La gente come noi non ha paura

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1. OPERAZIONE EVENING LIGHT

Quando avevo diciott’anni, la mamma venne a svegliarmi una mattina. Mi diede dei colpetti sulla guancia con due dita. «Yael, svegliati» diceva. Quando mamma aveva diciott’anni, gli aerei la chiamavano via radio. Passò tre anni ad aspettare che gli aerei la chiamassero via radio. Quando chiamavano, mia madre dava ai mezzi dell’aeronautica l’autorizzazione ad atterrare. Dovevano atterrare per fare rifornimento. La sua base era una base di rifornimento. Faceva il controllore del traffico aereo. I piloti aspettavano di sentire la sua voce, indurita dalle prime sigarette e dallo sforzo di nascondere la giovane età. Senza il suo permesso gli aerei non potevano atterrare. Avevano bisogno di lei quando erano in volo e lei era nella torre di controllo, a disegnarsi delle facce sul braccio scuro con la penna e a pensare a barzellette cattivissime da raccontare ai ragazzi della base alla fine del turno. Una volta, un aereo israeliano che aveva fatto scalo ad Atene era stato dirottato, e anche se non fu mamma a salvare gli ostaggi (era una ragazza) è vero che se non fosse stato per lei gli ostaggi salvati non avrebbero ricevuto i panini quando


l’aereo si fermò per fare rifornimento sulla via di casa. Diceva sempre che il suo lavoro nelle forze armate non era importante, ma io credevo che lo fosse. Un aereo senza carburante può solo volare in cerchio nel cielo per poco tempo. In teoria, lei avrebbe potuto dire no. Avrebbe sempre potuto dire no, ma non lo disse mai, non disse mai di no nella sua vita. Tante persone sarebbero potute morire a causa sua. Quando arrivò su quella spiaggia aveva diciotto anni. * Mi svegliai con le dita di mamma che mi picchiettavano sulla guancia. A diciotto anni dormivo nel suo letto perché avevo paura del futuro. Non pensavo molto al fatto che sarei partita per la leva, se non per controllare di avere la biancheria intima giusta e un orologio nuovo, ma poi vidi un reportage sul soldato di un checkpoint che era stato fatto a pezzi da un attentatore suicida come un pacco sorpresa, e allora cominciai ad aver paura. Non fu molto tempo dopo aver visto la foto del soldato saltato in aria che cominciai a schioccare continuamente le dita all’altezza del mento, per esorcizzare le mie paure. Era una cosa che avevo già fatto in passato, ma che avevo smesso di fare da un pezzo. Papà era arrabbiato perché era stufo di dormire nel mio letto da ragazzina. Diceva di avere le gambe troppo lunghe, e poi non era giusto. Mamma diceva che era giusto perché io ero la figlia più grande, e mi aveva fatta da zero, ed ecco qua, avevo diciotto anni e presto sarei partita per il servizio militare. Allora papà si arrendeva perché la amava sempre. Era un problema. «Ehi, Yael» disse lei un giorno, quando eravamo tutte e due nel letto. «Metti che vuoi andare in aeronautica.» «Non ci voglio andare in aeronautica» mormorai. «Mamma,


non voglio fare il soldato. Credo che mi siano tornate le paure.» «Metti che vuoi diventare controllore del traffico aereo.» «Ma lo so già che andrò in fanteria. È quello che c’è scritto sulla cartolina. Non puoi fare il controllore aereo in fanteria. Non c’è nessun aereo da controllare.» Mia madre non mi ascoltava. Non ho mai capito se credesse davvero a ciò che dicevo. «Metti che vuoi essere un controllore a Sharm el-Sheikh. Metti sul Sinai.» «Ma. Mamma. Non posso fare il controllore. Mi innervosirei troppo a star tutto il giorno là seduta ad aspettare.» «Dovresti chiedere di fare il controllore a Sharm el-Sheikh. È il lavoro migliore che ci sia per una ragazza nell’esercito.» «Ma non ci sono più soldati israeliani a Sharm el-Sheikh. Non c’è nessuna base. Tutta la zona l’abbiamo ridata all’Egitto.» Mia madre mi ha passato un dito sul dorso del naso, e poi lo ha fatto di nuovo. «Già. L’abbiamo restituita prima che tu nascessi.» Diceva cose che sapeva impossibili come se potessero accadere davvero. * Il giorno in cui ricevette la convocazione, mia madre entrò di filato nella stanza dell’ufficiale di selezione e reclutamento e chiese di essere assegnata al controllo del traffico aereo. L’ufficiale si mise a ridere. Perché lei aveva la pelle scura e un cognome yemenita e il naso rotto. Le era cresciuto così, rotto, come un disastro o il disegno a pastelli di un bambino piccolo. Se l’era rotto da bambina, cadendo dal retro del carretto del lattaio una sera. Quel giorno non si rendeva conto che la sua richiesta era impossibile. Aveva chiesto a sua sorella più grande un consiglio su cosa dire all’ufficiale del reclutamento, e quella era scoppiata a ridere. Sua sorella più grande sapeva che all’ufficiale


non sarebbe importato un bel niente di quel che lei aveva da dire. Poi sua sorella aveva deciso di ridere ancora di più. A dire il vero non era tipo da ridere spesso. Faceva la segretaria nell’esercito. Aveva consigliato a mamma di dire che voleva fare il controllore del traffico aereo. A quei tempi le basi dell’aeronautica erano famose perché all’interno avevano cinema e piste da bowling. Posti che la mamma non aveva mai visto nella vita. Le soldatesse dell’aeronautica erano tutte figlie di politici e militari. I controllori del traffico aereo avevano padri che prima di entrare in politica erano stati piloti da combattimento. Il padre di mia madre comprava un biglietto della lotteria ogni settimana e prometteva di fare di mia nonna una regina, ma nel frattempo lavorava da quarant’anni come impiegato nell’unica compagnia di autolinee israeliana. Era un uomo banale, dalle ambizioni scontate. Morì l’anno della mia nascita, dopo aver letto sul giornale che aveva perso tutti i suoi risparmi in borsa. O fece tutto da sé o ebbe un infarto; in un modo o nell’altro, fu qualcosa di scontato a ucciderlo. La risposta che l’ufficiale di reclutamento diede alla richiesta di mia madre, invece, fu tutto tranne che scontata. Si fece una risata. Se ne fece un’altra. Lei gli chiese perché rideva e lui rise di nuovo. «Vuoi fare il controllore del traffico aereo?» le domandò. «Sì» rispose lei. Non era propriamente un fulmine di intelligenza. «È proprio quello che voglio.» Ho sentito troppe versioni di come proseguì la conversazione da quel punto in poi, e non voglio raccontarvene nessuna. A volte, quando racconti una storia che hai sentito troppe volte, ti ricordi di tutte le volte che l’hai già sentita e pensi che forse non è del tutto autentica, e poi pensi che forse sei tu a non essere del tutto autentica. Forse sei figlia di un’altra donna. Quello che importa è che mamma diventò controllore del traffico aereo. Nessuno poteva crederci, ma accadde. La base dell’aeronautica cui la destinarono non aveva un cinema


