Irene Cao - Io ti guardo

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Il giallo assorbe la luce del sole, vira all’arancio per poi sfumare in un rosso acceso. Un taglio, quasi una ferita, lascia intravedere piccoli chicchi di un viola lucente. I miei occhi sono fermi su questo melograno da ore. È solo un particolare, certo, ma è anche la chiave dell’affresco. Il soggetto è il ratto di Proserpina, un’istantanea del momento in cui il severo signore degli inferi, un Plutone avvolto nella nuvola porpora della sua veste, afferra con forza i fianchi della dea che sta raccogliendo un enorme melograno sulle rive di un lago. L’affresco non è firmato, per cui l’autore resta circondato da un alone di mistero. So soltanto che è vissuto all’inizio del Settecento e che dev’essere stato un autentico genio, considerando lo stile del disegno, la grana del colore e il delicato gioco di ombre e chiaroscuri. Ha studiato ogni singola pennellata e io sto cercando di non tradire il suo sforzo di raggiungere la perfezione. A distanza di secoli, il mio compito è interpretare il suo gesto creativo e riprodurlo nel mio. 9

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Questo è il primo vero restauro a cui sto lavorando completamente da sola. A ventinove anni la sento come una grossa responsabilità, ma ne sono anche orgogliosa: è da quando sono uscita dalla Scuola di Restauro che aspettavo la mia occasione, e adesso che è arrivata farò di tutto per non lasciarmela scappare. Perciò eccomi qui, da ore su questa scala, nella mia tuta di tela cerata, bandana rossa a contenere il caschetto bruno – ma qualche ciocca ribelle si ostina a sfuggire e a cadermi sugli occhi – e sguardo fisso sul muro. Per fortuna non ci sono specchi in giro, perché senz’altro avrò il volto segnato dalla stanchezza e le occhiaie. Ma non importa. Sono le tracce visibili della mia determinazione. Mi guardo per un momento da fuori: sono proprio io, Elena Volpe, da sola nell’androne immenso di un palazzo antico e da tempo disabitato, nel cuore di Venezia. Ed è esattamente qui che voglio essere. Ho passato una settimana intera a pulire il fondo dell’affresco e oggi per la prima volta userò il colore. Una settimana è tanto, forse troppo, ma non ho voluto rischiare. Bisogna procedere con la massima cautela, perché è sufficiente un singolo tocco sbagliato per compromettere tutto il lavoro. Come diceva un mio professore: «Se pulisci bene, sei a metà dell’opera». Alcune parti dell’affresco sono totalmente rovinate e in 10

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quei punti dovrò rassegnarmi a fare un nuovo intonaco con lo stucco. Colpa dell’umidità di Venezia, che penetra ogni cosa, la pietra, il legno, il mattone. Ma intorno alle zone danneggiate ce ne sono altre in cui i colori hanno conservato tutta la loro brillantezza. Stamattina, salendo sulla scala, mi sono detta: “Non scenderò finché non avrò trovato i toni giusti per quel melograno”. Ma forse sono stata un po’ troppo ottimista... Non so nemmeno quante ore siano passate, e sono ancora qui a provinare tutta la scala dei rossi, degli arancio e dei gialli senza un risultato che mi soddisfi. Ho già buttato via otto coppette di prova, in cui miscelo le polveri pigmentate con poca acqua e qualche goccia di olio per dare consistenza al composto. Sto per cimentarmi con la nona coppetta, quando sento uno squillo. Viene proprio dalla tasca della tuta. Purtroppo. È inutile cercare di ignorarlo. Per poco non cado a terra, afferro il cellulare e leggo il nome che lampeggia con insistenza sul display. È Gaia, la mia migliore amica. «Ele, come va? Sono in campo Santa Margherita, vieni a berti una cosa al Rosso? Oggi c’è più gente del solito, è stupendo, dài!» dice tutto d’un fiato, senza chiedermi se sta disturbando o darmi modo anche solo di risponderle. Eccola, è già in piena fase mondana. Gaia lavora per i locali più di moda in città e nel Veneto, organizza eventi e feste vip. Inizia verso le quattro del pomeriggio e va avanti inin11

