
59 60
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Op. cit. pag. 190. Op. cit. pagg. 436-437.
roco Marco, insignito delle altissime decorazioni di "San Sava", di ''.Aquila bianca" e di molte altre ancora. La motivazione dell'espulsione recitava: "Necessita di un rigido regime di controllo ... non reagisce ai consigli e alle punizioni ... condotta al servizio errata, al di fuori di ogni limite dell'accettabile:' L'.anziano genitore, appassionato nazionalista jugoslavo, rimase scioccato. Ma a rimediare c'era il cuore della Madre, che Mirko, tra i nuovi e sempre più presenti lamenti per i deserti della vita (con la poesia "i\lladre"), ringrazia così: Madre Ad ogni alba, non aspettato albeggia un nuovo lamento. E la vita scorre sulle vie di deserti sconosciuti, mentre il tuo amore tenero, i tuoi dolci baci, unico sono sollievo dell'animo ancor fanciullesco. }'vfadre, il conforto del mondo! Ah, Madre di un bambino adulto.
Questa poesia fu scritta da Mirko in un momento di sconforto, quando fu espulso dall'Accademia regia militare e temeva la reazione del suo severo padre, il parroco Marko. Vujovié non ha spiegato, ma forse non lo sapeva, che la breve poesia "Madre" era la prima in assoluto che Mirko scrisse. Quello era il momento in cui Mirko viveva la sua prima grande "tragedia" (egli la sentiva come tale), l'espulsione dal!'Accademia militare, che arrecò un grande dolore e una grande delusione ai suoi genitori; d i questo si sentiva responsabile. La poesia inizia con le parole "ad ogni alba.. :'. 'Cultima poesia di Mirko fu la poesia-lettera ''.A mia Madre" ed inizia con il lugubre "So, Madre mia, che sempre al calar freddo della sera.. :'. Mirko non sapeva, perché non poteva sapere, che quella sarebbe stata la sua ultima poesia. Tutto il resto che Vujovié ha scritto sulla biografia di Mirko è stato qui tralasciato, perché non importante per Presa, ma il legame tra una madre e suo fi glio è universale, specialmente nella sofferenza e nel dolore. La sua prima e la sua ultima poesia dimostrano quanto fosse forte quel legame, perché né a suo padre, né a suo figlio, né alle sue figlie, né a sua moglie, fratello e sorelle, ha mai scritto o dedicato una poesia. E, a conferma che durante la prigionia a Presa pensò più a sua madre (che era un'incallita fumatrice), c'è il fatto che a nessuno tranne che a lei portò un regalo da Presa e, più tardi, da Mamula. I regali avevano un valore aggiunto: li aveva fatti con le proprie mani. Portò in dono alla madre un portasigarette intagliato da Presa e un bocchino lungo per signore da Mamula. Sulla tabacchiera c'era intagliato il paesaggio di Presa con la scritta: "A mia Madre - Presa 1941''. Da allora, per tutti noi questo regalo ha rappresentato il più prezioso ricordo di Mirko e di sua madre. Purtroppo, la tabacchiera è scomparsa dopo quasi mezzo secolo di custodia e ci è rimasto solo il bocchino per signore. È lungo 10,5 cm, piatto, con la parte più stretta di 12 e quella più larga di 23 mm., che non lasciavano spazio per l'intagliatura ma solo per la scritta ''.Alla MAMMA, Mamula 1943".
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La scritta era in caratteri latini. Probabilmente Mirko aveva una ragione per usarli: scrivendo il nome della località Mamula, scrisse la lettera "u" inclinata, per farla sembrare la lettera "i" dell'alfabeto cirillico. Così componeva un gioco di parole, "Ma-mila" per "mamma-mila" (in lingua serba significa cara, dolce - n.d.t.) ed un ulteriore messaggio alla madre. Questo fu il suo pensiero mentre intagliava la frase, o forse sbagliò intagliando e non poté più rimediare. Se così fu, il dono - come un oggetto museale - acquisirebbe un valore aggiunto. In quale misura Vujovié (e non solo lui) fosse stato impressionato dalla poesia patriottica di Mirko Kostié, lo conferma il fatto che tutto l'intervento fatto al Convegno scientifico (più tardi pubblicato nella Raccolta61 ) fu da lui inserito in versione allargata nel suo libro "Klos"62 . Sebbene, come già detto, il tema di quel libro non fosse Presa, l'autore, nel capitolo dedicato a Mirko Kostié, aggiunse nuove informazioni: "Il capo della polizia di Cattaro - nel rapporto al suo superiore responsabile per l'intera Dalmazia - n. 0295.Kab. del 19 novembre 1941 - informa: si è passato agli interrogatori delle persone internate in Albania ... I restanti 67, per i quali è stato confermato che sono comunisti o socialmente pericolosi, saranno trasferiti nelle vecchie province del Regno.. .': Le Bocche non rientravano nelle "vecchie province" del Regno d'Italia e Mirko non fu trasferito in Italia. AUa pagina successiva, Vujovié parla ancora di Djosa Saban, il liceale di Niksié, "chitarrista e incantatore di ragazze': il quale fu trasferito da Presa a Klos. In questo modo veniamo a sapere che a Presa c'erano anche sei tende grandi, oltre a quelle più piccole. l "signori" furono alloggiati nella tenda detta "dei privilegiati", de1wminata dagli internati "del sultano Murad", e quelli "più pericolosi nella tenda per comunisti': Le persone alloggiate in questa tenda non venivano rilasciate in libertà, ma trasferite a Klos o in Italia. Risto Kovijanié e Mirko Kostié non furono alloggiati nella tenda "per comunisti': Vujovié prosegue il racconto sulla vita di Mirko con le sue poesie di carattere epico, lirico e patriottico. Tutto ciò qui può essere omesso tranne, in brevi linee, la descrizione della sua permanenza in altre prigioni e campi di concentramento. Mirko non rispose all'ordine tedesco di presentarsi per essere mostrato come ex internato italiano. Era cosciente di cosa lo aspettasse, con i polmoni gravemente danneggiati durante le precedenti prigionie ed internamenti e, pertanto, non andò a presentarsi ai tedeschi. In un rastrellamento, proprio il giorno della grande festa religiosa ortodossa di Sant'Arcangelo il 21 novembre 1943, i tedeschi lo presero e, dopo una tortura durata per tutta la notte, lo giustiziarono per impiccagione già il giorn0 successivo, al centro del villaggio. Aveva 37 anni. La stessa sorte fu condivisa da altri tre antifascisti, di cui uno era Lazar Starecevié, anche lui ex internato di Presa.
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Op. cit. Op. cit. pagg. 330-331.
(A questo punto, Vujovié nel suo libro riporta, quasi per intero, la poesia di Mirko "Messaggio al tiranno", ma l'abbiamo già trascritta per intero nelle pagine precedenti). Nel suo libro "Klos"63 , Vujovié ha pubblicato le foto dei 42 intellettuali internati nel campo di concentramento Klos, foto raccolte tra grandi difficoltà. Tra di loro, c'è anche la foto di Mirko Kostié e, nonostante egli non fosse mai stato internato in quel campo di concentramento, il suo spirito era presente, per infondere speranza e coraggio. Allo stesso modo, nel capitolo "Caduti, fucilati, uccisi" (pagg. 421-432) si trova un elenco con 248 nomi, corredati con i dati essenziali: chi sono, da dove provengono, dove, quando e come sono morti. In maggioranza sono i nomi di persone di Niksié, solo qualcuno ven iva dalle altre parti del Montenegro. Tra di loro ci sono i nomi di 11 bocchesi, ex detenuti, morti non durante la prigionia a Klos, ma durante la guerra, in varie parti del paese. E tra di loro, c'è anche Mirko Kostié, indicato sotto il numero 18<1. Alcuni tra i bocchesi dell'elenco non erano internati a Presa. relenco non comprende tutti i caduti montenegrini durante la guerra, il cui numero totale si aggira intorno a 3 mila. Il nome di Mirko si trova sull'elenco per le stesse ragioni per le quali si parla di lui nel libro di Vujovié. Come già detto e come si vedrà più avanti, è stata riportata anche una parte della biografia di guerra di Mirko. Alcuni l'hanno precedentemente analizzata, in modo superficiale e qualche volta in modo errato. Di Mirko hanno scritto: Savo Gregovié, Miroslav Djurovié, Vuk Minié, Milo Kralj, Borislav Milosevié, Dusan Kostié, Viado Vujovié, oltre che alcuni giornalisti, con brevi articoli e usando le informazioni prese dai sopraelencati autori. La mia intenzione è di correggere gli errori nelle informazioni sulla vita di Mirko durante la guerra, perché le informazioni sulla sua vita del periodo precedente alla guerra sono tutte esatte. Questa è l'occasione per completare la biografia di Mirko (al quale questo libro è dedicato) con le informazioni che gli altri autori non potevano conoscere.
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Op. cit. pagg. 160-169.
91
18.
Mirko Kostié dopo "Presa"
Dopo essere stato rilasciato da Presa e poi dalla prigione di Cattaro il 25 dicembre 1941, Mirko fu arrestato di nuovo il 1° aprile 1942 e riportato nella prigione di Cattaro, dove rimase circa un mese, fino al 3 maggio. Dopodiché, trascorse la succesiva estate di guerra a casa, in una misera libertà vigilata. Perché "misera"? Perché doveva sfamare tutta la sua numerosa famiglia con la pesca e con la vendita, durante i mesi estivi, dei prodotti di mare pescati e delle specialità di mare casarecce. Vendeva nella piccola bottega che aveva aperto nel porticciolo di Bjelilo. Per fortuna, quell'estate la pesca fu abbondante, il che fu un vero miracolo, visto che l'anno precedente gli aerei italiani avevano bombardato quotidianamente a tappeto tutta la baia di Cattaro, cercando di annientare la flotta della marina jugoslava, la cui parte principale si trovava proprio nelle Bocche. Sembrava che i resti dei pesci ammazzati durante i bombardamenti avessero richiamato, con l'abbondanza di cibo, altri pesci più grandi. Tiravamo dal mare nasse e reti stracolme di pesce e io mi •mmergevo e portavo molluschi e catturavo gamberi (tranne durante il mese trascorso nella colonia). Aiutavano Mirko la moglie e la sorella, lavorando in bottega senza orario, fino a quando le forze lo permettevano. A Bjelilo si dormiva anche. Nel villaggio era rimasta l'anziana nonna Darinka, a badare ai piccoli nipoti, alle mie sorelline e alla figlia di mia zia, mentre io ogni giorno portavo pesce fresco. Nonostante l'abbondanza di quel pesce, la nostra vita era più dura di quando Mirko era in prigione, perché non ci spettava più l'approvvigionamento gratuito dai rnagazzini italiani. Per questo motivo, le autorità italiane tolleravano il lavoro illegale dell'ex detenuto. Alla bottega tornarono più volte i finanzieri, quello era il loro lavoro. Stilavano i loro verbali e tutto rimaneva come prima. Venivano a mangiare nella nostra bottega anche i carabinieri, aspettando le navi che attraccavano nel piccolo porto. Mirko cercava di offrire gratuitamente ai finanzieri e ai carabinieri del cibo o almeno da bere. Loro lo avvertivano che questo gli era vietato e che per tale atto, considerato una specie di corruzione, lo avrebbero potuto anche arrestare, così lasciavano sempre sul banco il denaro per ciò che avevano consumato. Frequentavano la bottega anche i militari del vicino magazzino di Petroviéi perché non avevano dove trascorrere il loro tempo libero. Alcuni accettavano l'offerta della bibita, senza però mai rimanere in debito. Di nascosto, ci portavano la carne in conserva o altro cibo, in misura sufficiente a quanto potevano riempire le tasche. La bottega era anche lontana dall'attenzione della polizia militare: era un posto dove ci si poteva rilassare , anche se ciò era possibile soltanto di sera, quando le navi non attraccavano, non c'era gente in giro e le spiagge erano deserte. Naturalmente, dove c'è da bere e da mangiare, c'è anche lo spazio per cantare. In quel periodo era molto popolare una canzone che ancora ricordo: "Mamma son tanto felice .. :'.
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Ancora meglio, ricordo la versione serba di Mirko, fatta riprendendo la stessa melodia; in modo burlesco e in rima, diceva: «Mamma con papà si rotola, cuscini volano là, sotto il letto bimbo piange, buaaa, mamma, paura mi fa': Siccome la versione di Mirko era "politicamente neutrale" la cantavano ridendo anche gli italiani, diffondendola anche fuori dal nostro villaggio Cartolle. Da noi in bottega essi non cantavano le canzoni fasciste, ma si poteva sentire, quando erano di ottimo umore, la canzone vietata: "Bandiera rossa''. Ciò lasciò delle sensazioni positive a riguardo dei militari italiani non solo a me, ma anche a molti altri che conoscevo. Chi ha un'anima può capire facilmente il perché ci riempisse di tristezza e d'orrore il fatto che quei militari venissero uccisi senza pietà, anche quando si arrendevano senza sparare un colpo, non per paura, ma per non uccidere altri uomini come loro. Di giorno, perché di notte era vietato uscire, alla bottega venivano numerosi amici di Mirko. Molti lo facevano per aiutarlo, per lasciare denaro a lui e non alle altre botteghe. La maggioranza però veniva per ascoltarlo, come prima dell'internamento, per sentire le sue appassionate poesie e racconti interessanti su molti fatti. Anch'io lo ascoltavo con attenzione e ciò gli procurava grande gioia. Ho sentito tanto, ma non voglio pubblicare tutto per non sentirmi dire che scrivo soltanto su mio p adre. Lo stesso vale anche per le mie personali esperienze (non derivanti dai racconti di mio padre) tra le due prigionie di Mirko. Sul mio animo ancora tenero hanno lasciato una profonda traccia di sofferenza, ma finora non sono state scritte e pubblicate. Siccome questo libro è dedicato a Mirko Kostié ed è strettamente legato agli italiani e siccome tali fatti hanno portato Mirko ad una prigionia molto più dura (a Mamula), intendo qui narrarli in modo che non vadano persi. L'estate passò e la bottega rimase deserta. In quei tempi in cui tutti parlavano mormorando, nella sua disperazione Mirko si dichiarò pubblicamente e chiaramente antifascista e autore della poesia «Messaggio al tiranno". In questa non si menzionavano i fascisti, ma egli recitava anche altre poesie di chiaro spirito antifascista, fatte sul momento e rimaste non annotate. Allora, tutti pensarono fosse impazzito. Lo penserebbero anche oggi, se non conoscessero la ragione per la quale si comportò in quel modo. Mirko lo faceva per farsi arrestare di nuovo, ma nessuno sapeva il perché Mirko volesse proprio essere arrestato. Per tutto il tempo passato in libertà vigilata tra le due prigionie, Mirko subì pesanti pressioni per darsi alla macchia e raggiungere i partigiani. Se non lo avesse fatto, lo avrebbero considerato un traditore. Come premio gli promettevano tante cose: come scrittore gli promettevano di assegnarlo alle attività di cultura e istruzione; come ex cadetto dell'Accademia militare gli promettevano il grado di uftìciale e le posizioni di comando. Erano coscienti del fatto che Mirko, con la sua fama, avrebbe richiamato tra le loro file molta gente. Dall'altra parte, i cetnici (nazionalisti - n.d.t.) gli promettevano altrettanto, aggiungendo che apparteneva a una
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famiglia onorabile di sacerdoti, che era un ufficiale dell'amministrazion e del Regno jugoslavo al quale aveva fatto giuramento di fedeltà e, pertanto, che era chiaro da che parte avrebbe dovuto schierarsi. Ma, ammalato di tisi come era, Mirko non poteva permettersi di darsi alla macchia all'inizio d'inverno. Inoltre, come poteva scegliere dove andare? Se avesse fatto una scelta, quell'altra parte lo avrebbe comunque considerato un traditore. E il fatto che gli pesava di più era che la sua famiglia sarebbe rimasta certamente senza mezzi di sostentamento. Il che non sarebbe successo se gli italiani l'avessero tratto in arresto, visto che la famiglia dell'arrestato politico aveva diritto, come anzidetto, all'approvvigionamento gratuito italiano. Sembra paradossale che uno possa vedere come unica soluzione per la sopravvivenza sua e della propria famiglia il proprio arresto e la propria prigionia nelle famigerate carceri, in quella nella fortezza di Mamula o nelle altre, per chissà quanto tempo. Quando le autorità italiane non poterono pit'.1 tollerare le sue sfide, lo arrestarono il 30 novembre 1942, lo portarono nel carcere di Cattaro e poi in quello di Mamula e di Prevlaka (Punta Ostra). Per tutto il tempo della sua seconda prigionia la famiglia di Mirko ricevette regolarmente l'approvvigionamento gratuito, mentre a lui peggiorava la salute: la tisi lo colpì ad entrambi i polmoni. Sulla fine d'agosto del 1943, lo trasferirono nell'ospedale militare it,ùiano a Melligne, presso la sezione per detenuti, da dove uscì il 10 settembre 1943, nella confusione regnante dopo l'armistizio d'Italia. Si sacrificò per la famiglia in modo che almeno i familiari potessero sopravvivere alla guerra. A lui ciò non fu possibile. Solo allora divenne chiaro che Mirko non era diventato pazzo, ma che quella era la migliore soluzione per uscire dalla sua difficile situazione.
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19.
Tentativo di ripetere "Brajiéi"
In quale relazione può essere il tentativo di ripetere il fatto di Brajiéi con il campo di concentramento Presa? Veramente non ce ne può essere nessuna, visto che dalla fine del 1941 a Presa non c'era piL1 alcun bocchese. Ma si riempivano in continuazione altri campi in Albania e in Italia, con condizioni di vita molto meno sopportabili, simili a quelle nel carcere di Mamula, e tutto questo avrebbe potuto essere evitato. La fine della "rivolta nazional-popolare" non bastò ad ammonire le teste calde. Il tragico fatto di Brajiéi er.a accaduto nella zona d'occupazione italiana e, pertanto, non era stato soffocato nel sangue, come invece succedeva altrove. Inoltre, la risposta italiana non aveva risarcito neanche una piccola parte del danno di sangue arrecato agli italiani da parte dei montenegrini. Ciò testimonia che gli italiani non contemplavano la possibilità di ritorsioni per vendetta. Ad alcune persone, però, piacque ciò che era successo a Brajiéi nel 1941, e pensarono di poter facil mente ripetere quell'episodio nel 1942. Quell'evento doveva, di nuovo, accadere sul territorio delle Bocche, in modo da colpevolizzare i bocchesi e portare via il ricco bottino di guerra, anche questa volta proprio come era già successo a Brajiéi. Il nuovo evento si verificò nei pressi di Brajiéi, sulla Pastrovnica sotto il villaggio di Pobori, il cui territorio confinava col Montenegro e i cui abitanti subivano continue pressioni per disturbare le forze militari italiane. Gli abitanti del villaggio Pobori erano stati testimoni delle case bruciate dei loro vicini di Brajiéi, al tempo della precedente rivolta, e non gioivano al pensiero che qualcosa di simile potesse capitare anche a loro. Altri vollero procurar loro questo male, facendo cadere le colpe su di loro. fordine arrivò dal Comitato regionale del Partito comunista jugoslavo di Cettigne, che chiedeva il rinforzo al Comitato locale di Antivari, competente per il territorio di Teodo e Cartolle. Da Teodo qualcuno rispose, da Cartolle nessuno. Come mai Antivari aveva competenza per il territorio di Teodo e Cartolle? Dopo la dissoluzione d.el Comitato locale di Cattaro per "inefficienza" durante la rivolta del 13 luglio 1941, «l'organizzazione comunista locale era sottoposta agli ordini del Comitato regionale di Cettigne. Sulla fine del 1941, le organizzazioni comuniste del territorio di Cattaro vennero formalmente incorporate in quella di Antivari e sottoposte alla sua competenza. Nonostante ciò, gli ordini partivano ancora dal Comitato regionale di Cettigne, specialmente per i territori di Cattaro, Teodo, Grebaglio e Budua'' - ha spiegato Dusan Zivkovié nel suo secondo libro64 - . Per via dei continui disturbi, le forze militari italiane il 25 marzo 1943 attuarono un'azione che provocò numerose vittime da tutte e due le parti. Su questo
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Op. cit. pag. 68.