né una pista da bowling o una piscina. Era su una spiaggia. La più bella spiaggia del mondo, secondo lei. Non solo d’Israele. Del mondo. Una volta mi mostrò la foto di una spiaggia deserta a Zanzibar che aveva trovato in una rivista. Disse che la spiaggia del Sinai dove aveva fatto il militare era proprio così, e anche di più. Le chiesi cosa intendesse con di più, ma si limitò a insistere che era di più di qualunque cosa. Quando prese l’autobus dalla base di reclutamento per l’aeroporto di Tel Aviv, l’autista la riconobbe. Conosceva suo padre. Era quello lo scotto da pagare quando avevi un padre che lavorava nel campo dei trasporti. Non potevi andare da nessuna parte senza l’aiuto di qualcuno che conosceva l’uomo che ti aveva allevata. Non potevi mai far finta di essere una turista. Appartenevi al Paese e alle sue strade. L’autista le chiese come stava suo padre e dove avrebbe fatto il servizio militare. Glielo chiese, ma subito dopo iniziò a insultare una passeggera che gli aveva detto e sbrigati, cazzo. La passeggera era anche lei una soldatessa, ma dall’aspetto pareva aver passato sotto le armi molto più tempo rispetto a mamma. Indossava un’uniforme fatta su misura. Mamma non voleva passare per maleducata. Si sedette dietro l’autista mentre lui minacciava la soldatessa di farla scendere dall’autobus se solo avesse detto un’altra parolaccia. Mamma era contenta, proprio contenta di mostrare il suo nuovo tesserino dell’esercito e di poter salire sull’autobus grazie ad esso, e non grazie all’altro tesserino, quello che usava da sempre. Il tesserino arancione che diceva che era la figlia di un impiegato dell’azienda. In tutta la sua vita, Mamma ha pagato il biglietto dell’autobus una sola volta, il giorno in cui mi accompagnò ad arruolarmi e si rifiutò di prendere la macchina perché aveva paura di guidare fino a casa al ritorno. Nel momento in cui suo padre era andato in pensione, era già sposata con un uomo che aveva l’auto aziendale, quindi non aveva più avuto bisogno di prendere l’autobus, grazie a quell’auto aziendale. E l’azienda in questione non era una compagnia


di autolinee, ma un’azienda che costruiva componenti per le macchine che costruivano la plastica. Pensò che l’autista si fosse dimenticato di lei, ma appena mise in moto, l’uomo fece finta di arrabbiarsi. Fino a quel momento, gli unici scherzi che mamma aveva mai subito o visto fare da uomini e ragazzi erano scherzi di quel tipo. Il commesso al mercato fingeva di arrabbiarsi perché lei aveva comprato il suo pesce migliore per la cena dello Shabbat. «Razza di furbetta! Hai preso il pesce migliore che avevo. Cosa diranno gli altri clienti? Ah ah, sono proprio arrabbiato con te.» Il lattaio dal cui carretto era caduta quando si era rotta il naso. «Furbetta che non sei altro! Cosa eri salita a fare sul mio carretto, eh? Adesso ogni volta che ti chiedono come ti sei rotta il naso gli dirai che sei caduta dal mio carretto, e loro penseranno che non lo so guidare! Ah ah, sono proprio arrabbiato con te.» Aveva quattro sorelle e nessun fratello, e aveva frequentato una scuola religiosa femminile. Non perché fosse religiosa, ma perché sua sorella si era rifiutata di tornare alla scuola pubblica dopo che un ragazzino aveva finto di essere arrabbiato con lei e poi le aveva sputato sui capelli. Dopo quella storia, tutte le sorelle erano state iscritte alla scuola religiosa, perché quella più grande è sempre la più forte. Il padre della mamma non faceva scherzi, nemmeno quelli da finto arrabbiato, perché era arrabbiato sul serio, e lo rimase per tutta la vita. «E allora? Ora che sei un soldato non vuoi abbassarti a rispondere alla domanda di uno zio?» le chiese l’autista. Era arrabbiato per finta. Non era mica suo zio, ma conosceva suo padre e dunque si era autoproclamato suo zio. «Come sta papà? Dove vai a fare il militare?» Il colletto dell’uniforme verde le sfregava contro la mandibola. Ciò che voleva più di tutto era risolvere il problema del colletto, ma per quanto lo appiattisse, non c’era verso. «Papà è contento. E io farò il controllore del traffico aereo a Sharm el-Sheikh» disse. Quando lo diceva ad alta voce sem-


