Cecilia Ahern - I cento nomi

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La chiamavano «La tomba», perché qualunque segreto o confidenza – personale e meno – le rivelavi, restava sepolto per sempre. Con lei eri al sicuro: sapevi che non ti avrebbe giudicato, e che nel caso l’avesse fatto se lo sarebbe tenuto per sé e tu non l’avresti mai scoperto. Anche il nome di battesimo le calzava a pennello: suggeriva coerenza e forza d’animo, e lei era una persona solida, stabile e tenace, con un temperamento forte che, chissà come, riusciva sempre a rassicurarti. Ecco perché farle visita in quel luogo era un’agonia. Ma un’agonia vera, non semplicemente un’esperienza logorante dal punto di vista mentale. Kitty avvertiva un dolore lancinante al petto, più precisamente al cuore, che aveva cominciato a manifestarsi all’idea di doverla andare a trovare, si era intensificato ora che si trovava lì, e si era aggravato con la presa di coscienza che non si trattava né di un sogno né di un falso allarme, ma della vita reale nella sua forma più cruda: un’esistenza sotto scacco che presto sarebbe svanita nell’oblio della morte. Nella clinica privata, Kitty prese le scale anziché l’ascensore, continuò a sbagliare direzione di proposito e fece di tutto per cedere il passo a chiunque, e specialmente ai pazienti lenti come lumache che si muovevano con i deambulatori o trascinandosi dietro le aste portaflebo. Si rendeva 9

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conto che gli altri la fissavano in modo strano, un po’ per via della sua aria sconvolta e un po’ perché aveva già fatto il giro del reparto diverse volte. Rispose con sollecitudine a chiunque accennasse a rivolgerle la parola e fece di tutto pur di rimandare l’ingresso nella stanza di Constance. Alla fine, però, fu costretta a smetterla con quegli espedienti, quando si ritrovò in un vicolo cieco, davanti a quattro porte disposte a semicerchio. Tre erano aperte, ma Kitty non aveva bisogno di affacciarsi né di controllare le targhette con i numeri, perché sapeva perfettamente in quale camera si trovava la sua amica e mentore. Ringraziò in silenzio la porta chiusa che le concedeva ancora un attimo. Bussò piano, senza convinzione; sapeva che era giusto essere lì, ma sperava che l’amica non la sentisse, così se ne sarebbe potuta andare dicendo che almeno ci aveva provato, mettendosi l’animo in pace senza sentirsi in colpa. Quel poco di razionalità che ancora le restava le suggeriva che una speranza del genere non era realistica, tantomeno giusta. Il cuore le batteva forte mentre spostava nervosamente il peso da un piede all’altro facendo stridere le suole sul pavimento, con quell’odore che quasi le toglieva le forze. Detestava il tanfo degli ospedali. Fu sopraffatta da un’ondata di nausea e pregò di riuscire a ricomporsi, sperando che la persona adulta che era in lei superasse quel momento. Mentre era intenta a guardarsi le scarpe e a fare respiri profondi, la porta si aprì e Kitty si ritrovò di fronte un’infermiera, e Constance, a letto, irriconoscibile. Sbatté le palpebre una volta, poi un’altra; la terza volta capì che la cosa migliore da fare era fingere, perché una reazione scioccata non sarebbe stata di aiuto alla sua amica. Provò a farsi venire in mente una frase qualunque, ma le man10

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cavano le parole. Non riuscì a trovare nulla di divertente o di stupido da dire a un’amica che conosceva da dieci anni, niente di niente. «Non ho mai visto questa donna in vita mia» dichiarò Constance con il solito accento francese, che nonostante vivesse in Irlanda da più di trent’anni non aveva ancora perso. Sorprendentemente la sua voce era ferma e decisa, risoluta come sempre. «Chiamate la sicurezza e allontanatela immediatamente dall’edificio.» L’infermiera sorrise, spalancò la porta e tornò accanto a Constance. «Posso passare in un altro momento» provò Kitty. Poi si voltò per andarsene, ma davanti alla distesa di attrezzature ospedaliere fece dietrofront e si girò di nuovo verso la stanza in cerca di una parvenza di normalità, un oggetto qualunque, banale e quotidiano, sul quale focalizzare l’attenzione per illudersi di non essere davvero lì, in un ospedale, con quell’odore, a due passi dalla sua migliore amica, malata terminale. «Ho quasi finito. Devo solo misurarti la febbre» disse l’infermiera, infilando un termometro nell’orecchio della paziente. «Entra, siediti.» Constance le indicò la sedia accanto al letto. Kitty non riusciva a guardarla. Si rendeva conto che era un comportamento scortese, ma i suoi occhi continuavano a vagare, come attratti da una forza magnetica verso cose che non parlassero di malattia e non le ricordassero persone sofferenti, così prese ad armeggiare con i regali che stringeva tra le braccia. «Ti ho portato dei fiori» annunciò, guardandosi intorno in cerca di un vaso in cui sistemarli. Constance de11

