Richard Stengel - I padroni del destino

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Richard Stengel

Padroni del destino La passione, il coraggio, la libertĂ . La lezione di Nelson Mandela

saggi Rizzoli


© 2009 by Richard Stengel This translation published by arrangement with Crown Publishers, an imprint of the Crown Publishing Group, a division of Random House LLC. © 2013 Rcs Libri S.p.A, Milano ISBN 978-88-17-07485-8 Titolo originale dell’opera: Mandela’s Way: lesson on life, love and Courage Prima edizione: dicembre 2013

Impaginazione e redazione: Studio Dispari – Milano


Prefazione

In Africa esiste un concetto chiamato ubuntu, il cui senso profondo è che noi siamo uomini solo grazie all’umanità altrui e che se, in questo mondo, riusciamo a realizzare qualcosa di buono, il merito sarà in egual misura anche del lavoro e delle conquiste degli altri. Richard Stengel ha compreso in pieno questo concetto. È uno scrittore straordinario, che conosce a fondo la mia storia, e gli sono infinitamente grato per la preziosa collaborazione durante la stesura del Lungo cammino verso la libertà. Ricordo con grande affetto le infinite ore trascorse a conversare e il duro lavoro svolto insieme su quel progetto. Ha dimostrato di avere delle incredibili intuizioni sulle numerose e delicate problematiche che ancora oggi il mondo e i suoi abitanti devono affrontare. E tutti quanti possiamo farne tesoro. Nelson Mandela


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Nelson Mandela è stato forse l’ultimo vero eroe: simbolo del sacrificio e della rettitudine, sempre con il sorriso sulle labbra, venerato da milioni di persone come un santo vivente. Tuttavia questa immagine è riduttiva: lui per primo avrebbe detto che non era un santo, e non lo avrebbe fatto per falsa modestia. Nelson Mandela era un uomo dalle mille contraddizioni. Era immune alle critiche, ma allo stesso tempo vulnerabile. Si preoccupava per gli altri, ma spesso ignorava chi gli era più vicino. Era generoso con il denaro, ma contava fino all’ultimo centesimo quando doveva lasciare una mancia. Non avrebbe mai calpestato un ragno o un grillo, ma era stato il comandante delle forze armate dell’African National Congress. E ancora, era sì un uomo del popolo, ma gli piaceva la compagnia di personaggi celebri. Adorava essere cortese, ma non aveva paura di dire no. Non amava prendersi il merito, ma quando gli spettava lo puntualizzava. In cucina stringeva le mani a chiunque, ma non conosceva il nome delle sue guardie del corpo. 9


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Era la sintesi perfetta tra un sovrano africano e un aristocratico inglese: un gentleman in dashiki di seta, insomma. I suoi modi erano impeccabili: dopotutto li aveva appresi nelle scuole coloniali britanniche, da professori emeriti che leggevano Dickens quando Dickens scriveva ancora. Era molto cerimonioso: avrebbe accennato un inchino con un gesto della mano per cedervi il passo, ma se avesse dovuto raccontare delle condizioni igieniche della prigione di Robben Island o del rituale tribale della circoncisione che subì a sedici anni non sarebbe stato minimamente schizzinoso o puritano, e si sarebbe prodigato in descrizioni dettagliate. Usava l’argenteria se si trovava a Londra o a Johannesburg, ma a casa sua, nella regione del Transkei, mangiava come vuole la tradizione locale: con le mani. Nelson Mandela era un perfezionista: prendeva i fazzoletti dalla scatola e li piegava uno a uno prima di metterli nel taschino. Ricordo di averlo visto sfilarsi una scarpa durante un’intervista per rivoltare un calzino che aveva indossato a rovescio. In prigione ha riscritto in bella copia tutte lettere redatte in più di vent’anni e ha creato una dettagliata lista di quelle ricevute, registrando la data di ricezione e quella di invio della sua risposta. Dormiva su un lato solo del suo enorme letto matrimoniale, lasciando intatta, quasi immacolata, l’altra metà. Ricordo ancora l’espressione allibita di un inserviente d’albergo nel vedere Mandela rassettare il proprio letto. Detestava essere in ritardo e considerava la mancanza di puntualità un difetto di carattere. 10