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terrottamente fino a tarda notte. Ma per lei non si tratta solo di un lavoro, è una vera e propria vocazione: scommetto che lo farebbe anche se non la pagassero. «Scusa... che ore sono?» chiedo, cercando di arginare la sua valanga di parole. «Le sei e mezza. Allora, vieni?» Il Rosso è un locale dove si ritrova la gioventù veneziana sfaccendata, quel tipo di persone che ha bisogno di una come Gaia per decidere cosa fare delle proprie serate. Oddio, è già così tardi? Il tempo è volato senza che me ne rendessi conto. «Oh, Ele... ci sei? Stai bene? Di’ qualcosa, cavolo...» Gaia urla e la sua voce mi buca i timpani. «Ti stai proprio rincoglionendo su quell’affresco... devi venire qui, immediatamente! È un ordine.» «Dài, Gaia, tra mezz’ora stacco, promesso» prendo un lungo respiro, «ma vado a casa. Ti prego, non arrabbiarti.» «Ma certo che mi arrabbio, stronza che non sei altro!» sbotta. Un classico. È il nostro gioco delle parti: passano due secondi ed è di nuovo serena e felice. Meno male che per tutti i miei no Gaia ha la memoria di un pesce rosso. «Vabbè, senti, allora vai pure a casa, ti riposi un po’ e sul tardi andiamo al Molocinque. Ti dico solo che abbiamo due ingressi per il privé...» «Grazie del pensiero, ma non ci tengo a infilarmi in quel12

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la bolgia» mi affretto a dire prima che vada avanti. Lo sa che non sopporto la ressa, che sono quasi astemia, e che per me ballare significa, nella più rosea delle ipotesi, battere un piede tenendo il tempo – un tempo tutto mio, a dire il vero. Sono timida, non sono fatta per questo genere di divertimento, mi sento sempre fuori posto. Eppure Gaia non demorde: ci prova ogni volta a trascinarmi in una delle sue serate. E in fondo, anche se non lo confesserò mai, gliene sono grata. «Hai già finito di lavorare?» le chiedo, nel tentativo di allontanare il discorso da territori potenzialmente pericolosi. «Sì, e mi è andata da dio, oggi. Ero con una manager russa. Siamo state tre ore da Bottega Veneta a guardare borse e stivaletti di pelle, poi alla fine l’ho portata da Balbi e lì la signorona si è decisa a comprare due vasi di Murano. Tra l’altro da Alberta Ferretti ho visto un paio di vestiti della nuova collezione che sembravano fatti apposta per te. Di un beige che starebbe un amore con il nocciola dei tuoi capelli... Un giorno di questi ci andiamo, così te li provi.» Quando non è impegnata a dire alla gente dove andare la sera, Gaia spiega alla gente come spendere i propri soldi: in pratica fa la personal shopper. È quel genere di donna che ha le idee chiare su tutto e una grande capacità di convincere gli altri. Così grande che c’è chi è disposto a pagare pur di farsi convincere. Non io, però: ho sviluppato gli anticorpi in ventitré anni 13

