Pierluigi Cappello - Questa libertà

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Proprietà letteraria riservata Š 2013 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-06722-5 Prima edizione: settembre 2013



Ci sono parole senza corpo e parole con il corpo. Libertà è una parola senza corpo. Come anima. Come amore. Parenti dell’aria e quanto l’aria senza confini definiti, resterebbero puro suono se abbandonate alla vaghezza dei rotocalchi o dei talk show. Hanno bisogno di qualcuno che presti loro la sua carne, il suo sangue e i suoi limiti perché diventino concrete. Di versarsi in un corpo che si faccia vaso perché ne possano assumere la forma e la storia. E poiché ogni corpo è diverso dall’altro, queste parole respirano diversamente a seconda dell’individuo cui vanno incontro. E, se ogni individuo è un inizio e una fine con una storia in mezzo, sono parole che hanno bisogno di essere raccontate. In questo libro ho cercato di dire come una libertà, la mia, sia germinata dai luoghi vissuti da bambino e poi abbia preso il volo dal mio incontro con la lettura. Non credo esista un mezzo di trasporto più veloce dell’immaginazione; così come non penso esista


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un propellente più efficace di questa per spingere la nostra libertà al di fuori di noi stessi. un uomo seduto che legge non sta fermo; anzi: quanto più sta fermo e concentrato nella lettura, tanto più è alle prese con un viaggio nelle profondità cosmiche di se stesso, più veloce delle navi spaziali immaginate da Stephen Hawking. Come se la velocità si fosse cristallizzata in assenza di movimento. Quando mi trovo a fare delle lezioni nelle scuole, a un certo punto, per spiegare ai ragazzi come lavora la poesia, li invito a chiudere gli occhi mentre pronuncio una parola. La parola “albero”, per esempio. Poi chiedo loro di raccontarmi l’immagine di albero che si sono fatti nella testa: battuto dalla luce o in ombra, d’inverno senza foglie o fiorente nell’estate, nel vento o sotto la pioggia, inquadrato in una radura da lontano o tanto vicino da avvertirne il sussurro. Non c’è mai un albero uguale all’altro. Ecco cos’è per me libertà. E la scrittura serve proprio ad accendere questa potenza che vive in noi. Naturalmente, i ragazzi mi chiedono perché io scriva; è una domanda così disarmata che disarma. Col tempo, mi sono rassegnato a dire che si nasce col marchio della scrittura così come si hanno gli occhi celesti o neri, la pelle chiara o scura, i capelli biondi o castani, tanto poco è quello che sappiamo


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di noi. a loro e a voi posso solo raccontare come sono arrivato alla scrittura. È un’altra delle cose che ho cercato di fare in questo libro. Dite la parola “Spartaco” e, se ne conoscete la storia, vi viene in mente una forma di libertà, dite la parola “Cristo” e vi viene in mente la passione. Ho lavorato così, agendo continuamente con le immagini per riempire di carne concetti astratti. E dato che la sola persona al mondo che conosco un po’ meglio delle altre sono io stesso, ho raccontato di me per raccontare di cose senza corpo. Così nei mesi queste pagine sono diventate un’ossessione, la scrittura mi ha torto il collo e ha costretto il mio sguardo nei luoghi felici dell’infanzia o a muovere i miei passi dentro dolori intensi che pensavo di avere rimosso. Fino alla fine, l’ossessione non mi ha lasciato, tanto che, da un certo punto in poi, posti, sensazioni e personaggi abbozzati hanno fatto il loro ingresso nei miei sogni notturni. Penso che l’ossessione si sia sviluppata in parte per il gusto della sfida, in parte per l’esigenza di mettere un po’ di ordine in me stesso. Perché le parole servono anche a fare chiarezza, prima di tutto in chi le scrive. P.C.