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testava i fiori. Ogni volta che qualcuno gliene regalava per farsi bello con lei, per chiederle scusa, o anche solo per ravvivare il suo ufficio, lei li lasciava appassire senza curarsene. Kitty lo sapeva, ma comprare quel bouquet era stato uno dei tanti escamotage per ritardare la visita, tanto più che dal fioraio c’era la coda. «Cara, i ragazzi della sicurezza non le hanno detto che non è permesso introdurre fiori nel reparto?» le domandò l’infermiera. «Oh, non importa. Me ne libero subito» rispose Kitty, tentando di mascherare il senso di sollievo mentre balzava in piedi per fuggire. «Dia pure a me. Li lascerò in accettazione, così potrà portarli a casa. Sarebbe un peccato buttarli via.» «Per fortuna ho anche qualche cupcake» aggiunse Kitty, tirando fuori una scatola dalla borsa. L’infermiera e Constance si scambiarono un’occhiata. «State scherzando? Sono vietati anche i cupcake?» «Abbiamo un cuoco molto suscettibile.» Kitty consegnò la merce illecita all’infermiera. «Si porti a casa pure quelli» ridacchiò lei, controllando il termometro. «Stai benone» disse a Constance con un sorriso. Le due donne si guardarono come se quelle due parole volessero dire tutt’altro, e in effetti doveva essere così perché Constance non stava affatto bene. Era divorata dal cancro. I capelli, che avevano ripreso a crescerle da poco, le spuntavano sulla testa a chiazze irregolari, e sotto l’informe camicione da ospedale si intravedevano le ossa sporgenti del torace. Dalle braccia magrissime e piene di lividi uscivano tubicini e cannule di ogni tipo. «Meno male che non le ho detto della cocaina che ho in tasca» scherzò Kitty, non appena l’infermiera si richiuse 12

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la porta alle spalle. «So che detesti i fiori, ma mi sono fatta prendere dal panico. Avevo pensato di portarti uno smalto coi brillantini, un bastoncino d’incenso e uno specchietto. Mi sembrava divertente.» «E perché non l’hai fatto?» Gli occhi azzurri di Constance erano ancora vivaci, e Kitty pensò che, se fosse riuscita a concentrarsi sul suo sguardo, forse avrebbe dimenticato il suo corpo. Forse. «Perché mi sono resa conto che non faceva ridere.» «Non è vero.» «Li porterò la prossima volta.» «Be’, ma ormai hai rovinato la sorpresa. Tesoro…» disse Constance, tendendo un braccio verso di lei. Si strinsero le mani, e Kitty cercò di non fissarsi sulle dita deboli e scheletriche dell’amica. «Che bello vederti.» «Scusa se ci ho messo tanto.» «In effetti ti ci è voluto un bel po’.» «Sai com’è… il traffico…» farfugliò Kitty, ma si interruppe subito. Chi voleva prendere in giro? Aveva rimandato quell’incontro per più di un mese. Capì che Constance non parlava in attesa di una spiegazione seria. «Odio gli ospedali.» «Lo so. Nosocomefobia» replicò Constance. «Cos’è?» «La paura degli ospedali.» «Non sapevo che esistesse una parola per descriverla.» «Esiste una parola per tutto. Io non vado in bagno da due settimane e loro dicono che soffro di “anismo”.» «Potrei scriverci un pezzo su questa cosa» commentò Kitty, pronta a cambiare argomento. «Non credo proprio. I miei problemi di inerzia rettale 13