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di amicizia. «Certo che ci andiamo, così finisce che li compri per te, come sempre.» «Prima o poi ci riesco a farti vestire decentemente. Con te la mia sfida è ancora aperta, mia cara, sappilo!» è da quando eravamo adolescenti che Gaia porta avanti questa crociata contro il mio modo, diciamo un po’ trasandato, di vestire. Per lei girare in jeans e scarpe basse non rappresenta una comoda alternativa, ma una scelta esplicita e incomprensibile di mortificarsi. Fosse per Gaia dovrei andare al lavoro tutti i giorni in minigonna e tacco dodici, e poco importa che io sia costretta a fare mille volte su e giù da pericolosissime scale da imbianchino oppure che ci rimanga per ore in posizioni che non definirei proprio confortevoli. «Ce le avessi io le tue gambe...» mi ripete sempre. E poi mi recita ogni volta il mantra di Coco Chanel: “Bisogna sempre essere eleganti, ogni giorno, perché il destino potrebbe aspettarvi all’angolo”. E infatti lei non mette piede fuori casa se non è perfettamente truccata, pettinata e accessoriata. A volte è incredibile quanto siamo agli antipodi io e questa donna. Se non fosse la mia migliore amica, probabilmente non la sopporterei. «Però, Ele» torna alla carica, imperterrita, «stasera al Molo ci devi venire...» «Dài, Gaia, non te la prendere, ti ho già detto che non posso!» Quando s’impunta sulle cose mi fa venire i nervi. «Ma ci sarà Bob Sinclar!» 14

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«Chi?» le chiedo, mentre sulla fronte mi lampeggia la scritta file not found. Gaia sbuffa, esasperata: «Il dj francese, quello famoso. Era in giuria alla Mostra del Cinema la settimana scorsa...». «Ah, allora!» «Comunque» prosegue come se niente possa scalfirla, «so da fonti sicure che ci saranno diversi personaggi al privé, tra cui, apri bene le orecchie...» fa una pausa studiata «... Samuel Belotti!» «Oddio, il ciclista padovano?» gemo, esasperata, con un tono di disapprovazione totale. È uno dei tanti mezzi fidanzati “famosi” che Gaia ha seminato in qualche angolo d’Italia e del mondo. «Proprio lui.» «Io non capisco cosa ci trovi: è un cretino arrogante, non so proprio dove tu lo veda figo.» Anche in fatto di uomini Gaia e io non abbiamo gli stessi gusti. «Eh, lo so io dov’è figo...» sghignazza. «Vabbè...» sorvolo. «E lui ci sta?» «Gli ho scritto un sms. Non mi ha risposto, sta con la velina adesso» sospira, «ma non demordo, perché non è che mi abbia proprio dato un due di picche... credo stia solo temporeggiando.» «Non so come fai a conoscere certa gente, e forse non voglio nemmeno saperlo.» «Lavoro, cara mia, solo lavoro» dice, e posso immaginar15

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mi benissimo il sorrisetto malizioso che in questo momento avrà stampato in faccia. «Le pubbliche relazioni, si sa, richiedono molto impegno...» «Le parole “lavoro” e “impegno” dette da te suonano vuote, prive di significato» la provoco nascondendo un pizzico d’invidia. In questo vorrei assomigliarle almeno un po’, lo ammetto. Io sono tutta rigore e senso di responsabilità. Lei leggerezza e sfrontata incoscienza. «Tu non mi apprezzi, Ele. Sei la mia migliore amica e non mi apprezzi!» ride. «Vabbè, vai al Molo e divertiti. Anzi, attenta a non stancarti troppo, cara!» «Certo che mi dici sempre di no... ma tanto io me ne frego e continuo a martellarti, lo sai. Non mi arrendo, tesoro...» Certo che lo so. Questo teatrino è il nostro modo di dirci che ci vogliamo bene. «è che adesso sono davvero in un brutto momento: non posso fare le tre, sennò domattina non mi alzo.» «Ok, stavolta ti lascio vincere.» Finalmente... «Questo weekend, però, promettimi che ci vediamo!» conclude, arrivando al punto. «Giuro. Da sabato sono tutta tua.» Anche la nona coppetta di rosso Tiziano è da buttare: ho avvicinato una punta di colore alla buccia del melograno e 16

