PRIMO TINELLI (1921 - 2013)
una finestra sui tetti
curricula 2
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COMUNE DI BRESCIA PROVINCIA DI BRESCIA ASSOCIAZIONE ARTISTI BRESCIANI
PRIMO TINELLI (1921 - 2013)
una finestra sui tetti mostra a cura di Fausto Lorenzi
dal 18 aprile al 6 maggio 2015 AAB - vicolo delle stelle, 4 Brescia dal martedì alla domenica dalle 16 alle 19,30 IL CHIOSTRO - contrada san giovanni, 12 Brescia dal martedì alla domenica dalle 15,30 alle 18,30
UNA FINESTRA SUI TETTI
Primo Tinelli nel suo studio
Fausto Lorenzi
Le scatole di fiammiferi stanno ancora tutte incollate in file fitte e ordinate, come fossero tegole protettive di una intimità pensosa, tra arguta e lunatica, al soffitto spiovente della mansarda-atelier che dalle pendici della Maddalena - là dove c’era la stazione di partenza della funivia - si affaccia sui tetti della Bornata, sull’antica birreria Wührer e al di là della ferrovia sul quartiere di San Polo, che fu l’ultima grande campagna cittadina. Primo Tinelli, nato nel 1921, la meglio gioventù nelle file della Resistenza sui monti della Valcamonica e della Val Brembana, se n’è andato nel 2013 ma lo studio mantiene ancora l’impronta del pittore che si metteva quotidianamente davanti al cavalletto, cosciente che il lavoro dell’artista necessita di disciplina, seduto a dipingere con la sapienza acquisita durante il lungo e assiduo percorso artistico, ma con lo sguardo che vagava anche trasognato dagli oggetti intorno alla città in mutazione oltre la cornice della finestra. E intanto misurava e soppesava gli equilibri capaci di aprire la nostra visione ai riti della composizione silenziosa e leggeva con partecipazione affettuosa la storia del vissuto sui coppi e sui muri, con l’idea che l’architettura storica dei luoghi, in tutte le sue sedimentazioni auliche e rustiche, fosse una difesa forte allo scorrere del tempo. In una testimonianza nel catalogo della mostra del 1991 all’Aab, Enzo Vicentini, pittore di lunghe frequentazioni dello studio di Tinelli negli anni Cinquanta e Sessanta, annotava che quell’atelier, dove l’artista bresciano raccoglieva chiavi, lumi, vecchi ferri, era già «una inesauribile antologia (per chi vuole ascoltare) del sommesso linguaggio delle cose». È singolare la convivenza nella ricerca artistica di Tinelli
della piena empatia umana, della cordiale adesione alla scena della vita quotidiana, e insieme dell’interrogazione sottile, della presa di distanza in una inquisizione muta, insistita, ora ironica ora perplessa, mai appagata. Il filo dello sguardo viene ad unire così non solo un repertorio minimo di figure catalogabili, ma - inesorabilmente - congiunge memorie familiari e, nel suo dipanarsi, intrecci di itinerari tra i luoghi cittadini che hanno nella pausa, nell’assenza d’inutili suoni, la loro comune origine. Anche quando ha compendiato una città vista dall’alto, dalle alture e dalle emergenze architettoniche, nell’impianto antico e nella nuova disordinata urbanizzazione - nell’inedito disorientamento -, ma ribadendo che il cuore della città era racchiuso nell’inestricabile mescolanza di vicoli e “bassi” con muraglie di palazzi signorili, di chiese e conventi. Nell’insieme le opere di Primo Tinelli appaiono oggi tutte chiuse nella fissità e nel silenzio muto, come fossero chiamate a dare un giudizio morale sull’altra Brescia, rumorosa, frantumata, massificata e consumistica, di contro alla città di luce diffusa, fredda e quasi fosforescente e d’architettura intima, nata dalla calma, così come l’avevano colta negli anni Trenta del Novecento scrittori come Corrado Alvaro ed Ennio Flaiano. Del resto Primo Tinelli ha sempre centellinato le sue presenze pubbliche. L’antologica che curai assieme a Mauro Corradini nel 1991 all’Associazione Artisti Bresciani era di fatto l’unica che riannodasse un filo lungo mezzo secolo di carriera; questa raccoglie quel filo per scavare 5
Il Cidneo, 1995 - acquaforte - zinco - mm 350x1000
un po’ più a fondo entro quel pudore restio di una ricerca che nei decenni pur rivela più d’uno scarto, ma che coglie sempre l’essenza del fare arte come un mettere ordine nell’esistenza, riducendo, purificando, svuotando.
Un mondo visivo sobrio ed essenziale Era persona mite e schiva, come sobrio ed essenziale è stato il suo mondo visivo, ordinato in ritmi compositivi basati su sintetici ed energici contrasti e su tagli geometrici secchi e netti. Questa ossatura dell’immagine, fondata sul primato del disegno, la linea continua mai idealizzante, il contorno chiuso, strutturante (anche nei nudi e nei pochi ritratti), ha permesso che arrivasse a scandagliare lo spazio domestico e urbano inteso come spazio dell’esistenza, a sondare peso, compattezza, porosità degli oggetti per ottenere una precisione emotiva, non certo illusiva e illustrativa, sicché ha ben temperato una sensorialità del cuore stesso, in nome d’una vita d’attitudine più quieta, meditativa, contro lo spreco e la dispersione anche dei sentimenti. Bisogna dare atto a Tinelli di un lavoro in assoluta onestà, in cerca di una scrittura visiva asciutta e concentrata, anche nelle fasi, specie tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, in cui più ha saggiato sensualità e sensitività, in una più ricca densità di materia e raschiatura pittorica e preziosità di campi cromatici. Ha sempre coltivato (e trasmesso) il piacere di un colloquio educato con la pittura, il disegno, la 6
calcografia, senza alcuna preoccupazione di mercato, in nome di un rigore intimamente poetico e del sentimento del tempo che si tesse sul sentimento del luogo. Il suo emblema, ma anche la sua misura architettonica, o se si preferisce la sua camera ottica, era diventata la finestra affacciata sui tetti: finestra che incorniciava il paesaggio, ma che egualmente inquadrava un interno, e che a un certo punto diventò una vera e propria intelaiatura in legno, da falegname. Un serramento che però non aveva nulla a che vedere con l’enfasi dell’oggetto bell’e fatto prelevato dalla realtà quotidiana e trasposto nell’opera, come hanno fatto all’epoca artisti new dada e pop, ma che inquadrava invece e collocava alla giusta distanza ottica e alla giusta temperatura emotiva il particolare intimismo di Tinelli, giammai crepuscolare e sdolcinato, fatto di emozioni schiette, tra immediata adesione al piccolo mondo che aveva intorno e sottile inquieta interrogazione sul senso delle cose, tramite la messa a fuoco dell’occhio che sonda e misura per scansioni strutturali oggetti e paesaggi. Era rara la presenza della figura umana, ma l’uomo era presente coi segni del suo passaggio negli oggetti, nelle stanze, nelle quinte urbane. Prima di tutto era presente l’artista, col suo spazio di lavoro quotidiano, quella mansarda-atelier affacciata sui tetti, con i mobili e gli strumenti del lavoro (i pennelli, i tubetti di colore, i vasetti…), con le piantine ornamentali. Tinelli è stato insegnante di disegno e di arti visive nelle scuole medie statali cittadine e al liceo artistico Foppa; altrettanto, succedendo
a Emilio Rizzi, scomparso nel 1952, ha diretto per decenni la scuola d’arte dell’Associazione Artisti Bresciani, che giovane artista concorse a fondare il 24 maggio ‘45, pochi giorni dopo la Liberazione, e che lo vide esporre già nella prima mostra dei soci, nell’autunno dello stesso anno, nel fatiscente palazzo Bettoni di via Gramsci, ex sede delle Poste. Andava anche in carcere, a insegnare disegno e pittura ai detenuti. Dopo gli studi magistrali (giovanissimo maestro alle elementari di Saviore dell’Adamello) si era diplomato maestro d’arte all’Istituto Toschi di Parma e per due anni aveva frequentato l’Accademia di Brera a Milano, sotto la guida di Carlo Carrà e Achille Funi. I suoi primi lavori erano studi di figura di nudo, ritratti, paesaggi di Brescia, di Chioggia, del lago d’Iseo.
