Paolo Mieli - I conti con la storia

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Paolo Mieli

I conti con la storia Per capire il nostro tempo

Rizzoli


Proprietà letteraria riservata Š 2013 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-07003-4 Prima edizione: novembre 2013


I conti con la storia


Introduzione

Il secolo delle febbri ideologiche e delle grandi passioni politiche ha inferto colpi esiziali al ruolo degli storici. Gli inizi del terzo millennio, poi, non hanno fatto che peggiorare la situazione. Non è stato sufficiente che fascismo e comunismo quasi scomparissero dalla linea dell’orizzonte: nuove dottrine e nuovi radicalismi sono entrati in campo e si sono mescolati con quel che rimaneva delle vecchie fedi; tutti insieme poi hanno viziato l’aria, rendendo impossibile agli analisti e ai raccontatori del passato di prendere il fiato necessario per un’impresa che potesse dirsi di grande respiro. Ragion per cui chi si ripromette oggi di fare i conti con la storia deve misurarsi con libri (spesso eccellenti) quasi sempre intaccati dallo spirito dei tempi, condizionati da calcoli politici e da tabù ideologici, poco inclini all’esplorazione di modi innovativi di guardare al mondo di ieri. Molto è riconducibile all’appartenenza originaria. E chi prova a spingersi oltre i confini di quell’appartenenza si trova a mal partito. Nel 1998, l’intellettuale ebreo Alain Finkielkraut si pronunciò a sorpresa in favore della beatificazione del cardinale Stepinac. In Francia, come nel resto del pianeta, a quei tempi la decisione di Giovanni Paolo ii di beatificare Stepinac era assai criticata: perché, ci si domandava, innalzare agli onori dell’altare una personalità accusata di aver sostenuto durante la Seconda guerra mondiale il regime ustascia a cui si imputava di essere 7


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responsabile di una delle più feroci persecuzioni contro ebrei, serbi e zingari? La tesi serba anti-Stepinac era poi stata accolta da diversi giornali francesi: non era opportuno avviare alla santità il complice di una purificazione etnica (antiserba) e religiosa (antiortodossa). Contro questo modo di presentare la verità storica insorse Finkielkraut, che dedicò a esso un articolo su «Le Monde». La riflessione del filosofo iniziava con un ironico ringraziamento a quel mondo «che finalmente in questa fine del xx secolo ama, corteggia gli ebrei e si fa carico delle loro aspirazioni». Tutti disinteressati, questi nuovi estimatori degli israeliti? Finkielkraut esprimeva qualche dubbio: «Non provo una gioia senza ombre per questo corteggiamento universale. Mi augurerei, per esempio, che questi nuovi amici che si danno tanto da fare fossero tutti ugualmente amici scrupolosi della verità. La collera mediatica suscitata dalla beatificazione del cardinale Stepinac mi andrebbe dritto al cuore se egli avesse sostenuto in modo servile il regime ustascia. Ma così non è stato». Il filosofo francese raccontò poi di aver approfondito la questione su testi inglesi e su testimonianze degli ebrei croati, i quali ricordavano molto bene l’arcivescovo di Zagabria: le sue proteste pubbliche già nel 1941 contro le leggi antiebraiche; il suo attivismo nell’organizzazione della fuga di molti bambini ebrei verso l’Ungheria e la Palestina; le sue omelie, che venivano ritrasmesse da Radio Londra e utilizzate dai partigiani. Gli attuali difensori degli ebrei – diceva allora Finkielkraut – non si sono informati dove avrebbero dovuto «perché non sono gli ebrei che interessano»; secondo il filosofo «a loro interessa soprattutto riflettersi al meglio nello specchio dell’antifascismo». A imprigionare e a condannare ai lavori forzati l’arcivescovo di Zagabria fu nel 1956 Tito, lo stesso che nel 1948 aveva inflitto undici anni di lavori forzati (per aver collaborato con gli ustascia) al vescovo di Mostar, Alojzije Mišic, ´ che a sua volta aveva denunciato a più riprese i mas8


