Piergiorgio Odifreddi - Come stanno le cose

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Piergiorgio Odifreddi

COME STANNO LE COSE Il mio Lucrezio, la mia Venere

Rizzoli


COME STANNO LE COSE

All’alma Elena e ai professori di scienze, perché diffondano il contenuto scientifco del poema di Lucrezio E ai professori di lettere, perché non lo rimuovano nascondendolo dietro la forma letteraria

«Se avessi letto Lucrezio in liceo me ne sarei innamorato, ma Lucrezio non si legge volentieri nei licei: ufficialmente perché è troppo difficile, di fatto perché dai suoi versi ha sempre emanato odore di empietà. Perciò, fin dall’antichità gli si è costruito intorno un involucro di silenzio, ed oggi di quest’uomo straordinario non si sa nulla. Coscientemente o no, per lungo tempo è stato considerato pericoloso perché cercava un’interpretazione puramente razionale della Natura, aveva fiducia nei propri sensi, voleva liberare l’uomo dalla sofferenza e dalla paura, si ribellava contro ogni superstizione, e descriveva con lucida poesia l’amore terrestre. La sua fiducia a oltranza nella esplicabilità dell’universo è la stessa degli atomisti moderni. Il suo materialismo, anzi meccanicismo, è candido e ci fa sorridere, ma affiorano qua e là intuizioni sorprendenti.»

Primo Levi, La ricerca delle radici. Antologia personale, 1981


IstruzIonI per l’uso Le pagine dispari del libro riportano nell’ordine la Premessa e l’Introduzione di Piergiorgio Odifreddi e il testo tradotto del De rerum natura di Lucrezio, mentre le pagine pari contengono commenti al testo a fronte. Nelle pagine dispari: [tra parentesi quadre le interpolazioni, in forma di note inserite nel testo] in corsivo, i brani più significativi, su cui concentrarsi a una prima lettura in blu, i versi commentati nella pagina a fronte in rosso, i versi commentati in altre pagine, precedenti o successive

traduzIonI Tutti i testi citati sono stati tradotti e/o adattati dall’autore.


Premessa IL mIO LuCrezIO, La mIa VeNere

Jorge Luis Borges ci ha insegnato che esistono modi estremi di fare letteratura. Da un lato, si possono recensire e commentare le opere mai scritte, che costituiscono la parte preponderante della Biblioteca di Babele, contenente tutti i libri che l’alfabeto permette di combinare. L’ha fatto Borges stesso, creando autori fantasma come Herbert Quain. ma l’hanno fatto talmente in tanti, prima e dopo di lui, che quando Paolo albani e Paolo della Bella hanno tentato di classificarli, ne è uscito un libro intero: Mirabiblia. Catalogo ragionato di libri introvabili (zanichelli, 2003). Dall’altro lato, si possono riproporre testualmente le opere già esistenti. Due parti della fantasia di Borges sono il celeberrimo Pierre menard, e il misconosciuto Hilario Lambkin Formento. Il primo ridivenne parzialmente Cervantes, e riscrisse alcune pagine del Don Chisciotte. Il secondo riscrisse addirittura l’intera Divina Commedia, estendendo progressivamente riassunti sempre più dettagliati e letterali, fino a far coincidere l’ultimo con l’opera stessa. meno fantasticamente, posti di fronte a opere di altri tempi, altre culture o altre lingue (quando non di tutte e tre le cose insieme, com’è appunto il caso del De rerum natura di Lucrezio), ci si può situare dovunque nello spettro dei modi di riproporla, fra i due estremi del libero adattamento e della traduzione coatta. Tra gli innumerevoli esempi italiani di ogni genere, l’Iliade è stata tradotta disinvoltamente in versi da Vincenzo monti, e ridotta teatralmente in prosa da alessandro Baricco. roberto Calasso ha raccontato creativamente i miti indiani in Ka e L’ardore, e quelli greci e romani in Le nozze di Cadmo e Armonia. Luciano De Crescenzo ha iniziato un vasto pubblico ai

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Premessa I primi due traduttori, in versi e in prosa

ugo Foscolo (1778-1827)

alessandro marchetti (1633-1714)

