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Mi sfiora la fronte con un bacio leggero, mentre con le dita percorre lentamente la curva del mio fianco, perdendosi sotto la camicia. La sua. Apro gli occhi e incontro quello sguardo verde chiaro che illumina subito la mia mattina. Allungo una mano sul suo viso, liscio come quello di un bambino. I primi tempi pensavo che si alzasse di notte per radersi di nascosto, poi ho capito che la sua pelle è così: ha una barba talmente morbida e invisibile che anche appena sveglio sembra già rasato. Siamo distesi su un lato, una di fronte all’altro, i piedi che si toccano. I nostri corpi hanno lo stesso odore. Abbiamo fatto l’amore ieri sera e ogni volta è sempre più bello, una scoperta che ha il sapore irresistibile del piacere. Adesso la sua mano mi tocca un po’ più forte e lentamente mi scuote. «Bibi, svegliati...» La sua voce è un soffio. Chiudo gli occhi per strappare qualche altro minuto di sonno e sotto le palpebre che tremano immagino questo giorno, tutti i giorni, insieme a lui. 9
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Filippo. «Sì, ancora un attimo...» bofonchio, girandomi sull’altro fianco. Mi bacia ancora sulla nuca, si alza e socchiude la porta, lasciandomi sola nella stanza a scrollarmi il sonno di dosso. Sono ancora intontita, ma faccio comunque l’immenso sforzo di appoggiarmi col busto alla testiera del letto. Dalla finestra filtrano raggi di sole che mi accarezzano il viso: sono le otto di una bellissima mattina di maggio, fa già caldo e fuori la luce è quasi abbagliante. È un nuovo giorno della mia nuova vita. Dopo che sono partita per Roma e mi sono presentata al cantiere, tre mesi fa, è accaduto ciò che non osavo neanche sperare: Filippo non solo mi ha perdonata, ma mi ha anche ascoltata, mi ha capita e mi ha fatta sentire ancora amata. Tra le sue braccia ho avuto la netta sensazione di essere tornata a casa, di aver ritrovato me stessa dopo aver perso la strada. È bastato guardarci negli occhi per sapere che volevamo stare ancora insieme. Così ho lasciato Venezia e mi sono trasferita qui, nel suo appartamento romano, che ormai è diventato il nostro. È un loft intimo e luminoso, affacciato sul laghetto artificiale dell’Eur. Lo ha progettato lui. Amo tutto di questo nido. E poi in ogni angolo c’è qualcosa di noi, del nostro modo di pensare, delle nostre passioni: la libreria in resina disegnata da Filippo, le lampade in carta di riso che ho dipinto con ideogrammi giapponesi, le locandine dei nostri film di 10
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culto. Amo le finestre senza tende e perfino il claustrofobico ascensore del palazzo, in cui ogni volta ho paura di restare bloccata. Ma soprattutto amo che questa sia la nostra prima casa insieme. Sguscio in bagno e mi sistemo frettolosamente i capelli arruffati, fermandoli sulla nuca con una pinza per togliermeli dagli occhi. Il caschetto del mio ultimo autunno veneziano è ormai un ricordo, e ora la mia chioma bruna indisciplinata cade morbida fin sotto le spalle, anche se io mi ostino sempre a costringerla in code improvvisate o in acconciature improbabili. Mi infilo i pantaloni della tuta e ciabattando raggiungo Filippo in cucina. «Buongiorno, ghiro» mi saluta, versandosi un bicchiere di succo d’arancia. È già pronto per uscire, profumato e vestito con pantaloni di cotone beige, camicia azzurra e cravatta optical. La cravatta è segno che oggi andrà in studio e non in cantiere, ormai l’ho imparato. Sono invidiosissima della sua efficienza mattutina: io in confronto sembro una tartaruga che si trascina per casa. «Buongiorno» rispondo, stropicciandomi gli occhi con uno sbadiglio che quasi mi sloga la mandibola. Mi siedo sullo sgabello e mi abbandono con i gomiti sull’isola di cemento, mentre il sonno è un richiamo a cui penso di non poter resistere. Sollevo lo sguardo verso il fornello, dove dentro un pentolino sta già bollendo l’acqua per il mio tè. Filippo ha questa attenzione nei miei confronti fin dalla prima mattina 11
