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6.2. Stabilità politica, disastro economico

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smo internazionale dell’epoca, costituita dal gruppo Separat, guidato da Ilich Ramírez Sánchez, detto Carlos 10. Nel febbraio 1981, su incarico del governo romeno, il noto terrorista portò a termine in Germania un devastante attentato alla redazione romena di Radio Europa Libera, che costituiva la principale voce del dissenso in esilio 11. Nel frattempo, il modello sovietico subiva l’inedita sfida, in termini di sostenibilità economica e prestigio politico, dell’esperimento “socialcapitalista” lanciato nel 1978 dal nuovo leader cinese Deng Xiao Ping. Nonostante l’Europa orientale fosse governata da regimi politicamente stabili e si collocasse ormai ai margini del rinnovato conflitto EstOvest, essa risentì pesantemente del riacutizzarsi delle tensioni ideologiche.

6.2 Stabilità politica, disastro economico

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6.2.1. ILFASCINODISCRETODELGRIGIOREBRE

ˇ ZNEVIANO

Nell’ultimo quindicennio di esistenza i regimi dell’Europa orientale divennero il luogo del «socialismo realmente esistente» o, secondo la definizione offerta dalla nuova Costituzione sovietica del 1977, un insieme di «società socialiste sviluppate» in cammino verso il comunismo sotto la guida del partito unico. Il lungo periodo breˇzneviano (1964-82) impresse al blocco socialista un grigiore culturale ed estetico che rispecchiava l’assenza di carisma politico e umano del leader sovietico. L’apparente inamovibilità dei gruppi dirigenti locali e l’assenza di riforme dall’alto, unite ai primi segnali di crisi economica, portarono gli osservatori interni ed esterni a interpretare sempre più spesso la conquistata stabilità in termini di stagnazione e declino, e a caratterizzare le società esteuropee come affette da «vuoto morale» (Gale Stokes) o, più prosaicamente, da «squallore» (Ernest Gellner) 12. I pilastri legittimanti del socialismo reale post 1968 non erano più il comunismo stalinista, né il riformismo economico e culturale degli anni cinquanta e sessanta, ma una miscela di moderato consumismo e ostentato conformismo ideologico, dietro il quale si celavano comportamenti privati spesso opposti 13. Funzionari di partito e dirigenti economici e culturali abitavano in ville situate in zone residenziali, trascorrevano le vacanze all’estero, giocavano a tennis e praticavano la caccia in circoli riservati alla buona società, si dotavano di automobili (occidentali) di lusso, vestivano abiti firmati, si accaparravano al mercato nero le novità tecnologiche degli anni ottanta (perso-

nal computer, videocamere e antenne paraboliche) e non disprezzavano i giochi d’azzardo e le case di tolleranza, ufficialmente proibite. Il passatempo preferito della nomenklatura rimase tuttavia lo sport nobiliare per eccellenza, la caccia, preclusa ai cittadini comuni ai quali era proibito il possesso di armi. L’opportunità di partecipare alle sontuose battute di caccia (celebri quelle del dittatore romeno Ceau¸sescu) e l’appartenenza ai pochi circoli esistenti misuravano in maniera assai efficiente l’influenza reale di un dignitario 14 .

Anche le campagne di moralizzazione interferivano sempre più raramente nella sfera privata e molti degli elementi esteriori del benessere divennero, negli anni settanta, accessibili a milioni di cittadini. Nonostante i tempi d’attesa per la consegna di un’automobile potessero raggiungere i dieci anni, negli anni ottanta ne era provvisto oltre un quarto delle famiglie, con un picco in Cecoslovacchia e Germania Est. I ritmi di lavoro, non proprio impossibili, lasciavano ai cittadini molto tempo libero: laddove non era impiegato nelle code davanti a negozi semivuoti, esso consentiva di trascorrere il fine settimana nelle dacie, semplici casette di campagna con un lotto di terreno o un giardino annesso, costruite nel corso degli anni lontano dal rumore e dall’inquinamento delle grandi città. La maggiore novità del periodo breˇzneviano fu proprio l’assenza di sommovimenti politici e la riscoperta della dimensione privata e familiare. Conscia della capillarità del controllo poliziesco e dell’inutilità dell’azione politica, la popolazione approfittò della crisi ideologica dei regimi comunisti per costruirsi un’esistenza, per quanto possibile, normale e dignitosa.