A Brera allievo di Carrà e Funi Per Tinelli furono importanti quei due anni in cui frequentò l’Accademia milanese di Brera con maestri come Carrà, che concepiva il disegno come un esercizio morale, e Funi, che inseguiva nel sogno della classicità architetture del pensiero salde e atemporali: grandi maestri che insegnavano ma non influenzavano. Entrambi artigiani e studiosi, si basavano sull’esercizio del disegno e l’alto senso del dovere. Il primo diceva che il disegno aderisce via via al principio informatore, che è immutabile nella sua essenza fantastica: «La nostra ostinata esigenza è di ottenere che il disegno preceda la ricostruzione del quadro, che avviene architettonicamente e non casualmente». Il secondo ammoniva i suoi allievi: «Quando avrete imparato l’anatomia del corpo umano, avrete imparato la geometria della vita». Lo prepararono ad essere a sua volta un pacato e tollerante padre morale di generazioni di giovani, anche maestro d’umanità, e ad amare e a far amare l’Italia “vera”, costruita sulla misura e il giusto equilibrio e rispetto tra gli uomini, le cose, il paesaggio, la natura.
na dal dopoguerra a giorni recenti sta tutta in questa sua capacità di tessere, in sordina, un filo d’esistenza nei muri e negli oggetti umili fino a costruire uno scenario che faceva gli spettatori partecipi - come amici, come ospiti - entro i suoi quadri, a ritrovare lo stesso senso di attesa giammai drammatica (se mai di una luce che vivificasse, che scaldasse). Certo Tinelli lasciava filtrare - nella sottilissima, poetica alterità del quotidiano più prosastico - l’ansia di un evento, di una vita che si realizza fuori del quadro. In questo le sue opere sono prologhi di una storia, in questo si chiarisce la circolarità tra opera e mondo reale evocata dalle intelaiature vere di porte o finestre, affinché lo spettatore si interroghi se è dentro o fuori la scena. Siamo lontani da ogni spaesamento metafisico: se in fondo a una fuga di stanze si profila un’ombra, è l’impronta ancora tiepida d’una persona in carne ed ossa. La rilettura del percorso di Tinelli ne rivela fasi di tentazione verso una pittura più vibrante, morbida e sensuale: negli anni Cinquanta e Sessanta in particolare rimeditò alcuni esiti dell’informale saggiando essenziali asperità, superfici grattate e colate, cromie più pastose e forti, talora anche acide. Ma ne risultarono confermati il dominio mentale, l’arbitrarietà del colore, la sottile spettralità della luce, la vena pacata e meditativa che scandagliava la ”misura” di solitudine tra le figure e lo spazio, tra gli oggetti e lo spazio, inteso come spazio dell’esistenza quotidiana. Ecco il ruolo della cornice dello sguardo, e negli ultimi decenni dell’intelaiatura della finestra affacciata sui tetti.
Parigi 1948, lo spirito della modernità
Diventerà costante in Tinelli la ricerca di energia costruttiva e di disossata chiarezza dell’immagine, l’evidenza della forma-struttura, sospesa fuori dal tempo, dagli eventi. Disegni, dipinti, incisioni sarebbero tornati sempre a scavare intorno a quei temi che più fissano il senso delle cose ordinarie, della costruzione energica dello spazio quotidiano in architetture scabre e laconiche, ma sempre senza perdere la sostanza concreta delle cose, il senso tangibile dello spazio. Anche il paesaggio letto sempre in chiave sintetica. Imparò l’esercizio della rinuncia come forza della pittura moderna: la rinuncia agli elementi narrativi, pedissequamente imitativi, per rafforzare invece il senso della composizione e il tempo interno agli spazi, alle cose.
Per il giovane Tinelli fu determinante già il primo viaggio a Parigi, nel clima di quella Scuola di Parigi della prima metà del Novecento che in realtà non è mai esistita come scuola pittorica, ma come crogiuolo di bohème e di libertà, come accoglimento nella bella pittura dello spirito della modernità e come tessitura raffinata e audace della vita contemporanea. Prima l’artista andò ospite in un dipartimento campagnolo a sud della capitale francese, sotto la guida di Alberto Magnelli che s’era mosso alla pari tra le grandi avanguardie parigine cubofuturiste ed era diventato tra gli artisti astratti il più attento a sottolineare la corporeità delle forme. Da Magnelli poté venire al giovane pittore bresciano una tendenza alla caparbia recinzione delle forme in perimetri netti e marcati e senz’altro avrebbe influito su di lui, nella stagione tra anni Sessanta e Settanta delle quinte architettoniche scandite da finestrature seriali, il ricordo delle Pietre del maestro toscano, con quei mattoni forati che sembravano facciate finestrate. Ma il colore Tinelli l’avrebbe sempre usato in senso antiplastico.