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in cui ci siamo svegliati insieme. È un gesto piccolo, ma dice tutto di lui. Spegne il fornello prima che l’acqua trabocchi. «Metti tu la droga?» chiede. Sorrido. Filippo sostiene che sono drogata di tè verde e infusi, e forse ha ragione: ne bevo litri ogni giorno e mi piace comprarne infinite varietà. Mi avvicino allo scaffale e afferro uno dei tanti barattoli pieni di foglie essiccate. Oggi sono in vena di una miscela ayurvedica: tè verde aromatizzato alla rosa e vaniglia. «Vuoi?» provo. Filippo scuote la testa, sorseggiando il suo caffè. «Guarda che è buono, davvero!» Allungo la scatola di latta per fargliela annusare. «Certo, come no... adesso ti metti pure a spacciare?» domanda, avvicinando le narici con cautela. «Sa di gatto morto» sentenzia, arricciando il naso. Scuoto la testa – è una battaglia persa in partenza – e torno a sedermi sullo sgabello con il mio tazzone fumante, attenta a non ustionarmi le mani. Osservo Filippo da qui: il corpo snello e muscoloso, i capelli biondi, mossi appena da un velo di gel. Mi piace sempre di più, mi piace condividere i nostri rituali, l’universo conosciuto delle nostre piccole abitudini. Forse ogni amore dovrebbe essere così, e più il tempo passa più sono convinta che noi due potremmo stare insieme tutta la vita, senza farci logorare dall’abitudine come succede a certe coppie. 12
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«Perché mi guardi?» chiede, inarcando un sopracciglio. «Ti guardo perché sei bello» rispondo, sorseggiando piano il mio tè. «Che ruffiana!» Si avvicina e inizia a pizzicarmi i fianchi e a riempirmi il collo di piccoli baci. Poi si siede sullo sgabello vicino al mio, accende l’iPad e si mette a sfogliare le pagine dei quotidiani a cui è abbonato. La sua solita rassegna stampa mattutina. «Non so come fai a leggere su quel coso» osservo, perplessa. «È molto più comodo dei giornali, ingombranti e in più antiecologici.» Sfiora con le dita lo schermo come se stesse suonando il piano. «Io preferisco la carta» affermo convinta. «Perché sei antica.» Filippo butta giù d’un fiato il suo caffè e un sorriso compiaciuto gli scivola sulle labbra. «Del resto, fai la restauratrice...» «Non raccolgo provocazioni» ribatto, ostentando superiorità. C’è questa disputa sempre accesa tra di noi, su quale dei nostri lavori sia più utile e importante: io conservo il passato e lui, come architetto, progetta il futuro. Insomma, due professioni agli antipodi, e quindi una discussione da cui molto probabilmente non usciremo mai. «Stasera che si fa?» gli chiedo, intingendo nel tè un biscotto di riso. «Non lo so, amore... Non so nemmeno a che ora finirò in studio» risponde distratto, senza distogliere gli occhi dal tablet. 13
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«Questi architetti visionari che inventano il futuro ma non riescono a vedere oltre le sette di sera...» commento sottovoce, addentando il biscotto e reprimendo un sorrisetto sarcastico. Non raccolgo provocazioni ma, se mi capita l’occasione, non mi tiro indietro di fronte a una piccola stoccata. Filippo solleva finalmente lo sguardo dallo schermo. Touché. Gli scompiglio i capelli, sapendo che questo gesto lo farà andare su tutte le furie. E, infatti, si allunga verso di me, mi afferra un braccio e me lo blocca dietro la schiena: «E va bene, Bibi, l’hai voluto tu». Con l’altra mano comincia a farmi il solletico sulle costole e alla base del collo e io inizio a ridere e ad agitarmi come un’anguilla. Non resisto: chiedo subito pietà. Filippo mi lascia all’improvviso e controlla l’orologio. «Cavolo, è tardissimo!» In un attimo spegne l’iPad e lo ripone nella custodia come se si trattasse di una reliquia. «Scappo a cambiarmi» dico io, realizzando che sono ancora in pigiama. «Se mi aspetti usciamo insieme...» «Non posso, Bibi» sospira, allargando le braccia. «Devo essere in studio tra mezz’ora. Ho appuntamento con un cliente. Me l’ha fissato così presto, accidenti a lui...» «Ok» annuisco, cercando di impietosirlo con la faccina triste e rassegnata che metto su quando voglio fargli tenerezza. «Allora vai... anche se sarò costretta a fare la strada da sola...» piagnucolo. 14