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sacri etnici. Anche i croati, ammette Finkielkraut, incontrano grosse difficoltà a distinguere tra realtà storica e manipolazione; per cinquant’anni sotto il regime comunista il male è stato identificato con il fascismo, ma oggi bisogna fare i conti con tutto il passato. Tutto. E i conti devono essere autentici. Più facile a dirsi che a farsi, anche perché i giudizi di fondo, perfino su questioni sostanziali, sono cambiati nei decenni senza che chi li modificava avvertisse la necessità di dare a essi una nuova sistemazione. Forse perché ancora non era convinto che fossero diventati davvero definitivi. L’8 ottobre 1986 Norberto Bobbio scrisse una lettera a Paolo Spriano per lodare il suo libro Le passioni di un decennio, dedicato alla vita politica e culturale italiana tra il 1946 e il 1956. Di tali «passioni», scriveva il filosofo – trent’anni dopo la conclusione di quel decennio e cinquant’anni dopo la morte di Stalin –, «è rimasto fermissimo in me il rifiuto di mettere in un solo sacco nazismo e stalinismo. Machiavelli diceva che è lecito al principe violare le regole della morale comune se fa “gran cose”. Questa massima a Stalin è applicabile (la costruzione di una società socialista è una “gran cosa”), a Hitler no. Hegel diceva che al fondatore di stati, che chiama “eroe” o “uomo della storia universale”, è lecito usare la violenza che ai suoi seguaci non è più permessa. E, per citare ancora Machiavelli, non ho mai trovato ritratto più somigliante a Stalin di quello che egli traccia in poche parole incisive di Annibale». Machiavelli aveva parlato di «quella sua inumana crudeltà, la quale insieme con infinite virtù, lo fece sempre, nel cospetto dei suoi soldati, venerando e terribile». «Venerando e terribile, si può dire di più e di meglio?» proseguiva Bobbio nella lettera a Spriano. «Il vostro Stalin, e potrei anche dire il nostro, non è stato e in fondo in fondo è tuttora “venerando e terribile”?» Così Bobbio nel 1986. Poi di anni ne trascorsero altri undici (nel frattempo era caduto il muro di Berlino) e, nel 9


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1997, in una conversazione con Giancarlo Bosetti, Bobbio non ebbe esitazione a proporre la tesi secondo cui Hitler e Stalin erano «tiranni gemelli», senza più fare alcuno sconto al despota georgiano. Forse prima di fare i conti con la storia, per rimettere le cose in ordine, sia pure un ordine provvisorio come è quello di chi si occupa del passato più recente, avremmo dovuto concederci una sospensione della memoria, una pausa, per così dire, obliante. Il filosofo Emmanuel Kattan in Il dovere della memoria scrive che si può capire perché gli orangisti, in Irlanda del Nord, si sforzino di mantenere le loro tradizioni e la loro identità, sfilando ogni estate, come i loro antenati, secondo degli itinerari fissati da secoli. Commemorando in questo modo la vittoria di Guglielmo d’Orange sul re cattolico Giacomo ii nel 1690, gli orangisti si collocano nella continuità di difensori della fede protestante in Irlanda del Nord. Ma, ogni anno, «la stagione delle sfilate» è fonte di nuove tensioni tra cattolici e protestanti. La comunità cattolica percepisce questi rituali come una forma di «provocazione» ed esige che gli itinerari siano ritracciati in modo da evitare i quartieri cattolici; mentre i membri dell’ordine di Orange si oppongono, facendo valere il loro «diritto civile» a sfilare lungo i percorsi imposti dalla tradizione. D’altra parte, nella ex Jugoslavia il mito che è stato elaborato a partire dalla battaglia del Kosovo del 1389 serve ad attizzare i sentimenti nazionalisti e a esacerbare l’ostilità nonché la differenza tra i popoli balcanici. Senza far ricorso al «dovere di dimenticare», prosegue Kattan, è impossibile non constatare che una utilizzazione impropria del passato e del sentimento di «credito» verso la storia perpetui i conflitti e generi nuovi cicli di violenza. Ed è a questo punto che giunge l’ora dell’oblio. È così, per esempio, che nel 1972 l’ex presidente della Repubblica, Georges Pompidou, raccomandava, nel corso di una 10