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intervento militare italiano in Montenegro sono state scritte molte parole, tutte parziali. Qui si cercherà di evidenziare solo alcuni punti, quelli in grado di testimoniare l"'affidabilità" della storiografia montenegrina sulla Resistenza popolare nelle Bocche. Il primo è il rapporto della brigata di Lovéen, trascritto nel primo libro di Zivkovié65: "Intorno al 26 marzo, forze militari d'occupazione di circa 4.000 uomini, aiutati da altri 150 uomini della quinta colonna di Mirce e èavor, irrompevano nel territorio del comune di Budua (villaggio Pobori) e in quello di Grebaglio.. .''. Qui non c'è nemmeno una briciola di verità, a partire dalla data per finire alle altre informazioni. Dopo la pubblicazione del primo libro di Zivkovié, la popolazione dei villaggi Mirce e Cavor levò dure proteste e l'autore dovette, nel suo secondo libro, rettificare. Lo fece nelle note a piè di pagina, appena leggibili66: "Siamo arrivati a concludere che nessun abitante di Mirce e di Cavor ha partecipato alla battaglia sulla Pastrovnica tra le file italiane del 25 marzo 1942". La stessa cosa si è ripetuta in relazione alle dimensioni delle forze militari italiane. Basandosi sui dati riportati nel Diario del giorno della Divisione "Emilia", Zivkovié scrive che, per l'occasione, gli italiani agirono con tre battaglioni rinforzati: due inviati da Cattaro - il primo partito dalla località di Trojica da.ll'alto a seguire la linea del confine con Montenegro, attraverso Mirce e Cavor, per impedire i collegamenti con il Montenegro; il secondo, partito sempre dalla località di Trojica attraverso Prijerad e Gorovié, per l'accerchiamento a ovest; e il terzo, partito da Buclua attraverso Brajiéi, per l'accerchiamento a est - tutti indirizzati verso Pobori. Numericamente, ogni battaglione italiano disponeva allora di 500 uomini, il che ci dice che il numero totale di soldati realmente in opera era 1.500. Forse ce n'era qualcuno in più, perché erano reparti rinforzati. Si poteva forse trattare, in totale, di circa 2.000 uomini; comunque un numero di gran lunga inferiore ri spetto a quello indicato da Zivkovié. Le forze italiane disponevano di 50 cannoni, più lanciagranate, oltre al supporto dei cannoni a lungo raggio dall'incrociatore "Bari". Non m iravano al villaggio. Se lo avessero fatto, lo avrebbero colpito con almeno una granata, il che non si verificò: di conseguenza, non vi furono vittime collaterali da bombardamenti. Evidentemente, il fine perseguito dagli italiani era di ammonire e scacciare i ribelli e, parallelamente, di far sapere alla popolazione cosa dovesse aspettarsi se avesse provato i nascondere i ribelli. I difensori partigiani del villaggio erano 24 uomini della compagnia Costiera di Cattaro, comandata da Anton-Tonko Suran, che era stato un sottufficiale jugo-
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Pagg. 185 e 186. Pag. 71.
slavo prima della guerra. Li raggiunsero dopo poco altri 50 uomini venuti in aiuto dai villaggi circostanti . Vista la serietà della situazione, Suran ordinò in tempo l'evacuazione della popolazione ed intendeva ordinare anche il ritiro dei propri uomini. Lo sostenne in questa decisione il segretario della cellula del partito comunista presso la compagnia, ma non erano d'accordo il commissario politico Maso Brguljan e il suo sostituto Rako Radulovié. La funzione di commissario politico non permetteva a Brguljan di acconsentire ad un mancato rispetto degli ordini ricevuti, sapeva che, in tal caso, lo avrebbe atteso la punizione "proiettile in testa". Radulovié, invece, era per natura felice di potersi gettare, ogniqualvolta poteva, nel la mischia. La motivazione del loro dissenso era che non volevano lasciare il villaggio indifeso, nonostante nello stesso non ci fosse più nessuno, in quanto la popolazione era già stata tutta evacuata. Ma, "già intorno alle 16.00, dopo le pesanti perdite (sette morti e otto feriti) e vista la grande supremazia del nemico, si sono dovuti ritirare .. :' - ci racconta Z ivkovié - . In verità, scapparono uno ad uno sui monti e nelle vicine foreste, visto che non esistevano più le condizioni per un ritiro ordinato. In questo modo ebbero almeno salva la vita - come si giustificò Suran, amareggiato dal fatto di non aver ricevuto alcun sostegno dai suoi più stretti collaboratori i quali, al contrario, erano stati i primi a scappare dal nemico. Cosa successe con i morti e con i feriti, non ci è dato sapere, non è stato scritto. Sicuramente non li poterono portare con sé, scappando per le mete impervie. È sicuro anche che gli italiani non diedero fuoco ai loro corpi, come invece era stato fatto, orribilmente, con gli italiani fucilati. Sulle perdite italiane non ci sono dati, anche perché questa volta agirono in modo intelligente, cambiando tattica. Ma, sempre secondo Zivkovié67, si stima (qui c'è bisogno di un grande punto interrogativo) una perdita di «circa 50 morti e altrettanti feriti': Del bottino di guerra previsto, non c'era traccia, ma, secondo Z ivkovié, furo no date alle fiamme molte case e molta gente fu arrestata. Nei più ricchi villaggi rimasero solo la distruzione e la sofferenza della popolazione, quest'ultima protrattasi poi per molti anni. «Anche alcune unità partigiane hanno cominciato numericamente a sgretolarsi" - annota Zivkovié - . Il fatto contribuì alla formazione della MVAC nel villaggio Grebaglio, che aveva ricevuto dagli italiani 537 fucili. La Milizia anticomunista faceva servizio di «guardia al villaggio" e Marko Lazarevié, maestro della scuola locale, sindaco e sostenitore del re jugoslavo e del Regno cli Jugoslavia, godeva di grande stima nella popolazione del villaggio Grebaglio, che aveva salvato dalle ritorsioni e dalla prigionia68. Zivkovié, che doveva scrivere secondo gli ordini del Partito comunista jugoslavo di cui era membro, non poteva omettere le conseguenze della battaglia69:
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op. cit. pag. 187. op. cit. pag. 188. op. cit. pag. 72.
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«La battaglia ha avuto conseguenze negative per lo sviluppo della Resistenza anche su questo territorio. Una parte del popolo ha salutato e abbracciato la resistenza agli italiani. Ma l'altra parte, specialmente quella del territorio dove la battaglia si è svolta e che quindi ha subito le più pesanti perdite, ha mal sopportato la lotta partigiana, ritenendo che le forze d'occupazione non avrebbero dovuto essere provocate. Di questi sentimenti della popolazione ha approfittato Marko Lazarevié, il quale, insieme ad un altro elemento cetnico, subito dopo questa battaglia, ha iniziato uno scontro diretto con i partigiani, accusandoli di essere responsabili per i morti e per i villaggi bruciati': Sebbene qui non tutto sia menzogna, si affermano semiverità che non possono passare senza adeguati commenti. Se si afferma che «una parte del popolo" ha approvato e l'altra ha condannato, sembra che le due parti siano numericamente uguali. O quasi. Sta di fatto, al contrar.io, che l'avvenimento fu condannato da tutta la popolazione di Grebaglio. Alcuni lo facevano ad alta voce, alcuni a bassa, tranne rari casi isolati. Lo condannarono tutti e non soltanto quell'80% della popolazione, che già dall'inizio era stato sostenitore di Lazarevié e di Djuro Ivetié: condannarono l'azione dei partigiani anche quelli che simpatizzavano per la Resistenza. La stessa situazione si verificò non solo a Grebaglio, ma anche nelle località circostanti: Pastroviéi, Cartolle e Lustizza, sebbene lì la popolazione simpatizzasse per la Resistenza, specialmente la parte serba. Zivkovié ben sapeva tutto ciò, ma ha scritto come doveva scrivere. Egli ben sapeva che Lazarevié aveva agito in questo modo non soltanto in quell'occasione ma anche prima: coerentemente, dai giorni di luglio dell'anno precedente, aveva infatti avvertito la popolazione di Grebaglio di non precipitarsi a capofitto per accaparrarsi il bottino o per essere glorificata dai vicini, ma di pensare alle conseguenze e alle proprie famiglie. Poco più in là, Zivkovié scrive70: «Tutto ciò ha contribuito al graduale sgretolamento della compagnia partigiana di Grebaglio, che era costituita, alla metà di aprile 1942, da circa 40 uomini". Bisogna dire che "circa 40 uomini" è una cifra arbitraria. Non ce ne erano così tanti nemmeno sulla carta. Quella compagnia si dissolse completamente. Su questo punto, e sulla stessa pagina, Zivkovié contraddice anche se stesso: «Dopo i combattimenti del 25 marzo, dove questa compagnia ha avuto alcuni morti e feriti ( ...), la maggior parte dei suoi men1.bri è tornata sul proprio terreno continuando il lavoro politico in tutti i settori." Nel suo primo libro scritto 20 anni prima, Zivkovié era stato pit.1 concreto, indicando gli ispii atori e i principali attori di questi fatti in sé gloriosi71 : "Il giorno dopo, mentre era ancora buio, i resti (Zivkovié cerca di mitigare la situazione e usa il termine "le parti") della compagnia Costiera di Cat-
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Op. cit. pag. 73. Op. cit. pag. 190.
taro e di quella di Grebaglio, erano "partiti" in direzione cli Pastrovicchio''. Suona molto meglio "essere partiti': o "iniziare a ritirarsi" della giusta parola che sarebbe: "sono scappati': anche se il risultato è lo stesso. "Con loro si ritiravano il segretario politico della compagnia di Grebaglio, Bosko Strugar, e il membro del Comitato regionale di Cettigne, Vojo Raznatovié. Egli ha lasciato un messaggio ai partigiani di Grebaglio che è arrivato a destinazione il giorno dopo; in questo messaggio manda a dire che sul terreno di G rebaglio deve rimanere come comandante della compagnia Vuko Vuksanovié, mentre tutti gli altri che non corrono il pericolo di essere riconosciuti dagli italiani, devono tornare a casa ( ... ). In queste condizioni, la compagnia di Grebaglio restava isolata. Convi nti di non subi re conseguenze, come già li aveva rassicurati con i propri messaggi anche Marko Lazarevié, gli uomini sopravvissuti al combattimento sono tornati alle proprie case. Fino all'autunno del 1942, nessuno di loro è stato arrestato, continuando a vivere liberamente nel proprio villaggio ( .. ). Lo stesso valeva per i partigiani del territorio di Budua:' Sebbene Zivkovié non lo dica, dal testo si evince chiaramente che i resti delle compagnie dissolte era.no partiti in direzione di Pastroviéi, per proteggere la schiena agli iniziatori del fatto in fuga, a Bosko Strugar e a Voja Raznatovié. L'autore Marko Ivanovié merita che qui venga riportato anche il suo racconto 72 : "A Grebaglio, grazie al sindaco Marko Lazarevié, è stata evitata la rivolta e con ciò tutte le sue conseguenze. All'inizio del 1942 egli dialogava con i comunisti, la prima volta in fe bbraio a Lastua (in casa di Marko Mihovié) , e poi a Sisiéi (in casa di Perovié). [l sindaco diceva pubblicamente di stare dalla parte degli Alleati, ma aggiungeva che bisognava restare calmi e proteggere la vita e gli averi; poi, al momento giusto, anche lui, così anziano, sarebbe andato per primo in battaglia'.'. Poco dopo, Ivanovié scrive: "Per via di continui disturbi e sabotaggi gli italiani hanno perso la pazienza e hanno deciso di pulire il terreno dai partigiani ( ...). Le forze militari italiane della divisione "Emilia" sono partite, il mercoledì 25 marzo 1942, in perlustrazione fino alla Pastrovnica, sopra il villaggio Pobori. Le perdite italiane erano ( .. ) sei morti e 40 feriti, tra cui un ufficiale. Per le numerose forze italiane era una perdita insignificante. Al posto di sottrarsi al combattimento, il che era possibile, i partigiani hanno deciso di combattere ( ... ) e subire la più pesante sconfitta possibile, con conseguenze fatali''. lvanovié elenca quelle conseguenze: case bruciate, confisca del bestiame e internamento di 109 persone (la maggior parte donne e bambini) a Mamula . Il colpo più pesante fu la morte di otto partigiani durante i combattimenti e di altri 13 fu cilati, tutti molto giovani. Altri sei morirono a seguito delle ferite riportate. Così le perdite partigiane furono 27, rispetto alle 6 subite dagli italiani.
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Op. cit. pagg. 54 e 55.
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Bosko Strugar e Voja Raznatovié, scappando, finirono accerchiati dai nazionalisti di Krsto Popovié. Intavolarono una strenua battaglia per arrendersi infine agli uomini della frazione dei "federalisti': con i quali condividevano le stesse intenzioni nei confronti delle Bocche. Però, i "federalisti" li tradirono, consegnandoli agli italian.i. Nell'estate 1942 furono fucilati a Cettigne. Quasi tutti i capi comunisti nelle Bocche erano del Montenegro, come lo stesso Rako Radulovié, mandato a Cartolle per le attività illegali, sempre secondo gli ordini "dall'alto". Fu assegnato ai territori dì Lustizza e di Cartolle perché non era cattolico, pensando che in questo modo la popolazione lo avrebbe accettato pit'.1 facilmente. Questa fu una valutazione sbagliata. La maggior parte dei partigiani si arrese agli italiani e finì internata nei campi di concentramento. Fecero eccezione quelli di Grebaglio. Loro tornarono alle loro case continuando a vivere liberi, grazie al saggio agire di Marko Lazarevié.
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20. "Errori della sinistrà' ed errori italiani
Gli orribili crimini commessi da alcuni comunisti contro il proprio popolo, furono chiamati, per mitigare il loro peso, "errori della sinistra': espressione che ricorda i "danni collaterali" dei bombardamenti Nato, nella storia più recente. La differenza sta nel fatto che i cosiddetti "errori della sinistra'' non erano incidenti casuali, ma crimini premeditati, commessi, nella maggior parte dei casi, contro innocenti: intellettuali o altri che godevano di grande prestigio e avevano un importante ascendente sulle persone. Tra di loro c'erano delle persone che avevano scelto di riprendere il servizio che svolgevano prima dello scoppio della guerra e, in questo modo, avevano la possibilità di aiutare gli sfortunati e i bisognosi, cosa che facevano regolarmente. Molti di loro avevano prestato aiuto alle persone arrestate, facendo in modo di farle assolvere o di mitigare le eventuali condanne. "Un simile aiuto ha dato ai cittadini di Grebaglio, durante tutta la guerra, il sindaco Marko Lazarevié. Egli aiutava tutti i suoi concittadini, nazionalisti o comunisti, senza distinzione" 73 - ha scritto nel suo libro Marko Ivanovié -. Gli "errori della sinistra" succedevano sia durante il periodo d'occupazione italiana, che di quella tedesca, ma soprattutto dopo hi fine della guerra. Qui saranno menzionati solo alcuni di questi errori, commessi durante l'occupazione italiana. Nonostante il divieto vigente di parlare di questi fatti, racconti e testimonianze si susseguivano, alcuni anche in forma scritta. Per le Bocche, gli ordini ai comunisti venivano dati "dall'alto': il che ha un doppio significato: dai piani alti ovvero dal vertice del Partito, e dai piani alti delle montagne, subito dietro la costa. Secondo gli scritti di lvanovié: "Tutti quelli che non stavano con loro, erano ritenuti dai comunisti collaboratori delle forze d'occupazione, e venivano appellati "quinta colonna, spie e traditori': Su di loro pendeva una costante minaccia di morte. Questo testimoniano inequivocabilmente gli ordini provenienti dallo Stato Maggiore delle varie unità partigiane e le conclusioni delle riunioni dei comitati del partito, oltre che il numero delle persone uccise sul territorio, sempre in aumento. Per esempio, nell'ordine emesso dallo Stato Maggiore della compagnia partigiana di Zeta il 1° novembre 1941 era scritto: "Aumentare le uccisioni delle spie e della quinta colonna. Bisogna ucciderli pubblicamente e ovunque capita di incontrarli..:' E così via, le prove si moltiplicano, una dietro l'altra, tutte in forma scritta, il che dimostra anche poca saggezza e moltissima arroganza (dei comunisti - n.d.t.) . Alla fine del febbraio 1942 iniziarono a giungere voci di crimini commessi dai partigiani a Grebaglio, crimini più tardi denominati "errori della sinistra". Un vecchio illustre, di oltre 70 anni, che aveva aperto una scuola nella propria casa e i cui due figli erano tra le file partigiane, non piaceva per nulla ai capi della Re-
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Op. cit.
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sistenza. L'anziano era molto più saggio dei vari macellai e sarti e, tra i suoi congiunti, figurava Jovo Kadija, famoso fondatore e benefattore di molte associazioni serbe di Cattaro. Usando i tristemente noti metodi ustascia, il povero Marko fu massacrato con i coltelli e il suo corpo fu gettato in una fossa. (Più tardi, uno dei suoi figli si suicidò). La stessa sorte di Marko toccò ali' intellettuale e poliglotta Bozo L. Vuksié (27) e alla sua zia Aleksandra S. Vuksié, sposata in Baranovié (47), senza che alcuno sapesse il perché. La voce che in quel periodo circolava era che essi erano sospettati di essere spie, visto che entrambi parlavano un perfetto italiano. Al giovane Bozo ordinarono di sgozzare il suo maestro e sua zia, il che gli avrebbe risparmiato la vita. Egli si rifiutò e fu ucciso anche lui. Come luogo del crimine i comunisti scelsero il villaggio Pobori, per far cadere la colpa sui suoi abitanti e far iniziare la faida tra due villaggi: Pobori e Grebaglio. Nella provincia italiana delle Bocche di Cattaro questo era il primo caso di foibe, qui chiamate anche «cimitero dei cani". Gli ideatori e mandanti erano i montenegrini, ma gli esecutori materiali ancora aspettano di essere individuati. Questo è quanto si sapeva fino alla pubblicazione del libro di Marko Ivanovié, che indirizza i sospetti verso le persone di Grebaglio e Pobori. Molti dissentono, ma non vogliono scrivere alcunché. Ivanovic lo ha fatto e bisogn a sapere cosa dice74 : "Loro (comunisti - n.d.t.) hanno commesso allora un crimine senza precedenti, sulla strada che porta via da Zecevo selo, al ruscello sull'Ivan Dol". Dopo qualche mese, la gente "li ha trovati con le braccia e gambe fratturati, con gli occhi scavati, con il naso e le orecchie tagliati e il maestro Marko aveva la testa segata. Sul petto della povera Aleksandra erano visibili segni dei colpi d'ascia .. :'. Appena arrivato a Cartolle il comunista Rako Radulovié iniziò i preparativi per il primo attentato da compiere a Cartolle, azione più tardi riconosciuta come «errore della sinistra". Il 28 marzo 1942, in un agguato fu ucciso Ivo Starcevié. Era un uomo onesto, aveva partecipato alle gloriose battaglie della Prima guerra mondiale, poliglotta anche lui. Colpevole di parlare un ottimo italiano, su di lui cadde il sospelto di essere una spia. fordine di ucciderlo arrivò dal Comitato locale di Cattaro, con la precisa istruzione che gli esecutori dell'omicidio sarebbero dovuti essere gli abitanti di Cartolle e, tra di loro, il parente più prossimo della vittima designata. Questa è una storia lunga, dettagliatamente descritta altrove, e qui la si racconta solo per meglio illustrare il tema trattato. Ivo era l'unico abitante di Cartolle morto dall'inizio della guerra, fino all'armistizio d'Italia. Fatta eccezione naturalmente per Milan Tr.ipinovié, che cadde a Podgorica come soldato regio, durante le battaglie della guerra dell'aprile 1941, e per alcune morti dei primi giorni dopo l'armistit io d'Italia. Altre vittime di Cartelle non ce ne furono, grazie alla fermezza degli attivisti locali della Resistenza che non permisero alcun travasamento della ribellione dal Montenegro alla piccola penisola di Lustizza. Per l'orni-
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Op. cit. pag. 53.