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«Be’, ormai avrai imparato come funziona la metro» sghignazza. Ecco, forse ha ragione Filippo, non ho proprio il senso dell’orientamento di un boy scout – a dire il vero ho una spiccata tendenza a perdermi e a salire sui mezzi sbagliati – ma passare dalla dimensione quasi paesana di Venezia al caos di Roma sarà pure un’attenuante, no? «Scemo!» Faccio una smorfia e poi lo attiro a me. «Buona giornata» sussurro, avvicinando le mie labbra alle sue. «A stasera, Bibi.» Il suo bacio mi lascia in bocca un sapore delizioso di caffè misto a dentifricio. La giornata è partita bene, e così mi dirigo alla fermata della metropolitana con passo deciso, come se dovessi sfidare un temibile avversario. Ma ce la posso fare, lo so, anche se il sole già alto mi sta dicendo chiaramente di rallentare e godermi la passeggiata. L’Eur è un quartiere moderno. Il verde vivace dei giardini che si fonde con l’asfalto dei marciapiedi e il cemento dei palazzi dà un senso di razionale tranquillità, nonostante il traffico caotico. È tutto nuovo per me, che sono abituata a un paesaggio urbano davvero diverso – i campielli deserti, i vaporetti che passano quando vogliono, i ponti intasati di turisti – e ancora cammino con il naso per aria ogni volta che faccio il tragitto da casa mia al lavoro. Scendo le scale della metro e con sicurezza m’inoltro nel tunnel sotterraneo in direzione Rebibbia. Ho sempre 15
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paura di sbagliare: qui sotto mi sembra davvero tutto così confuso! Mi è capitato di perdermi più di una volta, ma l’errore più grave è stato telefonare a Filippo per chiedere aiuto: quell’unico, disperato sos mi ha condannata a essere il suo zimbello (credo) a vita. Mi siedo ad aspettare il treno sulla panchina di ferro a ridosso del binario. Osservo le persone intorno a me cercando di indovinare dove stanno andando e qual è il loro lavoro. Era il gioco che io e Gaia, da piccole, ci divertivamo a fare sul vaporetto, tornando da scuola. Chissà cosa starà combinando lei adesso. Me la immagino sfrecciare per le calli arrampicata su delle Jimmy Choo tacco dodici, un vestitino addosso, mentre accompagna l’ennesima giapponese plurimilionaria in un’estenuante sessione di shopping mattutino. Anche se ci sentiamo spesso, Gaia mi manca molto: il suo sorriso sincero, le sue espressioni colorite, i suoi abbracci impetuosi, perfino i suoi diktat in fatto di moda e stile. La sua amicizia è forse l’unica cosa che rimpiango davvero di Venezia: per il resto – genitori esclusi, ovviamente – non vedevo l’ora di allontanarmene. Se penso che tra cinque giorni esatti compirò trent’anni, non mi sembra vero: spegnerò la mia trentesima candelina a Roma e la cosa mi rende euforica, io che non ho mai amato i compleanni. Sono arrivata a un momento cruciale della mia vita, lo sento. Abbandonare le rive sicure dei venti per una donna è sempre un trauma, ma io sono certa di aver compiuto il passaggio definitivo all’età 16
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adulta con i migliori presupposti: un nuovo amore, una nuova città, una nuova vita. Se la felicità esiste, non dev’essere molto lontana da qui. Finalmente il mio treno arriva. È l’ora di punta, ma c’è ancora qualche posto a sedere libero. Entro a forza, sgomitando tra la folla, e riesco a infilarmi in un sedile tra una signora in carne e un adolescente brufoloso. In piedi, davanti a me, si piazza un ragazzo con una camicia leggera. È di spalle, e con la sua mole mi copre tutta, tanto che non riesco nemmeno a vedere il display luminoso che annuncia le fermate. Prima di arrivare al Colosseo ne avrò almeno dieci; mi rassegno a contarle sulle dita, sperando di non sbagliare. A