Prima apostrofò Vincenzo monti come “gran traduttor de’ traduttor d’Omero”. ma aveva il dente avvelenato con lui per motivi di cuore, più che di critica letteraria: amava infatti la signora monti, ne era stato respinto, e aveva tentato il suicidio per la delusione. Poi divenne lui stesso “grand’adattator del traduttor marchetti”, quando ne intentò una versione in prosa, che coprì però soltanto 237 versi. Per un assaggio del suo stile, vedi p. 78. Per una raccolta dei suoi frammenti di traduzione, vedi invece ugo Foscolo, Letture di Lucrezio, a cura di Franco Longoni (Guerini, 1990).

effettuò la prima traduzione italiana del De rerum natura, sulla scia di quella francese del 1649 di Pierre Gassendi. La fece con molta libertà, forse anche troppa: i 7415 versi pervenutici dell’originale latino (qualcuno è andato perduto) divennero così 10.724 in italiano. La versione del marchetti fu molto apprezzata per la creatività letteraria, ma molto avversata per la fedeltà alla visione atea e materialista di Lucrezio. Per un assaggio del suo stile, vedi p. 28. Per la traduzione intera, vedi invece alessandro marchetti, Della natura delle cose di Lucrezio, a cura di mario Saccenti (mucchi editore, 1992).

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Il mio Lucrezio, la mia Venere grandi miti greci, in versione sia scritta che illustrata a fumetti. e Giorgio manganelli e umberto eco hanno riproposto Pinocchio a modo loro: il primo in “un libro parallelo”, e il secondo nel tautogramma Povero Pinocchio. La letteratura si è dunque ormai liberata da qualsiasi remora e soggezione. Per curare un’opera non è più necessario neppure conoscere la lingua in cui è stata scritta, preservarne il genere letterario e la struttura, e riportarne il contenuto integralmente, o anche solo fedelmente. Si può fare ciò che si vuole, preferibilmente avendo dei motivi per farlo. I letterati questi motivi li hanno per definizione, se non altro per confrontarsi idealmente con i loro simili di altri tempi, altre culture e altre lingue. ma nel caso di Lucrezio questi motivi li hanno anche gli scienziati, perché il De rerum natura non è un’opera letteraria come le altre. È sì un poema in versi, ma parla di argomenti che oggi vengono a torto considerati prosaici: cioè, il mondo fisico e le scienze che lo studiano a vari livelli, dal micro al macro, passando per l’intermedia dimensione umana. È vero, però, che al giorno d’oggi la poesia della Natura risplende meglio nella prosa: per noi contemporanei, i versi attirano infatti troppo l’attenzione su se stessi, e la distraggono da un contenuto che, nel caso della scienza, è preponderante sulla forma. In ogni caso, se uno non è Dante, fa sicuramente meglio a lasciar perdere. Se ne accorse già ugo Foscolo, che nel 1803 decise di volgere in prosa la traduzione in endecasillabi sciolti fatta un secolo e mezzo prima da alessandro marchetti. ma la prosa del poeta Foscolo non è mai stata terminata. e la poesia del matematico marchetti oggi risulta più ammirevole e coraggiosa che leggibile e rigorosa. In ogni caso, Lucrezio non aiuta già di suo, essendo stato un precursore del flusso di coscienza: una prelibata ma indigesta invenzione letteraria, in disperata ricerca di un editor che la sbocconcelli in briciole digeribili. L’editor presente, cioè io, non pretende certo di competere in questo tipo di impresa con Vittorio Sermonti, e meno che mai con roberto Benigni. ma ha almeno l’ambizione di proporre un libero adattamento in prosa dell’intero De rerum natura, insieme a una scelta antologica (in corsivo) che ne indichi i brani più significativi, e un piccolo apparato di introduzioni e note che ne evidenzino le formidabili intuizioni scientifiche. Spesso, bastano anche piccole accortezze, quali identificare Venere con una spinoziana Dea, sive Natura, o l’animo e l’anima con le funzioni del cervello e del sistema nervoso, per illuminare di luce nuova questi versi antichi, che una lettura troppo letterale rischierebbe di far apparire antiquati, offuscandone la visionaria attualità.