cidio di Ivo Starcevié non ci fu alcuna rappresaglia contro gli abitanti di Cartolle. Ebbero la peggio solo due persone innocenti di cognome Samardiié, profughi riparati a Cartolle. Nell'agguato contro Starcevié non ci furono vittime italiane, ma in un episodio seguente scomparve un ufficiale italiano. Il Villaggio Brda presso Prevlaka faceva parte del territorio di Cartolle, ma era più vicino alla località Mihova Glavica (presso fattuale aeroporto), dove era stata dispiegata una batteria d'artiglieria con lo scopo di impedire agli indesiderati di avvicinarsi a Teodo. Durante il tempo libero un ufficiale italiano (tenente) veniva a Brda per gustare della buona grappa casareccia; per ricambiare, portava alla gente formaggio, pasta e carne in scatola. Correva la voce che gli piacessero molto le donne, il che non deve sorprendere visto che si trattava di un italiano, ma destò molto sconcerto il fatto che una sera, nel giorno festivo del calendario religioso ortodosso sotto la Pasqua, non fosse più tornato nella base d'appartenenza. Il suo comando ben sapeva dove il tenente scomparso usava recarsi e, il sabato santo di quell'anno, che cadeva il 18 aprile 1942, alle dieci di sera e in gran forza, diede avvio ad un massiccio rastrellamento. Nessuno della popolazione sapeva nulla e fu ordinato l'arresto di tutti gli uomini e di alcune donne del villaggio (in totale 18 persone). A casa rimasero solo bambini e anzian.i. Tutti gli arrestati furono portati nella prigione di Cattaro. Alcuni furono trattenuti piL1 o meno a lungo, ma la maggior parte degli arrestati fu comunque subito rilasciata in libertà. Più a lungo di tutti rimasero in prigione il più giovane degli arrestati, Petar Jari, e il più anziano, che era Ilija Celanovié (con i suoi figli). I Celanovié erano conosciuti come persone di poca pazienza e di miccia corta. Spesso discutevano e litigavano con gli italiani, che gli avevano ucciso il cane, per loro il "migliore del villaggio". Quel cane, naturalmente senza guinzaglio, non smetteva di attaccare gli italiani finché questi non persero la pazienza e gli spararono. Questa narrata qui fu l'unica rappresaglia per la sparizione del tenente, visto che tutte le testimonianze combaciano nell'affermare che non si verificarono maltrattamenti durante gli arresti e neanche durante la prigionia. Per qualche giorno i militari proseguirono a perlustrare il terreno intorno al villaggio e la vicina costa, ma non trovarono alcuna traccia dello scomparso. Non è stato mai trovato nulla, né gli abitanti del villaggio, dopo la guerra, quando avrebbero potuto farlo senza timore, si sono mai vantati di essere stati loro a liquidare l'ufficiale italiano. Quell'anno al villaggio Brda non fu festeggiata la Pasqua e da allora si cominciò a dire, quando si voleva maledire duramente qualcuno: "Che ti venisse Pasqua a sventura! ". Ma, tutto sommato, poteva succedere di molto peggio, se solo lo scomparso non fosse stato un ufficiale italiano, ma tedesco. Sulla fine del 1942, precisamente il 18 novembre, si svolse il primo scontro a fuoco e caddero le prime vittime sulla penisola di Lustica. A sparare furono i militari italiani e un comunista sotto copertura. Qualcuno denunciò ai carabinieri di Radovich che, presso gli uffici della chiesa di San Nicola di Gornji Krasiéi, si nascondeva Jozo Markovié di Lastue. Tutto accadde in pieno giorno. I militari circondarono la casa e ordinarono al ricercato di arrendersi. Siccome nessuno rispose, un carabiniere fu mandato ad abbattere il portone d'ingresso al pian terreno, mentre gli altri attendevano dietro i ripari. Sopra il portone c'era una delle fine-
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stre del piano superiore con le persiane socchiuse, ma non abbastanza da non permettere a Jozo di vedere il carabiniere e di sparargli in testa. Il carabiniere non portava casco e stramazzò a terra, morto. Si trattava del carabiniere D'Aversa, uomo buono e mite, proprio per questo scelto dal brigadiere Ravaglioli, che voleva saggiare il suo coraggio. Sfruttando la confusione, Jozo tentò la fuga. Aprì del tutto le persiane e saltò dalla finestra, rimanendo a sua volta ucciso. Per l'uccisione del carabiniere, gli italiani minacciarono di bruciare il villaggio, arrestarono e interrogarono alcune persone, ma nessuno fu fucilato. La verità, diametralmente opposta, fornita dalla storiografia ufficiale montenegrina racconta di terribili rappresaglie seguite alla uccisione del militare italiano. Questa affermazione viene smentita da quello che si è precedentemente narrato, come da quello che sarà narrato qui di seguito. Il compito principale di Rako Radulovié era di fare proselitismo e operare il reclutamento dei volontari per le brigate partigiane. Egli però non aveva successo sul territorio de.ila penisola di Lustizza ed usava dire: "Il peggio è il meglio!" Istigava a far attentati, sabotaggi, il che avrebbe provocato rappresaglie contro la popolazione, che avrebbe cercato la via per la salvezza nella macchia. Con ciò, il suo compito si sarebbe compiuto. Si scontrava però con il rifiuto dei patrioti locali. Alle riunioni avvenivano accese discussioni, si metteva mano anche alle pistole; gli scontri avvenivano specialmente con il principale attivista locale Bofo Barbié, il quale, più tardi, riuscirà a evitare una trappola ordita per impiccarlo. Per salvarsi, scappò nella foresta di Lustizza e non in brigata - come voleva Rako - . Avrebbe pagato lo sgarbo al comunista Rako con la vita: morirà in circostanze poco credibili, colpito da un "fulmine''. Rako non riuscì mai a portare la gente locale tra le file dei partigiani, né allora n é ancor meno dopo l'armistizio italiano. Fino alla mobilitazione generale nella brigata delle Bocche. Il primo scontro a fuoco tra gli italiani e i partigiani sul territorio del comune di Cartolle si svolse il 2 febbraio 1943 a Ogorioc, pendenza boschiva sopra l'odierna sorgente di Toplis, accanto Krtoljsko polje. Lì si trovava uno dei rifugi del comunista Rako Radulovié. A meno di quattro chilometri, si trovava Miholjska Glavica (di fronte all'attuale aeroporto), dove era dispiegata l'artiglieria italiana. La vedetta notò un filo di fumo senza fiamma e ne dedusse che non si trattava di un incendio. Siccome nei pressi del fumo avvistato non si trovavano né case né vil1aggi, corse a informare il comandante della batteria. Il comandante si recò subito sul posto per verificare di che cosa si trattasse. Andando verso il fumo, all'improvviso si trovò davanti al rifugio del ricercato. Anche Rako rimase sorpreso. Pensando di essere accerchiato, buttò intorno a sé tre bombe a mano e prese a scappare sparando alla cieca. Per l'ennesima volta, era riuscito a sfuggire alla cattura. All'arrivo dei rinforzi, trovarono il comandante della batteria Luchetti gravemente ferito e il suo accompagnatore morto. La rappresaglia consistette in un pesante fuoco d'artiglieria su tutto il territorio boschivo circostante, che era disabitato, e nella mobilitazione di tutta la popolazione in età lavorativa di Cartolle, per il disboscamento forzato. Dopo qualche giorno di lavori, fu dato fuoco alla macchia; l'aspetto della pendenza boschiva Ogorioc (in lingua serba "bruciato" - n.d.t.) corrispondeva così letteralmente al proprio nome. Non ci furono altre rappresa-
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glie. Per ìl milìtare ucciso e l'ufficiale gravemente ferito non cì furono né arresti né fucilazioni. Blafo Smiljanìé era un sosten itore di Nikola Djurkovié, cosa che non andava a genio alle persone di cui Nikola Djurkovié non si fidava ciecamente. Da quanto ha sostenuto Tonko Surja.n, che voleva evitare l'insensato scontro con gli italiani sulla Pastrovnica, Blazo Smìljanìé non godeva più delle grazie del Comitato regionale e di quello locale. Un anno dopo, il 16 marzo 1943, durante un incontro cospirativo tenutosi nel villaggio Tresnjìca (comune dì Grebaglio), partì "per caso" un colpo dal fucile tenuto tra le mani di uno deì membri del rinnovato Comitato locale di Cattaro, uccidendo l3lafo Smiljanié. Questo evento fu spiegato come "infausto incidente". Come sì evince, una storiografia oggettiva, libera dalle varie pressioni politiche (se maì ci sarà), avrà molto da fare per verificare come i fatti siano realmente accaduti.
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21.
L'inutile tragedia ((Sotto il carrubo"
A Cartolle, in alto, sopra la spiaggia Kaludjerovina, il crocevia Teodo - Krasiéi - Radoviéi porta nome "Sotto il carrubo''. Proprio lì, agli abitanti di Cartolle accadde una grande tragedia, durante gli euforici festeggiamenti per la "guerra finita" - come tutti allora pensavano - ; era stata una guerra, fino ad allora, senza gravi perdite e lutti. Dall'arrivo degli italiani, la popolaz.ione della penisola di Lustizza, di circa duemila persone, aveva subito solo una perdita, Ivo Starcevié, vittima di un "errore della sinistra". Se così fosse rimasto, tutto si sarebbe concluso per il meglio e il ricordo sugli italiani sarebbe rimasto complessivamente bello, sebbene qui fossero arrivati come occupatori e la propaganda anti-italiana fosse più forte di quella anticomunista. Per sfortuna, non andò così. Quel tragico 9 settembre 1943, alcuni fascisti camicie nere - fascisti veri - con un crimine efferato avvolsero di nero lutto molti uomini e moltissime donne. Anche non considerando che il crimine commesso fosse stato provocato in un modo completamente insensato, esso ebbe risvolti negativi nei confronti di tutti gli italiani e guastò profondamente la precedente impressione positiva. Diede anche molto spazio alla. voce dell'odio. Questa è l'occasione per ricordare fatti dei quali, sempre più, stanno scomparendo i testimoni. Ce ne sono ancora, tra di loro anche colui che scrive queste righe: di questi fatti ha scritto già due decenni orsono, dovendo, però, tacere su alcuni accadimenti, perché solo in quel modo era permesso scrivere. A grande distanza di tempo, oggi, si possono chiarire alcuni fatti messi a tacere e rispondere in modo più corretto alle domande rimaste ancora senza una risposta. Di tutto questo hanno scritto anche altri, più dettagliatamente e senza paura, nell'analisi pubblicata sulle pagine di "Primorske novine"75 . Un lutto senza fine, che non si dovrebbe mai scordare, neanche quando saranno scomparsi tutti i testimoni oculari, colpì proprio quelli che cercavano di bilanciare la situazione, in modo da arrivare alla fine della guerra con il minor numero possibile di vittime, pur restando sempre dalla parte della Resistenz.a. Nelle Bocche, la tragedia colpì solo gli abitanti di Cartolle, dove oltre il 90% degli uomini sosteneva la lotta della Resistenza, ma neanche I' 1% di loro era tesserato del Partito comunista jugoslavo. Essi aiutavano la Resistenza, con la propaganda e anche materialmente. Per questo molti di loro furono imprigionati, anche se non volevano raggiungere i partigiani. La pagarono cara. La gente di Cartolle con profondo dolore seppelliva i propri morti innocenti, mentre altri sia di giorno sia di
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Basico Kostié, "Trgedija u Krtolima': "Primorkse Novine, Budva 31.08.2003.
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notte svaligiavano i magazzini italiani abbandonati. Perché fosse successa quella tragedia era la domanda che acutizzava il dolore, e che aspetta ancora una risposta. Quelle vittime erano state necessarie o furono inuti1i? Di chi fu la colpa? La risposta ci si presenta da sola. Già dall'agosto 1943, quando giunse la notizia dellét caduta del regime fascista, si era allentata la tensione tra la gioventù locale e il Regio Esercito Italiano. Insieme si giocava alle bocce, a briscola e a tre-sette, insieme si faceva il bagno nel mare, il che fino ad allora non era mai successo. Tale atmosfera non lasciava presagire una tragedia, a maggior ragione dopo il 3 settembre, quando trapelò la notizia della firma dell'atto di non belligeranza tra gli Alleati e l'Italia. Ma, cinque giorni più tardi, si verificò un vero putiferio. Quel giorno, di sera (1'8 settembre 1943), nei pressi di Gosié, comparvero i cospiratori della Resistenza e i membri del Comitato locale di Cattaro del Partito comunista. Erano circa 20 e annunciavano la nuova situazione politica. Tutti insieme scesero a!Ea spiaggia di Bjelilo, chiedendosi come disarmare gli italiani. Si contava sulla indicazione degli Alleati di consegnare le armi ai partigiani, o di aderire alle loro unità, e non ci si aspettava alcuna reazione annata da parte italiana. Per il giorno dopo era stato fissato il raduno popolare sul crocevia della strada per Krasiéi, detta "Sotto il carrubo': per festeggiare, non per fare la guerra, visto che si pensava finita. Sembrava strano (ora non lo è più) che un così grande numero di capi del Comitato locale di Cattaro del Partito comunista, quella sera, avesse scelto di venire proprio a Cartolle, dove si trovava il maggior numero di sostenitori della Resistenza e quindi c'erano meno problemi di gestione, in relazione alla nuova situazione. Tra gli abitanti di Cartolle c'erano molti personaggi politicamente idonei, ma anche Jnolti ufficiali capaci e sottufficiali in congedo delfesercito del Regno jugoslavo. C'erano anche intellettuali, persone che parlavano l'italiano e che potevano trovare un accordo con gli italiani, a beneficio reciproco. Ma ai membri del Comitato locale del Partito comunista ciò non bastava; avevano lasciato il montenegrino Rako Radulovié e 1ripo Vaso Petrovié di Scagliari a concludere il lavoro, mentre gli altri, nottetempo, erano andati via in barca. Lindomani, verso le 10 di mattina, la gente cominciò ad arrivare sul luogo prestabilito. Il gruppo di Bjelilo era particolarmente rumoroso, poiché in quei giorni distillavano grappa. Secondo varie stime, si era radunato un numero compreso tra 40 e ìO persone, in prevalenza giovani. Ma c'erano anche dei minorenni. Rispose comunque alla chiamata meno gente di quanta ci si aspettava. Dai villaggi a maggioranza cattolica, Krasiéi e Bogisiéi, non si presentò nessuno, perché da loro era trapelata la voce che i comunisti li volevano radunare per armarli e mandarli in brigata. Dai Bogisiéi avevano sapt.~o questo anche i loro vicini Djuraseviéi, cosicché neanche uno di loro si presentò. I comunisti lo spiegarono poi nel solito modo, come "inefficienza di collegamenti': Nonostante la poca gente presente, vigeva una totale confusione. Tutto si svolgeva senza alcun ordine e non assomigliava né a un benvenuto, né a un agguato, ma a un raduno di allegra gioventù alla quale quell'incontro era stato presentato come festeggiamento popolare, per la fine degli orrori della guerra. In un momento, dall'antica fortezza Radisevié si vide arrivare un convoglio di tre camion colmi di militari in pieno assetto di guerra. Li fermarono e i fratelli Sa-
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vo e Ivo Antovié parlarono con i loro uffìciali, visto che parlavano l'italiano meglio di altri. Vennero a sapere che nella fortezza erano rimaste le camicie nere, che non volevano consegnare le armi. Alcuni dei locali e dei militari si conoscevano e si salutavano tra di loro calorosamente. Seguirono episodi orribili. Dopo che i militari avevano ordinatamente consegnato le armi, apparvero alcuni "allegri" giovanotti del posto, che volevano prender loro gli orologi e altri oggetti personali. I fratelli Antovié faticarono a trattenerli e ad impedire la rapina. Invece, coloro che avevano invitato tale gentaglia e l'avevano condotta al raduno, non solo non intervennero per fermarla, ma al contrario, si misero a discutere e litigare con gli Antovié. Accatastate nel mucchio, rimanevano molte armi più di quanti uomini fossero presenti al raduno, ma alle teste calde ciò non bastava. In ogni caso, nella fortezza Radisevié erano rimasti altri 500 militari italiani, lì raccoltisi dalla penisola Lustica, dove erano precedentemente dispiegati. Tra di loro, c'erano circa 200 camicie nere, fascisti incalliti, che non riconoscevano l'armistizio. Ciò si era venuto a sapere, ma non bastava a incutere prudenza. Dopo che i camion militari andarono via, dalla fortezza di Radisevié fu dato il via al fuoco d'artiglieria per la "pulizia" del terreno. Contemporaneamente al cannoneggiamento, con le granate a scoppio esplose proprio sul posto del raduno, cominciò il fuoco dai fucili. Chi riusciva a rifugiarsi dietro le rocce, aveva riparo dai proiettili dei fucili, ma non dalle schegge delle granate da cannone, mentre l'ordine di ritiro non arrivava. Cessato il cannoneggiamento dalla fortezza partirono a piedi alcune unità, per provare a passare, o per saggiare le intenzioni di quelli che li attendevano sul crocevia. Si muovevano con prudenza, in fila d'assalto e con le anni spianate. Non sparavano a distanza, il che faceva presagire che volessero trattare. Ma, siccome alcuni giovanotti locali festeggiavano sparando in aria, i più anziani li avvertirono di smettere, visto che gli italiani potevano interpretare tale gesto come un attacco. E così fu. Risposero al fuoco, ma sparando in aria, visto che nessuno dei radunati fu colpito, ma alcuni già cominciavano a dileguarsi e a scappare. In quell'istante, si sentì gridare (qualcuno afferma che a urlare fu Tripo-Vaso, altri dicono che fu Rako): "Chi da qui si muove, è codardo e traditore e ai traditori si sa cosa li attende!': In questo modo, quei due si garantirono un ritiro protetto e scapparono via per primi. Partì una difesa confusa, ciascuno faceva quel che poteva fare. Si verificarono anche atti eroici individuali. Simo Jovanovié, il primo locale a passare ai ribelli nonostante i suoi continui disaccordi con i membri del Comitato comunista locale, uscì dal nascondiglio e, fermatosi in mezzo alla strada, gridò: "Questo è il momento per dimostrare chi è codardo e chi è traditore!". Scaricò la pistola in direzione dei fascisti più vicini, ma cadde a terra crivellato dai colpi. Fu il primo a morìre. Ci furono anche altri atti eroici, quelli delle persone che cercavano di portare al riparo i feriti, o quelli degli uomini più anziani che cercavano di attirare su di sé il fuoco nemico, come fece Djuro Stirov Kostié, per permettere ai più giovani di scappare. Dopo la fine dello scontro, dalla fortezza partì un secondo scaglione militare a perlustrare il terreno. Sparavano nel sottobosco, buttavano bombe a mano den111
tro i fossi e le crepe, trovavano morti e feriti e li trascinavano e accatastavano su una piastra di pietra (dove oggi si trova un monumento abbandonato) . Dagli italiani ci si sarebbe potuto aspettare che prestassero cure e aiuto ai feriti, ma si trattava di fascisti, umiliati per l'armistizio e la scontìtta; così cominciarono a torturare i prigionieri. Questo destino atroce accadde a 15 disgraziati, di cui tre appartenenti alla famiglia Kostié, la quale, anche senza queste morti, non era numerosa. Cosa ci si poteva aspettare da me, se non l'odio nei confronti degli italiani, visto che ancora non sapevo chi li avesse portati e istigati al macello? I militari italiani avevano subito perdite? Si diceva che ce ne fossero state, ma nessuno vide mai nulla. Molti erano testimoni del ritiro degli italiani, ma non c'erano barelle con i feriti. Infine, anche se ci fossero stati degli italiani fe riti, tale fatto non avrebbe portato alcun sollievo alle famiglie delle vittime locali. A scontro finito, le povere madri, le sorelle, i parenti, andarono in cerca dei loro cari, urlavano di dolore e svenivano davanti a quello che vedevano, bisognava prestare aiuto anche a loro. Quando rinvenivano e riuscivano con difficoltà a riconoscere i corpi mutilati dei loro cari, le urla diventavano un incubo. I padri gridavano i loro terribili lamenti, le madri si scioglievano i capelli e si graffiavano il viso fino a coprirsi di sangue. Non c'erano né barelle, né bare da morto. Raccolsero i pezzi sanguinanti dei poveri corpi e li portarono fino al villaggio sopra delle scale di legno. Il momento più crudo fu al cimitero, quando si cercò di staccare dall'abbraccio delle madri i corpi massacrati dei loro unici figli, o dai piccoli figli i loro padri morti. Li dovettero seppellire così come li avevano trovati, semplicemente interrati, senza una bara, senza un funerale, senza una celebrazione religiosa, senza un ultimo saluto. Di episodi commoventi e duri ce ne furono molti altri, ma possiamo ometterli qui, visto che sono stati narrati altrove. Ne raccontiamo altri, quelli che possono contribuire a capire il perché di questa tragedia. Petar Rautovié, egli stesso partecipe dello scontro in cui cadde anche suo fratello Vaso, raccontava che, dopo un mese dall'accaduto, incontrò il cospiratore comunista Rako Radulovié. Ancora profondamente scosso per la tragica morte del fratello, Petar Rautovié era ancora pieno di lamenti, al che Rako tagliò corto: "A quelli che so.no morti, ben gli sta! Dovevano essere ancor più numerosi, peccato, visto che non volevano andare in brigata!". Tutti i poveri morti erano civili, portati con l'inganno al macello. Nel dopo guerra, sebbene non fossero stati partigiani, gli fu riconosciuto lo status di "caduto in guer~a: che meritano certamente. Non meritano però che per tale fatto vengano ritenuti comunisti, perché non lo era.no. Ritenuti ingiustamente comunisti, i loro nomi sono stati iscritti nell'elenco della memoria dei caduti per la patria. Nessuno di loro era però comunista. I loro nomi non si trovano iscritti nemmeno tra le pagine del libro "Prima Brigata bocchese d'assalto per la liberazione del popolo" (pubblicato nel 1984). In quel libro, su 112 di un totale di 300 pagine, si raccontano i fatti delle Bocche, dall'inizio della guerra tìno alla nascita della brigata. tevento più tragico di tutta
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la guerra accaduto nelle Bocche, quando il numero dei caduti, in un solo giorno, superò il numero delle vittime di qualsiasi altra parte della regione, non è nemmeno menzionato. Mentre sono raccontati a lungo altri avvenimenti minori. Inoltre, si commetterebbe peccato a giudicare e a misurare con lo stesso metro tutti i sostenitori della resistenza. Lo stesso vale anche per i comunisti, perché non è moralmente permesso disconoscere a tutti quanti l'onestà individuale, la sincerità del vero patriota, l'autentico antifascismo. Tanto più, perché molti di loro non sapevano e non potevano sapere le vere intenzioni ed i fini, né potevano essere a conoscenza della grande perfidia dei personaggi ai vertici di comando. Per tutti i decenni del dopoguerra, durante le commemorazioni della qui narrata tragedia, sono stati severamente criticati, con teatrali discorsi, i sostenitori della tesi che quella era stail:a una tragedia inutile, che le vittime erano state provocate dalla testa calda di qualcuno e che il male non era stato arrecato solo al vil laggio di Cartolle, ma a tutto il movimento della Resistenza. Se si trattò solo di atti sconsiderati di qualche testa calda, o di una politica premeditata e pianificata per lo sterminio dei serbi nelle Bocche, questo diventerà più chiaro dopo aver paragonato questo evento con una serie di episodi simili. 11 solo a descrivere dettagliatamente questo tragico evento sono stato io, su due intere pagine pubblicate nel quotidiano ''Primorske novine'' 76. Subito dopo è stato licenziato il capo redattore responsabile e chiuso il giornale. Cosa hanno scritto gli altri sulla tragedia? runico oltre me ad aver scritto qualche cosa è Dusan Zivkovié. Nel suo primo libro ha dedicato all'evento uno spazio molto minore di quel che merita e lo ha descritto in modo completamente arbitrarion : "Quando un gruppo di simpatizzanti della resistenza, accompagnato da uno dei cospiratori territoriali, è riuscito a disarmare un gruppo di militari italiani a Cartolle e a confiscare alcuni camion colmi di armi, è sopraggiunto un altro, pit1 numeroso, gruppo militare ital iano, composto prevalentemente da camicie nere. Subito, sull'arrivare, hanno aperto il fuoco e nello scontro sono caduti oltre 15 simpatizzanti della resistenza': Questo è tutto. Nel suo secondo libro, Zivkovié78 ha trovato un escamotage indolore. Semplicemente ha evitato di menzionare il fatto.