L’uomo che viveva con le porte aperte

Potremmo cominciare così: dire che il bianco è il colore del silenzio, che un foglio immacolato è un posto dove tutti i colori sono andati via e ci hanno lasciati soli, pieni di una stupefatta solitudine, senza che il nostro sguardo possa trovare un appiglio, uno qualsiasi, per distendersi dentro una direzione, nel conforto di una linea che ci faccia dire: ecco, da qui si può, questo è il nostro sentiero, andiamo. E potremmo aggiungere: là dove non c’è direzione ogni direzione è concepibile, ogni partenza segna un approdo, ogni approdo porta con sé lo scalpito della partenza, e allora affidiamoci a questa disperata libertà, sospesi tra inquietudine e abbandono, slancio e inettitudine. E mentre le parole, proprio adesso, affiorano dal bianco come un’isola remota, potremmo pensare noi ci siamo, abbiamo scelto, si può partire da qui, da un punto qualsiasi, il nostro. C’è una porta socchiusa su una bella mattina di settembre, con il cielo fresco e con la luce entra l’odore buono dell’erba, perché stanotte è piovu-


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to e adesso ogni fibra comincia a scaldarsi e lascia nell’aria il sapore di terra bagnata. Il giardino sono pochi passi poveri di fiori e vanno dalla mia mano che scrive a una siepe, metà in luce, dalla parte della strada che esclude, metà in ombra, dalla parte del prato che accompagna il mio sguardo. un solo vaso di begonie accanto alla porta, un’ortensia ai piedi di un acero logorato dall’edera, a destra un abete e un pruno sono gli accenti di una musica minima, le note concrete che mi invitano a guardare più in là, oltre la siepe, oltre la strada, oltre due case e una magnifica magnolia dalle foglie luminose e pesanti: un sipario che nasconde appena la collina di fronte, gremita di un verde che sale e afferra il cielo. Lo sguardo esaurisce la sua spinta dentro un azzurro senza nuvole e lì si ferma un momento, come per trattenerne la pigra purezza, così lontana da noi, così altera nella sua astrazione che finisco per considerarla un fatto ordinario, come se avesse il mio stesso tempo, la stessa matrice trascurata e domestica di ogni mio gesto quotidiano. Dal cielo torno al tavolo su cui scrivo, alla sua irredimibile imperfezione: il posacenere sporco, pile di manoscritti non letti e che non so se in futuro leggerò, un libro capovolto aperto a metà, una botti-


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glia di plastica vuota, quotidiani stropicciati, post-it con sopra numeri di telefono scritti in fretta e date che non rimandano a nulla. La minuzia di un vivere trattenuto per i lembi irrompe e fa clamore in me. Ma durante il ritorno, lo sguardo nell’ozio ancora vivo riesce a cogliere altri dettagli: un’antenna lontana è un chiodo fermo nell’aria, una nube di moscerini al di qua della siepe, una cavolaia che sdipana un gomitolo di traiettorie, due merli ai piedi del pruno fanno un giardino. E guardare è un movimento di spola, dal tavolo al cielo, avanti e indietro, dal disordine a un ordine senza repliche, che dura finché dura il mio soprapensiero. C’è una sospensione non cercata in tutto questo, un benefico lasciarsi levigare dal tempo, uno stare nello scorrere come un ciottolo nell’acqua del fiume, senza resistenze né spigoli. Silvio non offriva resistenze, non aveva spigoli, e mi viene in mente adesso, anzi, per prime mi vengono in mente le sue dita di canestraio, sottili e ossute o, per essere ancora più precisi, mi viene in mente il movimento di quelle dita, perché qualsiasi canestro, cesto, gerla si intreccia partendo dal basso, con un movimento di spola davanti e dietro alle bacchette, su su fino all’orlo, saldato da un cordone. Ed