brava proprio la cosa giusta. Ecco chi era lei. Ecco dove stava andando. Per arrivare là doveva prendere l’autobus. La compagnia di autolinee era lì per servirla. E anche l’autista. Lui si arrabbiò, si arrabbiò davvero per quella risposta. Per quanto era diventata sicura di sé. Fu questo almeno che lei pensò, perché a sentirlo pareva che non stesse più scherzando, e che tutto quel che era rimasto fosse la rabbia. «Di’ a tuo papà che se continua a bere e a non presentarsi al lavoro, noi colleghi smetteremo di coprirlo, hai capito?» disse l’autista a mamma. Aveva capito. Pensò che a furia di sfregamenti doveva avere la pelle del collo arrossata. Ma non la toccò. «Una casa piena di donne, e non riuscite a prendervi cura di un solo uomo un po’ lento» disse l’autista. Mamma posò la testa contro il finestrino. Una signora con troppi menti guardava davanti a sé allungando il collo come se fosse lei a guidare l’autobus. Mamma pensò che se l’avesse guardata con sufficiente intensità, forse avrebbe potuto evitare di diventare uguale a lei un giorno. Mamma non aveva mai preso un aereo prima di allora, ed era tanto impaziente di vedere le strade di Tel Aviv dall’alto e di osservare le spiagge affollate e gli hotel che rimpicciolivano sempre di più sotto di lei, che aveva immaginato restare col viso incollato al finestrino per tutto il volo, ma invece si addormentò. Sognò suo padre. La rincorreva come aveva fatto nella vita reale dopo che lei con un rasoio aveva aperto uno squarcio sul gomito di sua sorella; un taglio così profondo che non ebbero altra scelta che portarla dal dottore, perché continuava a sanguinare attraverso le bende che avevano usato per tentare di fermare l’emorragia. Mamma e le sue sorelle si ferivano spesso a vicenda da piccole. Succedeva perché non avevano un temperamatite, e quindi usavano rasoi arrugginiti per fare la punta alle matite di scuola. Si mettevano in piedi intorno al secchio dell’immondizia e appuntivano le matite, e poi litigavano per le stesse cose per cui litigano tutte


le sorelle del mondo. Per il modo in cui le loro facce e i loro odori gli erano diventati reciprocamente insopportabili; per l’eccessiva vicinanza a cui erano costrette, perché erano troppo uguali. L’unica differenza era che Mamma e le sue sorelle, quando litigavano, avevano in mano dei rasoi. Nel sogno suo padre la rincorreva proprio come aveva fatto nella vita reale, ed era ubriaco, proprio come nella vita reale. Ma nel sogno era lento. Continuava a tentare di raggiungerla, e anche se lei non voleva essere raggiunta, non voleva nemmeno essere una delle cinque donne che non riuscivano a prendersi cura di un solo uomo lento, e così correva lentamente anche lei. Si risvegliò nel momento in cui le ruote sobbalzarono sull’asfalto e le fecero cadere la testa di lato. Quando guardò fuori dal finestrino, vide un’immensità di sabbia che si estendeva intatta ma viva, e un mare così tranquillo che pensò avesse smesso di agitarsi soltanto per lei. * Mamma chiamava i miei problemi cronici sula. Nei suoi tre anni sulla spiaggia, una volta si era ritrovata a provare talmente tanta compassione per un altro essere umano, che senza accorgersene aveva fatto della compassione un’abitudine, e aveva vissuto il resto della vita senza desiderare nulla per se stessa. Potevo confessarle problemi impossibili da esprimere a parole, problemi che non avrei mai potuto raccontare alle amiche, nemmeno a Emuna o Avishag, e lei trovava comunque le parole per cercare di risolverli. Fu lei ad accorgersi della mia prima sula. Non dovetti neppure fare lo sforzo di spiegargliela. Fu lei a spiegarmi il mio stesso problema. Mi disse che una sula era una cattiva abitudine, come toccare ferro o mangiarsi le unghie. Una specie di mania di cui solo tu conoscevi la vera motivazione, perché non c’erano le parole


per spiegarlo agli altri. Ma la sua spiegazione era perfetta. Diceva che una sula era la cosa peggiore al mondo. È importante capire che ogni sula è un problema grave. Quando hai una sula, non riesci nemmeno a ricordarti come stavi prima si averla, né a immaginare un futuro senza di essa. È quasi come essere incinta quando non vuoi il bambino, o essere contagiata da una malattia mortale, solo peggio, perché nessuno ne sa niente e perché la sula ti fa soffrire in ogni momento. La mia prima sula aveva a che fare con il collo. O meglio con la zona sotto la mandibola. Un giorno, a cinque anni, feci una faccia buffa spingendola in fuori. Da allora in poi, mi pareva di avere quella smorfia stampata sul viso in ogni momento, e quando mi guardavo allo specchio temevo di scoprire che mi era venuto il doppio mento. Avevo dieci anni ed ero preoccupata che mi ingrassasse la faccia, perché una volta avevo sentito la mamma dire che una volta che prendi peso non importa se poi lo riperdi; avrai sempre la faccia grassa fino al giorno in cui muori. Ma era solo l’inizio. Presto mi convinsi che schioccare tre volte le dita appena sotto il mento, in modo da sentire quel colpetto deciso sulla pelle, avrebbe cancellato le nefaste conseguenze della faccia buffa. Non c’era alcuna ragione logica di credere una cosa del genere, ma ci credevo al punto che non riuscivo più a smettere. Le dita mi facevano talmente male che non riuscivo a tenere in mano una matita. A scuola ingurgitavo in fretta e furia i miei panini maionese-mostarda-pomodoro perché non vedevo l’ora di togliermeli dalle mani per poter schioccare le dita di nuovo. Fu solo quando mamma cercò di farmi una foto la sera in cui era caduta la prima neve che se ne accorse e gridò: «Sula!» Il giorno dopo mi permise di restare a e guardammo le soap argentine che piacevano a me mentre lei mi imboccava di pita, yogurt e spicchi di mandarino. Mi piacerebbe dirvi che fu sufficiente sapere che là fuori c’era qualcuno che mi capiva perché io superassi il problema, ma