un tratto mi accorgo che non riesco a staccare gli occhi dalla schiena del ragazzo. Sono come rapiti da qualcosa di familiare: quella camicia, quelle spalle, quei capelli scuri. Se non fosse così giovane, potrebbe essere Leonardo. Il ricordo di lui mi attraversa come un lampo e sento scivolarmi dentro un’ombra. Intorno tutto diventa opaco. Cominciano a materializzarsi nella mia mente i ricordi dei momenti trascorsi insieme, istantanee in bianco e nero che mi piombano addosso in velocità come degli insetti molesti; li scaccio subito scrollando la testa. «Preistoria» mugugno. Ormai non ha più importanza chiedersi dove sia Leonardo e se un finale diverso sarebbe stato possibile tra noi. E non ha più senso rimpiangere le emozioni che lui mi scatenava: il vuoto alla pancia prima d’incontrarlo, la sensazione di scoperta e l’ec17
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citazione dei nostri appuntamenti clandestini. È tutto finito, perduto per sempre. Forse non sono ancora pronta a guardarmi indietro e a considerare con totale distacco tutta quella storia. Ma per lo meno, ora, se mi capita di pensare a lui, non vado più in crisi, paralizzandomi con una fitta al cuore e un nodo allo stomaco, come succedeva tre mesi fa. Mi sono rimessa in piedi e ho cominciato da capo, un po’ come quando si guarisce da una brutta influenza. Ho imparato a gestire quelle emozioni, a smontarle pezzo per pezzo. Il dolore è diminuito con il tempo, come accade ogni volta – anche se subito dopo un trauma sembra sempre impossibile superarlo – e ormai riesco a vedere Leonardo per quello che è: un amore che appartiene alla vecchia Elena, sbagliato e che non ritornerà mai. Ma mi vedo anche come una donna più saggia e sicura. Accanto a un uomo migliore. Accanto a Filippo. Scendo alla fermata Colosseo e riemergo in via dei Fori Imperiali, dove prendo l’autobus che mi porterà al lavoro. Intanto guardo Roma scorrere sotto i miei occhi: la sua bellezza magnifica e trascurata continua a stupirmi e a conquistarmi ogni giorno. Strati di arte e storia cresciuti caoticamente uno sull’altro; questa città sembra una signora che ha deciso d’indossare il suo guardaroba tutto in una volta, mescolando epoche e stili, indecisa se nascondersi o mostrarsi. 18
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L’autobus corre rumorosamente sui sanpietrini e s’immette lento nella rotatoria di piazza Venezia, dove le auto circolano a ogni ora del giorno e della notte in un infinito valzer. Scendo in largo Argentina e lascio la dorsale di corso Vittorio Emanuele per i vicoli stretti che s’innestano sui lati. Il centro di Roma è un dedalo di stradine contorte che ti stordiscono facendoti perdere l’orientamento, ma che alla fine ti risputano sempre su una piazza ariosa e spettacolare, lasciandoti in uno stato di divertita meraviglia. Ormai ho imparato a non temerle. Anche se continuo a perdermi e a fare percorsi diversi, alla fine so che da qualche parte, prima o poi, comparirà il profilo rassicurante del Pantheon o quello allungato di piazza Navona a indicarmi che sono sulla strada giusta. Eccomi in piazza San Luigi dei Francesi, la mia destinazione, e con soli dieci minuti di ritardo. Mi hanno spiegato che a Roma avere un quarto d’ora di ritardo sugli appuntamenti è normale, se non addirittura doveroso: in una città come questa, labirintica e fiaccata dal traffico, nessuno si aspetta la puntualità, e spaccare il minuto in qualche caso può essere interpretato addirittura come una pignoleria un po’ maleducata. Passo accanto a un gruppetto di clericali tra cui riconosco padre Sèrge, uno dei sacerdoti che celebrano a San Luigi. «Bonjour, mademoiselle Elenà» mi saluta con un sorriso bianchissimo che risalta sulla carnagione scura. 19