L’autore ha saputo affermare proprio la dignità del mestiere fatto a regola d’arte, e il gusto di trasmetterlo da insegnante insieme al senso della misura sempre controllata con cui inquadrare e soppesare i luoghi e le cose, inseguendo l’autenticità di una vita di sobria civiltà entro un orizzonte di affetti domestici e di comunità. La sostanza umana, morale e tecnica come artista sincero nella vicenda pittorica brescia-
Soggiornò poi in quel 1948 nella capitale francese - vi sarebbe tornato in successivi viaggi - con Francesco Carlo Salodini, con cui condivise l’evidenza d’una forma-struttura che raccogliesse il senso degli spazi quotidiani e delle cose ordinarie. Colse la città povera del dopoguerra, quieta e dimessa, nello spirito di figurazione sintetica e nel taglio di visione di toccante semplicità e sentimentalità malinconica traman7
dato dall’École de Paris lungo tutta la prima metà del secolo, da Utrillo a Dufy a Marquet, tra scorci silenziosi delle architetture monumentali e dei quartieri popolari, di mansarde e bistrot, di Montparnasse e dei lungosenna prima delle grandi trasformazioni urbanistiche. Artisti che dialogavano, magari a distanza di anni, sullo stesso scorcio o motivo, come su un esercizio musicale, una pagina cromatica. Una città scandita da ritmi geometrici, mettendo a fuoco quinte di case, finestre e muri di angoli ricchi di solidarietà sottintese e d’umori agrodolci da chansonniers. La forma-colore era tramandata come scansione simbolica di spazi e sentimenti, sicché si saldava un comune cemento fra forma, umanità e linguaggio. Incominciò a definirsi allora il suo interrogare muto il senso dell’esistenza, in una dimensione vagamente sospesa, spoglia e austera, con indulgente ironia. Il più maturo Salodini con cui condivideva l’avventura parigina aveva già definito un impianto secco e asciutto, anche rimeditando la lunga esperienza d’illustratore forgiato sulla grafica secessionista, nella quale aveva saputo orchestrare in una partitura chiara e musicale gli elementi scenici e ritmici. Ci fu un’indubbia consonanza con l’inclinazione del sodale nel Tinelli parigino con la vena meditativa e malinconica bloccata nell’asciuttezza della forma, il rigetto d’ogni svolazzo o frullo coloristico, nella tavolozza pudica, nel tratto forte, scarno e disadorno per conservare tutto il senso della durezza delle cose. Parigi era una parete di consistenza poetica: tracce di strade solitarie, finestre appannate di luci e nebbie, marciapiedi secchi e bianchi, Notre-Dame con le guglie aguzze, la Senna quando ancora le automobili non correvano a fianco, lungo le rive, come su qualsiasi tangenziale, ponti e barconi.
Un silenzio carico di emozioni sommesse Tinelli imparava a salvare un silenzio carico di emozioni sommesse e di pudica solidarietà. Inclinazione che già aveva coltivato in certa temperie più reticente dei primi anni Quaranta che testimoniava di un’umanità in attesa di vivere mentre si misurava con la forma del mistero celata nelle cose ordinarie e che testimoniava, in intensa, introversa tensione, il vuoto dell’esistenza chiusa in un regime d’ordine assoluto. Erano tramandate dall’Italia tra le due guerre, dedita all’elzeviro pittorico intriso di letteratura, la capacità di coltivare uno stile della solitudine e la durata delle cose, ma altrettanto l’impotenza a vedere la vita come un tessuto minuto e quotidiano di sentimenti, rapporti, avvenimenti. Tinelli accettava il primato del disegno, come ossatura dell’immagine, ma non accettava l’estromissione dell’io e soprattutto scopriva la fisicità del colore, sicché incominciava a chiedere alla pittura di saturarsi di valori lirici, se non ancora psicologici e sentimentali. Gli anni Quaranta e i primi Cinquanta significarono anche per Tinelli il confronto con l’espressionismo scapigliato di Corrente, l’essenziale modulazione plastica postcubista del Fronte Nuovo delle arti, gli 8
equivalenti lirici dell’arte detta astratto-concreta del Gruppo degli Otto promosso da Lionello Venturi. Ma si mosse soprattutto nell’ambito di quell’immersione parigina, pur in una pittura che in lui appena un poco si drammatizzò. Al passaggio degli anni Cinquanta, un nuovo viaggio nel Nord Europa caratterizzerà paesaggi impregnati di densi silenzi, verdi fondi e grigi nostalgici, con un’impronta quasi morale che riverbererà anche su stradicciole e scalinatelle alle pendici dei Ronchi della sua città e su un’inedita attenzione al paesaggio industriale: le ferriere Tassara di Breno, le calchere di Sant’Eufemia, la vecchia officina del gas di Brescia, le fornaci di Ponte Crotte. Già si affacciava la rovina del presente negli impianti di archeologia industriale, ma l’artista non soffiava nessuna epica romantica e visionaria, piuttosto sondava la presenza silente nel paesaggio urbano, ridefiniva il rapporto con la realtà pesandolo, misurandolo anche nel “reperto”. Si fecero costanti nel decennio le frequentazioni di Montisola, dove dipingeva in campiture sintetiche il lungolago con gli ulivi massicci da Peschiera Maraglio a Sensole e il promontorio con la Rocca Martinenga, topoi dei pittori bresciani del primo Novecento, ma anche di maestri come Arturo Tosi e Raffaele De Grada, con la loro densa fisicità, la sodezza anche spirituale, melanconicamente assorta: qui miravano alla «tranquillità della luce». Rapprendeva nei paesaggi, come un fremito solidificato, una rievocazione sognante, una malinconica, corposa dolcezza. Gli anni Cinquanta in Italia furono anni in cui non si potevano ignorare certe istanze dell’informale, in corrispondenza con una stagione più inquieta e allarmata, carica di disagio, dove anche la dissoluzione della pittura di figura e racconto era indizio d’una soggettività ormai volta a guardarsi dentro dopo il franare delle grandi speranze del dopoguerra in un uomo e in una società nuovi. Quell’inquietudine agiva anche sul delinearsi d’una nuova figurazione in chiave esistenziale e fenomenologica, a mettere in campo le zone inesplorate dentro di noi e, fuori, i fallimenti, piuttosto che a ricercare effetti etico-sociali.