non è questa la verità. Dopo il problema con il collo, capitò che la mamma dicesse che stare vicino al microonde ti faceva venire gli occhi più lontani. Lo disse a mia sorella, ma io la sentii mentre glielo diceva. La conseguenza fu la sula degli occhi, che andò avanti per quasi sei mesi. Li roteavo dentro le orbite fino a sentirli gridare, e poi ancora. Non riuscivo più a sopportare di guardare la televisione. La testa mi faceva tanto di quel male che ogni volta che mi alzavo dovevo rimettermi seduta. Nel buio della mia stanza avevo paura di aver torturato i miei occhi troppo a lungo, e che quel buio fosse il buio della cecità. I denti vennero alla fine, e furono la cosa peggiore. I denti sono peggio degli occhi. Avevo alle spalle un’intera vacanza estiva di libertà dalle sula, il giorno in cui diedi un morso a una pannocchia arrostita e accidentalmente sfregai gli incisivi inferiori contro i superiori. Gli incisivi inferiori si sovrapposero a quelli superiori, e il male fu come niente che avevo provato prima, tanto che cominciai subito a cercare di procurarmi di nuovo lo stesso identico male, perché restare in attesa che capitasse di nuovo per puro caso sarebbe stato anche peggio del dolore stesso. E lo rifacevo, ancora e ancora. Brividi continui correvano lungo i miei passi e i miei movimenti. Nel pieno di quell’agosto israeliano, dovevo indossare il maglione. Quando arrivò settembre, non vedevo l’ora che finissero le lezioni perché non riuscivo più a sopportare quel digrignare di denti; poi, a casa, aspettavo che il pranzo finisse perché non riuscivo a sopportare quel digrignare di denti; poi aspettavo che la giornata finisse, poi che il sonno mi prendesse. Aspettavo, aspettavo, aspettavo un sollievo che non arrivava mai. «Devo finirla. Non posso più continuare così» dissi alla mamma. Ero paralizzata da un problema che non era nemmeno reale. Non potevo parlarne con Avishag, figurarsi con Lea. La mamma disse: «Yael, capisco, capisco, capisco.» Lo disse tantissime volte. E mentre lo diceva mi guardava negli occhi.


Il papà dormì nel mio letto per mesi, con le gambe ripiegate. Lei mi capiva per tutta la notte. Se non ci fosse stato qualcuno che capiva un problema per cui non avevo parole, avrei rischiato di impazzire. I minuti scacciavano le ore che scacciavano il sonno. Non ricordo quando o come o perché la cosa dei denti finì. Ricordo che quando finì non ero più in grado di ricordare o immaginare che sarebbe mai potuta andar via. Ma sparì. Almeno questo lo so, perché quando la sula del collo si ripresentò, a diciotto anni, appena dopo la morte di Dan, tutto quel che riuscii a fare fu aspettare che cominciassero i denti. * La base sulla spiaggia era piccola. Era la base in cui anni dopo sarebbe fuggito il presidente egiziano, giunto al capolinea dopo un trentennio al potere, quando la piazza lo costrinse a rendersi conto che non era più disposta ad amarlo. Oggi affittare una camera d’albergo con vista su quella spiaggia del Sinai costa oltre cinquecento dollari, e la spiaggia stessa è tanto affollata che i turisti perdono ore a cercare un posto libero dove stendere l’asciugamano, ma all’epoca in cui vi prestava servizio mia madre i soldati la avevano tutta per sé, perché era parte di una zona militare chiusa. Il giorno in cui la mamma arrivò alla base, oltre a lei c’erano solo altre due ragazze. Erano tutte e due bionde, con i capelli corti. Più avanti avrebbero avuto molti figli, solo maschi, e mamma diceva che non avrebbe potuto immaginare niente di diverso, fin dal giorno in cui le aveva conosciute. Non avrebbero mai potuto avere delle figlie. I capelli neri e sottili di mamma le arrivavano fino al sedere magro, e il suo naso era sempre rotto. Anche le altre due erano controllori del traffico aereo. Erano figlie di piloti. Quanto a cervello


erano persino meno sveglie di mamma. La base non era una destinazione molto ambita fra i controllori del traffico aereo, perché era lontana e i soldati tornavano a casa solo una volta al mese, dal momento che le forze armate non potevano spendere troppo in biglietti aerei per i soldati. Per la mamma tutto ciò non contava. Aveva desiderato rimanere per sempre su quella spiaggia dall’istante in cui co aveva messo piede per la prima volta. Il lavoro alla torre di controllo era semplice. A quei tempi gli aerei atterravano lì solo una volta ogni tanto, durante l’addestramento dei nuovi piloti. Tutto quel che la mamma doveva fare era accertarsi che la pista non fosse occupata da altri veivoli, e non dare a due aerei diversi il permesso di atterrare nello stesso momento. Se squillava il telefono rosso lei doveva rispondere, ma non accadde mai. A parte questo, doveva solo aspettare. Arrivò al suo primo turno con un’ora d’anticipo e poi, dopo, sempre con un’ora d’anticipo per ogni turno di otto ore. Cominciò a fumare e a spendere tutti gli spiccioli in sigarette e si preoccupava di darne alle altre due donne più di quante non ne fumasse lei. A parte le due bionde, c’erano una ventina di altri soldati alla base. In gran parte erano addetti ai rifornimenti e tecnici esperti di manutenzione. C’era un solo cuoco, il soldato più vecchio di tutti, un ventisettenne originario di un kibbutz nel deserto che si fingeva sempre arrabbiato con la mamma. Diceva che la sua pelle era scura come una vecchia torta al cioccolato o come la merda, e che non doveva entrare nella sua sala da pranzo perché rappresentava un rischio per la salute, e poi le dava i baci sul collo e le uova sode avanzate. * La prima volta in assoluto che mamma mi raccontò di quella spiaggia fu dopo che le ebbi spiegato il mio problema con il