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O p. cit e Vasko Kostié, "Da se ne zaboravc tabu teme" "Primorske novinc, Budva 30.09.2003. Op. cit. pagg. 278 e 279. Op. cit.
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La Battaglia per Lepetane Cinque giorni dopo lo scontro "Sotto il carrubo" (14.09.1943), accadde la battaglia per Lepetane. La tragedia e l'angoscia dell'evento di Cartolle per alcuni giorni comportarono la sospensione delle divisioni tra simpatizzanti partigiani, cetnici o ustascia. C'era un unico sentimento volto a respingere, tutti insieme e con l'aiuto dei resti del "Regio Esercito" italiano, l'avanzare delle truppe tedesche, fino all'arrivo annunciato degli Alleati (che non avverrà mai). Con ansia attendevano il loro arrivo anche i rimanenti gruppi militari italiani, alcuni dei quali erano pronti a opporsi ai tedeschi. Si barricarono dentro le strutture militari della località Lepetane, pensando di fermare l'avanzata dei tedeschi che da Kamenari puntavano, attraverso Verige, a Cattaro. Gli italiani si affidarono alle promesse partigiane di rinforzi: sarebbero state inviate loro le nuove formazioni partigiane, da due direzioni, da Cattaro e da Teodo. Ma quelle formazioni si dispersero ancor prima di arrivare a Lepetane. Arrivò soltanto la compagnia di uomini di Grebaglio e una parte di quella costituita dagli uomini di Lastovo. Male comandati, subirono, prima di dissolversi completamente, pesanti perdite: sei morti, dei quali quattro di Grebaglio, due feriti gravi (uno rimase senza un braccio, un altro perse un occhio), e cinque con ferite lievi. I nomi dei caduti sono stati iscritti sulla targa di ricordo e inseriti nell'elenco dei caduti della Resistenza. Cosa successe agli italiani abbandonati in difficoltà? Non esistono dati certi sul loro numero, ma quasi tutte le testimonianze dicono che erano una quarantina. Per tutto il giorno del 14 settembre 1943 condussero una pesantissima battaglia contro i 120 militari tedeschi, i quali, nottetempo, erano riusciti ad arrivare sotto Lepetane dalla direzione di Verige e a sorprendere gli italiani che, da quella parte, da Caltaro, attendevano i rinforzi promessi. Tutti i testimoni locali, che erano riusciti a riparare tra le montagne e che da lì, in tutta sicurezza, seguivano la battaglia, concordano unanimi sull'eroismo dimostrato dagli italiani, che inflissero ai tedeschi pesanti perdite. La coraggiosa e strenua resistenza degli italiani trattenne i tedeschi e impedì una moltitudine di vittime locali nelle nuove, appena costituite, formazioni partigiane, prive di ogni preparazione militare. Non ci sono dati certi sul numero degli italiani caduti a Lepetane e i loro nomi non si trovano da nessuna parte. Non sono stati iscritti sulle targhe marmoree a ricordo, né negli elenchi dei caduti, né nei libri storici delle vittime della guerra. Qui e lì si menzionano i numeri degli italiani caduti, fino a 40, il che significherebbe che nessuno di loro è sopravvissuto alla battaglia. Nella grande moltitudine di libri storici e di raccolte sulla resistenza nelle Bocche di Cattaro, di questi italiani caduti non si trova quasi nulla, eccezion fatta per quello che ha scritto Zivkovi é79, basandosi sui racconti di Stevo Jovanovié di tre de-
79
Op. cit. pag. 97.
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cenni più tardi. Lo citiamo insieme alla descrizione già fatta, ma la ripetiamo perché necessaria da vari punti di vista: "... Al battaglione di Teodo è corso in aiuto, nella battaglia di Lepetane, la parte del battaglione di Grebaglio appena costituito, sotto iJ comando di Stevo Jovanovié. Il 14 settembre a Lepetane si è svolta una violenta battaglia che ha coinvolto gli italiani. Però, alla sera gli italiani si sono ritirati e sono stati sostituiti da forze partigiane che, successivamente, hanno preso in assalto Lepetane. In questa battaglia, i tedeschi hanno subito perdite per sette morti, circa 30 feriti e 35 prigionieri. Gli altri sono riusciti a sfondare in direzione di Cattaro. Le perdite partigiane erano di sei morti e alcuni feriti, mentre gli italiani subirono circa 40 morti e feriti': Il racconto ci suona strano. Prima viene detto che gli italiani si sono ritirati e, subito dopo, che questi stessi italiani sono morti in 40 sul campo d i battaglia. Si pone la domanda: come potevano gli italiani morire in ba'taglia se si erano ritirati? E poi, di quale assalto partigiano si parla, se non ce n'era stato alcuno? Per molto tempo, cercando la verità, ho ascoltato le testimoni~rnze dei combattenti locali sopravvissuti, degli anziani di Lepetane, oltre a quelle dell'italiano Vincenzo Del Sordo. Di tutta la storia, ho potuto accertare una cosa sola: in quell'occasione morirono sei partigiani. Tutto il resto rimane ancora incerto e confuso e attende una risposta. Occorre sottoporre ad analisi tutto il caso, perché la verità ~ molto più vicina alla prima versione della battaglia, data all'inizio del capitolo. In parti colare, nel punto in cui racconta chi è scappato e chi, invece, è stato abbandonato nel momento del bisogno. Della battaglia di Lepetane Zivkovié ha scritto nel suo primo80 libro ed anche nel secondo, 111a qui si vuole menzionare ciò che ha omesso di inserire nel secondo libro: "... i partigiani hanno rinchiuso i tedeschi catturati a ·reodo, ma più tardi i prigionieri sono stati liberati dalle truppe tedesche". Prima di tutto, però, occorre dire che in quella battaglia i vincitori erano stati i tedeschi. E poi, se Zivkovié ci dicesse la verità, viene da chiederci: cosa ne è stato dei presunti 30 tedeschi feriti? E chi ha scortato i 35 tedeschi catturati fino a Teodo se tutti gli italiani erano stati uccisi e quelli (partigiani - n.d.t.), inviati agli italiani come rinforzi, si erano "ritirati" attraverso Lastua Superiore? Nel suo secondo libro81 Zivkovié non ha fatto correzioni sul suo racconto dell'episodio della battaglia di Lepetane, precedentemente esposto, ma ha ripetuto quanto già scritto nel primo libro, omettendo l'ultima frase, quella sulla cattura dei militari tedeséhi - poiché lì tedeschi catturati non ce n'erano -. Non esiste alcun dato o testimonianza neanche sulle eventuali perdite subite dai tedeschi, supponendo che ce ne siano state. Dal suo racconto si evince che furono gli italiani ad abban-
so Op. cit. pag. 281. SI Op. cit. pag. 97.
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donare la battaglia, ad infrangere gli accordi e a tradire i partigiani. È vero che a Lepetane il numero degli italiani era stato ridotto, prima ancor dell'assalto tedesco. Erano rimasti in 40 e combatterono valorosamente, fino all'ultimo. Probabilmente ci furono dei feriti. Ma i tedeschi odiavano gli italiani come traditori e la loro fine era già decisa. Inoltre, non ci fu alcun assalto partigiano. Al contrario. Qui, comunque, non si desidera parlare di questo. Però, è doverosa la seguente domanda: chi erano quei "partigiani" che in un presunto assalto avrebbero conquistato Lepetane, come ci racconta Zivkovié? Il libro di Zivkovié non lo dice. Non menziona nemmeno il battaglione di Grebaglio, che in quella battaglia ha subito delle perdite. Inoltre, in quei giorni non si fi.1eevano divisioni tra partigiani e cetnici, o tra qualche altro gruppo. Pertanto, quel tacere rende il racconto ancora più sospetto. Due giorni dopo la battaglia, il 16 settembre 1943 successe un evento strano, di cui Zivkovié nel suo primo libro ha così scritto82 : "Dopo la battaglia di Lepetane, le forze partigiane locali sono riuscite a liberare Vrmac e a catturare alcune centinaia di soldati tedeschi venuti qui dal Montenegro. Purtroppo, per inadeguata attenzione dei partigiani, oltre che per l'azione congiunta di fascisti italiani e di alcuni elementi cetnici, il giorno dopo sono riusciti a liberarsi e ad attaccare i partigiani alle spalle':
In alcune fonti meno credibili vengono accusati di tradimento gli ital iani, ai quali, si dice, i partigiani avevano affidato la custodia dei tedeschi catturati. Nel suo secondo libro, Zivkovié tenta di mitigare le illogicità espresse nel primo libro sulla battaglia di Lepetane. Non menziona più le "forze partigiane locali': che, a dire il vero, di "forza" non avevano nulla, tantomeno per poter catturare alcune centinaia di tedeschi, e dice 83 : "Dopo la battaglia, i partigiani sono riusciti a liberare Vrmac e a catturare un gruppo di 80 militari tedeschi qui arrivati da.I Montenegro. Ma, per via di una disattenzione dei partigiani, i tedeschi sono riusciti a liberarsi da soli ... Le loro armi si trovavano accatastate in un mucchio proprio vicino a dove erano tenuti prigionieri". Dunque, è scomparso l'aiuto prestato ai tedeschi per liberarsi sia da parte dei fascisti italiani, che dei cetnici. Che per le "forze partigiane locali" fossero più interessanti i magazzini italiani abbandonati dei tedeschi catturati, lo sapevano bene gli abitanti dei villaggi vicini. Ma lasceremo alle nuove generazioni di storici il compito di far luce su questo, se qualche testimone sarà rimasto ancora in vita. La storiografia ufficiale montenegrina dovrebbe fare un'analisi oggettiva e sopra le parti (anche se ci sono seri dubbi che lo possa fare) sulle responsabilità di quello che è successo. Lo dovrebbe fare per le generazioni future, per non far cadere le accuse su una sola nazione e non farle portare in eterno il pesante bagaglio di menzogne, che quel popolo non merita.
82 83
Ibidem. Ibidem.
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In questo libro sono stati evidenziati solo alcuni episodi, perché il tema non è raccontarli tutti. Si può solo immaginare quanti episodi simili siano accaduti in lungo e in largo nelle Bocche di Cattaro e in tutto il Montenegro. Qui si narrano gli eventi per far sapere la verità alle generazioni attuali e a quelle future, in modo che mai più si possa ripetere nel bacino Adriatico la guerra e tutti gli orrori che la guerra porta con sé.
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23.
I rapporti tra italiani e bocchesi (gente delle Bocche di Cattaro) dopo '(Presa" Durante i due anni e cinque mesi dell'amministrazione italiana delle Bocche si erano verificati non solo diversi scontri minori, ma anche delle vere battaglie tra italiani e partigiani. Sarebbe sbagliato pensare che tutti gli scontri finissero come quello a Brajiéi. Da quell'esperienza gli italiani trassero insegnamento e cominciarono anche loro a usare le tattiche partigiane. Inoltre, l'esperienza insegnava loro a non arrendersi, perché tutti erano consci deJla fine che li avrebbe attesi in caso di resa. La sorte degli arresi non era di essere semplicemente fucilati, ma di "essere arrostiti vivi", come raccontarono quelli che videro i corpi dei loro commilitoni dopo lo scontro a Brajiéi. Quell'episodio segnò una catastrofe per la politica antifascista e per la resistenza ed è assolutamente inspiegabile il fatto che il racconto sul crimine commesso a Brajiéi ancora venga messo a tacere oppure venga glorificato come una vittoria. Ma casi di rese d i mili tari italiani si ripetevano ancora. I comandi nascondevano ai nuovi battaglioni arrivati cosa era successo a Brajiéi. In questo modo, le tragedie si ripetevano, come quelle successe negli scontri durante l'inverno 1941/42, nell'entroterra di Castelnuovo, tra il battaglione degli alpini "Val Chisone" e il battaglione partigiano di Odjen. Di questo ha scritt.o Nedjeljko Zorié84, citando sia le fonti partigiane che quelle italiane. Solo dopo un'attenta analisi della "banca dati" di Zorié, sparsa su 670 pagine, si chiariscono alcune incertezze e, indirettamente, vengono riconosciuti i colpevoli della morte di molti bocchesi e italiani: come sempre, la tragedia avvenne anche qui per calcolo e interesse di qualche terza parte. Per spiegar meglio, si darà spazio al racconto di un breve episodio, uno tra molti. Dopo le battaglie che erano state combattute per tutto il mese di dicembre del 1941 e che proseguirono nel 1942, una compagnia italiana di esploratori cadde, il 4 gennaio, in un agguato dei partigiani di Krusevica, nella località di Meteriz (Mokrine). I partigiani fecero cadere gli italiani in trappola e li accerchiarono completamente. Lo scontro durò poco. Dopo aver subito sette morti e quattro feriti gravi, il comandante della compagnia esploratori comprese la situazione. Per provare a salvare la vita dei suoi sottoposti, ordinò il cessate il fuoco ed espose bandiera bianca. Questa bandiera segnala una resa e, per tale ragione, nessun esercito la porta in dotazione. Per issare bandiera bianca, dunque, non potevano usare Ie camicie, perché di colore verde scuro o nere; ogni militare portava però con sé delle bende, per un eventuale primo soccorso medico. Esporre le bende segnalava quindi due cose: la resa e che c'erano dei feriti. Oltre ai feriti, si arresero tre ufficiali e 45 soldati semplici e sottufficiali. Di questo, Zorié ha scritto85:
84 85
Op. cit. Op. ci t. pag. 203.
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"Lo stato maggiore dell'Orijenski (battaglione partigiano - n.d.t.), con l'intenzione di adempiere alla normativa internazionale di guerra, ha restituito al comando italiano i quattro feriti con una lettera ( che Nikola Djurkovié ha scritto in francese) nella quale chiedeva che i muli venissero rispediti indietro con un bagaglio di cibo e di medicine per i militari arresi. Per risposta, il comando italiano sequestrò i muli e arrestò il corriere partigiano che scortava i feriti e bombardò le posizioni partigia11e': TI poco cibo raccolto per sfamare i ribelli era diviso con gli arrestati, che non erano pochi. Le scorte finirono presto e i militari italiani arrestati spedirono messaggi ai loro comandi, per farsi mandare del cibo, finché non si fosse risolta la loro situazione. Come risposta, arrivarono le granate, che in ugual modo caddero sugli insorti e sui catturati. Nessuno rimase colpito, sebbene il comando italiano conoscesse perfettamente, dai resoconti dei feriti restituiti, la posizione partigiana. Le granate potevano sancire solo una risposta negativa e u11 avvertimento, ma non rappresentavano quindi una rappresaglia. Siccome lo stato maggiore del battaglione partigiano di Niksié (Montenegro - n.d.t.) era molto seccato dell'esistenza dei catturati, ordinò di trasferirli con gli altri catturati (in totale 80 uomini) in una località chiamata Konjsko, dalla parte d'Erzegovina, oltre il monte di Lovéen, apparentemente perché lì vi era più cibo. Questa motivazione era stata fornita per darla a bere alla gente. In realtà, l'ordine voleva che tutti i catturati fossero trasferiti per essere uccisi, visto che i bocchesi si opponevano a tale soluzione. Come sempre avviene in questi casi, anche a questo massacro qualcuno sopravvisse. Un soldato, Pietro, riuscì a scappare e a ritornare da quelli che lo avevano catturato. Rimase da loro come "libero prigioniero" addetto alle cucine. Raccontò particolari raccapriccianti. Per lui, i bocchesi erano buoni e quelli che fucilarono i prigionieri li chiamava "cattivi ribelli': fu lasciato libero quando i partigiani bocchesi si erano ormai "ritirati"86 . Il termine "ritirati" non risponde alla verità, ci sarebbe un'altra parola da usare, ma lasciamo tutto come ha scritto Zorié. I.:episodio descritto è un rarissimo caso in tutta la guerra di liberazione in cui i partigiani rilasciano i prigionieri: questo non succedeva mai, anche quando si trattava di un prigioniero solo. Oltre ai casi di cattura di gruppi più numerosi di italiani e di una loro fucilazione in massa, qui e lì, durante gli scontri di minor intensità, succedeva anche che si catturasse qualche soldato nemico. Su questi episodi esistono solo numeri, senza nomi né spiegazioni. Oltre ai catturati e ai catturati feriti, spesso si menzionano i "dispersi''. Lo fanno gli italiani e i partigiani. Se questi militari sono scomparsi e, dunque, nessuno li ha più visti, e non sono tornati nelle loro sedi, quale sorte è loro capitata? Il maggiore oppositore alle fucilazioni dei prigionieri e alle uccisioni del nemico alle spalle era il giurista Nikola Djurkovié. In molte parti del libro di Zorié, si avverte lo scontro tra Durkovié e i personaggi "in alto'~ che i partigiani del bat-
86
120
Op. cit. pagg. 202-204.
taglione di Orijen dovevano proteggere sacrificando la vita propria, quella dei familiari e i loro averi. Lo scontro si percepisce anche dalla seguente citazione87: "Il Comitato regionale e lo Stato maggiore del battaglione di Niksié, nel primo episodio (marzo 1942), banno chiesto 50 combattenti d'assalto armati e Gligo Mandié, l'ex incaricato comandante del battaglione di Orijen, decapitò di fatto quella formazione. Inoltre, chiedevano in continuazione l'invio di alcuni cibi, del materiale di cancelleria, delle medicine, degli strumenti chirurgici, in una parola, le cose delle quali quelli di Orijen non disponevano neanche per loro stessi. Per tutto il tempo della ribellione, le forze del battaglione di Orijen proteggevano alle spalle il battaglione di Niksié e non era permesso loro di lasciare deliberatamente le posizioni assegnate sotto il monte Orijen". Zoric, il diretto testimone di quegli avvenimenti, non sbaglierebbe a scrivere che l'unica ragione dell'esistenza del battaglione di Orijen era l'approvvigionamento e la protezione alle spalle di quelli che davano gli ordini. Egli fornisce documenti su ordini contraddittori, irragionevoli e, pei bocchesi, inaccettabili, ora di ritirarsi, ora d i rimanere sulle posizioni, ma tanto si può leggere tra le righe anche sulla situazion e dentro lo Stato maggiore. "A Nikola Djurovié (membro espulso dal Comitato locale del Partito comunista jugoslavo) è stato ordinato di ritirarsi insieme al battaglione, ma lui si è fermato subito dopo il villaggio di Sitnica. Allora, Daso Pavicié ordina a Nedjeljko Zorié di aiutarlo (Djurovié - n.d.t.) e, 'se non vuole proseguire proiettile in testa: .. - Nedjo, io non posso, mi puoi anche ammazzare! - Nikola, dimmi sinceramente ... Vuoi ven ire con noi? Se tu non vuoi, io vado. - Non posso, uccidimi se vuoi!". Il battaglione di Orijen fu distrutto, o "dissolto" come di solito usano dire, per mitigare il vero stato delle cose, gli autori della storia contemporanea montenegrina, nel giugno 1942. Secondo i dati italiani88, la distruzione del battaglione fu seguita dall'arresto di 842 persone, ritenute ''insorti" dagli italiani. Li spedirono nelle prigioni di Cattaro, Sebenico e Zara e poi ai campi di Mamula e di Prevlaka, mentre la maggior parte dei più giovani scelse di entrare nella milizia volontaria anticomunista (MVAC). Con loro fu formato il battaglione MVAC "Orijen" di 500 uomini, numericamente uguale ad ogni altro battaglione d'esercito italiano. Questo dimostra quali erano stati i "successi" del battaglione partigiano di Orijen. Al Convegno scientifico sulle carceri e sui campi di concentramento (20-21 dicembre 1985), Zarko Bakocevié89 ha elencato e descritto i crimini italiani di fu-
7 $
88 89
Idem, pagg. 220, 250-25 l . Op. cit. pag. 28. Ibidem.
