Manhattan Folk Story - Dave Van Ronk

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Dave Van Ronk con Elijah Wald

Manhattan Folk Story Il racconto della mia vita


Proprietà letteraria riservata © 2005, 2006 by Elijah Wald e Andrea Vuocolo Van Ronk © 2014 RCS Libri S.p.A., Milano Traduzione di Giuseppe Manuel Brescia ISBN 978-88-17-06319-7 Titolo originale dell’opera: The Mayor of MacDougal Street. A Memoir Prima edizione BUR gennaio 2014 All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without the prior written permission of the publisher. Printed in the United States of America. Gaslight Rag, Zen Koans Gonna Rise Again and Last Call words and music by Dave Van Ronk, copyright © Folklore Music (ASCAP). Estate of Dave Van Ronk is represented by Folklore Productions, Santa Monica CA, www.folkloreproductions.com.

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I vecchi tempi di Lawrence Block

Ai primi di agosto del 1956 salii su un treno a Buffalo e ne scesi sette o otto ore dopo alla Grand Central Station di New York. Trovai l’orologio sotto al quale dovevo incontrarmi con Paul Grillo, e, incredibilmente, lui era già lì. Avevo da poco concluso il mio primo anno all’Antioch College di Yellow Springs, in Ohio, dove Paul era stato uno dei miei tutor. (In quel ruolo lui e il suo compagno di stanza avevano fatto da mentore al sottoscritto e alle altre quindici o venti matricole che vivevano nello stesso studentato.) Ora, giunti a New York per tre mesi di lavoro, Paul e io avremmo abitato insieme, in compagnia di un terzo tizio, Fred Anliot. Paul aveva già trovato una sistemazione e mi diede l’indirizzo: Quattordicesima Strada Ovest, civico 147. Mi indicò come raggiungere la metropolitana e mi disse di incamminarmi. Presi il convoglio fino a Times Square, poi la linea della IRT, la prima compagnia metropolitana di New York, fino alla Quattordicesima. Ritirai le chiavi

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dalla padrona di casa – la Signora Moderno, se la memoria mi assiste – e salii le tre rampe di scale che conducevano a una stanza molto grande con le pareti dipinte di un giallo brillante. Ci abitammo per due o tre settimane. Poi decidemmo che costava troppo – pagavamo ventiquattro dollari a settimana, da dividere in tre – e qualcuno, forse Paul, trovò una sistemazione più economica al 108 della Dodicesima Strada Ovest. Lì l’affitto era dodici dollari a settimana, ma non è che fosse poi un grande affare, ed eravamo giusto abbastanza intelligenti da renderci conto che dovevamo cambiare aria in fretta. Nel giro di due settimane ce n’eravamo già andati e ci eravamo stabiliti in un appartamentino con una sola camera da letto, al pianterreno del numero 54 di Barrow Street, dove l’affitto costava novanta dollari al mese. Adesso ci sarà l’ufficio di qualche cooperativa, e probabilmente varrà mezzo milione di dollari. All’epoca era un posto fantastico in cui vivere, e ci restai sino alla fine di ottobre, quando arrivò il momento di tornare all’università. Insomma, vissi nel Greenwich Village tre mesi soltanto, quell’estate, ed è davvero difficilissimo da credere. Perché incontrai tanta di quella gente e feci tante di quelle cose! Lavoravo cinque giorni a settimana, dalle nove alle cinque, a smistare la posta per Pines Publications, sulla Quarantesima Strada Est. Le serate e i fine settimana li passavo in giro per la città, e la zona che bazzicavo più spesso era MacDougal Street. Quella primissima sera a New York avevo intenzione

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di dare un’occhiata a un paio di posti, e riuscii a trovarli entrambi. Uno era un locale jazz chiamato Café Bohemia, al 15 di Barrow Street, dove, seduto al bancone, sorseggiai lentamente un drink ascoltando Al Cohn e Zoot Sims. L’altro era il Caricature, una coffeehouse di MacDougal Street, di cui un tizio che avevo conosciuto l’anno prima a Camp Lakeland – eravamo entrambi coordinatori al campo estivo – era un habitué delle serate di bridge organizzate da Liz. Avrei potuto conoscere Dave Van Ronk proprio lì, quella prima sera – da Liz, non al Bohemia – visto che, come dice lui stesso, era uno dei posti che frequentava di solito. Invece lo conobbi durante uno dei ritrovi in Washington Square Park, dove ben presto imparai a passare le mie domeniche pomeriggio. Ci trovavo sempre una marea di persone sedute in cerchio a suonare e a cantare canzoni folk, e un’energia davvero molto speciale. Dovete capire che è stato prima del rinascimento folk, prima che la curiosa sintesi fra droga e politica trasformasse gli studenti in una specie a sé stante. Gli universitari erano ancora in grande maggioranza membri della generazione silenziosa, vestiti di flanella grigia e pronti a firmare per un lavoro in ufficio e una buona pensione. Chi tra noi sentiva di non rientrare in quello schema, chi tra noi aveva sempre più o meno intuito che qualcosa non andava, passava il tempo seduto intorno alla fontana di Washington Square a cantare Michael Row the Boat Ashore sentendosi estremamente orgoglioso di esserci. L’unica nota stonata in quelle domeniche pomeriggio