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è un movimento che affiora dalla profondità dei secoli, ripetuto chissà quante volte, da chissà quante dita prima che Silvio nascesse e tornato alla luce in questo istante, per una semplice analogia che ha legato il ritmo del mio sguardo in ozio al ritmo di quelle dita. Quando l’ho conosciuto, Silvio intrecciava soprattutto gerle, nessuno gli chiedeva più di fare canestri, chiunque avesse bisogno di un recipiente andava dal ferramenta e ne trovava di tutte le misure, dal secchio al bicchiere di plastica, per poche lire e subito. Era spuntato al campo Ceclis con la discrezione con cui spuntano le primule, delle quali ci si accorge da un giorno all’altro, quando danno un nuovo colore al prato. Il tempo, poi, era quello giusto, la primavera del Settantasette, il luogo: Chiusaforte. Neanche un anno prima, l’intero Friuli centrale era stato brutalmente scosso dal terremoto e Chiusaforte, incardinata com’è in una stretta valle nella punta nord-orientale della regione e un po’ defilata rispetto all’epicentro, aveva subìto danni imponenti ma non si erano contate vittime. Così, adesso, gran parte degli abitanti del paese risaliva il Friuli dopo essere stata sfollata per tutto l’inverno sulle rive dell’adriatico.


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Per me i colori del terremoto sono il bianco, il grigio, il nero: il bianco è il colore delle pietre macinate, delle ferite delle case, il grigio è il colore della polvere che copre i vivi e i morti insieme, il nero è il colore degli anziani che si aggirano fra le macerie, disorientati come giraffe nella neve. anche Silvio sarà stato coinvolto al momento dell’esodo, sarà stato un puntolino nero fra le macerie, avrà scorto come tutti noi, dai finestrini delle corriere militari che ci portavano a sud, il cratere di devastazione cui erano ridotte Venzone, osoppo, gemona. anche lui avrà portato con sé soltanto pochi stracci nella concitazione della fuga, in uno scenario da germania anno zero, e anche lui chissà da dove, da grado, forse, o Lignano o bibione avrà percorso a ritroso le strade che lo avrebbero di nuovo condotto a casa, ai pendii magri di Chiusaforte. avrà respirato a lungo appena sceso dalla corriera e quell’aria lo avrà vestito di una dolce consuetudine, come una vecchia giacca che conserva la memoria di un corpo e vi si ricongiunge. Non so quando sia arrivato al campo Ceclis, il villaggio di prefabbricati allestito in fretta e furia durante l’inverno, in una delle rare zone pianeggianti del paese, e dubito che qualcuno si sia accorto del suo arrivo: di solito le famiglie tornavano


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alla spicciolata, dentro pulmini stipati o utilitarie prese in prestito per l’occasione ed era un vociare di saluti, bestemmie e riconoscimenti, in una confusione di masserizie e materassi bucati. Lui di sicuro sarà arrivato leggero come una rondine, con soltanto il suo zaino grigioverde in spalla. I prefabbricati di campo Ceclis non erano altro che baracche di legno disposte in lunghe file, dove intere famiglie vivevano in pochi metri quadri e dove ci si urtava e si litigava in continuazione dati gli spazi ristretti, per cui era molto più semplice per noi bambini vivere all’aperto, d’estate e d’inverno, anche perché l’attenzione allentata dei nostri genitori, ancora sviata dalla tragedia del terremoto, ci apriva ampi spazi di libertà. ben presto diventammo i veri dominatori del campo e l’esercizio del nostro dominio cominciava dall’argine oltre il quale scorreva il fiume Fella e terminava dall’altra parte, con l’alzarsi della massicciata della statale che portava a nord, verso l’austria e verso la Jugoslavia, verso i balcani e chissà quali altri mondi lontanissimi e inattingibili. Quasi cullati, in mezzo a questi due confini, il fiume e la strada, eravamo capaci di bruciare per interi pomeriggi in interminabili partite a pallone, che degeneravano fatalmente in altrettanto interminabili


