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4.4. Il disgelo e le sue contraddizioni
regime: quasi la metà dei prigionieri politici cecoslovacchi era di estrazione operaia.
In Polonia e in Bulgaria le repressioni poliziesche degli anni 1948-53 assunsero un carattere meno diffuso e brutale. In Bulgaria l’avvio della collettivizzazione, nel 1949-50, fu accompagnato come in Romania da violente sollevazioni contadine, ma non si registrarono operazioni speciali di deportazione. Il minor numero di vittime non deve tuttavia trarre in inganno: nei due paesi il culmine della repressione era già stato raggiunto nel 1944-47, quando gli apparati di sicurezza dei nuovi governi di fronte popolare avevano brutalmente represso ed eliminato tutti i reali e potenziali avversari politici.
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In Albania, infine, alle repressioni interne – sulle cui dimensioni, assai rilevanti, mancano tuttora dati esatti – si aggiunse come fattore di instabilità la difficile collocazione geopolitica del regime di Tirana che, con la rottura sovieto-jugoslava, si trovò a costituire nel Mediterraneo l’anello debole del sistema di sicurezza sovietico (l’Albania confinava con due Stati ostili, la Grecia e la Jugoslavia). Le potenze occidentali tentarono a più riprese, nel 1949-52, di infiltrare guerriglieri albanesi fedeli a re Zogu rifugiatisi dopo la guerra in Egitto, Italia e Grecia, che ricevevano un addestramento militare in Occidente con il compito di provocare una rivolta armata che rovesciasse il regime di Enver Hoxha. Grazie al determinante appoggio di Kim Philby, la spia sovietica di più alto livello mai infiltrata negli apparati militari occidentali (Philby lavorava come agente di collegamento tra i servizi segreti britannici e la CIA), la rete fu agevolmente depistata. Le autorità sovietiche avvertirono immediatamente quelle albanesi, che catturarono e uccisero tutti i guerriglieri sbarcati, in tutto circa 300, oltre ad alcune migliaia di civili accusati di collaborazionismo 76 .
4.4 Il disgelo e le sue contraddizioni
4.4.1. RIVOLTE, LOTTEINTESTINE, IMMOBILISMO: LEREAZIONI NELBLOCCOALLAMORTEDISTALIN
La morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, originò in breve tempo cambiamenti che dall’Unione Sovietica si riverberarono sull’Europa orientale. Osannata e indiscutibile in vita, la figura di Stalin iniziò a essere oggetto di una revisione critica all’interno della direzione sovietica dopo la sua morte. Al sovraffollamento dei campi di lavoro
forzato, dove lavoravano nella primavera 1953 circa 2,5 milioni di prigionieri, si sommavano le disastrose condizioni economiche di un impero che aveva vinto la Seconda guerra mondiale ma stava perdendo la pace. Come ha osservato Tony Judt, il «rapporto coloniale» che caratterizzava le relazioni dell’URSS con gli Stati satellite restava viziato da una circostanza inedita nella storia dei moderni imperi europei: il sottosviluppo materiale e civile del centro rispetto alla periferia 77 .
Nelle settimane successive alla morte del dittatore emersero segnali di profonda crisi interna. In Unione Sovietica la nuova direzione collegiale formata, nel tentativo di evitare il ritorno di un’eccessiva personalizzazione del potere, dal primo segretario del PCUS, Nikita Chruˇsˇcëv, dal presidente del Consiglio dei ministri, Georgij Malenkov, e dal responsabile della polizia politica, Lavrentij Berija, avviò un programma di correzioni degli abusi criminali compiuti dalle autorità negli ultimi anni di Stalin. Lo stesso Berija denunciò la falsità del complotto dei medici e dispose la liberazione di un milione di prigionieri condannati per reati comuni (un atto che contribuì, paradossalmente, ad aumentare la tensione all’interno del sistema concentrazionario, in cui si verificarono gravi rivolte) 78 .