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resteranno tra me, te, Bob e quella simpatica ragazza alla quale permetto di vedere il mio sedere.» «Intendevo dire sulla fobia degli ospedali. Non sarebbe male, come storia.» «Illuminami.» «La storia di una persona molto malata, che però non può farsi curare.» «Non ci sono solo gli ospedali. C’è anche l’assistenza sanitaria a domicilio. Sai che storia!» «Una donna con le doglie. La poveretta che cammina avanti e indietro davanti all’ospedale, ma non ce la fa a entrare. Che ne dici?» «Dico che potrebbe partorire in ambulanza, a casa sua o per strada» rispose Constance, scrollando le spalle. «Una volta ho scritto un pezzo su una sfollata del Kosovo che ha avuto un bambino mentre si nascondeva, in completa solitudine e alla sua prima gravidanza. Fu trovata insieme al bambino due settimane dopo, in ottima salute, sia lui sia lei. In Africa le donne mettono al mondo i figli mentre faticano nei campi, e riprendono a lavorare subito dopo. In certe regioni, le altre donne della tribù danzano intorno alla partoriente finché il bambino non viene alla luce. È il mondo occidentale che affronta il momento della nascita in maniera sbagliata» affermò agitando una mano in un gesto di sufficienza, nonostante non avesse figli. «Ho scritto un articolo anche su questo.» «Un medico che non riesce a esercitare?» azzardò Kitty, per sostenere la propria idea. «Non dire stupidaggini. Perderebbe immediatamente l’abilitazione.» «Be’» fece Kitty, «grazie per la sincerità. Non ti smentisci mai.» Poi il sorriso le svanì dalle labbra, mentre gli 14

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occhi si fermavano sulla mano di Constance, stretta sulla sua. «E di una donna egoista che non va a trovare la sua amica malata, che te ne pare?» «Ma ora sei qui, e io sono felice di vederti.» Kitty deglutì a fatica prima di domandare: «Non mi chiedi niente?». «A cosa ti riferisci?» «Andiamo, lo sai.» «Ho pensato che magari non ti andava di parlarne.» «Infatti è così.» «Non c’è problema.» Seguì un lungo silenzio. Alla fine fu Kitty a interromperlo. «Mi stanno facendo a pezzi sulla stampa, alla radio, dappertutto.» «Non ho letto i giornali, ultimamente.» Kitty finse di non aver notato la pila di riviste e quotidiani appoggiati sul davanzale. «Ovunque vada, ogni giorno, la gente mi guarda, mi indica e bisbiglia come se avessi cucita addosso la lettera scarlatta.» «È il prezzo da pagare quando ci si trova sotto i riflettori. Ora sei una star della tv.» «No, sono una che si è messa in ridicolo in tv. C’è una bella differenza.» Constance scrollò di nuovo le spalle, come a dire che in fondo non era niente di che. «Tu mi avevi avvisata. Perché non spari un bel “te l’avevo detto” e la facciamo finita?» «Io non ragiono così. Non serve a niente.» Kitty sfilò la mano da sotto la sua e chiese sottovoce: «Ho ancora un lavoro?». «Non hai parlato con Pete?» domandò Constance di rimando, già irritata con il suo vice. 15

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«Sì, ma voglio sentirlo da te.» «La posizione di “Etcetera” nei confronti del tuo lavoro come reporter non è cambiata» dichiarò Constance. «Grazie» bisbigliò Kitty. «Sono stata dalla tua parte quando hai deciso di lavorare per Thirty Minutes, perché so che sei brava e che hai le potenzialità per diventare un’ottima professionista. Tutti sbagliano, chi più chi meno, nessuno è perfetto. Gli errori ci devono servire per migliorare come giornalisti e, soprattutto, come persone. Te la ricordi la storia che volevi propinarmi dieci anni fa, al colloquio?» Mortificata dal ricordo, Kitty scoppiò a ridere e mentì: «No». «Te la ricordi sì, ma ti rinfrescherò ugualmente la memoria. Ti avevo chiesto cosa avresti fatto se ti avessi domandato di scrivere un articolo così, su due piedi, su un argomento a caso.» «Dai, non c’è bisogno di rivangare questa faccenda. C’ero anch’io, no?» provò a interromperla Kitty, arrossendo. «Mi hai risposto che avevi sentito parlare di un bruco che non riusciva a trasformarsi in farfalla…» «Sì, sì, lo so.» «… e che ti sarebbe piaciuto analizzare a fondo cosa si provava a dover rinunciare a una cosa tanto bella. Hai detto che avresti voluto capire come si sentiva quel bruco mentre guardava gli altri che si trasformavano, sapendo che a lui non sarebbe mai successo. Ricordo che il giorno del colloquio c’erano le elezioni presidenziali negli Stati Uniti e che una nave da crociera era affondata con quattromilacinquecento passeggeri a bordo. Dodici colloqui in un giorno, e tu sei stata l’unica che non ha parlato di 16