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ancora non ci siamo. Mi rassegno a ricominciare da capo, ma un rumore alle mie spalle mi distrae. Qualcuno è entrato dal portone principale e sta salendo la scalinata di marmo: sono passi maschili, non c’è dubbio, per un attimo avevo temuto un’improvvisata di Gaia. Mi affretto a scendere dalla scala, facendo attenzione a non inciampare nelle coppette che ho lasciato cadere alla rinfusa sul telo di protezione. La porta dell’androne si apre e sulla soglia compare la figura asciutta di Jacopo Brandolini, il proprietario del palazzo, nonché mio committente. «Buonasera» lo saluto con un sorriso di circostanza. «Buonasera, Elena» ricambia il mio sorriso, «come procede il lavoro?» Abbassa lo sguardo sul cimitero di coppette steso ai nostri piedi mentre si annoda all’altezza del petto le maniche del pullover – certamente di cachemire – appoggiato sulle spalle. «Molto bene» mento, e mi meraviglio della mia disinvoltura, ma non ho voglia di spiegargli dettagli che comunque non capirebbe. Però devo aggiungere qualcosa per darmi un tono professionale: «Ho finito la pulitura proprio ieri e da oggi posso dedicarmi al colore». «Ottimo. Confido in lei, è tutto nelle sue mani» dice spostando lo sguardo dal pavimento a me. Ha gli occhi piccoli e azzurri, due fessure di ghiaccio. «Come sa, ci tengo molto a quest’affresco. Voglio che venga fuori al meglio. Anche se non è firmato, si vede che è di buona fattura.» 17

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Annuisco. «Chi l’ha dipinto era di sicuro un grande maestro» mi affretto a dire. Brandolini sorride rivelando una punta di soddisfazione. Ha quarant’anni, ma ne dimostra qualcuno in più. Porta un cognome antico – è il rampollo di una delle più note famiglie nobili veneziane – e anche lui dà l’idea di essere un po’ antico. È magrissimo, la pelle diafana, il viso scavato e nervoso, i capelli biondo cenere. E poi si veste da vecchio. O meglio, su di lui i vestiti fanno un effetto strano, un po’ rétro: per esempio, adesso indossa un paio di Levi’s e una camicia a mezze maniche azzurrina. Ma sembra quasi ci navighi dentro, esile com’è. E l’insieme ha un qualcosa di anziano che non so spiegare bene. Eppure si dice che il conte con le donne riscuota un discreto successo. È molto ricco, non riesco a darmi altre spiegazioni. «Come si sta trovando qui?» domanda, guardandosi attorno a verificare che tutto sia al posto giusto. «Benissimo!» e mi sciolgo la bandana sulla nuca, perché mi rendo conto di essere proprio impresentabile così. «Per qualsiasi cosa chieda pure a Franco. Se le serve del materiale può mandare lui a prenderlo.» Franco è il custode del palazzo. È un omino tarchiato e molto simpatico, ma anche discreto e silenzioso. In dieci giorni di lavoro, mi è capitato di incrociarlo solo due volte, nel giardino della corte interna mentre innaffiava l’agapanthus, e davanti al portone d’ingresso intento a lucidare la maniglia 18

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di ottone. Non entra mai, sta sempre fuori e poi intorno alle due del pomeriggio se ne va. È una presenza rassicurante. «Me la cavo benissimo da sola, grazie.» Mi accorgo troppo tardi che la mia risposta suona un po’ brusca, e mi mordo la lingua. Brandolini alza le braccia, arreso. «Comunque» si schiarisce la voce, «sono passato per comunicarle che da domani ci sarà un inquilino nel palazzo.» «Un inquilino?» No. Questo non è proprio possibile. Non sono abituata a lavorare con gente che mi gira intorno creando confusione. «Si chiama Leonardo Ferrante, è un famoso chef di origini siciliane» mi spiega lui, compiaciuto. «Arriverà direttamente da New York per l’apertura del nostro nuovo ristorante a San Polo. Come saprà, inauguriamo fra tre settimane.» Insieme al padre, il conte gestisce altri due ristoranti a Venezia, uno dietro Piazza San Marco e uno, più piccolo, a ridosso del ponte di Rialto. I Brandolini ne hanno un altro a Los Angeles, oltre a due club privati, un caffè e un residence. L’anno scorso hanno aperto anche ad Abu Dhabi e a Istanbul. Insomma, non è raro trovare le loro foto sulle riviste patinate o di gossip che piacciono tanto a Gaia. A me di questa mondanità non importa nulla. Ma, soprattutto, un elemento di disturbo è l’ultima cosa di cui ho bisogno. «Abbiamo fatto i salti mortali per avere tutto in tempi rapidi 19