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conferenza, di «stendere un velo» sul passato di Vichy. Giustificando la sua decisione di accordare la grazia presidenziale a Paul Touvier (detto «il boia di Lione»), ex responsabile della milizia nella cittadina francese sotto il regime collaborazionista di Pétain, Pompidou si esprimeva in questi termini: «Il nostro Paese, da più di trent’anni, è passato di dramma in dramma. Ci fu la guerra, la disfatta e le sue umiliazioni, l’Occupazione e i suoi errori, la Liberazione, per contraccolpo, l’epurazione e i suoi successi – riconosciamolo: e poi la guerra d’Indocina, quindi la spaventosa guerra d’Algeria e i suoi orrori […]. Non è venuto il momento di stendere un velo, di dimenticare quei tempi nei quali i francesi non si amavano, si dilaniavano, si uccidevano a vicenda?». E lo scrittore tedesco Martin Walser in un discorso pronunciato l’11 ottobre 1998 a Francoforte (nel corso di una manifestazione in cui gli veniva consegnato un prestigioso premio per la pace) sollevò dubbi circa il richiamo costante ai crimini nazisti: «Quando ogni giorno questo passato mi è ricordato dai media, sento che qualche cosa in me si difende contro questa continua rappresentazione della nostra vergogna. Invece di essere riconoscente per l’incessante presentazione di questa nostra vergogna, comincio a distogliere lo sguardo». Stesse considerazioni sono state fatte dallo scrittore Haim Hazaz (1897-1973) in The Sermon. È un oblio rigeneratore che rivendica Yudka, il personaggio di The Sermon, secondo il quale la memoria dolorosa della Shoah «soffoca la vita». Se poi non riusciamo a imporci la pausa obliante, dobbiamo almeno ritrovare una base comune da cui avventurarci nella ricerca sul passato. Ben consapevoli del fatto che questa impalcatura sarà costruita su assi convenzionali che avranno un rapporto del tutto astratto con la cosiddetta memoria condivisa. Anzi, più queste assi saranno piallate dall’astrazione, più si mostreranno solide. Nel libro Rispetto, il sociologo Richard Sennett racconta la storia 11


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della «farmacia della duchessa». Alla fine del Settecento, seguendo un’antica usanza, la zia del futuro ministro degli Esteri francese Talleyrand una volta al mese spalancava le porte della sua casa più bella a servi e contadini che vivevano sulla sua proprietà. Lei sedeva in poltrona, loro le stavano intorno in semicerchio. Su una tavola di fronte alla duchessa stavano numerose boccette, ciascuna con un’etichetta scritta di pugno dall’anziana signora. Un bracciante o un domestico si faceva avanti descrivendole una malattia o qualche disgrazia per cui chiedeva rimedio; la zia sceglieva fra i preparati specifici fatti con erbe che crescevano nella proprietà, poi spiegava in ogni dettaglio come assumere il medicinale e diceva qualche parola di incoraggiamento. A questo punto il rito prevedeva che il paziente si inchinasse, prendesse la boccetta tra le mani e rientrasse nel semicerchio, mentre si faceva avanti la persona del turno successivo. Così per anni e anni. Ma, dettaglio non irrilevante, la zia di Talleyrand era sorda. Completamente sorda. Il personale lo sapeva bene e stava attento a non fare alcun riferimento alla circostanza; servitori e domestici descrivevano i loro mali sottovoce, la duchessa annuiva come se ci sentisse perfettamente e poi pazientemente selezionava la bottiglietta più adatta a curare il male della cui descrizione non aveva sentito alcunché. «Chi partecipava alla farmacia» scrive Sennet «stava rappresentando un rito; le indicazioni di regìa provenivano dalla memoria condivisa: le persone sapevano in che modo recitare la parte, rappresentare i vari ruoli, sapevano dove stare, cosa fare, cosa non dire. Il rituale richiedeva che gli attori eseguissero bene le proprie parti. Il ritmo del rituale esigeva che non si parlasse se non quando si doveva o che non si descrivesse un malanno per il quale si sapeva che la duchessa non possedeva la boccetta giusta. Lei stessa era molto disciplinata nel recitare la parte di attrice principale: non si limitava a porgere il flacone al contadino di turno, 12