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cilazione di piccoli gruppi di partigiani in varie località e in varie condizioni; tali descrizioni sono entrate nella Raccolta. Tutti i dati sono forniti con i nomi delle vittime. Per questo specifico fatto non può essere mossa alcuna obiezione nei confronti di Bakocevié, mentre obiezioni possono essere avanzate sui motivi per i quali egli non ha spiegato le condizioni nelle guaii sono avvenute quelle fucilazioni, né le ragioni delle stesse. Le frasi "per rappresaglia" o "per ritorsione" non bastano, perché non spiegano nulla. Gli italiani non hanno mai fucilato tutti gli arrestati o i catturati, sebbene li ritenessero ribelli. Su oltre 1.200 arrestati (senza contare gli arrestati politici), fucilarono 45 persone. Di questi, non fa parte il gruppo più numeroso dei 58 condannati a morte. Di loro Bakocevié dice - il che non è facilmente comprensibile: "Sono stati condannati alla pena di morte 58 partigiani e di questi 30 sono stati condannati a una pena detentiva che variava da 20 a 30 anni': Si pone la seguente domanda: se 58 persone sono state condannate a morte, come potevano, di queste, 30 essere messe sia a morte che in prigione? Inoltre, Bakocevié non precisa se la pena di morte sia stata eseguita, né fornisce i nomi dei condannati, tranne di nove di loro che subito, 1'11 febbraio 1943, furono fucilati. Non è la stessa cosa uccidere nove, trenta o cinquantotto persone. Più verosimile è la dichiarazione dell'ex partigiana Joke Beéir, pubblicata nel quotidiano "Pobjeda" del 6 agosto 1988. Ella afferma che la Corte marziale italiana aveva pronunciato 52 condanne a morte, le quali (tutte quante tranne per i nove subito fucilati) erano state commutate a pene detentive. Si sottolinea che le persone in questione non erano oppositori politici arrestati, né persone prese in ostaggio (gli ostaggi non si processano), né erano civili disarmati, simpatizzanti della resistenza. Si trattava cli persone che, armi in mano, combattevano gli italiani tra le file dei partigiani. Joke ne era ben conscia, perché tra i fucilati vi erano i suoi due fratelli, Vuko e Savo Beéir di Grebaglio, ex combattenti del battaglione di Lovéen, mentre altri sette fucilati appartenevano al battaglione di Orijen. Prima della condanna tutti avevano avuto lunghi trascorsi nelle prigioni, maggiormente a Mamula, e i giudici avevano avuto tutto il tempo necessario per verificare e provare quello che si metteva a loro carico. Bakocevié ha anche descritto i metodi di tortura disumana adottati nelle prigioni italiane, le umiliazioni, la privazione di cibo e altro 90. In confronto con altre fonti e testimonianze, qui ci sono molte esagerazioni. Per esempio, in relazione alla prigione di Mamula: "Il cibo era così scarso e così cattivo che i prigionieri morivano di fame. Di questa spaventosa morte sono perite 300 persone, prevalentemente partigiani catturati. .. Un trattamento specialmente duro era riservato ai prigionieri provenienti dalla Erzegovina Est, dai villaggi intorno Ragusa e Makarska. Erano separati dai bocchesi e gli era vietato ricevere i pacchi dalle famiglie. In questo modo, circa 200 di loro morirono di fame .. :'.
90
122
Op. cit. pag. 30.
Dunque, secondo questi dati, 500 prigionieri del campo di Mamula sono morti di fame. Non si sa chi fossero, perché di loro non si citano né il nome né il cognome, a differenza dei fucilati, di cui Bakocevié elenca le generalità. Se 200 di quelli che non ricevevano i pacchi dentro il campo sono morti di fame, come è possibile che siano morti di fame anche gli altri 300 che ricevevano i pacchi? Non sono facilmente rintracciabili altre testimonianze sulle morti per fame dentro le prigioni italiane, né per quanto riguarda il campo di Mamula, né per gli altri campi italiani destinati ai bocchesi. Al contrario, ci sono molti dati che confermano il fatto che gli italiani spostavano i prigionieri più deboli e ammalati in un altro campo di trattamento più leggero, quello di Prevlaka, o che li trasferivano all'ospedale militare di Melligne, o che addirittura li rilasciavano in libertà (n.d.r. 4). tunica caso evidenziato di un prigioniero del campo di Mamula morto è quello di Jovo Spirov Lucié, ex membro del battaglione partigiano di Orijen, che è venuto a mancare improvvisamente, a 48 anni. Non è morto però a Mamula, ma sulla spiaggia di Lustice il 14 settembre 1943, ovvero dopo la capitolazione d'Italia e dopo lo scioglimento del campo di Mamula. Pertanto, non sono infondati i molti dubbi che circondano anche altre esagerazioni, fatte non solo da Bakocevié ma da tanti altri, le cui testimonianze e i cui scritti ancora rappresentano la base di tutta la storiografia della Resistenza.
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24. Il tentativo di ripetere la tragedia a Cartolle
Dopo solo dieci giorni dalla tragedia "sotto il carrubo", sulla gente delle Bocche di Cattaro incombeva una tragedia nuova e ancor più grave. L'.avvenimento è stato dettagliatamente descritto sulle pagine del giornale «Primorske novine': Durante il periodo di anarchia e confusione seguito all'armistizio d'Italia e fino all'occupazione tedesca, si mescolarono i simpatizzanti della resistenza con i cospiratori comun isti, che fino ad allora erano vissuti nascosti, con quelJi usciti dalle prigioni e dai campi di concentramento italiani sciolti, con i nazionalisti, con i simpatizzanti dei cetnici, con gli apolitici. Vestivano in modo variopinto. Alcuni portavano usuali abiti borghesi, altri vestivano varie uniformi, con varie insegne, mentre gli ex ufficiali e sottufficiali dell'esercito del Regno jugoslavo portavano le proprie uniformi, con i loro gradi. Tutti erano armati e tutti si comportavano amichevolmente, come se i due anni passati non fossero mai esistiti . .E tutti attendevano l'arrivo degli inglesi e non quello dei tedeschi, perché circolava questa informazione. Ci si asr ettava l'imminente arrivo proprio degli inglesi, non degli altri alleati. Vi erano continue discussioni sul da farsi, perché dentro l'antica fortezza di Radisevié si era barricato un ultimo gruppo di fascisti e qualche altro militare italiano era lì riparato dalla costa. Nessuno sapeva quando e come li avevano raggiunti anche quattro militari tedeschi. Probabilmente era accaduto di notte, erano arrivati con la barca fino alla spiaggia Oblatne, vicina alla fortezza e lontana da tutti i centri abitati. I tedeschi erano tutti ben armati, con le mitragliatrici e i fucili automatici. Non fidandosi dei loro ex alleati italiani, presero subito il comando della fortezza e dei posti delle sentinelle intorno. Il loro cambio di guardia si poteva seguire con il cannocchiale, non si nascondevano. La fortezza era protetta da più reti intrecciate di filo spinato e da punte di ferro, difficili da superare anche dai carri armati. E dalle mine. Anche senza tutte queste misure di protezione, le grandi e spesse mura della fortezza avrebbero resistito al fuoco dell'artiglieria di allora. In queste condizioni, gli abitanti di Cartolle, da soli e senza attendere alcun ordine o indicazione da alcuno, costituirono una formazione armata territoriale locale, con un vertice di comando organizzato secondo i vari gradi. TI vertice di comando era a carattere temporaneo, perché ci si aspettava il rientro dalle prigioni e dai campi italiani sciolti delle persone con i gradi superiori: i sottotenenti Bozo Barbié e Drago M. Lakicevié, il maggiore della riserva Drago Milovié - tutti elementi attivi della Resistenza - e il colonnello in servizio Stojan Ivkovié, politicamente non impegnato. Il comando temporaneo era composto da: il comandante Vaso Barbié - maestro e capitano di riserva -, il tenente della riserva Mirko Rusovié, di orientamento politico vicino ai cetnici, e i sottufficiali di riserva Mirko Kostié e Bogdan Djinovié, simpatizzanti della resistenza e per questo ritenuti comunisti, anche se nessuno
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dei due era iscritto al Partito comunista jugoslavo. Dall'll settembre 1943 questa formazione fu operativa . .Era necessario impedire la guerra civile e l'anarchia derivante dal vuoto di potere. Uno status di ordine e di sicurezza fu ripristinato con il pattugliamento ed i posti di guardia in ogni paese. Fu organizzato anche l'assedio della fortezza dei Radisevié per impedire l'uscita degli italiani e tedeschi ivi barricati e un loro eventuale attacco ai villaggi intorno. A nessuno veniva in mente di sferrare l'attacco alla fortezza o di provocare i fascisti e i nazisti, che potevano, senza muovere un passo dalla fortezza, radere al suolo tutti i centri abitati vicini con l'artiglieria di varia calibratura in loro dotazione. Neanche i barricati intendevano cambiare con l'uso della forza questo stato di relativa reciproca tolleranza e quindi neanche a loro veniva in mente di provocare quelli di fuori. Però, al Comitato comunista locale di Cattaro, che a Cartelle usavano chiamare "Gruppo di Scagliari': non piaceva la formazione armata territoriale con quell'asse di comando, che non obbediva ai loro ordini. Dopo la tragedia "sotto il carrubo': i membri del Comitato comunista di Cattaro non osavano farsi vedere a Cartolle. Si moltiplicavano i messaggi con i quali essi chiamavano tutti i militari coscritti a raggiungere il battaglione partigiano di Teodo o quello di Grebaglio. Ciò sottintendeva lo scioglimento dell'unità territoriale di Cartolle autonomamente organizzata. Nessuno rispose all'invito di entrare nelle file del battaglione di Teodo. Per il battaglione di Grebaglio ci furono cinque volontari, di cui due fra telli, non originari di Cartolle. Fu l'insuccesso del reclutamento della gente di Cartolle nei battaglioni partigiani, oltre a quello di non riuscire a sciogliere l'unità armata di Cartolle, a condurre il Comitato comunista di Cattaro a prendere un'altra decisione. Il Comitato ordinò all'unità armata di Cartolle di conquistare, ad ogni costo, la fortezza, che era, in quel momento, la maggiore fortificazione militare della regione. Inoltre, lo dovevano fare senz'armi, visto che disponevano dei soli fucili. Questo ordine irrazionale avrebbe avuto un senso solo se si voleva lo sterminio di tutti gli abitanti di Cartolle, e si poteva supporre che ciò fosse stato effettivamente il suo fine. Anche in questo caso, si voleva addossare un mostruoso crimine sulle spalle delle forze d'occupazione, o delle "tesil:e pazze" degli insorti caduti - come era già stato fatto in altre occasioni -. Ma, tra i componenti dell'unità territoriale di Cartolle non c'erano membri del Partito comunista, a minacciare proiettili in testa per insubordinazione, con tanto di accusa di codardia o di tradimento. Approfittando del momento infausto per i partigiani, a Cartolle arrivò con una delegazione Branko Djekié, maggiore in servizio dell'esercito del Regno jugoslavo (formazione di nazionalisti fedeli al Re e al Governo in esilio - n.d.t.), sperando di, poter persuadere qualcuno di Cartolle a mettersi sotto il comando cetnico e al servizio di "Re e Patria': Fece una riunione con il comando dell'unità territoriale e con i personaggi più in vista del villaggio, ma non ottenne un grande successo. La gente di Cartolle era unanime nel pensare che una cosa del genere fosse prematura e che bisognasse attendere che la situazione si fosse chiarita, onde evitare ulteriori separazioni e uno scontro fratricida. In quell'occasione, nessuno di Cartolle entrò a far parte delle unità cetniche. Motivarono il loro diniego con il non poter lasciare il villaggio senza protezione e mett.erlo alla mercé dei crudeli
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fascisti barricati nella vidna fortezza; la decisione fu rimandata "fino all'arrivo degli inglesi". Il progetto del Comitato comunista di Cattaro non si era realizzato ed ìn seguito fu messo da parte. Ma ciò non diminuì l'orrore del suo intento. 'Tomicidio con premeditazione" è punibile anche se solo tentato. Coloro che tentarono, pianificandolo, questo atto criminale passarono tutta la loro vita, nel dopoguerra, ricoprendo alti incarichi istituzionali, ricevendo ricche pensioni dì stato come ex combattenti, ornandosi delle numerose onorificenze e degli altri riconoscimenti loro assegnati. Oggi non sono più in vita per rispondere delle loro responsabilità, o per nuocere ancora a qualcuno. Che Iddio li perdoni e che riposino ìn pace. Ciò, però, non significa che insieme a loro debba essere sepolta in eterno anche la verità . La verità viene sempre a galla, lentamente, anche in ritardo, ma inesorabilmente.
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Interessante è il fatto che glì aerei tedeschi, ì bombardieri detti "Stuka': impedirono il ripetersi della tragedia tra glì abitanti dì Cartolle. DeU'atteso arrivo degli inglesi non c'era traccia, ma lrapelavano brutte voci sull'imminente penetrazione delle truppe tedesche fino a Lepetane e Trojica. Di nuovo, arrivò all'unità territoriale di Cartolle l'ordine, questa volta proveniente da un certo "Stato maggiore unitìcato" (comunista - n.d.t.), di "conquistare la fortezza dei Radisevié con urgenza e ad ogni costo!': Con tale ordine, lo "Stato maggiore" informava che, secondo alcuni italian.i scappati dalla fortezza, dentro la stessa si trovavano soltanto 50 fascisti fedeli a Mussolini. (In seguito si vedrà che erano molti di più). Nell'ordine ricevuto non sì faceva parola sulla presenza dei soldati tedeschi, ma la gente di Cartolle era certa della loro presenza perché lì riconosceva, per vìa dei loro elmetti e dell' armamento che portavano (le pistole mitragliatrici "Schmeisser" e i fucili semiautomatici d'assalto con il caricatore laterale "a tamburo"). Difficilmente ai militari equipaggiati con quelle armi l'unità di Cartolle avrebbe potuto fare akun danno, anche se non fossero stati asserragliati nella fortezza. Più volte tentarono di avvicinarsi alla fortezza protetti da un fazzoletto bianco di trattativa, ma ogni volta furono scacciati con raffiche di mitragliatrici. Per fortuna, nessuno rimase colpito, perché dalla fortezza non sparavano per uccidere ma per far intendere che non erano disposti a trattare. Ai personaggi che avevano dato l'ordine di assalto, da Cartelle rispondevano chiedendo con quali armi sarebbero dovuti partire alla conquista di una fortezza del genere. Dopo non molto, arrivò loro il messaggio che al cos iddetto "Molo nuovo" sarebbero giunti in barca Simo Vuksanovié e Gracija Nikolié, portando le armi prese dal magazzino militare di Zupa, necessarie per la conquista della fortezza. Si doveva andare :a riceverle. Le armi furono portate dall'ex tenente c.f intendenza Temo Paskovié. Arrivò indossando la sua vecchia uniforme con ì gradi, portando un centinaio di fucili italiani, più casse di munizioni da fucile e alcune casse di bombe a mano. D ei lanciagranate richiesti, delle mitragliatrici, dei lanciafiamme, con i quali si potevano almeno disturbare ì fascìsti asserragliati, non c'era
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traccia. Paskovié trasmise quello che gli era stato ordinato di dire: prima sarebbe partito il fuoco d'artiglieria sulla fortezza, dopo si sarebbe dato l'assalto, da parte Cartolle, per conquistarla. Conscio anche lu.i che un assalto del genere avrebbe comportato un suicidio di massa, promise di informare dello stato oggettivo dei fatti coloro che lo avevano mandato. Il fuoco d'artiglieria avvenne davvero, risuonarono le batterie italiane dai monti di Trojica, Vrmac e Goraide, in direzione della fortezza. Ma il fuoco d'artiglieria era talmente impreciso che nemmeno una granata colpì la fortezza. Si poteva pensare che a sparare erano partigiani, non avvezzi all'uso dell'ar tiglieria. Poi si venne a sapere che a sparare erano gli italiani e che non si trattava di un sabotaggio. Quello era il fuoco che in genere precedeva il bombardamento vero. Serviva a rettificare, ovvero a verificare la mira, per correggerla. Tali prove erano più pericolose per gli assalitori che per gli asserragliati, al riparo dietro le spesse mura proteltive della fortezza. li fuoco d'artiglieria fece scappare gli assalitori e, a sua volta, fu subito zittito dai cacciabombardieri tedeschi, i famosi "Stuka': con bombe e un pesante mitragliamento, accompagnato da un suono forte e stridente, prodotto dagli aerei che volavano in picchiata. Quel suono, da solo, bastava a gelare il sangue. Dunque, non ci fu l'attacco d'artiglieria principale e neanche l'assalto alla fortezza ordinato "ad ogni costo". Più in là, però, il fatto del mancato assalto, avrebbe avuto pesanti ripercussioni sulla gente di Cartolle. La maggior parte dei più noti abitanti di Cartolle, quelli che si opponevano all'insensato ordine di assalire la fortezza dei Radisevié, avrebbero perso la vita in diversi modi, sempre misteriosi: sarebbero stati liquidati, sempre per mano di sconosciuti che avrebbero agito secondo ordini verbali ricevuti. Tutto ciò sarebbe accaduto durante il periodo d'occupazione tedesca e non si può mettere in alcuna relazione né con gli italiani, né con il tema di questo libro. Inoltre, è stato descritto altrove pi Lt dettagliatamente.
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25.
Il patimento degli italiani dopo la capitolazione d'Italia
Dopo aver spezzato la resistenza dei militari italiani antifascisti passati, in seguito all'armistizio d'Italia, tra le file dei partigiani montenegrini nei monti sopra Risano, i tedeschi condussero un grosso gruppo di prigionieri italiani a Cartolle. Li fecero fermare su un prato proprio di fronte alla nostra casa. Avevano un aspetto terribile: sfiniti dal cammino da I<rivosije, non sbarbati, magri, affamati e assetati, alcuni con le bende sulla testa o sulle braccia. Jn quel posto li tennero per tre giorni e per tre notti . Faceva già freddo d'autunno e iniziavano le piogge, ma loro dovevano restare lì, senza una tenda e senza alcun riparo, stretti uno all'altro, seduti o sdraiati per terra, o meglio, nel fango, senza cibo e con poca acqua, solo quella piovana, quella che potevano raccogliere nella gavetta. Sebbene anche noi in quel periodo soffrissimo la mancanza d'acqua, perché le riserve d'acqua piovana filtrata durante l'estate si erano tutte esaurite e, su quel territorio, non vi erano altre sorgenti, già durante il primo giorno del loro arrivo la mia nonna portò a questi poveretti un secchio d'acqua. Gli uomini sfiniti all'inverosimile dalla sete si buttarono sul secchio creando confusione, che la guardia tedesca sedò sparando in aria con la mitragliatrice e scacciando la nonna. Affamati, i prigionieri strappavano tutta l'erba del prato ed anche le foglie dalle aiuole selvatiche intorno. Le cuocevano nella gavetta e alcuni le mangiavano. Questo temporaneo "lager-prato" non disponeva di una cinta, né era delineato da una rete di filo spinato. Di giorno, erano di guardia due o tre militari tedeschi con le armi automatiche, più per proteggere i prigionieri dalla rabbia della popolazione, in seguito alla strage fatta «sotto il carrubo", che per impedirgli la fuga. I prigionieri non avevano la forza neanche di camminare, figuriamoci per scappare. Infine, dove sarebbero potuti andare? Potevamo assistere a quello strazio solo guardando da dietro le persiane socchiuse. Era duro guardare a lungo quel dolore, ma ogni tanto vedevamo passare i locali che ingiuriavano e umiliavano i prigionieri in ogni modo. Vedevamo anche venire i tedeschi, ogni mattina, in un carro trainato da cavalli, non per portare cibo, ma per caricare i due-tre prigionieri morti durante la notte. Dove portassero i cadaveri, nessuno lo sapeva. Non si sapeva neanche dove cominciarono poi a portare anche i vivi. Lo facevano di notte quando uscire fuori di casa era vietato. Non c'erano luci, ad eccezione delle torce manuali delle guardie. In casa nostra, e anche in alcune altre del villaggio, nessuno colpevolizzava questi italiani per la strage "sotto il carrubo", anzi ci dispiaceva di non poterli aiutare. In loro, riconoscevamo i nostri cari rinchiusi nei campi dì concentramento tedeschi. Mai nessuno ha scritto alcunché di questo episodio, nonostante siano accaduti molti fatti simili. Quello che io ho precedentemente scritto, è stato fermato dalla censura. Sarebbe una gran cosa se qualcuno di questi prigionieri fosse riuscito a sopravvivere e fosse stato in grado di raccontare quello che accadde.