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e, come ben sa, la logistica veneziana di certo non aiuta» continua lui, senza notare il mio disappunto, «ma, vede, quando si desidera molto una cosa, gli sforzi non pesano più di tanto.» Anche le lezioni di vita, adesso. Annuisco meccanicamente con aria di approvazione. L’idea di dover lavorare con uno sconosciuto che gira nel palazzo mi irrita non poco. Come fa Brandolini a non capire che il mio è un lavoro delicato? Che basta un nonnulla per farmi perdere la concentrazione? «Vedrà, si troverà benissimo con Leonardo, è una persona molto piacevole.» «Non lo metto in dubbio, il punto è che questo androne...» Non mi lascia il tempo di finire. «Vede, non potevo certo farlo vivere in una fredda stanza d’albergo» continua Brandolini con la sicurezza di chi non deve chiedere il permesso a nessuno. «Leonardo è uno spirito libero e qui si sentirà a casa, potrà cucinare quando vorrà, fare colazione di notte e pranzare di pomeriggio, leggere un libro in giardino e godersi il Canale dalla terrazza.» Stavo per fargli notare che l’androne dove lavoro dà accesso a tutte le altre stanze del palazzo, non ci sono disimpegni, e che quindi questo tizio dovrà per forza passare di qua, e chissà quante volte al giorno. Ma lo sa anche lui, solo che, evidentemente, ha deciso di fregarsene. Dio, sto per avere una crisi di nervi. «Quanto dovrà rimanere qui, questo chef?» chiedo nella speranza di ricevere una risposta incoraggiante. 20

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«Almeno due mesi.» «Due mesi?!» gli faccio eco senza più preoccuparmi di nascondere il fastidio. «Sì, due mesi, ma forse anche di più, almeno fino a quando il ristorante non sarà completamente avviato.» Il conte si sistema di nuovo il pullover sulle spalle, poi mi guarda negli occhi, risoluto. «Mi auguro che non sia un problema per lei.» Come a dire “se lo faccia andare bene”. «Be’, se non c’è altra soluzione...» Che invece è il mio modo per dire: “non mi va bene per niente ma ci devo stare”. «D’accordo, allora non mi resta che augurarle buon lavoro» conclude tendendomi la mano sottile. «Arrivederci, Elena.» «Arrivederci, signor conte.» «Mi chiami Jacopo, la prego.» Sta cercando di indorare la pillola accorciando le distanze? Gli concedo un sorriso forzato: «Arrivederci, Jacopo». Appena Brandolini è fuori, vado a sedermi sul divano di velluto rosso addossato a una parete. Sono nervosa, insofferente: ormai ho perso l’ispirazione. Non voglio sapere niente del suo ristorante, del suo chef blasonato, non me ne frega nulla di questa inaugurazione da mille e una notte. Voglio solo lavorare in pace, da sola, in silenzio. È chiedere troppo? Mi prendo la testa tra le mani e guardo le coppette piene di tempera secca che sembrano stare lì a rinfacciarmi il mio fallimento. Con grande sforzo decido di ignorarle. Al diavolo 21