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ma sapeva che doveva anche qualche spiegazione su come assumere il rimedio; quindi ci voleva da parte sua un minimo di comunicazione verbale. E questa comunicazione era vincolante proprio perché era la rappresentazione – una scena, se volete –, visto che lei non era in grado di udire. Eppure gli altri le parlavano e lei lo sapeva, vedendo i movimenti delle labbra.» Che in ogni caso non avrebbe saputo decifrare. Prima di incamminarci alla ricerca della memoria condivisa, dobbiamo ricominciare a imporci una qualche forma di coerenza e a denunciare con forza capricci e contraddizioni degli intellettuali (ai politici ci pensino i politici). Un esempio? Il drammaturgo inglese di estrema sinistra Harold Pinter nel 1979 votò a favore della conservatrice Margaret Thatcher per reazione a uno sciopero che aveva bloccato la messa in scena di una sua pièce. Ricevette grandi rimproveri dalla sua parte politica, la sinistra. «È la vergogna più grande della mia vita» avrebbe detto in seguito. Per farsi perdonare rifiutò la nomina a baronetto da parte del successore della Thatcher, John Major, e nel 2003 chiese l’impeachment del laburista Tony Blair per «comportamento grave e riprovevole», accusandolo di aver mentito sulle reali motivazioni della guerra all’Iraq (e fin qui niente da eccepire). Quest’ultimo passo lo volle compiere, però, in simbiosi con l’ex deputato laburista George Galloway, finito nei guai allorché, dopo la caduta di Bagdad, venne alla luce la prova di finanziamenti che aveva ricevuto da Saddam Hussein (cosa che gli costò l’espulsione dal partito). Ma su questo rapporto di Pinter con Galloway nessuno ebbe alcunché da ridire. Casi marginali, si dirà. Non isolati però. L’abitudine che abbiamo fatto al doppio standard di giudizio ci sta trascinando in una palude. In Argentina la commissione presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato, 13


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con il rapporto sulla violenza e i desaparecidos durante la dittatura militare intitolato Nunca màs, ha goduto di ampio riconoscimento all’interno del Paese nonché di una vasta eco internazionale. Invece il lavoro svolto dalla Commissione per la verità e la riconciliazione del Perù, il cui compito era quello di documentare abusi, violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità perpetrati da quando nel 1980 Sendero Luminoso aveva dato inizio alla lotta armata, ha meritato scarsa attenzione all’estero. E in Perù ha scatenato una polemica dominata da attacchi feroci alla commissione stessa, nonostante fosse presieduta dal filosofo Salomón Lerner Febres, rettore della Pontificia università cattolica. Questa disparità è stata notata da Mario Vargas Llosa nel settembre 2003. I critici, denunciò Vargas Llosa, ravvisano nelle indagini e nelle conclusioni della commissione peruviana il proposito di attenuare la gravità dei crimini imputati a Sendero Luminoso e al movimento Túpac Amaru, gonfiando oltre misura gli assassini e le torture commessi dall’esercito e dalla Polizia. A sostegno delle accuse si sottolineano antichi legami fra alcuni membri della commissione e organizzazioni di estrema sinistra. «Proprio mentre il Perù ritornava alla democrazia dopo più di un decennio di dittatura militare» scriveva Vargas Llosa «Abimael Guzmán e i suoi guerriglieri maoisti diedero il via a una “guerra di popolo” che si proponeva di portare i peruviani nel paradiso egualitario e finì invece per farci precipitare in un inferno di orrore dove le vittime principali, e soprattutto le più numerose, furono proprio quei contadini poverissimi che la Rivoluzione pretendeva di riscattare.» Delle oltre sessantanovemila persone morte o scomparse (il doppio di quanto si supponeva), «il 75 per cento erano contadini di lingua quechua abitanti nella regione andina, spesso vittime innocenti sacrificate in massacri collettivi orchestrati da Sendero Luminoso o dalle forze dell’ordine per rappresaglia, per spargere il terrore o 14