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era che finivano alle sei, anche se alcuni di noi pensavano che dovesse esserci un modo di prolungare la festa. Per un po’ il 54 di Barrow Street divenne teatro dei nostri after hours. Il nostro appartamentino – soggiorno, camera da letto, cucina – si riempiva di gente con chitarre e banjo e voci, e la festa continuava per altre quattro o cinque ore. Non so esattamente per quanto andammo avanti. Quando fu l’ora di tornarcene in Ohio, lasciammo il 54 di Barrow Street ad alcuni compagni di università, e può darsi che loro abbiano continuato a tenere feste ancora per un po’, finché il gruppo si trasferì in un appartamento più spazioso in Spring Street. A quel punto, ormai, avevo deciso di restare. Ero stato a New York due volte con i miei genitori – mio padre era cresciuto fra Manhattan e il Bronx – e avevo sempre immaginato che in un modo o nell’altro sarei finito a viverci, tuttavia fu durante quei tre mesi che diventai un newyorchese e, più precisamente, uno del Village. Ho abitato in altri posti – Wisconsin, Florida – e in altre zone di New York, ma il Greenwich Village mi ha sempre fatto sentire a casa, ed è lì che in effetti ho vissuto per la maggior parte degli ultimi trent’anni. Cominciai, ve ne ricorderete, dalla Quattordicesima Strada, a pochi passi dalla Settima Avenue. Da allora sono passato per la Dodicesima, per Barrow Street, per Bleecker Street, Greenwich Street e Jane Street, per Charles Street e Horatio Street, per la Tredicesima Strada Ovest. Ora, da circa una decina d’anni, abito sulla Dodicesima Strada Ovest, a pochi passi dall’Ottava Avenue.

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«Dove altro dovrei andare?» diceva Dave a proposito del Village. «Sono già qui.»

Non importa quando siete arrivati da queste parti, in qualsiasi caso sarebbe stato meglio dieci anni prima. È quello che si dice oggi lamentandosi della gentrificazione. È quello che dicevano vent’anni fa lamentandosi dei turisti. È quello che dicevano quarant’anni fa lamentandosi dei giovani hippy. Ho il sospetto che sia sempre stato così. Ho il sospetto che lo dicessero già a Edna St. Vincent Millay e a Floyd Dell. Visto che io c’ero a quell’epoca, visto che ho un carissimo ricordo di quei tempi, che se ne sono andati troppo in fretta, come la mia gioventù, ho la sensazione che il Greenwich Village fosse un luogo molto speciale nei primi anni che vi trascorsi. Ed è probabile che chi è arrivato qui ieri avrà la stessa sensazione, una volta che la sua giovinezza sarà diventata, come la mia, un impreciso e lontano ricordo del passato. Una volta, all’inizio degli anni Sessanta, decisi di andarmene da New York. Dissi a Dave che sarei tornato a Buffalo. Lui era incredulo, e mi chiese perché, una domanda alla quale per qualche motivo non fui in grado di rispondere. «Be’» riuscii a dire, «è la mia città. È da lì che vengo.» Lui ci pensò un po’ su, poi il suo sguardo si perse nello spazio davanti a noi. «Conosco una donna» mi disse «che è nata a Buchenwald.»

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Feci amicizia con Dave Van Ronk i miei primi tre mesi a New York. Quell’amicizia sarebbe durata per quarantacinque anni. Non saprei dire quante volte l’ho sentito cantare. Andai a vedere i suoi concerti in innumerevoli locali di New York, ma riuscii anche a beccarlo a Los Angeles e a Chicago e ad Albuquerque e a New Hope, in Pennsylvania, e addirittura da qualche parte nella contea di Westchester. Non ricordo neppure un momento nel quale non avessi voglia di ascoltare quella voce. Una sera io, Dave e Lee Hoffman eravamo seduti a bere nell’appartamento di Lee, che all’epoca era sposata con Larry Shaw, e scrivemmo insieme un pugno di canzoni che sarebbero finite su una rivista chiamata The Bosses’ Songbook, un ironico «canzoniere dei padroni» il cui sottotitolo era Songs to Stifle the Flames of Discontent, ovverosia «canzoni per soffocare il fuoco del malcontento», in cui venivano mai indicati gli autori delle canzoni: come spiegava la nota introduttiva, la maggior parte degli autori era già stata inserita in fin troppe liste. Un’altra mia canzone, Georgie and the IRT, finì sul secondo album di Dave. Alcuni anni dopo mi occupai delle note di copertina per un altro suo album, Songs for Aging Children. Quando Dave morì passai un paio di settimane ad ascoltare i suoi dischi. La musica resta. La canzone è lì, e c’è anche il cantante, presente in ogni nota. Quel che sbiadisce, quel che è difficile recuperare, è la sua presenza fuori dal palco. Le serate – e non ce ne furono abbastanza, solo poche manciate sparse negli anni – passa-