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anche l’affresco! Sono le sette e mezza e la mia concentrazione è andata a farsi benedire. Basta. Sono stanca. Vado a casa. Esco in strada e mi lascio avvolgere dall’aria umida e dolciastra di ottobre. Adesso comincia a sentirsi il fresco della sera. Il sole è quasi completamente calato sulla Laguna e si stanno accendendo i lampioni. Percorro le calli a passo veloce, con i pensieri che ancora faticano a liberarsi. Sembra siano rimasti intrappolati in quell’androne polveroso e temo che rimarranno lì per un bel po’, considerata la mia attitudine a rimuginare sulle cose. Me lo rinfacciano spesso, sia Gaia sia mia madre: dicono che quando mi gira in testa qualcosa mi assento, sono distratta, tra le nuvole. È vero, mi perdo volentieri dietro ai miei pensieri, li assecondo quando mi portano lontano... ma è solo una piccola evasione dal presente, un vizio tutto mio al quale non ho intenzione di rinunciare. Per questo adoro camminare da sola per la città: lascio che siano i piedi a guidarmi e la mente è finalmente libera, senza che nessuno reclami di essere al centro della mia attenzione. Una piccola vibrazione con squillo mi riporta improvvisamente alla realtà. Sul display dell’iPhone, un sms da leggere. Bibi, vieni al cinema? Stasera al Giorgione danno l’ultimo di Sorrentino. Bacio.

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Filippo. Ecco qualcuno con cui ho voglia di passare la serata, anche dopo una giornata come questa. Ma non credo di avere energie sufficienti per trascinarmi fino al Giorgione. Sono davvero esausta e non mi attira l’idea di rinchiudermi per due ore in una sala. Ho bisogno di stravaccarmi su un divano. Rilancio: E se cenassimo a casa mia e poi ci vediamo un film? Sono sfinita, non credo che mi godrei Sorrentino...

Replica immediata. Ok. A dopo da te ;-)

Conosco Filippo dai tempi dell’università. Ci siamo incontrati al corso di Architettura degli interni, io ancora matricola, lui già al terzo anno. Un giorno mi ha proposto di studiare insieme e io ho accettato. Mi sembrava qualcuno di cui potersi fidare, sentivo, in un modo ancora misterioso, che tra noi c’era una qualche affinità. Non avevo una ragione particolare, semplicemente lo sapevo. Siamo diventati subito amici. Andavamo alle mostre insieme, al cinema, a teatro. Oppure passavamo intere serate a chiacchierare. È da allora che Filippo mi chiama “Bibi”. Mi ripeteva sempre che assomigliavo alla Bibi di un fumetto 23

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giapponese, un personaggio un po’ goffo e con la tendenza a rimuginare su tutto, perdendosi in fantasie contorte e senza senso. Dopo l’università, non ricordo nemmeno perché, ci siamo persi un po’ di vista. L’anno scorso ho saputo tramite Gaia che aveva cominciato a lavorare per Carlo Zonta, uno dei più noti architetti italiani, e che si era trasferito a Roma. Poi, un mese fa, come fosse passato solo un giorno da quegli anni che a me ormai sembrano lontanissimi, si è rifatto vivo con una mail: “Sono di nuovo a Venezia. Quanto tempo è che non andiamo al Museo Correr?”. Un invito che mi ha colto così alla sprovvista da farmi realizzare tutt’a un tratto quanto Filippo mi fosse mancato. Ho accettato al volo. Era la prima volta che ci rivedevamo dopo tanto tempo, eppure sembrava che niente fosse cambiato. Abbiamo passeggiato per le sale del museo con calma, soffermandoci davanti alle nostre opere preferite – io mi ricordavo ancora le sue e lui le mie – e raccontandoci le nostre vite dal punto in cui le avevamo lasciate. Dopo ci siamo incontrati ancora, una volta a cena e un’altra al cinema. Ci siamo anche detti che sarebbe stato bello fare una rimpatriata con i compagni d’università, ma poi, chissà perché, non abbiamo nemmeno provato a organizzarla. Manca poco alle nove e il suono del citofono mi fa sgusciare fuori dal bagno, un filo di trucco sugli occhi e i capelli 24