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politica, né del naufragio, né tantomeno di voler trascorrere una giornata con Nelson Mandela. A te interessava la sorte di quel povero bruco.» Kitty sorrise. «Be’, avevo finito il college da poco, probabilmente ero ancora sotto l’effetto dell’erba.» «No» sussurrò Constance prendendole la mano. «Quel giorno tu sei stata l’unica a dimostrarmi che non avevi paura di volare, però avevi paura di non riuscire a farlo.» Kitty deglutì mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Di certo non aveva ancora imparato a volare, anzi non era mai scesa tanto in basso come in quel momento. «C’è chi sostiene che non si dovrebbe mai agire per paura, ma se non si ha paura, dove sta la sfida?» proseguì Constance. «I risultati migliori li ho ottenuti quando ho deciso di non scappare e ho accettato di combattere contro me stessa. Dieci anni fa ti ho vista e mi sono detta: “Ecco! È la ragazza giusta per noi”. “Etcetera” si occupa di politica, ma soprattutto delle persone che fanno politica. Ci interessa il loro percorso interiore; non ci accontentiamo di sapere cosa pensano, vogliamo capirne il motivo. E perché sono arrivati a credere in quello che credono o a provare quello che provano. È vero, ogni tanto parliamo anche di diete, ma il punto non è l’alimentazione biologica o che ne so: noi puntiamo al chi e al perché. Alle persone, ai sentimenti e alle emozioni. Forse vendiamo meno degli altri, ma c’è un senso più grande in quello che facciamo, o almeno io la penso così. “Etcetera” continuerà a pubblicare i tuoi articoli, Kitty, perché finché scriverai ciò che senti davvero – e non ciò che qualcun altro ti dice – farai un buon lavoro. Credere di sapere cosa voglia leggere, vedere o sentirsi dire la gente è un’illusione, anche perché spesso la gente stessa non lo sa. È una cosa che si scopre 17

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solo dopo ed è qui che entra in gioco l’originalità. Bisogna osare il nuovo, non rimaneggiare il vecchio per compiacere il mercato» concluse, sollevando un sopracciglio. «Quel servizio è tutta opera mia. Non posso incolpare nessun altro» ribatté Kitty sottovoce. «Chi scrive una storia è solo una delle tante persone coinvolte, e tu lo sai. Se avessi proposto a me quella notizia, io non l’avrei pubblicata, ma se anche l’avessi fatto, di certo l’avrei ritrattata prima che le cose mi sfuggissero di mano. C’erano molti segnali preoccupanti fin dall’inizio, e qualcuno nelle alte sfere avrebbe dovuto notarli. Comunque, se vuoi prenderti tutta la colpa sei libera di farlo. Però chiediti perché hai voluto raccontare quella storia a ogni costo.» Kitty si stava domandando se dovesse farlo in quel momento, quando Constance raccolse le energie e riprese a parlare. «Una volta ho intervistato un uomo che sembrava molto divertito dalla situazione, e quando gli ho chiesto cosa ci fosse di tanto buffo mi ha risposto che spesso le domande di un giornalista rivelano più cose sul conto di chi le fa che di chi risponde. Un punto di vista interessante, che mi sento di condividere. Le scuole di giornalismo insegnano a estraniarsi dalla notizia per raccontarla in maniera imparziale, ma spesso è necessario restare dentro la vicenda per capirla meglio e farla arrivare ai lettori; in caso contrario scriveremmo solo parole senz’anima. Tanto varrebbe metterci un robot, dietro la scrivania. E bada bene, Kitty, questo non significa imprimere la propria visione al pezzo, perché è un atteggiamento che non tollero. Non sopporto chi usa la notizia per dire come la pensa. A chi vuoi che interessi l’opinione di un singolo? Ma lo spirito di una nazione, il manifesto di una forma artistica, le 18