Scuola dello sguardo e senso dell’attesa Tinelli concesse ben poco all’informale, tenne però conto della dissoluzione e ricomposizione della forma come nuovo luogo della coscienza nell’uso di colature e pigmenti, nella luce come umore, sensazione. Si mosse dunque anch’egli all’epoca nell’ambito della ricerca di un nuovo valore di visione, attraverso una consapevolezza tecnica che mirasse a cogliere inedite possibilità di relazione tra l’espressività autonoma del segno e della materia e la figura. Una consapevolezza anche etica, ma fuori dalle ormai traballanti frontiere ideologiche, in presa diretta invece con la condizione umana. Anche quando la pittura sembra che più si riallinei ai canoni della tra-
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dizione figurale, sia di natura morta sia di interni domestici, esprime una sorta di introversione. Il senso dell’attesa e della malinconia compressa sulle cose veniva dalla tradizione italiana del Primo Novecento, da Carrà ad esempio, poi con una sorta di tensione o vibrazione sotterranea o espressionismo congelato da Casorati e dai Sei di Torino (Carlo Levi, Menzio e compagni); ma il senso di qualcosa d’irripetibile e precario veniva tutto in presa diretta dal Secondo Novecento, da quel clima che si venne precisando a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta tra la nuova figurazione e il cosiddetto realismo esistenziale. Clima da Tinelli molto distillato e lasciato decantare di tutti gli umori più cupi e pessimistici che raccontavano di una condizione umana alla deriva (tra i realisti esistenziali attivi a Milano attorno a Brera c’erano tra gli altri i pittori Guerreschi, Romagnoni, Banchieri, Ferroni, Ceretti, Vaglieri, lo scultore Bodini). Quegli autori scoprivano l’essenza della condizione umana nell’esilio (il manifesto dell’epoca fu il romanzo Lo straniero di Camus): l’uomo outsider sradicato, presente nei relitti, nelle cose dimesse delegate a rapprendere su di sé la trama muta e impenetrabile dell’esistenza. Tra i loro temi l’identità minacciata, l’incomunicabilità, l’esame di coscienza nella crisi delle ideologie, la confessione di una generazione a disagio di fronte al nascente consumismo, la vita agra nelle nuove periferie. Nella riflessione sulla forma restava allora l’ultimo esercizio etico, e anche un solo banale oggetto legato all’atelier di ogni pittore, assunto in un vago allarme metafisico, poteva configurare la condizione esistenziale. Erano anche gli anni delle ricerche del cinema dell’École du regard e del parallelo nouveau roman, che destrutturavano spazi e sequenze, esploravano
le secrezioni e gli intervalli delle ore e dei giorni. Comparvero negli interni di Tinelli anche fiori recisi e soprattutto piante di ficus emergenti come apparizioni mentali estratte da un fondo costituito talora solo da sensibili gradazioni d’acqua ragia sporcata, spugnata, maculata, in un esercizio di ascesi percettiva, nella polvere di luce che fissa la struttura di questa vita silente, ma ne fissa anche una sua viziata e avvizzita solitudine e il sottile valore psicologico ed esistenziale, di vita macerata e prosciugata, talora come attutita e brunita. Queste nature morte sono sentimenti in solido, inerti, che parlano di un’arte dell’assenza, di latente tensione esistenziale. Anche negli studi di nudo avanzava un gioco di forme tornite o spigolose e geometriche, ma in un contesto dimesso, in un intimismo spoglio e confidenziale: negli atteggiamenti e nelle pieghe dei corpi l’artista veniva cercando un impasto di sentimentale dimestichezza e di attutimento nel tempo che scorre: una carezza dolce e malinconica sulle carni, come sulle pareti e gli oggetti della realtà di tutti i giorni.
Si affaccia sul tema interno-esterno Si profilarono anche linearismi secchi, figurazioni essenziali, rastremate, che aprirono al tema interno-esterno attraverso la finestra (la prima è del 1960), lo specchio, il quadro nel quadro a scandire il bisogno di annettere il tempo dell’io, dell’emozione e del vissuto 9
interiore nello spazio della visione del reale; e però allusero in tralice anche al racconto civile, specie della condizione urbana (la periferia di falansteri-dormitorio; gli scheletri d’alberi su fondali di cemento; i casermoni dietro le cui finestre si consumano esistenze anonime, invisibili; il sovraffollamento carcerario), reinventando con una nuova sommessa consapevolezza temi del realismo sociale. Significativa fu la condivisione di orientamenti con Enzo Vicentini in particolare negli anni Sessanta, quando quest’ultimo incominciò a reinventare interni ordinari o infissi di finestre nella stagione in cui tutti respiravano inevitabilmente la nuova aria che soffiava con l’affermarsi dei Nuovi realisti (che mettevano la realtà nuda e cruda in cornice) e del Pop europeo, che assumeva gli oggetti quotidiani e la segnaletica urbana in inquietanti accostamenti, ma con uno spessore storico, emotivo e sentimentale che subito dava il senso di una vita spaesata. Sarebbe stata la strada, da allora in poi, anche di Tinelli: l’ambiente e gli oggetti quotidiani recuperati come metafora esistenziale, l’ottica della precisione che si rovesciava in apparizione, in traccia della storia dell’uomo traendone il respiro dalle quinte urbane, dalle finestre, dai muri e dagli oggetti, in ambientazioni così prosastiche e così densamente allusive per comunicarci che il vivere non ci appartiene se non nelle parvenze. Ma con una tolleranza mite, un’accettazione quieta che allontanava ogni angoscia dall’approccio di Tinelli, pronto a cogliere, della nuova enfasi pop, l’incalzante ripetizione dei moduli e delle forme standardizzate. Nelle teorie di finestre dei nuovi condomini ci sono ritmi e geometrie della massificazione (ma c’erano già, in anni precedenti, nelle teorie di cabine di tonalità grigiastro-cilestrine su spiagge deserte, prese in una luminosità sabbiosa e stagnante). Un’eco sottile di quella retorica enfatica, per creare intorno al banale quotidiano, alle teorie di finestre ordinatamente allineate sulle facciate anonime, un alone di silenzio, di distanza e d’isolamento.