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San Luigi è la chiesa della comunità gallicana a Roma e il parroco è un francese di origini senegalesi. Ricambio con un cenno del capo e mi dirigo a passi veloci verso l’entrata. Se non fosse per l’imponente croce sul tetto, la facciata farebbe pensare a un palazzo neoclassico più che a un luogo di culto, con le sue colonne corinzie e le statue di pietra racchiuse in eleganti nicchie. Spingo il portone di legno e passo dalla luce del giorno alla penombra dell’interno. Ogni mattina penso che sia un incredibile privilegio entrare in questo tempio dell’arte. Qui sono custoditi tre dei dipinti più famosi del Caravaggio: il Martirio di san Matteo, San Matteo e l’angelo e la Vocazione di san Matteo. Ho passato ore a studiarli sui manuali ma non li avevo mai visti dal vivo prima di venire qui a lavorare, e adesso mi sembra incredibile passarci davanti tutti i giorni per raggiungere la cappella di cui curo il restauro, che si trova proprio lì accanto. Così, nonostante l’umidità, le polveri e i solventi dannosi per la mia pelle ipersensibile, la tuta cerata che crea un devastante effetto serra intorno al mio corpo, le impalcature poco sicure, padre Sèrge che viene a controllare i lavori allo scadere di ogni ora, e il viavai continuo di gente, mi sento davvero fortunata a lavorare qui. L’incarico mi è stato affidato grazie a una gentile segnalazione della Borraccini che, in veste di direttrice dell’Istituto di Restauro di Venezia, ha influenti contatti un po’ ovunque nel settore dei beni culturali. Quando l’ho chiamata per sa20
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pere se aveva qualche dritta da fornirmi su Roma, con un paio di telefonate è riuscita a trovarmi questo lavoro prestigioso senza alzarsi dalla scrivania del suo ufficio veneziano. «Ho per le mani quello che ti ci vuole» ha annunciato dopo neanche un’ora dalla mia chiamata, con un piglio deciso e rassicurante. «Vedi di non deludermi, cara Elena. Ti ho affiancato alla Ceccarelli. È stata mia allieva tempo fa e ora è una delle migliori restauratrici sulla piazza di Roma. Di solito ama lavorare da sola, ma se non ti farai cacciare, e soprattutto schiacciare dal suo caratteraccio, imparerai molto da lei» ha concluso, con tono quasi intimidatorio. Così, grazie all’intercessione della professoressa più temuta di Venezia, eccomi qui, sospesa su questa impalcatura instabile, con spugnette, pennelli e gomme abrasive alla mano a occuparmi dell’Adorazione dei Magi di Giovanni Baglione, un pittore romano vissuto tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento. Nonostante sia stato uno dei maggiori biografi di Caravaggio, finì col diventare il suo peggior nemico e lo trascinò addirittura in tribunale. Era stato il solito temperamento imprevedibile dell’artista lombardo ad accendere gli animi: Caravaggio infatti scrisse un libretto di poesie satiriche per ridicolizzare Baglione e accusarlo di plagio. Quest’ultimo lo denunciò per diffamazione, il che costò al Merisi un mese di carcere. In questa chiesa, secoli dopo, i due acerrimi nemici si ritrovano uno accanto all’altro, separati solo da un muro. E se esiste un aldilà, immagino 21
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che Caravaggio si stia prendendo una bella rivincita, visto il numero di visitatori che quotidianamente vengono ad ammirare la sua cappella e riservano invece solo occhiate distratte a quella del povero Baglione. «Cominciamo o ce ne stiamo tutto il giorno in contemplazione?» È la voce della Ceccarelli, la migliore restauratrice – e, come ho scoperto subito, il peggior carattere – di Roma, a risvegliarmi dai miei sogni a occhi aperti col solito piglio sbrigativo e quel marcato accento romano. Da quando l’ho conosciuta, non ho ancora capito se la Borraccini abbia voluto farmi un favore o mettermi di fronte a una missione impossibile per i miei nervi... Mi volto di scatto e resto impigliata nel suo sguardo severo, seminascosto dietro quei bizzarri occhiali da vista con la montatura verde acido. Paola è una quarantenne alta e dinoccolata, ha i capelli biondi con i colpi di sole, quasi sempre legati in una coda o raccolti con uno spillone, che le conferiscono una curiosa aria da matrona romana. È rigida e scontrosa, ma è davvero un mostro nel nostro campo. Conosce come pochi i segreti dei colori, riesce a intuire l’anima più profonda di un affresco e a restituire a ogni dettaglio il massimo splendore. Purtroppo è maledettamente consapevole del suo talento e non vede l’ora di richiamarmi all’ordine se si accorge che c’è qualcosa di sbagliato nella miscela delle polveri o quando mi blocco troppo a lungo su un particolare. Parla poco, ma quando lo fa è diretta e tagliente, e ogni volta finisce per suscitare 22