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Introduzione Da Lucrezio a caLvino

all’alba del pensiero occidentale, per descrivere degnamente i profondi sentimenti che l’osservazione della Natura veniva loro ispirando, i presocratici si appellarono alla musica e alla poesia. Da un lato, i pitagorici orchestrarono una visione del cosmo sintetizzata in espressioni quali “la musica delle sfere” o “l’armonia del mondo”, che scienziati e musicisti utilizzarono poi per millenni: ad esempio, nel trattato Harmonices mundi di Keplero, del 1619, e nell’opera Die Harmonie der Welt di Paul Hindemith, del 1957. Dall’altro lato, gli ionici e gli eleatici composero svariati poemi Sulla Natura, dai cui frammenti emergono alcuni princìpi fondamentali della successiva speculazione filosofica: primi fra tutti l’apeiron (“infinito”) di anassimandro, il logos (“ragione”) di eraclito, e l’aletheia (“verità”) di Parmenide. La tradizione dei poemi sulla Natura continuò coi fisici posteriori, da empedocle e anassagora a Democrito ed epicuro, le cui visioni cosmobio-logiche del mondo confluirono nel De rerum natura, “La natura delle cose”: la sinfonia di Tito Lucrezio Caro, pubblicata postuma poco più di duemila anni fa da Cicerone, che costituisce il più elevato canto mai intonato da un uomo alla scienza e alla ragione. Gli scrittori cristiani, per cercare di screditare il poema, tramandarono la notizia che il poeta fosse stato pazzo, avesse scritto i suoi versi nei recessi della follia e si fosse suicidato, ma la cosa è poco verosimile. anzitutto, per la magica causa della supposta pazzia, che avrebbe dovuto essere un filtro d’amore: cioè, una favola, a cui solo gli ingenui come loro potevano credere. ma, soprattutto, per la lucidità dei suoi pensieri, che gli ottusi detrattori non erano ovviamente in grado di comprendere, né tanto meno di giudicare.

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Introduzione L’inizio del poema

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Da Lucrezio a Calvino Nell’inno a Venere che apre il De rerum natura (a fronte) Lucrezio chiede aiuto alla dea. Non per cantare, secondo la tradizione passata e futura, «del Pelìde achille l’ira funesta» (Iliade), o «l’uom di multiforme ingegno che molto errò» (Odissea), o «di marte l’armi, e ’l valor del grande eroe» (Eneide), o «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori» (Orlando furioso), o «l’arme pietose e ’l capitano» (Gerusalemme liberata), o altre amenità. Bensì, per descrivere quella natura delle cose1 da cui poi prese il nome la sua opera. Più in particolare, per esporre la visione del mondo di epicuro, «il primo uomo che osò guardare in faccia la religione, che sporge il suo orribile volto dal cielo e incombe dall’alto sui mortali».2 all’osservazione e alla conoscenza della Natura è affidato il compito di dissipare le tenebre e le paure dell’animo. Non solo il terrore della morte e dell’aldilà, su cui specula la fede. ma anche l’incomprensione dei fenomeni terrestri, marini e celesti, che la superstizione e l’ignoranza attribuiscono ingenuamente al capriccio degli dèi. Senza capire, invece, che la Natura «non è sottomessa a padroni superbi: fa tutto da sé, e senza interventi divini».3 In sostanza, l’insegnamento che Lucrezio mutua da epicuro è che gli dèi, ai quali peraltro essi ancora credono, non c’entrano nulla col mondo. e meno che mai con l’uomo, il quale non è stato calato dal cielo con una corda d’oro, come quella che nell’Iliade4 pende dalla vetta dell’Olimpo e alla quale sono appese tutte le cose, ma è un prodotto della Terra stessa. Qual è, allora, la vera natura delle cose, che illumina l’animo dell’uomo e lo libera dalle false credenze, così come la luce dissolve gli incubi di un bambino, che nel buio è impaurito da fantasmi immaginari? Quali sono, ad esempio, le vere cause delle catastrofi naturali, piccole e grandi, che così spesso, allora come oggi, vengono attribuite all’ira e alla punizione divine per le malefatte umane? Le mostra nel dettaglio il libro VI, decostruendo in maniera scientifica una serie di fenomeni meteorologici e geologici che da sempre appaiono, dal punto di vista antropocentrico, come effetti di un accanimento della Natura contro l’uomo: tuoni, lampi, fulmini, venti, piogge, terremoti, maremoti, eruzioni, epidemie. Fino alla grandiosa scena finale della peste di atene, durante la quale «la religione non contava più molto e il potere degli dèi era decaduto, schiacciato dal peso incombente del dolore immediato».5 In precedenza, nei libri III, IV e V, Lucrezio aveva già compiuto una decostruzione analoga per la psicologia, la fisiologia, la biologia e l’astro1 2 3 4 5

I,25. I,62-67 (vedi p. 32). II,1091-1092. VIII,23-34. VI,1276-1277.