Le fughe di stanze vuote Ecco poi negli anni Ottanta le fughe di stanze vuote in una sorta di realismo morale, nell’interrogazione del mistero dello sguardo, incapace di scovare una verità nascosta in interni domestici d’antichi palazzi e oggetti che non si offrono più neppure come deposito d’anima, come se la vita del loro possessore fosse traslocata altrove. La percezione si fa più allucinata quanto più rarefatta, nel rovesciamento della precisione in sudario d’una sparizione, negli incontri opachi ed essenziali di luci e ombre, nella scrittura spoglia e austera che continuamente mette ordine contro una violenza distruttiva che è la vera struttura del mondo, nell’opposizione a un reale accelerato, gridato, dispersivo. Restano ombre sui muri, valigie in mezzo alle stanze, figure che si dileguano sul fondo a segnalare l’impronta d’affetti su quelle pareti di una perduta intimità domestica: la coscienza che i muri e gli oggetti umili che accompagnano la nostra vicenda quotidiana s’impregnano del senso vero della nostra esistenza e dei suoi trasalimenti. La produzione grafica diviene da questo momento un’attività sem10
pre più importante del lavoro di Tinelli, che si dedica con impegno al bulino, all’acquaforte e all’acquatinta su lastre di rame e di zinco. Non c’è nel lavoro dell’artista concittadino soluzione di continuità tra pittura e grafica. C’è soprattutto una ricerca di inquisizione della luce, che sonda e fruga tra presenze oggettuali quasi smarrite, nel vuoto spaziale che le avvolge. L’arte come custodia dell’atto del vedere, in una scrittura analitica, puntigliosa nella tessitura pulviscolare o nel reticolo del disegno a matita o dell’incisione sulla lastra di secchezza concisa e meticolosa. C’è qualcosa dell’esercizio ascetico, perché altro non resta, nel rito dei giorni, che raccogliere una polvere di luce sull’altarino della visione. La maestria del Tinelli incisore cresce nella dialettica tra tensione sensoriale, tra percezione palpabile d’un respiro trattenuto come appartenesse a un intruso, e volontà speculativa di cristallizzare in qualcosa di fermo il presentimento di una profondità abitata, di una trama strutturale e di una luce imbevuta di un pulviscolo di presenza-assenza del vissuto. Con la certezza che tutto ciò che la fitta trama segnica ha filtrato nel campo visivo sia sostanziale: la nuda e semplice evidenza della condizione umana, del vissuto giorno per giorno intorno a noi.
Intelaiature vere e illusione pittorica La riflessione sull’inquadratura attraverso la finestra, sempre più sfumata, più che tra arte e vita, tra oggettività artigianale e illusione pittorica, diventa proverbiale per Primo Tinelli negli anni Ottanta e Novanta: finché il gioco tra interno ed esterno e quadro nel quadro finisce con l’inverarsi in serramenti veri. Porte-finestre che catturano brani di natura o di città e sono contemporaneamente oggetti muti, immagini di cose, rappresentazioni concrete di un oggetto. Una scelta, la sua, equidistante sia dalla pittura come atto di rappresentazione sia dall’assunzione testuale del manufatto, come nel prelievo New Dada: certo, una scelta di teatralità, di scena dello sguardo. Le finestre, le porte, ben potevano essere gli oggetti trovati di un nipotino di Duchamp, ma non in un gioco di spiazzamento, quanto di architettura dello sguardo e di recupero dei segni di umane consuetudini. Tinelli da un lato ritrovava l’umile verità, il senso degli oggetti e delle architetture popolari negli angoli di Saviore dell’Adamello, borgo montano delle sue estati (fienili, portali, chiavistelli, finestre che ribaltavano il paesaggio all’interno), dall’altro nel suo studio alle pendici della Maddalena recuperava cose e figure con più bonaria confidenza, in sapore agrodolce di vita vissuta accarezzata e scrutata, ancora entro una finzione di cornice, ma come una soglia da varcare per trovarsi coinvolti. È il tema dell’intima dilatazione dell’oggetto, della natura morta, del luogo nella percezione emozionata. Davvero le stanze di famiglia e gli scorci della nostra città sono stati da lui scrutati come spazi dove riordinare le linee degli affetti e della memoria. In particolare dalla finestra della mansarda il pittore ha
registrato le trasformazioni della Wührer da storica fabbrica di birra e straordinaria architettura d’archeologia industriale a borgo residenziale, in sequenze dove lo studio d’artista e lo spazio urbano si proiettano l’uno nell’altro, a ridefinire specularmente anche le geometrie dell’artista tra interiorità e spazio pubblico, tra il costruito dell’anima e quello degli uomini. Nello sguardo, nella cornice della tela, nella cornice della finestra che non sai quanto inquadri dell’interno e quanto del paesaggio esterno, s’insedia, ci ha detto Tinelli, un altrove poetico. L’emozione e il vissuto interiore sono altrettanto “inquadrabili” dello spazio della visione del reale. In questo senso restano molto interessanti, per capire la costante riflessione sullo sguardo d’artista, i disegni a matita del 1989 nell’atelier dello scultore Giuseppe Bergomi, colto nel ritmo di una astrazione arcana, reticente, a interrogarsi sul sortilegio muto delle figure irretite nello spazio, sospese come nelle pause di un racconto, con le presenze quotidiane che dichiarano semplicemente se stesse, l’enigma della vita. Ma è stata proprio l’adesione umana alle dimensioni e agli spazi quotidiani della vita comune che ha trattenuto Tinelli, nelle sue interrogazioni-riflessioni sullo sguardo d’artista, dal senso del mistero come vuoto, come assenza paurosa di un centro ordinatore, onde ogni cosa è fatta irreale e indeterminata. Il suo umanesimo dolceamaro gli ha sempre fatto intendere come un attimo di vita quotidiana fosse preferibile alla posa per l’eternità.
Pietre e coppi nelle incisioni
tudine sperimentale, per l’espressività e la fisicità dei materiali; non ha mai fatto una pittura grassa di strati, ma pur fitta di spugnature, macchie, scrostamenti e grattature, minuscole pennellate, o viceversa di pulizia rigorosa. Si conferma anche nella sperimentazione delle tecniche la ricerca di fondi e spazi che già di per sé trasudassero immagini di vissuto quotidiano, al di là degli oggetti o delle situazioni, ma sempre sotto il governo del disegno, strumento ordinatore. E nel tempo lungo e fermo dello sguardo che nel gioco di finestre e specchi ha tentato di trovare un’accordatura piena e pulita per custodire una dimensione che va oltre l’affinamento tecnico e l’acutezza di una verità ottico-percettiva che non è mai una verità mimetica, ed è una dimensione di equilibrio quieto. Di essenzialità e saldezza, che ha visto l’ultimo Tinelli, mentre la mente incominciava a vacillare, affidarsi a volumetrie sintetiche e a disegni tracciati nel modo più diretto e più semplice, perché le sue opere potessero trasmettere un sentimento di pulizia e di misura a chi le contemplasse. Primo Tinelli s’è sempre interrogato con passione sull’atto del vedere che ci sembra semplice, agevolmente controllabile dal nostro pensiero, ed è invece un incrocio problematico tra vedente e visibile sicché non basta sorvolare le figure, le cose, i luoghi, bisogna abitarli, come essi devono abitare in noi. L’eredità di Tinelli è nell’invito alla rilettura di ciò che si ha sempre sotto gli occhi, a rieducare a osservare il mondo intorno a noi, affacciandoci a finestre sui tetti che non interrompano il flusso tra il dentro e il fuori, ma offrano il controluce pacato della vita d’ogni giorno.