Gli intellettuali vicini al dissenso espressero un giudizio interamente negativo su un quindicennio dominato dal conformismo culturale, dal culto talora grottesco dei leader politici, da un nazionalismo che copriva l’ideologia ufficiale, ormai svuotata di qualunque legittimità politica, e che sconfinava in un pesante antisemitismo, dai segnali di degrado economico e dall’ottusa persecuzione giudiziaria e amministrativa di numerosi intellettuali sovietici ed esteuropei 15. Il fenomeno del dissenso raggiunse il culmine nel decennio compreso fra gli accordi di Helsinki e l’avvento al potere di Gorbaˇcëv. Le sue azioni, per lo più dimostrative e simboliche, erano condotte da gruppi di intellettuali all’estero riuniti in movimenti informali (il KOR polacco nel 1976-77; Charta ’77 in Cecoslovacchia; la cosiddetta “opposizione democratica” in Ungheria) che disponevano di contatti nei media internazionali. Il dissenso rappresentò una testimonianza culturale importante, che spezzava presso il pubblico occidentale l’immagine di un’accettazione ormai universale del regime, ma il suo significato politico non va sopravvalutato. I regimi ritenevano il fenomeno fa-

stidioso ma controllabile e si limitarono a prevenirne la diffusione, confinandolo a poche centinaia di intellettuali e studenti. Solo in Polonia dalla seconda metà degli anni settanta il fermento intellettuale si fuse alle proteste operaie e generò un fenomeno unico in Europa orientale: il sindacato indipendente Solidarno´s´c. In Ungheria, invece, la critica “da sinistra” al sistema (maoismo, anarchismo, operaismo) si scontrò a lungo con la sensibilità e gli umori della maggioranza della popolazione, più ricettiva alle tematiche nazionali e culturali (per esempio, la difesa dei diritti delle minoranze ungheresi negli altri Stati socialisti).

Ben più significativo, dal punto di vista numerico, fu il consenso catturato dalle “controculture” giovanili o dai movimenti, organizzati o spontanei, di ispirazione patriottica e nazionalista, ai quali i media internazionali offrirono una copertura inferiore a quella riservata alla dissidenza intellettuale e dei quali non riuscirono a cogliere il potenziale destabilizzante. In Ungheria (1971-74) e Polonia (durante tutti gli anni ottanta) cortei non autorizzati, repressi con centinaia di arresti e violenze diffuse, si verificarono in occasione di date di importanza nazionale ignorate dal regime: il 15 marzo in Ungheria, oppure in Polonia i festeggiamenti alternativi al primo maggio ufficiale. In Cecoslovacchia e in Ungheria l’allerta poliziesca scattava rispettivamente ogni 21 agosto, anniversario del soffocamento della Primavera di Praga, e il 23 ottobre, anniversario dello scoppio della rivoluzione del 1956 16. Il 18-19 maggio 1972 in Lituania, a Kaunas, il suicidio di uno studente liceale fu seguito da imponenti manifestazioni e scontri, alla base dei quali erano sentimenti nazionalisti (antisovietici) e una ribellione generazionale di tipo antistalinista 17 .