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Non ho mai conosciuto nessuno più composto di Nelson Mandela. Quando stava seduto o in ascolto non picchiettava le dita, non batteva i piedi, non faceva movimenti di nessun genere; non aveva neanche il più piccolo tic nervoso. Ogni volta che mi sono ritrovato a sistemargli la cravatta, a lisciargli le pieghe della giacca o a fissargli il microfono al bavero, ho avuto l’impressione di ricoprire d’attenzioni una statua. Quando ti ascoltava, sembrava di parlare a una sua fotografia, a malapena si poteva dire che stava respirando. Era un uomo dal grande carisma, consapevole di saper ammaliare chiunque, con qualsiasi mezzo possibile. Attento, raffinato, affascinante e, per usare un termine che lui avrebbe detestato, seducente. E su questa cosa lavorava moltissimo, tanto che prima di incontrare qualcuno cercava sempre d’imparare il più possibile sul suo conto. Quando fu liberato per la prima volta, per esempio, lesse tutti gli articoli a riguardo ed elogiò i giornalisti uno a uno, con riferimenti specifici. Come tutti i più grandi ammaliatori, poi, anche lui si lasciava facilmente incantare: bastava fargli capire che ti aveva conquistato. Il suo fascino era tanto politico quanto personale. La politica è fondamentalmente una questione di persuasione ed egli infatti si considerava non tanto un Gran Comunicatore, quanto un Gran Persuasore. Mandela era capace di conquistare sia con brillanti ragionamenti sia con il suo fascino e, più di frequente, con una combinazione delle due cose. Era capace di convincerti a fare qualcosa piuttosto 11


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che ordinartelo, ma l’ordine sarebbe stato perentorio se vi fosse stata la necessità. Voleva a tutti i costi piacere; essere ammirato gli piaceva. E questo perché detestava deludere le persone. Desiderava che dopo un incontro con lui, il suo interlocutore andasse via pensando di non aver mai conosciuto una persona migliore. Spendersi così tanto con chiunque richiedeva una straordinaria energia: a volte era così stanco che i suoi occhi a mezz’asta davano l’impressione che stesse dormendo in piedi. Ma non ho mai visto nessuno come lui rinvigorirsi tanto con una bella dormita. Alle dieci di sera crollava, ma otto ore dopo, alle sei del mattino, era di nuovo pimpante, come fosse ringiovanito di vent’anni. Il fascino che esercitava sugli altri era inversamente proporzionale al grado di conoscenza che aveva di chi gli stava di fronte: molto cordiale con gli sconosciuti, ma freddo con chi gli era più vicino. Elargiva quel suo celebre sorriso benevolo a chiunque incontrasse per la prima volta. Riservava però un sorriso soltanto agli estranei: vedendolo in più occasioni in compagnia dei suoi figli e delle sorelle egli appariva spesso severo, accigliato, ben poco interessato ai loro problemi. Dopotutto, era un padre «vittoriano-africano», di certo non un genitore moderno. Quando gli si chiedeva qualcosa di cui non voleva parlare, assumeva un’espressione contrariata, e il suo sorriso si smorzava. In questo caso era meglio non insistere, altrimenti sarebbe diventato gelido, distaccato, e avrebbe rivolto la sua 12


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attenzione altrove. Quando questo accadeva, sembrava di assistere al repentino annuvolamento di un cielo limpido fino a pochi secondi prima. Mandela era indifferente a quasi tutto ciò che è materiale – non gli interessavano le macchine né gli orologi – eppure l’ho visto mandare una sua guardia del corpo in un negozio a un’ora di macchina solo per avere una penna della sua marca preferita. Per quanto concerne il denaro era molto generoso con i suoi bambini, ma non si può dire lo stesso con le mance che lasciava ai camerieri. Una volta ho pranzato con lui in un ristorante di lusso a Johannesburg, dove è stato servito e riverito. Non appena arrivò il conto, di oltre 1000 Rand (N.d.T. circa 80 euro), mi fermai a osservarlo mentre prendeva dalla mano poche monetine per lasciare una mancia striminzita. Quando si alzò, senza farmi notare, feci scivolare sul tavolo una banconota da 100 Rand (N.d.T. circa 10 euro). E non fu né la prima né l’ultima volta. Mandela è sempre stato un testardo e inflessibile sostenitore di ciò che lui riteneva essere giusto. Spesso gli ho sentito dire «Questo non è giusto», a proposito di una cosa da niente o di un affare internazionale, con lo stesso tono. Gliel’ho sentito dire quando la chiave di sicurezza non apriva la porta del suo ufficio ma anche al presidente del Sudafrica, F.W. de Klerk, durante alcune negoziazioni riguardo alla Costituzione del Paese. Per anni, a Robben Island, usò quest’espressione rivolgendosi tanto alle guardie quanto al direttore della prigione. In un certo senso, questa intolleranza all’ingiustizia è 13


