VII. Vite quotidiane
La perigliosa vita del partigiano e la tensione fanatica del milite della Repubblica fascista sembrano contrapporsi al grigiore della quotidianità. Così suggeriscono la narrazione accreditata, la retorica patriottica e le innumeri memorie dei combattenti. Le vite quotidiane hanno invece drammaticità e pregnanze non meno consistenti. Ma non sono momenti astratti dal contesto della guerra. Si sfiorano e si intrecciano con il confronto eroico e tragico di chi si va battendo nella guerra civile, tanto sull’uno quanto sull’altro dei due fronti che si sono delineati a partire dal settembre 1943. Nelle città e nelle campagne pericoli d’ogni genere assediano la popolazione: ma sono i bombardamenti il fatto più devastante. Non ci sono rifugi che assicurino protezione; non è possibile prevedere quando e come le flotte aeree nemiche colpiranno. L’evento stordisce, avvolge tutti in una cupa impotenza, annulla in ciascuno la capacità di pensare e di sentire. Fuggire, fuggire in qualunque luogo prometta qualche sicurezza, nella fallace speranza che la guerra – quella guerra che tutti si illudono di non aver voluto – possa risparmiare qualche angolo dell’Italia sconfitta. Gli spostamenti della popolazione, che il fascismo ha tentato di scongiurare fino al dicembre del 1942, quando dà il segnale con un discorso in cui Mussolini invita a lasciare i centri urbani, avvengono nel modo più anarchico e improvvisato. A differenza di altri paesi – primo di tutti la Gran Bretagna – che hanno pianificato lo sfollamento dalle città fin dagli inizi del conflitto mondiale, avendo compreso la lezione delle pur ridotte incursioni aeree della guerra precedente, l’Italia non ha alcun disegno organico per guidare il fenomeno ed esso si frammenta in una infinità di improvvisati esodi più o meni massicci. Chi, nelle sue memorie, ricorda le proprie esperienze infantili mette