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Un anno più tardi, cominciò l'evacuazione dei magazzini dentro la fortezza di Radisevié a Cartolle. Nel frattempo, alcuni di quel gruppo di prigionieri italiani o di qualche altro - , riuscirono a guadagnare la fiducia dei tedeschi, godendo di una specie di status di "libertà vigilata''. Il loro compito era di caricare, dentro la fortezza, i carri con il materiale, di condurre gli asini fino al porto di Bjelilo che distava da lì 3 chilometri, e poi di scaricare gli animali. Le guardie tedesche li accompagnarono solo all'inizio, per alcuni giorni. Dopo, i tedeschi decisero di contare solo il numero dei carri partiti dalla fortezza e quello dei carri arrivati al porto. Un italiano approfittò dalla situazione per scappare. Dove per tre mesi si fos se nascosto dai tedeschi, dai partigiani ed anche dai locali che equiparavano tutti gli italiani con i fascisti, nessuno l'ha mai saputo. Ma più tardi si venne a sapere di cosa si nutriva ed anche che si chiamava "Gino". Il suo cognome non è mai stato conosciuto. Dunque, non veniva elencato né il materiale caricato alla fortezza, né quello che veniva scaricato al porto. Siccome il carico a volte conteneva del cibo, ogni volta, caricandolo, Gino ne nascondeva una piccola parte nell'angolo po steriore del carro che conduceva, facendo sempre in mod.o che il suo carro rimanesse l'ultimo della fila. Mentre transitava sopra la spiaggia Kakarac, una parte del paese completamente disabitata, rischiava la vita gettando, nel burrone e tra la folte siepi, quello che aveva nascosto. Dopo esser scappato dai tedeschi e finito tutte le scorte che aveva portato con sé, di notte o all'alba, andava a raccogliere di nascosto il cibo precedentemente gettato. I tedeschi non diedero importanza alla sua fuga e non avevano organizzato alcun inseguimento. In quel momento avevano preoccupazioni maggiori su come accelerare l'evacuazione del materiale. runica cosa che fecero, per impedire altre fughe, fu ripristinare l'uso delle guardie, davanti e dietro al convoglio. Dopo la ritirata dei tedeschi, Gino contattò un locale conosciuto durante i tragitti che faceva da prigioniero tedesco, guidando i muli. Gli confidò di voler raggiungere i partigiani e subito, il giorno dopo, gli si presentò l'occasione. Appresso ai tedeschi, che si erano già ritirati, da Lustizza arrivò a Cartolle la "Seconda brigata dalmata" partigiana. Al passare della brigata per la spiaggia dei Giurassevich, Gino, tutto raggiante, si mise a correre incontro alla brigata in marcia, agitando le braccia in segno di saluto, di gioia e di amicizia. [ufficiale partigiano nella testa della colonna, vedendo un italiano in uniforme, anche se disarmato, senza alcun cenno di discussione o domanda, tirò fuori la sua "parabellum", spinse la canna della pistola nella bocca di Gino e tirò il grilletto. rarma non fece fuoco e Gino si riprese dallo shock, facendo una risata. Probabilmente pensava si trattasse di uno scherzo, o di un tentativo di mettere alla prova il suo co raggio. In verità, il proiettile era rimasto incastrato nella canna della pistola e neanche un rÌuovo tentativo dell'ufficiale partigiano riuscì. Arrabbiato, prese il fucile automatico dal partigiano più vicino e lo scaricò su Gino, davanti ai molti locali accorsi dalle loro case per salutare i liberatori. Con gli scarponi, i partigiani spinsero il corpo di Gino dentro il canaletto sul ciglio della strada, lasciandolo lì in una grande pozza di sangue, senza badare se ancora respirasse o meno. I partigiani andarono via senza girarsi e, più tardi, i locali lo seppellirono dall'altra parte, disabitata, della strada. Alcuni ancora sanno dove si trova il posto, perché il se-
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polcro di Gino è rimasto non segnalato. Durante la "liberazione" di 1èodo e Cartolle, che allora erano due comuni separati, ci fu solo una perdita: Gino. Per beffa della sorte, di nuovo un italiano. L'episodio dimostra la codardia dell'italiano o di quell'ufficiale partigiano? Dopo il ritiro dei tedeschi verso Antivari, il Secondo e il Quarto battaglione partigiano delle Bocche perlustravano il territorio per stanare i gruppi nemici rimanenti. Non si verificarono resistenze. Tra le file tedesche in ritirata c'erano anche dei fascisti italiani. Di loro i tedeschi si fidavano, erano talmente compromessi da dover condividere la comune sorte. I tedeschi non disponevano di mezzi di trasporto per tutto il materiale che trasportavano. Per tale ragione, in ritirata condussero con loro anche un centinaio di prigionieri italiani, quelli più robusti e in salute, idonei ai lavori pesanti (dei più deboli si liberavano subito senza problemi). Di questi italiani non si fidavano, visto che si dileguavano appena gliene si presentava l'occasione, nonostante ogni dieci prigionieri ci fosse una guardia armata con fucile automatico. In genere, la guardia era un sottufficiale tedesco. Una notte, una "decina" di prigionieri italiani (veramente erano in 12), piano e in silenzio, strangolarono il guardiano tedesco che li accompagnava e scapparono, insieme a quello che trasportavano. Erano una specie di reparto logistico per trasporto alimentare, visto che ogni prigioniero, oltre alla borsetta con gli oggetti personali, sulle spalle portava uno zaino con 25 chilogrammi di derrate. Alcuni zaini contenevano un centinaio di porzioni di carne in scatola, ciascuna di 1/4 kg. La mattina successiva alla fuga, i tedeschi non ebbero il tempo né per fare appello, né per inseguire i fuggiaschi, che si erano nascosti in una casa distante dalla costa ad aspettare l' invasione Alleata, della quale tanto si parlava. Pagavano il vitto e l'alloggio ai proprietari locali con carne in scatola. Così passarono due giorni, felici di esser sopravvissuti alla guerra. La gioia era condivisa con i locali che facevano loro visita. A qualcuno, però, le loro intenzioni risultarono sospette e informarono i partigiani della loro presenza. All'apparire della colonna partigiana in movimento verso di loro, gli italiani li invitarono con gioia ad associarsi alla festa. Non facevano resistenza, non erano armati. C'era solo il fuci le automatico e la cintura con la parabellum, presi alla guardia tedesca uccisa, appesi al chiodo della camera. I partigiani del Secondo battaglione delle Bocche non vollero nemmeno sentire la loro storia. Dissero loro che dovevano portarli allo Stato maggiore, per assegnarli alle formazioni, e che avrebbero potuto portare appresso solo le borsette con gli oggetti personali. Appena girata la prima curva, si sentirono i colpi delle armi automatiche, ma non fu mai chiarito se ad ucciderli fossero stati i partigiani che li accompagnavano, o altri partigiani appostati in agguato. Il bottino venne portato via, mentre i corpi degli italiani uccisi furono abbandonati per strada. Svoltosi più o meno in questo modo, l'episodio fu raccontato, più come un gesto eroico che come un crimine efferato, da un combattente smobilitato del Secondo battaglione partigiano delle Bocche. Con la brigata, egli corse in seguito a mietere "nuovi atti eroici"; non sapeva dire chi avesse seppellito le vittime, né conosceva il luogo della sepoltura. Si sarebbero potuti almeno segnare i loro nomi, per dare modo alle famiglie di ritrovare le tombe dei loro cari. Questo episodio era noto e il racconto cominciò a diffondersi
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sottovoce, subito dopo la fine della guerra. Era vietato p,e rò denunciarlo e, tanto meno, scrivere dell'accaduto. Forse tra le vittime c'era qualcuno del gruppo di prigionieri che i tedeschi, l'anno prima, avevano tenuto in quel lager a cielo aperto, in condizioni disumane oltre ogni limite, per poi portarli via, chissà dove, a patire chissà quali sofferenze. Proprio sul finire della guerra, fu dato loro di fuggire, di ripararsi, di sopravvivere alla guerra, ma non di tornare alle loro famiglie e alle loro case, dove, probabilmente, avrebbero potuto dimenticare i dolori subiti. Ero rimasto terrificato dal racconto dell'ex combattente e credevo che nulla fosse stato da lui taciuto. Ho semplicemente trascritto le sue parole e le ho ripetute anche su queste pagine. Molto più tardi, però, ho sentito un'altra versione dell'accaduto, dallo scritto di Marko Ivanovié9 1. Qui lo riporto per dovere di verità: "Dodici militari italiani che non volevano ritirarsi con i tedeschi, attendevano i partigiani a Spie con l'intenzione di passare tra le loro fila. Non appena i partigiani furono sistemati nel palazzo della chiesa di Maine, un gruppo di partigiani portò quei poveretti, con le mani legate, sullo spiazzo proprio davanti al palazzo. Strettamente legati, gli italiani venivano malmenati dai partigiani con calci di fucile. Piangevano e gridavano come bambini, alcuni cercavano di difendersi dai colpi con le gambe e di colpire a loro volta, ma non ci riuscivano. In un batter d'occhio sono stati tutti uccisi, i loro crani fracassati a colpi di calci degli scarponi e dei fucili. Nessun cranio è rimasto intero, m ente sangue e cervello si spargevano tutt'intorno. Alla scena di indicibile ferocia, gli abitanti di Maine assistevano dalle finestre delle loro case, non avevano mai visto nella loro vita qualcosa di simile e, sconvolti, voltavano la testa da tale orrore.... I partigiani, dopo questo "gesto': sistemarono i tavoli sullo spiazzo e tranquillamente pranzarono con il manzo allo spiedo che si erano fatt i preparare.. :' Uno storico coscienzioso potrebbe fare una ricerca per poter dare conferma all'una o all'altra versione dei fatti, per poter individuare i mandanti e gli esecutori materiali del crimine. Esiste un'annotazione del Diario del giorno della brigata, sotto la data del 24 novembre 1944. C'è un breve scritto che dice: "Il Secondo battaglione è arrivato a l3ar. Sulla strada, sono stati catturati 12 fascisti italiani che sono stati fùcilati. A Bar, sono stati catturati 140 cetnici, di loro ne sono stati fucilati 100 .. :: Scappando dai tedeschi, i dodici italiani avevano dimostrato di essere antifascisti. È strano ''l'errore" dello scrivano del Diario, dal quale si evince che anche sul finire della guerra i prigionieri di guerra venivano "fucilati':
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Op. cit. pag. 108.
26. Il destino dei passeggeri e della nave "Cettigne"
Circa mezz'anno prima della data ufficiale della fine della guerra, dall'inizio del dicembre 1944, nelle Bocche aveva ripreso a scorrere la vita, quasi come ai tempi di pace. Inoltre, era stata ripristinata la regolare linea di trasporto marittimo nella baia. In molti bocchesi si era rifatta viva la coscienza. fodio verso gli italiani soccombeva davanti all'amicizia. Prima di tutto, l'amicizia nei confronti degli italiani passati tra le file della Resistenza jugoslava che, dall'entroterra, cominciavano a scendere nelle Bocche. Andavano a Ragusa dove si trovava il punto di raccolta, per il rientro nel libero sud Italia. Non potendo arrivare subito l'intera divisione, per primi arrivavano i combattenti scelti. Sulla nave da trasporto civile "Cettigné', che solo dal giorno prima aveva com i nciato a transitare sulla linea Cattaro - Risano - Teodo - Bianca - Castelnuovo e viceversa, c'erano circa 30 partigiani. Tra di loro si trovava un gruppo di 17 italiani, allegri, combattenti del Primo battaglione della Quarta brigata della divisione partigiana "Garibaldi': Erano stati scelti per tornare tra i primi, perché avevano frequentato e concluso la scuola politica partigiana. Sopravvissuti a più di 4 anni di orrori di guerra, finalmente tornavano a casa e la loro felicità era senza fine. Le famiglie ne erano già state informate e li attendevano. Sulla nave si trovavano anche una decina di prigionieri tedeschi che venivano portati a Combur. Altre 40 persone erano civili, per la maggior parte donne e bambini, oltre ai membri dell'equipaggio. La nave era partita e lentamente cominciava ad allontanarsi dal molo, quando sul molo arrivò una signora che non conoscevo, cominciando ad agitare le braccia per far fermare la nave. Il comandante la notò, fermò la nave e la riportò agli ormeggi per far salire a bordo la signora. Un momento dopo, quando la nave si era già allontanata dalla costa, sul molo accorsero altre due signore ritardatarie. Venivano da Cartolle, dove le navi ancora non attraccavano, visto che non tutte le acque della baia erano state ripulite dalle mine. Le signore erano le mie cugine, Stane e Ljubica, figlie di Lazo Ivov Kostié, che intendevano andare a Djenoviéi. Furibonde per aver perso ]a nave, litigavano accesamente tra di loro, tanto che a fatica riuscii a calmarle. Andarono via di cattivissimo umore perché non erano riuscite nell'intento di consegnare un pacco al loro (e al mio cugino) Luka Kostié, che lavorava sulla nave come capo macchinista, la funzione gerarchicamente piLl alta dopo quella del comandante. Dopo la partenza della nave, poche persone erano rimaste sulla spiaggia, ma dalla nave ancora molti salutavano agitando gioiosamente le braccia, come alla partenza delle navi transoceaniche. Solo che quei distacchi di solito non erano molto allegri. Pertanto, tutta questa a!Jegria non lasciava presagire nulla di buono. Mentre la nave si avvicinava a Bianca, circa alle 9, apparve un lampo di fuoco, gigantesco, e subito dopo si sentì una tremenda esplosione. Sul posto si formò un
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alto geyser, mentre un denso fumo (o vapore) copriva la nave "Cettigne". Poco dopo, il vento portò via il fumo e le acque ribollenti del mare si calmarono. Ma la nave "Cettigne" era sparita. Da Teodo c'era troppa distanza per poter scorgere qualche resto galleggiante. Da subito fu chiaro che la nave "Cettigne" aveva toccato una mina magnetica tedesca, perché la baia era stata dragata e ripulita dalle mine galleggianti. Su quella linea marittima già da giorni transitavano le navi, ma erano navi di legno, i vecchi trabaccoli, mentre la "Cettigne" era un piccolo piroscafo in metallo. Quanta fosse la potenza delle mine navali si poteva capirlo paragonandole alle mine anticarro. Mentre le mine anticarro contenevano 2-3 kg di esplosivo, quelle navali magnetiche ne avevano da 800 a 1.500 kg. Quando sul posto della tragedia arrivarono le prime due barche, la più veloce (era una ML 71) caricò i pochi sopravvissuti, gravemente feriti, e con urgenza li portò all'ospedale di Melligne. raltra barca raccolse i corpi di 13 morti che galleggiavano, terribilmente mutilati, e li trasportò all'Arsenale sul molo 2. All'ospedale militare di Melligne, i medici riuscirono a salvare la vita a Pianezza Marco, gravemente ferito, commissario politico del 1° battaglione della 4• brigata della divisione "Garibaldi" e a Foglio Renato, appartenente alla stessa unità. Al momento dell'esplosione, loro due si trovavano sulla poppa. Probabilmente avrebbero potuto esserci meno morti, se il freddo di dicembre non avesse costretto tutti a cercare riparo nel salone della nave o sottocoperta. Degli italiani morti nell'esplosione, l'unico che fu possibile identificare fu Ricci Mazzino. Il mare aveva portato a galla il suo corpo orribilmente mutilato, ma i suoi documenti erano ancora leggibili. A me interessava di più il destino di mio cugino Luka Ivov Kostié. Egli si trovava nel reparto macchine, proprio sul posto dove la mina era esplosa, e non ci si poteva aspettare di trovare alcuna traccia dei suoi resti. Solo il 15 giugno 1956, dunque dopo più di un decennio, sul posto giunse una gru per cercare di tirare dal fondo del mare i resti della nave. In parte l'operazione riuscì. Solo dopo il secondo tentativo, si riuscì a tirare fuori prima una e poi l'altra parte dell'imbarcazione, che si era spezzata. La gru posò tutto quanto su una vecchia carretta del mare (penso che si chiamasse "Radnik") con il pancione scavato, portata lì per quella occasione con il rimorchio e poi lasciata ormeggiata nella laguna di Cartolle, tra la spiaggia e l'isola di San Gabriele, per attendere le varie commissioni e i vari rimorchiatori. Ebbi l'occasione di salire su un lato della carretta, ma le guardie presenti non mi permisero di scendere nella stiva. Dall'alto, vista dal bordo della nave, la scena che si presentava nelle sue viscere nere, il cui fondo era ricoperto dal fango che lentamente scivolava fuori dai resti della "Cettigne", era orrendo. Dalla massa di ferro in frantumi, sporgevano parti degli scheletri e dei cran i staccati dal corpo. C'erano molti stracci di vestiti: maschili e femminili, borghesi e militari, ma non vicino agli scheletri, cosa che avrebbe potuto complicare ulteriormente un'eventuale identificazione. Nel fango si potevano scorgere anche scarponi, cinture, fucili, borsette, borracce e altro. Dopo l'ispezione della commissione giunta sul posto, tutti i resti umani furo no raccolti, ripuliti dal fango e sepolti nell'ossario del cim itero cattolico di Lastua Inferiore.
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Sull'ossario fu installata una targa memoriale larga 81 cm e alta 51 cm, con una scritta comune, perché non era possibile sapere tutti i nomi dei morti. Lì, insieme, furono sepolti i resti dei civili e dei militari, dei bocchesi, degli italiani e dei tedeschi. Pertanto, questo è un ossario internazionale. Il testo dice: "In questo sepolcro si trovano i resti dei numerosi combattenti della resistenza, oltre che dei civili, tutti periti a bordo della nave "Cettigne'', nella baia di Teodo, il 1O dicembre 1944. Che su loro brilli eterna gloria e che le generazioni future portino un indelebile ricordo della loro figura e del sacrificio che fecero svolgendo il loro dovere per liberare la nostra patria. L'Associazione Combattenti, Comune di Teodo" Su una lastra pendente di marmo bianco, larga 37 cm e alta 30 cm, messa sul coperchio dell'ossario, sono stati scritti 15 nomi con la data e il luogo di nascita. L'identificazione allora non era poss.ibile, ma difficilmente lo sarebbe anche ai nostri giorni rnn i mezzi tecnologici avanzati. Però, a differenza di molti altri morti rimasti sconosciuti, delle vittime di questa tragedia si conoscono i nomi e li possiamo elencare, secondo il testo pubblicato a "Glasnik" di Subnor (Gazzetta dell'Associazione combattentì jugoslavi - n.d.t.) n. 23/2009: 1.
