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1.4. I nuovi Stati: Cecoslovacchia e Jugoslavia

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Bibliografia

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dall’esterno, attraverso la crescente influenza tedesca. Già prima dell’ascesa al potere del partito nazionalsocialista del gennaio 1933, la Germania aveva introdotto negli scambi bilaterali il “mercato bloccato”, o clearing (un sistema di compensazione di debiti e crediti attraverso le banche centrali). Tale meccanismo, simile nella sua logica al baratto, permetteva di evitare i costi legati alla conversione delle valute. Complice anche il crescente protezionismo con cui l’Europa occidentale difendeva la propria produzione agricola dalla concorrenza, la Germania divenne nella seconda metà degli anni trenta l’artefice di un fiorente commercio bilaterale con l’Europa orientale, basato sul principio della complementarità: essa importava petrolio dalla Romania, tabacco dalla Bulgaria e grano dall’Ungheria, esportando in cambio i macchinari e materiali bellici che consentirono a diversi paesi di elaborare piani di sviluppo pluriennali e programmi di riarmo 36. L’egemonia economica tedesca costituì, in tal modo, la premessa fondamentale per l’avvio di una politica estera espansionistica da parte del regime nazista.

1.4 I nuovi Stati: Cecoslovacchia e Jugoslavia

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1.4.1. LACECOSLOVACCHIADAMASARYKABENE

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La creazione di uno Stato separato dalla monarchia asburgica divideva il movimento nazionale ceco sin dalla fine del XIX secolo, quando il fallimento del progetto di trasformazione federalista della monarchia rafforzò ali più estreme del movimento panslavista. Diversi fattori si frapponevano, tuttavia, all’idea di riunire cechi e slovacchi in un’unica patria. In primo luogo, il forte squilibrio economico e culturale fra le due regioni: la Boemia-Moravia apparteneva all’Austria, l’attuale Slovacchia all’Ungheria. La coscienza nazionale era più forte tra la popolazione ceca, dotata di una solida élite borghese, che tra quella slovacca, dove il ceto contadino pareva l’unico depositario dei valori nazionali nel confronto con un’élite ormai largamente assimilata alla nobiltà ungherese. A ciò si aggiungeva una persistente lealtà dei sudditi all’impero asburgico, percepito (soprattutto nella sua parte boemo-austriaca) come un elemento di stabilità e progresso. Nei primi due decenni del Novecento, fra la comunità ceca e quella tedesca si combatté in Boemia e Moravia un’incruenta quanto accesa “battaglia per le anime”, sulla quale ha fatto luce la recente storiografia studiando movimenti sportivi, associazioni patriottiche, accademie scientifiche od organizzazioni cari-

tative come gli orfanotrofi 37 . Dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, tuttavia, decisivo fu l’appoggio politico delle potenze occidentali alle rivendicazioni dell’emigrazione cecoslovacca – particolarmente attiva negli Stati Uniti, oltre che a Londra e Parigi. Nel 1915 i rappresentanti delle unità nazionali slovacche e ceche firmarono a Cleveland un accordo sulla costituzione di uno Stato federativo comune. Nel maggio 1918 l’accordo di Pittsburgh, che alcuni patrioti slovacchi e cechi firmarono con Tomáˇs Garrigue Masaryk, espresse la volontà di instaurare una repubblica ceco-slovacca democratica con posizione autonoma della Slovacchia.

Dai trattati del 1919 emerse uno Stato di dimensioni importanti (140.000 km2 , quasi 15 milioni di abitanti nel 1930), basato sul “condominio” delle due nazionalità titolari. I cechi formavano la metà della popolazione complessiva, mentre gli slovacchi il 15%. Nonostante la Costituzione democratica repubblicana, approvata nel 1920, definisse la nuova entità come patria del popolo “cecoslovacco”, il nuovo Stato ripresentava il mosaico nazionale dell’età asburgica. Gli oltre 3 milioni di tedeschi della regione dei Sudeti costituivano il 23% della popolazione, e gli 800.000 e più ungheresi, oltre il 5% (concentrati in Slovacchia, dove abitavano nelle principali città). Seguivano poi polacchi, ebrei, rom e numerosi ruteni (quasi 700.000 persone) della regione orientale della Transcarpazia, che le potenze occidentali avevano assegnato alla Cecoslovacchia per motivi di sicurezza in funzione antisovietica.