Come notò già negli anni ottanta Michel Foucault, e come confermarono numerosi studiosi dopo il crollo del sistema sovietico, agli intellettuali di opposizione e ai dissidenti fu attribuita un’influenza sociale che purtroppo non possedevano. Un errore particolarmente grave fu compiuto da chi contrapponeva lo “Stato” (giudicato un’entità estranea e ostile alla gente) alla “società civile” (la comunità dei cittadini) 18. Stephen Kotkin afferma che nell’Europa orientale del socialismo maturo lo Stato, nonostante la sua intrusività, rappresentava anche l’unico fattore di organizzazione sociale, mentre la società civile era – e avrebbe continuato a lungo a essere anche nel postcomunismo – una categoria immaginaria che copriva una rete di compromessi e privilegi stabiliti dallo Stato stesso con i cittadini 19. Paradossalmente, il rapporto fra potere politico e corpo sociale raggiunse l’apice della dipendenza proprio nei decenni di crisi del socialismo, dopo aver conosciuto fasi di acuto confronto, come sottolineano le

ricerche d’archivio sull’Unione Sovietica degli anni trenta e sull’Europa orientale degli anni 1945-56 20 .

Secondo Gail Kligman, la società entrò in un processo di complice sdoppiamento, in cui un «meccanismo strutturale di resistenza» 21 perpetuava nei singoli l’illusione di una rigida separazione fra i comportamenti pubblici (adesione formale) e privati (ius mormorandi). Nello Stato redistributivo di tipo sovietico tecnologie e istituzioni avanzate coesistevano con forme di organizzazione del lavoro e di vita sociale estremamente primitive e preindustriali. Lo Stato costruì una stratificazione sociale più simile a una piramide di caste che ai ceti delle moderne società industriali 22. Negli anni settanta e ottanta l’URSS e i suoi satelliti divennero regimi in cui molti problemi della gente (dall’esame di ammissione all’università dei figli all’acquisizione di beni introvabili) potevano essere risolti mediante forme anche blande di corruzione dei funzionari pubblici. Il termine russo blat indica quel complesso sistema di corruzione spicciola, fatto di accordi personali, scambi di favori e creazione di network sociali informali che mettevano in grado i cittadini di oliare le lente ruote della burocrazia 23. Rileggendo la storia sociale del periodo breˇzneviano, è possibile concludere che la gente comune apprezzasse ancora più delle élite la monotona affidabilità del “socialismo realizzato” 24 .

Il grigiore del regime alimentò tuttavia, in particolare nei giovani, un diffuso senso di disorientamento e sfiducia nel futuro. La stagnazione e la sicurezza sociale corrispondevano alle aspettative della generazione nata negli anni venti e trenta, reduce dalla guerra e dallo stalinismo, ma non di quella, più dinamica ed esigente, del baby boom degli anni 1946-53. L’abbandono di ogni illusione circa la possibilità di riformare il sistema politico, i cui rappresentanti avevano all’inizio degli anni ottanta un’età media superiore ai settanta anni, spinse molti giovani a tentare di abbandonare il loro paese: perfino nell’Ungheria di Kádár, soprannominata significativamente la “baracca più allegra” del campo socialista, ogni anno migliaia di giovani, spesso dotati di istruzione superiore e di buona posizione sociale, dopo essere entrati legalmente in Austria rifiutavano di fare ritorno in patria e si rifugiavano in Occidente. L’imitazione dei modelli di comportamento occidentali portò a un aumento esponenziale di comportamenti trasgressivi, sanzionati amministrativamente o penalmente (ascolto e produzione di musica rock e punk, trasgressione sessuale, uso di droghe e stimolanti, formazione di bande giovanili, teppismo calcistico). Numerose statistiche, dall’incidenza dell’alcolismo e della tossicodipendenza al tasso di suicidi e alla criminalità violenta, indicano in tutto il blocco orientale un progressivo degrado sociale a parti-

re dalla seconda metà degli anni settanta. Nelle regioni europee dell’URSS, in Polonia e in Ungheria l’alcolismo e le malattie ad esso associate minacciavano ormai la capacità di resistenza fisica di una quota significativa della popolazione maschile. L’Ungheria guidava la classifica mondiale dei suicidi annui (fino a 45 su 100.000 abitanti nel 1986) 25, mentre nella RDT tali statistiche erano addirittura classificate come segreto di Stato.