Balmas Luigi, 05.03.1921. Bricherasio (Torino), soldato semplice, 4" batteria, Gruppo "Aosta"; 2. Bellavista Adriano, 05.08.1912. Valganna (Varese), sergente, gruppo sanitario 609, ospedale della divisione "Taurinense" 3. Belli Luigi, 01.10.1920, Calasca (Novara), soldato semplice, 4° reggimento alpini, Btg. "Intd'; 4. Biani Giuseppe, 02. l 1. 1918, Pescara (Pescara), militare semplice, gruppo Sos"; 5. Bracchi Vittorio, 03.09.1920, Merler (Vercelli), caporale, llP compagnia T.R.T l" brigata alpina "Taurinense" - genio. 6. Cena Mario, 01.01.1917, Plajosa (Argentina), soldato semplice, artigliere, di visione alpina; 7. Costa Mario, 13.09.1923. Santo Stefano Roero (Cuneo), soldato semplice, 4° reggimento alpino, divisione Btg. "Ivrea"; 8. Didero Mario, 05.04.1919, Chiomonte (Torino), caporale, 3° reggimento alpino, Btg. "Exilles"; 9. Panella Luigi, 21.09.1911, Morcone (Benevento), finanziere, 15° battaglione Guardia di finanza. 10. Perotto Mario Maurizio, 20.03.1918. Azeglio (Torino), sergente, 4° reggimento alpini, Btg. "Ivrea"; 11. Ricci Mazzino, 18. 11.1920, Massa (Carrara), aiutante di campo, carabiniere, 11 ° battaglione autonomo. 12. Rumor Carlo, 13.01.1921, Agordo (Belluno), sergente, reggimento d'artiglieria alpina, gruppo "Aosta"; 135
13. Salvestrini Ezio, 18.04. 1915, Vaglia (Firenze), sergente, reggimento (-l'artiglieria, divisione "Venezia"; 14. Traglia Giovanni, 20.10.1918, Cario Canavese (Torino), soldato semplice, ufficio di guardia, divisione "Taurinense"; 15. Quirico Michele, 01.10.1920, Asti, soldato semplice, 3° reggimento alpino, Btg. "Fenestrelle". Ci sono alcune differenze tra questo elenco e quello pubblicato nel 1983, che non disponeva dei dati giusti ad eccezione dei nomi, che già allora si conoscevano, di 14 vittime. Le vittime .italiane erano almeno 17. Nel precedente el.enco mancano, però, nomi di Banias Bruno, Didore Luigi e Giurico Giuseppe, iscritti sull'elenco precedente con i 14 nomi. Su quello, però, non ci sono i nomi di Dalmas Luigi, Didero Marco e Quirico Michele. Tutti gli altri nomi si trovano su entrambi gli elenchi. Probabilmente, non si saprà mai il numero degli italiani che lasciarono la vita sull'aspra terra dei Balcani. Ma vorrei concludere questo triste capitolo con un dato un poco più allegro. Non tutti i morti sul suolo straniero morirono di una morte tragica. Uno di loro (ma non l'unico) era Vincenzo Del Sordo. Con la divisa italiana e poi per tutta la guerra, egli non sparò mai un colpo, né mai fece male ad alcuno in nessun modo. Per tutto il tempo, fino all'armistizio d'Italia, fece r autista del camion. Poi lo catturarono i tedeschi. Riuscì a raggiungere i partigiani e lì, di nuovo, ebbe il compito di guidare camion. Dopo la guerra, Vincenzo non tornò in Italia. Rimase a vivere a Teodo dove formò la sua famiglia. Lavorava come autista di Pronto soccorso. l suoi discendenti oggi vivono a Belgrado e nelle Bocche di Cattaro. Per tutta la vita fu stimato come uomo tranquillo e laborioso, cittadino apolitico. Era un regolare donatore di sangue e si diede da fare in molte associazioni umanitarie. Qui merita di avere scritto il suo nome. Quando si discuteva del cambio dei nomi delle strade di Teodo, ho fatto la seguente proposta: "Durante la guerra qui c'erano tanti morti la maggior parte italiani, caduti nella battaglia contro i tedeschi. I loro resti sono sepolti a Lastua Inferiore e lì una strada potrebbe essere intitolata a loro nome': In quell'ossario si trovano i resti degli italiani periti sulla nave "Cettigne': ma il nome di una strada andava in memoria di tutti gli italiani che lasciarono la vita sul suolo di Teodo, prima di tutto di quelli che eroicamente morirono a Lepetane. Non ho ricevuto mai né una risposta, né alcun commento. Però, tutto [ impegno profuso ha contribuito affinché l'associazione "Matica Boke" (l'Associazione istituzionale che raccoglie i dati su tutti i cittadini storicamente presenti sul territorio - n.d.t.) non si dimenticasse della minoranza italiana. Nel novembre 2007, l'Associazione ha invitato i loro rappresentanti all'Assemblea elettiva e, per l'occasione, ha pubblicato uno scritto sulla minoranza italiana nelle Bocche.
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Elenchi dei bocchesi, prigionieri di «Presa" Elenco dei bocchesi internati a "Presa" - Elenco di Vlado Porobìc corretto (non comprende il Comune di Budua)
Comune di Cattaro Andrijasevié Stevo Bartulovié Anto Brajié Vicko Bjeladinovié Petar Brankovié Ilija Brkanovié Anto Brkanovié Pavo Buj Slobo Buj Strevo Bukilica Petar Vafoé Filip Veselinovié Mirko Veselinovié Petar Vidovié Tlija Vrbica Milo Vukovié Vojo Vukovié Filip Vukasinovié Spiro Grgurevié B. Anto Grgurevié Luka Grgurevié Petar Doncié Milo Doncié Jozo Djurkovié Gavro
Zdraljevié Vaso Ilié N. Pero Katurié Veselin Kovacié Djuro Kovijanié Risto Kraljevié Milo Lazarevié Vladan Lazovié Nikola Marinié Bozo Markovié Mirko .Markovié Slavko Matkovié Anto Milinovié Branko Milinovié Miso Milié Lako Milovanovié Vlado Moskov Miso Moskov Nedjeljko Moskov Spiro Mracevié Jovo Nikolié Djoko Nikolié Ilija Pavicevié Vido Petkovié Djoko
Petkovié Simo Petrovié K. Boio Petrovié Gracija Petrovié T. Krsto Petrovié K. Niko Petrovié T. Niko Petrovié Pero Petrovié Roko Radovié Mitar Sekulovié Spiro Stanié Bofo Starovié Luka Stjepovié Petar Stojanov Frano Subotié Veselin Talijancié Frano Todorovié Djuro éelebié Bozo éelebié Mujo éelovié Vaso éirkovié Spiro Franovié Bozo Hrizokos Leko Shirié Vojo (totale 72)
Comune di Castelnuovo Brajkovié Djuro Brajkovié Kosto Benusi Melhior Velas Vuko
Djurié Dusan Zlokovié Dusan Jankovié Svetozar Jovanovié Tripo
Mrdjen Dj uro Mrsié Krsto Polovina Milan Porobié Vlado
137
Gregovié Savo Doklestié Branko Doldestié Mirko Defornera Pavo
Kisié Luka Kisié Mitar Klisura Ivan Korovié Pero
Radecki Antun Sekulovié Spiro Tosié Nikola (totale 23)
Comune di Teodo Bjelan Anto Bjedinovié Nikola Bogdanovié Blaio Buéin Djuro Vukovié Vlado Vukovié Frano Ivovié Lujo
Jovovié Savo Jokié Rade Kovacevié Milan Kostié NJirko Markovié Blazo Poropat Miéo Radovié Bozo
Radovié Risto Radosevié Tripo Sindik Marko Sindik Mirko Sindik Tripo Starcevié Lazar (totale 20) 72 + 23 + 20
= 115
Il numero degli internati nell'elenco è di 115, su un totale di 150 internati. I.:elenco non comprende gli internati originari di Grebaglio, tranne quelli che abitavano a Cattaro. Non ci sono neanche i nomi degli internati abitanti di Budua, di Pastrovicchio e degli altri patrioti del territorio della provincia di Budua, che erano tanti. Alcuni dati sono andati completamente persi e ce ne sono altri, sconosciuti all'autore. Non è escluso che molte altre persone siano state imprigionate, alcune anche altrove e non in Presa, in altre prigioni e campi, che erano numerosi. Per esempio, Arezina Nikola è uno il cui nome non figura sull'elenco dei bocchesi internati. Ma lui è stato arrestato nelle Bocche ed è stato deportato a Presa, come testimonia la Cartolina postale del 24 settembre 1941.
1.38
28.
Cartoline postali censurate
Anche durante le grandi crisi economiche, ho resistito alla tentazione e sono riuscito a conservare e a non vendere, nonostante numerose offerte d'acquisto molto favorevoli, una collezione di valore storico inestimabile: le cartoline di guerra e quelle semi illustrate che Mirko Kostié riceveva dalla famiglia, o che scriveva lui stesso alla famiglia, dalle varie prigioni e campi della Seconda guerra mondiale. Mixko conservava le cartoline che riceveva da casa, e a casa conservavano quelle ricevute da Mirko. In questo modo, ci sono rimaste 56 cartoline, di cui otto cartoline semplici e tre semi illustrate si riferiscono a Presa (campo di concentramento N° 22 A), tutte del 1941. Delle restanti, tre sono del 1942 e tutte le altre del 1943. Si riferiscono alla prigione di Cattaro (carceri di Cattaro), a quella di Mamula (N° 12), di Prevlaka - Ponta Ostra e al reparto sanitario carcerario presso l'Ospedale militare italiano di Melligne. Escluse quelle di Presa, Mirko ha spedito 26 cartoline, ricevendone 19. Naturalmente, qui non saranno pubblicate tutte, ma soltanto quelle relative a Presa. Di queste, Mirko ha spedito a casa tre cartoline militari (Cartolina postale per le forze armate) e tre semi illustrate delle Poste albanesi (Karte postare me pergiegje). Dal mese di seltembre, da quando gli è stato permesso di ricevere e di scrivere due cartoline al mese, Mirko ne ha ricevute solo quattro, ovvero una ogni due delle otto cartoline che ha inviato: la censura non le ha fatte passare. Per stopparle, bastava scrivere sulla cartolina «prigione", o "campo di concentramento" o qualcosa di simile e non: «Campo Presa''. Bastava anche che il testo fosse scritto in caratteri cirillici, per far finire la cartolina nel secchio per rifiuti, prima ancora che la censura leggesse il contenuto. Mirko ha ricevuto anche una cartolina m ilitare non censurata, una vera rarità da collezione. Come documento storico, di seguito ci saranno le immagini di tutte le prime pagine delle cartoline. Il testo è spesso sbiadito e difficilmente comprensibile. Pertanto, verrà trascritto 92 .
92 NOTA DEL TRADUTTOJZE: alcune cartoli ne, quelle contrassegnate dall'asterisco, contengono apparentemente degli errori. Si deve, però, comprendere che si tratta di cartoline scritte direttamente in italiano da Mirko, per motivazioni legate alla censura. Pur conoscendo Mirko molto bene l'italiano parlato, qualche imprecisione nel testo è determinata dall'approssimazione con cui si esprimeva nell' ita liano scritto. Si è preferito mantenere tutta la commovente autenticità delle lettere, ragion per cui si è deciso di non correggere gli errori nel corso della traduzio ne.
139
1'01.12. Mirko a Nada (moglie - n.d.t.) "Cara mia Nada 93 ,
Io sto bene e sano. Per rne non pensate niente. Ho ricevuto 200 Lit. Prego (illeggibile) giusto come si trovano Vasco, Vera e Olga, perché voglio sapere la verità. Se sono vivi e sani che non scrivano qualche parole? Scrivi mi come prima nella lettera recomandata le pensi che (illeggibile) ancora spedisci mi la roba invernale. Scrivi mi sperro! Molti saluti e baci a tutti vostro Mirco''. il 24. 11. Mirko a Nada "Cara Nada, scrivetemi una lettera raccomandata. Vi mando questo scritto attraverso Djoko Petkovié, che lo imbucherà a Cattaro. Per me non temete, sono sano. Sono ben vestito e con buone scarpe. Il cibo è buono e ancora mi è rimasto del denaro, lo giuro. Dunque, per me non vi preoccupate ma badate a tutti voi lì. Ora vi bacia e abbraccia Mirko''. Sulla cartolina è aggiunto, sopra il testo e non sotto la firma: "Noi speriamo di tornare in questi giorni, se per caso la permanenza non verrà prolungata".
il 19 .11. Mirko a Vasco94 "Caro mio figlio,
Io sto benisimo con salute. Scrivi mi una cartolina racomandata in italijano. Per me non pensate niente, fate mi sapere come siete voi tutti in familia. Molti saluti e baci a tutti dal vostro Mirco". il 22. 10. Mirko a Nada "Cari miei, Oggi ho ricevuto la vostra lettera che mi ha fatto ritornare di buon umore, visto che vi so tutti bene e in salute. Mi sorprende che Vasco e Vera non mi hanno scritto qualche parola, voglio che subito mi scrivano una cartolina. Trascrivi di persona l'indirizzo che ora ti mando. Giorno e notte resto in pensiero per voi tutti, specialmente per la piccola, per il fatto che è dimagrita tanto. Abbiate cura di lei! Nada, bada ai nostri figli e alla tua salute che, se Dio vuole e mi fanno tornare tra un po: riprenderò io ad aver cura di voi. A tutti vi bacia il vostro Mirko''. il 27.09. Mirko a Nada (moglie)95 "Cari miei, Io sto bene e sono sano e non dovete pensare. Per voi penso assai perche fino oggi non ho ricevuto alcuna noticia. P rego appena ricevete questa cartolina di scrivermi come state tutti. Molti saluti e baci di vostro Mirko.
93
9'1 95
140
Nota del traduttore: il testo è lasciato come scritto in originale, se11za interventi del traduttore. Idem. Idem.
11.11. Mirko a Nada96 Cara Nada, Sono sano e sto bene. Per me non pensate niente. ho paura come sta Vasco e tutti voi. Credo che veniro presto a Cartoli. Molti saluti e baci di vostro Mirko': 31. l O Palilo Paglia a Mirko Il vicebrigadiere risponde da Cartolle ad un precedente messaggio, scrive con caratteri minuscoli e quasi illeggibili, sicché risulta comprensibile soltanto qualche parola. Il testo è molto difficile da tradurre con precisione. In breve, ringrazia molto per qualche gentilezza ricevuta e informa Mirko che tutta la sua famiglia sta bene, il che gli è stato confermato anche dalla sorella di Mirko, Petrica, che quella mattina il vicebrigadiere ha incontrato. Invia a Mirko calorosi saluti, per citarlo: «saluti carissimi, Paglia Vry': (Questa è l'unica cartolina che si possa trovare nelle collezioni di corrispondenza con prigionieri o internati, che non porta, da nessuna parte - posteriore o di facciata - , né il timbro lineare rettangolare, né il timbro tondo, ma neanche la scritta: CENSURATO). il 20.11. Maso di Bianca a Mirko "Diverse volte ho scritto agli amici nel campo, ma nulla ho ricevuto da voi. I tuoi stanno bene. Spero di incontrarti presto. Molti saluti a tutti, specialmente a Veselin, Gavro, Kovijanié, Lujo ecc. tuo Maso''. (Sull'elenco degli internati ci sono nomi di due Veselin: Katurié e Subotié, oltre che di Gavro Djurkovié, di Kovijanié Risto e di Lujo Ivovié). senza data, probabilmente del 02.11, Nada a Mirko "Caro Mirko, Noi tutti stiamo bene. Non ti preoccupare per noi. Tu come stai? non ci scrivi più. Olgica sempre chiama il tuo nome ed io spero, ogni giorno più, di vederti presto. I bambini ancora non vanno a scuola. Laza ci scrive spesso ed anche Drage. Abbi cura di te e abbi ancora un po' di pazienza, andrà tutto bene, se Dio lo vuole. A presto, Nada". (Olgica è la figlia più piccola di Mirko, allora aveva otto mesi. Drage è la sorella maggiore di Mirko che, in quel periodo, abitava a Traù. Anche questa cartolina dimostra la scarsità di carta, perché ogni spazio vuoto, nel campo, veniva usato per le annotazioni). il 24.09. Sorella di Mirko, Petrica, a Nikola Arezina "Vi prego, signor Nikola, perdonatemi per il disturbo. Noi tutti stiamo bene e si tira avanti, come vostra figlia Eva. Lazo (fratello maggiore di Petrica e di Mirko) ci scrive che anche loro stanno bene. Di Mirko abbiamo ricevu-
96
Idem.
141
to i saluti e siamo in pensiero, se ci sarà possibile, gli manderemo altro denaro. Petrica a tutti voi di Cartolle manda i saluti''. (Nikola Arezina era ufficiale dell'esercito dell'ex Regno jugoslavo e venne fatto prigioniero subito dopo la disfatta di aprile. Stava a Presa ancora prima dell'arrivo dei civili delle Bocche e poteva ricevere la posta prima che ciò venisse loro concesso. Questa cartolina è importante, vjsto che la facciata della stessa ha degli spazi vuoti e Mirko l'ha usata per comporre la bozza della poesia "A mia madre", in seguito pubblicata sul giornale del campo "Presa" da Risto Kovijanié) .
il 22.11 Vasko a Mirko "Caro papà, Noi stiamo tutti, grazie a Dio, molto bene. Aspettiamo con gioia di rivederti, perché al Comune ci hanno detto che sei stato rilasciato in libertà. Per i vestiti ci hanno detto che non li dobbiamo più spedire. Abbi cura della tua salute, per rivederci felicemente e in allegria. Ti vuole bene tuo figlio Vasko''. La parte vuota della facciata è riempita con i salluti: "Ti saluta la mamma a cui manchi:' "lo e la tua figlia pit'.1 piccola ti attendiamo con gioia, Nada:' E poi di seguito, con le lettere maiuscole e in caratteri cirillici dell'allieva della prima elementare: VERA. (Passerà un altro mese di impaziente attesa prima del rientro di Mirko a casa. Dopo il rilascio dal campo, lo fermarono per qualche giorno alla prigione di Cattaro).
142
. 29.
Storiografia del campo di concentramento "Presa"
Questo capitolo è più di interesse storico scientifico e pertanto si trova nella parte finale del libro. La sua collocazione è giusta anche dal punto di vista temporale, visto che la storiografia scientifica sul periodo trattato è stata scritta molto tempo dopo lo svolgimento dei fatti. Mentre cercavo le fonti sul campo Presa, il primo libro che ho trovato, e che mi ha fatto sperare di riuscire a sapere qualche cosa su quel campo, è stato quello di Dusan Zivkovié97, di 458 pagine, pubblicato nel 1964. Però mi ha molto deluso, visto che non conteneva nulla di Presa, il primo campo dove i bocchesi sono stati internati. Zivkovié non ha nemmeno menzionato il campo Presa, mentre invece ha accennato al campo Kavaja, sempre in Albania, dove sono stati internati gli ebrei. In ogni caso, qualche cosa di questo libro mi è stata utile, almeno per i dati indirettamente legati a Preza. Nel frattempo, sono cominciate le ricerche sull'identità dell'autore della poesia patriottica "Messaggio al tiranno': firmata con "Mir-ko': Il problema fu risolto con la testimonianza di Risto Kovijanié, di cui si è già precedentemente parlato. Le parole di questo eminente professore e storico, nonché ex internato di Presa, hanno suscitato molto interesse per la figura di M irko Kostié, del quale molto è stato scritto. In quel periodo, sono venuto a sapere dell'esistenza di un testo ined ito, un esemplare unico intitolato "Presa': scritto come raccolta dallo stesso Risto Kovijanié. Inoltre, ho scoperto che tra le pagine del testo, c'è una tenerissima poesia intitolata "A mia Madre': sempre firmata con il "Mir-ko", con la data del 28.10.1941. Del successo di questa poesia e di quanto si diffondeva, con le numerose trascrizioni a mano, superando la cintura del campo Presa e spargendosi tra gli internati negli altri campi, ha scritto il pubblicista V]ado Vujovié. Siccome Kovijanié ha anche pubblicato il testo di questa poesia insieme alla spiegazione sull'autore della stessa, non avevo fretta di leggere il testo completo del libro inedito di Kovijanié intitolato ''Presa': Ciò specialmente dopo il pesante terremoto che ha colpito le Bocche nell'aprile 1979, che ha distrutto la casa di Kovijanié. Lui aspettava d i vedersi assegnato un alJoggio temporaneo ed io, allora direttore dell'azienda di 'feodo per la ricostruzione, avevo troppo lavoro e troppe preoccupazioni per poter pensare ad altro, figuriamoci ad un libro. Una volta fi nita l'opera di ricostruzione delle strutture più importanti della città, ho raggiunto l'età pensionabile. Così sono diventato pensionato e il corso successivo della ricostruzione della città l'ho lasciato agli ingegneri piL1 giovani. E proprio in quel periodo è capitato lo svolgimento del Convegno scientifico: «Movimento dei lavoratori, guerra di liberazione nazional-popolare e rivoluzione nelle Bocche di Cattaro':
97
Op. cit.