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te a chiacchierare con lui. Dave era un autodidatta, e mai miglior insegnante incontrò allievo più ricettivo; sapeva più cose, e riguardo i più svariati argomenti, di qualsiasi altra persona abbia mai incontrato. Vorrei davvero che non ci avesse lasciato così presto. E vorrei che questo meraviglioso libro che ci ha regalato fosse un po’ più lungo. Ma dopotutto era la stessa cosa che pensavo dopo ogni suo concerto. E Dave, sin dagli inizi, si imponeva di fare un unico bis, non di più. «Dovresti sempre smettere quando hanno ancora un po’ fame» diceva. E così faceva, sempre.

Sono lieto e onorato che Elijah Wald mi abbia chiesto di scrivere un’introduzione per questo libro. Il compito si è rivelato ben più arduo del previsto, e non posso dire di essere soddisfatto del risultato. In qualsiasi caso Dave non ha affatto bisogno che qualcuno gli scaldi il pubblico. Vi ho già portato via abbastanza tempo. Ora scenderò dal palco, sapendo perlomeno di lasciarvi in ottime mani. Greenwich Village, luglio 2004

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Manhattan Folk Story

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Ad Andrea

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Preistoria. La gioventĂš nei sobborghi

A Nostra Signora della Perpetua Tombola, dove andai a scuola, oltre a usare la ruota della tortura, il torcipollici e il bastinado, c’era la curiosa abitudine di annunciare i voti degli esami di fine anno e poi costringere tutti quanti ad aspettare ancora una settimana prima di lasciarci liberi per le vacanze estive. Presumo che lo facessero per rafforzare la nostra comprensione del Purgatorio. Va da sÊ che per un branco di dodicenni quella pratica si accordava alla perfezione alle voci che circolavano circa una macchina sculacciatrice nascosta da qualche parte negli scantinati. Probabilmente le nostre insegnanti suore condividevano il nostro punto di vista, dato che toccava a loro mantenere un apparente ordine fra quella massa di circa venticinque preadolescenti indiavolati. Guardandomi indietro, quasi le capisco. La nostra professoressa di seconda media, che a quanto ricordo si chiamava Suor Attila Marie, tentava disperatamente di farci divertire. Dato che il suo infallibile tormen-

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tone – torcere l’orecchio dello screanzato di turno fino a che il pubblico non ululava deliziato – talvolta pareva un tantino fuori luogo in quel contesto, ricorreva a forme di tortura più sottili. Ci faceva cantare tutti insieme: se ben ricordo, il suo cavallo di battaglia era When Irish Eyes Are Smiling. Ci leggeva delle storie: non dimenticherò mai la sua lettura di La dama o la tigre: la sua voce, sia nel timbro che nell’accento, somigliava in modo inquietante a quella di Jimmy Durante. Una volta, poi, in uno sfolgorante sfoggio di creatività, si inventò qualcosa che poteva solo inebetire la classe per una giornata intera: pretese che ogni alunno tenesse un discorso di un quarto d’ora sul tema «Cosa voglio fare da grande». Avevamo un giorno di tempo per prepararci. Io ero pronto. Ci avevo riflettuto con attenzione, anche se buttai giù qualche appunto tanto per stare tranquillo, e mi presentai colmo di quel senso di gioiosa anticipazione che contraddistingue i gigioni nati. Seduto al banco, mi rassegnai ad ascoltare una pietosa sequela di futuri postini, preti, badesse, avvocati e infermiere che, in preda al disagio, declamavano le loro penose aspirazioni. Per fortuna non dovetti aspettare a lungo. Ero il primo della seconda fila. Quando venne il mio turno puntai con passo sicuro verso la lavagna: «Quello che voglio fare da grande» cominciai «è il lavoratore stagionale, che non è una cosa soltanto. Voglio andare di città in città facendo lavoretti occasionali finché non guadagno abbastanza per ripartire...». Stavo giusto per arrivare alla parte dei carri merci, ma non riuscii a proseguire. Suor Attila Marie era