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in me una sorta di timore reverenziale. Anche se, a intuito, Paola potrebbe essere molto diversa da come vuole apparire. «Elena, che diavolo stai facendo?» La sua voce è un’onda d’urto alle mie spalle. Stavo per mettermi a colorare il manto della Vergine, ma mi volto subito con il pennello a mezz’aria scontrandomi con quegli occhi nocciola che mi fulminano da sotto le lenti, mentre le guance disegnano due linee dure intorno alla bocca sottile. «Fai una prova, prima. Non sono tanto sicura che sia proprio identico» continua, indicando con il mento la mia coppetta di azzurro. «Va bene...» le rispondo conciliante, anche se ho già fatto mille prove. Traccio una piccola pennellata sulla veste della Madonna. «Non mi pare molto diverso...» osservo. Il colore combacia perfettamente con l’originale dell’affresco, in effetti. Paola si avvicina per controllare. Guarda prima il campione, poi guarda me, e solo dopo un istante che mi pare infinito il suo volto ritorna quello di sempre: incazzato con il mondo in generale e non solo con me. «Ricordati di segnare sul brogliaccio le quantità esatte delle polveri» dice, tornando al suo affresco, quello sull’altra parete della cappella, l’Annunciazione di Charles Mellin. «Ok. Dopo lo faccio.» Vorrei risponderle che non mi serve segnarle ogni volta, che le so a memoria, ma sto zitta. Quello che per Paola è il brogliaccio, e che custodisce con religiosa cura, è un quadernone con la copertina di cartone 23
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rigido e i fogli bianchi senza righe: ogni mattina, prima di cominciare a lavorare, scrive a inizio pagina la data del giorno e subito sotto segna – o mi costringe a segnare – tutte le quantità di pigmenti utilizzati nelle miscele. Pensavo di essere un caso clinico quanto a pignoleria e manie di perfezionismo sul lavoro, ma poi ho incontrato Paola e ho dovuto ricredermi. Non c’è davvero limite al peggio. All’inizio la sua scrupolosità esasperata mi spaventava, poi mi sono adeguata e alla fine – ormai in piena sindrome di Stoccolma, lo ammetto – ho imparato ad apprezzarla. Al di là del lavoro, però, non ci sono state altre occasioni per approfondire la nostra conoscenza. Ho provato a farmela amica, invitandola a bere qualcosa o a fare quattro passi in centro durante le pause, ma lei ha sempre rifiutato. Sembra che ci tenga a rispettare le distanze e a mantenere il nostro rapporto nei ranghi della pura e fredda formalità professionale. Eppure – non saprei dire bene perché, dato che la realtà mostrerebbe l’esatto contrario – sono convinta che dietro quella maschera di ferro si celi un animo sensibile. Lo capisco da come tiene il pennello tra le dita e dalla grazia con cui lo fa scivolare sull’affresco: accarezza i profili e le ombre con la leggerezza di una piuma. Lavoriamo tutta la mattina dandoci la schiena, ognuna rivolta verso il proprio dipinto. Gli unici rumori qui dentro sono i passi delle persone lungo le navate e il tintinnio delle 24
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monetine nella macchinetta che accende le luci sulle opere del Caravaggio. Mi fermo per dare un po’ di sollievo agli occhi con due gocce di collirio e per controllare il cellulare. C’è un messaggio di Filippo. Dopo attente e approfondite analisi, il visionario progettista del futuro ha concepito una serata aperitivo e cinema. Al Farnese danno Tarantino. Ci vediamo da me?