collo. Le dissi che tutto era cominciato quando avevo notato di avere il collo grosso. Cercò di trovare qualcosa da dire, perché era stata lei a spiegarmi che una volta che ingrassi hai la faccia grassa per sempre. «Vedi, tu non hai il collo grosso, ma anche se lo avessi, e non lo avrai mai, sappi che non ne va della tua vita. Vedi, se sei simpatica, i ragazzi non lo vedono nemmeno che sei brutta. Essere una persona divertente e che non se la prende è molto più importante che essere carina. I ragazzi e le ragazze non amano le tipe acide. Quando ero sotto le armi, nella mia base c’erano due bellissime ragazze acide, e anche se ero brutta tutti i ragazzi mi amavano perché sorridevo sempre.» «Non eri brutta! Stai forse dicendo che io sono brutta?» Questo fu prima che scoprissi come aveva fatto la mamma a rompersi il naso. «Ma no! Sei la ragazza più bella del mondo. Però è importante ridere tanto. Dobbiamo fare in modo che tu rida di più. Come mai Avishag e Lea non vengono più a trovarti? Dobbiamo pensare a cosa si può fare.» Più avanti cominciai a uscire con Moshe e mi convinsi che esisteva almeno una persona che non mi trovava brutta. Poi un giorno, quando ero sotto le armi, dopo che Hagar mi aveva intrecciato i capelli, pensai persino che il mondo intero avrebbe potuto trovarmi bella. A un certo punto, durante il servizio di leva, mamma si era fatta la plastica al naso. È tremendo da dire, ma è la verità. Prima era rotto e poi non lo era più. Non so bene dove trovò i soldi, ma la plastica se la fece davvero. Nella prima foto sua che abbia mai visto è in costume giallo intero. Due ragazzi a torso nudo la sollevano per le braccia, e lei ride tanto che le si vede l’ugola. Ha un naso lungo e perfetto. La spiaggia dove la mamma andava a nuotare con il costume giallo intero, la spiaggia dove i ragazzi la amavano, non è più sul confine. Sul nuovo confine, quello più vicino, oggi ci sono, dieci anni dopo la fine del mio servizio di leva, campi di tortura per


eritrei gestiti da beduini egiziani. Promettono agli eritrei che li aiuteranno ad arrivare in Israele attraverso l’Egitto. Per denaro. Poi li inseguono, li sequestrano e mandano un orecchio o un dito alle loro famiglie con la richiesta di altro denaro. Ma quando il confine era ancora in fondo alla spiaggia, i ragazzi inseguivano mamma sulla sabbia tanto che la pelle sotto i suoi piedi divenne spessa e dura. Una volta mia cugina mi telefonò, tutta sussurri e risatine, per chiedermi se era vero quel che aveva sentito dire, se era vero che il naso di mamma non era naturale. Ero gelosa del naso di mamma per la sua nobiltà, e mentre la guardavo lavare i piatti con una maglietta strappata e la testa avvolta in un fazzoletto, una donna che spendeva centinaia di shekel per la giusta lozione antiacne per le sue figlie ma non cambiava spazzolino da anni, non riuscivo a credere che fosse mai stata il tipo di donna disposta a sottoporsi a un’operazione di chirurgia plastica. «Be’, mia madre ha detto che si è fatta rifare il naso perché il suo era rotto o roba del genere, ma comunque, non è divertente?» sussurrò al telefono mia cugina. Quando erano piccole, mia madre aveva fatto alla sua un taglio così profondo che aveva macchiato di sangue tutti i pezzi di stoffa che c’erano in giro per casa. «No» le ho risposto. «Non è divertente.» A mamma non ho mai domandato nulla che riguardasse il suo naso. * Il mese prima che l’aereo venisse dirottato e che la mamma si trovasse per caso a perorare la causa della compassione fu il più felice della sua vita. Tutti i ragazzi della base la amavano quando aveva il naso rotto perché amarla era facilissimo: non c’era il rischio di innamorarsene sul serio a causa del naso, ed era una che non se la prendeva per niente, e la sera dopo una


partita di backgammon andava a rimboccargli le coperte e si faceva affogare in acqua e non li faceva sentire in imbarazzo per il fatto che stringevano fra le braccia una diciottenne in costume da bagno. Dopo il suo arrivo alla base non tornò nemmeno una volta a casa, in quel palazzo di Gerusalemme con i bambini e i biglietti della lotteria che non avevano vinto e l’ubriaco che ti inseguiva e le galline ammazzate e le sorelle che perdevano sangue. L’aria salata le fece gonfiare i capelli. Le ore di attesa nella torre di controllo resero i suoi pensieri più duraturi, e le facce che disegnava più interessanti. I ragazzi che l’avevano eletta loro regina e fonte di conforto la aiutarono ad avere meno paura dei ricordi che da una vita aveva provava a convincersi di non possedere al solo scopo di non essere costretta a distrarsi in continuazione, o a far finta di essere ancor meno furba di quello che era. Quando il suo naso fu di nuovo a posto, i ragazzi pensarono a un miracolo. Come quando nelle soap argentine due innamorati scoprono di non essere fratello e sorella, dopotutto. I ragazzi applaudivano nel guardarla camminare sulle dune di sabbia. Le due bionde che più tardi avrebbero fatto solo figli maschi, si fecero a un tratto meno loquaci. Poi la aiutarono a tagliarsi i capelli giusto sopra le spalle e decisero di seguirla ovunque andasse. Se non fosse stato per quel che accadde in seguito, mamma sarebbe forse per diventare un dittatore o, come minimo, la moglie di un politico crudele, o forse persino un Dio crudele. Fu il giorno in cui Ari Miller morse sulla guancia Joseph Gon, durante un litigio che in teoria era sui turni di guardia ma che in realtà era sull’ombelico di mamma, che tedeschi e palestinesi dirottarono un aereo israeliano che aveva fatto scalo ad Atene. C’erano sopra duecentosessanta civili. Il dirottamento portò all’Operazione Entebbe, o anche Operazione Yonatan, come alcuni la chiamano, da Yonatan, il nome di quello che rimase ucciso. I dirottatori atterrarono in Libia per fare rifornimento. Una


