12 minute read

Introduzione

Next Article
Bibliografia

Bibliografia

Le pagine che seguono si propongono come una sintesi ragionata delle vicende storiche dell’Europa orientale dalla fine della Prima guerra mondiale a oggi. Prima di esaminare i principali nodi interpretativi di questo volume, tentiamo brevemente di definirne le coordinate geografiche. L’Europa orientale è, come pochi, un concetto a geometria variabile. L’atlante edito da una grande casa editrice italiana definisce l’Europa orientale come una regione che comprende anche la Russia. La divisione statistica dell’ONU, al contrario, fa rientrare nell’Europa orientale dieci Stati ex comunisti e la parte orientale della Russia, escludendone i Balcani (ex Jugoslavia e Albania), inseriti nella zona meridionale del continente, insieme alla penisola iberica, all’Italia e alla Grecia. Il World Factbook pubblicato annualmente dalla CIA divide la regione in tre unità: Europa centrale (Austria, Repubblica Ceca, Germania, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Slovenia), Europa orientale (Bielorussia – d’ora in avanti Belarus –, Estonia, Lettonia, Lituania, Moldova e Ucraina), Europa sud-orientale (Albania, Bulgaria, BosniaErzegovina, Croazia, Kosovo, Macedonia, Romania, Montenegro, Serbia e Turchia). La Russia viene definita uno Stato transcontinentale. La pubblicazione italiana più rilevante in materia, la Guida ai paesi dell’Europa centrale, orientale e balcanica pubblicata a partire dal 1998, fornisce dati statistici e analisi su 23 paesi della regione e include Stati come Turchia, Grecia e Cipro 1. Le sottoregioni dell’Europa orientale acquistano etimologie bizzarre, come “Europa danubianobalcanica”, o addirittura incomprensibili, come “Balcani occidentali” (Western Balkans, l’Albania e i paesi dell’ex Jugoslavia, Slovenia esclusa), un neologismo introdotto alla fine degli anni novanta dall’Unione Europea. Se infine ci spostiamo su un altro campo di indagine, quello geografico, la prospettiva si capovolge: le località che aspirano all’ambita denominazione di “centro d’Europa” sono per la maggior parte lituane, estoni, slovacche, ungheresi, ucraine, polacche e bielorusse.

Il concetto di Europa orientale ha dunque perso da tempo la propria legittimità scientifica per trasformarsi in una denominazione fortemente legata al contesto politico e al rapporto di questa regione con la civiltà occidentale. La metà orientale del continente europeo può essere definita “centro-orientale”, sottolineando la sua estensione geografica ma anche, mutuando un termine tedesco, Europa “centrale” (Zwischeneuropa, le “terre di mezzo” comprese fra la Germania e la Russia). Esso non va confuso con il concetto di Mitteleuropa, che rientrava nell’orizzonte culturale di pensatori tedeschi di inizio secolo come Friedrich List, Walter Rathenau e, successivamente, Friedrich Naumann (1915). La loro Mitteleuropa si estendeva dal Mar Baltico al Mediterraneo e al Mar Nero, preconizzando un’alleanza economica e politica fra le popolazioni tedesche, ungheresi e slave. Proprio alla Germania sarebbe toccata la guida politica e culturale della futura unione mitteleuropea 2 . Lontano dalle successive rievocazioni dei nostalgici dell’“impero defunto” degli Asburgo 3, la Mitteleuropa del pensiero geopolitico tedesco si prestava inevitabilmente alle strumentalizzazioni espansioniste del nazionalsocialismo hitleriano 4 . Su una cosa gli storici sembrano concordare: la porzione orientale del continente europeo è reduce da uno sviluppo per molti versi peculiare rispetto a quello dell’Occidente. Uno storico ungherese, per non smentire un topos relativo all’inguaribile pessimismo dei suoi connazionali, la definisce come una generale tristezza: «Nella parte più sfortunata del mondo [...] il messaggio è quasi sempre una cattiva notizia. La storia recente dell’Europa centrale e orientale è la storia di tempi tristi» 5 .