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partita alla carica dal fondo dell’aula, il volto di un rosso barbabietola fin troppo familiare. «Il barbone!» gridava. «Tu vuoi fare il barbone!» Non c’è bisogno che vi dica che fu proprio in quell’aula e in quel momento che venne abolita la moratoria sui torcimenti d’orecchi. Sono nato in un ospedale svedese di Brooklyn il 30 giugno 1936. Quando in tenera età cominciai a crescere raggiungendo proporzioni piuttosto enormi, mia nonna si convinse che ci fosse stato uno scambio nella culla. Ogni volta che inciampavo in qualcosa – e capitava spesso – diceva: «Oddio, riecco lo svedese». Mio padre e mia madre si separarono quand’ero appena nato. Lui non lo conobbi mai, e non ne ho mai sofferto, né ho mai avuto anche solo un briciolo di curiosità nei suoi confronti. Quel che non conosci, non ti manca. Fino all’età di nove o dieci anni, a volte stavo con mia madre, altre volte con questa o quell’altra «zia». Ne ho avute una lunga serie. Alcune erano migliori di altre, e una delle migliori si chiamava Emma «Mamma» Hogan. Aveva contrabbandato alcolici per conto di Legs Diamond ai tempi del proibizionismo, e aveva persino gestito uno speakeasy, un bar clandestino, quindi era naturale che mi sembrasse la più grande meraviglia del mondo dopo le vongole in scatola. Adorava il jazz, e la radio in casa era sempre accesa: Duke Ellington, Louis Armstrong, Benny Goodman, Count Basie... li ascoltavo tutti, a volte trasmessi dal vivo. Fats Waller teneva un

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programma ogni domenica pomeriggio, e io ero un suo devoto fan. Ragazzi, quanto adoravo quel tizio! Anni dopo conobbi Herman Autrey, il trombettista di Fats, e quando gli raccontai quanto adorassi sentirlo suonare in quel programma lui scoppiò a ridere e mi disse: «Non so come tu abbia fatto a sentirmi! Non mi lasciavano mettere davanti al microfono, mi piazzavano a suonare in un angolo con la faccia rivolta al muro». Mi ricordo anche di Eddie Condon, e della Chamber Society of Lower Basin Street. I combo più piccoli erano i miei preferiti, perché sentivi che si divertivano. Intorno al 1945 mia madre e io ci trasferimmo a Richmond Hill, nel Queens. Per i primi tempi abitammo con i nonni e lo zio Bill, ma non c’era abbastanza spazio per tutti, così mia madre prese una stanza ammobiliata a pochi isolati di distanza. Odiavo Richmond Hill. C’erano alberi, casette, prati all’inglese... e una noia paralizzante. Era un quartiere operaio dove tutti quanti si sforzavano di essere così rispettabili. Le domeniche erano in particolar modo strazianti. Naturalmente si doveva andare tutti in chiesa, e noi bambini non potevamo toglierci il vestito buono neanche dopo la messa. Niente giochi movimentati, perché avresti potuto sporcarti o strapparti qualcosa. Per lo più ce ne stavamo lì impalati in un angolo, a fissare truci le nostre scarpe ostinatamente lucide. Erano tutti perfettamente infelici, persino gli adulti. Quel trasloco ebbe comunque qualche risvolto positivo. Mio nonno era stato un pianista semi-professionista e al volgere del secolo aveva suonato negli alberghi di

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Catskill, prima che mia nonna lo accalappiasse e lo mandasse a lavorare. Conosceva tutte le canzoni di quei tempi: da Harry von Tilzer a Harrigan e Hart a Ben Harney, e naturalmente Scott Joplin. «Quella sì che era musica» diceva sempre. «Questa roba jazz sembra il canto di una vacca moribonda» o, tanto per variare, «sembra una capra che piscia in un catino.» Era un ragazzo di campagna, e ci sapeva proprio fare con le parole. Ho solo dei vaghi ricordi di mio nonno al pianoforte: The Maple Leaf Rag e una versione imbizzarrita di The Stars and Stripes Forever, immancabilmente capace di scatenare in qualsiasi bambino di sei anni un impeto di estasi marziale. Purtroppo a Richmond Hill il pianoforte non c’era più; mio zio l’aveva fatto a pezzi e gettato via dicendo: «Cosa ce ne facciamo? Abbiamo la radio». Era un americano moderno in tutto e per tutto, e quei marchingegni così arcaici non gli interessavano affatto. Buttò via anche una copia dell’autobiografia di Buffalo Bill con tanto di autografo.1 Mia nonna era un’irlandese di Brooklyn, e per lei il tempo si era fermato attorno al 1910. Era una narratrice straordinaria con un’incredibile memoria per i dettagli, e una cantante instancabile. Non smetteva mai di cantare, se non per parlare o per mangiare (c’era sempre qualcosa che usciva o che entrava nella sua bocca). Non aveva una gran voce, ma accidenti se strillava; faceva impazzire i vicini. 1

Non fraintendetemi, adoravo mio zio. Tanto per cominciare mi insegnò a suonare l’armonica... Non c’è due senza tre, adesso che ci penso.

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