passeggera che era infermiera di professione finse una gravidanza e fu rilasciata durante la sosta. Aveva un passaporto britannico e uno israeliano. Sua madre era morta da poco e suo padre era malato. Si era sposata solo alcune settimane prima. Non era incinta, ma si procurò un taglio abbastanza profondo da convincere l’unica donna presente tra i dirottatori che rischiava l’aborto. I dirottatori ordinarono al pilota di lasciare la Libia e dirigersi in Uganda. Fecero atterrare l’aereo all’aeroporto di Entebbe. Idi Armin, che era stato cuoco militare esattamente come il soldato che dava alla mamma le uova sode e i baci sul collo, in quel momento non faceva più il cuoco ma era il capo di tutto l’Uganda. Collaborò con i dirottatori, perciò fu facile per quest’ultimi far scendere i passeggeri e raccoglierli tutti in uno dei terminal. I tedeschi cominciarono a gridare ordini, e a dividere ebrei, israeliani e gentili in gruppi distinti. Il comandante dell’aereo, che era un gentile, insisté per restare a bordo perché diceva che dopotutto lui era il capitano. Rimasero anche gli undici membri dell’equipaggio. Non morì nessuno di loro, ma Air France sospese il comandante per non aver voluto abbandonare l’aereo. Alla fine ebbe una targa da Ytzhak Rabin, che all’epoca era il primo ministro israeliano, in quanto protettore degli ebrei, e poi Ytzhak Rabin diventò ancora una volta primo ministro e un ebreo israeliano che lo odiava gli sparò. Quello che conta oppure no, non è il fatto che il comandante sia rimasto, anche se non è chiaro che tipo di aiuto abbia dato alla missione di salvataggio, ammesso che lo abbia dato. I dirottatori volevano che gli Stati europei e Israele rilasciassero i combattenti per la libertà e gli anarchici che erano nelle loro carceri. Tutti, compresa la mamma, pensavano che questo fosse ciò che sarebbe accaduto. I soldati della spiaggia si chiedevano se l’aereo con i combattenti per la libertà avrebbe fatto scalo per rifornirsi alla loro base, e in quel caso, se il cuoco avrebbe cercato di impedire il successivo decollo


dell’aereo con i combattenti per la libertà perché una volta un combattente per la libertà aveva fatto saltare in aria un autobus con sopra la madre del cuoco e l’aveva resa cieca. Da allora supplicava il figlio di ucciderla. I dirottatori dissero che avrebbero iniziato a uccidere la gente il 1° luglio, ma alla fine accettarono di aspettare fino al 4 perché per gli americani era una data simbolica. Una donna di settantacinque anni che si chiamava Dora cominciò a tossire come se stesse per soffocare su un pezzo di cibo, perciò i dirottatori lasciarono che fosse trasportata fino a un ospedale ugandese, perché non era il 1° luglio e non potevano ancora ucciderla. * Nessuno credeva che ci sarebbe stata una missione di salvataggio, a parte le persone che vennero mandate a recuperare gli ostaggi. Quando il telefono rosso della mamma squillò erano le cinque del mattino e lei era da sola nella torre di controllo. Si stava disegnando sulla caviglia la faccia di una ragazza. Non sapeva perché, ma lo sguardo di quella ragazza continuava ad essere stupito o arrabbiato, e per quanto tentasse di correggerle gli occhi, non riuscì a cambiarlo. Alla fine si vedeva solo una macchia d’inchiostro blu sulla pelle scura. Quando squillò il telefono la mamma lanciò un grido. Perché era un momento tranquillo e perché era la prima volta che sentiva squillare un telefono. Nella sua casa di Gerusalemme non aveva il telefono. Ce n’era uno a gettoni all’ingresso del mercato. Quando sollevò la cornetta del telefono rosso, sentì dall’altra parte la voce di un uomo. Non aveva il timbro di quelle dei piloti, che uscivano dalla radio. Sembrava che l’uomo fosse in piedi proprio là nella stanza con mamma, a sussurrarle nell’orecchio. L’uomo le chiese nome, numero di matricola e grado. Dovette ripetere due volte il suo cognome, perché era un cognome


yemenita, e l’uomo ne restò stupito. Poi le disse che se avesse rivelato i suoi ordini a qualcuno della base o di fuori, sarebbe stata denunciata al tribunale militare e avrebbe messo in pericolo le vite di più di cento ebrei. Tutti pensavano che gli ostaggi sarebbero morti o sarebbero stati scambiati con altri ostaggi. Nessuno credeva nella possibilità di un salvataggio. Tutti, a parte la mamma, parevano avere un amico o una zia o il professore di un fratello che erano uno degli ostaggi. Sarebbe bastato che un solo soldato preoccupato lo dicesse alla sua preoccupata madre ed ecco che tutto il Paese, e anche gli arabi che ci vivevano, avrebbe scoperto che gli ostaggi erano in volo su quell’aereo. Persino mentre l’aereo era in volo, l’esercito aveva paura che qualcuno potesse abbatterlo. E i soldati della missione di salvataggio non sapevano che Dora era già morta, chiusa dentro un baule. Pensavano che se solo fossero riusciti a tenere segreta l’operazione, avrebbero potuto salvarla da quell’ospedale. Ma avevano bisogno di panini. Erano giorni che gli ostaggi non mangiavano. Speravano di farli atterrare in un ospedale militare che l’esercito aveva costruito in Kenya e di farli mangiare sul posto, ma nessuno degli ostaggi era ferito, e dunque non aveva senso rischiare un atterraggio là. L’uomo al telefono chiese alla mamma di dire al cuoco di preparare più panini che poteva. «Che tipo di panini?» chiese lei, e l’uomo si arrabbiò per finta con la mamma. Era arrabbiato sì, ma in verità sollevato, perché stava giusto pensando che altri uomini sarebbero morti nel tentativo di salvare i cento ebrei che sarebbero stati uccisi comunque, quand’ecco che si era ritrovato a parlare con quella dolce ragazza con la voce intenerita dall’incontro con le prime sigarette e dallo shock della giovinezza, e lei non aveva trovato di meglio che chiedergli quell’assurdo consiglio su che cosa mettere dentro i panini. «Scegli tu» disse l’uomo al telefono. «Io sono un tenente, e tu sei un soldato semplice che mi chiede consigli sui panini.