Le notizie, provenienti da Mosca, di cambiamenti e conflitti interni al vertice politico scossero profondamente le capitali esteuropee, dove i dirigenti comunisti faticavano a decifrare le intenzioni del centro. In Cecoslovacchia il capo del partito cecoslovacco, Gottwald, morì pochi giorni dopo aver partecipato ai funerali di Stalin e il suo successore, lo stalinista Antonín Novotn´y, cercò di proseguire su una linea ortodossa. La riforma monetaria annunciata il 30 maggio, che prefigurava un prelievo forzoso dei risparmi destinato a colpire non solo la classe media, ma anche gli operai, fu all’origine del primo importante sciopero post 1948, iniziato spontaneamente alle officine ˇ Skoda di Plzeˇn, in Boemia, e presto estesosi a una ventina di complessi industriali. Per reprimere le manifestazioni, cui parteciparono migliaia di persone, il governo inviò unità dell’esercito munite di armamento pesante e sostenute da carri armati. A Mosca gli eventi vennero analizzati con grande preoccupazione: Berija e Malenkov giunsero alla conclusione che le autorità sovietiche avevano sottovalutato la portata del malcontento in Cecoslovacchia. Gli scontri, iniziati il 31 maggio e durati tre giorni, costarono la vita a decine di insorti, mentre altri 2.000 partecipanti furono condannati a dure pene carcerarie 79. Il moto cecoslovacco seguì di qualche settimana le manifestazioni e gli scontri, verificatisi in Bulgaria il 3-4 maggio, dove i lavoratori del deposito di tabacco di Plovdiv avevano avanzato rivendicazioni economiche 80 .
L’impatto più dirompente della destalinizzazione si ebbe in Germania Orientale e in Ungheria. Nel primo caso, il malcontento portò a uno scontro armato, mentre nel secondo il partito comunista riuscì a prevenire le proteste popolari con un netto cambio di linea. Su pressione di Stalin, deluso per il rifiuto occidentale di considerare la sua proposta di riunificazione della Germania in uno Stato neutrale, la SED aveva deciso nel luglio 1952 di avviare l’«edificazione sistematica del socialismo», colmando nel settore agricolo e in quello industriale il ritardo nei confronti del resto del blocco. La paura di un possibile conflitto militare aveva, inoltre, dirottato buona parte del bilancio statale nel settore della difesa, mentre il peggioramento delle condizioni di vita spingeva oltre 300.000 persone, soprattutto giovani con buona preparazione scolastica, a emigrare verso la Germania Occidentale. Come temuto da Berija, ostile alla linea estremista di Walter Ulbricht, il 16 giugno 1953 il malcontento esplose nei quartieri operai di Berlino Est, infiammato dall’ulteriore aumento delle norme di produzione previsto per il 30 giugno. Le proteste si allargarono a 560 località e il giorno seguente coinvolsero circa 500.000 operai, con attacchi alle sedi del partito e l’uccisione di dirigenti comunisti e informatori 81. La repressione del movimento, affidata soprattutto alle truppe sovietiche di occupazione, costò la vita ad almeno 125 persone, mentre migliaia furono arrestate e condannate, un centinaio delle quali alla pena capitale. Le autorità di Berlino Est reagirono alla rivolta di giugno con diverse concessioni economico-sociali, mentre la sospensione del pagamento delle riparazioni di guerra, accordata dai sovietici, rese possibile negli anni seguenti un notevole aumento dei salari e della produttività sul lavoro. Sul piano politico, il primato di Ulbricht si consolidò ulteriormente, ponendo le basi di un’egemonia personale durata fino al 1971 82 .
Il 13-15 giugno, nel frattempo, un cambiamento di rilievo si andava delineando in Ungheria. I massimi esponenti del regime furono convocati a Mosca per “consultazioni”, durante le quali Berija e Malenkov rimproverarono a Rákosi gli errori di politica economica e l’eccesso di repressione, soprattutto nelle campagne. Pur conservando la carica di segretario generale, Rákosi si vide imposta la nomina a primo ministro dell’ex ministro dell’Agricoltura e suo rivale, Imre Nagy, che i sovietici consideravano più adatto per le qualità personali e le sue origini (magiaro, di famiglia contadina e religione calvinista; Rákosi e i suoi protetti erano, invece, di origine ebraica). Kramer ha notato che il Cremlino, pur mostrando compattezza di fronte ai dirigenti ungheresi chiamati all’autocritica, a questa data era già scosso dal complotto ordito da Chruˇsˇcëv e Malenkov contro Berija. L’arre-
sto di quest’ultimo, il 26 giugno, cadde in un momento delicato per il blocco sovietico, sospeso tra nuove opportunità diplomatiche (il 27 luglio fu firmato l’armistizio che pose fine alla guerra di Corea) e la crisi politica in Europa orientale 83 .