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raccolti in una coda corta che definire approssimativa sarebbe senz’altro generoso. Mi obbligo a non pensare all’espressione che farebbe Gaia vedendomi conciata così. Apro la porta in jeans, canotta bianca e infradito, e mentre lo aspetto mi tuffo in una felpa oversize. È il mio look casalingo, ma sono certa che Filippo non si scandalizzerà... Sale le scale di corsa, con due cartoni di pizza tra le mani. Quando arriva, lo accoglie la voce dolce e calda dell’ultimo cd di Norah Jones. «Dài, veloce che si freddano!» dice entrando. Butta a terra la sua tracolla, mi sfiora la guancia con un bacio e si scaraventa come un missile in cucina. «Fame?» Lo seguo a ruota e faccio spazio sul tavolo. «Sto morendo!» Ha già aperto un cassetto – indovinando al volo quello giusto, anche se sono anni che non mette piede nel mio appartamento – e ha trovato la rotella per tagliare le pizze. Si occupa prima della mia. Lo guardo. Il suo viso ha qualcosa di aperto e luminoso, quasi rassicurante: forse anche per questo ai tempi dell’università ci siamo scelti come amici. Occhi grandi e profondi, dal taglio allungato: sembrerebbe asiatico se non fossero verde chiaro e se sulla testa non avesse quel cespo di capelli biondi e arruffati. «Verdure senza peperoni, come piace a te» mi dice porgendomi la pizza tagliata a spicchi. 25

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Giusto, si ricorda anche questo. Annuisco soddisfatta e lui mi fissa con quei suoi occhi che sono quasi un’anomalia e che catturano per forza lo sguardo. Stiamo per un secondo così, come imbambolati, poi Filippo torna a concentrarsi sulla pizza e io mi metto a cercare i bicchieri, tanto per fare qualcosa. È un attimo soltanto, ma entrambi ci siamo accorti che nell’aria c’è una strana elettricità. «Stasera sono vegetariano anch’io, così ti senti meno sola» scherza aprendo il secondo cartone. Sorride, scoprendo i denti bianchi e regolari. Un’altra cosa che mi piace di lui. Come la fossetta sulla guancia destra. «Però, Bibi, te lo posso dire che la pizzeria sotto casa tua fa schifo?» «Sì, certo» rispondo addentando il primo morso, «ma tanto continuerò ad andarci lo stesso... è l’unico modo rapido e indolore che ho per nutrirmi.» «Non sarà arrivato il momento che impari a cucinare?» Faccio finta di rifletterci su un paio di secondi prima di rispondere. «No.» Prende un’oliva dalla sua pizza e me la tira addosso. Finito di mangiare, mentre preparo il mio infuso alla melissa, Filippo passa in rassegna i dvd sistemati alla rinfusa sull’ultimo scaffale della libreria. 26

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«E questo?» si mette a ridere. «Da dove salta fuori?» dice agitando in aria la custodia di Shall We Dance?. «Oddio, deve averlo lasciato qui Gaia, parecchio tempo fa!» Mi nascondo il viso con un braccio. Mi guarda comprensivo: «Non c’è problema, per me... Puoi dirmelo se adesso ti piace questa roba, non devi vergognarti: ammetterlo è il primo passo per uscirne. A un amico puoi parlarne... posso aiutarti, se vuoi». «Scemo.» Il cinema è una delle passioni che ho sempre condiviso con Filippo. Spesso ci ritrovavamo a certi cineforum universitari, noi due da soli in sala a guardare fino ai titoli di coda film sconosciuti di ignoti registi di una qualche soporifera e altrettanto dimenticata avanguardia russa, mentre tutti i nostri compagni ci avevano già abbandonati da un pezzo per andare a bersi qualcosa in campo. Filippo continua a scorrere i titoli dei dvd e tira fuori Una giornata particolare di Ettore Scola. «L’avrò già visto almeno quattro volte, ma mi va ancora. A te?» «Sarebbe la terza, quindi ci sto.» Filippo si lancia sul divano. Armeggia con il telecomando, borbottando qualcosa sulle nuove tecnologie. È buffo, mi fa sorridere. Lo raggiungo con due tazzone fumanti tra le mani. Le metto sul tavolino, lancio in un angolo le infradito, bevo un sorso della tisana dimenticando che scotta e mi 27