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rivendicazioni di una comunità sessuale, questo sì è interessante. Io voglio una persona in grado di comprendere a fondo ogni aspetto della storia e di mostrare al pubblico che dietro le parole ci sono dei cuori che battono.» Kitty non voleva nemmeno provare a immaginare cosa dicesse di lei la storia che aveva raccontato, ma non poteva evitarlo dal momento che l’emittente televisiva era stata citata in giudizio e che l’indomani sarebbe dovuta comparire in tribunale per rispondere dell’accusa di diffamazione a mezzo stampa. La testa le scoppiava ed era stufa di analizzare fino allo sfinimento quello che era accaduto, ma all’improvviso provò il bisogno di chiedere scusa per tutti i suoi errori come se solo così le fosse possibile ripartire. «Devo dirti una cosa.» «Adoro le confidenze.» «Quando mi hai assunta al giornale ero talmente felice che volevo scriverla davvero la storia del bruco.» «Sul serio?» «Ovviamente non prevedevo di intervistare un bruco, ma l’idea era di usarlo per parlare di tutte le persone che non riescono a realizzare i loro sogni.» Kitty alzò lo sguardo sull’amica, che ormai era l’ombra di se stessa, e quando incrociò i suoi grandi occhi che la fissavano, dovette fare uno sforzo enorme per non piangere. Constance comprendeva perfettamente cosa voleva dire, ne era certa. «Avevo perfino cominciato a fare delle ricerche… Oh, mi dispiace…» Si portò una mano alla bocca nel tentativo di soffocare le lacrime, ma fu inutile. «Alla fine ho scoperto che mi sbagliavo perché anche quel bruco, che si chiama la Sfinge dell’oleandro, può volare, solo che diventa una falena e non una farfalla.» Le venne fuori un singhiozzo 19

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che la fece sentire ridicola, ma non poteva farci niente. Non era tanto il destino del bruco a intristirla, ma la consapevolezza che l’esito delle sue fatiche, allora come oggi, era stato sconcertante, con l’unica differenza che stavolta era finita in guai molto seri. «La rete mi ha sospesa.» «Ti hanno fatto un favore. Devi solo aspettare che si calmino le acque e potrai ricominciare a scrivere.» «Non saprei più di cosa parlare. Ho paura di sbagliare di nuovo.» «Non accadrà, Kitty. Per raccontare una storia – o, come dico io, per trovare la verità – non è necessario partire con il fucile spianato. Non si tratta di smascherare una bugia, né di essere geniali a tutti i costi. Basta saper arrivare al cuore delle cose.» Kitty annuì e tirò su col naso. «Scusami, non sono venuta per parlare di me. Mi dispiace tanto.» Si chinò sulla sedia e appoggiò la testa al letto, imbarazzata per come si stava comportando davanti a Constance che era malata e aveva problemi molto più seri di cui preoccuparsi. «Shh, calmati ora» le sussurrò dolcemente l’amica, scompigliandole i capelli. «In fin dei conti, la storia finisce bene. Il bruco può volare.» Quando Kitty rialzò la testa, si accorse che Constance aveva l’aria esausta. «Ehi… Vuoi che chiami l’infermiera?» «No… no. È che a volte mi sento stanca di colpo» disse Constance con le palpebre socchiuse. «Ma basta un sonnellino per riprendermi. Tu però resta, abbiamo ancora tante cose di cui parlare, per esempio di Glen» aggiunse con un mezzo sorriso. Kitty si costrinse a ricambiarlo e mormorò: «D’accordo, ora dormi. Non mi muovo di qui». 20

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A Constance era sempre bastato un niente per capirla. «Comunque, non mi è mai piaciuto granché» mormorò un attimo prima di chiudere gli occhi.

Seduta sul davanzale della camera di Constance, Kitty guardava la strada mentre s’ingegnava per trovare un percorso che le permettesse di tornare a casa schivando più gente possibile. Una sfilza di parole in francese la riportò alla realtà e si voltò verso l’amica con aria sorpresa. La conosceva da dieci anni e non l’aveva mai sentita parlare in francese, se non per imprecare. «Cos’hai detto?» Per un attimo, Constance la fissò con un’espressione confusa, poi si schiarì la voce e si ricompose. «Sembravi persa chissà dove.» «Stavo riflettendo.» «Devo preoccuparmi?» Kitty raggiunse la sedia accanto al letto. «C’è una cosa che voglio chiederti da un po’ di tempo.» «Fammi indovinare: vuoi sapere perché Bob e io non abbiamo avuto figli?» Constance si mise seduta, prese l’acqua e tirò un sorsetto con la cannuccia. «No, miss-so-tutto-io. Non ti è mai riuscito di far sopravvivere una pianta, figuriamoci cosa avresti combinato con un bambino. Volevo chiederti se c’è una storia che avresti sempre voluto scrivere, e che non hai mai scritto.» «Questa sì che è una domanda» fece Constance, illuminandosi. «Anzi, forse è proprio una storia.» Inarcò un sopracciglio e aggiunse: «Che ne diresti di intervistare qualche scrittore sull’argomento? Devo assolutamente parlarne con Pete. Potremmo anche proporre a qualcuno di 21