La caduta di Berija, che nella primavera 1953 era divenuto il protettore informale dei riformatori, ridusse i margini di manovra politici del governo Nagy, entrato in carica il 4 luglio. Nei diciotto mesi trascorsi alla testa dell’esecutivo, fino al ritorno al potere degli stalinisti di Rákosi nella primavera del 1955, Nagy non riuscì a portare a termine il programma di riforme, liberalizzazione e miglioramento del tenore di vita il cui annuncio aveva suscitato nell’estate 1953 grandi aspettative nella popolazione. Allo slancio dei primi mesi (allentamento della stretta poliziesca, freno allo sviluppo industriale basato sul settore militare, tolleranza dell’autoscioglimento di centinaia di fattorie collettive) seguì nel 1954-55 l’inasprirsi all’interno del partito del conflitto fra due linee ormai chiaramente definite: quella moderatamente riformatrice, guidata da Nagy e sostenuta da un ampio schieramento sociale, che andava dagli intellettuali al Fronte popolare (da Nagy rivitalizzato come formazione politica in competizione con il partito), e quella stalinista di Rákosi, che Mosca tornò ad appoggiare nel 1954 per bocca del suo ambasciatore a Budapest, Jurij Andropov.
Nell’estate-autunno 1954 vennero al pettine le contraddizioni in cui Nagy si dibatteva fin dalla sua nomina. L’ondata di liberazione di prigionieri comuni e politici (15.000 persone, tra cui diversi esponenti comunisti come Kádár) fece emergere le proporzioni delle storture giudiziarie, mentre la gente sfruttava ogni occasione per esprimere la propria insoddisfazione. Il 4 luglio 1954 l’Ungheria perse inaspettatamente la finale dei campionati mondiali di calcio contro la Germania Ovest. Nei giorni seguenti Budapest fu scossa da manifestazioni di massa che degenerarono in scontri e devastazioni. Tifosi e cittadini accusarono la Federazione calcistica e i dirigenti politici di aver venduto la partita alla Germania Ovest in cambio di benefici economici. Nello stesso periodo si registrarono proteste di massa in vari distretti operai della capitale, dove la polizia stava sfrattando gli occupanti abusivi di numerose abitazioni (Budapest aveva guadagnato in pochi anni mezzo milione di abitanti senza disporre di alcun piano di edilizia popolare). Per frenare la folla, la polizia dovette ricorrere alle armi. Secondo János M. Rainer, l’intensificarsi delle manifestazioni anche violente segnalò un mutamento irreversibile dello spirito pubblico. La gente non temeva più il regime e gli intellettuali, liberatisi
di ogni complesso di fedeltà ideologica, pretendevano libertà di espressione e di critica 84 .
In Romania la morte di Stalin non segnò l’avvio di una svolta politica: le autorità di Bucarest si limitarono a seguire pedissequamente le istruzioni sovietiche. Dopo aver consolidato nel 1952 il proprio potere a danno dei “moscoviti” Pauker, Luca e Georgescu, il primo segretario Gheorghiu-Dej procedette nell’aprile 1953 a una vasta amnistia che, senza includere i detenuti politici, cancellò i reati penali e amministrativi a 525.000 persone e rimise in libertà 15.000 detenuti, dei quali il 21% operai e il 37% contadini poveri o medi 85. Al plenum del Comitato centrale del partito del 19-20 agosto, GheorghiuDej promise moderazione in campo economico e sociale, ma rifiutò l’idea di una svolta politica sul modello ungherese: in Romania, affermò, le distorsioni erano già state corrette. Negli anni successivi egli guidò una destalinizzazione che non intaccava le basi ideologiche del regime. Furono smantellate le società miste romeno-sovietiche che controllavano la produzione petrolifera e mineraria, sospesa la costruzione del canale Danubio-Mar Nero (l’avrebbe ripresa Nicolae Ceau¸ sescu nel 1973), allentata la pressione sui contadini con l’abolizione delle consegne obbligatorie agli ammassi (con l’eccezione della carne e del latte). In omaggio al principio della direzione collegiale, dall’aprile 1954 all’ottobre 1955 Gheorghiu-Dej abbandonò la carica di segretario del partito, affidata al suo seguace Gheorghe Apostol, conservando quella di primo ministro. Nell’agosto 1955 egli propose addirittura a Chruˇsˇcëv di ritirare le truppe sovietiche dalla Romania, la cui presenza avrebbe perduto di significato con il trattato di pace austriaco. Pur non nascondendo la propria sorpresa, Chruˇsˇcëv acconsentì al ritiro nell’ambito di una più ampia strategia di distensione internazionale 86 .