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stata la forza che l’ha spronato nelle sue battaglie. È stato il motore del suo scontento, il suo verdetto riguardo all’immoralità dell’apartheid. Era sbagliato, era ingiusto, e lui ha cercato di sistemare le cose. Come faccio a sapere tutto questo? Ho collaborato con Mandela alla sua autobiografia. Ci abbiamo lavorato insieme per circa tre anni e durante questo periodo l’ho visto quasi ogni giorno: ho viaggiato e pranzato insieme a lui, gli ho lustrato le scarpe, gli ho annodato la cravatta e ho trascorso ore e ore a conversare con lui sulla sua vita e le sue imprese. Il mio percorso con Mandela è stato quasi del tutto accidentale. Arrivai in Sudafrica per caso, al posto di un altro giornalista che si era ritrovato all’ultimo minuto a dover annullare il viaggio. Colsi quindi l’occasione per scrivere un libro sulla quotidianità di una piccola città sudafricana durante l’apartheid. Quando l’editor di Mandela si ritrovò tra le mani il mio libro, mi offrì l’opportunità di lavorare sull’autobiografia del rivoluzionario sudafricano. Così raggiunsi Johannesburg nel dicembre del 1992 per incontrare Nelson Mandela. Erano anni duri e pericolosi per il Sudafrica sull’orlo della guerra civile. Mandela era stato scarcerato da meno di tre anni e stava lottando duramente per consolidare la sua leadership e condurre il Paese verso le prime elezioni democratiche. Lavorare all’autobiografia non era certo il primo dei suoi pensieri, eppure voleva raccontare la sua storia. 14


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Mi fece aspettare un mese intero prima di poterlo intervistare e quando finalmente ci incontrammo quasi capovolsi il progetto. Stavo seduto in un corridoio, fuori dal suo vecchio ufficio nel quartier generale dell’African National Congress, aspettando che prima o poi si palesasse. Lo cercai con lo sguardo e lo vidi avanzare verso di me: camminava lentamente, in modo controllato, quasi a rallentatore. La prima cosa che notai fu il color caramello della sua pelle. I lineamenti del suo volto mi parvero subito armoniosi, con zigomi ben pronunciati, dal tocco quasi asiatico. Alto quasi un metro e ottanta, tutto di lui, dalla testa alle mani, mi sembrò di dimensioni impressionanti. Non appena si avvicinò, mi alzai. «Ah, lei deve essere…» disse lui, e poi attese che concludessi io la frase. «Richard Stengel» ribattei, e lui mi porse la mano, calda e asciutta; le sue dita erano gonfie e la pelle era ancora rovinata da decenni di lavori forzati. Mi esaminò con attenzione. «Ah» esordì con un sorriso, «lei è molto giovane». Queste parole non mi suonarono come un complimento. Mi fece cenno di accomodarmi nel suo ufficio ed entrai. La stanza era grande, l’arredamento formale, tutto era pulito. Sembrava un ufficio di rappresentanza, ma non lo era affatto. Si fermò un attimo per scambiare poche parole con la sua assistente, una donna minuta e scattante che gli porse un documento da firmare. Mandela prese il foglio con cautela; mi sembrò evidente che facesse tutto con estrema cura. Si sedette alla scrivania e cominciò a leggere con 15


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attenzione, parola per parola. Firmò lentamente, come se volesse perfezionare la calligrafia. Poi si alzò, diretto alla poltrona di pelle logorata che si trovava di fronte al sofà, e mi chiese quando fossi arrivato. La sua voce era leggermente impastata, come una tromba con la sordina. «È giunto fin qui solo per questo progetto o per qualcos’altro?» mi domandò. Il mio cuore cominciò a palpitare. La domanda implicava che l’autobiografia non fosse un motivo sufficiente a giustificare la volontà d’intraprendere quel viaggio. Gli risposi che ero giunto lì solo ed esclusivamente per il libro, e lui annuì. Lui non sprecava le parole. Mi disse che stava pianificando una vacanza, e che il suo staff aveva preventivato quattro o cinque giorni liberi di modo che noi due potessimo parlare del progetto. Aggiunse che sperava che avremmo finito il lavoro prima della sua partenza, che sarebbe avvenuta da lì a dieci giorni. Avevo trascorso un mese a telefonare continuamente per fissare un appuntamento, senza mai ricevere una risposta, e avevo passato mesi cercando e raccogliendo materiale, quindi fu forse la frustrazione repressa che mi spinse a sollevare leggermente il tono della voce e a dirgli: «Quattro o cinque giorni? Se lei crede di poter scrivere un libro con quattro o cinque incontri lei si… lei si…» non riuscivo a trovare la parola giusta «… lei si sta illudendo». Ero al cospetto di Nelson Mandela da meno di dieci minuti e gli stavo dicendo che non aveva alcuna cognizione della realtà. Lui mi guardò inarcando leggermente un sopracciglio e poi si alzò. Pensai mi stesse per cacciare. 16


