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WALTER BONATTI IMMAGINI, OGGETTI E MEMORIE
U N A V I TA a cura di
Rossana Podestà in collaborazione con Angelo Ponta
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IL LIBRO DEI SOGNI «Tutti noi, a una certa età, sogniamo su ciò che leggiamo. Verso i 15 anni io mi sono immedesimato nei racconti di Jack London, di James Oliver Curwood, di Herman Melville, di tutti quegli autori che hanno raccontato l’avventura quando questa era ancora tale. Su quei libri spesso facevo delle annotazioni a matita, perché già allora mi creavo dei punti fermi di interesse. E il Po sulle cui rive vivevo diventava allora per me il Mississippi, o il Rio delle Amazzoni. Il mio grande desiderio, fin dall’inizio, è stato di poter vedere quel che stavo leggendo, e così questi sogni io li ho ravvivati facendone il motivo dei miei viaggi. In tutti questi viaggi sono dunque andato a inseguire i miei sogni; a volte me li reinventavo, e dopo averli dovutamente studiati me li appuntavo poi su una mappa. Alcuni di questi libri mi accompagnarono nei miei viaggi: Hemingway nelle savane africane, e Jack London nel Grande Nord: i suoi La figlia delle nevi e Radiosa aurora si riferivano proprio a Dawson City e allo Yukon. Come la montagna, anche questo diventò un mio modo di essere: in montagna prima, e anche dopo, e soprattutto dopo, in giro per il mondo, io mi misuravo con le difficoltà, sulle tracce di London, di Curwood, di Melville, ma in fondo per misurarmi, per sapere chi ero. Alla scoperta di me stesso. Si può dire che per tutta la vita ho solo cercato di realizzare i miei sogni di bambino.»
RACCONTARE E VIVERE. In queste pagine,
alcune delle letture di gioventù conservate gelosamente da Walter nella sua libreria. Su questi libri, che ne ispirarono i viaggi, si trovano ancora i suoi appunti.
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ALLA SCOPERTA DI SE STESSO
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IL VOLO DELL’AQUILA «Quando trascorrevo le estati con i familiari di mia madre, nella zona del Monte Alben, a volte senza dir niente a nessuno me ne andavo a guardare il volo delle aquile (perché a quell’epoca sulle montagne bergamasche c’erano ancora le aquile, sapete). Fu, quella, una delle scuole dei miei sogni. Un’altra è stata il Po. Il fiume era il mio oceano, i sabbioni erano i grandi deserti. Quel che mi stava intorno, le foreste, era il mondo di Salgari, la giungla. A San Pietro in Cerro, nel piacentino, dove viveva la famiglia di mio padre, ho seguito le scuole fino alla terza elementare, per poi trasferirmi a Monza con i miei genitori. Lì dovetti ripetere il terzo anno, perché a San Pietro, quando seppero che andavo a Monza, in una città, si preoccuparono che non fossi abbastanza preparato. Per la mentalità dell’epoca, il fatto che avessi frequentato le elementari in un paesino mi metteva in situazione di inferiorità: pensarono che dovessi portarmi “alla pari”, e mi bocciarono. Ci rimasi molto male, ricordo. Ebbi però poi la mia piccola rivalsa in quinta, quando partecipai a un concorso regionale con un mio tema, che fu considerato il migliore della Lombardia: la Cassa di Risparmio mi premiò con un bel cofanetto con dentro 100 lire; e 100 lire, a quei tempi, per un bambino… fu motivo di grande orgoglio, per me. Verso i sedici anni cominciai a praticare la ginnastica, alla “Forti e liberi” di Monza. Questo si rivelerà fondamentale per la mia vita futura di alpinista. Intanto perché la scuola della ginnastica è severissima: per imparare un movimento alle parallele, o alla sbarra, ci volevano mesi, e quando riuscivi avevi acquisito solo una piccola parte di quel che sarebbe servito per eseguire l’esercizio completo. Intendiamoci: per me l’alpinismo è tutto meno che atletica, però quando mi ritrovai in montagna forte
di quell’allenamento, il mio praticantato ne venne abbreviato, tant’è che nel giro di un anno affrontavo già le pareti più difficili. Nessuno mi ha mai insegnato a scalare. Ho solo guardato chi lo faceva. Guardando si impara, e io sono stato un buon osservatore. La mia carriera è cominciata a 18 anni alla Grignetta. Un giorno, un tipo vestito da alpinista (Elia, si chiamava, e diventerà un caro amico) mi vede assorto a guardare gli altri che salgono sugli strapiombi: “Ti piacerebbe provare?” mi fa. “Eh sì,” rispondo “non desidero di meglio.” Lui mi squadra per bene, poi prende la corda, me la butta: “Ti porto io!”, e mi porta su sulla direttissima, il Campaniletto; poi però non ce la fa, viene giù e dice: “Mi scivolano le scarpe, non posso… però c’è una variante”, e va a provare la variante, e io lì che col pensiero cerco
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Walter adolescente sulle Prealpi Orobie,
in provincia di Bergamo (sopra).