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Il poema


Introduzione Alcune illustrazioni classiche

Un momento unico della storia

Gustave Flaubert (1821-1880)

marguerite Yourcenar (1903-1987)

Secondo la testimonianza della Yourcenar, la memorabile citazione di Flaubert riportata a destra fu il granello di sabbia che produsse la perla delle sue Memorie di Adriano. Quel “momento unico”, quando gli dèi antichi erano ormai appassiti, e gli dèi moderni non avevano ancora attecchito, vide la fioritura non solo di Cicerone, Lucrezio e Seneca, ma anche dei “cinque buoni imperatori”: Nerva, Traiano, adriano, antonino Pio e marco aurelio. Quest’ultimo, in particolare, nel doppio ruolo di governante e filosofo. 14


Da Lucrezio a Calvino nomia, mentre nei libri I e II aveva cantato le lodi degli atomi, che «costituiscono tutte le cose del mondo».6 L’argomento di Lucrezio per l’esistenza degli atomi è lo stesso che sarà usato da Kant nella seconda antinomia della Critica della ragion pura: se non ci fossero gli atomi, «ogni corpo consterebbe di infinite parti, e allora quale sarebbe la differenza fra l’intero universo e un granello di sabbia?».7 L’argomento è inconfutabile, ma non necessariamente convincente, perché l’occhio del corpo ha una vista meno acuta di quello della mente. Lucrezio si premura allora di fornire argomenti di plausibilità per l’atomismo, come farà Galileo nei Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo per l’eliocentrismo. In particolare: • Il pulviscolo atmosferico reso visibile da un raggio di sole che penetra in una stanza, la cui danza incessante offre un modello dell’eterno tumulto degli atomi nel grande vuoto.8 • Le pecore dei greggi che si aggirano saltellando sui prati, o i soldati delle legioni che avanzano tumultuose nei campi, i cui movimenti individuali appaiono indistinti a un osservatore lontano.9 • ma, soprattutto, le parole del linguaggio, che pur essendo costituite delle stesse poche lettere dell’alfabeto, «descrivono il cielo, i corpi celesti come il Sole o la Terra, e i corpi terrestri come il mare, i fiumi, gli alberi, i prati, i campi e gli esseri viventi»,10 così come tutte queste stesse cose sono costituite dagli stessi pochi atomi.11 Per il suo contenuto scientifico, materialistico e antireligioso, il poema di Lucrezio rimane un unicum nella storia della poesia classica. La condizione storica che lo rese possibile, come spiegò Gustave Flaubert in una sua lettera del 1861 all’amica edma roger des Genettes, fu la momentanea apertura di una finestra di opportunità intellettuale, che si richiuse quasi immediatamente: Quando gli dèi non c’erano più, e Cristo non c’era ancora, si ebbe, tra Cicerone e marco aurelio, un momento unico in cui c’era solo l’uomo. e l’uomo, solo. Per scrivere il De rerum natura bisognava dunque essere “solo uomini”: senza grilli, o dèi, per la testa. Come lo fu, più di un millennio dopo,

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I,502. I,615-619 (vedi p. 48). II,112-141 (vedi p. 70). II,317-332 (vedi p. 76). II,1013-1018 (vedi p. 98). I,817-822 (vedi p. 54).

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Oblio e riscoperta


Introduzione Un alter ego inconscio Il poema L’Acerba, di 4865 versi in sestine, offrì una visione naturalistica e materialistica dell’uomo e del mondo, inconsciamente affine a quella del De rerum natura di Lucrezio, e consciamente alternativa a quella teologica e dualistica della Commedia di Dante alighieri. L’Acerba rimase incompiuta per l’arresto e la condanna di Cecco da parte dell’Inquisizione. Il rogo avvenne a Firenze, di fronte a Santa Croce, nella stessa piazza dove oggi troneggia la statua del suo arcirivale Dante, sbeffeggiato nei versi riportati a destra. Cecco d’ascoli (1269-1327)

Gli eredi immediati

L’influenza di Lucrezio si fece sentire fin da subito, a partire dai due grandi poeti vissuti nei primi decenni dopo la sua morte (avvenuta verso il -50): implicitamente e silenziosamente in Virgilio (a sinistra), ed esplicitamente e vocalmente in Ovidio (a destra). 16


Da Lucrezio a Calvino Francesco Stabili, alias Cecco d’ascoli: un altro poeta maledetto, contemporaneo di Dante, ma umanamente e intellettualmente più coraggioso di lui, e dunque più sfortunato. La sua opera L’Acerba rimase infatti incompiuta, interrotta dal rogo appiccato a Firenze dall’Inquisizione il 16 settembre 1327, di fronte a Santa Croce. Prima che gli tagliassero le vene della fronte e lo bruciassero, nei suoi versi il poeta era comunque riuscito a meritare l’accusa di aver detto «cose infeste, orribili, sciocche, contrarie alla salute umana, eretiche, nemiche della verità cattolica». ad esempio, parlando nel libro I di eclissi, comete, venti, pioggia, grandine, tuoni, folgori, baleni, saette, terremoti e arcobaleni. Trattando nel libro IV di fisica, meteorologia, ottica, biologia animale, fisiologia e psicologia. Dedicando l’ultima sezione di quel libro al pensiero che «le favole non ci salvano». e sanzionandovi la differenza tra l’osservazione naturalistica e l’invenzione umanistica in questi versi: Qui non si canta al modo delle rane, qui non si canta al modo del poeta che finge immaginando cose vane. ma qui risplende e luce ogni natura che a chi intende fa la mente lieta. Qui non si gira per la selva oscura.12 Il contenuto de L’Acerba sembra modellato direttamente su Lucrezio. ma così non è, perché Cecco d’ascoli non poteva conoscere il De rerum natura. anzi, ai suoi tempi non lo conosceva nessuno: l’opera era andata perduta, e dell’autore erano rimaste solo notizie tanto vaghe, da far persino sospettare che non fosse neppure esistito, e si trattasse solo di uno pseudonimo. Forse di Cicerone che, oltre ad aver curato la pubblicazione postuma del poema, era stato l’unico contemporaneo a citare il nome di Lucrezio, descrivendo il suo libro, in una lettera al fratello del febbraio -54, come «pieno di splendido ingegno, ma anche di dottrina». Il De rerum natura aveva esercitato privatamente una grande influenza sulla letteratura latina, nonostante una “congiura del silenzio” pubblica causata dalle sue scabrose posizioni filosofiche. Virgilio non cita mai Lucrezio per nome, ma secondo le Notti attiche13 di aulo Gellio egli «vi prese non solo parole isolate, ma parecchi versi quasi per intero». Nei suoi Amori,14 invece, Ovidio dichiara apertamente: «I versi del sublime Lucrezio sono destinati a perire soltanto il giorno della fine del mondo». 12 13 14

IV,4669-4674. I,21,7. I,15,23.

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Introduzione I riscopritori rinascimentali

Poggio Bracciolini (1380-1459)

Sandro Botticelli (1445-1510)

Nel 1417 ritrovò un manoscritto dell’opera perduta di Lucrezio, in un monastero tedesco. Per la sua biografia, e l’avventurosa storia del ritrovamento che gli diede la fama, vedi Stephen Greenblatt, Il manoscritto. Come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea (rizzoli, 2012).

Nella sua interpretazione del rinascimento italiano, alla corte dei medici, fu influenzato dalla visione naturalistica di Lucrezio. Due delle sue opere più famose, la Primavera del 1478 (p. 214) e la Nascita di Venere del 1485 (p. 29), sono direttamente ispirate a versi del De rerum natura.

Gli eredi moderni

Niccolò machiavelli (1469-1527)

Per uno studio delle alterne fortune del poema nei secoli, vedi Lisa Piazzi, Lucrezio. Il “De rerum natura” e la cultura occidentale (Liguori editore, 2009). molière (1622-1673)

michel de montaigne (1533-1592)

Denis Diderot (1713-1784)

Giacomo Leopardi (1798-1837) 18


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