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semplicemente per cancellare i testimoni di crimini e atti di violenza». Perché «un rapporto sostanzialmente moderato ed equanime, che pagina dopo pagina si sforza di calibrare accuratamente i giudizi e di non scavalcare i propri limiti per mantenersi in una posizione serena e imparziale, è stato accolto con reticenza e addirittura con sdegno da molti peruviani?». Un altro virus che ha contagiato il mestiere dello storico alla fine del Novecento è giunto da un fenomeno sviluppatosi appunto negli ultimi trent’anni: il «politicamente corretto». «È in campo storico» ha osservato Robert Hughes in La cultura del piagnisteo «che la correttezza politica ha riportato i suoi maggiori successi.» L’interpretazione della storia non è mai statica. Rivedere, per gli storici, è un obbligo. L’ultima parola non esiste. Chi può dubitare che ci sia ancora molto da rivedere nella storia a noi tramandata della conquista europea dell’America del Nord e del Sud? Era un progetto imperiale: l’epica avanzata della Civiltà contro la Barbarie; il conquistador porta la croce e la spada, il pellerossa si ritrae davanti alla cavalleria e alla strada ferrata. È la dottrina del «destino manifesto». Il mito dell’americano bianco ottocentesco. Ma l’idea che tutti gli storici abbiano divulgato acriticamente questi eccessi trionfalistici è falsa. Ci sono stati già nell’Ottocento studiosi come William H. Prescott e, più tardi, Francis Parkman che non hanno affatto aderito a tale visione di come erano andate le cose. Eppure «il bisogno di buoni e cattivi assoluti» ha poi scritto Hughes «si annida profondamente dentro di noi, riduce la storia a propaganda e nega ai morti la loro umanità, fatta di peccati, virtù, tentativi, fallimenti. Preservare la complessità, senza appiattirla sotto il peso di un anacronistico moraleggiare, fa parte del compito dello storico». O, quantomeno, dovrebbe farne parte. Poiché la nuova sensibilità «decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime, il rango di vittima comincia a 15


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essere reclamato anche dal maschio americano bianco». Di qui «la fortuna di terapie che insegnano che siamo tutti vittime dei nostri genitori; che non è colpa nostra se siamo scriteriati, venali o francamente scellerati perché veniamo da “famiglie disfunzionali” […], abbiamo avuto modelli imperfetti di comportamento, abbiamo sofferto di mancanza d’affetto, siamo stati picchiati o magari sottoposti alle voglie libidinose di papà; e se non ne siamo consapevoli è solo perché abbiamo rimosso il ricordo, e tanto più diventa urgente ricorrere all’ultimo libro del ciarlatano di turno». Mostrarsi forti «può celare semplicemente una traballante impalcatura di degenerazione, essere vulnerabili, invece, è garanzia di invincibilità». La doglianza «dà potere – anche se è solo il potere del ricatto emotivo – che crea un tasso di sensi di colpa sociali mai registrato in precedenza». Dichiarati innocente e ci rimetti la testa! Qualche anno fa il filosofo Mario Perniola ha spiegato che il politicamente corretto vuole suscitare nell’avversario un senso di colpa tale da indebolirlo e poter avere la meglio su di lui. «Esso dunque ha possibilità di svilupparsi più nelle civiltà di colpa come gli Stati Uniti» proseguiva «che nelle civiltà di vergogna come il Giappone: in quest’ultime vale il precetto antico “non lamentarsi mai”, infatti il lamentarsi porta discredito e invita gli altri a disprezzare, se non addirittura a recare affronto; al contrario le civiltà di colpa tendono a trasformare la politica in etica, dilatando enormemente la categoria della responsabilità». Ma attenzione: «se ognuno è moralmente corresponsabile di tutti i mali del mondo, non è politicamente responsabile di nulla; la conseguenza di questa ipertrofia della morale […] è proprio il contrario di ciò che ci si attenderebbe, è il trionfo del cinismo e della spudoratezza». Agli occhi di Perniola il politicamente corretto è «il risultato di una patologia della politica che, incapace di muoversi sul suo terreno – quello della effettualità – e di ottenere dei risultati concreti, 16