La Cecoslovacchia costituì l’unico esempio di democrazia di tipo occidentale nell’Europa centro-orientale interbellica. Rispetto agli altri paesi, il trattamento delle minoranze poteva considerarsi esemplare: nei distretti in cui esse costituivano il 20% della popolazione, fu loro garantita la libertà di utilizzare la propria lingua nella vita quotidiana, nelle scuole e nelle comunicazioni con le autorità. Ciò non significò, tuttavia, l’assenza di conflitti e di prevaricazioni da parte statale (una censura piuttosto rigida nei confronti della stampa tedesca e ungherese, critica con le autorità; il carattere nazionalista della riforma agraria accompagnata, soprattutto in Slovacchia meridionale, dalla fondazione di villaggi popolati da coloni di etnia ceca) 38. I fattori che contribuirono al successo del nuovo Stato furono diversi: la forza delle élite praghesi, l’eredità di un sistema burocratico efficiente come quello asburgico, l’elevata scolarizzazione che favoriva la nazionalizzazione della popolazione rurale e operaia, ma anche la capacità dei governi cecoslovacchi di porre in atto una complessa architettura politica. La Costituzione affidava il potere legislativo a un’assemblea nazionale formata da due Camere (Deputati e Senato) elette a suffragio

universale maschile e femminile, diretto, segreto e obbligatorio. Poteri esecutivi molto estesi vennero tuttavia affidati al presidente della repubblica, eletto per 7 anni dal Parlamento sul modello francese. Questi era comandante in capo delle forze armate, esercitava diritto di veto sulle leggi approvate dal Parlamento, scioglieva le Camere convocando nuove elezioni, designava il capo del governo e presiedeva alla nomina dei funzionari pubblici.

Dominatori dei primi venti anni di storia cecoslovacca furono il creatore e principale ideologo dell’esperimento democratico, Tomáˇs Garrigue Masaryk, già riconosciuto dalle potenze occidentali capo del governo provvisorio del 1918, presidente della repubblica dal 1920 al 1935, quando si rititò per motivi di salute; e in seguito, il suo seguace e collaboratore Edvard Beneˇs, che si dimise dall’incarico il 5 ottobre 1938 per protesta contro il patto di Monaco 39 . In apparenza, per un ventennio la vita politica del paese fu dominata dalla frammentazione: i partiti rappresentati in Parlamento in ogni legislatura erano mediamente oltre venti. In realtà, il quadro politico presentava una sostanziale stabilità, alla quale contribuivano l’autorevolezza e il prestigio internazionale di Masaryk. A eccezione del periodo 1926-29, la tenuta del governo fu assicurata da una coalizione pentapartito formata da repubblicani agrari, socialdemocratici, socialisti nazionali, popolari cattolici (dominanti in Slovacchia) e nazionaldemocratici, i quali rappresentavano gli ambienti industriali e finanziari boemi. A capo del governo vi era generalmente un esponente degli agrari (per gran parte degli anni venti il leader del partito, Antonín ˇ Svehla) o dei socialisti nazionali.

Secondo Victor Mamatey, nell’immediato dopoguerra gli slovacchi (in particolare l’influente minoranza evangelica filocecoslovacca) salutarono favorevolmente l’arrivo di funzionari qualificati cechi in grado di sostituire la burocrazia ungherese e contrastare le rivendicazioni della minoranza magiara 40 . L’egemonia della classe politico-imprenditoriale e della burocrazia praghese su quella slovacca, non priva di arrogante paternalismo, stimolò tuttavia tensioni fra le nazionalità “titolari”. Gli slovacchi, appena liberatisi della pesante tutela ungherese, si sentivano discriminati in quanto “fratelli minori” della nazione ceca. Le richieste di autonomia amministrativa caddero ripetutamente nel vuoto e persino la scelta di inviare personale amministrativo ceco a “civilizzare” la metà orientale del paese rifletteva la convinzione, assai diffusa a Praga, che gli slovacchi non fossero in grado di autoamministrarsi. Solo nel 1935 un esponente di spicco della sezione slovacca del partito agrario, Milan Hodˇza, assunse la carica di primo ministro, che utilizzò nei tre anni successivi per appianare il conflitto ceco-slovacco e tentare, al tempo stesso, di rintuzzare le spinte secessioniste che provenivano non