6.2.2. L ’IMPLOSIONEECONOMICA: STAGNAZIONE E INDEBITAMENTOESTERO

Il 1973 rappresentò un anno di svolta nella storia del blocco sovietico. La guerra dello Yom Kippur (6-22 ottobre), combattuta vittoriosamente da Israele contro una coalizione araba guidata dall’Egitto e dalla Siria e sostenuta militarmente dai paesi socialisti, indusse i paesi appartenenti all’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) a bloccare le esportazioni verso l’Occidente. Questa ritorsione determinò un repentino aumento del prezzo del petrolio sui mercati internazionali, che in due mesi quadruplicò da 3 a quasi 12 dollari il barile. Era l’inizio di un prolungato “shock petrolifero” che, nel 1974-75 e ancora nel 1980-82, in seguito alla rivoluzione islamica in Iran, trascinò l’economia mondiale in una crisi di stagnazione-inflazione (stagflation). L’aumento del costo delle materie prime andò globalmente a vantaggio dei produttori di energia. Nel blocco socialista, tuttavia, la peculiare integrazione economica del Comecon impose all’URSS, apparentemente il principale beneficiario del rincaro delle tariffe energetiche, di mantere artificialmente basso il prezzo del petrolio e del gas metano esportato in Europa orientale. Se fino agli anni sessanta questa si era trovata complessivamente in vantaggio nei suoi scambi commerciali con l’URSS, dal 1973 fino all’implosione del 1989 fu proprio l’Unione Sovietica a sovvenzionare le economie esteuropee nel tentativo di assicurare stabilità politica ai propri alleati. Agli aiuti diretti si aggiunsero i benefici indiretti derivati dalla presenza di un mercato di oltre 250 milioni di persone, quello sovietico, che la “divisione socialista del lavoro” costringeva ad assorbire prodotti industriali e agricoli provenienti dal resto del blocco 26 .

Negli anni settanta le economie esteuropee assunsero una conformazione dualistica: molte imprese destinavano grandi quantità di prodotti qualitativamente modesti e tecnologicamente arretrati all’URSS e agli altri membri del Comecon, mentre una crescente minoranza di esse tentava di competere (in dollari) sul mercato mondiale. Oltre alle

disfunzioni proprie del sistema pianificato, le maggiori difficoltà a tenere il passo con i concorrenti occidentali risiedevano nella scarsa produttività e, soprattutto, nel ritardo tecnologico 27. La “lista nera” di prodotti, brevetti e applicazioni la cui esportazione al blocco sovietico era proibita tornò ad allungarsi, dopo un periodo di rilassamento, a partire dal 1977 28. Le tecnologie venivano peraltro acquisite dai paesi industrialmente avanzati (URSS, Germania Est e Cecoslovacchia) attraverso costose licenze 29. Mentre negli Stati Uniti facevano la loro comparsa Arpanet, la prima rete informatica di collegamento telefonico per computer (1969) e il calcolatore per uso personale (1974), nel blocco socialista l’informatizzazione del settore economico civile si arrestò, dopo un promettente inizio, per volontà politica e mancanza di fondi e di accesso alle tecnologie avanzate. Nel 1989, l’unico settore almeno parzialmente digitalizzato restava ancora quello militare. Negli anni ottanta il gap infrastrutturale e tecnologico con l’Occidente si misurava ormai ovunque in termini di decenni: per quanto riguardava sia la rete stradale e ferroviaria, sia i consumi energetici e il potenziale tecnologico e informatico (personal computers, telefax, fotocopiatrici e reti telefoniche).