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cerca una compensazione facendo uso esagerato e ipertrofico delle parole dell’etica, nei confronti della quale tuttavia continua a nutrire un profondo disprezzo». In effetti, concludeva, «mi chiedo se alla base del politicamente corretto non vi sia una specie di ossessione linguistica: esso sembra preoccupato più di cambiare il nome alle cose che di cambiarle effettivamente». Se poi accantoniamo gli occhiali del «politicamente corretto» e guardiamo al passato senza rifarci a idee che già avevamo in testa, ci imbatteremo in non poche sorprese. Alcune le troveremo nelle pagine di questo libro. Ma ne voglio ricordare (più brevemente) altre due che ci costringeranno a rivedere questioni non marginali della storia del Novecento. Ha fatto molto discutere in Europa il libro di Alan Riding And the Show Went On. Cultural Life in NaziOccupied Paris, nel quale sono stati ampiamente documentati silenzi, fatuità e compromissioni di innumerevoli intellettuali (francesi e non) nella Parigi occupata dai nazisti nei quattro lunghi anni che vanno dal 1940 al 1944. «Bisognava pur vivere» si sarebbe giustificata Simone de Beauvoir, compagna di Jean-Paul Sartre, la coppia che rappresentò la punta massima di questa mancanza di impegno in quei momenti, compensata (se così si può dire) da un eccesso di impegno nel dopoguerra. È stato Vladimir Jankélévitch a mettere in evidenza come l’engagement furibondo di Sartre e molti come lui negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, serviva probabilmente a far dimenticare le loro reticenze ai tempi dell’occupazione. Fatta eccezione per poche eroiche figure come quella del poeta René Char, gli altri scrittori e artisti furono in gran parte «resistenti del Café de Flore», gente che, ha ironizzato Alberto Arbasino recensendo il libro di Riding, seppe «entrare nella Resistenza al momento giusto» (è il caso di André Malraux, fino all’ultimo «incerto se fare letteratura o cinema o arti o darsi all’azione»), confortata da amici d’oltreoceano o 17


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d’oltremanica come Samuel Beckett che diceva: «Preferisco la Francia in guerra all’Irlanda in pace». Tipi alla Louis Aragon che Arbasino, avendolo conosciuto nel dopoguerra, descrive così: «Era diventato un vecchietto frivolo e civettuolo, tra boy friends tutti arredamento e sartoria. Altro che gli stalinismi alla Ždanov. Vestiva da Saint Laurent». Ha creato grande imbarazzo negli Stati Uniti un libro di Rafael Medoff, fondatore dell’Istituto di studi sull’Olocausto a Washington, dal titolo Franklin Delano Roosevelt and the Holocaust. A Breach of Faith. Nel volume si scopre che il futuro presidente degli Stati Uniti, quando era nel direttivo dell’ateneo di Harvard, nel 1923, contribuì attivamente alla decisione di far ridurre gli studenti ebrei perché a suo avviso erano «troppi». Che nel 1938, in una conversazione, imputò l’antisemitismo polacco al «dominio dell’economia» degli ebrei di quel Paese. Che nel 1941, durante una riunione con i suoi ministri, si lamentò dell’eccessivo numero degli ebrei fra i dipendenti federali dell’Oregon. Che nel 1943 diede disposizione ai comandi alleati affinché nelle zone liberate dell’Africa del Nord il numero di ebrei nelle professioni fosse limitato «per eliminare le comprensibili ragioni di lamentela che i tedeschi hanno maturato nei confronti degli ebrei di Germania». Che in quello stesso 1943, parlando con Winston Churchill alla Casa Bianca, approvò la tesi del geografo Isaiah Bowman secondo il quale la soluzione del problema ebraico sarebbe stata quella di distribuirli tra nazioni e città in maniera da «non dare troppo fastidio a nessuno», calcolandone addirittura una «dose appropriata» di «quattro o cinque famiglie per quartiere». Medoff scrive anche che durante la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si erano dati una quota di ammissione di (soli) ventiseimila ebrei provenienti dalla Germania, ma all’atto pratico ne respinsero i tre quarti, con la motivazione che avendo loro «parenti in Germania» potevano diventare «spie 18