Una notazione a margine va riservata alle cartelle di incisioni che ha dedicato con puntiglio percettivo, sapienza di gradazioni e calma naturale e concreta alla città dall’alto dei tetti e all’anima del Carmine (grandi tavole col massimo di ampiezza grandangolare, contando pietra su pietra, tegola su tegola, le grandi emergenze architettoniche e i tigli, gli ippocastani e le robinie che s’appigliano tra i muri consunti), ed alle chiese e pievi romaniche della Val Camonica (inseguendo la stessa attitudine con cui architetti e capomastri romanici svilupparono tutte le grandezze dalla pianta all’alzato adottando come moduli poligoni regolari, soprattutto il quadrato, ma anche il senso di spazio serrato, di energia compressa). Sogni petrigni e saldi, ma in una visione affettuosa e in una luminosità pacata a correggere le topografie accanite, con un brusio lieve a scalfire le pietre, come nelle incisioni dove la Brescia di primo mattino, nella calma lucente, è filtrata dalla finestra di casa, con in primo piano sul davanzale i frutti e una lente d’ingrandimento, a dire delle emozioni e dei trasalimenti, a dire che in quelle visioni c’era anche tutta una profondità di echi e richiami. Descriveva i luoghi manipolandone un poco i rapporti di scala e prospettiva per inseguirne i valori di civiltà sia nell’ordito architettonico sia nell’anima di cui sono impregnati tegole e muri. Non posso che riscontrare ulteriormente in questa rivisitazione complessiva dell’opera, a due anni dalla morte dell’artista, come già annotavo venticinque anni fa, l’attenzione costante di Tinelli, con atti-
Ritratto, 1940 carboncino su carta mm 440x290 11
Opere
Natura morta con pesche, 1939 - olio su tela - cm 25x33 14
Natura morta con lucerna, 1942 - olio su tavola - cm 12x15 15
Occhio di bue, 1943 olio su cartone cm 39x28 16
Figura in giallo, 1945 olio su cartone cm 40x28,5 17
Barconi a Chioggia, 1945 - olio su cartone - cm 36x50 18
Ragazza con trecce, 1946 - olio su tela - cm 43x37,5 19
Scuole Sorelli, 1946 - olio su tavola - cm 23x29 20
Sensole, 1948 - tecnica mista su carta - mm 320x470 21
Ponte con alzata, 1948 - olio su cartone - cm 30x40 22
Vicolo del sole, 1948 olio su cartone - cm 33,5x21
Lungo Senna, 1948 - tecnica mista su carta - mm 200x250 24
QuarrĂŠ les tombes, 1949 - olio su faesite - cm 32x41,5 25
Parigi, veduta, 1949 olio su compensato cm 29x22
“Tabac”, 1949 olio su cartone cm 50x40
Barcone sulla Senna, 1949 olio su cartone cm 41x28
Paris, Coin des Panvres, 1950 olio su cartone cm 39,5x30
Sensole, lungolago, 1950 - olio su tavola - cm 27x40,5 30
QuarrĂŠ les tombes, 1950 - olio su cartone - cm 30x40 31
Barche sulla Senna, 1951 - olio su cartone - cm 40x50 32
Notre Dame, 1951 olio su cartone cm 50x40
Fornace a Sant’Eufemia, 1952 - olio su cartone - cm 46,5x57 34
Nudo, 1953 - tecnica mista su carta - mm 900x530 35
Studio di nudo, 1953 - tecnica mista su carta - mm 500x350 36
Cavallino Dala rosso, 1953 - olio su tela - cm 34x41,5 37
Nudo virile, 1953 - matita su carta - mm 190x200 38
Nudo, 1953 - tecnica mista su carta - mm 230x330
Sensole, 1954 - olio su faesite - cm 35x45 39
Parigi, Coin de pauvres, 1954 olio su tela - cm 80x65
Ficus, 1959 - olio su tela - cm 80x60 41
W端hrer, funivia, 1960 - olio su tela - cm 50x70 42
Finestra rossa, 1960 - olio su cartone - cm 25x35 43
Sei finestre, 1960 - tecnica mista su tela - cm 70x80 44
Mela verde, 1961 - olio su tavola - cm 17x14,5 45
Civetta, 1963 - tecnica mista su tela - cm 80x60 46
Ficus e bricco bianco, 1964 - olio su tela - cm 100x70
Ficus, 1965 - tecnica mista su cartone - cm 34,5x26 47
Catino con brocca, 1966 tecnica mista su carta mm 700x500
Muro e nocciolo, 1967 - olio su tela - cm 80x100 49
Scale dei Ronchi, 1967 - olio su tela - cm 70x50 50
Parigi, 1967 - multiplo su carta - mm 700x500
Studio di nudi, 1970 - china su carta - mm 345x300 51
Oggetti con mele, 1971 - olio su cartone - cm 36,5x50,5 52
Grado Pineta, cabine, 1972 - olio su tela - cm 70x100 53
Squarcio di finestra, - acquaforte - zinco - mm 500x350 54
Finestra blu, 1972 tecnica mista su tela cm 70x50
Notre Dame, 1972 - acquatinta - zinco - mm 317x247 56
Ficus e tenda, 1974 - acquaforte - zinco su carta giapponese - mm 300x250 57
Nudo, 1975 - matita su carta - mm 275x190 58
Nudo, 1975 - matita su carta - mm 275x190 59
Periferie, 1975 olio su tela cm 70x50
Mele e grattacieli, 1978 tecnica mista su tela cm 100x70
Portafinestra sul terrazzo, 1980/1981 - olio su tela e legno - cm 221x153 62
W端hrer, 1980 tempera su tela cm 100x70
Casa della Tape, 1980 matita su carta mm 380x290 64
Fuga di interni, 1980 - matita su carta - mm 385x240
Sedia nella stanza, 1980 - matita su carta - mm 405x260 65
Nello studio, 1981/1983 tecnica mista su tela cm 222x160
Sedia di ferro, 1983 - olio su cartone - cm 43x38 67
Cavalletto nello studio, 1983 - acquaforte - zinco - mm 500x350 68
L’anta verde, 1985/90 tecnica mista su tela cm 230x166
Finestra, 1985 - tecnica mista su tela - cm 159x128 70
Figura nella stanza, 1985 - matita su carta - mm 385x240 71
72
Oggetti alla finestra, 1985 - matita su carta - mm 290x430 73
Interno con figure, 1986/91 - olio su tela e legno - cm 166x230 74
75