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sassaiole. Fu durante una di quelle che con la coda dell’occhio scorsi per la prima volta Silvio: stava seduto su uno sgabello davanti alla porta della baracca che gli avevano assegnato e armeggiava con un grosso catino di zinco. un duro inverno e una primavera cruda stavano per restituirci l’estate, il sole splendeva sui vetri delle finestre, sul lunotto di un’utilitaria parcheggiata, accendeva di luce i nostri capelli sudati e noi riempivamo l’aria della vita restituita con i nostri gridi, con le nostre corse, con i nostri battibecchi di scriccioli. In genere capitava che tutto questo fosse interrotto dall’intervento sbrigativo di qualche adulto: una serie di bestemmie, la minaccia di un ceffone, una breve rincorsa, e si sciamava altrove a riaccendere i nostri giochi; ma Silvio no, se ne stava seduto lì davanti alla porta e di tanto in tanto sollevava lo sguardo dal catino. Ebbi anche l’impressione che sotto l’ombra del suo cappello a tesa esitasse l’ombra di un sorriso. La sera a cena seppi da mio padre che quell’omino era il canestraio di Chiusaforte, che non si era mai sposato e che era malato di cuore. Per i bambini, o almeno per il bambino che ero, il cuore è una cosa minuscola e misteriosa che ha la consistenza del buio e che nel buio di noi trova sede e riparo:


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è l’epicentro della vita stessa e a quell’età la vita è per sempre e non c’è niente, se non appunto una malattia del cuore, che possa arrestarne la corsa verso un futuro privo di confini. Insomma, la malattia del cuore è la malattia stessa e io quella sera mi misi a letto con quella notizia, tanto più grande dei miei dieci anni, che Silvio era malato di cuore. Quando una persona cara scompare, la prima cosa ad andare via con lei è la sua voce, poi, ma ci vuole più tempo, sfioriscono nella memoria uno a uno i tratti del viso; solo i tratti che non contano però, perché quelli che definiscono una vita mettono radici robuste in chi li ricorda; infine ciò che permane di più sono le azioni, i gesti minuti, la condotta che accompagna il tenore di un’esistenza. Mi dispiace di non poter riferire con precisione come fosse la voce di Silvio, posso solo dire che non era acuta e non era profonda, forse era più simile a un soffio, a qualcosa di trascinato, come quelle piogge sottili che non finiscono mai e non hanno sussulti, governata più dalle soste che dalle partenze, più dai vuoti che dai pieni, almeno queste sono le tracce dell’impressione che ne ebbi la prima volta che lo avvicinai. avvicinarlo fu facilissimo, una cosa che sgorgò naturale, lo feci alcuni giorni dopo aver saputo che era


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malato di cuore, con i tempi e i modi che regolano lo spicciativo galateo dei bambini: un ciao, un come ti chiami, un io mi chiamo, un che cosa fai, ti piace giocare con le biglie, non tanto, allora andiamo a giocare al fiume, ed era tutto; nascevano amicizie salde come querce nell’istante stesso in cui divampava il gioco e messe subito a repentaglio l’indomani, da nuovi incontri con altri bambini. trovai Silvio seduto davanti alla porta di casa come la prima volta che l’avevo intravisto. ricordo un cielo stanco, lattiginoso, un pomeriggio di maggio senza sole e senza ombre, abbandonai la diffidenza di lupo che mi guidava ogni volta che dovevo avvicinarmi a un adulto, perché dai grandi non ci si aspettava mai niente di buono, e mi rivolsi a lui da bambino a bambino, forse perché conservavo l’impressione di quel sorriso affiorato mentre noi si giocava, forse per via della sua malattia che mi induceva a tenerezza, oppure perché davanti a me stava un ometto minuscolo dalla faccia scarna, dalla bocca completamente senza denti e dal mento sporgente che ricordava i vispi vecchietti dei western di Hollywood. Sia come sia: «Devi sempre stare seduto sullo sgabello?» gli chiesi, con candore e insolenza. Prima di rispondermi con le parole mi rispose con lo sguardo, e dentro il verde chiaro dei suoi


