Giampaolo Pansa - Sangue Sesso Soldi

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Giampaolo Pansa

Sangue, sesso, soldi Una controstoria d’Italia dal 1946 a oggi

Rizzoli


Proprietà letteraria riservata Š 2013 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-06874-1

Prima edizione: settembre 2013

Realizzazione editoriale: studio pym / Milano


Sangue, sesso, soldi



Introduzione Perché questo libro

C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: «Raccontami una storia!». E la serva cominciò: «C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva…». E così via sino all’infinito. Filastrocca del tempo che fu

Sangue, sesso, soldi. Perché dare questo titolo al racconto dell’Italia che ho visto dal 1946 a oggi? Perché sono tre parole, tanto secche da sembrare brutali, che fotografano meglio di altre la natura profonda del nostro paese. Una volta usciti dalla guerra civile, abbiamo continuato a odiarci, sguazzando nel sangue. Le centinaia di assassinati nelle ultime guerre interne, decise dal terrorismo e dalla mafia, le abbiamo dimenticate. Eppure anche nel nostro passato più vicino campeggiano un’infinità di tombe e di lapidi funerarie. E ancora oggi gli assassini stanno in agguato ovunque, pronti al delitto. Il sesso, praticato, esibito o narrato è un’altra delle nostre bandiere. I media ci presentano di continuo storie di letto che un tempo restavano confinate nelle chiacchiere private. L’erotismo è diventato fonte di nevrosi incontrollabili. Ha perso la normalità allegra di un tempo. Produce ansia, stress, contrasti offerti al pubblico. Il gioco che ho conosciuto nella mia giovinezza si è tramutato in una contesa furiosa, capace di causare persino movimenti di piazza. Come accade oggi per le nozze tra gay. 7


I soldi sono sempre stati un’ossessione non soltanto individuale, ma prima ancora pubblica. La voglia di arricchirsi in modo illecito ha intossicato la vita politica trascinandola nel baratro della criminalità. Gli anni di Tangentopoli, con i tanti processi e le molte vittime, ci hanno svelato un’Italia ributtante. Abbiamo vissuto una tragedia che continua ancora e azzera la credibilità delle istituzioni. La sobrietà, una virtù che i partiti dovrebbero considerare il bene più prezioso, si dissolve ogni giorno sotto lo tsunami di una corruzione invincibile e volgare. Quando è cominciato questo inferno? A mio parere, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un’Italia che sembrava destinata a diventare all’istante una democrazia perfetta. Soltanto in seguito ci siamo resi conto che era un traguardo impossibile. Per un motivo che oggi mi sembra più evidente di allora: venivamo da vent’anni di fascismo. La dittatura non era stata una parentesi, un incidente passeggero, bensì una condizione di normalità, accettata senza problemi. C’è una verità che non si vuole ammettere: siamo stati quasi tutti fascisti. Lo sono stato anch’io, almeno nei due anni iniziali di scuola elementare. Ho cominciato a frequentare la prima classe nell’ottobre del 1941. Ero un bambino magro, dalle gambe lunghe, sempre vestito con decoro. Così voleva mia madre Giovanna che aveva un negozio di mode e credo mi abbia cucito di malavoglia la divisa da Figlio della Lupa. Per ordine del regime, la dovevano portare tutti i maschi dai 6 agli 8 anni, in attesa di diventare Balilla. La divisa consisteva in una camicia nera, attraversata da due fasce bianche incrociate e da un cinturone alto e anch’esso bianco, pantaloni corti di panno ruvido grigioverde, lo stesso colore dei calzettoni. E infine il fez, un piccolo copricapo di feltro nero a forma di cono tronco, che terminava con un fiocco. 8