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nemiche». Fu così che quasi duecentomila ebrei tedeschi, che avevano optato di trasferirsi in America, non furono salvati dall’Olocausto. Roosevelt si mostrava inoltre (ai tempi della Shoah) insofferente nei confronti dei «piagnistei ebraici», si vantava di «non avere sangue ebraico nelle vene», descriveva un’operazione di elusione fiscale di un editore come «uno sporco trucco ebraico», sosteneva che l’«eccesso di presenza nelle professioni» consentiva agli israeliti di «esercitare un’influenza immeritata». Ma torniamo ai tempi d’oggi con qualche ultima considerazione. È arduo ripromettersi di fare i conti con il passato remoto in un’epoca nella quale non tornano quelli con il passato prossimo. I venti anni a cavallo dei due millenni, i nostri, gli attuali, gli anni per intenderci degli «interventi umanitari», sono stati caratterizzati da un’assoluta mancanza di filo conduttore etico, dalla perdita definitiva di una bussola intellettuale dopo che già quelle del Novecento avevano da tempo smesso di funzionare. Si comprende che questo sia potuto accadere dalle parti della politica, per definizione arte di scegliere cosa fare sulla base di necessità e opportunità. Ma stupisce la nonchalance con cui persone d’ingegno e provata buona fede hanno giustificato o condannato gli interventi militari per Kuwait, Somalia, Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia e infiniti altri «minori». Volta a volta è stata portata la guerra nelle più diverse aree del mondo sotto le insegne dell’Onu, della Nato, dei «volenterosi», in qualche occasione senza bandiera alcuna. Bernard-Henri Lévy ha scritto pagine sprezzanti nei confronti dell’intero mondo politico e intellettuale di Francia nel settembre 2013, quando si trattò di affrontare la questione siriana dopo l’aggressione chimica di Assad (?) del 21 agosto. Bernard-Henri Lévy si è scagliato contro l’ultrasinistro Jean-Luc Mélenchon, «che abbiamo visto più ispirato quando approvava l’intervento di Nicolas Sarkozy 19


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in Libia e che vorremmo ci spiegasse in virtù di quale logica la caduta del tiranno Assad gli appaia meno auspicabile di quella del tiranno Gheddafi: opportunismo? Spirito del voltagabbana? Un odio accecante nei confronti dei suoi ex compagni?». Contro il Partito comunista francese, «o almeno quel che ne resta, che lancia attraverso “L’Humanité” una grande petizione nazionale contro la guerra […]. Il partito dei morti nella Resistenza, quello dell’intervento in Spagna e delle Brigate internazionali, che vola in aiuto d’un tiranno divenuto folle: che pietà!». Contro la destra repubblicana: «Che cosa è successo fra l’epoca (marzo 2012) in cui Dominique de Villepin giudicava maturo il tempo di “un’azione sul terreno” da condursi con “offensive mirate” contro le “istituzioni civili e militari siriane” e quella di fine agosto 2013 in cui afferma che un’offensiva “anche mirata” non può che “allontanarci da un regolamento politico” del conflitto?». E come può il presidente del partito gollista (Ump), Jean-François Copé, a pochi giorni di intervallo, ritenere «giusta nella forma come nel merito» la posizione francese e poi dissociarsene adducendo il motivo, «indegno di lui, poco serio», che il capo dello Stato rifiuterebbe «ostinatamente» di «ricevere i capi dell’opposizione e i presidenti dei gruppi parlamentari»? E cosa dire della base del partito gollista, «che come un sol uomo ha seguito il proprio capo e ora fa la difficile o si oppone di fronte alla possibilità di fermare un’ecatombe che ha già provocato 110.000 morti»? Ha dimenticato i giorni del marzo 2011, quando invece scendeva in piazza per salvare Bengasi? Stesso discorso vale per i socialisti francesi, entusiasti ai primi di settembre della decisione di Obama di rinviare ogni decisione al Congresso, quei socialisti «sempre pronti a fustigare la sinistra americana, e che adesso, all’improvviso, cominciano a sognare a voce più o meno alta di “fare come l’America” e d’aver diritto anch’essi al loro quarto d’ora di celebrità parlamentare». Giusta 20