Questo è il tuo, di lavoro.» Mancavano venti minuti alla fine del turno. La mamma disegnò altre due facce. Pensò al panino che le piaceva di più. Pastrami con maionese e peperoni rossi. Nella base non c’era nessuno di quegli ingredienti, che erano buoni appunto perché andavano mangiati freschissimi. Alla fine, dare istruzioni per la preparazione dei panini per gli ostaggi risultò essere la cosa più complessa che la mamma avrebbe affrontato nella sua vita. Non avrebbe mai immaginato di saperlo fare, né di trovarsi nella posizione di doverlo fare; e fu proprio perché era così difficile che una volta che l’ebbe fatto capì di poterlo fare di nuovo e così diventò un’abitudine. Mamma si trovò a perorare la causa della compassione. «È uno scambio di prigionieri, no? Faranno atterrare i prigionieri palestinesi qui nella base per il rifornimento prima di portarli in Uganda, e vogliono che io gli prepari dei panini» disse il cuoco alla mamma. Non cercò neanche di baciarla sul collo. «Non posso dirti cos’è. L’uomo al telefono rosso ha detto che non posso.» «Il telefono rosso? Allora dev’essere proprio uno scambio di prigionieri. E vogliono che io gli prepari dei panini?» «Non posso dirti cos’è. Ma i panini devi prepararli. Un mucchio di panini. Tutti quelli che puoi.» «Farò panini tutta la notte. Ci sputerò dentro. Ci piscerò dentro. Userò il veleno per topi.» La mamma non sapeva più cosa fare. Si ricordò di essere la figlia di un uomo lento. Si ricordò quanto si era sentita felice da bambina quando la lama di quel rasoio era penetrata troppo a fondo nel braccio di sua sorella. Si carezzò il dorso del naso e si ricordò che adesso era dritto, e che lei era bella. «Ti prego, non rovinare i panini.» «Perché no?» «Non puoi; non te lo permetto» disse la mamma. A volte le


piaceva dire cose che erano impossibili come se non lo fossero. «Non puoi» disse. Se fosse stata figlia di un pilota, se non fosse vissuta dodici anni con il naso rotto, avrebbe potuto ripetere al cuoco «non puoi» fino a convincerlo. Ma visto che la mamma non era nata con nessuno di quei vantaggi, dovette dire anche qualcos’altro. Dovette perorare la causa della compassione, non perché volesse ma perché vi era costretta dalle circostanze. «E se uno dei prigionieri è innocente?» «Mia madre è cieca» disse il cuoco. «Mio padre deve portarla in bagno e farla sedere sulla tazza. E poi nessuno di loro è innocente. L’esercito non ce la fa ad arrestare tutti quelli che sono colpevoli.» «E se uno dei prigionieri ha sbagliato una volta sola? Se ha fatto qualcosa che non intendeva fare e prima di rendersene conto la stava già facendo?» «Allora è giusto, se ci piscio dentro. Così capiranno di aver sbagliato.» «E se a loro fosse successo qualcosa?» «Per esempio cosa?» «Qualcosa. Stavano facendo dell’altro e poi gli è successo qualcosa. Non ti è mai capitato che stavi facendo una cosa e poi ti è successo qualcosa d’altro?» «Per esempio?» «Qualcosa che ti è successo. Tu sei da una parte e poi ti ritrovi da un’altra, come se avessi preso un autobus; ma una volta che sei là non ti ricordi perché lo hai preso.» «Io non li prendo gli autobus» disse il cuoco. «Ti prego, non fare niente di male ai panini.» «Io non li prendo gli autobus.» Quando disse per la seconda volta che non prendeva gli autobus, la mamma seppe che il cuoco l’aveva capita. Lei si capiva solo parola per parola, ma quando finì di parlare, seppe che anche un’altra persona – che era un cuoco che la baciava sempre sul collo persino ai tempi in cui aveva il naso rotto - la capiva.


Finiti i suoi tre anni di militare, la mamma ritirò i tremila shekel che suo padre aveva messo da parte per darli a ciascuna delle sue figlie dopo la fine del servizio di leva. Se ne andò in Francia e trovò lavoro come babysitter e conobbe un uomo che amava troppo e che le fece desiderare di vivere una vita molto scontata il giorno che le disse che non potevano stare insieme. Quando ritornò in Israele, aveva appena i soldi sufficienti per iscriversi al corso estivo di disegno. Le sue sorelle più grandi erano già insegnanti o assistenti sociali o madri. Più avanti si sarebbe vergognata molto di aver preso quelle lezioni estive. Fu il suo approdo finale dopo i tre anni di gloria sulla spiaggia. Non ho mai visto niente di ciò che ha disegnato, né l’ho mai vista disegnare. Dopo la mia nascita. * Nessuno credeva che ci sarebbe stata una missione di salvataggio a parte le persone che furono spedite a salvare gli ostaggi. Solo una delle persone che salvarono gli ostaggi morì. Il nome del morto era Yonatan Netanyahu. Suo fratello più piccolo sarebbe diventato primo ministro. Gli aerei non si fermarono alla base sulla spiaggia per fare rifornimento mentre volavano verso l’Uganda. Si fermarono a Nairobi, in Kenya. In quel momento il governo stava ancora discutendo della possibilità di un salvataggio dal mare. Fu solo in Etiopia che i soccorritori ebbero il permesso di procedere con il loro piano. Atterrarono nella notte, un atterraggio tranquillo. Lì c’erano delle macchine ad attenderli; una era esattamente identica alla Mercedes di Idi Amin. Uno degli agenti di pattuglia della sicurezza ugandese, che non aveva mai preso la patente ma era da sempre interessato alle macchine e sperava che la sua prima auto sarebbe stata una Mercedes, sapeva che Amin aveva cambiato macchina la settimana prima. Chiamò il suo amico e costrinsero la macchina a fermarsi.