In Polonia la caduta in disgrazia di Berija provocò, in controtendenza con il resto del blocco, un temporaneo inasprimento della repressione poliziesca, culminata il 26 settembre 1953 con l’arresto del cardinale Wyszy´nski. Questi restò confinato in un convento, senza subire alcun processo, fino al 1956 87. Nell’autunno 1954, tuttavia, uno scoop sensazionale, realizzato da Radio Europa Libera (RFE), smosse le acque dell’incerta destalinizzazione polacca. Il vicedirettore del X Dipartimento del ministero della Sicurezza pubblica, il colonnello Józef ´ Swiat/ lo, lavorava per i servizi occidentali sin dal 1948 e defezionò a Berlino Ovest nel dicembre 1953. Fu preso in consegna dalla locale stazione della CIA e sottoposto a lunghe interviste. La sezione polacca della radio di Monaco di Baviera fu così in grado di mandare in onda le confessioni dell’alto ufficiale sul funzionamento dei servizi di sicu-
rezza e i crimini ad esso connessi. Le sue rivelazioni scossero la popolazione, che detestava tali apparati, e costrinsero le autorità polacche ad avviare la loro ristrutturazione 88 .
4.4.2. ILRIAVVICINAMENTOMOSCA-BELGRADO ELA NASCITADELPATTODIVARSAVIA
La morte di Stalin impose ai nuovi vertici sovietici e alle potenze occidentali un ripensamento delle rispettive strategie politico-diplomatiche. La fine della guerra di Corea allontanò la prospettiva di un conflitto armato Est-Ovest, aprendo la strada alla ripresa, ancorché assai limitata, degli scambi commerciali e culturali. La distensione avrebbe prodotto un primo risultato nel luglio 1955 quando a Ginevra i capi di Stato e di governo delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale si riunirono per discutere le questioni del disarmo e dei rapporti tra i blocchi. Sebbene la conferenza si concludesse senza accordi concreti, lo “spirito di Ginevra” avviò una nuova era nei rapporti internazionali. Nel frattempo, nell’autunno 1954 si raggiungeva un compromesso su una crisi locale dalle implicazioni europee quale la contesa italo-jugoslava su Trieste. L’Italia riacquistò la piena sovranità sul capoluogo giuliano e la cosiddetta Zona A 89 .
Mentre l’Europa occidentale si andava dotando di strutture di integrazione politica ed economica (nel 1957, con i trattati di Roma, nacque il Mercato comune europeo), Chruˇsˇcëv dovette constatare che il blocco sovietico mancava di una reale integrazione e che nel conflitto con Tito l’embargo economico e la pressione ideologica non avevano, così, potuto sortire alcun effetto. A partire dalla fine del 1953 Mosca iniziò a preparare segretamente il riavvicinamento alla Jugoslavia. Il 26 maggio 1955 Chruˇsˇcëv visitò Belgrado per fare ammenda e riconoscere il modello jugoslavo, che rappresentava ormai un’alternativa appetibile. La diversità dello sviluppo politico ed economico era stata promossa da Tito a partire dal 1950 come contrattacco ideologico allo stalinismo. Il suo cardine era l’abbandono dell’economia di comando attraverso l’autogestione operaia annunciata nel marzo di quell’anno, la deburocratizzazione della pianificazione economica tramite l’istituzione dei consigli operai elettivi nelle fabbriche, e la trasformazione della proprietà da statale a “sociale”. Nel 1953 Tito abbandonò la collettivizzazione agricola, anticipando molte delle autocritiche che sarebbero state formulate dai leader esteuropei negli anni a venire, e il 13 gennaio dello stesso anno la Jugoslavia adottò una nuova Costituzione che istituiva i Consigli dei
produttori, formati da rappresentanti eletti dai cittadini operanti nei diversi settori economici. Alle sei repubbliche componenti la Federazione venne formalmente concesso un maggior controllo sui propri affari interni e solo settori essenziali quali la difesa, la sicurezza e la politica estera rimasero di competenza del governo centrale. Come sottolinea Lampe, tuttavia, in assenza di decreti attuativi il decentramento affermato nel testo costituzionale rimase largamente disatteso 90 .
