VI. Nelle file della Repubblica
Inebriati di canti, di sogni, di gloria, di morte eroica, e di vittoria, i giovani che andarono a combattere nell’esercito di Salò: così recita la fama che li circonda. E la forza trascinatrice promanante dai miti che li avevano ammaliati è stata riconosciuta da scrittori, da memorialisti e da romanzieri che avevano fatto parte di quel mondo, pur dopo averne riconosciuto l’inganno. Ma non furono solo «balilla», non furono solo giovani trascinati dai seducenti cori della propria adolescenza, quelli che andarono a Salò: accanto a loro – sopra di loro, a comandare – c’erano tanti spettri del passato; e tuttavia furono certamente i giovani quelli che indossarono la divisa e imbracciarono le armi: erano accorsi ad offrire il loro sangue al richiamo del duce idolatrato per vent’anni dall’Italia intera; per vendicare la vergogna d’Italia – il rovesciamento dell’alleanza ai danni della Germania nazista, l’onta della resa incondizionata, la fuga del re, del suo governo, l’ignavia degli alti comandi dell’esercito. Avevano aderito alla dichiarazione di guerra civile enunciata dal deposto dittatore il 18 settembre 1943 da una stazione radio sita in Monaco di Baviera. Lui aveva invocato il «sangue», l’aveva invocato come il solo rimedio che «può cancellare una pagina così obbrobriosa nella storia della patria». E in nome dell’onore da rivendicare, tornando a morire a fianco delle truppe di Hitler, il sangue lo sparsero veramente: il loro e quello di tanti italiani che in nome di opposti ideali – libertà democrazia giustizia – scelsero la strada della guerriglia partigiana e della cospirazione antifascista. Ma per molti la guerra al servizio della Repubblica non fu un’eroica avventura; fu anzi una vicenda per nulla gratificante, amara e intrisa di rancore per la gran parte dei coscritti, di tutti coloro che risposero ai bandi di chiamata alle armi emanati dalla Repubblica e non ebbero la volontà di scegliere la renitenza.