Jeffery Deaver - La stanza della morte

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Il bagliore lo turbava. Un riflesso, bianco, forse giallo pallido, in lontananza. Veniva dall’acqua, o dalla striscia di terra di fronte a quella tranquilla baia turchese? Ma lì non poteva esserci alcun pericolo. Si trovava in uno splendido, isolato resort. Al riparo dai riflettori dei media e dallo sguardo dei nemici. Roberto Moreno strizzò gli occhi e guardò dalla finestra. Non aveva ancora compiuto quarant’anni, ma la sua vista non era buona. Spinse gli occhiali più in alto sul naso per studiare il panorama: il giardino davanti alla finestra della suite, la stretta striscia di spiaggia candida, il mare azzurro-verde in quieto movimento. Meraviglioso, isolato e protetto. Niente imbarcazioni in vista. E anche se un nemico armato di fucile avesse scoperto che lui era in quel luogo e si fosse spinto non visto tra gli stabilimenti industriali fino allo sputo di terra a quasi due chilometri da lì, oltre quel braccio d’acqua, la distanza e l’inquinamento che offuscavano la vista avrebbero reso impossibile qualsiasi tentativo di colpirlo. Niente più bagliori, niente più riflessi. Sei al sicuro. Certo. Eppure Moreno restava guardingo. Al pari di Martin Luther King, al pari di Gandhi, non faceva che correre rischi. La sua vita era fatta così. Non aveva paura della morte. Ma aveva paura di morire prima di aver finito il suo lavoro. E, giovane com’era, gli restava ancora molto da fare. Per esempio, 13

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l’evento che aveva finito di organizzare un’ora prima – un evento importante, che di certo avrebbe attirato l’attenzione di molta gente – era solo uno dei dodici già in programma per l’anno dopo. E un ricco futuro si prospettava subito dopo. L’uomo era tarchiato e indossava un semplice abito marrone chiaro, una camicia bianca e una cravatta blu che facevano tanto Caraibi. Riempì due tazze dalla caffettiera che il servizio in camera gli aveva appena portato e tornò al divano. Ne diede una al reporter, che stava approntando un registratore a nastro. «Señor de la Rua. Latte? Zucchero?» «No, grazie.» Comunicavano in spagnolo; Moreno lo parlava bene. Detestava l’inglese e lo usava solo quando doveva. Quando parlava nella madrelingua, non riusciva davvero mai a liberarsi del suo accento del New Jersey. I suoni della sua stessa voce lo riportavano in un baleno alla gioventù negli Stati Uniti, con il padre che lavorava fino a tardi e viveva la sua vita sobria, e la madre tutt’altro. Paesaggi squallidi, i bulli di una scuola superiore della zona. E poi la salvezza: il trasferimento della famiglia in un posto ben più clemente di South Hills, un posto in cui persino la lingua era più dolce e più elegante. Il reporter disse: «Però ti prego, diamoci del tu. Chiamami Eduardo». «E io sono Roberto.» Il suo vero nome era Robert, ma sapeva tanto di avvocati di Wall Street, politicanti di Washington e generali sui campi di battaglia che disseminavano territori stranieri di corpi indigeni come se fossero sementi da quattro soldi. Da lì, dunque, Roberto. «Vivi in Argentina» disse Moreno al giornalista, un uomo sottile, dalla calvizie incipiente, che indossava una camicia azzurra senza cravatta e un liso abito nero. «A Buenos Aires?» 14

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«Esatto.» «Sai perché la città si chiama così?» De la Rua disse di no; non era del posto. «Vuol dire “aria buona”, ovviamente» disse Moreno. Leggeva molto, diversi libri alla settimana, soprattutto narrativa e storia dell’America Latina. «Ma l’aria a cui fa riferimento era in Sardegna, in Italia, non in Argentina. Le è stato dato quel nome in ricordo di una zona in cima a una collina di Cagliari. La zona sovrastava gli odori forti della città vecchia e fu chiamata Buen Ayre. L’esploratore spagnolo che scoprì quella che sarebbe divenuta Buenos Aires la chiamò così in ricordo di quel luogo. Ovviamente quello fu solo il primo insediamento della città. Fu spazzato via dagli indigeni, a cui non andava lo sfruttamento da parte degli europei.» «Persino i tuoi aneddoti hanno un sapore decisamente anticoloniale» disse de la Rua. Moreno rise. Ma il buonumore svanì in fretta e lui riprese a guardare fuori dalla finestra. Quel maledetto riflesso. Eppure non vedeva altro che alberi e piante nel giardino e la sfocata linea costiera a un paio di chilometri di distanza. L’albergo era sulla costa sudoccidentale, in larga parte deserta, di New Providence, l’isola delle Bahamas in cui si trovava Nassau. La proprietà era recintata e sorvegliata da guardie. E il giardino era riservato esclusivamente a quella suite ed era protetto da un’alta staccionata a nord e a sud, con la spiaggia a ovest. Non c’era nessuno. Non ci poteva essere nessuno. Un uccello, forse. Lo stormire delle foglie. Simon aveva ispezionato la proprietà poco prima. Moreno lo guardò: era un brasiliano corpulento, silenzioso, dalla carnagione scura, ben vestito: la guardia del corpo di Moreno vestiva meglio di lui, senza peraltro dare nell’occhio. Simon, sulla trentina inoltrata, aveva un aspetto opportunamente pericoloso, come ci si sarebbe potuti aspettare e come era ri15