In politica estera, la diversità jugoslava si espresse in una rete trasversale di alleanze e contatti. Nel 1953 Jugoslavia, Grecia e Turchia firmarono il Patto balcanico, sostituito nel 1954 da un più organico patto di alleanza. Nel 1955 Tito si fece anche promotore di un movimento transnazionale che raccolse decine di paesi “non allineati” dell’Asia e dell’Africa, guidati dall’Egitto di Nasser e dall’Indonesia di Sukarno. I confini del liberalismo ideologico di Tito si rivelarono presto assai più angusti. Nel 1954 Milovan Dilas, ex braccio destro di Tito e ideologo di spicco dello stalinismo jugoslavo degli anni quaranta, fu emarginato e arrestato per aver pubblicato una serie di articoli in cui criticava duramente il sistema comunista. Questi scritti avrebbero costituito la base del libro Nova klasa (La nuova classe), pubblicato negli Stati Uniti e in diversi paesi europei nel 1957 e subito riconosciuto come una delle analisi più penetranti del nuovo sistema di potere. Secondo Dilas, il comunismo in Europa orientale non era affatto egualitario e ciò che l’ex politico montenegrino chiamava sprezzantemente «capitalismo di Stato» aveva portato alla creazione di una nuova classe di privilegiati, un’oligarchia di burocrati di partito legati ai vantaggi materiali dalla loro posizione 91 .
Il riavvicinamento a Belgrado colse l’Unione Sovietica in un momento di fibrillazione politica che si ripercosse sugli alleati più fragili e in particolare sull’Ungheria. Nel febbraio 1955 il capo del governo, Malenkov, che dopo la condanna a morte di Berija era rimasto il principale sostenitore del disarmo nucleare, della liberalizzazione interna e dell’industria dei beni di consumo, fu costretto a dimettersi per la sua vicinanza a Berija. Imre Nagy fu costretto a dimettersi, a sua volta, nel marzo 1955, sostituito dal giovane András Heged˝us, un protetto di Rákosi gradito ai sovietici. Nagy fu espulso dal partito nel dicembre 1955 e, mentre gli stalinisti riprendevano le repressioni politiche e sociali, intorno all’ex primo ministro caduto in disgrazia si coalizzarono le forze intellettuali che pochi mesi dopo, saldandosi con la protesta studentesca e il malcontento operaio, avrebbero alimentato la grande rivolta antisovietica.
Nel maggio 1955 tre eventi in rapida successione accelerarono l’avvio di una più stretta integrazione militare del blocco socialista. Il 6 maggio la Germania Ovest entrò nella NATO. Il 14 maggio fu annunciata la creazione del Patto di Varsavia, i cui otto membri (URSS, Polonia, RDT, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania, ma quest’ultima se ne ritirò nel 1968) si impegnavano alla reciproca difesa nel rispetto della sovranità nazionale. Il patto venne concepito come una struttura speculare all’alleanza militare del blocco occidentale, anche se la sua creazione soddisfaceva l’esigenza di assicurare il collegamento con la madrepatria delle truppe sovietiche stanziate in Ungheria e Romania dopo che, il 15 maggio, il trattato fondamentale firmato con l’Austria (divenuta uno Stato sovrano impegnato alla «neutralità perpetua») aveva disposto il ritiro del contingente sovietico dall’Austria orientale 92. Al Patto di Varsavia e al Comecon, riattivato nel 1954 dopo quasi cinque anni, mancavano prospettive strategiche di lungo periodo. Nei primi anni i sovietici cercarono di utilizzare il primo come strumento di pressione per ottenere una smilitarizzazione della guerra fredda; mentre l’organo di coordinamento economico soffriva, da un lato, della non convertibilità delle valute e, dall’altro, per l’assenza di specializzazione produttiva fra i paesi partecipanti. Verso la metà degli anni cinquanta l’Europa orientale e la stessa Unione Sovietica attraversavano un momento di grave difficoltà. L’unità forzata forgiata da Stalin entrò in crisi dopo la sua morte. Chruˇsˇcëv capiva la necessità della competizione pacifica con il blocco occidentale, ma restava legato alla nomenklatura stalinista. Sul piano politico la destalinizzazione procedeva in modo contraddittorio (Ungheria, Polonia, Bulgaria e Jugoslavia) o non procedeva affatto (Cecoslovacchia, Romania, RDT e Albania). In campo economico, il rallentamento della collettivizzazione fu percepito come un arretramento temporaneo, senza analizzare le conseguenze sociali dello svuotamento delle campagne e l’afflusso caotico di milioni di persone in città sovraffollate e prive di servizi. Secondo Mark Pittaway, verso la metà degli anni cinquanta «le basi sociali del potere comunista in tutta la regione apparivano pressoché inesistenti» 93. Sulle difficoltà di organizzare il consenso su basi totalitarie si innestò nel 1956 l’onda d’urto provocata dal XX Congresso del PCUS.