Conservo una fotografia del Pansa Figlio della Lupa, forse scattata da mio padre Ernesto. Sul retro c’è una data, scritta a penna: 10 giugno 1943. Era il terzo anniversario della nostra entrata in guerra. Questo spiega perché indossassi la divisa, forse venivo da una sfilata con relativa cerimonia. Indetta per celebrare quell’evento sciagurato che ci stava procurando una sconfitta dopo l’altra e molte migliaia di morti sui tanti fronti. L’ambiente della foto è piazza Dante, uno spazio verde quasi al centro della mia città, Casale Monferrato. Lo sfondo è un grande cippo di marmo che esiste ancora. Vi sono incisi i nomi dei nostri concittadini caduti nel conflitto mondiale del 1915-1918. Papà aveva un gran rispetto per quel monumento. Gli rammentava una guerra che aveva portato in trincea anche lui. Da giovanissima recluta della classe 1898, soldato semplice del Genio. Nella fotografia, un tantino sfuocata, vedo me stesso mentre, con il braccio destro alzato, faccio il saluto romano. Che aria avevo? Direi tranquilla, da alunno del secondo anno di scuola elementare vicino a concludersi. E sa che tra poco andrà in vacanza, nella colonia montana per i figli dei dipendenti delle Regie Poste. Un soggiorno che non dimenticherò. Anche perché lì, verso la fine di luglio, insieme agli altri ragazzini dell’istituto appresi che il re Vittorio Emanuele iii aveva fatto arrestare nientemeno che Benito Mussolini. Ma nel giorno della fotografia, il regime non era ancora caduto e al 25 luglio 1943 mancava un mese e mezzo. Dunque non c’era niente di strano nel portare una divisa e rendere omaggio al Duce. Allora veniva chiamato così Mussolini. Sentivo ripetere: saluto al Duce!, per ordine del Duce, il Duce ha deciso la tal cosa o la talaltra. Era una litania che ascoltavo di continuo dagli adulti. Anche da quanti in cuor loro non si sentivano fascisti, eppure ritenevano normale o inevitabile dichiararsi così. 9


Di diverso dal Duce e dal fascismo non esisteva nulla. Nella nostra piccola città si sapeva tutto di tutti. Ma non si conoscevano oppositori del regime. Di certo qualcuno che non la pensava come Mussolini c’era, ma se ne stava al coperto per non rischiare il carcere e la disapprovazione di una maggioranza molto vasta. Dopo la fine della guerra e il crollo definitivo del fascismo, si è scritto tanto sulla presenza di un’opposizione clandestina. Però questa si trovava soltanto nelle carceri. Dove stavano rinchiusi, spesso da anni, i pochissimi avversari del regime. Oppure nelle cellule invisibili dei comunisti, gli unici ad aver conservato un minimo di organizzazione politica. Esiste una prova del fatto che l’Italia fosse un paese quasi del tutto fascista, per convinzione, per obbligo o per quieto vivere. È una prova indicibile, e infatti non viene mai ricordata. Poiché suscita sempre un sentimento profondo di vergogna. Nel settembre 1938 il regime aveva emanato le leggi razziali, un complesso di norme infami destinate a colpire gli ebrei. Anche nella mia città viveva da secoli una comunità israelitica che si ritrovava in una splendida sinagoga oggi restaurata. Era composta da persone che conoscevamo tutti: il commerciante ebreo, l’insegnante ebreo, il medico ebreo, il pensionato ebreo. Ma contro quelle leggi nessuno protestò, s’indignò, si rammaricò. E ci fu anche qualcuno che si congratulò con il Duce. Lo stesso silenzio inerte accolse le razzie degli ebrei, destinati ai campi di sterminio nazisti. A Casale Monferrato iniziarono nel febbraio 1944 e vennero completate in aprile. Alla cattura degli israeliti, in gran parte donne e uomini anziani, provvedevano agenti di polizia del commissariato cittadino. Gli arrestati venivano rinchiusi nel piccolo carcere che sorgeva in fondo alla strada 10