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chiesto dalla sua professione, ma non era un criminale. Era stato un ufficiale dell’esercito prima di diventare un esperto della sicurezza fuori dal mondo militare. E nel suo lavoro era proprio bravo. Si mosse; si era accorto dello sguardo del capo e si avvicinò subito alla finestra per guardare fuori. «È solo un riflesso» disse Moreno. La guardia del corpo suggerì di abbassare le tendine avvolgibili. «Direi di no.» Moreno aveva deciso che Eduardo de la Rua, che era volato fin lì a sue spese in economy class dalla città dell’aria buona, meritava di godersi la splendida vista. Da giornalista zelante qual era, noto per riportare la verità più che per mettere insieme articoli compiacenti su capitani d’impresa e uomini politici, probabilmente non si godeva molti lussi. Moreno decise di offrirgli il pranzo all’ottimo ristorante del South Cove Inn. Simon diede un’ultima occhiata fuori, tornò a sedersi e prese in mano una rivista. De la Rua accese il registratore. «Posso?» «Prego.» Moreno rivolse tutta la sua attenzione al giornalista. «Signor Moreno, il suo Movimento per l’Autonomia e la Responsabilità Locale ha appena aperto un ufficio in Argentina, il primo del Paese. Mi può dire come le è venuta questa idea? E che cosa fa il suo gruppo?» Moreno aveva già tenuto quel discorso molte volte. Lo adattava ai giornalisti e alle platee diverse, ma il nocciolo era semplice: incoraggiare le popolazioni locali a opporsi al governo degli Stati Uniti e all’influenza dei grandi gruppi, diventando autosufficienti, in particolare attraverso il microcredito, la microagricoltura e il microbusiness. Disse al reporter: «Noi ci opponiamo allo sviluppo delle 16

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grandi aziende americane. E agli aiuti e ai programmi sociali del governo, il cui fine consiste semplicemente nel renderci schiavi dei suoi valori. Non siamo considerati esseri umani; siamo considerati fonte di manodopera a basso costo e un mercato per i prodotti statunitensi. Le è chiaro che si tratta di un circolo vizioso? Il nostro popolo viene sfruttato nelle industrie americane e poi viene convinto ad acquistare prodotti delle stesse aziende». «Ho fatto parecchie inchieste sugli investimenti commerciali in Argentina e in altri Paesi del Sudamerica. E conosco il vostro movimento, che a sua volta fa investimenti analoghi. Si potrebbe obiettare che lei si scaglia contro il capitalismo pur abbracciandolo» disse il giornalista. Moreno si sfiorò i capelli lunghi, neri, qua e là prematuramente grigi. «No, io mi scaglio contro il cattivo uso del capitalismo, in particolare contro il cattivo uso americano del capitalismo. Sfrutto il business come arma. Solo gli sciocchi fanno esclusivo affidamento sull’ideologia per ottenere un cambiamento. Le idee sono il timone. Il denaro è il motore.» Il giornalista sorrise. «Ne farò un mio principio-guida. Allora, c’è chi dice che… Ho letto che certa gente sostiene che lei sia un rivoluzionario.» «Sono solo uno spaccone, ecco tutto!» Il sorriso svanì. «Però mi ascolti bene: mentre il mondo è concentrato sul Medio Oriente, a tutti è sfuggita la nascita di una forza ben più potente: l’America Latina. Ecco che cosa rappresento. L’ordine nuovo. Non possiamo più essere ignorati.» Roberto Moreno si alzò e si avvicinò alla finestra. Ai margini del giardino c’era un metopio, l’albero del veleno, alto una dozzina di metri. Moreno alloggiava spesso in quella suite e l’albero gli piaceva un sacco. Provava una specie di fratellanza per lui. Gli alberi del veleno incutono timore, sono pieni di energia e incredibilmente belli. E poi, come suggerisce il nome, sono tossici. Il polline o il fumo del17

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la combustione del legno e delle foglie può finire nei polmoni, provocando spasmi violentissimi. Eppure quest’albero nutre la splendida farfalla coda di rondine delle Bahamas e i piccioni dalla testa bianca vivono dei suoi frutti. Io sono come quest’albero, pensò Moreno. Potrebbe essere una bella immagine per l’articolo. Glielo devo dire… Di nuovo quel bagliore. In una frazione di secondo: un guizzo scosse le rade foglie dell’albero e la vetrata davanti a lui esplose. Il vetro si trasformò in una miriade di cristalli di neve tempestosa. Un fuoco gli fiorì nel petto. Moreno si ritrovò disteso sul divano, che si trovava un metro e mezzo dietro di lui. Ma… ma cos’è successo? Cos’è? Sto perdendo i sensi, sto perdendo i sensi. Non riesco a respirare. Fissò l’albero, ora più chiaro, molto più chiaro, senza il filtro del vetro della finestra. I rami ondeggiavano nel vento leggero che si alzava dall’acqua. Le foglie si gonfiavano, si diradavano. L’albero respirava per lui. Perché lui non ce la faceva, non con il petto in fiamme. Non con quel dolore. Grida, richieste di aiuto tutto intorno. Sangue, sangue dappertutto. Il sole al tramonto, il cielo sempre più buio. Ma non è mattina? Moreno vide sua moglie, suo figlio e sua figlia adolescenti. I suoi pensieri si dispersero finché non rimase una sola cosa: l’albero. Veleno e forza, veleno e forza. Il fuoco dentro di lui si attenuava, si spegneva. Un triste sollievo. L’oscurità si faceva sempre più assoluta. L’albero del veleno. L’albero del veleno… Veleno… 18

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