Poiché la “seconda guerra fredda” frenava anche lo sviluppo delle esportazioni destinate ai mercati occidentali e ai paesi in via di sviluppo, l’Europa orientale entrò in profonda crisi economica dalla seconda metà degli anni settanta. In alcuni paesi (Ungheria dal 1980, Jugoslavia dal 1983, Romania dal 1982) le stesse statistiche ufficiali registrarono tassi di crescita negativi o prossimi allo zero. In Polonia, scossa da una crisi sistemica dovuta alla legalizzazione del sindacato indipendente Solidarno´s´c, il prodotto interno lordo subì addirittura nel biennio 1981-82 una contrazione del 15% 30. Nel complesso, dal 1973 al 1989 le economie pianificate crebbero a un ritmo annuo medio dello 0,7%, contro il 2% di quelle europeo-occidentali e mediterranee. Secondo i calcoli di Maddison, dal 1973 al 1989 la percentuale di reddito pro capite rispetto ai paesi occidentali calò ovunque (in media dal 49% al 37%), con l’eccezione della sola Jugoslavia (dal 34% al 35%). In Romania (dal 28% al 23%) e in Ungheria (dal 45% al 40%) la forbice si allargò di 5 punti, in Cecoslovacchia di 6 (dal 57% al 51%), in URSS di 7 (dal 49% al 42%), in Polonia addirittura di 10 (dal 43% al 33%) 31 .

Per evitare le prevedibili conseguenze sociali della crisi economica, i governi esteuropei furono costretti a ripianare il crescente passivo della bilancia commerciale indebitandosi sui mercati finanziari internazionali a tassi d’interesse inizialmente contenuti. Negli anni settanta l’indebitamento con l’estero evitò ai regimi l’adozione di misure

di austerità e tagli di bilancio, consentendo di migliorare temporaneamente il tenore di vita. Fra il 1970 e il 1980 il monte debiti netto in Europa orientale salì da 6 a 79 miliardi di dollari, per raggiungere i 110 nel 1990: i più indebitati risultavano la Polonia, l’Ungheria (che giunse nel 1988 a vantare il record d’indebitamento mondiale pro capite), la Jugoslavia e la Bulgaria. Meno coinvolti dal fenomeno furono, invece, i paesi economicamente più conservatori e legati all’Unione Sovietica, la Cecoslovacchia e la RDT. Nella seconda metà degli anni ottanta il debito polacco (42 miliardi di dollari) e quello ungherese (circa 20 miliardi) rappresentavano rispettivamente il quintuplo e il doppio del valore totale delle esportazioni dei due paesi. All’inizio degli anni ottanta la spirale dell’indebitamento si fece, tuttavia, sempre più insostenibile. Nell’aprile 1981 i creditori occidentali ritirarono i propri depositi presso le banche ungheresi, costringendo il governo di Budapest a cercare nel FMI un nuovo finanziatore del proprio debito. Ottenuto l’indispensabile consenso sovietico, il 6 maggio 1982 l’Ungheria entrò nel Fondo, che nel corso del decennio condizionò in misura crescente l’economia del paese, subordinando la concessione di ulteriori crediti (a tassi di interesse superiori a quelli di mercato) all’approfondimento delle riforme economiche e all’aumento dei prezzi al consumo 32 .

Il caso romeno, caratterizzato da misure draconiane di austerità imposte dal 1982 alla popolazione dal regime di Ceau¸sescu, rappresenta l’estremo opposto rispetto alla politica ungherese di graduale apertura al mercato. Come è stato osservato, almeno una parte della responsabilità per il disastro economico e sociale romeno degli anni ottanta va imputata ai partner commerciali e agli organismi internazionali, come il FMI e la Banca mondiale, dei quali la Romania era entrata a far parte, come primo membro del Comecon, nel dicembre 1972. Essi garantirono per un decennio al regime di Ceau¸sescu l’erogazione di crediti agevolati, utilizzati per sostenere i consumi interni e proseguire il programma di industrializzazione accelerata lanciato negli anni sessanta 33. Nella sua monografia sui rapporti tra Stati socialisti e gli organismi finanziari, Marie Lavigne descrive come, nel settembre 1981, la Romania avesse chiesto in via informale di rimodulare il pagamento del proprio debito. Il FMI concesse al paese un credito di 1,2 miliardi di dollari in tre anni, ma pretese un programma di stabilizzazione che comprendeva tagli agli investimenti e ai consumi, la svalutazione della moneta e una riforma del sistema dei prezzi. Nel novembre 1981, mentre altri paesi del blocco orientale (Polonia, Ungheria) entravano in grave crisi economico-finanziaria, il Fondo sospese l’erogazione del finanziamento in quanto il governo romeno ri-

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