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Andò invece verso la sua scrivania, chiamò la sua assistente e le disse: «Il signor Stengel è qui e stiamo cercando di elaborare un piano». Si rivolse di nuovo a me comunicandomi che quella sera aveva un impegno, ma che non aveva alcuna intenzione di mettermi fretta e che avrei dovuto parlare con la sua segretaria il lunedì mattina. Con quelle parole mi ritrovai fuori dal suo ufficio e, temetti, fuori dalla sua vita. Il lunedì successivo, di sera, ricevetti invece una chiamata in cui mi veniva comunicato che avrei potuto incontrarlo la mattina seguente. Prontamente, alle sette, ci ritrovammo seduti agli stessi identici posti della prima volta. «Cominciamo» disse lui, come un giudice pronto ad avviare un processo. Mi schiarii la voce e mi scusai innanzitutto. «Mi dispiace, sono stato così… così…» e mi fermai ancora perché non riuscivo a trovare la parola giusta «… così brusco con lei, l’altro giorno». Quella parola suonava estranea e pretenziosa. Lui mi guardò e sorrise, un sorriso divertito, comprensivo ma anche un po’ annoiato. «Lei deve essere davvero un giovane molto gentile» disse «se crede che la nostra conversazione dell’altro giorno sia stata brusca», e pronunciò la parola molto accuratamente con una «r» vibrante e un’aspra «c». Mi misi a ridere. Aveva trascorso ventisette anni in prigione con delle guardie che per tutto il tempo lo avevano considerato meno di un essere umano, trattato con una brutalità che lui stesso dava per scontata. E prima di tutto questo, per la polizia e per l’esercito era stato un terrorista che andava fermato a ogni costo. Aveva vissuto in un Paese dove la classe dirigente dei bianchi non 17


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lo considerava, a malapena lo trattava alla stregua di un essere umano. Tutto questo era molto più che brusco. Fu l’inizio della nostra amicizia. In due anni ho accumulato più di settanta ore d’interviste con lui, praticamente nulla in confronto alle ore, i giorni e i mesi trascorsi l’uno in compagnia dell’altro. Sin dal principio mi ero imposto di stargli vicino fino a quanto lui potesse tollerare – agli incontri, agli eventi, durante le vacanze e i viaggi di Stato. Ho trascorso ore e ore con lui nella sua casa ad Houghton, l’ho accompagnato in viaggio nel suo paese natale, nella regione del Transkei, e l’ho anche seguito in America, in Europa e ovunque in Africa. Con lui ho partecipato a campagne politiche, sono andato a incontri di negoziazioni e trattative diventando la sua ombra. Ho tenuto un diario: più di 120.000 parole. Gran parte di questo libro viene da questi appunti di viaggio. Chiunque abbia passato del tempo con Nelson Mandela sa che non è solo un grande privilegio, ma anche un enorme piacere. La sua presenza era preziosa, luminosa, ti faceva sentire migliore, più buono. La maggior parte delle volte era allegro, ottimista, sicuro di sé, generoso e divertente. Persino quando l’intero peso del mondo gravava sulle sue spalle lui sembrava capace di sostenerlo senza troppa fatica. Quando si passava del tempo al suo fianco si era consapevoli di vivere la storia così come stava per essere fatta. Mi ha lasciato tanto della sua vita, qualcuno dei suoi pensieri e un piccolo pezzo del suo cuore. Lui mi ha esortato a sposare mia moglie, anche lei sudafricana, ed è stato lui il padrino del mio primogenito. Gli 18


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voglio un bene infinito. È stato la causa di molte delle più belle cose che mi sono capitate. Quando abbiamo finito il libro, è stato come se il sole fosse uscito dalla mia vita. Ci siamo frequentati per anni e lui ha trascorso molto tempo con i miei figli, che lo considerano un vecchio e caro nonno. Questo libro vuole essere sia un ringraziamento per il tempo e l’affetto che mi ha dedicato, sia un dono per tutti coloro che non hanno potuto godere in prima persona della sua generosità e della sua saggezza.