Advertisement

Quando è nato il concetto di Europa orientale, quali zone del continente ha definito e che cosa resta di esso dopo la fine della guerra fredda? Il dibattito storiografico sui confini geografici, economici e culturali della regione è ormai sterminato e abbraccia i più vari ambiti, dalla politologia agli studi culturali 6. Fra i numerosi piani analitici possiamo individuarne tre di particolare rilevanza: i confini storici e politici della regione, le cause della sua arretratezza, il rapporto fra imperi multietnici e Stati nazionali. L’Europa “orientale” non esisteva prima della Seconda guerra mondiale. Secondo Larry Wolff, era stato addirittura l’illuminismo europeo a dar vita al concetto di Europa orientale in funzione civilizzatrice 7. L’“estità” fu quindi una percezione intellettuale prima ancora che una realtà politico-sociale. Ancora nel periodo interbellico le differenze fra gli Stati che avevano raccolto l’eredità dei tre imperi multinazionali superavano abbondantemente quelle esistenti con una virtuale “Europa occidentale”. La Boemia, la Moravia e la Slesia erano dotate di una forte borghesia urbana e formavano uno dei nuclei industriali del continente, mentre l’Albania e ampie regioni della Jugoslavia e della Ro-

mania versavano in un sottosviluppo di origine antica, che le accomunava peraltro a vaste regioni dell’Europa meridionale (Spagna, Portogallo, Italia) e settentrionale (Irlanda). Nel pensiero politico di Tomáˇs Garrigue Masaryk, creatore nel 1918 dello Stato cecoslovacco, la regione denominata Strední Evropa definiva «la zona peculiare delle piccole nazioni che si estendono da Capo Nord a Capo Matapan», con l’inclusione di Grecia e Turchia e l’esclusione di Austria e Germania 8 .

L’Europa “orientale” nacque soltanto con i blocchi politico-militari imposti dalla guerra fredda e trovò successivamente una sistemazione storiografica che giustificasse, sul piano ideologico, le differenze tra Est e Ovest attraverso una rilettura deterministica della storia europea incentrata sulle irriducibili differenze fra le due parti del continente. Storici e intellettuali ungheresi e polacchi (come lo storico polacco Oskar Halecki) percepirono come un’ingiustizia innanzitutto morale l’inclusione a priori del loro paese nell’Europa orientale, un concetto che richiamava un’alterità nei confronti dell’Occidente e suggeriva un’idea di fratellanza con l’Unione Sovietica. Nel 1946 il filosofo ungherese István Bibó pubblicò un saggio nel quale delineava un profilo storico delle nazioni europee, il cui sviluppo sarebbe rimasto bloccato per secoli a causa di quelle “iatture storiche” rappresentate dagli imperi multietnici e politicamente arretrati 9. Diffidente nei confronti dell’idea federalista, Bibó riteneva possibile costruire un patriottismo democratico che portasse alla formazione di nazioni europee capaci di coesistere in reciproco rispetto, dignità ed equilibrio territoriale, superando la tradizionale sfiducia e il timore di annientamento che alberga in ogni piccolo Stato esteuropeo 10 .

Negli anni sessanta la storiografia ungherese maturò una revisione positiva dell’esperienza della monarchia asburgica rispetto alle critiche della storiografia marxista o dei democratici radicali come Bibó 11. Alla riscoperta dell’impero si accompagnò il tentativo di uscire dalla dicotomia “Occidente-Oriente”. Emil Niederhauser prese a indagare, fortemente influenzato dalla longue durée braudeliana, le linee di frattura della storia europea dell’ultimo millennio, causate dai meccanismi di formazione delle nazioni esteuropee 12. L’influente Zsigmond Pál Pach, a lungo direttore dell’Istituto di storia dell’Accademia delle scienze ungherese, anticipò di diversi anni la “deviazione della ciclicità”, con la quale Immanuel Wallerstein spiegava, nel suo celebre Il sistema mondiale dell’economia moderna, la formazione di centri, semiperiferie e periferie del capitalismo storico. L’Ungheria sarebbe potuta appartenere al “centro” se l’imposizione del servaggio, nel XVI secolo, non avesse distorto il suo sviluppo 13. Le tesi di Pach vennero successivamente riprese dai suoi discepoli Iván T. Berend e

György Ránki nei lavori comparativi intrapresi sulla storia economica dell’Europa moderna, dai quali emergeva un quadro ampiamente positivo dello sviluppo socioeconomico dell’impero asburgico fino alla Prima guerra mondiale 14. Non era difficile cogliere un riferimento malizioso rivolto non solo agli Stati successori della monarchia, ma anche alla fallimentare integrazione realizzata dai sovietici all’interno del blocco orientale. Un altro storico ungherese “ufficiale”, Péter Hanák, analizzò l’esperienza della monarchia asburgica sul piano culturale, evidenziando la vitalità di quel “laboratorio” multinazionale 15 .