Lo studio di Filippo si trova in via Giulia, a pochi passi da qui. Spesso lo raggiungo dopo il lavoro, facciamo un aperitivo in Campo de’ Fiori e poi andiamo al cinema al primo spettacolo, così possiamo ancora tornare a casa con la metro. Adesso che le serate sono più calde nessuno dei due ha voglia di chiudersi in casa, e quindi la proposta mi piace, come al solito. Ok. A più tardi. Bacio.
Metto via il telefono e mi ributto nel lavoro. «Magari esistesse un programma tipo Photoshop anche per noi» penso ad alta voce mentre sfumo un po’ di bianco sulla veste di Maria. «Sai che pacchia...» Paola si apre a un sorriso: «Non lo so, sai? Alla fine mi mancherebbe il bello della manualità». Poi si avvicina alla parte che sto trattando, scrutandola con attenzione centi25
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metro per centimetro. «Ti consiglio di pulire bene anche le macchioline di residuo» indica un punto sulla parete, con la mano avvolta nel guanto, «sennò quando dai il colore è un casino.» «Certo.» So perfettamente quello che devo fare, ma lei non perde occasione per ricordarmelo. Poi si leva i guanti e comincia a risistemare gli attrezzi. «Te ne vai di già?» chiedo, sgranando gli occhi. Paola abbandona sempre il campo dopo di me. «Sì. Non ti ricordi?» Scuote la testa, liberando i capelli dal fermaglio. «Oggi pomeriggio non ci sono.» «Già, è vero.» Certo... qualche giorno fa mi aveva detto di avere un impegno. Non ho la più pallida idea di cosa si tratti e mi sono ben guardata dall’indagare. «Ci vediamo domani, allora.» «A domani.» Mi saluta con un cenno e si allontana nelle sue sneakers. Nel pomeriggio non riesco a combinare molto, un po’ perché alle quattro padre Sèrge celebra davanti a un folto gruppo di fedeli una lunghissima messa in francese che mi distrae, e un po’ perché l’attenzione ha cominciato a calare e gli occhi faticano sempre più a mettere a fuoco i particolari. Così, mentre aspetto che si facciano le sei e mezza per raggiungere Filippo, mi perdo a osservare le persone, compilo attentamente il brogliaccio, preparo i pigmenti che userò do26
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mani e sistemo tutti i miei attrezzi con più calma di quanta ne servirebbe. Di tanto in tanto incrocio lo sguardo di un ragazzo che da qualche giorno viene in chiesa e si piazza per ore davanti ai quadri del Caravaggio, incurante dei turisti che gli passano davanti. Ho notato che ha uno strano album da disegno con la copertina blu elettrico e lo usa per prendere appunti o abbozzare qualche schizzo a matita. Poi strappa i fogli e li inserisce in una cartellina di cartone con l’elastico. Gli do al massimo vent’anni, ma forse è addirittura più giovane. Oggi indossa un paio di jeans a sigaretta infilati nelle All Star a scacchi, e una T-shirt nera senza scritte. Al polso porta due braccialetti di corda e un piercing gli illumina il sopracciglio sinistro. Non è molto alto ma è davvero filiforme, ha il classico fisico dello studente un po’ nevrotico e geniale, i muscoli delle braccia soltanto accennati, la pelle pallida, il busto leggermente curvo in avanti. Mi ha appena sorriso. Un sorriso timido e quasi impercettibile che vale come un ciao e significa “ormai possiamo salutarci... ci conosciamo, dato che ci siamo incontrati nello stesso posto per cinque giorni di fila”. Mi piacciono i suoi occhi grandi e scuri – sono vivi, accesi – e anche le sue sopracciglia folte, come il cespo di capelli castani leggermente mossi. La bocca grande e carnosa dà un che di esotico al suo volto. Forse non è uno studente, ma un pittore alle prime armi. 27