Nelson Mandela ha ricevuto molti insegnamenti durante la sua vita, ma è stata la prigione che ha plasmato l’uomo che ho conosciuto. Ha imparato molto sulla vita e sull’essere una guida per gli altri: da suo padre, seppur parecchio distante, dal re del Thembu, che lo ha cresciuto come un figlio, dai suoi coraggiosi amici e colleghi Walter Sisulu e Oliver Tambo, da figure storiche e da capi di Stato come Winston Churchill e Haile Selassie, dalle parole di Machiavelli e di Tolstoj. Ma sono stati i ventisette anni di prigionia a temprare il suo spirito e, allo stesso tempo, a bruciare tutto ciò che non era da ritenersi essenziale. La prigionia gli ha insegnato l’autocontrollo, la disciplina e la capacità di mettere a fuoco ciò che è importante; tutte qualità essenziali per poter essere un vero leader. Ma soprattutto, la prigionia lo ha trasformato in un essere umano completo. Il Mandela che uscì di prigione a settantun anni era un uomo diverso da quello che vi era entrato a quarantaquattro. Il suo migliore amico ed ex collega Oliver Tambo, che divenne la guida dell’ANC durante il perio19


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do di detenzione del compagno di partito, descrisse così il giovane Mandela: «Come uomo, Nelson Mandela è molto passionale, emotivo, permaloso, pungente e talvolta vendicativo». Emotivo? Passionale? Permaloso? Vendicativo? Il Mandela emerso dalla prigione non era niente di tutto questo, almeno non in superficie. Avrebbe trovato tutti questi aggettivi piuttosto sgradevoli. Infatti, una delle critiche più aspre che avesse potuto muovere a qualcuno era quella di essere «emotivo», «troppo passionale» o «permaloso». Di contro le parole che gli ho sentito pronunciare per tessere le lodi di altri erano «equilibrato», «pacato» e «controllato». I pregi che elogiamo negli altri sono il riflesso di come percepiamo noi stessi, e quelle sono le parole precise che lui avrebbe usato per descrivere se stesso. Come ha fatto l’appassionato rivoluzionario a diventare un equilibrato statista? In prigione egli ha dovuto imparare a stemperare gli eccessi del suo carattere. C’era davvero poco che un prigioniero potesse controllare. L’unica cosa che poteva, e doveva, controllare era se stesso. Non c’era spazio per esplosioni di rabbia, autoindulgenza o mancanza di disciplina. Non c’era privacy. Quando entrai per la prima volta nella cella di Mandela, a Robben Island, cominciai ad ansimare. Non era uno spazio a misura d’uomo e soprattutto era troppo piccolo per la stazza di Mandela: non poteva nemmeno allungarsi per intero quando si coricava per dormire. Era ovvio che la prigione lo avesse modellato, letteral20


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mente e metaforicamente parlando: mancava proprio lo spazio per emozioni e movimenti smisurati. Ogni aspetto doveva quindi essere sfrondato e tutto doveva essere ordinato. Ogni giorno e ogni sera tentava di sistemare le poche cose che gli era concesso di tenere in cella. Nel frattempo, però, dovette imparare a tener testa alle autorità. Era il leader dei prigionieri e non poteva certo abbassare la guardia: tutti avrebbero subito visto o saputo se si fosse compromesso. Affinò persino la capacità di comprendere il modo in cui veniva percepito dai suoi compagni di sventura. Sebbene fosse stato strappato da un mondo molto più vasto, ormai era consapevole del fatto che era la prigione il suo unico universo e che proprio lì doveva dimostrare di essere un valido leader, più di quanto avrebbe dovuto fare una volta uscito dal carcere. E oltre a tutto questo ebbe persino tempo, forse fin troppo, per pensare e perfezionarsi sempre di più. Per ventisette anni ha riflettuto su come comportarsi, su come diventare leader. Su come essere uomo. Mandela non era introspettivo, o almeno non gli piaceva parlare dei suoi pensieri più intimi. Ogni volta che tentavo di fargli analizzare i suoi sentimenti emergeva in lui un profondo senso di frustrazione e di irritazione: non era molto propenso a parlare il linguaggio della psicologia moderna. Il suo mondo era impermeabile alle teorie di Sigmund Freud. Covava una gran quantità di pensieri sul suo passato, ma molto raramente ne parlava. Mi è capitato solo una volta di vederlo cedere all’autocommiserazione, mentre stavamo parlando della sua infanzia, quando a un certo punto, guardando in 21