dove abitavo. Di qui erano inviati al campo di transito allestito a Fossoli, in Emilia. E di lì partivano per le camere a gas di Auschwitz e di altri luoghi infernali. Tanti anni dopo, per un mio libro, Il bambino che guardava le donne, mi riuscì di ricostruire e descrivere che cos’era avvenuto, cattura dopo cattura. Fu soltanto allora che mi resi conto, con orrore, che la fine di tanti ebrei era stata accettata dagli adulti della mia città come un fenomeno naturale e inevitabile. Alla stregua di un temporale o di una nevicata. In casa nostra si parlava di tutto. Però non ricordo di aver sentito spendere una sola parola per il dottor Riccardo Fiz, un medico molto stimato. Oppure per il professor Raffaele Jaffe, il fondatore della squadra di calcio cittadina. E nemmeno per il commerciante Sanson Segre, un signore di 88 anni, il più anziano fra i deportati, strappato dal letto dell’ospedale dove gli era stata amputata una gamba. L’Italia si è scoperta antifascista soltanto dopo il 25 aprile 1945. Una volta conclusa la guerra, i pochi che nell’ottobre di due anni prima si erano dati alla macchia, e avevano combattuto da partigiani, si trovarono circondati da una marea di ribelli della venticinquesima ora. Gente che aveva scoperto la lotta per la libertà solo quando l’Italia era ritornata libera. Grazie ai soldati inglesi, americani e di tante altre nazionalità che, per salvarci da una dittatura, si erano sacrificati a migliaia nella lenta avanzata dalla Sicilia verso il Nord. Da quel momento diventammo una democrazia con più partiti e un’Assemblea costituente eletta il 2 giugno 1946, incaricata di scrivere la Costituzione. Sempre nel giugno di quell’anno, grazie a un referendum, ci liberammo anche della monarchia dei Savoia, colpevole di aver spalancato le porte a Mussolini e alle sue squadre. L’insieme di queste novità ci fece credere di aver le carte in regola per essere ritenuti un paese liberale e 11


pluralista. Il fascismo? Era stata una malattia di poco conto. Meglio dimenticarla. E dichiararsi pronti a reggere il confronto con le nazioni che si erano opposte al nazismo e al fascismo, e avevano dimostrato di saperli sconfiggere. Tutto bene? Per niente. La democrazia è un mestiere che non s’impara in quattro e quattr’otto. Soprattutto in un paese distrutto dalla guerra che dopo vent’anni di dittatura scopre l’asprezza della battaglia tra i partiti. Accadde così nell’Italia che all’inizio del 1948 si avviava alle prime elezioni destinate a decidere il nostro avvenire, ancora in bilico tra una democrazia liberale e un regime autoritario guidato dai comunisti. In tempi di massiccio assenteismo elettorale, è giusto ricordare quanti andarono ai seggi il 18 aprile 1948: il 92,2 per cento degli aventi diritto al voto. Il racconto che i lettori troveranno in questo libro s’inizia con il confronto tra i protagonisti di quella battaglia politica, le due figure simbolo del primo dopoguerra: Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. Sono loro a introdurci in una lunga storia che arriva ai giorni nostri. E al caos brutale che rende un inferno questo 2013. Perché ho deciso di ripercorrere sessant’anni di vita italiana? Prima di iniziare a scrivere Sangue, sesso, soldi me lo sono chiesto più di una volta. Confesso che non l’ho fatto per mettermi in grado di rispondere a qualche lettore che intendesse domandarmelo. No, mi sono interrogato per soddisfare una mia intima curiosità. E penso di aver capito che cosa mi spinge a guardare sempre più spesso al passato. A incitarmi è la paura che mi ispira il futuro. Non il mio, quello personale, di un signore ben al di là dei settant’anni. Mi inquieta l’avvenire del nostro paese, oggi immerso in una crisi destinata a durare per un tempo 12