Il contributo più influente al dibattito sull’Europa centrale proviene da due opere assai diverse tra loro, apparse entrambe in edizione originale nel 1983 e successivamente tradotte in numerose lingue: un saggio dello studioso ungherese Jen˝o Sz˝ucs, e l’articolo, intitolato La tragedia dell’Europa centrale, firmato del romanziere ceco Milan Kundera 16. Secondo Maria Todorova, Sz˝ucs perseguì un chiaro intento politico: riconducendo al XVI secolo e all’introduzione del servaggio il momento in cui il suo paese, l’Ungheria, si staccò dallo sviluppo storico occidentale, egli riaffermava l’appartenenza dei territori sovietizzati (Balcani esclusi) a un’Europa “centrale” legata a un Occidente elevato a motore della civiltà moderna 17. In modo assai più diretto, Milan Kundera e altri intellettuali cechi (Václav Havel), polacchi (Czes/ law Mi/ losz) e ungheresi (György Konrád), le cui opere raggiunsero in Occidente grande successo attraverso la mediazione di Timothy Garton Ash, riaffermarono intorno alla metà degli anni ottanta il tentativo di emancipazione intellettuale dalla crisi del socialismo reale di quella che ritenevano l’“Europa sequestrata” 18. Come osservarono nel 1989 George Schöpflin e Nancy Wood, la loro Mitteleuropa non aveva nulla a che spartire con quella della geopolitica tedesca di età interbellica. L’Europa centrale dei dissidenti e degli oppositori del grigiore comunista escludeva sia la Germania, sia i Balcani e la Russia 19. Il carattere esclusivo ed elitario di questa rivendicazione culturale contribuì al rapido declino della sua fortuna dopo la caduta dei regimi comunisti. Né la nostalgia asburgica, né la pretesa di appartenere all’Europa civilizzata potevano rappresentare una mappa concettuale in grado di rispondere alle sfide del postcomunismo. Il tentativo di “staccare” dall’Europa orientale postcomunista i paesi relativamente più sviluppati e più “maturi” da un punto di vista democratico (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria – il cosiddetto gruppo di Visegrád, formato nel 1991) si rivelò un’iniziativa di corto respiro.

Chi scrive definisce l’Europa orientale come l’insieme dei territori che, dopo aver attraversato la dissoluzione dei tre imperi multietnici in seguito alla Prima guerra mondiale, conobbero a partire dal 1939

l’esperienza storica del comunismo di tipo sovietico. La regione trattata in questo libro comprende attualmente 20 Stati (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Belarus, Ucraina, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Bulgaria, Moldova, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia, Kosovo e Albania), distribuiti su un territorio che misura quasi 2 milioni di km2 e una popolazione complessiva di 184 milioni di abitanti. Nel testo compaiono anche riferimenti a Stati scomparsi – la Repubblica Democratica Tedesca (RDT) – e alle zone situate alla “periferia” dell’Europa orientale, più volte coinvolte o sfiorate dalle sue vicende nel corso del Novecento: la Grecia, l’Austria, la Germania Ovest, costretta per decenni a fare i conti con la compresenza di uno Stato tedesco “altro”, e non da ultimo l’Italia, con il confine nord-orientale. Il Friuli Venezia Giulia fu colpito dalla guerra fredda in una misura non ancora pienamente compresa, soffrendo o talvolta beneficiando del suo peculiare status di cerniera geografica e politica fra due mondi 20 .

Un problema metodologico con il quale si confrontano da decenni gli autori di manuali e opere di sintesi sull’Europa orientale è l’estrema varietà politica, sociale e culturale della regione 21. Dopo il 1919, la maggior parte degli Stati successori degli imperi multietnici riprodusse su scala ridotta la frammentazione delle vecchie entità in un contesto politico profondamente mutato (l’età del nazionalismo di massa e del principio di autodeterminazione dei popoli). La dissoluzione nel 1991-93 degli Stati federativi esteuropei, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, ha generato un aspro dibattito in cui emergono molti dei nodi interpretativi di questo libro. Alcuni videro nella scomparsa degli Stati multinazionali, a settant’anni dalla loro creazione, la conferma del carattere fallimentare del loro impianto; altri sostennero che la separazione avrebbe favorito l’estendersi dei conflitti etnici e bloccato il processo di integrazione europea. Altri ancora, con più realismo, ammisero che nessuno dei due Stati era destinato al fallimento perché nascevano entrambi in un momento di crisi da una volontà politica alla quale si accompagnava una lunga gestazione intellettuale, dovuta all’incapacità dei regimi comunisti di gestire le differenze nazionali in modo più soddisfacente rispetto a quelli del periodo interbellico.