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lontananza, affermò: «Sono un uomo vecchio che può solo vivere del passato». Stava per essere eletto presidente della nuova nazione sudafricana, era nel momento del suo più grande trionfo. Più e più volte, però, gli chiedevo come la prigione lo avesse cambiato. Com’era l’uomo del 1990 rispetto a quello del 1962? Questa domanda lo infastidiva, la ignorava con una risposta diplomatica, oppure negava la premessa. Finalmente un giorno, preso dall’esasperazione, mi disse: «Ne uscii maturo». Cosa intendeva con queste frase? André Malraux scrisse nella sua biografia che quanto di più raro si possa trovare al mondo è proprio un uomo maturo. E Mandela era d’accordo con lui. Per me queste parole sono la più profonda definizione di chi era effettivamente Nelson Mandela e di che cosa avesse effettivamente imparato. Perché quel giovane sensibile ed emotivo di cui si è parlato prima non è mai scomparso. È ancora presente nel Nelson Mandela che tutti conosciamo. Con il termine «maturo» egli voleva far intendere che aveva imparato a controllare l’impulsività tipica della giovinezza e non che non fosse più vulnerabile o ferito o arrabbiato. Voleva dire che non sempre sapeva cos’era giusto fare e come, ma che aveva imparato a smorzare le emozioni e le ansie che gli provocava l’osservazione del mondo circostante. Il grande rivoluzionario sudafricano si rese conto che non tutti potevano essere Nelson Mandela: la prigionia lo aveva rafforzato, lo aveva armato di coraggio, ma aveva distrutto molti dei suoi compagni. La detenzione lo aveva reso più sensibile e comprensivo, e 22


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non ha mai approfittato o biasimato quanti si sono arresi o piegati alla dura prigione. Arrendersi è umano. Con il tempo Mandela ha sviluppato una sorta di radar e una profonda simpatia per la fragilità umana. Per certi versi ha lottato per il diritto di ogni essere umano a non venir trattato come lui è stato trattato. Non ha dunque mai perso quella dolcezza e sensibilità tipica della gioventù, anzi ha sviluppato una corazza per proteggerle. Oggi è quasi impossibile parlare di Nelson Mandela senza accennare alla figura altrettanto carismatica e rivoluzionaria di Barack Obama. I parallelismi sono numerosi. Durante le ultime presidenziali democratiche americane, andai a trovare Mandela e in quell’occasione gli chiesi chi preferisse tra i due candidati, Hillary Clinton e Barack Obama. Mi sorrise e cominciò a far cenno di no con il dito, perché non avrebbe mai risposto a una domanda del genere. La riservatezza è una delle sue principali caratteristiche. Questo autocontrollo, questo filtro onnipresente è qualcosa che entrambi i leader condividono. E mentre ci vollero ventisette anni di prigione a modellare il Nelson Mandela che conosciamo, il giovane presidente americano sembra aver raggiunto quel temperamento moderato senza lunghi anni di sacrificio. L’autodisciplina di Obama, così come la sua capacità di saper ascoltare, di condividere, di accettare i rivali nella propria amministrazione e la convinzione che la gente voglia cose spiegate bene sembrano una versione del Ventunesimo secolo dei valori e della persona di Mandela. 23


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Mentre la visione del mondo di Mandela è stata forgiata nel calderone di politiche razziali, Obama sta cercando di creare un modello di politica post razziale. Che Mandela possa aver preferito oppure no Obama, il presidente americano rimane in ogni caso il suo unico vero successore sulla scena mondiale. La vita di Mandela è dunque un modello non solo per i nostri tempi, ma per tutti i tempi. Le lezioni che state per leggere non sono solo quelle che gli furono impartite in prigione, ma comprendono la sua intera esistenza. Sono molte le qualità che lo rendono un leader indiscusso e al tempo stesso un esempio di grande umanità. È vero, non tutti possono essere Nelson Mandela. E lui vi avrebbe detto di essere grati per questo. Fortunatamente pochi di noi hanno dovuto affrontare quanto lui stesso ha patito. Questo non significa però che tali lezioni non siano applicabili alla vita di tutti i giorni, perché invece lo sono. Lo so perché la mia vita ne è stata pervasa. La prigione ha impartito a Mandela le lezioni di vita che ho tentato di raccontare in questo libro. Voi potrete impararle a un’infinitesima parte del prezzo che ha pagato lui.


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