Saviore, scalinata chiesa, 1986 - acquaforte - zinco - mm 700x500 76
Bergomi nello studio, 1989 - matita su carta - mm 700x500
Nello studio di Bergomi, 1989 - matita su carta - mm 500x700 77
W端hrer e ficus, 1991 tecnica mista su tela cm 173x143 78
La stanza degli antenati, 1992 - matita su carta - mm 650x400 79
Nudo con cappello, 1993 - tecnica mista su carta - mm 1000x700 80
Veduta della pallata, 1993 - acquaforte - zinco - mm 350x500 81
Finestra di Saviore, 1994 - tecnica mista su tavola - cm 158x106 82
83
Saviore, 1995 - matita su cartoncino - mm 500x350 84
Cevo, chiesa di San Sisto, 1995 - tecnica mista su carta - mm 500x345 85
Veduta da finestra, 1995 - tecnica mista su carta - mm 100x700 86
Saviore, 1995 - tecnica mista su carta - mm 320x460 87
Provaglio, San Pietro in Lamosa, 1997 - acquaforte - zinco - mm 500x350 88
Cemmo, Pieve di San Siro, 1997 - acquaforte - zinco - mm 500x300
Saviore, Catenaccio, 1999 - matita su carta - mm 500x700 89
BIBLIOGRAFIA E MOSTRE E. LANCINI, Gli artisti bresciani parlano della loro mostra, «l’Unità», 23 ottobre 1945 Legato Brozzoni, «Il Giornale d’Italia», 1 luglio 1946 O. DI PRATA, Troppe opere e poche idee…, «Brescia Lunedì», 21 ottobre 1949 A.G. FRONZONI, Galleria Delfino, Rovereto, 23 maggio-4 giugno 1949 E.P., Breve rassegna, «L’Italia», 6 dicembre 1949 L. FAVERO, Mostre d’arte, «Il Popolo», 1 febbraio 1950 Bresciani a Gallarate, «Giornale di Brescia», 20 giugno 1950 Giovani in una mostra nazionale,«Giornale di Brescia», 5 agosto 1950 Note d’arte, «Messaggero veneto», 31 gennaio 1952 Domani la vernice della mostra di Tinelli, «Il Gazzettino», 1 febbraio 1952 Oggi la vernice della mostra di Tinelli, «Giornale di Trieste», 2 febbraio 1952 A. CARPI, Circolo artistico friulano, Udine, 21 febbraio-2 marzo 1952 Al circolo artistico mostra di P. Tinelli, «Il Gazzettino», 21 febbraio 1952 Inaugurata la mostra di Tinelli, «Messaggero veneto», 21 febbraio 1952 Pont Sully, «Messaggero veneto», 27 febbraio 1952 A. MNZ, La personale di Tinelli, «Messaggero veneto», 1 marzo 1952 A. CARPI, Saletta d’arte Caffè Nazionale, Trieste, 8-19 marzo 1952 V.P., P. Tinelli al Caffè Nazionale, «Trieste libera», a. VIII, n. 142, 1952 C. SOFIANOPULO, Tinelli al Caffè Nazionale, «Messaggero veneto», 18 marzo 1952 GIO., Mostre d’arte, «Giornale di Trieste», 19 marzo 1952 Premio di pittura città di Brescia, con catalogo, Brescia, 1952 VA., Seguendo la cometa del neon al Premio Brescia, «Giornale di Brescia», 3 ottobre 1952 Mostra personale, Palazzo dell’Arte, Cremona, 17 gennaio-1 febbraio 1953 G. MUSSIO, Misteri preistorici svelati da strane incisioni, «L’Italia», 17 febbraio 1953 E. TEDESCHI, Arte aristotelica, «Fonte gaia», Siena, aprile 1953 Premio di pittura città di Brescia, con catalogo, Brescia, 1953 MARTELLONI, All’A.A.B. sono di scena i tradizionalisti, «La tribuna delle Regioni», 31 dicembre 1953 Galleria Alberti, presentazione di R. Borsoni, Brescia, giugno-luglio 1958 G. VALZELLI, Pittori bresciani a Breno, «Giornale di Brescia», 20 agosto 1959 G. PANAZZA, La Pinacoteca Tosio Martinengo, Milano, 1959 R. BRESCIANI, P. Tinelli, «Biesse», a. I, n. 3, marzo 1961 Galleria del Corso, invito, Brescia, 24 febbraio-4 marzo 1961 G. VALZELLI, I profeti e la turba…, «Bruttanome», vol. I, 1962 Galleria A.A.B., Brescia, ottobre 1963 JO COLLARCHO, Galleria d’arte, «Biesse», a. II, n. 30, ottobre 1963 G.V., Alla mostra del premio Monticelli, «Giornale di Brescia», 25 luglio 1965 N.U., «Voce Amica», Monticelli Brusati, luglio 1965 M. CORRADINI, Gli oggetti e l’uomo nelle incisioni bresciane, con catalogo, Biblioteca comunale, Lumezzane, giugno 1973 A. FAPPANI, Enciclopedia bresciana, vol. III, alla voce Esploriamo, 1978 L. SPIAZZI, Arte in città, «Bresciaoggi», 22 dicembre 1979 R. LONATI, Mezzo secolo di testimonianze sulla pittura bresciana del Novecento: 1920-1970, Brescia, 1979 AA.VV., Brescia ’80, con catalogo, Brescia, 1-11 maggio 1980 V. BRUNONI, Primo Tinelli e Saviore dell’Adamello, «Giornale di Brescia», 20 giugno 1986 M. CORRADINI, Cartella di 5 acqueforti, Più in alto c’è solo l’Adamello, 1986 E. TARSIA, Cartella di 5 acqueforti, Più in alto c’è solo l’Adamello, 1986 Mostra personale, Saviore, agosto 1986 M. CORRADINI, E l’estate si veste anche di arte, «l’Unità», 23 agosto 1986 A. M. MARTINAZZOLI, Omaggio a Saviore, «Giornale di Brescia», agosto 1986 L. RANZANICI, Vernice di prima classe, «Bresciaoggi», 6 agosto 1986 M. CORRADINI, Esperienza e verità di Primo Tinelli. Annotazioni per una storia della grafica di P. Tinelli, 1990 FAUSTO LORENZI - MAURO CORRADINI, Primo Tinelli, monografia in occasione della mostra antologica all’Associazione Artisti Bresciani, Brescia, 4-26 maggio 1991, con saggi di F. Lorenzi, Primo Tinelli, e di Mauro Corradini, Esperienza e verità in Primo Tinelli, Annotazioni per una storia della grafica di Primo Tinelli; testimonianze di EnzoVicentini, Beppe Ricci, Franco Dagani, Achille Rizzi, Renzo Bresciani, Renato Borsoni, Aldo Carpi, Enrico Tarsia, Bruno Fedrigolli, Agostino Perrini, Gian MarioMartinazzoli. Brescia, Tipografia Queriniana, 1991. G. RIVADOSSI, Proposte per la conoscenza di artisti del nostro tempo: Primo Tinelli, 4-26 maggio 1991, AAB 6. F. LORENZI, Una confidenziale scuola dello sguardo, «Giornale di Brescia», 15 maggio 1991