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occhi c’era la spiovente dolcezza dei salici: «Sei il figlio di toni, vero? No, qualche volta sto seduto anche sulle sedie o sul divano, se capita». Non colsi l’intento canzonatorio della risposta, l’appetito della mia curiosità era tale che mi faceva saltare di slancio anche la canzonatura. «Papà mi ha detto che sai fare le gerle.» «Sì» sorrise, «so fare le gerle.» «Io non ho mai visto farle, posso venire da te a vedere quando le fai?» «Quando le faccio, puoi.» «allora va bene, ma dovrò stare zitto mentre le fai?» «No, non serve, facciamo che io ti parlo, tu mi parli e le mie mani lavorano lo stesso, d’accordo?» «adesso vado a cercare gli amici, ciao. allora vengo a vederti quando le fai.» «Vai, e torna se ti va» mi rispose, alzandosi dallo sgabello e mostrando una statura non molto superiore alla mia. Poteva bastare per quel giorno: un incontro fulmineo, dettato dalla fantasia fulminea di un bambino e screziato di dolcezza. Le gerle di Silvio erano note in tutta Chiusaforte per la straordinaria capacità di adattarsi alle schiene di chi gliele richiedeva: non c’era schiena storta, gobba, scoliotica, dritta, pingue, ampia o magra che


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non avesse corrispettivo in equilibrio, peso, forma e dimensioni nelle sue gerle, le quali rispondevano come una eco perfetta al richiamo del corpo. a chi andava da lui per una gerla veniva innanzitutto chiesto se dovesse portare cose leggere o pesanti, fieno oppure foglie, legna o ferrame, poi Silvio si alzava, domandava al cliente che gli mostrasse la schiena, ne percorreva l’intera superficie con le dita, dai lombi al collo, scovava anomalie e dissimmetrie tastando e sfiorando, accomodando i piccoli palmi sulle scapole, considerando l’assetto delle spalle: come se dovesse imprimere nella memoria sollecitata delle sue mani ogni carattere del corpo esaminato, che sarebbe stato di seguito tradotto in scelte precise di forma, di tensione tra festuche e bacchette, e di rapporto tra fondo e orlo della gerla stessa. Soltanto al termine di questa liturgia domestica si veniva alla questione del compenso, alla quale Silvio si sottraeva chiedendo di essere pagato in base alla maggiore o minore soddisfazione del cliente. Capitai qualche giorno dopo proprio in mezzo a una di queste ponderate contrattazioni che si svolgevano all’aria aperta. Silvio era alle prese con un donnone dalla faccia rossa che gli volgeva le spalle, mentre lui era salito sullo sgabello per


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esaminarle meglio scapole e spina dorsale, facendo scorrere le sue mani come un soffio sopra una sporca maglia color senape. La donna puzzava di sudore, calzava degli stivali di gomma infangati e probabilmente era appena tornata dall’orto. rimasi lì accanto per tutta la durata dell’operazione, facendomi sfuggire i risolini silenziosi del bambino che non capisce, senza che né la donna né Silvio mostrassero di considerarmi, poi Silvio scese dallo sgabello, congedò la donna e finalmente parve accorgersi di me. «La gerla e la schiena devono essere una cosa sola, se la gerla va da una parte e la schiena tira dall’altra, è come quando due persone litigano e ne escono solo offese e dolori e magari anche le botte. C’è una gerla per ogni schiena e la gerla va trovata nella schiena di chi la deve portare e, per trovarla, prima bisogna conoscere la schiena, altrimenti cominciano i litigi e non è bello, specie se si va su in montagna e si è soli.» Si rivolse a me così, più o meno, mortificando con pacatezza i miei risolini e mettendomi in testa il sospetto che leggesse nel pensiero. «oggi è il primo giorno di vacanza, sono venuto per vedere il lavoro, come ti avevo detto» replicai, un po’ in imbarazzo, spostando il peso del mio corpo prima su un piede, dopo sull’altro.


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