Un soldato israeliano lo uccise sparandogli col silenziatore. Subito dopo uccise l’amico. La macchina ripartì. Un soldato che si chiamava Roy guardò dal finestrino e vide che l’amico si muoveva ancora. Roy era un sergente e aveva vent’anni, e tutti quelli che sarebbero morti durante l’operazione vivono ancora adesso sulle sue spalle. Senza aprire il finestrino, uccise l’amico con una sventagliata di kalashnikov che fece parecchio rumore. Fu così che i dirottatori capirono di essere finiti, tre minuti prima che gli israeliani facessero irruzione nel terminal. Si nascosero nei bagni e solo una di loro, una donna, piangeva, ma alla fine vennero uccisi tutti. Furono i soldati israeliani a sparare accidentalmente a Ida, una donna di cinquantaquattro anni. Era emigrata in Israele dalla Russia, in cerca di salvezza. Spararono anche a un ragazzo di diciannove anni che da israeliano sarebbe stato un soldato proprio come quelli che lo colpirono per errore, ma che invece era nato in Francia ed era studente all’università. Un solo soldato israeliano ricevette un proiettile al collo sparato dai cecchini ugandesi e fino al giorno della sua morte, trentadue anni dopo, poté muovere soltanto le palpebre. Morirono quarantasette soldati ugandesi. Due giorni dopo furono centinaia di kenyoti a morire, perché a Idi Amin aveva dato fastidio che le autorità del Paese avessero permesso agli israeliani di fare rifornimento sul suolo nazionale. Non erano stati loro a fargli fare rifornimento; erano soltanto persone normali e kenyioti, ma insomma erano morti. Nel 1979, dopo la fine della guerra fra Uganda e Tanzania e quando Idi Amin ormai non c’era più, fu ritrovato il cadavere di Dora, la donna che rischiava di soffocare col cibo ed era stata mandata all’ospedale. Venne ritrovato sepolto in una piantagione di canna da zucchero a venti miglia dall’ospedale di Kampala. I soldati ugandesi l’avevano trascinata via dal suo letto d’ospedale poche ore dopo la fine della missione di salvataggio Il medico ugandese e due infermiere avevano tentato di fermarli, e allora i soldati gli avevano sparato e li avevano lasciati a morire in


corsia. Avevano sparato a Dora dopo averla messa nel baule. Appena prima che il telefono rosso della mamma squillasse. * Un tempo credevo che mia madre vivesse per me. La missione di salvataggio Entebbe fu l’operazione di salvataggio di ostaggi di maggior successo della storia. Gli eserciti di tutto il mondo la presero a modello per le loro missioni di salvataggio, ma quelle continuarono a fallire per ragioni che non dipendevano da loro. La prima imitazione fallita fu l’Operazione Evening Light, in Iran, dieci anni dopo la mia nascita. Gli americani non avevano una sola possibilità. Gli aerei non avevano carburante a sufficienza, poi si scontravano fra loro, poi prendevano fuoco, poi dimenticavano dei componenti di ricambio in posti troppo lontani. Alla fine, morirono delle persone. Poi ci fu uno scambio di prigionieri. Mi piacerebbe potervi dire che prima di partire per il militare pensai alla figlia della donna americana che nella torre di controllo americana doveva aver chiesto a un cuoco militare americano di preparare dei panini per gli ostaggi dello scambio, non importa se avvelenati o no; ma in tutta franchezza avevo tanta di quella paura che non vedevo oltre la punta delle mie dita ed ero occupata a pensare solo a me stessa. * «Mamma. Ho paura. Ho paura di andarci.» «Cosa c’è da aver paura? Hai diciotto anni, Yael. A tua sorella è andata benone. Tutte le tue amiche sono state già nell’esercito.» «Ho paura delle possibilità. Di tutte le cose che potrebbero succedere.»


«Tipo?» «Com’è che hai convinto il cuoco a non avvelenare i panini? Dimmelo. Dimmelo ancora come se non me l’avessi mai detto prima.» «Di cosa stai parlando? Io ho solo obbedito agli ordini» disse la mamma. A volte diceva certe cose come se prima non avesse mai pronunciato una parola. «Ho paura che mi metteranno di guardia a un checkpoint e che finirò per saltare in aria.» «È successo a quel militare perché non ha obbedito agli ordini. Era il tipo che non obbediva mai. Non è stato abbastanza prudente con quel palestinese che stava facendo passare. Tu obbedisci agli ordini e andrà tutto bene.» «Come fai a sapere tante cose di quel soldato? Come fai a sapere che non obbediva mai agli ordini?» «Me l’ha detto Dahlia. Quella bionda con cui ho fatto il militare. Non le parlavo da anni, ma lei mi ha telefonato per chiedermi che tipo di lavori ci sono dove abitiamo noi. A ogni modo, sua figlia era in servizio con quel ragazzo. Ha potuto vedere che tipo era.» Ma lei l’aveva detto, prima. Gliel’aveva detto tantissime volte. Che le bionde, tutte e due, avevano solo figli maschi. A volte diceva cose che erano impossibili e io riuscivo a pensare che non lo fossero, fino a quando poi non riuscivo a pensarlo più. Al tempo credevo che mia madre non vivesse per se stessa ma per me; e però, quando mi ha raccontato della telefonata di Dahlia, ho pensato che l’unica parte vera era che non viveva, nemmeno per se stessa. E se anche fosse vissuta per se stessa, di sicuro non poteva vivere per me. E comunque. Ero contenta che fossimo solo io e lei ad andare alla base di reclutamento quel giorno. Ero contenta di non essermi portata neanche un’amica. «Mamma, ho paura» ho detto. «Ho tanta di quella paura che non riesco a sentirmi i polpastrelli. Schiocco le dita sotto il mento. Ho paura che possa succedere qualcosa.»


«Per esempio cosa, Yael?» «Un sacco di possibilità.» C’erano le parole di mamma e c’ero io, sull’autobus che ci ha portate all’autobus che mi ha portato alla base di reclutamento. Ogni tanto l’autista scherzava con noi, diceva ridendo che parlavamo a voce troppo alta, ma in realtà voleva che stessimo zitte sul serio. I panini preparati dal cuoco erano buoni. Tacchino e pomodoro e mostarda. La mamma avrebbe voluto vedere gli ostaggi che ci affondavano i denti. All’inizio di quel giorno, ho pensato che forse sarebbe successo qualcosa, che sarei riuscita a rimanere a casa con la mamma, ma alla fine non è successo niente. Abbiamo passato la mattinata a comprare calzini e lucido da scarpe. Il pomeriggio abbiamo preso l’autobus per l’autobus che mi ha portata alla base di reclutamento. Abbiamo litigato per un po’. Poi io ho detto che sarei stata bene. Lei continuava a spazzolarmi i capelli, e dopo che sono salita sull’autobus aveva ancora la spazzola in mano. Attraverso il vetro del finestrino, l’ho vista stretta fra le sue mani scure mentre la mamma era ferma sul marciapiedi. Poi l’autista ha premuto l’acceleratore e non l’ho più vista . E quello è stato l’inizio.


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