solo dai suoi connazionali, ma anche dai tedeschi dei Sudeti, attratti in misura crescente dal programma hitleriano di riunificazione nel Reich tedesco 41 . Nonostante il sistema fosse congegnato in modo tale da favorire la massima rappresentatività, diverse formazioni politiche (i comunisti, i partiti etnici ungheresi) non ebbero mai accesso al governo. Quanto alla minoranza tedesca, essa appoggiò sino alle elezioni del 1929 formazioni socialdemocratiche, agrarie cristiano-democratiche che propugnavano la sua integrazione nello Stato cecoslovacco. Nel 1935, tuttavia, il neonato Sudetendeutschen Partei, sostenuto dal partito nazionalsocialista tedesco e vicino alla sua ideologia, si affermò non solo all’interno della comunità tedesca, ma divenne con oltre il 15% il secondo gruppo parlamentare del paese dopo i repubblicani agrari.

Il partito comunista cecoslovacco (PCC) ricoprì un ruolo piuttosto importante nel periodo interbellico. Fondato nel maggio 1921, esso nacque come un partito di massa con oltre 150.000 iscritti, e poté godere di un ampio sostegno popolare: quasi 1 milione di voti (13,4%) nel 1925. Nel 1929, quando il suo segretario generale, Klement Gottwald, su ispirazione della Terza Internazionale comunista, il Komintern, pronunciò una dura condanna del “socialfascismo” e della democrazia borghese, i suoi consensi calarono al 10%, una percentuale confermata dalle ultime elezioni, svoltesi nel 1935. Il PCC era un partito classista, che si appoggiava ai ceti operai della Boemia e alle masse contadine di Slovacchia e Rutenia. Nonostante ciò, secondo Gordon Skilling, esso era universalmente considerato «un legittimo erede della socialdemocrazia austriaca» 42 . Da sempre critico nei confronti della Cecoslovacchia masarykiana e della democrazia borghese, il PCC seguì l’evoluzione della posizione sovietica nei confronti dell’integrità territoriale del paese e della sicurezza collettiva europea. Nel maggio 1935 l’Unione Sovietica firmò con la Cecoslovacchia un patto di collaborazione politica e militare, in funzione antitedesca, che ricalcava quello appena sottoscritto con la Francia. Con questo patto l’URSS si ergeva a garante della sicurezza cecoslovacca. Alla fine degli anni trenta, i comunisti si schierarono compatti contro lo smembramento della Cecoslovacchia e il partito, clandestino dal 1939, acquisì una legittimità nazionale che avrebbe conservato durante tutto il secondo conflitto mondiale 43 .

1.4.2. ILREGNOSHS/JUGOSLAVIA

Il regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS), proclamato il primo dicembre 1918 sotto la dinastia serba dei Karad–ord–evi´c, nacque come unione di due regni indipendenti, Serbia e Montenegro, ai quali si