143
Sebbene fino a quel tempo avessi pubblicato poche cose sul tema, gli organizzatori sapevano che disponevo di molto materiale e mi invitarono a partecipare. Dovevo parlare sui fatti svoltisi durante la guerra, nel mio paese Cartolle. Accettai l'invito, sicuro di allargare le mie conoscenze sull'argomento e proposi due temi, tutti e due accettati dalla commissione, composta da dieci persone. Il Convegno si svolgeva a Castelnuovo e durava 3 giorni: 26, 27 e 28 di novembre 1981. Durante il Convegno sentii molti dati, alcuni veri, altri molto sospetti, ma non quelli che desideravo e speravo, quelli sul campo Presa. Qualche anno prima dello svolgimento del Convegno, avevo scritto alcuni testi sotto forma di feuilleton, che attendevano la pubblicazione. Probabilmente non sarebbero mai stati pubblicati, senza quel Convegno. Il Convegno si concluse il 29 novembre e sulle pagine del quotidiano «Pobjeda"98 cominciarono la pubblicazione del mio feuilleton, il 9 d icembre dello stesso anno 1981. Portava il titolo: "Cronologia di guerra nei villaggi di Cartolle: un contributo per accertare la verità su fatti importanti''. Nel feuilleton erano descritti 76 importanti eventi locali, accaduti durante quattro anni di guerra; fu pubblicato in 17 puntate, ogni volta su una intera pagina del giornale. Neanche lì c'era nulla sul campo Presa, tranne una foto di gruppo di 22 internati, insieme nel recinto di fìlo spinato, con la scritta di accompagnamento: "I bocchesi nel campo Presa in Albania, agosto 1941 ". Sulla fine del 1983 fu pubblicata la Raccolta99 degli interventi fatti durante il Convegno scientitìco. Era composta di oltre 1.300 pagine divise in due libri. Furono pubblicati, per intero, due miei testi e l'intervento. Ma di Presa non ottenni di sapere quasi nulla di più di quanto già sapevo, tranne qualche informazione nuova, dall'intervento di Vlado Porobié. Non nascosi la mia delusione e sul tema discussi con il capo redattore che stilava le raccolte, il prof. dr Jovan Bojovié. Gli spiegai il mio stato d'animo, che rifletteva i rimorsi di coscienza (relativa alle verità mancanti nei confronti degli italiani - n.d.t.) e il mio desiderio d i scrivere sul campo di Presa. Ma non trovavo le fonti . Gli chiesi aiuto, volevo mi indicasse dove andare a cercare. M i diede ragione, ma mi poteva aiutare, come mi prornise, solo organizzando un altro incontro scientifico sul tema delle carceri e dei campi durante la guerra. Quel tema era stato già toccato durante il Convegno precedente, ma nessuno aveva par.lato di Presa. Non so se per le mie obbiezioni o per iniziativa di qualcun altro, ma Bojovié ritenne che tralasciare Presa fosse stato un errore e mantenne la parola data . Così fu organizzato un nuovo Convegno scientifico di due giorni, sempre a Castelnuovo, il 20 e 21 dicembre 1985. Il tema del Convegno era: "Carceri e campi sul territorio delle Bocche di Cattaro e i bocchesi nelle carceri e nei campi fuori delle Bocche 1941-1945". Ero tra i partecipanti. Per l'occasione avevo preparato due testi e l'intervento. Non parlai di Presa, ma di Mamula, di Prevlaka (Punta ostro) e del carcere tem -
98 99
144
Op. cit. Op. cit.
poraneo di Cartolle, temi che conoscevo molto bene. La Raccolta wo fu pubblicata nel 1987, dunque erano passati sei lunghi anni di attesa per sapere di più sul campo Presa. Ma ciò non si era ancora realizzato. Sinceramente, dopo questi due convegn i sapevo un po' più di prima, ma non guanto speravo e non di quanto avevo bisogno per poter scrivere un libro. Ovviamente, mi sono dato da fare, lavorando su altri libri. Ma il pensiero sul campo di Presa era sempre presente. Invano cercavo nuove informazioni n el Lessico della ex Jugoslavia. Speravo di trovare qualcosa nel nuovo Lessico montenegrino in cinque libri, composto appena prima dello svolgimento del referendum sul distacco dalla Serbia . .Ma neanche lì c'era spazio per raccontare del luogo in cui, rinchiusi, soffrirono molti bocchesi, durante il primo anno della Seconda guerra mondiale. Come ultima spiaggia mi era rimasto di fare un tentativo su Internet. Purtroppo, neanche lì trovai nul la d'interessante sul campo Presa durante il 1941. Trovai alcune informazioni, rna sul l'anno successivo, il che non mi era utile, v isto che nel 1942 in quel campo i bocchesi non c'erano. Questo significava però che il campo esistette anche dopo il trasferimento dei bocchesi, il che permise di correggere il dato fino ad allora fornito (dalla storiografia locale - n.d.t.) che parlava della chiusura del campo subito dopo la partenza dei bocchesi. In verità, il campo veniva chiuso soltanto durante il periodo invernale, visto che, sotto le tende e senza riscaldamento, la vita non sarebbe stata sosteni.bile. Bisogna menzionare anche i dati generali forniti dalla Federazione internazionale della Croce Rossa: Secondo il rapporto del 18.02.1942, dal Montenegro vennero trasportate 904 persone a] campo di Klos e altre 517 a quello di Presa. Nell'aprile 1942, da Pristina a Presa furono portati 79 ebrei. Secondo il libro disponibile su Internet "Fascismo, l'impero d'Europa" di David Radonja e Adrian Belton, il 31 luglio 1941 c'erano dei montenegrini: 900 maschi e 300 donne internati a Klos, 300 a Presa, 100 a Kavaja. I d ati più importanti su Presa riportati nel le Raccolte: - Raccolta del Convegno scientifico del 26 - 28 novembre 1981 (pubblicata nel 1983 a Casteln uovo in due libri) 10 1 Nel libro primo 102, Pero I3ukilica, ex detenuto, ha menzionato il campo di P resa con due frasi: "Alla metà di luglio, sono stato internato con un gruppo di persone, nel campo di Presa, vicino Tirana. Da Presa sono stato poi trasferito a Cattaro .. :: Questo è tutto. Nel libro secondo 103, Viado Porobic ha dato più informazioni su Presa, citando anche alcune conversazioni. Ha delto: "Ringrazio Ante Markovié (oggi non più
too Op. cit. Op. cit. 102 O p. cil. pag. 2 11. 10 3 Op. cil. pagg. 399-406. 101
145
tra i vivi), i compagni Risto Kovijanié e Pero Bukilica, che mi hanno, con le loro testimonianze, rinfrescato la memoria': Inoltre, Porobié ha fornito preziosi elenchi di internati, sebbene incompleti e senza indicazioni sulle date dell'arrivo degli internati, le date del loro rilascio e quelle dei trasferimenti in altri campi o prigioni. Molto meno ha detto su Presa Vicko Braié 104, nonostante fosse stato ivi rinchiuso. Ha parlato di più di altri campi, ma qualcosa mi è stata comunque utile. Sul campo Klos sono stati scritti anche dei romanzi, sempre senza dire nulla di nuovo sul campo di Presa, o sui bocchesi, che non fosse già raccontato da Risto Kovijanié, Viado Porobié e Viado Vujovié. Nel 1983, quando è stata pubblicata la Raccolta, a Zagabria è uscito alle stampe il libro «Klos" di Viado Vujovié 105, solo che della sua esistenza sono venuto a sapere molto più tardi. Klos era il secondo campo come grandezza in Albania e in quel libro, a sorpresa, ho trovato informazioni anche sul campo di Presa . Combinando tutte le informazioni raccolte, qualche cosa anche dagli altri autori (incluso il mio intervento pubblicato sulle pagine 474, 497 e 500 della Raccolta di cui sopra), ovvero, compilando il mosaico dalle particelle trovate, mi è stato possibile ricostruire una testimonianza più veritiera sul campo di Presa. - Raccolta del Convegno scientifico del 20-21 novembre 1985 (pubblicata nel 1987, volume unico 106) In questa Raccolta, la prima testimonianza su Presa è quella di Zarko Bakocevié. Egli non è stato tra gli internati a Presa e del campo ci fornisce solo una breve annotazione 107: "Di 164 arrestati, 122 sono stati internati nei campi Presa e Klos in Albania". Il relatore Nedjeljko Moskov ha scritto sul campo di Klos, ma ha menzionato anche quello di Presa 108: «Il venti dicembre 1941, il campo di Presa è stato sciolto e i suoi internati ancora rimasti sono stati trasferiti a Klos': lgnjatije Zlokovié non era internato a Presa ma nel campo di Lipari, in Italia. Ha scritto della sua esperienza, ma in un punto ha menzionato anche il campo di Presa 109 : "Dal carcere stracolmo di Cattaro, hanno preso 150 detenuti e con la nave li hanno trasferiti nel nuovo campo di Presa (Prese) vicino Tirana': Però, Maksim Zlokovié, fratello minore di Ignjatije, era tra gli internati a Presa. Di quel campo e della propria esperienza non ha scritto nulla. Ha collaborato con il giornale del campo "Presa': ma neanche lì ha scritto nulla sul campo, ma soltanto su altri temi. Due fratelli Zlokovié sono sopravvissuti alla guerra, hanno raggiunto una età veneranda, hanno fatto molte ricerche e scritto molti libri. Ma le uniche cose dette sul campo di Presa sono quelle sopra citate.
104
Idem pag. 407-409.
ios Op. cit. 106
Op. cit. Op. cit pag. 27. ws Idem pag. 404. 109 Idem, pag. 449.
107
146
Oltre aJ campo di Klos, dove era internato, Vlado Vujovié ha spesso menzionato il campo di Kavaja, il terzo per grandezza in Alban ia. Ha menzionato anche quello di Presa, ma solo una volta, spiegando davanti alla platea del Convegno, di aver raccontato tutto queJlo che sapeva sui bocchesi confinati, durante il 1941 e 1942, nei campi di concentramento albanesi, Presa e Klos. Su Presa è tutto ciò che ha detto. Le parti restanti del racconto, pubblicato su 16 pagine, non si riferiscono a Presa, né quel campo viene più menzionato in tutta la Raccolta.
147
Fig. l - Carta delle Bocche di Cattaro.
148
oi............9_·__ 1s.;........j36
Km rig. 2
149
Fig. 3 - Car ta dell'Albania.
150
-
Fig. 4 - Mirko insieme con sua madre Darinka alla quale dedicò la sua prima poesia "Madre" e alla quale scrisse, du rante la prigionia nel campo di concentramento Presa, la sua ultima poesia, lettera ''A mia Madre".
Fig. 5 - Estate 1941: bambini montenegrini vengono a ricevere il pasto caldo presso una cucina militare italiana.
'Figg. 6 e 7 - Il convoglio delle navi-galere e la nave di scorta.
Fig. 8 - I111111agine tratta dal Campo di Presa.
151
Fig. 9 - Im magine tratta dal Campo di Presa.
Figg. 10 e 11 Soldati italiani chĂŠ assistono alla sepoltura di un cittadino di Cattaro morto nel 1941 per cause naturali.
Fig. 12 - Ivo AntoviĂŠ costretto a prendere la bibita al ricino.
152
Fig. 14
Fìg. 13 - Immagine della docente Maria De Julijs.
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Fig. 15
Fig. 16 - Un'immagine del finanziere Ricci che svolgeva servizio presso Cartollc che dive nne conoscente di Mirko Kostié.
hg. 17 - Tessera da pilota di Vasco Kosti.é.
Fig. 18 - Ritratto dell'au tore Vasco Kostié.
153
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154
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Fig. 29 e 30 - Tessera di guerra della Jugoslavia, di cartoncino di dimensioni 20 x 6,5 cm, fi rmata dal Segretari o del Governo Mestrovié per il Presidente Branko Starccvié.
155
Bibliografia
1)
"Pali za slobodu - Boka Kotorska 1941-45': ss 370, Kotor, Tivat, H-Novi 1991.
2)
Zbornik "Radnicki pokret, narodnooslobodilacki rat i revolucija u Boki Kotorskoj': knj. druga, ss 478, H-Novi 1983.
3)
Mirko Kostié, "Valovi Iutanja': ss 70, Tivat 1990.
4)
Marko Ivanovié, "Vrijeme zlocina': ss 218, Budva 2003.
5)
Njedjeljko Zorié, "Svjedocenja o jednom vremenu': izdanje SB NOP, ss 670, HNovi 2007.
6)
Nedjcljko Dapcevié, "Borba na Brajiéima" Zbornik iz 1983. H-Novi 1983.
7)
Risto Kovijanié, "Preza': u rukopisu, ss 160, Prese 1941.
8)
"lstorijski leksikon Crne Gore" (pag. 1148), Podgor ica 2006.
9)
Dusan Zivkovié, "Prva bokeljksa NOU Brigada': ss 330, Kotor 1984.
10) Vlado Vujovié, "Prilozi o stradanjima i borbi Bokelja u logoru Klos" Zbornk 2), s tr. 431 -451., H-Novi 1983. 12) Vasko Kostié, "Najstar ija narodna skola u Crnoj Gori", ss 364 (o italijanskoj upravi 175-190), Beograd 1997. 13) Vasko Kostié, "Ratna hronologija krtoljskih sela'; feljton, Tit.ograd 1981. 14) Mirko Kostié, "Valovi lutanja", ss 16, Mostar 1929. I 5) Miroslav Djurovié, "Zivotom i stihom': ss 188, Titograd 1983. 16) Milo Kralj, "U zadnje ratno proljeée'; "Stvaranje'; zbornik za jul, Titograd 1984. 17) Savo Gregovié, "Stihovi za citanke': "Novosti': od 5. novembra, Titograd 1984. 18) èedo Barac, "Himna je za nadahnuée", "Pobjeda': J 9. avgust, Podgorica 1992. 19) Dusan Zivkovié, "Boka Kotorska i Paslroviéi u NOB'~ ss 460, Beograd 1964. 20) Vasko Kostié, "Tragedija u Krtolima': Primorske novine za 31. avgust, Budva 2003. 21) Vasko Kostié, "Da se ne zaborave tabu teme': Primorske novine za 30. septembar, Budva 2003. 22) Zarko Bakocevié, "Neki aspekti NOP-a u Gornjem Morinju 194 1-1942.g." Zbornik 2), str. 363 -373, H-Novi 1983. 23) Vasko Kostié, "Vinéencov ratni put': "Pobjeda" od 4. septembra, Podgorica 1983. 24) Vasko Kostié, "Vinéencove uspomene", "Front" od 09. septembra, Beograd 1983. 25) Vasko Kostié, "Besmrtni Garibaldijci'; "Pobjedà' od 03. maja, Podgorica 1983.
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26) Arhivski fond Lucke kapetanije 1. reda 1944.g. Luka P. LXXXII. 27) Zbornik Radnicki pokret, narodnooslobodilacki rat i revolucija u Boki Kotorskoj", knj. druga, ss 478, H-Novi 1983. 28) 1àmara Nikcevié, «Goli otoci Jova Kapiciéa", ss 276, .Podgorica 2009. 29) Vasko Kostié, "Od fasiste do antifasiste': od 15. jula, Pobjeda 1983. 30) Glasnik SUBNOR-a CG br. 23, mart, Podgorica 2009. 31) Nedjeljko Zorié, "Roblje, ne hvala': ss 510, Beograd 1996. 32) Vlado Vujovié Gavros, "Klos - Hronika o konclogoru Klos u Albaniji 19411942", ss 436, Rijeka-Opatija 1983. 33) Nebojsa Kuzmanovié, «Susretanje kultura'', ss 326, Backa Palanka 2003. 34) Zbornik, «zarobljeni a ne pokoreni': ss530, Beograd 1990. 35) Mario Ostojié, "Peti pomorski obalski sektor mornarice NOVJ 1943-1945" ss 346, Split 1989. 36) Vasko Kostié, "Italijanska manjina u Boki': bilten «Matica Boke': novembar, H Novi 2007. 37) Vasko Kostié, "Predlozi za promjenu imena ulica u Tivtu... :', "Srpski glas Boke': februar, Kotor 200'ì.
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Note del Revisore
n.d.r. I - Dalla documentazione in possesso presso l'Ufficio Storico si fa riferimento a quattro sbarramenti stradali nella zona di Brajiéi in AUSSME, Busta 63, fasci colo 456, Cartella 6. n .d.r. 2 - Dalla documentazione in possesso presso l'Ufficio Storico si evidenzia in sintesi: Durante il cosiddetto "Massacro di Brajiéi" la colonna, appartenente alla I 08• Legione CC.NN. d'assalto, che venne quasi del tutto eliminata, era guidata d al Console L. Pozzoli ed era composta da una forza complessiva di 22 ufficiali e 445 uomini di truppa (compresi 9 ufficiali e 143 uomini della batteria di accompagnamento) così formata :
9 agenti della P.S. motociclisti, divisi in sei motociclette di cui una moto mit ragliera; 4 carri armati leggeri del II Gruppo Battaglione San Marco; 12 automezzi per trasporto CC.NN.; 9 automezzi per il trasporto della batteria di accompagnamento. li fatto sopracitato si concluse alle 15,30 del I 8 luglio 1941 con un bilancio di: Morti: 2 ufficiali e 2 sottufficiali; 36 CC.NN.; 2 artiglieri e 3 carristi. Feriti: I sottufficiale e 42 CC.NN. Dispersi: 33 CC.NN. AUSSME, Busta 63, fascicolo 456, Cartella 6, Allegato S, p. 4; 6: Stralcio del Diario storico-militare della 108a Legione CC.NN. d'Assalto, relativo al bimestre giugnoluglio 194.l. n.d.r. 3 - Dalla documentazione in possesso presso l'Ufficio Storico l'unica testimonianza di "corpi bruciati" di soldati italiani in riferimento al "Iv1assacro di Brajiéi" è quello ciel Tenente Vittorio Crainz, ufficiale addetto al comando del II Gruppo Alpini "Valle" che afferma nello stralcio della sua relazione che dentro un pozzo aveva trovato "decine di cadaveri bruciati':
AUSSME, Busta 63, fascicolo 456, Cartella 6, Allegato 4, p. 2: Stralcio Relazione del tenente Vittorio Crainz ufficiale addetto al comando del 11 Gruppo Alpini "Valle" operante in 1vlontenegro nel periodo 15 luglio 1941 al maggio 1942. n.d.r. 4 - C.S. Capogreco, I campi del Duce, Torino 2006, p. 237. A conferma del fatto che gli internati che presentavano una grave malattia, dal Campo di Prevlaka erano soliti essere ricoverati nell'ospedale militare di Meljine/Meline (nei pressi di Castelnuovo). n.d. r. 5 - Il Comando jugoslavo dispose, a partire dal 2 dicembre 1943, un nuovo ordinamento che prevedeva la costituzione della Divisione italiana partigiana Garibaldi. 1àle Grande Unità conservò del Regio Esercito l'ordinamento, le insegne, i distintivi, le uniformi e la linea di comando e fu inquadrata nel II Korpus dell'Eser-
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cito Popolare di Liberazione Jugoslavo comandato dal generale Peko Dapcevié, e venne riconfigurata sulla base delle disciolte Brigate italiane Taurinense e Venezia. Il suo Comandante fu il generale Oxi]ia e vice Comandante il Generale Vivalda e comprendeva 4 brigate, ciascuna di 1300 uomini. Oltre a queste brigate, furo no costituiti alcuni battaglioni di lavoratori; le artiglierie e i mezzi del genio esuberanti furono invece inquadrati dirett amente nelle brigate jugoslave. Nei mesi successivi la Grande Unità partigiana italiana visse vicende gloriose e tragiche. 11 nemico sferrò infatti tutta una serie d i poderose offensive, intese a d istruggere una volta per tutte la resistenza partigiana in Jugoslavia. In quella lotta durissima, resa più tragica da un freddo implacabile e da una epidemia di tifo petecchiale, le brigate italiane subirono perdite tremende. Nell'autunno del 1944, la pressione tedesca rallentò: la Garibaldi - che aveva lottato valorosamente e con alterne vicende anche nei mesi estivi, spesso meritando gli elogi più vivi degli stessi jugoslavi - poté rimarginare le proprie ferite e riordinarsi. Infine il 2 febbraio 1945 giunse l'ordine di rimpatrio: la Garibaldi si concentrò a Ragusa; il 15 marzo, l'ultimo reparto della Garibaldi sbarcò a Brindisi, dove la Divisione fu ricevuta con tutti gli onori e con calorose accoglienze.
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Indice Presentazione
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Grafia Introduzione Premessa
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Presentazione dell'Autore
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Introduzione Le prime impressioni sugli italiani Come è stato arrestato Mirko Kostié . Primi schieramenti e divisioni dentro un popolo confi.1so Il primo sconfinamento della rivolta dal Montenegro alle Bocche di Cattaro . Descrizioni del successivo massacro di Brajiéi Il secondo sconfinamento della rivolta dal Montenegro alle Bocche di Cattaro La famigerata prigione di Cattaro . Le prigioni "galleggianti" I Campi di concentramento Arrivo a Presa Maestri italiani Azioni odiose dei fascisti Belle azioni degli Italiani. Le barriere contro il racconto su "Presa". Le poesie d i Mirko galeotto Vlado Vujovié sul campo di concentramento "Presa" Mirko Kostié dopo "Presa" . Tentativo di ripetere "Brajiéi" "Errori della sinistra" ed errori italiani J.;inutile tragedia "Sotto il carrubo" La Battaglia per Lepetane I rapporti tra italiani e bocchesi (gente delle Bocche di Cattaro) dopo "Presa" . Il tentativo di ripetere la tragedia a Cartolle Il patimento degli italiani dopo la capitolazione d'Italia Il destino dei passeggeri e della nave "Cettigne" Elenchi dei bocchesi, prigionieri di "Presa" Cartoline postali censurate . Storiografia del campo di concentramento "Presa" .
Bibliografia Note del Revisore
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N . Cat.6834
Vasko KOSTié (1930), serbo di Bocche di Cattaro, pilota militare e controllore di volo, ingegnere con tre lauree, storico, pubblicista e scrittore, membro dell'Associazione montenegrina degli storici. Ha scritto più di quaranta libri ed oltre ottocento pubblicazioni.
Mila MIHAJLOVIé, giornalista, scrittrice, storica italiana di origine serba, lavora in Rai (Roma) dal 1985. È autrice di quattro libri. Inoltre è curatrice della riedizione dell'opera "Per l'Esercito serbo una storia dimenticata'' edizione Stato Maggiore della Difesa - periodico "Informazioni della Difesa''. I suoi libri sono sempre di carattere storico-documentario e legati ai rapporti tra l'Italia e i Balcani. Ha tradott o in italiano vari libri degli scrittori serbi e montenegrini. Da diversi anni collabora come professore con il Centro Lingue Estere dell'Arma dei Carabinieri.
ISBN 978-88-96260-37-1
Il 1111111
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9 788896 260371
Copia omaggio