Sulla cima del Cervino nel 1953, al termine della prima scalata invernale della Cresta di Furggen (a sinistra). ALLA SCOPERTA DI SE STESSO
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Gli anni della scuola elementare coincidono con quelli delle avventure coloniali del regime fascista. Ne risentono anche le immagini che illustrano le pagelle del piccolo Walter (lo vediamo nella foto di classe a destra, indicato con il cerchio rosso), dai toni sempre pi첫 bellicosi e nazionalisti.
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una vita libera
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«Ho sempre ammirato alpinisti di ogni epoca, ma non ho mai preso nessuno a modello. Ho dunque letto, visto, ascoltato e valutato molti della montagna, ma solo per creare me stesso, non per imitarli. È mia convinzione che l’alpinismo migliori solo chi è portato a migliorarsi; non migliora certo gli inerti o gli spavaldi.»
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LE MONTAGNE DI UNA VITA
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«Gli animali non parlano (beati loro, come disse un filosofo), però capiscono, sentono le intenzioni, sanno qual è il nemico da temere e con il quale, se necessario, ingaggiare una lotta. Va detto che ogni animale, con istintiva saggezza, di fronte all’uomo preferirebbe di gran lunga fuggire via, se gli si dà il modo di farlo, anche perché conserva un’ancestrale paura nei nostri confronti.»
Grumeti, 1966. Lo slancio di una cheetah, come viene
chiamato da queste parti il ghepardo, è spettacolare.
durante la paziente (e infruttosa) attesa di una tigre, a Sumatra, nel 1968, di giorno in giorno Walter prende nota delle impronte rilevate lungo il sentiero (pagina a fianco).
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VERSO MONDI INESPLORATI
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«Il segreto per capirli comincia dunque dall’apprendere, e rispettare, il significato delle loro necessità e abitudini; dopodiché si potrà tentare anche di essere da loro capiti, e per riuscirci ci aiuteremo assumendo atteggiamenti sempre concilianti.»
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scambio di cortesie con una scimmietta
in Uganda (pagina a fianco).
un varano del Nilo, impropriamente noto come iguana di fiume (sopra). l’impressionante incontro con una carcassa
di ippopotamo (doppia pagina successiva).
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solo nella savana «Il Grumeti è un territorio di 1200 chilometri quadrati completamente disabitato, intatto da sempre. Non vi sono neppure piste, e le grandi migrazioni degli animali vengono controllate dall’aereo. Forse, un giorno, questa regione sarà annessa al Parco nazionale del Serengeti: anche qui, allora, verranno tracciate strade e comode piste, sorgeranno lussuosi alberghi e i turisti potranno avvicinare e filmare tranquillamente dall’automobile gli animali, che l’abitudine alla presenza dell’uomo avrà reso quasi indifferenti. Ma oggi non un sentiero solca ancora la vallata del Grumeti, dove la vita non è cambiata da millenni. E che ora è soltanto una vallata selvaggia, isolata, infestata dalla mosca tsé-tsé. Ho voluto traversare queste boscaglie e queste savane da solo, a piedi, per ritrovare una natura ancora integra, come nel giorno della Creazione. Una prova severa, un vero cammino della sopravvivenza: 150 chilometri nell’ignoto. Verso la fine del primo giorno di marcia, nella terribile calura, ho già vuotato l’unica borraccia d’acqua che porto con me. La mia speranza è quella di arrivare al fiume, al Grumeti River, ma quando lo raggiungo provo un’amara sorpresa: il suo letto è secco, è tutto sabbia. Ne seguo il corso tortuoso, scavando qua e là con le mani, ma inutilmente. Solo al calar della notte, in una palude prosciugata presso il fiume, scopro una buca più profonda delle altre, che conserva ancora una liquida fanghiglia. Immergo borraccia e pentola nel liquido che affiora in un’orma di elefante. Ne estraggo una sostanza grigia e spessa, dall’odore disgustoso, che appare effervescente per i mille insetti che si muovono in superficie. Mi allontano di due o trecento metri nella boscaglia collinosa, per non bivaccare sulla via percorsa da animali pericolosi diretti all’abbeverata. Con le ultime luci raccolgo legna, accendo il fuoco e faccio bollire finalmente quella sgradevole e pur preziosa “acqua”, che bevo ancora caldissima. La boscaglia, in leggera discesa fino alla cupa selva del vicino Grumeti River, è popolata di animali minacciosi. Già mentre faccio i preparativi, due iene e qualche sciacallo si
Il panga, sorta di corto machete utilissimo per avanzare nella foresta. È l’unica «arma» portata con sé da Walter nell’attraversamento del Grumeti (Tanzania, luglio 1966).
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