unirono territori austriaci (Slovenia e Dalmazia), regioni propriamente ungheresi (Vojvodina), territori formalmente ungheresi ma largamente autonomi (Croazia-Slavonia) e, infine, territori sottoposti ad amministrazione congiunta austro-ungarica (Bosnia-Erzegovina, dal 1908). Nel 1931, il territorio di 248.000 km2 era abitato da circa 14 milioni di persone. Le nazionalità più numerose erano quella serba (39%), croata (23%), slovena (8%), slavo-musulmana di Bosnia, ovvero “bosgnacca”, secondo la tassonomia oggi in vigore (6,5%), macedone (5,5%) e montenegrina (2,7%). Ad esse si aggiungevano oltre un milione di tedeschi e ungheresi della Vojvodina e del Banato, quasi mezzo milione di albanesi del Kosovo, 300.000 bulgari e altrettanti turchi, e quasi 100.000 tra romeni, slovacchi, ruteni, ebrei e rom. Alla divisione etnolinguistica si aggiungeva quella confessionale: il 48% della popolazione si professava di fede cristiano-ortodossa, il 37% cattolica, l’11% musulmana. Fin dalla nascita, avvenuta in circostanze diplomatiche fortunose alla fine della Prima guerra mondiale, il regno SHS si trovò ad affrontare molti e acuti problemi. Come osserva John R. Lampe, le autorità non solo si trovarono a dover governare un mosaico di fedi e nazionalità, ma anche, e soprattutto, a tentare di unificare le entità storiche che componevano il nuovo Stato. Analogamente al Piemonte nell’Italia unita, grandi responsabilità ricadevano sulla Serbia, che avrebbe dovuto armonizzare una dozzina di lingue e culture, sei zone doganali, cinque valute e quattro sistemi amministrativi e ferroviari 44 . Sebbene molti studiosi considerino la costituzione del regno SHS uno sbocco naturale del panslavismo prebellico degli intellettuali, Francesco Privitera afferma che proprio l’élite politica serba esitò almeno fino all’accordo di Corfù (luglio 1917) ad annettere i territori asburgici situati a nord del Danubio. La generazione di serbi che aveva più fortemente creduto nell’ideale jugoslavista era stata decimata dalla guerra. Nel 1918-19, poi, le trattative sulla sistemazione statale con i croati e gli sloveni, da un lato, e la minaccia italiana alla Dalmazia, dall’altro, convinsero la classe politica serba a riconoscere la realtà del nuovo Stato: in una visione tuttavia angusta, “panserba”, dell’ideale jugoslavista 45 . Il quadro politico degli anni venti rifletteva le contraddizioni di partenza. Il 28 giugno 1921 (giorno di san Vito, anniversario della battaglia di Kosovo Polje del 1389, ma anche dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, nel 1914), dopo un lungo dibattito, l’Assemblea costituente approvò a maggioranza semplice una Costituzione centralizzatrice, modellata su quella belga del 1830. Al re spettava il controllo sulle forze armate e sui prefetti, mentre lo Stato assunse for-

malmente la forma di una monarchia costituzionale, con un Parlamento unicamerale eletto ogni quattro anni e un sistema proporzionale a suffragio universale solo maschile.

Fino al 1928 la vita politica si svolse sui binari di un parlamentarismo talora assai turbolento 46 . Alle elezioni del 1920 per l’Assemblea costituente il partito comunista jugoslavo emerse come la principale forza antisistema, con il 12,4% dei voti e quasi 60 deputati. L’anno seguente, tuttavia, esso venne dichiarato fuorilegge e fino alla Seconda guerra mondiale i suoi dirigenti – operanti in clandestinità – combinarono l’attività terroristica con tentativi di agire legalmente dietro copertura sindacale 47 . I risultati furono scarsi fino al novembre 1940, quando il giovane Josip Broz, detto Tito, divenne segretario generale del PCJ sulla base di una piattaforma “jugoslavista” di rispetto delle nazionalità. La crisi dello Stato favorì l’aumento del consenso per il movimento comunista, che di lì a poco sarebbe divenuto il fulcro della resistenza militare all’invasione italo-tedesca.