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brucio la lingua... poi mi lascio cadere anch’io sul divano, accanto a lui. Sullo schermo al plasma cominciano a scorrere i titoli di testa, mentre sento il ginocchio di Filippo appoggiarsi al mio. Quel contatto mi mette inaspettatamente a disagio, è come se mi rendessi conto solo adesso di quanto siamo vicini. Mi sistemo sul divano, allontanandomi di qualche centimetro. Lui non sembra accorgersi di niente, forse è solo una mia paranoia... Il film va avanti dolce e amaro come lo ricordavamo. Lo seguiamo in religioso silenzio sorseggiando la tisana, che nel frattempo ha raggiunto temperature umane, e a volte mandiamo indietro per rivedere le scene più memorabili. Adesso Mastroianni e la Loren mimano alcuni passi di danza seguendo dei motivi sul pavimento. Con la coda dell’occhio vedo che Filippo mi sta osservando. Ma ho sentito il suo sguardo addosso da quando abbiamo iniziato il film. Caldo e avvolgente. Mi giro verso di lui e lo fisso: «Che c’è?». Sorride, come còlto in flagrante. «Stavo pensando che in questi anni non sei cambiata per niente.» Non smette di fissarmi. All’improvviso mi sento un po’ imbarazzata. «E io che speravo di migliorare col tempo...» cerco di sdrammatizzare. «Be’, l’unico difetto che avevi l’hai eliminato, per fortuna.» Gli rivolgo un’occhiata interrogativa. 28

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«Valerio, il tuo ex.» Gli do un pugno sul braccio fingendo di essere offesa. Con Valerio mi ero messa al penultimo anno di università: Filippo non lo sopportava e non faceva niente per nasconderlo. “Troppo superficiale e immaturo per te”, me l’avrà ripetuto mille volte, fino all’esasperazione. «Ci ho messo un po’ a capirlo, ma alla fine avevi ragione tu» ammetto. «Da quanto tempo vi siete lasciati?» «Un anno e mezzo.» «E non c’è nessuno, adesso?» Dritto all’obiettivo. Non me l’aspettavo. «No.» Chissà perché il silenzio che segue mi sembra opprimente. Vorrei avere una battuta pronta per smorzare questa tensione palpabile, ma non la trovo. Non so che cosa abbia in mente Filippo, ma so che io non ci avevo mai pensato. Almeno fino a ora. Sono troppo felice di averlo ritrovato come amico e non ho considerato affatto l’idea che possa esserci dell’altro. Ma a un tratto il mio castello di certezze sembra sul punto di crollare. «Questa è la mia scena preferita» dice Filippo voltandosi di nuovo verso lo schermo. Mastroianni e la Loren sono saliti in terrazza e stanno ripiegando le lenzuola stese ad asciugare. Forse ha capito il mio imbarazzo e mi è venuto in soccorso. È da lui una cosa del genere. 29

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Tiro un piccolo, silenzioso sospiro di sollievo. Cerco di distrarmi, magari sono solo mie fantasie e lui non si è messo in testa proprio niente. Mi concentro sul film e a poco a poco mi rilasso davvero. Fuori ha incominciato a piovere ed è come se le gocce che cadono sul lucernario sfiorassero leggere anche il mio cuore. È una sensazione piacevole, e io ho una voglia irresistibile di abbandonarmi... All’improvviso, come se stessi riemergendo da un coma profondissimo, sento una voce delicata che mi sussurra: «Bibi, io vado». Apro gli occhi e vedo Filippo in piedi, chino sopra di me. I titoli di coda scorrono sullo schermo. Faccio per alzarmi. «Ma perché non mi hai svegliata?» «Shhh, resta lì.» Mi sistema dolcemente un plaid sulle spalle. «Ti rubo l’ombrello rotto.» «Puoi anche prendere quello buono.» «Non preoccuparti... non vado lontano.» Mi accarezza la guancia con una tenerezza che non gli ho mai visto e mi sfiora la fronte con un bacio. «Ciao, Bibi.»

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