lungo e a diventare sempre più pesante. Invece il passato mi appare meno carico di pericoli del futuro. I rischi che abbiamo corso negli ultimi decenni li abbiamo comunque superati. Mentre le sorprese cattive che ci attendono al varco sono una gigantesca nuvola nera che incombe sulle nostre vite e può generare il peggio. Ecco perché il tempo trascorso mi sembra ben più rassicurante del tempo che ci aspetta. È questo il motivo che mi ha convinto a incamminarmi sul sentiero che ha condotto anche me dal 1946 a oggi. Potevo farlo in molti modi. Ho scelto il più congeniale alla mia esperienza professionale: il cronista che ha imparato, bene o male non lo so, a rievocare vicende lontane nel tempo. Eppure sempre vicine, poiché hanno lasciato una traccia nel percorso individuale di tanti italiani qualunque come sono anch’io. La mia era una scelta obbligata. Sarebbe stato privo di senso scrivere un riassunto di sessant’anni di storia. Qualcuno ricorderà i famosi Bignami che andavano alla grande nelle scuole medie superiori di tanto tempo fa. Erano molto usati dagli studenti in vista dell’esame di maturità. In quei libretti trovavano, ridotte in pillole, le nozioni che non avevano voglia di cercare nei testi scolastici. Scartata la tecnica del Bignami, ho preferito un racconto molto personale. Mettendo in ordine cronologico una sequenza di eventi politici, sociali, di costume, di vita vissuta e dei personaggi che li rappresentavano. Non tutti, perché sarebbe stato impossibile. Ma soltanto quelli che consideravo i più adatti a rievocare le fasi a mio avviso degne di ricordo all’interno di una lunga vicenda. Ogni evento ha dato origine a una storia, proprio come quelle che il re della filastrocca chiede alla sua serva di raccontargli. Voglio fermarmi un istante sulla faccenda della narrazione personale. Mi sono messo nei panni del testimo13


ne che descrive ciò che ha visto o che ha sentito narrare in tempo reale. E mi sono concesso la licenza di parlare anche di me stesso. Ritornando con la memoria a momenti del mio percorso prima e dopo l’essere diventato giornalista, ossia il cronista di fatti altrui. Qualcuno mi accuserà di presunzione per aver sopravvalutato la biografia di Giampaolo Pansa? Può essere un rimprovero fondato. Ma replico presentando l’attenuante dell’età. Ho scoperto che, con l’avanzare degli anni, è difficile sottrarsi al proprio passato. Ritorna a galla di continuo, bussa alla nostra porta e pretende di essere ascoltato. È per questo che, invecchiando, ripensiamo sempre più spesso ai nostri genitori. Li rivediamo come erano da giovani e, insieme, ritorniamo con la memoria alla nostra infanzia e poi all’adolescenza. Con tutto quello che le accompagna: gli amici, i maestri che ci hanno aiutato a crescere, anche quelli indiretti, come i libri e i giornali che abbiamo letto, la scoperta del sesso, le donne amate. L’aver scelto la parte del testimone mi ha spinto ad andare controcorrente rispetto a molte sacre scritture di storia contemporanea. L’avevo già fatto a proposito della guerra civile, attraverso una serie di libri iniziata con I figli dell’Aquila e Il sangue dei vinti. Un’esperienza che ha segnato la mia età matura, ben più di quanto mi aspettassi. Dieci anni fa non mi rendevo conto di fare del revisionismo scandaloso. Ma quando mi hanno osteggiato, e aggredito anche con azioni violente, per quel peccato imperdonabile, ne sono stato contento. Perché ho compreso di aver battuto una strada che quasi nessuno voleva percorrere. Avevo infranto una cortina di bugie, eretta da tanti sepolcri imbiancati. Politici, intellettuali, docenti di 14


storia, direttori di giornale e opinionisti che per ottusità culturale e opportunismo ideologico non accettavano che qualcuno rifiutasse la grande bugia sulla Resistenza. Una finzione messa sugli altari dentro una teca di vetro. E da venerare con un culto quasi religioso. Officiato con rigore maniacale dai tanti che ho chiamato, ricorrendo a un’immagine beffarda, i Gendarmi della memoria. Pure questo libro è un testo revisionista. Lo è per due motivi. Prima di tutto perché inserisce nella narrazione di molti eventi importanti anche vicende in apparenza minori e personaggi sconosciuti. I racconti che qui troverete consentono di osservare la storia italiana di tanti decenni non soltanto guardando verso l’alto, a personaggi che tutti conoscono, ma pure verso il basso. Ho tentato di farlo attraverso le figure di donne e di uomini che l’accademia non considera mai degne di menzione. Mentre possono aiutarci a sbirciare la grande storia da una prospettiva insolita che ne rivela aspetti sconosciuti. Un esempio per tutti? La mostruosa epidemia dell’Eternit rievocata attraverso una vicenda vera narrata da un amico della mia città che ha perso la madre e la moglie uccise dall’amianto. Esiste poi un secondo motivo che mi spinge ad affermare il revisionismo di questo racconto. Qui siamo su un terreno che spingerà molti a rinfacciarmi di aver scritto un libro di destra. Voglio subito dire che l’etichetta non mi spaventa. Anzi, la considero una medaglia, se per destra s’intende l’opposto di una sinistra culturale marmorea e bugiarda che per anni ha spacciato una lettura della storia italiana inquinata dal partito preso. E seguita a spacciarla con la boria di chi si difende aggrappandosi al complesso dei migliori. Ossia alla convinzione di essere il meglio fico del bigoncio e di saperla più lunga di tutti. A questi pennacchioni rossi o rossicci non piaceranno i giudizi che qui troverete. Ne elenco qualcuno. Al15