Poiché tutti gli altri partiti si identificavano fortemente con un gruppo nazionale, le coalizioni di governo degli anni rifletterono non tanto l’adesione a questo o a quel progetto politico, quanto la capacità dei premier di stringere accordi personali con il notabilato croato, sloveno o musulmano. Alle elezioni parlamentari del 1923 i partiti serbi ottennero oltre il 40% dei voti, contro il 22% del principale partito di opposizione, quello contadino croato di Stjepan Radi´c, di ispirazione repubblicana e federalista. Un conflitto attraverso la stessa comunità serba, divisa fra srbijanci (serbi della vecchia Serbia prejugoslava, aderenti al partito radicale) e preˇcanci (serbi della Vojvodina, elettori del partito democratico). Gli altri gruppi nazionali, in particolare i musulmani e gli sloveni, erano impegnati in un’opera di continua mediazione, mentre l’esercito restava saldamente nelle mani dei serbi, che fornivano oltre il 95% degli ufficiali. Nel 1924-25 la lotta politica conobbe una nuova escalation, con l’“aventino” parlamentare dei croati, aggravato dall’arresto del loro leader. Questi fu accusato di alto tradimento per aver pubblicamente sostenuto che i croati non erano schiavi nella monarchia asburgica e i serbi non li avevano perciò liberati. Radi´c boicottò le successive elezioni. Allo scontro frontale, tuttavia, seguì un tentativo di compromesso serbo-croato con il primo governo di coalizione.

Sul finire del decennio, la lotta fra i due principali gruppi politici si inasprì fino a toccare un punto di non ritorno. Nel giugno 1928, durante una seduta parlamentare, un deputato radicale montenegrino

sparò in Parlamento sul gruppo contadino croato, uccidendo Radi´c e altri due parlamentari. Il re Alessandro approfittò del grave episodio per sciogliere un Parlamento divenuto ingovernabile e introdurre la dittatura regia (6 gennaio 1929). Per sottolineare l’esigenza di unificare il paese, esso venne denominato ufficialmente “Jugoslavia” (ovvero regno degli slavi del Sud). Insieme al Parlamento centrale vennero sciolte le assemblee elettive locali, sospesa la libertà di stampa, messi al bando i sokoli (circoli sportivi assai popolari) croati e sloveni. Nel 1931 una nuova Costituzione abolì le divisioni territoriali asburgiche e il paese venne diviso in nove distretti (banovine), amministrati da un prefetto nominato dal governo centrale. Sei delle nuove unità amministrative avevano una maggioranza serba, un fatto che venne interpretato dai croati come un tentativo di affermare una supremazia illegittima. Il sistema politico uscì rivoluzionato dal nuovo quadro istituzionale: il Parlamento era limitato a una Camera di mera ratifica delle leggi, mentre i partiti vennero ammessi alle elezioni solo se non fondati su base regionale (il che spinse molti di essi a boicottare il voto) 48 .

Il 9 ottobre 1934, quando le turbolenze economiche e sociali indussero il re a smantellare la dittatura personale, un sicario del movimento terroristico Ustaˇsa (Ribelli), diretto dal suolo italiano dal politico nazionalista croato Ante Paveli´c, uccise a Marsiglia il re Alessandro e il ministro degli Esteri francese, Louis Barthou. L’attentato contribuì paradossalmente a sbloccare lo stallo politico in cui il paese era precipitato nel 1928-29. Il reggente, principe Paolo, ristabilì condizioni minime di pluralismo, stabilizzò la situazione finanziaria, cercò un accordo con i principali movimenti di opposizione e relazioni più distese con i vicini, in particolare l’Ungheria e la Bulgaria, mentre l’orientamento politico del regime virava verso destra senza assumere, tuttavia, tratti dittatoriali. Nel 1938 il capo del governo, l’economista Milan Stojadinovi´c, stipulò con il Vaticano un concordato che equiparava giuridicamente la Chiesa cattolica a quella ortodossa: un atto importante, in seguito revocato per le proteste del clero ortodosso. Nell’agosto 1939, infine, il riavvicinamento serbo-croato partorì un “compromesso” (Sporazum) di grande peso istituzionale con la creazione di un dipartimento autonomo di Croazia, comprendente quasi un terzo del paese e popolato al 77% da croati e al 20% da serbi. La Jugoslavia sembrava avviarsi verso una struttura simile a quella della duplice monarchia austro-ungherese e il leader del partito contadino croato, Vladko Maˇcek, entrò nel governo jugoslavo come vicepresidente del Consiglio 49 .

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