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Ne vengono molti di ragazzi ad ammirare quei capolavori, ma lui è diverso: studia le opere con una dedizione speciale, scrive febbrilmente sui suoi fogli, oppure legge per ore manuali che sottolinea come se volesse fissarsi in testa ogni singola riga. Sono le sei e un quarto e se ne sta andando. A questo punto me ne vado anch’io: oggi ho dato abbastanza, e comunque restare di più sarebbe inutile... sono bollita. Mi tolgo la tuta, mi sistemo i capelli e mi avvio fuori lungo la navata. Le suole dei miei sandali in cuoio risuonano sul pavimento di marmo e mi rendo conto che devo cercare di camminare con passo felpato per attutire il rumore. A un tratto, passandogli accanto, mi accorgo che dalla sua cartellina è scivolato fuori un foglio di appunti. Lo raccolgo e, prima che il ragazzo mi sfugga via, mi affretto a bloccarlo, toccandogli con due dita la spalla. Lui si volta, sorpreso. «Scusa, ti è caduto questo» dico, porgendogli il foglio. «Grazie. Non me n’ero accorto.» Arrossisce. Sembra un po’ intimidito. Si gratta la testa con una mano, poi prende il foglio, lo piega in due e lo infila sotto l’elastico della cartellina. «Ho notato che vieni qui da un po’ di giorni» continuo, mentre usciamo dalla chiesa. «Studi?» «Sì. Sono al primo anno dell’Accademia di Belle Arti.» È teso, lo capisco da come muove gli occhi, senza sosta. «Sto facendo uno studio sul ciclo di san Matteo» specifica, schiarendosi la gola. 28
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«Immaginavo.» Gli regalo un sorriso amichevole, sono istintivamente ben disposta nei suoi confronti. «E tu invece sei una restauratrice.» Mi osserva con ammirazione. Ne sono quasi intenerita. Poi mi tende la mano e aggiunge, con voce gentile: «Be’, piacere, io sono Martino». «Elena.» Gli stringo la mano calda. «E quell’accento? Di dove sei?» «Di Venezia.» «Certo... E ti sei trasferita qui per lavoro, immagino?» «Non solo...» Gli sorrido. «Anche per stare col mio ragazzo.» «Ah.» Annuisce. Sembra vagamente deluso. Stiamo per un attimo in silenzio, come se fossimo entrambi in cerca di qualcosa da dire. «Allora mi sa che ci rivedremo spesso nei prossimi giorni, Martino.» «Sì, credo proprio di sì» risponde lui, con gli occhi che brillano. «Io scappo, vado di qua» dico indicando la mia direzione. «E io di là» risponde, riscuotendosi all’improvviso. «A presto, allora.» «A presto.» Fa due passi all’indietro e si allontana, lo sguardo basso, l’andatura un po’ ciondolante di chi porta le All Star. Resto a guardarlo e poi lo vedo voltarsi di nuovo, come per accertarsi che io me ne sia andata per davvero. Gli sorrido, mi 29
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sorride, ma camminando con la testa girata all’indietro va a sbattere in pieno contro un passante. Si scusa, imbarazzato, e riprende a camminare veloce con la testa bassa, mortificato. La sua goffaggine è tenera e mi fa simpatia: tra timidi ci si capisce subito. A presto, Martino. Da oggi credo di avere un nuovo amico.
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