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o sbagliata che fosse l’opzione interventista di BernardHenri Lévy, va detto che il ritratto delle miserie dell’universo politico parigino è impeccabile. E andrebbe esteso al mondo intellettuale e anche ad altri Paesi. Ma non c’è solo questo. Colpisce l’arbitrarietà di giudizio in occasione di alcuni clamorosi mancati interventi. Per esempio siamo andati in Iraq (noi, intesi come Occidente) a «portare la democrazia» ma poi in Egitto, dove si è votato e hanno vinto i musulmani, abbiamo assistito senza reagire (anzi, con plauso appena trattenuto) a un golpe che ha invalidato quel primo passaggio democratico. Ha fatto notare Ian Buruma che Egitto e Thailandia hanno una cosa in comune: in entrambi i Paesi, in epoche diverse (nel 2006 contro Thaksin Shinawatra in Thailandia, nel 2013 contro Mohamed Morsi in Egitto), cittadini istruiti che si considerano con orgoglio democratici hanno salutato con approvazione colpi di Stato militari contro governi eletti, quelli di Shinawatra e di Morsi appunto. Si potrebbe aggiungere il Fronte islamico di salvezza algerino (Fis), al quale però nel 1991 – nonostante avesse prevalso nelle urne – non fu neanche concesso di accedere al potere per un solo giorno. Se non si rispettano gli esiti delle elezioni democratiche, ha rilevato Buruma, «la gente cercherà altri modi per far valere la propria voce». Le tendenze accentratrici e dispotiche di Shinawatra e di Morsi «hanno forse danneggiato la democrazia, ma estrometterli con un golpe significa colpire la democrazia a morte». In effetti quella degli ultimi vent’anni è già storia. E sono accadute cose con cui è sgradevole e imbarazzante fare i conti. Un solo esempio. Ha osservato Tzvetan Todorov che nei suoi primi dieci anni di vita (2002-2012) la Corte penale internazionale dell’Aja ha condannato ventisette persone «collegate a diversi scenari maturati in sette Paesi africani» (i processi più noti, come quelli a Radovan Karadžic´ e Ratko Mladic, ´ sono interminabili e ancora 21


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in corso): Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centroafricana, Sudan, Kenya, Costa d’Avorio, Libia. «Questa omogeneità geografica non può non suscitare una certa curiosità: sarà dovuta al fatto che gli africani commettono i crimini peggiori o al fatto che sono gli unici che la Corte ha deciso di giudicare?» È chiaro che «i soli a essere a rischio sono i vertici degli Stati deboli che non hanno potenti che li proteggano». A meno «che non scoppi una guerra che metta in campo un eccezionale spiegamento di forze, nessun presidente né alcun capo di Stato maggiore americano, britannico, francese, russo, cinese, indiano eccetera verrà mai ritenuto penalmente responsabile delle sue azioni […]. Il diritto internazionale resta sottomesso alla forza, ammesso che si tratti veramente di forza». Laddove si dimostra che se, per le confusioni provocate dal Novecento, è difficile fare i conti con la storia dei secoli passati, farli con quella degli ultimi vent’anni è quasi impossibile. Quasi. Si può cominciare mettendo ordine tra libri e saggi capaci di raccontare qualcosa di nuovo, di approfondire fatti fin qui trascurati, di offrire interpretazioni non di comodo. Ma siamo solo all’inizio.


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