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pubblicare la sua storia inedita sulla nostra rivista. Penso a personaggi come Oisín O’Ceallaigh e Olivia Wallace, gente che ha appeso la penna al chiodo e magari avrebbe voglia di riprenderla in mano. Magari usciamo con un numero speciale». Kitty scoppiò a ridere. «Ma tu non ti fermi mai?» Sentirono bussare alla porta e subito Bob, il marito di Constance, fece il suo ingresso. La stanchezza che gli si leggeva in viso sembrò sparire appena posò gli occhi sulla moglie. «Ciao, tesoro. Ah, ciao, Kitty. Sono contento di averti con noi.» «Sai com’è, il traffico…» farfugliò lei. «Sì, lo so.» Si avvicinò a Constance e le diede un bacio in fronte. «Certe volte mi lascio scoraggiare anch’io, ma meglio tardi che mai, no?» Scrutò il volto della moglie che si era contratto in una smorfia. «Amore, stai provando a fare la cacca?» Kitty trattenne una risata. «Kitty mi ha appena chiesto se c’è una storia che avrei voluto scrivere e non ho scritto.» «Guarda che è pericoloso farla pensare, l’hanno detto anche i dottori» scherzò Bob. «Comunque è una bella domanda. Fammi indovinare… secondo me è la storia del pinguino, quello che aveva visto tutto durante il disastro petrolifero, e tu avevi un’intervista esclusiva con lui.» «Mai avuta un’esclusiva con un pinguino.» Constance rise, ma subito sussultò per una fitta. Kitty la fissò con apprensione; Bob, che ci era abituato, andò avanti per la sua strada. «Allora era una balena. Sì, la balena che aveva visto tutto e raccontava dell’incidente a chiunque le capitasse a tiro.» 22

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«Era il capitano della nave» ribatté Constance fingendosi piccata. «E perché non l’hai intervistato?» domandò Kitty. «Sono arrivata tardi» rispose Constance fissando le coperte. «Non trovava più il passaporto» disse Bob. «Hai visto il nostro appartamento, per quel che ne sappiamo potrebbero esserci anche i Rotoli del Mar Morto, lì dentro. Da allora i passaporti li teniamo nel tostapane, pronti all’uso. Comunque, quella volta Constance perse l’aereo e la grande esclusiva del capitano passò a un individuo di cui non faremo il nome.» Si voltò verso Kitty e bisbigliò: «Dan Cummings». «Oh, be’, l’hai fatto! Mi hai uccisa» esclamò Constance con enfasi. Kitty si coprì il volto con le mani, perché date le circostanze non le sembrava il caso di ridere. «Bene, ce ne siamo liberati!» la schernì Bob. «Allora, amore, che risposta intendi dare alla tua amica? Sono molto curioso.» «Davvero non lo sai?» gli chiese Kitty. Lui scosse la testa, ed entrambi si voltarono a guardare Constance. «Trovato!» esclamò lei all’improvviso, gli occhi che brillavano. «È un’idea che mi è venuta più o meno un anno fa, prima che… È una specie di esperimento, diciamo.» Kitty si avvicinò, incuriosita. Constance si divertì a tenerli sulle spine per un po’. «Non escludo che sia l’idea migliore che abbia mai avuto.» Kitty fece un sospiro di impazienza. «Facciamo così: a casa c’è una busta, nel mio studio. Teresa dovrebbe farti entrare, se non è troppo occupata 23

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con il suo talk show preferito. La trovi sotto la n, e l’etichetta è nomi. Portala qui e ti spiego tutto.» «Così non vale… lo sai che sono curiosa! Ti prego…» replicò Kitty ridendo. «Se te lo dico adesso, potresti non tornare più.» «Giuro che torno.» Constance sorrise. «Portami quella cartelletta e ti racconterò tutto.» «Affare fatto.» Siglarono l’accordo con una stretta di mano.

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