cide De Gasperi ha salvato la libertà dell’Italia e non era affatto un lacchè del governo americano. Una vittoria del Fronte popolare guidato da Palmiro Togliatti e da Pietro Nenni avrebbe imprigionato il nostro paese dentro un regime succube dell’Unione Sovietica. L’aiuto degli Stati Uniti nel 1947 e nel 1948 ha impedito che molti italiani morissero di fame e di freddo. Il miracolo economico non è stato il trionfo del capitalismo selvaggio e del consumismo. Ma il risultato del lavoro e della tenacia di tanti signori nessuno che cercavano un minimo di benessere. Il Sessantotto si è rivelato un tragico bluff che ha distrutto la nostra università. E ha dissolto il principio di autorità indispensabile a qualsiasi ordinamento sociale. La borghesia di sinistra non era per niente illuminata e saggia. Disprezzava chi non apparteneva ai suoi clan, odiava i poliziotti, urlava: «Basco nero – il tuo posto è al cimitero». E firmava appelli mortuari contro il commissario Luigi Calabresi, ritenuto a torto l’assassino dell’anarchico Giuseppe Pinelli. La Meglio gioventù spaccava il cranio agli avversari a colpi di spranga e di chiavi inglesi. Il terrorismo rosso esisteva e non era affatto un’invenzione delle destre reazionarie. I brigatisti erano militanti in carne e ossa che volevano distruggere il capitalismo ammazzando cristiani senza colpa. L’editore Giangiacomo Feltrinelli non è stato eliminato dalla Cia americana, ma si è ucciso nell’inseguire il sogno folle di una rivoluzione proletaria. Un paradosso per un miliardario com’era lui. L’avvocato Agnelli era di certo un gran signore, ma copriva le mazzette pagate ai politici pure dalla Fiat. La violenza verbale era ed è ancora il tratto distintivo dei giornali ritenuti progressisti, per niente diversi dai fogli di centrodestra, e spesso peggiori. La decadenza dell’Italia di oggi non è dovuta soltanto a Silvio Berlusconi, ma va messa in conto all’intero sistema politico. E dun16


que anche a una sinistra inconcludente e incapace di essere all’altezza delle sfide che ci attendono. In questo libro ho evitato il più possibile di ritornare su eventi e personaggi del mondo dei partiti, quelli morti e quelli ancora in vita, che ho già dipinto in altri miei lavori. Confesso che mi sono stancato di scrivere sui fatti e i misfatti di un Olimpo di potenti che da sinistra, da destra e dal centro ci assedia ogni giorno su tutti i media. Il mio intento era un altro: svelare una galleria di orrori, di menzogne e di volgarità mediocri che hanno diseducato troppa gente, come capita con i cattivi maestri intenti ad allevare generazioni di sciocchi. Il catalogo che presento qui è molto ridotto. Ma in qualche modo spiega come l’Italia del 2013 sia un paese alla canna del gas, dove trionfa un attore comico che semina veleno accusando i partiti superstiti di aver fatto un colpo di Stato. E definisce il Parlamento una tomba maleodorante. Per questo è lecito domandarsi dove stia andando la nostra repubblica. Verso il baratro che di solito inghiotte le nazioni ormai prive di coraggio e incapaci di curare i propri mali? Oppure saprà ritrovare la fiducia e la forza che l’hanno aiutata a superare tante crisi? Spero che i lettori di Sangue, sesso, soldi non cerchino una risposta da me. G.P.


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