Nonostante le premesse ideologiche internazionaliste, l’Europa orientale inglobata nella sfera di influenza sovietica non formò mai un’autentica comunità sovranazionale. Dopo il 1945 tensioni etniche e interessi economici contrapposti si manifestarono all’interno dei partiti unici al potere, influenzando i rapporti bilaterali e alimentando una dialettica crescente con Mosca. Come avremo modo di analizzare

in dettaglio (CAPP. 5-6), l’Europa orientale dipendeva pesantemente dall’Unione Sovietica, ma al rapporto di subordinazione degli anni quaranta e cinquanta si sostituì in seguito una “lealtà condizionata”. La storia dell’Europa orientale resta dunque in parte, anche dopo il 1945, la somma di vicende nazionali. Il quarantennio comunista ha tuttavia impresso su questi paesi un marchio pronunciato. Dopo il 1989 molti si erano illusi che il comunismo costituisse una parentesi storica, facilmente superabile attraverso programmi di privatizzazione dell’economia e democratizzazione della vita politica. Questo libro cercherà di argomentare (CAP. 7) che la “deviazione” comunista, sommandosi alle specificità ereditate dal periodo 1919-45 (squilibri sociali, conflitti nazionali, instabilità politica), incise in modo assai più profondo di quanto immaginabile sulla mentalità collettiva e sulle strutture sociali dei paesi ex comunisti. Probabilmente la comune eredità di un passato scomodo che esita a passare costituisce l’unico, vero profondo legame che l’Unione Sovietica sia riuscita a creare con i suoi riluttanti satelliti.

In ciascuno dei sette capitoli, il volume cerca di combinare un taglio generale cronologico con un approccio tematico comparato, incentrato sull’evoluzione economica e sociale dei vari paesi. Chi scrive è convinto che il nazionalismo e il fattore etnico non spieghino la storia dell’Europa orientale del Novecento. In caso contrario, tale vicenda potrebbe essere ridotta a una serie ininterrotta di vendette e massacri compiuti sotto la spinta di pulsioni ancestrali. Il nazionalismo, nelle sue versioni democratiche, illiberali o populiste di destra e di sinistra, ha naturalmente giocato un ruolo fondamentale nelle vicende storiche del Novecento esteuropeo. Per analizzare le motivazioni alla base dei massacri e degli atti di genocidio che hanno punteggiato il secolo passato in Europa orientale, è necessario tuttavia capire attraverso quale intreccio di assimilazione e dissimilazione, ricordo e oblio, esterofilia e xenofobia si sono formate le rappresentazioni dell’altro. L’analisi sociale ed economica risulta imprescindibile ai fini di una ricostruzione storica che tenti di restituire al mosaico esteuropeo la propria complessità. Sarà così possibile comprendere perché la distanza politica ed economica dall’Occidente delle “zone grigie” del continente europeo, allargatasi nei decenni del socialismo, tenda oggi ad affievolirsi senza peraltro scomparire, portandoci alla conclusione che un’Europa “orientale” esiste ancora. Affrontando in un saggio recente la scomparsa dei tradizionali confini politici della nuova Europa allargata, lo storico tedesco Karl Schlögel ha osservato che ad essa si contrappone una persistente alterità dei cronotopi, i sistemi di interconnessione dei rapporti temporali e spaziali 22. Questo libro tenta di

raccontare gli “strati di memoria” sedimentatisi nella parte orientale dell’Europa durante il lungo Novecento.

Molte sono le persone e le istituzioni del cui aiuto resto debitore. Oltre ai colleghi e amici che hanno seguito con empatia le varie fasi del lavoro, fornendomi innumerevoli stimoli critici e suggerimenti, desidero ringraziare in particolare Francesco Benvenuti, Carla Tonini, Guido Franzinetti e Mila Orlic, che hanno letto, corretto e commentato il manoscritto o parti di esso. Un ringraziamento va anche agli studenti del corso di Storia e istituzioni dell’Europa orientale da me tenuto presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna, in particolare a Nicola Bonetta, dai cui appunti ho generosamente attinto per la stesura del testo. La mia riconoscenza va, inoltre, alle istituzioni che hanno sostenuto gli anni di ricerca e insegnamento necessari a impostare metodologicamente questo volume: il Dipartimento di Politiche pubbliche e scelte collettive (POLIS) dell’Università del Piemonte Orientale, diretto da Carla Marchese e in seguito da Alberto Cassone, la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna, presieduta da Fabio Giusberti, l’Istituto di Storia dell’Accademia ungherese delle Scienze, diretto da Ferenc Glatz, nonché l’Associazione Memorial-Italia nella persona del suo presidente Francesca Gori. Solo grazie al loro appoggio intellettuale e materiale, alla fiducia dell’Editore in questo progetto e, non da ultimo, all’appassionato incoraggiamento che ho sempre ricevuto dai miei cari, sono riuscito a portare a termine un’impresa che spero possa incontrare il favore non solo degli addetti ai lavori, ma anche di tutti coloro che si interessano alla storia e al presente dell’“altra” Europa.

Bologna-Budapest, marzo 2011

L’Europa orientale nel 1914

This article is from: