SPORT Kitesurf: Lou Wainman e Niccolò Porcella
PEOPLE Anno I - trimestrale - Ottobre 2011
Gianfranco “Bobo” Reboldi
STORIE Noleggio Lorini
ECOFASHION MomaBoma Style
SICURLIVE Ricerca e Sviluppo
SICURZONE Voglia di sicurezza
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Kairòs si fa promotrice in prima persona del rispetto ambientale con la coraggiosa scelta etica di stampare l’intera rivista su carta FSC certificata, ovvero proveniente da foreste correttamente gestite, controllate e da legno e fibre riciclate.
Cert. No. CQ-COC-000010
INDICE
La scuola della vita
KAIROS • 3
Presidente Giovanni Buffoli Editore ECOnvention S.r.l. Via Croce Coperta, 11 40128 Bologna (BO)
EDITORIALI
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LA SCUOLA DELLA VITA di Giovanni Buffoli
TRAVEL
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LA GUADALUPA di Giancarlo Roversi
SPORT
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LOU WAINMAN E NICCOLÒ PORCELLA A CONFRONTO di Roberta Filippi
LINK, HUB E LE LEGGI DI POTENZA di Lamberto Cantoni
FOOD
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STEFANO BAIOCCO EXPERIENCE di Blue G.
Direttore Responsabile Lamberto Cantoni Direttore Editoriale Roberta Filippi r.filippi@kairosonline.it Marketing Editor Marcella Tusa m.tusa@kairosonline.it
ALIMENTAZIONE
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TECNOLOGIA
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FASHION
ZAFFERANO DI POZZOLENGO di Blue G.
GRAPE CLEANING UNIT AGRITURISMO LE PRESEGLIE di Lamberto Selleri
MARIO TESTINO di Lamberto Cantoni
ARTE
MOSTRE
ARTISTI
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ECOFASHION
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MOMABOMA STYLE di Antonio Bramclet
Advertising Editor commerciale@kairosonline.it Reporters Antonio Bramclet, Simona Gavioli, Sara Guidi, Giancarlo Roversi , Lamberto Selleri, Anna Serini
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ROUND THE CLOCK di Simona Gavioli
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LA NATURA MORTA TRA MERAVIGLIE E SPIRITUALITÀ di Antonio Bramclet
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STORIE
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CARLOALBERTO TRECCANI di Simona Gavioli
NOLEGGIO LORINI di Roberta Filippi
EVENTI
SICURLIVE GROUP 78
Art Director Francesca Flavia Fontana Redazione Via Croce Coperta, 11 40128 Bologna (BO) Stampa Varigrafica Alto Lazio s.r.l. Via G. Bettolo, 39 00195 Roma
PEOPLE
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GIANFRANCO REBOLDI di Roberta Filippi
Reg. al Trib. di Bologna N° 8190/7/06/2011
RUBRIKA ARTICOLI IN PILLOLE di Marcella Tusa
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LA FORMAZIONE...QUESTA SCONOSCIUTA! di Giovanni Matteazzi
In copertina:
Gianni Moretti, Monumento al mantenimento delle regole della casa Courtesy Changing Role Gallery, Napoli
SICUREZZA
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INAUGURAZIONE NUOVI UFFICI
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SICURLIVE • SICURLIVE SYSTEM SICURZONE • EDILSERVIZI
Una delle risorse più importanti per la nostra vita è la capacitazione ad apprendere nuove conoscenze senza soluzioni di continuità. La nostra mente sembrerebbe fatta per incapsulare nel cervello in forma di concetti, ricordi o emozioni, frammenti di esperienze in costante divenire. Anche la vita lavorativa dovrebbe essere una fonte inesauribile di esperienze e conoscenza. Detto in questi termini suona bene, forse troppo. Ma sappiamo benissimo tutti che ciò che abbiamo imparato lo dimentichiamo in fretta e che c’è una grande differenza tra subire gli effetti di un evento e apprendere qualcosa di essenziale da un’esperienza inattesa. Apprendere significa arricchire gli stimoli dell’esperienza con i prodotti tipici della mente: teorie, procedure, regole, valori. Una mente che apprende è una macchina computazionale che restituisce (output) a livello di realtà molto di più di quanto sembrerebbe connesso con i dati bruti dell’esperienza (input). Il vero apprendimento cambia il nostro modo di approcciare la realtà e per certi versi ci aiuta a cambiarla in meglio. E’ impossibile non fare mai errori; ma possiamo correggerli e correggere i nostri comportamenti. Imparare dai nostri errori, per evitarli o non ripeterli… Ecco una eccellente definizione pratica di apprendimento. Uno dei settori nei quali un apprendimento di questo tipo dovrebbe essere fondamentale è il comparto sicurezza. Infatti, nel mondo del lavoro, ci sono esperienze che affrontate da sonnambuli presuntuosi potrebbero costarci molto care. Soprattutto nel settore edilizio lavorare in sicurezza è una questione che con un po’ di enfasi potremmo definire, salvavita. Ma, malgrado queste evidenze, di solito l’addestramento alla sicurezza riceve poca attenzione. Troppe persone prendono decisioni o affrontano contesti gravidi di rischi, come se bastasse la sola esperienza a far maturare le procedure corrette. Purtroppo la realtà dei numeri sugli incidenti di lavoro ci racconta un’altra storia, molti più triste e problematica. È necessario dunque cambiare in fretta una mentalità sbagliata e, passatemi l’espressione, si incomincia sempre dalla cultura (in questo caso del lavoro e della sicurezza). Ecco perché con la mia azienda mi sono impegnato a valorizzare l’addestramento alla sicurezza sul lavoro creando una nuovo centro di formazione. Nelle pagine interne di Kairòs troverete un’ampia presentazione della nuova struttura. A me premeva spendere due parole sull’architettura cognitiva che guiderà i nostri corsi. In primo luogo, nei corsi che proporremo, il livello delle conoscenze operative non potrà essere separato dalla loro pratica. Il ruolo della sperimentazione sarà quindi fondamentale per l’addestramento. L’oggetto centrale per la nostra didattica sarà far maturare nei soggetti l’importanza del comportamento in sicurezza (in contesti eterogenei). L’idea di fondo è che il comportamento (corretto) dipenda dalle strutture delle conoscenze e i loro correlati, evidenziati dalla pratica che simulerà le situazioni di lavoro. Partendo dallo spazio dei problemi e alla loro sperimentazione dovremmo arrivare al cambiamento radicale di organizzazione concettuale del lavoro capace di visualizzare gli eventuali rischi e, ovviamente, di evitarli. In tal modo immaginiamo di trasformare un novizio del lavoro in un esperto capace di trasmettere ad altri le procedure sulle quali conviene adeguarsi.
Giovanni Buffoli Presidente Kairòs
EDITORIALE
Anno I – N°2 – Ottobre 2011
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La nostra attività sociale ed economica è riformulabile concettualmente attraverso la metafora della rete. Crescere significa aumentarne i nodi rendendo sempre più complessi i nostri rapporti sociali. Ma le reti non sono oggetti statici, possono trasformarsi, crescere, disgregarsi. L’analisi della loro dinamica è un settore della ricerca in rapido sviluppo. Se osservate da una certa distanza, le attività che ci consentono di far crescere una azienda, il nostro capitale sociale e noi stessi, vi appariranno come il risultato di una fitta ragnatela di link che ci connettono a soggetti e strutture differenziati. Senza queste reti non sarebbe possibile nessuna reale attività di crescita e persino di sopravvivenza. Tuttavia quasi sempre la loro intricata trama le rende troppo complesse per le possibilità di razionalizzazione del senso comune, risultando così praticamente invisibili al nostro sguardo. Siamo propensi dunque, a definire casuali molti dei link che ci connettono con le varie fonti di risorse necessarie alle nostre attività. Ma è proprio vero che queste reti sono casuali? Non esiste nessun principio organizzativo che le governi? Come si comportano le reti nel mondo reale? Fino a dieci anni fa, a queste domande i ricercatori seri avrebbero risposto che semplicemente non andavano poste. Oggi, grazie alle scoperte scientifiche ordinate sotto l’etichetta della teoria delle reti sappiamo che i link e le reti reali hanno una dinamica molto diversa da quella prevista dai modelli basati sulla casualità. Cosa ci suggerisce di utile l’attuale teoria delle reti? Prima di tutto devo precisare che la comunicazione e il marketing sono facilmente riformulabili nei termini di costruzioni di reti. In altre parole, la nostra attività o azienda può sopravvive e crescere, grazie alla possibilità che abbiamo di metterci in rete (con il sociale, con il mondo economico, con
le istituzioni…). Che cosa significa in concreto? Significa che le condizioni del suo mantenimento dipendono da una gerarchia di hub, dove a nodi altamente connessi fanno seguito parecchi altri nodi meno connessi, seguiti a loro volta da nodi ancora più piccoli. Alcuni di questi nodi ci vedono protagonisti e quindi ci danno la percezione di un ordine. Tuttavia nodi che generano o dipendono da altri nodi diventano presto invisibili e sfuggono al nostro controllo. Vista nella sua complessità la tela delle nostre relazioni ci dice che non c’è nessun nodo centrale in grado di controllare ogni link A questo livello di realtà gli esperti definiscono la tela una rete ad invarianza di scala. In essa la nostra presunta leadership conta meno dell’autorganizzazione prevista dalla loro evoluzione. Insomma, facciamo progetti, prendiamo decisioni, aumentiamo le reti che ci consentono di crescere per ritrovarci in una tela senza il ragno. Cosa ci guadagniamo? So bene che siamo tutti affezionati alla struttura ad albero ovvero alla catena tipica di comando dell’organizzazione militare o delle società finanziarie. Si tratta di un modello che ci fa immaginare un facile controllo degli effetti desiderati. Infatti, controllo, per chi deve esercitare una qualche forma di leadership significa decidere e osservare se l’azione intrapresa ha risolto il problema che l’aveva imposta. Ma cosa succede quando le azioni sono tantissime e a loro volta ne scatenano altre da noi non previste, che allungano la rete alla quale siamo legati? Possiamo certo dire semplicemente che, da una certo punto in poi, abbiamo perso il controllo. Ma non per questo la rete scompare. Come ricordavo all’inizio, secondo la teoria che sto citando, a questo livello, la rete ha assunto la forma di una ragnatela autorganizzata senza ragno, una rete tenuta insieme da una gerarchia di hub. A questo punto non dobbiamo fare l’errore di equiparare la complessità alla casualità. Anche
se l’architettura delle nostre reti non ci permette l’azione risolutiva, comprenderne la complessità può fornirci una visione feconda. Per esempio la trama delle comunicazioni implicita nelle reti complesse che abbiamo creato può scatenare la viralità di numerosi processi che moltiplicano gli effetti da noi desiderati. Pensate al travolgente successo dell’i-pad oppure, in negativo, alla catena di eventi che segna il crollo delle borse finanziarie, al virus informatico che da un computer si trasmette ad altre decine di migliaia di desk top. Imparare a pensare le reti, capire come emergono e che aspetto hanno, in che modo evolvono in una mondo aperto come l’attuale è una sfida che dobbiamo raccogliere. Secondo le teorie di Albert-Lazlo Barbasi uno dei massimi esperti di questa nuova branca scientifica, autore di un pregevolissimo Link (ed. Einaudi), le reti nel mondo reale, danno spontaneamente origine a modelli di invariata di scala, la cui crescita è governata dalla sottile e imprescindibile legge del collegamento preferenziale. Crescita e collegamento preferenziale fanno emergere hub e le leggi di potenza che ci aiutano a comprendere l’ordine matematico che sovrasterebbe fenomeni altrimenti imperscrutabili come, il dilagare di una epidemia virale, l’altalena dei mercati azionari, le reti terroristiche, l’attacco di un pirata informatico via e-mail. Quindi le cosiddette leggi di potenza esprimono in termini matematici il fatto che nel mondo reale la maggioranza delle nostre interconnessioni ha solo pochi link, ma questi piccoli nodi (pensate alla relazione con qualcuno o alla vostra e mail diretta ad un amico) coesistono in pochi grandi hub (per esempio nel data base della vostra e sua posta elettronica sotto il registro di “relazioni di lavoro”) dotati di un numero a volte eccezionale di altri link. Ogni singolo link o e mail non ci garantisce il senso di una relazione. L’annodamento di varie e-mail (chiamiamolo
un hub) ci permette invece il controllo dello stato dei lavori. Ora non possiamo isolare un singolo nodo dicendo che rappresenta tutti gli altri. In altre parole le reti che costruisco non hanno un andamento a scala. Possiamo solo osservare delle gerarchie continue di nodi raccolti in hub per noi significativi. La nostra vita professionale, in un mercato in continua trasformazione, si trova frammentata da ondate informazionali alle quali può reagire solo grazie ad una flessibilità che non ha precedenti nella storia dell’uomo. Il carattere emergente di questa riorganizzazione dovuta al bisogno di resilienza e duttilità è il passaggio da un’organizzazione (di lavoro e vita) impostata ad albero a configurazioni reticolari (gruppi di link che si incrociano fra nodi). Ora, è importante sapere che le reti nelle quali finiamo imbrigliati non sono casuali, non sono statiche, non hanno una topologia a stella (con noi o i nostri interessi al centro), bensì sono allacciate da una gerarchia di hub, formato da nodi fortemente connessi, seguiti da altri nodi meno connessi a loro volta dipendenti da altri nodi sempre più piccoli. Non c’è un nodo centrale dal quale dipendono tutti gli altri; non c’è un nodo la cui rimozione possa disintegrare tutta la rete. Dietro le rete non c’è un singolo progetto bensì auto organizzazione ovvero, azioni indipendenti di molteplici nodi e link danno luogo a uno spettacolare comportamento emergente, del quale forse possiamo conoscere, grazie alle leggi della crescita della teoria delle reti, i probabili esiti.
Lamberto Cantoni Direttore Responsabile Kairòs
EDITORIALE
Link, hub e le leggi di potenza
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Una farfalla dai colori smaglianti: la Guadalupa. Se il paradiso non è questo…
PH. Philippe Giraud by courtesy of Comité du Tourisme des Îles de Guadeloupe
Se in Paradiso gli angeli si dilettano davvero a suonare la cetra, i loro concerti celestiali non devono essere molto dissimili dalle armoniose melodie che ogni notte in Guadalupa vengono intonate da un’orchestra sterminata di misteriosi animaletti, le rane canterine dei Caraibi, nascoste nel buio fra la verzura. Al confronto il grillo nostrano con le sue nenie monocordi e tediose fa la figura del suonatore di organetto di strada. Quelli dei ranocchietti delle Antille sono canti suadenti, modulati da mille tintinnii, ognuno con un timbro e un’intensità musicale differenti come se fossero orchestrati da migliaia di strumenti a percussione, da marimbe o xilofoni. Canti che si spandono nell’aria e pervadono ogni angolo dell’isola, dalle coste alle montagne, mescolandosi con lo sciacquio delle onde e il fruscio del vento e sovrastando ogni altro rumore per cullarti dolcemente nel sonno. Come quelli che di sera danno il benvenuto e avvolgono tutta la notte i dintorni dell’Auberge de la Vieille Tour, situato in riva al mare nella tranquilla cittadina di Gosier, a breve distanza da Point-a-Pitre e dal suo moderno aeroporto su cui Air France effettua confortevoli collegamenti con Parigi da Orly. Ma, fortunatamente, da ottobre, anche con voli direttamente dal Charles De Gaulle per potere approdare in meno di 9 ore in un inestimabile lembo di Francia d’oltreoceano, le Piccole Antille con le loro sfolgorantifavolose di Guadalupa, Martinica, Saint Martin, Saint-Barthèlemy. E con le loro perle minori: la Petite Terre, Marie Galante, la Desirèe e il piccolo arcipelago de Les Saintes, una delle baie più belle del mondo. Questo è il regno del sole, dell’estate inestinguibile, dei colori
TRAVEL
di Giancarlo Roversi
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sgargianti, dei fiori dai mille cromatismi, del verde intenso della vegetazione che si sposa con le infinite tonalità d’azzurro del mitico Mar dei Caraibi. La nostra meta è la Guadalupa, un’isola con una marcia in più rispetto ad altri paradisi tropicali. Un’isola che fa sentire a casa propria chi arriva dal vecchio continente, non solo per la lingua, il francese, ma per il garbo della gente e l’eleganza dei negozi, il bon ton dell’ambiente e l’atmosfera d’insieme, un curioso mix di raffinatezze e suadenze francesi e di tinte vivaci tipicamente creole che si riverbera anche nella splendida cucina di questo lembo di pianeta. In più, per completare il quadro attraente, per spendere si usa l’euro, la moneta unica europea perchè la Martinica è un dipartimento d’Oltremare della Francia. Fa una certa impressione trovarsi ai tropici e fare shopping con gli euro come nel negozio sottocasa. La traversata aerea dell’Atlantico avviene quasi senza accorgersene, grazie alle premure del personale di bordo di Air France e alle stuzzicanti proposte del menù, specie quello a base di specialità creole. Dopo circa 8 ore di volo si atterra nell’aeroporto di Point-à-Pitre, la graziosa capitale della Guadalupa, così ribattezzata da Cristoforo Colombo che la volle dedicare alla Madonna spagnola venerata in Estremadura. I nativi caraibici la chiamavano Karukera, “la terra dalle belle acque” e con ragione grazie alla stupefacente tavolozza di colori che si riverberano lungo le coste, nei fiumi, nei torrenti, nelle cascate e laghi interni. E che danno all’isola l’aspetto di uno smeraldo incastonato nel mare dei Caraibi e incorniciato da 70 km di spiagge di sabbia finissima protette dalla barriera corallina (fantastica quelle di Deshaies, la più bella delle Antille profilata da palme e mandorli tropicali, e quella di Gosier, bordata di dune di un bianco abbagliante). Vista dall’alto ha l’aspetto di una grande farfalla con le ali spiegate che separano la Grande e la Basse-Terre, due mondi differenti e tutti da scoprire in un impressionante alternarsi di panorami emozionanti su alte montagne, colline, valli, calette nascoste, scogliere a capofitto sul mare, lagune, piantagioni di banane e di canne da zucchero. Elettrizzante la visita alla capitale, Pointe-à-Pitre, e ai suoi mercati per acquistare capi d’abbigliamento, specialità a base di cannella, vaniglia, zenzero, frutta tropicale e, ovviamente, il rhum e il ponce, uno straordinario mix di rhum e frutta tropicale (inebriante quello col frutto della passione!).
LE SOSTE DEL GUSTO Numerosi sono i ristoranti che propongono una ricca scelta di tentazioni enogastronomiche. Ne consigliamo tre. Anzitutto il “Karacoli” a Deshaies sulla superba spiaggia di Grande Anse, dove ci si può deliziare non solo gli occhi con la splendida vista sul mare, ma anche il palato grazie a una fantastica sequenza di piatti di pesce sia tradizionali che rivisitati (magnifico il polpo in guazzetto!). Premuroso il servizio a tavola e amabile l’accoglienza della proprietaria che vi fa sentire subito come a casa. Poi l’“Hôstellerie de Châteaux” nella bella stazione turistica di SaintFrançois non lontana dalla Pointe des Châteaux all’estremità orientale della Grande Terre e vicina alla deliziosa spiaggia di S.Anna e all’incanto del Toubana Hotel & Spa con magnifica vista sul complesso del Club Med. Infine, in mezzo al verde e ai fiori a St-François, la “Caféière Beaséjour” situata in cima a una collina boscosa con annesso Museo del Caffè e ottime miscele di arabica coltivata nell’isola. E tutt’attorno piantagioni di caffè e percorso didattico lungo i valloni alla scoperta di stupendi alberi e frutti tropicali.
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Per un delizioso soggiorno c’è il confortevole “Auberge de la Vieille Tour” a Gosier (www. auberge-vieille-tour.hotel-rn.com) con una splendida vista sui Caraibi e un’ottima cucina tradizionale e creativa. Chi desidera rilassarsi con massaggi e trattamenti di remise en forme nel cuore di una rigogliosa foresta tropicale può approdare alla Spa dell’Hotel Tendacayou non lontano dalla seducente spiaggia della Grande Anse Deshaies (www.tendacayou.com).
INFO: ENTE NAZIONALE FRANCESE PER IL TURISMO Via Tiziano, 32 20145 MILANO www.franceguide.com COMITATO PER IL TURISM DELLE ISOLE DELLA GUADALUPA 5, square de la banque 97166 Pointe-à-Pitre www.lesilesdeguadeloupe.com AIR FRANCE Tel: 848.88.44.66 www.airfrance.it
Tante le attrattive che la Guadalupa offre non va persa l’escursione in barca alla scoperta del “Gran cul de Sac Marin” con gli atolli di mangrovie di Fajout e La Biche e l’incantevole isolotto di Caret ombreggiato da una dozzina di palme solitarie. Senza dimenticare la spettacolare “Cascade aux Ecrevisses” su un fiume impetuoso, dove si può fare un bagno tonificante sotto la cascata. Ma soprattutto bisogna cimentarsi nell’emozionante e vertiginosa passeggiata sugli alberi della foresta tropicale di Canopée attraverso un percorso di ponti sospesi e oscillanti all’interno del parco zoologico e botanico delle “Mamelles”. Da visitare anche, nella parte a nord della Basse Terre, il Parco Nazionale, (il settimo di Francia) e tanti giardini botanici tra cui lo strepitoso parco floreale del “Domaine de Valombreuse” dove è possibile sostare a tavola per gustare i deliziosi piatti creoli con sfumature francesi. Assolutamente da non perdere la traversata del braccio di mare che in meno di un’ora porta a “Les Saintes”, un gruppo di nove isolette sperdute nei Caraibi, a 15 km a sud della Guadalupa, che formano la bellissima baia di “Anse du Bourg”, considerata una delle tre più belle del mondo, una sorta di piccola Rio de Janeiro col suo Pan di Zucchero. Scoperta da Cristoforo Colombo il 4 novembre del 1493, è abitata solo nelle due isole principali (poco più di 3000 abitanti), Terre de Haut e Terre de Bas, collegate con un traghetto. L’atmosfera serena che si gode a Les Saintes è soffusa di incantesimo. Per goderla appieno si può girare a piedi, in bicicletta o in scooter, sostando su spiagge scintillanti e solitarie con scorci indimenticabili. Per gli appassionati di immersioni Les Saintes rappresentano un vero paradiso, i siti d’immersione sono considerati tra i più belli dell’arcipelago della Guadalupa. Dal forte napoleonico, che si erge in cima a una collina, magnifica vista panoramica su tutte le isole delle piccole Antille fino a Marie Galante, una meraviglia galleggiante nel mare dei Caraibi che merita assolutamente una visita grazie a un comodo aliscafo che in una quarantina di minuti la collega alla Guadalupa. E’ un lembo di terra verdissimo e poco antropizzato, neppure sfiorato dal turismo di massa, un regno della quiete che dona sottili sensazioni di benessere e distensione e che possiede una ricchezza incredibile di spiagge tropicali deserte e invitanti, com’è raro trovare.
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Lou Wainman e Niccolò Porcella a confronto
Il kitesurf raccontato, in un’intervista doppia, dalla leggenda Lou Wainman e dalla star nascente Niccolò Porcella di Roberta Filippi
SPORT
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Appena decisi di scrivere un articolo sul kitesurf avevo già ben chiaro chi sarebbero state le persone che avrei voluto intervistare: Lou Wainman e Niccolò Porcella. Il primo un guru del kite che inizia a praticare questo sport proprio quando il kitesurf nasce. L’altro, molto più giovane, è una vera spugna nell’apprendere tutto ciò che il suo maestro gli tramanda. È da quando Niccolò ha 12 anni che Lou lo segue e gli insegna tutte le tecniche che lo hanno reso così grande ma soprattutto gli trasmette la filosofia del kite, il suo kite. L’origine del kitesurf è ben più antica di quello che comunemente si potrebbe pensare. Sembra risalga addirittura agli inizi del XIX secolo quando George Pocock, insegnante inglese inventore del “Charvolant” usava aquiloni di grandi dimensioni per spingere veicoli sulla terraferma, sulla neve, sul ghiaccio o sull’acqua, arrivando a progettare, per controllare l’aquilone, un sistema a quattro cavi, lo stesso usato oggi. Potremmo anche ipotizzare che il kite era già un embrione nella Cina del XII e XIII secolo quando l’aquilone serviva per spostare canoe nella Cina del XII e XIII secolo. Ma forse è una forzatura inutile. Certo è che un secolo dopo Pocock, Samuel Cody, pioniere dell’aviazione, sviluppò il suo progetto “man-lifting kites” e riuscì nell’impresa di attraversare la manica sostenuto dalla forza di aquiloni. Decisivo fu negli anni settanta lo sviluppo delle fibre di Kevlar e Spectra che permisero di realizzare cavi per il sistema di controllo degli aquiloni più efficienti. Ma bisognerà aspettare il 1984 per poter parlare del kite moderno. Certamente molto si è disquisito e molto si sta disquisendo su chi ha inventato il kitesurf come lo conosciamo noi oggi. Certamente sono state fatte numerosi interventi sia per sviluppare al meglio le nuove tecnologie e i progetti che di anno in anno si fanno sempre più interessanti. Non possiamo però pensare che il kite non sia uno sport pericoloso. Per tal motivo - e dopo numerosi incidenti mortali verificatisi in tutto il mondo le aziende produttrici hanno iniziato a lavorare sulla sicurezza sperimentando e brevettando sistemi per lo sgancio rapido del kite e per il suo miglior controllo in ogni situazione. Ma indubbiamente poter chiedere a chi il kite lo ha visto nascere e lo pratica regolarmente tutti i giorni di raccontarci alcuni aneddoti non è di certo comune. Vorrei pertanto che fossero le parole di questi due water man a raccontare la sua storia e di come il kitesurf sia diventato uno sport così in voga.
Come ti chiami e quanti anni hai? Lou: Lou Wainman, 37. Niccolò: Niccolò Porcella, 23. Dove vivi? Lou: Vivo qui a Maui (Hawaii, n.d.r.) da 14 anni ed amo quest’isola, vorrei sempre avere una base qui perché mi sento come un seme nella terra fertile. Amo però fare qualche viaggio all’anno in giro per il mondo nelle local. Niccolò: Anche io vivo a Maui da quando avevo 12 anni e viaggio. Sei sposato, fidanzato o single? Lou: Sposato con mia moglie Jill da 3 anni ed ho una bellissima figlia di 2 anni Lily. Niccolò: Bello single. A quanti anni hai iniziato a praticare kite e come ti sei avvicinato a questo sport? Lou: Sono venuto a Maui per praticare il Windsurf quando avevo appena compiuto 22 anni ma ho scoperto questo tipo di kite con un’ala, dei cavi di 40m e una barra che praticamente ti trascinava giù x la costa. Mi sono subito innamorato e ho cercato di far si che lo sport diventasse un lavoro oltre che uno stile di vita: il kiteboarding. Niccolò: La primissima volta che vidi il kite avevo 11 anni in Sardegna durante un evento chiamato Aquilandia dove Flesh Austin era l’invitato speciale dalle Hawaii. Lì mi sono interessato tanto anche se non era riconosciuto come sport a tutti gli effetti. Un anno dopo mi trasferii a Maui dove casualmente un giorno vidi il film “High” della Tronolone Productions in cui il mito, il Dio del kite era Lou Wainman. Da quel giorno mi sono detto che il kite è il mio sport, questo è il mio sogno… e mi ero anche detto che sarei voluto diventare il fratellino di Lou ed un giorno essere bravo quanto lui. Da quando hai iniziato a praticare questo sport ad oggi cosa è cambiato? Lou & Niccolo: Diciamo che lo sport è migliorato e cresciuto in tanti i punti di vista. Sul kite, dal materiale allo shape del kite, alle lunghezze delle linee, le barre, le tavole… Diciamo che lo sport è esploso e diffuso in tutto il mondo e adesso ci sono migliaia di persone in giro per il mondo che vivono per questo… L’unica cosa che non è cambiata e l’entusiasmo che abbiamo sempre avuto e – speriamo - sempre avremo per questo sport così divertente. Spesso si crede che la bravura del kiter si misuri in base all’altezza che lo stesso kiter raggiunge. Sei di questa idea
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in questa pagina: Lou Wainman e Niccolò Porcella. nelle pagine precedenti e nella pagina successiva: Niccolò Porcella durante alcune evoluzioni
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o ci sono altre abilità? Lou & Niccolò: Secondo noi, alla fine della giornata, chi si sta divertendo di più e ha il “sorrisone della gioia” è sempre il migliore. Quante ore ti alleni al giorno? Lou: dipende da come mi sento fisicamente e dal meteo. Comunque diciamo che quando le condizioni sono buone dalle 2 alle 5 ore. Niccolò: La stessa cosa vale per me: certe volte esci tutti i giorni un paio di ore ma certe volte non esco per una o due settimane.. Ma se non sto uscendo in kite rimango sempre molto attivo in surf, in SUP, in Tow-in, body surf, Acrobatic martial arts, Muhai-Thai Jujitsu, mountain bike, corsa, nuoto… e la lista continua. Diciamo che non amo rimanere fermo ad aspettare le condition… Lou, ormai Wainman Hawaii è un marchio internazionale. Come è nato questo brand e come si è – e si sta – sviluppando in tutto il mondo? Lou: Da quando mi sono innamorato del kite ed è diventato il mio lavoro, ho sempre avuto il sogno di avere la mia compagnia di kite. Erano ormai 10 anni che ne parlavamo io, Niccolò e Franz (Orly n.d.r.). Volevamo avere la possibilità di esprimere la nostra visione al 100%. 4 anni fa conobbi Mike (“Husky” Przeciechowski n.d.r.) e Mark (Tylicki n.d.r.) - gli altri 2 proprietari della compagnia - e diciamo che siamo cresciuti e diffusi in tutto il mondo abbastanza velocemente. Il logo Wainman da cosa è stato ispirato? Lou: Dal mio tatuaggio dietro la schiena. Mi è sempre piaciuto sin da piccolino questo marchio. Poi mi sono fatto il tatuaggio e ho pensato che sarebbe veramente bello averlo come un logo per la mia compagnia di kite e magari, un giorno, di vestiti. Ancora oggi si avanzano dubbi e perplessità su chi è stato il primo vero kiter e forse a questa domanda non si può rispondere facilmente. Tu come hai vissuto le origini e a chi attribuiresti la paternità del kite e perché? Lou: Posso dire sicuramente Cory Roeseler. È stato il primo, quello che ha fatto vedere a tutti noi che con il kite si può andare in acqua… è lui a cui, mi sa tutti noi kiter dell’inizi, attribuiamo di più. Niccolò, tu, nonostante la giovane età, hai già raggiunto traguardi importanti. Quale è stata la tua soddisfazione più grande? Niccolò: Essere stato il primo e l’unico sino a oggi ad avere due copertine consecutive con la rivista più importante di kite
chiamata Kiteworld in due discipline diverse. Quando ho ricevuto la notizia della seconda copertina e di avere fatto storia in questo sport non ci credevo… era più di un sogno realizzato. Se non sbaglio hai origini italiane… Dove hai conosciuto Lou? Niccolò: A dir la verità sono nato a Maui, cresciuto 12 anni in Sardegna e poi sono ritornato a Maui. Avevo appena 12 anni e 6 mesi quando incontrai Lou giù in spiaggia a kitebeach. Qual è l’episodio, in merito al kitesurf, che ti ricordi con più emozione? Lou: Il primo viaggio che avevo fatto da professionista in Oregon. Era la prima volta che facevo una manovra nuova in un posto dove non sono mai stato. Niccolò: La prima volta che ho fatto un tubo in kite in un posto molto remoto in Australia dove cerano più squali e canguri che persone. Hai mai avuto paura mentre ti trovavi in acqua? Lou: Si, qualche volta è normale avere paura ma diciamo che è parte del gioco Niccolò: E sì, è parte del gioco e parte della vita superare le paure.. Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Lou: Continuare a migliorare i prodotti della compagnia, ed inventare nuovi sport giochi per noi bambini ed adulti. Niccolò: Esplorare il mondo creando immagini e filmati sempre più intriganti (e forse presto) mi vedrete in un film d’azione al cinema. Se non fossi Lou Wainman/Niccolò Porcella chi ti piacerebbe essere e perché? Lou: Hellboy perché a me piace scartavetrare molte cose Niccolò: Un pesce volante perché posso volare sia in aria che sott’acqua Quale consiglio vi sentite di dare a coloro che vogliono avvicinarsi a questo sport? Lou & Niccolò: Fare almeno un paio di lezioni di base, guardare filmati a casa ed andare in acqua il più possibile. E quale suggerimento vorreste dare ai kiters italiani? Lou & Niccolò: Venite a Maui e aprite un bel ristorante pizzeria fatto bene come in Italia. Vi assicuriamo che avrete successo. Ringrazio Lou e Niccolò per questa intervista e, guardandoli volteggiare in acqua, mi chiedo se mai anche io avrò il coraggio di infilare l’imbragatura e farmi guidare dal vento.
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Passione, Curiosità e Amore nella cucina delle meraviglie di Stefano Baiocco di Blue G.
In apertura: I porcini tagliati in fini lamelle, misticanza d’autunno e gelato al Parmigiano in questa pagina: Villa Feltrinelli
Quante volte, da bambini, dopo essere stati seduti sulla terra umida a leggere le fiabe, correvamo a strappare le erbette e ad annusarne il profumo pensando che quell’odore potesse assomigliare al bosco delle delizie gastronomiche dov’era stata costruita la “dolce” casetta della strega in Hänsel e Gretel. E quante, siamo stati puniti dalle nostre madri per aver mangiato le violette del fosso o i fiorellini rossi del vaso della nostra vicina. Che emozione raccoglierle e annusarle, sentirle al tatto e lasciare che abbandonassero il loro colore sui nostri vestiti, che penetrassero con i loro odori i nostri nasi, per poi, furtivamente entrare, dritte dritte, in bocca, o magari trasformarsi con l’ausilio dell’ingegno, nel “the dei Matti” in Alice del Paese delle Meraviglie. C’è sempre stato, un momento, da piccoli, quando, avvolti nella lettura, avremmo desiderato trovarci in mezzo ad un sentiero piccolo e percorrerlo avidamente con il nostro cestino di vivande da Cappuccetto Rosso. Con il cuore in gola, il passo rapido e la smania infantile, gridavamo al nostro Io di andare più veloce per poter arrivare prima, perché si aprisse in fretta quella porta, perché quel luogo in cui i sogni si avverano, potesse finalmente essere tangibile e non una semplice visione. Da bambini pensavamo che le favole fossero il cammino verso una realtà incantata, un mondo solo nostro che ci conduceva alla serenità, un rifugio magico per spodestare il male di non essere compresi. Da grandi non abbiamo perso la voglia di sognare, l’abbiamo solo accantonata un istante per cercare luoghi che ricordino quelli descritti sui libri che leggevamo solitari, seduti sotto ad un cipresso. Da adulti ci siamo resi conto che il “The dei Matti”, il cestino di Cappuccetto Rosso e la casetta di Hänsel e Gretel possono essere racchiusi al di là di un cancello, di un muro, di una fortezza, di una villa o, forse, di una cucina, e che è sufficiente prendere il coraggio tra le mani per poter saltare, avanzare, o semplicemente farsi aprire. Sono cosi approdata a Villa Feltrinelli, suonando il campanello, chiedendo permesso ed entrando dall’ingresso principale. Questa sfavillante residenza fu il luogo in cui il Duce trascorse gli ultimi mesi della sua vita. Una villa ottocentesca dal fascino disarmante, quasi da togliere il fiato, in cui si respira il connubio tra passato e presente, dove lo stile liberty va a braccetto con il finto gotico e l’eleganza regna sovrana insieme al gusto estetico, che pare aver messo radici ben salde. Proprio qui, dove lo sguardo si perde nell’infinito orizzonte del lago di Garda, dove la natura, la bellezza e la storia ci lasciano a bocca aperta, il verde del prato
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Nella pagina accanto: “una semplice insalata” in questa pagina: dall’alto Cervella di coniglio brasate, pan fritto e consomme’ di cipolla; Chele di scampo crude con sorbetto alla mela verde, fiori di basilico e pepe di sansho
bacia l’architettura imperante e la vista ci riempie di immagini mai scorte prima. In questo paradiso sensoriale, dove tutto rasenta la perfezione non poteva che essere il senso del gusto, a chiuderne il cerchio e il giovane chef Stefano Baiocco a detenere le chiavi, non della porta dell’Eden, bensì della sua paradisiaca cucina. Stefano Baiocco, classe ’73, chef Executive a Villa Feltrinelli dal 2004 vanta un curriculum che lascia attoniti, nel suo percorso passa tra le cucine di Pinchiorri, Ducasse, Gagnaire, Roca, Aduriz, Adrià, e altri chef “stellati”, non c’è quindi da stupirsi se già da alcuni anni abbia preso “la stella Michelin”. La sua cucina è pulita, netta, leggera, è erotica e implosiva, è sensuale e ricercata nella sua semplicità, è un condensato di saperi e ricerche, di sapori, gusti, odori, visioni che vengono create e posate sul piatto. È una cucina “dell’amore” fatta di germogli, foglie, fiorellini, di erbe officinali che segue e raccoglie personalmente, una fusione di colori, timbri emozionali, impatti visivi, pitture impiattate e alchimie, è una cucina che risveglia le tormenta del corpo, sana le pene dell’anima e brama di vivere ben oltre l’attimo in cui ne gustiamo i sapori. Così inizia l’avventura, mentre, composta al tavolo, l’occhio guarda e nel sovrabbondare dell’osservabile si riempie d’immagini, la curiosità si fa spazio e la bramosia di soddisfare il palato avanza. Cullata dal rumore di un temporale di fine estate, lascio allo Chef la scelta del menù. Assaggi lenti e profondi, che spaziano da “Caramello di funghi” adagiato su una coreografia di bosco dell’incanto, a “Capesante con yuzu e crostini neri” mimetizzati su simil pietre vulcaniche. È un simposio “L’ostrica vegetale” come pure “La Carbonara”, composta da due tortelli di pasta all’uovo al cui interno sta l’incredibile ripieno che, adagiata sulla punta della lingua esplode portandosi dietro un retrogusto di pepe della Tasmania. Le “Chele di scampo crude con sorbetto alla mela verde, fiori di basilico e pepe di sansho” modulano l’alternarsi di acidità e dolcezza ensemble e le “Cervella di coniglio brasate, pan fritto e consommé di cipolla” rafforzano il mio pensiero ricordando una frase del saggista George Bernard Shaw per il quale “non c’è amore più sincero che l’amore per il cibo”. La chiusura delle pietanze salate, prima dei dolci, ma con un intermezzo d’eccezione, a sorpresa, è dato dal “Manzo grigliato con bieta, scalogno ed erba cipollina su consommé d’agrumi”. Il colpo di scena è la sintesi perfetta che costruisce con la preparazione della sua “Semplice Insalata” composta da più
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di cento varietà vegetali tra erbe e fiori eduli, con alla base due cialde di pasta brick che racchiudono fini lamelle di champignon crudi, il tutto condito con un filo di olio. Un piatto per molti, ma non per tutti, un fuori menù, dedicato a chi merita, ed è in grado, secondo lui, di sopportare l’esplosione/implosione dei sensi. Un’anarchia gustativa in cui si percepisce che in natura c’è già tutto ciò che desideriamo, dove si fanno spazio l’amaro, il piccante, il dolce, l’acidità, la freschezza e altre mille sfaccettature che ti fanno pensare ad un piatto che vive solo nel presente in quanto la fogliolina che ingerirai, dopo un attimo, sarà diversa da quella di un attimo prima. La semplice insalata ricongiunge anima e corpo lasciando spazio al dopo. “This is not the end…” questo è solo un nuovo inizio che ri-comincia dai dolci. Memorabile la ri-contestualizzazione dell’argilla commestibile “meringa al Fisherman appena spennellata di caolino”, servita con sorbetto al peperoncino e spuma al limone. Il “minestrone di frutta e verdure candite con consommé alle 10 spezie” riesce a raccogliere e soddisfare tutti i sensi, nessuno escluso, uno sweet al “femminile” cosparso da una salsa con dominanza rosa che racchiude segretamente i sapori delle foglie di vaniglia, dell’anice stellato del cardamomo e di altre sette perle afrodisiache. La “crespella di latte con zenzero e spuma di yogurt magro e sciroppo al rosmarino” è il gran finale. Anthelme Brillat-Savarin nel 1825 disse: “La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella”. È interessante notare come questo giovane chef, che fa della passione e della curiosità le note immancabili della sua cucina e che esprime il suo credo in “La cucina ha senso soltanto se abbiamo qualcuno con cui condividere le nostre emozioni“ sembri aver ispirato la “Fisiologia del gusto”. La cucina ha più senso se stimoliamo il palato, innalziamo la soglia del gusto e aggiungiamo amore a ciò che facciamo, unendola ad un pizzico di rassegnazione al peccato. Dopo aver assaggiato i piatti di Stefano Baiocco, seduta a sorseggiare un caffè con vista lago, sarei pronta a ricominciare da capo. In questo momento di redenzione il rimando alle fiabe è obbligatorio “e vissero felici e contenti” tra menta hibrida dionisyos, oxalis rossa, salvia all’ananas e altre mille foglioline.
in queste pagine: Stefano Baiocco
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Zafferano Purissimo di Pozzolengo Azienda Agricola Al Muràs
Un’antica leggenda greca racconta la nascita della pianta dello zafferano come l’amore appassionato, ma casto, di Croco per la seducente ninfa Smilace, amore che gli Dei non vedendo di buon occhio, punirono trasformando il povero Croco in una pianta dal fiore leggiadro e prezioso. Questo fiore cosi aggrazziato e armonioso fiorisce per un breve periodo di sole due settimane in autunno e possiede solo tre stimmi gialli che poi daranno vita con la lavorazione dell’uomo allo Zafferano. Lo Zafferano, spezia color rosso vermiglio ritenuto fin dall’antichità prezioso come l’oro, si ricava tostando gli stimmi del Crocus Sativus, pianta della famiglia delle Iridaceae che proviene da un bulbo sotterraneo. Da sempre letterati e pensatori come Virgilio, Omero, Plinio e Ovidio lo menzionarono nelle loro opere, decantandone le innumerevoli virtù in ambito culinario già note fin dal terzo millennio a.C., quando veniva coltivata fra il Tigri e l’Eufrate per le sue caratteristiche medicinali, profumanti e coloranti. Anche nel Cantico dei Cantici e nell’Iliade venne citato come pianta aromatica, ne troviamo traccia nelle pitture del palazzo minoico di Cnosso a Creta nel1600 a.C., nelle raffigurazioni in papiri egizi del II secolo a. C. e in tutte le civiltà che vissero sulle coste del Mediterraneo e in Asia. Nella letteratura la testimonianza dell’inebriante fiore, originario dell’Asia Minore, la troviamo
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nei versi di Montale che, stagliando lo splendore dell’immagine del croco, perde la negatività in-side della poetica dello scrittore . Pascoli proietta se stesso nell’immagine del croco e lo vede sofferente e strappato alla sua terra, offeso, esiliato, chiuso e prigioniero del suo vaso ma che con tenacia e bellezza apre il suo cuore al sole. Ludovico Ariosto e Torquato Tasso lo contemplano, insieme ad altri fiori di ascendenza mitologica, nel topos del repertorio floreale dei loro versi. Sarà Botticelli a dipingerlo al di sotto delle Grazie di sinistra e di centro, nella sua Primavera, e ad associarlo alla possibile crescita nel giardino dell’amore dove già Aristofane aveva azzardato ipotesi enunciando i versi “La prima notte, ci coricammo, io, che sapevo di mosti, fichi secchi, lane, grasce: lei, di mirra, di croco, leccornie, giuochi di lingua, sperperi”, che aprirono lo squarcio sulle virtù fecondanti e i poteri erotici di questo fiorellino che diverrà poi Zafferano.
in questa pagina: fase di essiccazione
Oggi, In Italia, le maggiori estensioni di coltivazioni di zafferano sono in Abruzzo, Sardegna, Toscana, Umbria e dal 2001 anche a Pozzolengo, paese immerso nelle colline moreniche del basso Garda, che si presta a questa coltura grazie ad un microclima mediterraneo dovuto alla vicinanza del lago. Questa piccola azienda Agricola (Al Muras) è riuscita in pochi anni a produrre uno zafferano di qualità molto elevata (norma ISO 3632-1 del 1993), con valori ben oltre gli standard dell’eccellenza, collocandosi così nella prima categoria per valori di picrocrocina (potere amaricante) e di crocina (potere colorante). Ciò che rende questa spezia così rara e preziosa è la manualità di tutte le fasi della produzione, a partire dalla raccolta, effettuata togliendo i fiori dalla pianta a mano prima che i raggi del sole possano colpirli direttamente, la separazione degli stimmi dal fiore, prestando attenzione ad utilizzare solo la parte rossa del filamento, e la tostatura alla giusta distanza dalle braci di legna nobile per fare evaporare l’acqua. Infine, la spezia ottenuta (sotto forma di stimmi tostati, interi per garantirne la purezza) viene confezionata in bustine sigillate o in vasetti di vetro con chiusura ermetica che mantengono intatte le proprietà del prezioso prodotto. L’unicità della lavorazione, l’amore per la terra e la tenacia hanno fatto sì che questo erotico alimento e “afrodisiaco costoso ed esotico”, come affermava Denis Lévesque, coltivato sulle rive del Garda, entrasse di prepotenza a far parte della vita degli intenditori, siano essi gastronomi, artisti, filosofi o semplici amanti della buona tavola.
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TORTA DI RICOTTA E ZAFFERANO Ingredienti dell’impasto: 300 g. di farina 150 g. di zucchero 150 g. di burro (da tagliare a dadini) 1 pizzico di sale 1 bustina di lievito Scorza di limone 2 tuorli 1 uovo Ingredienti per la crema: 250 g. di ricotta 2 tuorli 0,1 gr. di zafferano (20-30 stimmi) ½ bicchiere di latte 5 cucchiai di zucchero Sminuzzare lo zafferano in un bicchiere, versare mezzo bicchiere di latte caldo e lasciare riposare per 15 minuti. Disporre la farina a fontanella con un buco nel centro, unire tutti gli ingredienti dell’impasto e mescolare fino a raggiungere una consistenza uniforme evitando di lavorare la pasta troppo a lungo. A parte mescolare la ricotta, i tuorli, lo zafferano sciolto nel latte e lo zucchero, fino ad ottenere una crema uniforme. Foderare una teglia con la carta da forno e disporre l’impasto sul fondo e sulle pareti, aggiungere la crema e cuocere in forno preriscaldato a 200° per 30 minuti. Dopo aver fatto raffreddare la torta, lasciar riposare in frigorifero per almeno 1 ora.
in questa pagina: Azienda Agricola Al Muràs, raccolta Zafferano di Pozzolengo
“Grape Cleaning Unit”. L’Agriturismo Le Preseglie fa scuola di Lamberto Selleri
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Piccolo è bello. I lavoratori delle imprese familiari nel campo artigianale, agricolo e turistico si sono sempre rimboccati le maniche e, a testa bassa e senza contare le ore di lavoro giornaliero, hanno contribuito allo sviluppo economico del Paese e quindi al benessere di cui noi oggi usufruiamo, ma che vediamo costantemente ridursi a causa di una economia mondiale in difficoltà. Un classico esempio della capacità camaleontica della nostra imprenditoria agricola emerse quando coltivare la terra non dava più redditi sufficienti al sostentamento del numeroso nucleo familiare. Molte aziende agricole implementarono il reddito convertendosi all’agriturismo, offrendo a chi viveva in città di poter trascorrere le vacanze in campagna, ospiti nella casa colonica, e quindi di vivere a contatto con la natura, il mondo rurale e di cibarsi dei prodotti stagionali autoctoni prodotti in azienda. Ma non solo: l’agricoltore incominciò anche a trasformare i prodotti della terra per ricavarne un maggiore reddito. Tipico esempio ne è il vino: non viene più conferita tutta l’uva alla cantina sociale del luogo o, in alternativa, l’agricoltore smette di produrre vini sfusi che notte tempo, in cisterna, raggiungono cantine blasonate in Italia e all’estero. Con il passare degli anni, gli agriturismi e le imprese enologiche familiari diventano un polmone di ossigeno irrinunciabile per chi vive della campagna. Oggi siamo in presenza di un turismo rurale più evoluto che io chiamerei di seconda generazione. Il cliente è diventato più esigente e l’imprenditoria agricola si è uniformata alla nuova domanda: gli alloggi vengono messi a novo o adeguati a standard più confortevoli. La cucin resta per legge rigorosamente tradizionale e i cibi provengono da coltivazioni locali. All’esterno la piscina è diventata un accessorio indispensabile. Ma non solo: le vecchie cantine, ampliate e rimodernate, ospitano tutte le attrezzature necessarie per una corretta e moderna vinificazione delle uve ed il vino prodotto viene commercializzato direttamente con proprie etichette. L’economia moderna però ci insegna che senza l’innovazione la concorrenza può farci regredire e noi sappiamo quanto, in ambito enologico, valga questo assioma. Una impresa rurale lungimirante ha battuto tutti i concorrenti, grandi e piccoli, sul filo di lana. La capacità imprenditoriale di Cristina Bordignon ha sposato in toto i prodotti innovativi di cui dispone l’industria enologica, confortata in queste sue scelte dall’enologo Emiliano Rossi. Seconda in Italia, e di questo dobbiamo riconoscerle il merito, Cristina, al timone dell’Agriturismo Le Preseglie (Loc. Le Preseglie – Desenzano - BS.), ha sposato il lavaggio e la sanificazione delle
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uve, processo che precede la torchiatura. Con questa procedura innovativa vengono eliminati tutti gli inquinamenti atmosferici e quelli derivanti dai trattamenti agronomici alla vite o ai chicchi di uva che naturalmente con la pigiatura tradizionale vanno immancabilmente a modificare negativamente il mosto e successivamente il vino. L’attrezzatura (ed è una novità assoluta) consiste in una linea di lavaggio di uve in acciaio di otto metri composta da vasca, nastro trasportatore, pedana vibrante e soffianti. Le uve, raccolte esclusivamente a mano e poste in cassette, vengono scaricate in una vasca contenente acqua e acido citrico, elemento naturalmente presente nelle uve. L’acqua si muove e ribolle idromassaggiando e rimuovendo così molto meglio lo sporco rispetto ad un lavaggio diretto. La temperatura dell’acqua si può anche regolare, più calda o più fredda a seconda di come si vuole portare l’uva alla pigiaderaspatrice o nella pompa che alimenta le presse. Attraverso l’utilizzo di un nastro trasportatore le uve vengono poi risciacquate con altra acqua pulita, finendo su una griglia forata dove, attraverso vibrazioni del piano e ventilazione forzata, ha inizio il processo di asciugatura. Lungo il piano vibrante è possibile effettuare una selezione manuale. Le uve lavate vengono infine mandate direttamente in pressa, spremute sotto gas inerte senza contatto con l’ossigeno per evitare fenomeni di ossidazione e il mosto prodotto arriva a caduta nelle vasche sottostanti. L’obiettivo del lavaggio delle uve è la ricerca di un prodotto sano e genuino che soddisfi un consumatore sempre più attento e sensibile al salutismo. Con la sanificazione delle uve si asportano terra, polvere, insetti, residui floreali e soprattutto residui di rame e zolfo, utilizzati in campagna contro peronospora e oidio che sono dei funghi, proprio come i lieviti che svolgeranno, più tardi, la fermentazione. La grande intuizione è stata quella di adottar, per il lavaggio, l’acido citrico, acido naturale che diventa un sequestrante dei metalli pesanti presenti nell’uva. L’acido citrico inoltre è un solvente delle molecole organiche di sintesi usate in campagna in viticoltura contro la Botrytis, contro l’oidio e contro la peronospora. Con il lavaggio si è riusciti a togliere fino al 100 quei prodotti chimici che normalmente rimangono nel vino. Osservando gli effetti del lavaggio anche nella fase pratica della vinificazione si è constatato, quindi, che pulendo l’uva da antibotritici, antifunghi della viticoltura, evitiamo di ritrovarceli nel mosto ed impediamo che agiscano contro il lievito buono. Se riusciamo dunque a mettere il lievito in condizione di lavorare in un ambiente integro e pulito, avremo dei vini integri senza
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INFO: Agriturismo Le Preseglie Loc. Preseglie 25015 Desenzano del Garda (BS) www.agriturismolepreseglie.com
in queste pagine: il processo di vinificazione Grape Cleaning Unit presso l’agriturismo Le Preseglie
sottoprodotti sgradevoli come l’idrogeno solforato o l’acidità volatile. Il carattere dell’uva manterrà, inoltre, le caratteristiche del suo territorio, inteso anche come microflora responsabile delle fermentazioni. Con la sanificazione delle uve si preserva l’integrità del vino e si ottiene conseguentemente uno straordinario risultato: ridurre drasticamente l’utilizzo dell’anidride solforosa. La perspicacia di una avveduta imprenditrice che ha intuito come l’innovazione tecnologica, anche se adottata con sacrifici economici, alla lunga premia. L’azienda agricola agrituristica ed enologica che ha adottato questa attrezzatura, battendo sul nastro di partenza le più rinomate aziende vitivinicole italiane, si chiama Cascina le Preseglie e opera in provincia di Brescia. Un auspicio, come consumatore, è che anche le grandi aziende vitivinicole possano al più presto dotarsi di questa attrezzatura per consentire a noi consumatori di bere un vino in cui “l’alchimia magica dei prodotti chimici” sia definitivamente bandita dall’enologia. Cristina Bordignon, 40 anni, è una imprenditrice di seconda generazione: ha acquisito dai genitori quella esperienza necessaria indispensabile per dirigere con successo una impresa vitivinicola, agricola ed agrituristica. La Cascina Le Preseglie, immersa nel verde dei vigneti, è stata ricavata dalla ristrutturazione di un casale del 1800 nel rispetto dell’architettura rurale. L’azienda agricola, a conduzione familiare, offre ospitalità in cottages indipendenti dotati di ogni comfort e finemente arredati in stile country-provenzale. È possibile usufruire della piscina esterna sulla grande terrazza verde circondata dai vigneti. L’indirizzo igienico-salutistico, peculiarità dell’agriturismo, offre agli ospiti anche una zona wellness, con massaggi e Termarium: ampia sala con attrezzature che comprendono bagno di vapore alle essenze, biosauna e doccia Vichy con i Sali del Mar Morto. All’interno della Cascina Le Preseglie sono presenti tre ampie sale per conferenze e seminari. Cuore dell’azienda è la cantina, estremamente funzionale e tecnologica. Cinque sono le tipologie dei vini prodotti: Lugana Doc, S.Martino della Battaglia Doc, Garda Merlot Doc, Passito IGT e Metodo Classico. Vengono organizzate per gli ospiti dell’agriturismo visite e degustazioni guidate. Nella cascina Fenil Conter, l’altro casale facente parte del complesso agrituristico Cascina Le Preseglie, viene proposta, oltre all’ospitalità, anche un’accurata rivisitazione di antichi piatti della tradizione locale. La cantina e gli agriturismi distano a soli tre chilometri da Sirmione e a pochi chilometri anche da Brescia, Verona e Mantova.
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Mario Testino
Una bellissima mostra a Roma, Todo o Nada, aperta fino al 23 novembre, esalta la vocazione alla bellezza a due dimension di uno dei più quotati fotografi di moda contemporanei di Lamberto Cantoni
In apertura: Mario Testino PH. by Benjamin Tietge in questa pagina: Mario Testino all’inaugurazione della mostra
Il nome non deve trarre in inganno. Mario Testino ha certo origini italiane ma è a tutti gli effetti cittadino peruviano. Dopo l’adolescenza, a Lima studiò economia e legge senza crederci troppo. Trasferitosi in California, tentò di appassionarsi agli studi di politica internazionale ma la sua vocazione la scoprì a Londra nel 1976 frequentando una scuola privata di fotografia. Tuttavia quando pubblicò la sua prima foto su Vogue (ed.inglese) nel 1981, nessuno poteva prevedere che dopo un duro lavoro decennale, all’inizio degli anni 90, l’autore di quello scatto sommerso dalla debordante ricchezza di immagini della rivista, pubblicato e impaginato frettolosamente, si sarebbe imposto come uno dei più ricercati e raffinati fotografi di moda del pianeta. Trussardi, Versace, Saint Laurent e soprattutto Gucci diedero al talentuoso fotografo, nei primi anni novanta, la possibilità di esplorare da protagonista l’immaginario della moda, trasformandolo velocemente in un autore corteggiato dalle più importanti riviste al mondo: Vogue, Vanity Fair, W Magazine, The Face, Visionaire, per citarne alcune, pubblicarono regolarmente le sue campagne che esaltavano un’idea di bellezza assoluta spesso incline a controllate provocazioni. Grazie ai suoi prestigiosi clienti e a budget di spesa che gli permettevano di arruolare le più belle modelle in circolazione Mario Testino affinò l’arte di creare immagini mitiche, capaci di aggiungere un’energia emozionale importante ai prodotti moda da promuovere. Non è esagerato sostenere che il successo di Mario Testino nella moda debba essere ripartito in parti di volta in volta diverse, tra la sua sensibilità estetica e la capacità di interpretare la funzione di image maker per i marchi o prodotti coinvolti nel suo lavoro. Insieme a Maisel è probabilmente il costruttore di immagini per il sistema moda più efficace, dalla metà degli anni novanta ad oggi. Con questa differenza: entrambi i grandi fotografi amano e quindi capiscono le pulsioni profonde della moda; ma mentre Maisel indubbiamente ci crede senza cedimenti, l’approccio di Mario Testino sembra più ironico o forse più pensoso, come se il non credere fino in fondo nei valori comunicati dalle immagini magnificative della moda facesse parte del gioco. Non è un caso se i primo libri pubblicati da Mario Testino confermano questa mia lettura. Il primo, Any Objections, pubblicato da Phaidon nel 1998, propose a suo tempo immagini che trascendevano la teatralizzazione che in un modo o nell’altro caratterizza quasi tutte le foto di moda. In questi scatti tratti dall’esperienza di luoghi diversi sparsi per il mondo il fotografo
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mostrava un controllo del mezzo fotografico che gli permetteva di cogliere aspetti della realtà non visualizzabili attraverso le tecniche che permettevano la costruzione delle foto/icone fashion. Anche nel suo secondo libro, questa volta dedicato all’esplorazione della moda da un punto di vista personale e innovativo, Front Row/Back Stage (Bulfinch, 1999), il fotografo fa convivere perfettamente il punto di vista dell’image makers e l’irriverente sguardo talentuoso del reporter che dall’interno dei luoghi privilegiati della moda ci introduce ai piccoli segreti del backstage o semplicemente del mondo fashion dietro le quinte. Di passaggi segnalo che le foto così diverse da quelle che normalmente ci riportano gli esiti delle sfilate, in particolare quelle degli show di McQueen, Yamamoto e Galliano pubblicate nel libro sono di valore assoluto, e basterebbero da sole a giustificare la presenza di Mario Testino in alcuni dei musei più importanti al mondo (molte sue immagini sono oggi conservate al Victoria & Albert Museum di Londra e al Carper Center of Visual Arts di Harvard). Oltre a dedicarsi alla moda Mario Testino è divenuto uno dei ritrattisti più ricercati dallo star system internazionale. Meritano di essere citati i suoi ritratti della principessa Diana, raccolti in un libro pubblicato nel 1997 e il recentissimo testo dedicato alla rassegna degli scatti dedicati ad una delle sue muse preferite: Kate Moss, per personalità, fotogenia, intelligenza è forse la donna che meglio ha saputo valorizzare le idee creative sulla femminilità del fotografo. La mostra attualmente presente a Roma, intitolata “Todo o Nada” rappresenta in ordine di tempo l’ultimo tentativo di Mario Testino di far riflettere il pubblico che ama la moda sulle conseguenze della strategia dell’abbellimento del corpo ottenuta con abiti magnificanti. Per dirla con le parole del fotografo, la sequenza di grandi e bellissime fotografie scelte dal suo imponente archivio, sarebbero uno studio sulle implicazioni implicite nell’atto di vestirsi/svestirsi: osservate le stesse modelle immortalate in abiti bellissimi e poi, a seconda dei casi, più o meno déshabillé… Non notate, sembrerebbe suggerirci il fotografo, come in realtà il fascino e la femminilità dei soggetti non cambi? Come a dire, ci sono donne per le quali l’essere vestite o svestite non fa differenza dal momento che sembrerebbero possedere una bellezza interiore che sovrasta la costruzione della femminilità ottenuta con il linguaggio degli abiti. Nessun dubbio che modelle più belle del mondo risulterebbero
In questa pagina: Daria Werbowy American Vogue, Los Angeles, 2004 nella pagina accanto: Sienna Miller per TODO O NADA Roma - lead poster
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INFO: Mario Testino, TODO O NADA. Con il Patrocinio di Altaroma e Camera di Commercio. Con il sostegno di: Fendi, Gucci e Valentino. Fondazione Memmo Palazzo Ruspoli Via Del Corso, 4/8 Roma
In questa pagina dall’alto: Pierfrancesco Favino e Anna Ferzetti; Carolina Crescentini PH. Allucinazione/A.K. Mariani, C. Meggiolaro, F. De Lucia nella pagina accanto: Mario Testino con Silvia Venturini Fendi, Maria Grazia Chiuri, Pierpaolo Piccioli PH. Allucinazione/A.K. Mariani, C. Meggiolaro, F. De Lucia
estremamente femminili anche se fossero immortalate da una lastra ai raggi x. In definitiva i fondamenti della bellezza, per certi aspetti, hanno una relazione con proporzioni matematiche, con fatali simmetrie che ci annebbiano il cervello. Ma c’è una bella differenza tra la perdita progressiva di significazioni rilevabile nelle stasi che seguono le fasi progressive dell’atto di svestirsi e la pienezza di significato (per il desiderio di essere Donna) presupposta dall’ostentazione delle zone erogene di superficie, innaturali ovviamente, che possiamo considerare come una delle pulsioni fondamentali sulle quali si regge un aspetto del potere della moda non rimuovibile. Voglio dire che, a parte il preciso momento in cui tolgo un velo, ciò che del corpo dopo l’atto rimane visibile subisce una rapida catastrofe del desiderio. L’abito magnificante invece, feticizza il desiderio rendendo costante l’eccitamento (o per chi preferisce la metafisica, mantiene il soggetto in gioco avvolto da un’aura di bellezza). Comunque sia il vostro punto di vista su queste questioni, è improbabile che le immagini della stessa modella vestita, prima, e poi priva di ornamenti, esprima le stesse significazioni. Se veramente il tema trasversale della mostra, come sostiene gran parte della pubblicistica che in questi mesi l’ha promossa, è la visione unaria di Mario Testino, centrata sulla cattura attraverso il mezzo fotografico della fragile struttura visuale che crea una sostanziale conformità tra corpo vestito e svestito, allora non mi resta che prenderne atto, marcando però il fatto che le immagini ci dicono ben altro. Io credo piuttosto che le foto parlino della abissale differenza tra corpo vestito e svestito. Mi rendo conto che per la sensibilità attuale l’abito stravagante, la teatralità delle pose, troppo abusate dalla moda, possano risultare scontate; e che, per contro, il déshabillé, ci suggerisca la leggerezza e forse un’umanità che una certa moda ha perduto. In definitiva da Vivienne Westwood in poi, ciò che era sotto lo si è visto sopra; l’intimo più fetish non scandalizza più nessuno e persino il nudo viene ormai vissuto come fosse un abito fatto con la nostra pelle. Ma tuttavia le foto di Testino ci dicono che la differenza tra la rappresentazione del corpo della moda e lo stesso colto in momenti che l’umanizzano, rimane intatta. Ed è sul mantenimento di questa differenza che si gioca il futuro della moda.
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MomaBoma Style di Antonio Bramclet
Per le aziende della moda la parola sostenibilità può avere significazioni eterogenee. Con carte etiche le aziende proclamano la propria adesione a programmi di responsabilità sociale e d’impresa condivisi con gli stakeholder; con etichettature etiche si esalta la tracciabilità dei prodotti utilizzati; con pubblicità “sostenibili” si contribuisce alla maturazione critica del consumatore; vintage, recycling, life cycle design, praticati con coerenza aiutano a scoprire la dimensione slow della moda che si immagina fare da sfondo al consumo responsabile. Le ragioni della moda sostenibile sono molteplici almeno quanto i modi di praticarla. Per MomaBoma, marchio bolognese di borse e accessori fondato da Maurizio Longati, sostenibilità significa soprattutto valorizzazione della tecnica del riciclo di materiali usa e getta come giornali e riviste del passato che oggi possiamo trovare nelle biblioteche specializzate o in qualche recondito e impolverato scatolone parcheggiato in cantina. Per certi aspetti le borse MomaBoma sono uno di quegli oggetti che pur sorprendendoci suonano familiari, al punto da farci pensare: ma perché non ci sono arrivato io? L’intuizione di Maurizio Longati è stata particolarmente suggestiva e coinvolgente proprio perché la sentiamo come qualcosa a noi vicino e al tempo stesso geniale. Probabilmente è l’effetto del puzzle di pagine riciclate a plasmare il sentimento che cerco di descrivervi. In definitiva si tratta di accoppiamenti particolarmente felici di materia significante estremamente popolare. Bisogna però ricordare che la percezione olistica delle borse MomaBoma non si esaurisce nello scanning della sua seppur sorprendente superficie: indubbiamente hanno anche una forma azzeccata che valorizza la texture simbolica e soprattutto sono fatte di un materiale improbabile tra i creatori di borse, capace di restituirci senza ombre i residui cartacei di testualità del passato conferendo ad essi una velatura che per qualcuno potrebbe evocare struggenti nostalgie ancorate a frammenti di memorie minime, rivitalizzanti dalla presenza dei resti di un mondo editoriale perduto. In breve, l’idea che sostiene il MomaBoma Style è geniale, il design indovinato e il prodotto è ben fatto. La tecnica di creazione della borsa MomaBoma richiede l’integrazione di più fasi di lavoro. In principio ovviamente dobbiamo collocare la ricerca del
materiale da riciclare: ogni rivista in arrivo viene classificata e divisa per stato di conservazione e per categorie tematiche; in seconda battuta vengono scelte le pagine da accoppiare come un normale patchwork di tessuto. Infine la composizione del concept dell’oggetto formata da frammenti di pagine accoppiati come in un collage, viene legata grazie ad una rete di propilene e in seguito resinate per ottenere un materiale resistente ed impermeabile. Tuttavia la descrizione di come le borse MomaBoma vengono costruite restituisce solo in parte la valenza che questi oggetti di frontiera possiedono. Riconosco in essi la presenza di una diversa idea di bellezza che trascende la dimensione etica che ricordavo all’inizio, agganciandomi al paradigma della sostenibilità. Gli oggetti MomaBoma hanno l’energia della Pop Art senza però indugiare troppo nella trasformazione dell’immagine popolare in icone della post modernità (pensate alla famosa Campbell’s Soup di Andy Wharol o alle trasformazioni di comic strip in opere d’arte di Roy Lichtenstein). I frammenti di realtà utilizzati da MomaBoma non vengono ostentati come il Wharol, non cercano affatto di trasformarsi in messaggi paradossali (mitologia del banale). Sembrano più vicini alle visioni a strappi ricomposti di Richard Hamilton, di Rauschenberg (combine painting) e alla tecnica del décollage di Mimmo Rotella: prima viene lo strappo della pagina e poi la composizione dei frammenti cartacei, infine la metamorfosi percettiva grazie alla resina. Il riciclaggio o la riappropriazione di pagine perdute, consente a MomaBoma di presentarsi con oggetti con i quali l’interazione non si esaurisce nell’emozionante fascinazione tipica della borsa chic superpubblicizzata e connotata dal prestigio della marca. L’interazione con MomaBoma assomiglia di più ad un dialogo, ad una conversazione. Sì perché, ogni borsa aldilà della forma che le conferisce consistenza, senso e funzionalità, per via dei décollage/collages che amplificano la portanza della sua superficie, trasformandola in un oggetto divertente o nostalgico (dipende dalla composizione, ovviamente), si propone come racconto polifonico. Da qui l’idea che con le borse MomaBoma più che la rassicurante presenza di un oggetto decorativo che magnifica o semplicemente aiuta la mia immagine pubblica, si sperimenti l’oggetto moda che invita al dialogo. Se ci pensate bene non sono molti gli oggetti prodotti dal sistema moda capaci di produrre questo effetto di eloquenza. La maggioranza degli accessori di un certo livello cercano di
ECOFASHION
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affascinarci, di emozionarci di colpo, senza preoccuparsi della durata della loro semantica passionale. Gli oggetti creati da MomaBoma certo colpiscono la nostra fantasia e quindi attivano il desiderio di possederli, ma evitano il registro esibizionistico preferendo l’amicizia alla fascinazione, preferendo l’intelligenza al lusso fine a se stesso. Se l’espressione metaforica una borsa per amica, usata qualche volta per connotare il rapporto passionale tra il pubblico femminile e questo accessorio così privilegiato, ha senso, allora si può dire che MomaBoma, fornendone un modello empirico di stupefacente evidenza è tra le marche della moda più efficienti nell’esplorare effetti emozionali alternativi alle seduzioni effimere, prodotte dalle fin troppo abusate chiassosità mediatiche che supportano la diffusione di questi accessori. La sede di MomaBoma a Bologna è straordinariamente congruente a tutto ciò che si può presupporre dall’analisi delle sue borse. Lo spazio di lavoro è una estensione del concetto centrale da cui ha preso origine la marca. Qui, in un pomeriggio umidissimo di settembre ho incontrato Maurizio Longati, fiero del suo look on the road da ragazzo del decennio lungo (gli anni sessanta), che senza troppi giri di parole si sbarazza dell’aura da guru creativo appiccicatagli da giornaliste entusiaste del suo lavoro: “Diciamo subito che io non faccio design bensì customizzo borse grazie a dei brevetti che mi sono costati carissimi”, mi dice. “Andiamo Sig. Longati” gli rispondo “non faccia il romanticone…Lo si vede subito che la sua costumizzazione cambia di 360° la valenza della forma della borsa e quindi è una vera e propria ri-creazione…” “Boh! la pensi come vuole, ma volevo solo farle capire che non perdiamo troppo tempo a fare ricerche sul design; a proposito mi chiamo Maurizio e diamoci del tu altrimenti mi sembra di essere sul set di un quiz televisivo condotto dalla controfigura di Mike Buongiorno; vuole sapere come nasce MomaBoma? Le origini, il big bang, il fiat lux…Un tempo facevo moda per bambini dalle parti di Napoli. Dopo anni di vita stressante mi sono rotto le palle e ho liquidato in un colpo solo la mia azienda e uno stile di vita che disprezzavo. Sono fuggito in India e a Bombay ho fatto l’incontro decisivo che mi ha cambiato la vita.” Approfitto della pausa, per chiedere: “Vuoi dirmi che in India ti sei innamorato, hai incontrato la donna che hai sposato?” “No! Lascia stare mia moglie. Arriva nel racconto tra un po’ e, lo vedrai, sarà decisiva. In India mi sono innamorato di un sacco di cemento” …(pausa)…
qui sopra: Maurizio Longati creatore di MomaBoma
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“Questa non l’avevo mai sentita” aggiungo “pensavo dopo aver letto la psicopatologia della vita quotidiana di Freud di sapere tutto delle perversioni, ma mi mancava l’amore per un sacco di cemento.” “Non hai capito un cazzo, continua a seguimi, prova ad immaginare montagne di carta di sacchi di cemento gettate qui e là alla rinfusa; bene, un giorno ne tocco un foglio tutto spiegazzato e la sensazione tattile mi devasta…Scopro la sconvolgente bellezza racchiusa in quel pezzo di spazzatura e di colpo capisco l’immensa e incomprensibile stupidità dell’occidente. Bene, prendo quel pezzo di carta ruvida, lo lavo, lo curo e ne faccio una borsa ispirandomi al bauletto di Vouitton. Torno in Italia e porto a mia moglie, come regalo dal viaggio, la borsa fatta con le pezze di carta da cemento. E cosa succede?” “Mah!” Azzardo a dire “te l’ha tirata in testa, ingiuriandoti e dicendoti: Ma come te ne vai in India senza di me, poi torni e invece di portarmi un gioiello mi doni una ridicola borsa fatta di carta di merda! Vaffanculo!” “Confesso che avevo il timore che andasse proprio così” dice Maurizio sorridendo “e invece con mia grande sorpresa fece elogi stupefacenti alla borsa, al punto che mi convinse a produrne una piccola collezione che portammo a Parigi… le vendemmo tutte e un distributore italiano dopo averne visto una ne ordinò 1000. Quindi si può dire che MomaBoma ha avuto una nascita in due tempi: il colpo di fulmine per carta da spazzatura e il talento da trendsetter di mia moglie che ha trasformato un oggetto in una azienda”. Domanda: ma perché l’hai chiamata MomaBoma e non per esempio Bingo Bongo? “MomaBoma non nasce come marchio dalle assonanze esotiche ma è semplicemente la somma delle prime due lettere dei nomi degli esseri viventi più importanti, in quel momento, della mia
vita: il mio cane Moretto, la mia gatta Maga, il soprannome di mia moglie ovvero Botta e “ma” da Maurizio. C’è una struttura che connette la nascita del marchio e il destino della mia azienda: come vedi la mia sede è una specie di casa, i miei collaboratori sono la mia famiglia allargata, le mie borse vengono fatte tutte in zona, quasi a km zero. Lo spirito friendly attraversa tutto ciò che è MomaBoma”. “Ma riuscirai ad essere friendly anche quando cresceranno i fatturati?” chiedo. “Guarda”, dice Maurizio con voce ispirata, “abbiamo deciso di produrre solo 30.000 borse per il mercato italiano proprio perché vogliamo mantenerci coerenti con i principi che ci hanno consentito di arrivare felici e contenti sino ad oggi. E’chiaro che stiamo pensando al mercato estero. Quando troveremo un approdo decideremo il da farsi. Per ora l’estensione del mondo MomaBoma viaggia sul web… tengo moltissimo al progetto My MomaBoma”. “Come funziona? È semplicissimo. Tu cliente mi invii i frammenti editoriali del tuo passato e io te li trasformo nella borsa della tua vita: una vecchia lettera d’amore, un articolo di giornale che hai conservato, una pagina dei primi fumetti che hai letto, la pubblicità che ti ha fatto vibrare quando eri bambino. Noi con i frammenti editoriali sopravvissuti del tuo passato grazie alle nostre resine ambrate ti restituiremo un oggetto dentro il quale rivivranno un’altra vita. Non è fantastico come progetto? Il primo anno di lancio ci ha già dato indicazioni importanti”. Chapeau, Maurizio, gli dico per concludere la nostra conversazione, tanto di cappello! Idea geniale… Passato (la mia spazzatura cartacea) e futuro (il web) in sincronia, semplicemente perfetto!
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Round The Clock
A cura di Martina Cavallarin di Simona Gavioli
in apertura: dettaglio mostra Round the Clock PH. Davide Lovatti in questa pagina: Francesco Bocchini Blumen, 2010 Courtesy Galleria L’Affiche, Milano PH. Davide Lovatti
L’immaginazione apre nuovi orizzonti, l’intelligenza ecologica, la sapienza, e la comunicazione sostenibile riescono a farci oltrepassare i confini della mente aprendo nuove strade, superando o transitando attraverso ignote difficoltà che intagliano nuove logiche per mandare messaggi in un mondo tempestato di domande alle quali cerchiamo di dare risposte. In questa condizione d’intellettualismo sano fatto di visioni, schermi, ambienti e scenari, diventa possibile re-inventare noi stessi e le relazioni che intratteniamo con il mondo e diventa importante inviare allarmi sulla condizione attuale della Terra. Ormai da tempo pare che il motto dell’uomo moderno sia che tutto ciò che è possibile fare, grazie alle innumerevoli abilità e competenze tecnologie, si possa e soprattutto, si debba eseguire, dimenticandosi di qualsiasi rischio, di qualsiasi implicazione etica e di qualsiasi limite. Abbiamo messo nel dimenticatoio il rapporto che l’essere vivente deve avere con la natura intervenendo su di essa in armonia, senza alterarla o violentarla, rispettandola e costruendo o ricercando nuove forme e aspetti che narrano il suo costante divenire. La nostra ricettività a temi come l’eco-sostenibilità implica il risvegliarsi della creatività personale, del senso di responsabilità sociale o collettiva inventando nuovi processi, linguaggi, forme e metodi progettuali che ci scuotano dal letargo e che ci diano la consapevolezza che il maltrattare il luogo in cui abitiamo è dannoso per tutti. Allora l’arte come esperienza, dibattito, luogo d’interazione, dispositivo privilegiato per la costruzione del buon senso, interfaccia relazionale, l’arte come mezzo per esprimere idee, opinioni, certezze, atteggiamenti e valori sull’essenza delle cose, l’arte che incorpora filosofie, logiche, comportamenti, capacità, sistemi simbolici, immaginari, ostilità, metamorfosi e che è in grado di creare ibridazioni e rielaborazione identitarie, lei che riesce a trasmettere segnali ridefinendo i tempi e gli spazi della quotidianità e del pensiero, non può astenersi dal lanciarci imput fondamentali sulla costruzione di una nuova impronta di educazione ambientale. Deve essere stato questo il pensiero che ha spinto Martina Cavallarin, critica d’arte, curatrice e donna che si mette in gioco 24 ore su 24, attiva tra Milano e Venezia, direttrice artistica della giovane associazione scatolabianca, a cimentarsi nel progetto Round the Clock ospitato dal 4 Giugno al 30 Ottobre 2011 presso lo spazio Tethis, Arsenale Nuovissimo di Venezia. L’evento, tra i trentasei Collateral scelti da Bice Curiger per la 54° Biennale di Venezia, vanta la presenza di quindici artisti, tra giovani promesse dell’arte contemporanea e artisti di fama internazionale che, indagando la relazione tra uomo e
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ambiente, si fanno domande e si chiedono se l’arte possa contribuire alla costruzione di un’identità umana che miri alla sostenibilità. L’attenzione verso i luoghi che abitiamo e un rispetto da recuperare verso le risorse e le energie del pianeta sono i “leitmotiv” trainanti creando un dialogo aperto tra arte ed ecosistemi dove l’indagine dell’artista viene resa tangibile dall’utilizzo di materiali naturali, semplici, leggeri come carta, cartone, cenere, plastica, plexiglass, ferro, pietra, acciaio, vetro, acqua, tessuto, terra, luce. La sfida di Round the Clock è un richiamo a rimettersi in gioco utilizzando differenti media che passano dalla fotografia all’installazione, dal video alla performance, dalla scultura, alla colonna, al totem per arrivare a un’esposizione capace di addentrarsi nell’emergenza di una vivibilità migliore che scappa dalle solite metodologie espositive. In questa tanto discussa Biennale dove si sono susseguite critiche e pare essersi perso il senso vero dell’arte che come diceva Baudelaire ha la capacità di eternizzare ciò che è caduco, Martina Cavallarin ha indossato e fatto indossare ai suoi artisti e agli spettatori, il dress code dell’eco-sostenibilità aprendo uno squarcio su un tema che ci invita ad essere protagonisti nel nostro stesso teatro: il Mondo. Com’é nato il progetto Round The Clock ? Mi occupo di arte sostenibile da un paio d’anni. La mia visione critica si è incentrata da sempre su discorsi intimisti legati al processo, ma ho sentito forte ultimamente la necessità di legare una forza tanto inutile quanto indispensabile come è l’Arte al miglioramento della collettività da un punto di vista più fattivo e concreto. Se l’arte deve “massaggiare il muscolo atrofizzato della coscienza collettiva” ancora più un’arte legata al riciclo e alla postproduzione (intesa come riprogrammazione del mondo come sottotilo il bel saggio di Nicolas Bourriaud) può servire da asta per un passo in avanti nel senso del progresso del vivere civile. Con quale criterio hai scelto gli artisti? Intanto sono partita da coloro che volevo fossero i miei compagni di viaggio possedendo già in fieri i requisiti. Poi Scheruebl con le sue istallazioni ambientali, Egger con opere fatte di frames fotografici, cemento, plexiglas, Ostapovici con la sua fotografia di denuncia, Bocchini con il ferro, le scaffalature come wunderkammer di meraviglie vegetali, Jospin con le foreste di cartone e Maiorano con le pale eoliche dislocate sui suoi quadri in spazi architettonici improbabili si occupavano già approfonditamente della questione, come Lecca che sviluppa il tema dello straniamento usando parti organiche e supporti vintage e Vendramel che ha sviluppato la sua operazione concettuale basata spesso sul site specific attraverso
un’installazione aerea di grande pathos. Negli altri ho individuato un punto: Riello lavora sul sociale, Sanna è un giovane ricercatore in stato di ricerca avanzata, Novello usa la cenere per elaborare l’indefinito, rifondare il tempo e trattenere la memoria, Moretti sperimenta differenti materiali su organismi in trasformazione e ha sviluppato un discorso politico sul tema, Venturelli è un video artista molto talentuoso che parla di spazi urbani, rigidità e morbidezza, Rickard ha eseguito la sua performance sulla resistenza del corpo, Welz ha operato con proiezione e foto uno sviluppo sul tema del cinema di Antonioni e i quartieri periferici. E come le opere si interfacciano tra di loro? Tutto è intrinsecamente Round the Clock. In prima istanza il luogo affascinante e prestigioso, lo Spazio Thetis, realtà artistica inserita all’interno di una società che si occupa di salvaguardia ambientale. Poi le opere che si muovo in linea orizzontale e verticale espandendosi tra spazio interno e giardino esterno, tra altezze e lunghezze, latitudini e longitudini. Poi la verità è che un bravo curatore non è altro che un sapiente ricercatore di artisti bravi e un allestitore virtuoso delle loro opere. Ma gli artisti e le loro opere rendono una mostra un avvenimento magico. La parte critica, di analisi che è quella che mi appartiene di più ha certamente supportato l’origine del processo, ma ho scelto quindici purosangue. Arte e temi impegnati. L’arte davvero può essere uno strumento per trattare temi caldi come i rapporti uomonatura o sviluppo-sostenibilità? Certamente l’Arte è una domanda aperta sul mondo. E farsi mettere sotto scacco dalla realtà, relazionarsi con essa, scardinare le grandi utopie per mettersi a confronto con cose a misura d’uomo è un compito che l’artista deve darsi. Se poi il Ministero dell’Ambiente ci ha appoggiato attraverso il suo patrocinio significa che ha capito la portata del messaggio e la possibilità di allargare la platea. Round the Clock si colloca tra i più interessanti eventi collaterali di questa ultima Biennale, come ci si sente ad aver vinto questa sfida ? Round the Clock è una buona mostra. E’ seria, è pensata, e stata eseguita splendidamente in tutte le sue parti. Si trova al posto giusto nel momento giusto. Non c’è alcuna vittoria, c’è un altro tassello messo nella direzione del senso. So che tra poco aprirai una sede dell’associazione scatolabianca a Milano, della quale sei il presidente. Quali sono i progetti per il futuro? Federico Arcuri, Giuseppe Ciracì, Roberta Donato, Gianni Moretti ed io stiamo lavorando con passione e impegno, tra risate e ansie,
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INFO: Round the Clock A cura di Martina Cavallarin Spazio Thetis, Arsenale Novissimo, Venezia Tel. 041 2406111 www.biennaleroundtheclock.com 4 giugno – 30 ottobre 2011
Pagine precedenti a sinistra dall’alto: Gianni Moretti Monumento al mantenimento delle regole della casa Courtesy Changing Role Gallery, Napoli; Francesco Bocchini, Blumen, 2010 Courtesy Galleria L’Affiche, Milano PH. Davide Lovatti a destra: David Richard durante la performance Exhaust; dal backstage David Richard e Martina Cavallarin In queste pagine a sinistra: Antonio Riello Honest John, 2007 Courtesy Galleria Michela Rizzo, Venezia, PH. Davide Lovatti e Svetlana Ostapovici Metal recycling, 2011 Courtesy Romberg artecontemporanea, PH. Davide Lovatti in questa pagina: Eva Jospin Détails d’une forêt – 2008 Courtesy Galerie Pièce Unique, Parigi PH. Davide Lovatti
up and down, dubbi e conferme per portare avanti un progetto come quello di scatolabianca che parte da una forte spinta rispetto ai contenuti, da un costante dialogo con il sistema arte italiano ed europeo attraverso il coinvolgimento di altre associazioni, di fondazioni, di strutture pubbliche che si occupano di contemporaneo quali istituti, musei, fiere o biennali, di gallerie private e di critici e curatori. Queste realtà sono chiamate allo scopo di inserirsi in progetti espositivi, di scambio culturale, di valorizzazione dei territori nei loro aspetti artistici, ambientali e socio-culturali, ad aprire tavole rotonde, laboratori, formulare piani di lavoro e organizzare mostre personali e collettive degli artisti promossi da scatolabianca o facenti parte di progetti ad hoc. Nel cuore di Milano, da Ottobre, sarà operativa la sede principale scatolabianca(etc.). Il nome dello spazio scatolabianca(etc.) nasce dall’attitudine culturale dell’associazione che prevede un andamento diacronico e sincronico. Dalla scatola bianca di Marcel Duchamp all’etc. di Fabio Mauri. Dalle generazioni dei grandi artisti storicizzati che hanno germinato i rami più prolifici, alle nuove leve di artisti che quegli avanzamenti e quelle proposte le sanno guardare approfondendo attraverso la loro pratica artistica il proprio personale sguardo sulla contemporaneità. Per tali fondanti motivi il programma di scatolabianca(etc.) prevede, per ogni stagione espositiva, una serie di mostre di autori di grande caratura e una serie di personali o bi-personali di giovani in stato di ricerca avanzata. Si prevedono inoltre dibattiti, tavole rotonde, presentazioni di libri, dialoghi tra artista e spettatore per innescare un confronto aperto tra differenti linguaggi, discipline, ruoli, aspettative e interpretazioni. Poi siamo stati selezionati per partecipare ad Independents2 ad Art Verona e la cosa ci riempie di orgoglio. E naturalmente stiamo sviluppando il discorso di Round the Clock attraverso scatolabianca heART @ brain, ovvero un programma di mostre, dibattiti, eventi rivolti al tema della sostenibilità ambientale, delle fonti energetiche pulite, di un’arte attenta alle problematiche del vivere civile e incentrata sui concetti di postproduzione e riciclo. Martina Cavallarin in tre parole. “solo un idiota si metterebbe tra Achab e la sua balena” (doc. House) Artisti: Francesco Bocchini, Ulrich Egger, Eva Jospin, Chiara Lecca, Serafino Maiorano, Gianni Moretti, Maria Elisabetta Novello, Svetlana Ostapovic, David Rickard, Antonio Riello, Matteo Sanna, Wilhelm Scheruebl, Silvia Vendramel, Devis Venturelli, Peter Welz.
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La natura morta tra meraviglie e spiritualità Una bellissima mostra alla Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona presenta l’evoluzione del genere “natura morta” in Italia tra il 1830 e l’inizio del Novecento
in apertura: Emilio Longoni (Barlassina 1859-Milano 1932) Natura morta con frutta candita e caramelle. Studio dal vero, 1887, Olio su tela, 63 x 110 cm Firmato e datato in basso a destra, E. Longoni 87 Provenienza: Milano, Collezione Giuseppe Treves Tortona, Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona in questa pagina: Adolfo Feragutti Visconti (Pura, Canton Ticino 1850 – Milano 1924) Uva , 1896-1900 Olio su tela applicata su cartone, 62x47 cm Firmato in basso a sinistra, a Feragutti Visconti Lugano, Museo Civico di Belle Arti, dal 1931
Il concetto di natura morta al quale si lega uno dei generi più amati dalla committenza borghese ottocentesca si impose tra gli storici e critici d’arte nel settecento ed ebbe per essi una significazione negativa. Infatti il termine veniva contrapposto alla natura viva delle opere a soggetto narrativo, le uniche degne di raffigurare la grande pittura. In realtà, frammenti di naturalismo avevano a suo tempo appassionato pittori come Leonardo e Durer, animati dallo spirito indagatore mediato dalla visione e dalle immagini che nel tardo rinascimento avevano una valenza direttamente scientifica. Il dato obiettivo tratto dalla natura ebbe una sua autonomia con la corrente manierista dalla quale si differenziarono due macrotendenze: i pittori di tradizione fiamminga e post caravaggeschi che amavano la rigorosità della riproduzione del vero e i pittori che cercavano l’illusionismo del trompe-l’oeil (Rubens e i pittori in qualche modo collegati al Barocco). Il successo tra la committenza tardo secentesca e settecentesca del modo barocco di concepire la visione portò al decadimento nell’arte del tema legato alla resa del dato naturale come soggetto autonomo. Il genere natura morta ebbe un risveglio significativo verso la metà dell’ottocento, quando le opere di Corot e Courbet furono interpretate come una decisa reazione alla mielosità romantica e al purismo accademico. In questo rinnovato interesse per il genere si trovò protagonista la pittura lombarda soprattutto a Milano grazie alle opere di Francesco Hayez, autore dalla metà degli anni trenta di ammirate composizioni floreali e di Luigi Scrosati, artista molto affermato tra la nuova committenza borghese, amante della decorazione legata alle tecniche di raffigurazione del vero.
MOSTRE
di Antonio Bramclet
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La mostra organizzata presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, visitabile sino al 19 febbraio 2012, intitolata “La meraviglia della natura morta, 1830-1910”, presenta al pubblico una sorta di genealogia artistica del periodo in cui il genere natura morta ritorna di gran moda in Italia sotto la poderosa spinta dell’autorevolezza culturale raggiunta dall’Accademia di Brera. I campioni di questo frequentatissimo genere oltre ai citati Francesco Hayez e Luigi Scrosati, furono il bresciano Francesco Inganni, Cesare Tallone, Filippo Carcano, Giovanni Segantini, Emilio Longoni, Giovanni Sottocornola, Adolfo Feragutti Visconti. Tutti questi artisti, in un modo o nell’altro collegati all’Accademia di Brera, si sincronizzarono benissimo con il nuovo gusto borghese attratto da composizioni sempre più debitrici al verismo trionfante, più idoneo alla decorazione di boiserie, cucine e sale da pranzo, in abitazioni di recente edificazione o appena restaurate. L’emulazione tra pittori insieme all’elevazione artistica del genere natura morta rinnova velocemente i modi di interpretare la valenza della resa dal vero: si passa dalla rassicurante fissità dei perfetti vegetali restituiti al fruitore secondo lo stile fiammingo e Biedermaier, ad asimmetrie che sconvolgono la composizione: ceste che si aprono e lasciano intravedere frutti imperfetti, troppo maturi, resti da fine tavola etc. Verso la fine dell’ottocento l’ideologia artistica dominante che attraversa l’Accademia di Brera cambia bruscamente. Le minutaglie da caminetto con le interminabili sfilate di cavoli, poponi, uva e rigurgiti floreali vengono condannate come manifestazioni artistiche troppo deboli per ambire ad un dialogo con il nuovo paradigma artistico animato dai principi del divisionismo. Tuttavia, i grandi collezionisti del periodo, perlopiù industriali del tessile, continuarono ad amare la natura morta, anche se il fronte della critica disprezzava la loro arte accusata di manierismo. Ovviamente l’eccezione era rappresentata da pittori come Previati, Segantini, Longoni… pittori capaci di riscrivere la natura morta attraverso la tecnica della divisione dei colori, trasformando la percezione della forma in musicalità della visione e spostando i valori percepiti su di un fronte spirituale per il quale la luminosità astratta era di gran lunga più importante della rappresentazione formale. Dalla meraviglia di fronte al vero si passa al luminoso e reverente stupore verso una immagine incapace di contenersi nei contorni delle cose, spinta verso un’aldilà della visione che diverrà la terra di confine da esplorare per le avanguardie del novecento.
in questa pagina dall’alto: Giorgio Belloni (Codogno, Lodi 1861-Azzano di Mezzegra, Como 1944) Frutta, 1884, Olio su tavola, 75 x 103,5 cm Firmato in basso a destra, G. Belloni Provenienza: Codogno, Collezione Carlo Lamberti; Codogno, Collezione Giuseppe Novello Codogno, Raccolta d’Arte Lamberti; Luigi Scrosati (Milano, 1814 – 1869) Fiori, 1862, Olio su tela, 58 x 73 cm Milano, Galleria d’Arte Moderna Provenienza: legato Ponti (acquistato con la somma lasciata al Comune dagli eredi Ponti, al di fuori del legato testamentario, 1896-1910) nella pagina accanto: Cesare Tallone (Savona, 1853 – Milano, 1919) Natura morta con formaggi e salami, 1887 Olio su tela, 40 x 65 cm Firmato e datato in basso a destra: “C. Tallone 1887” Provenienza: Torino, Collezione privata; Busto Arsizio, Collezione Piero Candiani; Busto Arsizio, Collezione Paolo Candiani
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Carloalberto Treccani e il mondo visto da Google Immagini fotografiche, computer e connessione internet. È questo il cast di Carloalberto Treccani, giovane artista bresciano classe ‘84 che, dal 2006, contribuisce a farsi spazio nella scena italiana dell’arte contemporanea. Una ricerca che affonda le sue radici sul quotidiano e che vede come protagonista la realtà che ci circonda, ci ingloba e ci risucchia, quella realtà con cui dialoghiamo giornalmente e che ci permette di essere sempre connessi e on-line, pronti e disponibili con il mondo intero. È internet, rete di comunicazione telematica che avvolge il pianeta, incollandoci alla sedia in una postazione fredda e asettica illudendoci di essere sempre presenti. È l’immagine fotografica a nascere, non dall’utilizzo della macchina fotografica, in quanto Treccani non ne fa uso, perché è già la rete ad averla all’interno. Ormai onnipresente, da qualche anno la troviamo sui satelliti, sui pc e sui cellulari, ne disponiamo in versione “compatta”, la portiamo sempre con noi, pronta ad immortalare ogni singolo momento della nostra vita ritraendolo come se fosse il ricordo di una grande occasione, anche quando, forse, non lo è. Immagini omologate in una luce artificiale che spesso rimarca l’estraneità e la distanza del singolo e del suo io percorrendo la strada verso quei luoghi che Augè definiva “non luoghi della surmodernità”. Scarichiamo le immagini e in un attimo ecco che queste navigano sul web, subito postate sui nostri blog o sugli album di facebook aggiornati in tempo reale, in diretta condivisione con la comunità. Ma non è finita qui, quante volte veniamo ripresi dalle telecamere a circuito chiuso nelle banche, nei supermercati, in posta o nei negozi? Quante volte ci capita di vederci apparire sui maxischermi nei locali, in discoteca o durante i concerti? Siamo forse arrivati a quel fatidico 1984 predetto dalla visione distopica di George
In questa pagina: IN VIAGGIO #1 dal 06/01/2011 al 20/02/2011 Stampa inkjet con inchiostri UV - 66x88 cm
ARTISTI
di Simona Gavioli
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Orwell, in cui tutti veniamo spiati e senza saperlo controllati? Ad una prima lettura potrebbe sembrare questo il messaggio che Treccani vuole farci passare attraverso le sue opere, ma in realtà non è così. Il suo fil rouge è, invece, una visione positiva e conscia dell’essere sempre disposti e desiderosi di apparire, farci spiare dall’occhio meccanico ed esserne felici talvolta mettendosi in posa. L’analisi di Treccani degli ultimi anni si concentra sul grande “colosso americano di Mountain View” protagonista nella serie “Google street view” (2009) in cui le immagini vengono strappate all’applicazione attraverso la quale riusciamo ad arrivare virtualmente nella località cercata, oltrepassando i limiti dello spazio-tempo stando seduti comosamente su una poltrocina davanti allo schermo del nostro computer. Ad alcuni anni dal lancio del servizio, ormai divenuto famoso, Google si è visto costretto a cancellare i volti delle persone per questioni di privacy, quando in realtà molti, erano desiderosi di esibirsi e avevano imparato a riconoscere le macchine di Google. Ne risulta che nelle fotografie dell’artista troviamo ragazzi intenti a salutare, saltare, sbracciarsi, al fine di essere immortalati dalla macchina di Google. Ecco, allora che Google maps e i suoi approfondimenti diventano strumento di studio e oggetto d’arte. In Senza Titolo (2010) l’immagine, sempre sottratta a Google Street View, riprende paesaggi desolati, in assenza dell’uomo, territori in cui la storia pare aver raggiunto il sold out. Qui, Carloalberto decide di fissare il momento in cui la figura sta prendendo forma sullo schermo, fermando gli attimi in cui “sta caricando…”. Aiutato dai limiti di una connessione lenta, ritrova l’unicità all’interno della fissità a cui l’immagine sarebbe, altrimenti, stata condannata fino ad un futuro, ulteriore aggiornamento. In Alfabeto per l’edilizia (2010), Treccani continua a giocare con il motore di ricerca estrapolando i soggetti da Google Earth. Grazie a questo mezzo, che ci mette a disposizione la visione satellitare del globo, la ricerca si sposta sulle forme particolari delle piante degli edifici, ricercando e isolando quelle che ricordano il nostro alfabeto, crzeandone uno nuovo, singolare e visivo, con cui formare delle frasi che facciano riflettere sull’esistenza reale dello spazio virtuale. In Viaggio con il mouse (2011), Carloalberto spiega “L’ho fatto pensando a mia madre, che quando vuole pianificare un viaggio si arma di una vecchia cartina cartacea e ne segna con il dito il percorso”. Utilizzando la stessa tecnica unita all’uso del mouse, traccia segni
che evocano viaggi immaginari, trasferendoli e stampandoli su mappe reali, dimostrando come ognuno di noi, possa creare la propria carta geografica e il proprio itinerario personale. In questo pullulare d’informazioni visive, chi guarda chi? Ciò che vediamo (o che si dà da guardare) potremmo pensarlo come un gioco di sguardi; è nel gioco degli sguardi che chi guarda dà senso, cioè attribuisce qualcosa di più della mera esistenza, così il guardato ammicca o restituisce lo sguardo allo spettatore rinviandogli di nuovo senso. In altre parole, vedere o guardare si dà a partire da almeno due soggetti. Non si può supporre un solo sguardo, perché non c’è nulla capace di sostenere il solo sguardo, non si può in ogni caso sfuggire alla penetrazione o al rispecchiamento. In entrambi i casi chi è in gioco è l’Altro da sé. Insomma, non una denuncia, non un porsi in modo avverso contro il grande occhio che tutto vede, ma anzi portare alla luce il desiderio dell’uomo contemporaneo di poter essere sempre collegato, sempre in linea, sempre disponibile a condividere e condividersi nella grande rete del web. Perchè in fondo “In Google We Trust”.
INFO: fabioparisartgallery Via Alessandro Monti, 13 25121 BRESCIA www.fabioparisartgallery.com
in apertura: IN GOOGLE WE TRUST, 2010 Stampa lambda su alluminio - 29x64 cm nella pagina accanto: GOOGLE STREETVIEW #Broadway, New York, NY, USA, 2009 Photography, Inkjet print - 30x50 cm
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Noleggio Lorini Un servizio che nasce dall’esperienza.
È una giornata soleggiata, ancora troppo calda per essere a fine settembre. In viaggio penso a come sarà l’incontro con il Geom. Pietro Lorini. Al telefono mi è sembrata una persona simpatica e affabile. Arrivo davanti all’azienda a Montichiari (BS) e vengo accolta dal Geometra in persona con una stretta di mano forte, quella degli imprenditori di una volta che stringevano mani e guardavano negli occhi e con i quali bastava “la parola” per chiudere i contratti. Mi accompagna nel suo ufficio alle cui pareti sono appesi quadri con la storia dell’Azienda. Gli chiedo di raccontarmela. “L’impresa edile «Lorini Geom. Pietro» nasce nel 1974, azienda leader nelle costruzioni di linee elettriche e telefoniche, nonché impresa di costruzioni e ristrutturazioni.” Resto affascinata dal fatto che l’azienda ha avuto, da sempre, un aspetto poliedrico. Mi spiega che durante il cammino di questa azienda troppo spesso si è dovuto fare i conti con una realtà che imponeva un parco macchine fermo ed inutilizzato tale da obbligarla in continuazione a reinvestire capitali. A questo punto matura l’alternativa di prendere le macchine necessarie a noleggio. “Ci siamo resi conto che purtroppo nella nostra zona non esistevano strutture in grado di fornire alle aziende le macchine più appropriate per ogni singola esigenza. Decidiamo allora di mettere a disposizione del noleggio le attrezzature e le macchine che sostavano inutilizzate all’interno dell’impresa, passando così da utilizzatore a noleggiatore”. Da questa esperienza si intraprende il viaggio verso quello che oggi assume il nome di “Noleggio Lorini”. Nel 1993 quindi nasce a Poncarale la “C.N.B. centro noleggio bresciano” prima azienda specializzata nel noleggio di macchinari ed attrezzature per il settore del movimento terra e dell’edilizia stradale. Con il proseguimento del cammino e l’ampliamento del proprio parco macchine si presenta la possibilità di
in apertura: il piazzale in questa pagina: foto storiche
STORIE
di Roberta Filippi
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in queste pagine: macchine al lavoro
aprire un altro punto logistico a Montichiari per poter fornire al cliente un facile e veloce accesso alla flotta sempre in espansione. Nell’anno 2000 viene creata la «C.N.B.2000 s.r.l.» una struttura specializzata nel noleggio di autocarri, piattaforme aeree e sollevamento in genere. Il 1 agosto 2003 la ditta «C.N.B». si trasforma in «Noleggio Lorini» rendendo la filiale di Montichiari la sede operativa legale, inglobando successivamente la ditta «C.N.B. 2000», integrando così il servizio e rendendolo attivo a 360° garantendo cosi maggiore affidabilità e disponibilità dei macchinari. Al fine di attuare una politica di penetrazione nel mercato e raggiungerne una buona fetta, la società ha ritenuto opportuno di aprire due nuovi centri logistici, rispettivamente a Calcinato e a Castegnato, diventando così leader nella provincia di Brescia ed ampliando ulteriormente l’organico per poter offrire consulenze professionali direttamente sui cantieri. “Nella costante battaglia per migliorare la qualità e la sicurezza del lavoro sono state create con la partnership di IPAF corsi di formazione e personale adeguato all’addestramento e all’utilizzo delle macchine e in quest’ultimo periodo stiamo collaborando con l’associazione Sicur Zone, il nuovo centro di formazione e sperimentazione di Ospitaletto”. Oggi «Noleggio Lorini» è un’azienda che può vantare un servizio che nasce dall’esperienza. L’esperienza del Geometra Lorini che, ristringendo la mia mano per congedarmi, mi dice che per lui sono le persone a fare la differenza e che l’unica cosa importante è la voglia di migliorarsi. Sempre.
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(Jhonn Steinbech)
di Roberta Filippi
Missione compiuta! Possiamo dirlo forte, dopo un viaggio di più di 5.000 km percorsi in totale autosufficienza senza nessuno al seguito se non le borse e i carrellini che conterranno tutto l’occorrente per il viaggio. L’iniziativa a cui hanno preso parte Milena Dipierantonio e Tiziano Pirazzi, entrambi di Verbania, Luigi Bianchetti, Lorenzo Gabrieli di S. Vigilio di Concesio (BS) e Gianfranco Reboldi di Ospitaletto (BS), lega nuovamente lo sport alla solidarietà. Anche questa volta, come nei viaggi precedenti, sono state vendute, prima della partenza, cartoline spedite una volta giunti in Islanda il cui ricavato verrà devoluto all’associazione “Insieme per la Pace” che lo impiegherà per il Progetto Giovani. Da Giugno, in collaborazione con l’ASSL e la Regione, sono stati ospitati presso la “Casa della Pace” di S. Vigilio di Concesio (Bs) dei gruppi di ragazzi che hanno avuto, o hanno tutt’ora, problemi di droga, di famiglia o di handicap fisici. I ragazzi, provenienti da comunità dove hanno già intrapreso un “programma di recupero”, durante i fine settimana seguiranno delle “terapie diverse” (musica/ arte/manualità), seguiti da personale fornito dall’ASSL. “Noi dobbiamo rendere la struttura il più idonea possibile a questa ospitalità, attrezzando un paio di stanze con letti a castello e relativi armadi, sistemando i due locali dei bagni, la cucina e la sala delle riunioni in modo da renderli utilizzabili anche ai portatori di handicap. Questo “progetto” che è già in atto, ha un costo non indifferente ed è portato avanti da volontari che non percepiscono nessun tipo di compenso. Attraverso la vendita delle cartoline legate al nostro viaggio, diamo il nostro prezioso contributo alla sua realizzazione.” spiegano i volontari. Ed è proprio grazie al messaggio di solidarietà e pace portato lungo Italia, Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Germania, Danimarca, Olanda, Belgio, Islanda, Francia e Svizzera è stato registrato il sostegno di numerosi sponsor e associazioni sportive.
in apertura: Gianfranco Reboldi davanti alla nave vikinga sul lungo mare di Reykjavik in questa pagina: foto di gruppo - laguna degli iceberg
Ho chiesto a Gianfranco Reboldi, conosciuto da tutti come “Bobo”, di raccontarci questa incredibile avventura. Davanti ad una tazza di thè fumante e con gli occhi vivi di un ricordo indelebile mi ha narrato senza nemmeno riguardare il diario che ogni giorno aggiornava durante il viaggio, ogni momento. “Siamo partiti il 23 luglio 2011 alle 8.30 da piazza Garibaldi a S. Vigilio di Concesio, paese alle porte di Brescia. La partenza è di fronte alla sede della Casa della Pace, l’associazione a cui andrà l’introito della vendita delle cartoline, che spediremo una volta giunti in Islanda. Iniziamo a pedalare sotto una leggera pioggia che ci accompagnerà fino a Verona. Poi su tutto il percorso, troviamo un’alternanza di vento, acqua e sole, tutte le condizioni di tempo che ci aspettano in Islanda. Attraversiamo Austria, Repubblica Ceca, Germania, Polonia, di nuovo Germania quindi, tramite traghetto da Rostock a Gedser, raggiungiamo la Danimarca dove una volta percorsi i 170 km che ci separano da Copenaghen smontiamo le nostre biciclette, borse e carrellini per imbarcarci sull’aereo che ci porterà a Keflavik, cittadina a 55 km da Reykjavik, dove atterriamo il 4 agosto alle 9 ore locali (ore 11 in Italia). L’Islanda ci dà il suo benvenuto con il termometro che segna 4 gradi e, considerando che siamo partiti da Copenaghen con 27 gradi, l’impresa di montare le nostre bici è alquanto ardua. Raggiungiamo la capitale dove, una volta sistemati in campeggio, ne approfittiamo per lavare un po’ di vestiario, visto che abbiamo a disposizione lavatrice e asciugatrice. Il paesaggio visto fin ad ora dà la sensazione di ciò che ci aspetta: enormi distese di vegetazione da dove si stagliano montagne di un verde intenso che fanno da contrasto ad un cielo che, a causa del forte vento, alterna il grigio all’azzurro limpido. Dopo aver trascorso la notte a Reykjavik spediamo le 726 cartoline vendute a scopo benefico e acquistiamo qualche pezzo di ricambio per le nostre bici. Finalmente pronti imbocchiamo la famosa Ring Road, la statale N°1,
PEOPLE
“Le persone non fanno i viaggi sono i viaggi che fanno le persone”
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che ci permetterà di compiere il giro di questa fantastica nazione che è l’Islanda. I primi giorni sono caratterizzati da condizioni di tempo instabili, pioggia freddo e vento non ci danno tregua. Le temperature oscillano tra i 2 e i 9/10 gradi fino ad arrivare ad un massimo di 22 nella zona del lago Myvatn, sito di sorgenti sulfuree, vulcani e centrali geotermiche. La zona sud est si mostra con la sua bellezza, pedaliamo sovente con il mare a destra e montagne verdi a sinistra con numerose cascate, una più bella dell’altra, ci portano alla famosa laguna degli iceberg parte terminale del ghiacciaio Vatnajokull da dove enormi blocchi di ghiaccio si staccano per poi digradare lentamente verso il mare. Una volta lasciata la laguna ci attende la zona dei fiordi, ne percorriamo al completo un paio per poi seguire la Ring Road che ci porterà verso nord. Da ora in avanti il percorso è caratterizzato da continui saliscendi e dobbiamo fare scorta di generi alimentari perché tra un paese e l’altro le distanze variano tra i 70 e gli 80 km in mezzo al nulla. Incontriamo solamente aziende agricole con numerosi cavalli, pecore e mucche al pascolo in mezzo ad una vegetazione praticamente assente se non per qualche rara serra dove si coltivano ortaggi, pomodori e anche banane. Raggiungiamo la zona delle sorgenti sulfuree dove numerose centrali geotermiche danno energia e acqua calda ai paesi che le circondano. Qui per la prima volta togliamo i vestiti invernali per metterci maglie e pantaloncini corti. Purtroppo questa parentesi estiva non durerà molto: una volta percorsi 30 km le temperature ritornano ai soliti 5/10 gradi. Siamo poco oltre la metà del nostro giro in terra islandese. La parte nord, anch’essa caratterizzata da parecchi vulcani ancora in moderata attività, ci porta alla seconda città importante, Akureyri affacciata sul fiordo Eyafjordur da dove partono crociere per avvistare le balene nel Mare del Nord. Da qui in poi paesaggi lunari si alternano a in questa pagina: picchiate in discesa sui numerosi fiordi che troviamo sulla nostra tratto di strada sterrata strada. Obbligati a percorrere l’ultimo fiordo a causa dei 7 km di statale N° 1 tunnel che vieta il transito alle biciclette riavvistiamo dopo 40 km Reykjavik. La città ci sembra lì vicino, a portata di mano, ma mancano nella pagina accanto: ancora 30 km. In questa penultima tappa risulta essere forse la più la bicicletta di Bobo Reboldi davanti alla cascata impervia a causa il forte vento. Siamo infatti costretti a scendere dalle di Skogafoss sud - Islanda bici per non rischiare di cadere. Dopo 4 km a piedi sopraggiungiamo
nella capitale. È il 15 agosto. Ore 12.30. Ci ristoriamo nello stesso campeggio da dove eravamo partiti e decidiamo di svagarci un po’. L’indomani ci aspettano i 55 km che ci separano dall’aeroporto dove smontiamo di nuovo i nostri materiali per poi rimontarli la sera del 16 agosto all’aeroporto di Amsterdam. Il mattino seguente, scortati da un gentile poliziotto in moto, raggiungiamo la pista ciclabile che ci porta nella giusta direzione. Questa parte del viaggio in terra olandese è caratterizzata dalle ineguagliabili piste ciclabili che non abbandoneremo mai fin a raggiungere il confine con il Belgio. Dopo aver fatto una rapida visita ad Anversa bella città belga entriamo in Francia, penultima delle nazioni attraversate e finalmente ricominciamo a sentire un po’ il caldo. Non eravamo più abituati ai 30 gradi di agosto. Attraversiamo graziose cittadine francesi come Verdun, Dinan, Morteau, Nechataeu… il viaggio in bici permette di godere ugualmente la vista di paesaggi e di questi centri visto il suo lento incedere e di assaporare gli odori e i sapori pur senza fermarsi. Per ultima ci rimane la Svizzera che raggiungiamo non senza fatica dovendo valicare i passi de Ballon d’Alsace (1200 mt), il S.Croix (1000 mt) che affrontati con 30 kg di carico si fanno sentire. Dal passo S.Croix discesa fino ad Yverdon sul lago di Losanna che percorriamo fino a Montreaux per poi prendere la direzione di Briga dove ci attende la scalata al passo Sempione che, con i suoi 2005 metri, è la nostra cima Coppi. Da qui volata fino a Verbania dove Milena e Tiziano concludono la loro fatica alle 22.30 del 25 agosto. A Enzo, Gigi e Franco rimangono 160 km. Questo viaggio termina alle 18.30 del 26 agosto dallo stesso punto da dove eravamo partiti dopo 5183 km e 11 stati attraversati con qualche kilo in meno ma con tante esperienze vissute da raccontare”. Un’emozione unica, fisicamente molto impegnativa ma, la percezione che ho avuto dal racconto di Bobo mi fa venir voglia, pur essendo realmente negata, di montare in sella con loro durante il prossimo viaggio. Credo però che mi limiterò ad acquistare (e a far acquistare ai miei amici) numerose cartoline per evitare di far perdere la media a questi veri (in ogni senso) sportivi.
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La formazione… questa sconosciuta! di Giovanni Matteazzi
Da tempo si assiste sul territorio ad una invasione di corsi, di esperti, di attività “tuttologica”, che portano solo grande confusione ed incertezza. Non solo: documenti non conformi, non corretti, non coerenti hanno invaso Aziende di tutti i tipi e a tutti i livelli operativi; si assiste pertanto ad una dequalificazione sulla e per la formazione e soprattutto sui docenti, che dovrebbero essere la punta di diamante, per superare il limite dei continui incidenti e morti sul lavoro (l’importanza di un serio “Codice Etico” e di un fondamentale “Codice di Responsabilità Sociale”, in una gestione di S.G.S.L. UNI Inail Ispesl). È indubbio, che se non si vuol comprendere il valore fondamentale della formazione specialistica a qualsiasi livello, mai potrà essere superata la procedura del “pressapoco”. Non è possibile che ancora oggi si debbano recepire o leggere su documenti fondamentali, quali il P.S.C. (Piano Sicurezza e Coordinamento) e P.O.S. (Piano Operativo Sicurezza), applicazione di decreti legge obsoleti, superati, cancellati dal D.Lgs. 81/08 s.m.i.c.. È mai possibile che vi sia ancora confusione, per esempio, nel settore Ateco 3 (Edilizia), tra la definizione di “artigiano” con quella di “ditta artigianale”; è mai possibile che non si voglia comprendere la necessità fondamentale della idoneità fisica del lavoratore; è mai possibile che le visite presso il medico competente siano considerate come un peso? Vi sono impostazioni mentali bloccate da decenni, che non reputano opportuno l’aggiornamento perchè lo stare fermi è senz’altro più comodo e meno coinvolgente. Quanto sollecitato dal D.Lgs. 106/09, in merito al concetto
di “responsabilità”, non stà ancora inserendosi nel mondo del lavoro. Ancora oggi non si vuol capire la procedura dell’ “Azienda Virtuosa”, il metodo operativo della “regola d’arte”, ma soprattutto non si vuol ancora capire che sicurezza e prevenzione sono fondamentali, sono di aiuto, solo quando il Datore di Lavoro va a riprendere percorsi professionali qualificanti e qualificati, va a recepire gli strumenti necessari per ottenere concreti risultati, per trasferire ai propri addetti tutto un “percorso di sicurezza”, affiancato e tutelato con giusti operatori accreditati, nella massima professionalità di formazione. Il modello organizzativo (D.Lgs. 231/01) va considerato oggi nella sua fondamentale importanza, va progettato e realizzato nell’ambito di una funzionalità operativa per raggiungere traguardi della “prassi” di continua attenzione più verso la parte pratica che più verso la teoria. Bisogna superare il concetto espresso per la qualità intesa non tanto come “insieme delle caratteristiche che conferiscono la capacità di soddisfare esigenze espresse ed implicite”, bensì intesa come fusione di una gestione di modello affinchè vi siano procedure di istruzione operativa, di dimensione aziendale nei ruoli di responsabilità, vi sia la giusta comunicazione di informazione e soprattutto vi sia la gestione di tutti gli elementi organizzativi e procedurali, atti a ridurre le possibilità di accadimento di incidenti, di infortuni, nella rispetto della tutela anche dell’ambiente e luogo di lavoro. È funzionale pertanto procedere al recepimento di tutte le nuove metodologie di pianificazione, di programmazione, cui, per esempio, fa giusta attività l’Associazione Italiana per la Gestione ed Analisi del Valore (A.I.A.V.) – Pisa; d’altra parte si fa ancora fatica a comprendere la tecnica dell’Analisi del Valore (A.V.) per l’ottimizzazione del “costo globale” dell’intervento; ed è una situazione di gravissimo limite, a tutti i livelli dell’organigramma aziendale, sia nel settore cantieristico, sia nel settore della Pubblica Amministrazione, perché non si vuol fare quel passo in più e/o crescere quel famoso centimetro oltre il muro, per ampliare l’orizzonte della formazione. Si assiste ad un continuo non recepimento delle UNI, che possono confortare la formazione, le valutazioni di metodo, le valutazioni di tecnica operativa; si continua a voler trascurare la definizione delle classi di esigenza, che risultano poi correlate in una unica visione di insieme affinchè vi possa essere la possibilità
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del raggiungimento di una finalità e giusti obiettivi sul lavoro (UNI 8289:1981 = sicurezza, benessere, fruibilità, aspetto, gestione, integrabilità, salvaguardia dell’ambiente).
Arch. Giovanni Matteazzi Docente qualificato Ateco 3 Componente Consiglio Direttivo Nazionale A.I.A.S. - Milano Componente Consiglio Direttivo Nazionale A.I.A.V. - Pisa
E nella dinamica operativa cantieristica, i concetti sopra espressi, definiscono il “costruire” un cantiere sicuro e/o un luogo di lavoro. È ora di considerare la professionalità ed esperienza operativa concreta sul lavoro e per il Datore di Lavoro e per gli operatori professionali di sostegno alla formazione. L’esperienza sul campo oggi deve essere valutata nel pieno della portanza, non tanto di sapere a memoria norme, ma per quanto l’occhio tecnico vale nella procedura concreta lavorativa: il cosidetto “colpo d’occhio” operativo/cantieristico e non risulta essere fondamentale il numero delle ore di formazione, bensì la nuova mentalità di guardare avanti, ma soprattutto di superare i vecchi limiti di orizzonte operativo; l’esperienza concreta deve essere premiata e deve essere vista in un’ottica completamente diversa da quella esistente: non è tanto l’aver studiato (anche ad alti livelli), bensì l’espereinza ottenuta dalla lotta quotidiana sul campo. Il tanto promesso e tanto atteso accordo Stato- Regioni per la formazione per la sicurezza sul lavoro, pur essendo stato rimandato ad altra data (per le attuali note vicissitudini), doveva costituire una precisa formulazione definitiva e certa sui corsi di formazione per lo svolgimento dei compiti di prevenzione e protezione nell’ambito D.Lgs. 81/08 s.m.i.c.. È indubbio che tale accordo, una volta in essere, porterà finalmente indicazioni complete e definitive per eliminare tutte quelle situazioni di operatività come sopracitate, non qualificanti né qualificate. È ora pertanto che vengano individuate precise situazioni operative per i soggetti formatori, con individuazione di metodi di accreditamento. Non si possono più usare docenti con requisiti non idonei, va valutata con massima importanza la metodologia di insegnamento e di apprendimento. Il percorso formativo finalmente deve essere articolato, con precise valutazioni e soprattutto certificato.
Non vi devono più essere dubbi sugli aggiornamenti, sulla diffusione della buona prassi operativa; vi devono essere precisi adempimenti per gli obblighi formativi in caso di apertura nuova attività. È necessario individuare precise organizzazioni della formazione che dimostrino di essere in possesso di idonei docenti, con relativa professionalità ed esperienza operativa concreta. È indubbio che devono essere costruite, gestite precise formazioni particolari aggiuntive, per i preposti, per i dirigenti, anche per i Datori di Lavoro (art.97 comma 3 ter); è fondamentale stabilire e definire i riconoscimenti della formazione pregressa, ma soprattutto deve essere definita una volta per tutta i soggetti formatori nel sistema di accreditamento. Non si possono più permettere situazioni in cui vi siano soggetti operatori senza la dovuta verifica di giusta esperienza, maturata in ambito prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro. Conseguentemente devono essere eliminate tutte quelle situazioni in cui altri operatori, si ripete, di altri settori, si permettono di consegnare documentazioni, “codici” e quant’altro, senza avere una specificità e gestione nel settore operativo pertinente all’Ateco di riferimento. Non è più un problema come formare, non è più un problema di come organizzare, ma il problema è costruire una precisa base di criteri e condizioni per: - formazione generale per i lavoratori - formazione dei dirigenti - formazione dei preposti - corsi di aggiornamento - durata minima della formazione È chiaro che con la continua evoluzione a cui si assiste nel mondo del lavoro, significa anche adeguarsi, aggiornarsi alla continua evoluzione ed innovazione. Significa operare con i giusti approfondimenti tecnico – organizzativi, significa applicare con attenzione il Sistema di Gestione, significa finalmente poter capire il significato degli strumenti per arrivare ad una definizione di “Azienda Virtuosa”.
Ecco allora come la formazione diventa uno strumento dinamico per l’apprendimento, diventa un giusto processo di acquisizione delle competenze, diventa una barriera contro il pressapochismo e contro la superficialità. La settorializzazione dei percorsi formativi, può effettivamente nascere dal tavolo tecnico intercoordinamento di prossima gestione di accordo, soprattutto per l’individuazione dei livelli di rischio in funzione dei codici Ateco: - rischio basso - rischio medio - rischio alto. Fattore importante è che si possa arrivare finalmente all’uso di una formazione, che chiarisca e crei motivazioni di raggiungimento obiettivi e obiettivi che possano ridurre incidenti, infortuni e malattie correlate al lavoro. Che poi significa creare un aspetto di contenimento economico nell’ambito del rapporto costi/benefici, in funzione ad un rapido ritorno dell’investimento anche in realtà meno complesse grazie al processo di gestione operativa sicurezza e prevenzione. È opportuno e da tempo lo scrivente ripete e sottolinea in tutte le sedi possibili, di pervenire ad un linguaggio comune, atto a creare sul territorio soggetti capaci di dialogare tra di loro in un’ottica di sicurezza e prevenzione, non solo per le grosse Aziende, ma soprattutto in funzione delle piccole aziende, che costituiscono la realtà operativa più concreta e l’ossatura fondamentale portante sul territorio redditività. Altro elemento di ossatura fondamentale nella e per la formazione è operare con la massima trasparenza, chiarezza, senza usare concetti nebulosi e/o obsoleti, creanti solo confusione; la chiarezza nasce dagli errori, la chiarezza nasce da attenzione operativa di giusta comunicazione, nasce dall’attenta condizione operativa dell’addetto, nasce da una articolazione di responsabilità, di realizzazione di attività pianificate, nasce da un insieme di attività correlate, affinchè si possa ottenere una “buona tecnica” per un preciso rispetto verso la figura del lavoratore.
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Venerdì 15 luglio Sicurlive group, ha festeggiato l’inaugurazione dei nuovi uffici di Ospitaletto. Una vela issata a più di 30 metri ad annunciare l’evento. Numerosi i partecipanti che hanno presenziato alla cerimonia tra le quali autorità locali, partner, clienti, fornitori e giornalisti, oltre ai vertici della Sicurlive Group, azienda leader nella produzione e installazione di sistemi di sicurezza anticaduta dall’alto con alle spalle una storia di oltre 50 anni. A fare gli onori di casa l’Amministratore Unico della Società, Giovanni Buffoli e tutti i suoi collaboratori. Durante l’inaugurazione erano presenti anche il Sindaco di Ospitaletto, Giovanni Battista Sarnico, e il consigliere comunale Massimo Reboldi che hanno sottolineato l’importanza di un evento di questa portata in un così difficile momento di crisi. L’aria frizzante e di gioia che si è respirata durante l’evento è stata resa ancora più vivace dall’arrivo di Giancarlo “Bobo” Reboldi e della sua immancabile bicicletta sponsorizzata Sicurlive group, appena rientrati dal viaggio in Islanda. La cerimonia è proseguita con il consueto taglio del nastro, con un’accezione particolare visto che è stato tagliato a sei mani e con le prime forbici che il padre di Giovanni, il Sig. Carlo Buffoli, utilizzava in carpenteria. Grande divertimento, incontri inaspettati e soprattutto presentazioni. Sono infatti sei le “famiglie Sicurlive” che nell’anno 2011 hanno accolto i nuovi nati. Il tutto condito da buona musica e da un brindisi di buon augurio in un’ottica di costante miglioramento produttivo.
Nella pagina precedente: i nuovi uffici Sicurlive Group in questa pagina dall’alto: a sinistra Massimo Reboldi (consigliere comunale Ospitaletto), Giovanni Buffoli (A.U. Sicurlive) e Raffaele Scorza (Direttore Sicurzone). Foto di gruppo con alcuni collaboratori.
EVENTI
Inaugurazione nuovi uffici
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ingresso uffici Sicurlive Group; taglio del nastro: da sinistra Massimo Reboldi, il Sindaco di Ospitaletto Giovanni Battista Sarnico e Giovanni Buffoli; nella pagina accanto: alcuni momenti durante l’inaugurazione
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Ricerca e sviluppo Uno studio all’avanguardia sul calcolo dinamico per offrire maggiori performance
Nel ramo vita i sistemi anticaduta si trovano ad avere un ruolo sempre più centrale. Le aziende che operano in questo settore, solitamente, procedono con l’attuare le seguenti fasi: prima di tutto c’è il sopralluogo che anticipa la progettazione e il dimensionamento degli impianti più idonei. Poi c’è il preventivo, la fornitura, la posa e, in una seconda fase, il collaudo statico utile al fine di fornire al cliente un report completo e l’emissione del certificato di conformità. Sicurlive dopo una lunga discussione è da mesi al lavoro con un’equipe di esperti nel settore, per portare avanti studi specifici sul calcolo dinamico. Calcolo dinamico da introdurre nella progettazione di nuovi sistemi anticaduta che già la vede leader nel settore con i suoi numerosi brevetti. Una rivoluzione tecnica e ingegneristica che, negli intenti dell’azienda, vuole arrivare ancora più in alto e avanti: nella progettazione e nel brevetto di sempre nuovi e performanti impianti. Oggi, infatti, il problema legato al calcolo statico, si risolve con prodotti sempre più pesanti che da un lato non sono ottimizzati al loro unico scopo, la prevenzione anticaduta, e dall’altro, sono sempre più un vincolo al calcolo strutturale degli edifici, da parte degli ingegneri competenti. Oggi si calcola, attraverso prove pratiche, il limite di rottura di un palo a seguito del tiro di una fune. A questo risultato si applica un coefficiente, detto di sicurezza, e si avvia verso la sua produzione. Ma gli studi che si stanno portando avanti sul calcolo dinamico porteranno a conclusioni ben più avanzate e che cambieranno non di poco il settore del ramo vita. Si è da poco giunti alla conclusione della prima parte del lavoro. In collaborazione con un’importante società internazionale con sede nella bergamasca che promuove l’utilizzo delle tecnologie di simulazione, si sta creando un modello di calcolo dinamico con le reali reazioni dei vari materiali utilizzati. Una ricerca avanzata, come succede nel settore aerospaziale che fornisca risposte sempre più certe e ottenere simulazioni utili al raggiungimento della sicurezza. La performance che si raggiungerà sarà molto vicina all’effetto realtà. “La nuova norma 795 (in fase di definizione, n.d.r.) si avvicina molto di più alle prove dinamiche rispetto alle statiche” dichiara Giovanni Buffoli “proprio come sta facendo Sicurlive con questi nuovi metodi di carico”.
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La tecnologica è di casa Sicurlive System implementata la strumentazione con un kit per la certificazione e i test post-installazione
Sicurlive è un’azienda nata più di cinquant’anni fa ed è l’evoluzione di due generazioni di aziende legate al settore della carpenteria. Una continua evoluzione, alla quale non rinuncia, anzi. Oggi più che mai, ai suoi sofisticati prodotti linea vita, tutti brevettati e con indiscusso successo di affidabilità, affianca una ricerca che diventa tecnologica all’avanguardia, nel campo della certificazione e della garanzia delle sue installazioni. Grazie a un nuovo strumento appena adottato. Si tratta di un kit di ultima generazione dotato di palmare, adottato nel mese di ottobre e che sarà utilizzato a conclusione di tutte le installazione effettuate. Il sofisticato palmare, grazie all’ausilio di particolari sensori, permette di registrare i dati dell’installazione. Sarà in dotazione a ogni caposquadra che dopo un breve corso di aggiornamento sul corretto uso dell’impianto (tenuto presso il Centro di Formazione e Sperimentazione SicurZone) certificherà seduta stante, ogni lavoro. Si otterrà, infatti, un report completo, persino a prova di contraffazione, perché ogni palmare ha un numero di serie e ogni lavoro sarà registrato con quel numero, ogni operazione ha il suo codice, ogni operato il suo, come ogni prodotto e realizzato e marchiato sin dalla sua produzione e così via, per garantire la trasparenza più totale. Sicurlive System rilascia a fine di ogni intervento e di ogni installazione, una regolare e quanto mai dettagliata scheda dei lavori eseguiti. A questa sarà proprio il palmare a certificarne ulteriormente i dati della perfetta posa, offrendo un report con tutti i dati necessari. Una sfida che la Sicurlive group affronta ogni giorno, come in questo caso con investimenti concreti nel campo dell’elettronica e della strumentazione. Dotandosi di questa strumentazione Sicurlive si rende ancora una volta unica e leader nel settore. Un investimento di una decina di Kit che l’azienda bresciana ha voluto, di comune accordo con l’azienda produttrice, la NBC Elettronic, realizzare ad hoc, software compreso, che servirà a modificare se l’installazione è corretta, fornendo tutti i dati statici e dinamici, utili alla sua certificazione. Il palmare prima di tutto testa il fissaggio e poi la tensione della fune, rilevando che sia resistenti alla forza applicata. Un investimento anche economico: quasi diecimila euro per i kit che entrano in dotazione al Gruppo Sicurlive. “Siamo gli unici ad avere in dotazione questo tipo di strumentazione” sottolineano orgogliosamente dalla sede. Ma di certo saranno presto seguiti perché l’innovazione fa gola a molti e la NBC è già stata contattata da altri installatori per lo stesso strumento. In Sicurlive, ora però lo stanno già utilizzando. In nome ancora una volta della sicurezza.
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Sicurzone. Voglia di sicurezza.
Finalmente si parte. La sicurezza non può e non deve aspettare. Ci sono liberi professionisti, dipendenti, e titolari di azienda che hanno bisogno di conoscere a fondo argomenti relativi alla sicurezza e capire come difendersi dai problemi che quotidianamente affrontano. In seguito all’entrata in vigore del D.Lgs. 81/2008 “Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” e s.m.i. ed al ruolo e funzioni da questo assegnate allo Stato, alle Regioni ed agli Enti che a vario titolo hanno competenza in materia antinfortunistica, rimangono numerosi dubbi sulle procedure di condotta dell’attività ispettiva in cantiere da parte dei diversi soggetti. Incontriamo il Geom Raffaele Scorza, direttore di Sicurzone, all’interno del centro di formazione e sperimentazione di Ospitaletto che ci racconta perché ha voluto fortemente intraprendere questa nuova avventura, realizzata a tempi di record. Innanzitutto ci spieghi: cos’è Sicurzone? Sicurzone è un’associazione che intende promuovere, sviluppare e sostenere la conoscenza, lo studio della qualità della prevenzione e protezione dei rischi per la sicurezza, salute e igiene sul lavoro, sviluppare la formazione, l’aggiornamento professionale per la tutela di tutti gli operatori del settore, mediante attività formativa sia pratica che teorica. Inoltre intende favorire l’incontro degli operatori del settore oltre che sostenere convegni, seminari di studio e altre iniziative di carattere professionale. A chi è rivolto e cosa intende realizzare all’interno del Centro di Formazione e Sperimentazione Sicurzone? L’apertura del Campo di formazione e sperimentazione, oltre che di addestramento professionale, è rivolto a progettisti, installatori e, molto più importanti, gli utilizzatori, al fine di educarli al corretto e responsabile utilizzo dei dispositivi di sicurezza. All’interno del Centro di Formazione e Sperimentazione Sicurzone organizziamo corsi di formazione, convegni informativi e seminari, proponendo sia lezioni teoriche in aula che prove pratiche con addetti nell’area esterna. Come è stato realizzato il Centro? Il progetto è nato all’inizio dell’anno ed è stata molto forte la volontà di raggiungere l’obiettivo di realizzare un Centro di Formazione in grado si portare dei benefici fondamentalmente a tutti. Imprenditori, amministratori di condominio, professionisti ed operatori che quotidianamente sono in cantiere o sui tetti per posizionare antenne o impianti fotovoltaici, proprietari di case.. siamo tutti responsabili della sicurezza. È per questo che ognuno di noi deve aver l’opportunità di conoscere e comprendere i rischi e gli obblighi di ogni sua singola
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SOLUZIONI PERSONALIZZATE Siamo in grado di ideare e offrirvi corsi e seminari ad hoc per ogni Vostra esigenza. ABBIAMO DECISO DI METTERCI A VOSTRA DISPOSIZIONE Soluzioni flessibili per qualsiasi esigenza aziendale
PROFESSIONISTI Collaboriamo con numerosi professionisti per ottenere le migliori consulenze per la gestione degli adempimenti relativi alla salute, sicurezza, igiene, privacy e qualità sui luoghi di lavoro. ABBIAMO DECISO DI METTERLI A VOSTRA DISPOSIZIONE Professionalità e qualità sono sinonimo di ottimo risultato AREE A DISPOSIZIONE Disponiamo di aule per la realizzazione di corsi e convegni oltre che di 3000 mq di area esterna per le parti pratiche. ABBIAMO DECISO DI METTERLE A VOSTRA DISPOSIZIONE Teoria e pratica sono il miglior connubio per una giusta informazione
scelta. Decidiamo quindi di creare questo centro e scopriamo che in molti condividono il nostro bisogno. E la nostra voglia di dar voce alle esigenze di molti è subito supportata dai tanti sponsor che ci hanno permesso, in pochi mesi, di dar il via ai primi corsi. Quindi avete già organizzato alcuni corsi? Sì, e ne siamo orgogliosi. Abbiamo realizzato corsi per istruire un operatore a preparare ed operare con vari tipi di piattaforme di lavoro mobili elevabili (PLE, n.d.r.) in sicurezza ed ottenere un “patentino europeo” rilasciato in collaborazione con l’Ente IPAF (l’unico a poterli rilasciare in Europa), corsi di primo soccorso, gestiti in collaborazione con la Croce Verde di Ospitaletto, corsi per l’utilizzo di D.P.I. di terza categoria... Inoltre abbiamo organizzato, in collaborazione con l’Associazione Linea Vita, il Convegno informativo “Gli obblighi dei professionisti nella progettazione e direzione lavori per la sicurezza in quota” che è stato patrocinato dal Collegio Geometri e Geometri Laureati della provincia di Brescia ed ha ottenuto 2 crediti formativi. Un grande successo per noi e un bel feedback da parte dei nostri partecipanti. Qual è il punto di forza del Centro Sicurzone? Sicuramente l’area esterna che ci permette di far percepire con mano ciò che prima è stato spiegato in aula. Abbiamo attrezzature di prova per linee di ancoraggio di classe A2 e di classe C, muletti, tre tipologie di ponteggi, gru, zona sicura per i corsi di antincendio... il valore aggiunto è sicuramente i quasi 2700 mq esterni a disposizione dei nostri corsisti. Ovviamente non voglio dimenticare la qualità dei nostri docenti che ogni giorno sono a stretto contatto con la realtà di cui parlano. Un plus per i nostri corsisti. Inoltre stiamo istituendo anche corsi in lingua per gli stranieri. È fondamentale che, soprattutto quando si parla di sicurezza, vengano appresi al meglio i concetti. Ci sono altri servizi di cui non abbiamo parlato ma che vorrebbe mettere in risalto? Certo. Sicurzone è un’area a disposizione delle aziende e dei singoli. La volontà dell’associazione è di permettere a chiunque di aver i mezzi e le strutture per dispensare corsi, per incontri, meeting aziendali o convegni. Inoltre per ottenere le migliori consulenze per la gestione degli adempimenti relativi alla salute, sicurezza, igiene, privacy e qualità sui luoghi di lavoro mettiamo a disposizione i nostri migliori professionisti. Ultima cosa, ma a mio avviso di grande importanza, è la possibilità di contattarci e di richiedere corsi ad hoc. Abbiamo già ideato dei corsi per i floro-vivaisti. Il nostro motto è “ci mettiamo a vostra disposizione”. Voi chiedeteci come.
INFO: SICURZONE Via Vittorio Veneto, 219 25035 Ospitaletto (BS) Tel. 030 6840278 www.sicurlivegroup.it/formazione
Alcuni dei corsi Sicurzone: Corso di formazione montaggio, uso e smontaggio ponteggi - 32 ore Corso di formazione montaggio e uso trabattelli - 32 ore Corso di formazione DPI III categoria e utilizzo linee vita - 8 ore Corso di formazione per posatori installazione linee vita - 4 ore Corso di formazione per progettisti - 12 ore Corso di formazione sulla privacy - 4 ore Corso di formazione per responsabile di cantiere - 8 ore Aggiornamento quadriennale montaggio, uso e smontaggio ponteggi - 4 ore Addetto ai lavori elettrici CEI 11/27 PAV-PES-PEI - 16 ore Corso di formazione per dirigenti e preposti - 8 ore Corso di formazione per gruisti - 4 ore Corso di formazione utilizzo macchine operatrici (con patentino) - 8 ore Corso di formazione utilizzo piattaforme aeree (con patentino IPAF) - 8 ore Corso di formazione carrelli elevatori - 4 ore Corso di formazione igiene alimentarista - 4 ore Corso di formazione video terminalisti - 4 ore Corso di formazione RLS - 32 ore Aggiornamento RLS >15 e <50 lavoratori dipendenti - 4 ore Aggiornamento RLS > 50 dipendenti - 8 ore Corso di formazione antincendio / Rischio basso - 4 ore Corso di formazione antincendio / Rischio medio - 8 ore Corso di formazione antincendio / Rischio elevato - 16 ore Corso di formazione primo soccorso / Medio-Basso - 12 ore Corso di formazione primo soccorso / Alto - 16 ore Aggiornamento Triennale primo soccorso / Medio-Basso - 4 ore Aggiornamento Triennale primo soccorso / Alto - 6 ore Corso di formazione RSPP Datore di lavoro - 16 ore Aggiornamento Quinquennale RSPP datore di lavoro - 4 ore Corso per i responsabili e incaricati al trattamento dei dati D.Lgs. 196/03 - 4 ore Acustica edilizia - 20 ore
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Trend negativo anche nel 2012. Sicurlive una mosca bianca.
Come rileva il rapporto congiunturale presentato da Ance Lombardia – l’associazione regionale dei costruttori – nel 2010 si sono avuti investimenti inferiori del 6,4% rispetto al 2009. E le stime per l’anno in corso sono di un ulteriore calo del 2,4%. Un trend che si traduce in un quadriennio di crollo, in cui gli investimenti sono precipitati del 17,8%. Nel dettaglio l’industria lombarda del mattone nel 2010 aveva messo in gioco risorse per 23.453 milioni di euro, ma appunto con andamenti negativi in tutti i comparti. Nel residenziale il calo è stato del 5,4% e solo parzialmente bilanciato dalla tenuta delle attività di manutenzione del patrimonio abitativo (più 1,0%). E non è finita. La crisi nel settore delle costruzioni proseguirà anche nel 2012. È stato, infatti, confermato il trend negativo del 2011 anche per il prossimo anno. Un problema di gravità assoluta per il settore è quello dei ritardi nei pagamenti della PA che hanno raggiunto livelli insostenibili mettendo a rischio la sopravvivenza delle imprese, anche di quelle più sane: l’Ance registra una progressiva riduzione degli investimenti dei Comuni, stimata in Lombardia in circa 614 milioni di euro nel 2011. Non ha poi aiutato il quadro complessivo il fatto che nella regione, nonostante l’approvazione da parte del Cipe di fondi per 2,4 miliardi per nuove infrastrutture, di fatto solo la Metropolitana M5 di Milano abbia avviato i cantieri. “I dati raccolti – ha commentato Luigi Colombo, presidente Ance Lombardia – evidenziano che la congiuntura sfavorevole dura più a lungo di quanto fosse preventivato. Da parte di noi imprenditori è necessario puntare sulla qualità nelle costruzioni e cercare di essere sempre più competitivi. Ma è urgente che gli investimenti in attività edilizie tornino a rivestire il loro tipico ruolo anti-ciclico, a sostegno del reddito e dell’occupazione”. Ma all’avanzare della crisi, secondo la Fillea della Lombardia, si aggiunge il nero dilagante di irregolarità e illegalità in edilizia e nelle costruzioni, “a partire dal fenomeno delle finte partita Iva, che a livello nazionale in edilizia raggiungono quota 641mila,
ovvero un esercito di manodopera a basso costo che rappresenta ormai la metà dell’intero ammontare degli addetti dipendenti, poco più di un milione e cento”. Incontriamo Ivan Giori, uno dei rappresentanti Edilservizi, l’azienda che gestisce tutta la rete commerciale di Sicurlive Group per chiedere anche il suo punto di vista. “Ovviamente il mercato di oggi non naviga in buone acque. Siamo tutti consapevoli delle difficoltà delle aziende ad affrontare nuovi settori. Percepiamo la non-voglia di affrontare il mercato per coprire l’insolvibilità del cliente e nessuno tutela il credito. Inoltre la concorrenza sleale, oggi, la si pratica attuando il costo minore, attaccando pertanto i diritti dei lavoratori e la loro sicurezza sul luogo di lavoro. Vanno pertanto sostenute le imprese responsabili e regolari, che sviluppano una formazione preventiva alla sicurezza sul lavoro, che rispettano i contratti nazionali e provinciali di lavoro. Proprio come sta facendo la Sicurlive Group. Bisogna star attenti che l’esternalizzazione dei lavori avvenga con attenzione, che la congruità della forza lavoro rispecchi coerentemente la portata dell’appalto e la tracciabilità dei movimenti diventi un controllo affidabile”. Sicurlive Group ha tutte le carte in regola per continuare a crescere in modo positivo. Certamente l’aria che si respira in azienda, un gruppo giovane, pieno di spirito d’iniziativa e, talvolta anche di scambi di opinioni sulla crescita dei figli (basti pensare che nell’ultimo anno sono 6 i nuovi papà) trasmette all’esterno entusiasmo e voglia di continuare. “Con i piedi per terra, certo.dice Giori - Ma con un’energia positiva che i nostri clienti sicuramente percepiscono ogni volta che li incontriamo. Sono dell’idea che il valore aggiunto di un’azienda sia l’investimento nelle persone. Sicurlive Group ha investito al meglio le proprie risorse. E i risultati si vedono. Per me, il settore della sicurezza, in questo momento, è una mosca bianca rispetto a tutti gli altri settori.”
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MOTORINI ZANINI Motorini Zanini è un marchio italiano nato ufficialmente nel 2011, dopo alcuni anni di ricerca, con l’obiettivo di cogliere il grande potenziale degli scooter elettrici. Nella filosofia aziendale, il motorino elettrico rappresenta l’occasione per rivoluzionare le abitudini quotidiane negli spostamenti e per scoprire un nuovo stile di vita, al passo coi tempi: questo mezzo è capace, infatti, di dare una risposta innovativa sia alle esigenze di chi si sposta per lavoro sia per chi lo usa nel tempo libero. Gli scooter elettrici, in virtù del loro pregio ambientale, godono di molte agevolazioni e quindi di vantaggi economici per chi li sceglie. Oltre al contributo regionale, lo scooter elettrico offre: assicurazione RCA scontata del 50% per cinque anni, bollo azzerato per 5 anni e poi scontato del 75%, niente costi di manutenzione e tagliando.
rubriKA a cura di Marcella Tusa
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KLIMAHOUSE UMBRIA 2011
Dal 21 al 23 ottobre Sicurlive group è presente alla Fiera specializzata per l’efficienza energetica e la sostenibilità in edilizia. un appuntamento importante nel settore delle costruzioni. Klimahouse Umbria è stata organizzata in centro Italia dopo il gran successo a Bolzano. Anche quest’anno l’assetto espositivo della fiera coinciderà con i due comparti chiave dell’edilizia efficiente sul piano energetico. Il primo, la “costruzione negli edifici”, conterrà i settori delle finestre termoisolanti, porte e portoni, dell’isolamento termico, della produzione degli elementi per prefabbricati, delle coperture, dei tetti, del risanamento e delle facciate ventilate. La seconda area tematica sarà invece dedicata alla “tecnologia dell’edificio” e avrà come oggetto il riscaldamento, la ventilazione, il raffreddamento, l’uso delle energie rinnovabili e tutti i sistemi di regolazione e misurazione. Efficienza energetica e sostenibilità in edilizia sono alla base di una cultura sensibile e ricettiva verso la divulgazione del costruire ecologico.
BON ANNIVERSAIRE POLIMODA Polimoda celebra i suoi 25 anni di celebre attività nel mondo della moda con un ingresso trionfale nel cuore di Firenze: la sede della celebrrima scuola di fashion si trasferisce presso la Villa Favar completamente restaurata. Una location suggestiva e perfetta per accogliere oltre 700 studenti. È Mariastella Giannini, responsabile Strategia e Marketing del Polimoda, che ci racconta come Polimoda riesca con continuità a far fronte alla crisi economica incrementando anno dopo anno il numero di studenti. Basti pensare che negli ultimi 3 anni il numero di studenti si e’ incrementato del 50% confermando il trend più che positivo con un + 18% rispetto al 2010. Nel cuore della cultura italiana ma in un contesto assolutamente cosmopolita, grazie ad una formazione eterogenea di studenti che vede la presenza di russi, cinesi ed americani affiancare gli studenti italiani. La flessibilità, l’elastiticità didattica e l’attenzione alle regole del mondo lavorativo sono i veri e propri must del Polimoda, un punto di riferimento per la moda ed il design in tutta Italia. Ma non c’è solo la teoria al Polimoda. Parte integrante del processo formativo, infatti, è un periodo di stage da 3 a 6 mesi che prevede l’inserimento degli studenti in aziende selezionate. E se non fosse abbastanza, al termine dello stage, Polimoda offre un tutoring per un ulteriore periodo di 18 mesi tale da consentire allo studente un adeguato inserimento nel mondo del lavoro.
BOLOGNA VINTAGE MUST Bologna Vintage Must torna dopo una prima edizione sperimentale e sceglie una location importante posizionandosi tra le vie del centro come alternativa allo shopping seriale in grado di far convivere trend e convenienza e una data strategica all’inizio di dicembre. Palazzo Gnudi, storico palazzo del cinquecento, ospiterà a Bologna la manifestazione più importante del vintage il 2,3 4 Dicembre 2011 che riunirà i migliori operatori del vintage e del remake di tutta Italia. La moda del passato, ovvero il Vintage, interpreta oggi uno nuovo aspetto del fashion: il vintage è ormai diventato un vero e proprio settore con un ruolo ben preciso e definito nel sistema Moda. Fonte inesauribile di ispirazione per gli stilisti, il Vintage rappresenta la necessità attuale di recuperare i valori dell’epoca passata oggi perduti allineandosi con l’attuale volontà del consumatore di riscoprire i concetti di autenticità, qualità e tradizione.
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