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Trasloco, 1982 - matita su carta - mm 500x700
Vista sulla cittĂ con mela, 1994 - acquaforte - zinco - mm 350x500
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BIOGRAFIA Primo Tinelli è nato a Brescia il 12 maggio 1921. Completati gli studi magistrali, si è diplomato maestro d’arte all’Istituto “Paolo Toschi” di Parma. Per due anni ha seguito poi saltuariamente anche corsi di Carlo Carrà e Achille Funi all’Accademia di Brera a Milano. Dopo l’8 settembre del 1943 con l’amico Elia Ziglioli, compagno di studi magistrali, decide di andare incontro agli Alleati a piedi fino in Abruzzo: entrambi vengono fermati dai fascisti e rimandati al Nord, ma durante un mitragliamento riescono a fuggire. Nell’inverno del 1943-1944 scelgono di andare partigiani e il CLN li spedisce nella Bergamasca, perché si uniscano alle brigate che operano in Val Brembana, Val Seriana e Val Taleggio. Trascorrono alcuni mesi isolati nel paese di Ubiale all’imbocco della Val Brembana, mangiando castagne e aspettando lo scioglimento delle nevi per salire in alta valle, nascosti da una famiglia di contadini in un solaio. Poi riescono finalmente a raggiungere la 86a Brigata Garibaldi guidata da Davide Paganoni, che rifonda col nome “Franco Carrara” la decimata e disciolta Brigata “Issel”. Partecipano alle operazioni del gruppo fino alla Liberazione. Rientrato a Brescia, Tinelli, è il 24 maggio 1945, tra i fondatori dell’Associazione Arte e Cultura di Brescia, che diventerà più tardi AAB (Associazione Artisti Bresciani); è presente tra i 120 artisti che partecipano alla prima mostra dei soci, nell’ottobre 1945, nel fatiscente palazzo Bettoni di via Umberto I (poi Gramsci), ex sede delle Poste messa a disposizione dal prefetto Bulloni. Nel 1946 vince il Legato Brozzoni del Comune di Brescia con due opere, Nudo virile e Ritratto di giovane.
Fornaci, 1986 acquaforte - zinco mm 250x170 92
Nell’immediato dopoguerra insegna alle scuole elementari di Saviore dell’Adamello, dove incontra Geppi, anch’ella maestra, che diventerà la compagna di tutta la vita: la sposerà nel 1954 e avranno tre figlie, chiamate nella consuetudine familiare coi nomignoli affettuosi di Nena, Robi e Tape. Passerà poi in città alle scuole elementari nel quartiere di Sant’Eustacchio. Nell’autunno del 1948 è a Parigi con l’appoggio del più maturo pittore Francesco Carlo Salodini (vincitore quell’anno a Roma del prestigioso Prix du Montparnasse, che gli garantisce appunto il soggiorno nella capitale francese) e frequenta anche l’atelier-casa di Alberto Magnelli. L’incontro con “la scuola di Parigi” sarà fondamentale per l’arte di Tinelli, che farà nuovi viaggi nella capitale francese alle soglie degli Anni Cinquanta, e visiterà anche il Nord della Francia e paesi del Mare del Nord. Nell’agosto del 1953 sarà anche a Bucarest in Romania, al 4^ Festival mondiale della Gioventù comunista: al rientro assieme a Gianni Bisiach, poi celebre documentarista e giornalista radiotelevisivo, ha complicazioni col fermo dei passaporti. Dal 1952, alla morte del pittore Emilio Rizzi, gli succede come docente e animatore della Scuola d’arte dell’Associazione Artisti Bresciani, libera scuola con corsi serali di cui sarà direttore per decenni. A Brescia fino al 1954 tiene casa-studio in una soffitta di contrada del Cavalletto, dove ospita anche Renato Borsoni, grafico e futuro protagonista della vita teatrale non solo bresciana. Tinelli nei primi anni Cinquanta realizza numerose scenografie per il Piccolo Teatro Città di Brescia. Collabora anche a varie pubblicazioni della Scuola Editrice. Si trasferisce in via XXV Aprile in una casa di cui dà le chiavi ad amici e colleghi, e chi non le ha spesso entra dalle finestre, e un paio d’anni dopo nell’abitazione alla Bornata, nei pressi della stazione della funivia per la Maddalena, con lo studio in mansarda, sopra i tetti. Incomincia con il collega Enzo Vicentini un’intensa fase, fino alle soglie degli anni Sessanta, specie nelle estati, di interventi di risistemazione e restauro di tele, affreschi e decorazioni in palazzi, chiese e pievi di molte località della Pianura Padana, da Vigevano a Padova, da Scandolara a Pomposa, da Soncino a Cremona e a Parma. Nel ricordo di Enzo Vicentini erano “malati di libertà” e si muovevano con la Lambretta e con la Panhard impestata dai secchi di colle organiche. Primo Tinelli nel frattempo ottiene la cattedra di docente di materie artistiche alle scuole medie statali cittadine, negli anni Sessanta e Settanta, per poi insegnare all’Istituto magistrale Veronica Gambara e al Liceo artistico Vincenzo Foppa. Negli anni Ottanta e Novanta sarà anche volontario nel carcere cittadino, a tenere corsi di disegno e pittura ai detenuti. Alla vita professionale in città alterna lunghi soggiorni estivi (ma si prolungano sempre di più) a Saviore dell’Adamello. Tra gli allievi nelle varie istituzioni educative e formative e poi sodali
di Tinelli si possono ricordare tra gli altri Beppe Ricci, Ermete Botticini, Paolo Petrò, Franco Dagani, Agostino Perrini, Raffaele Gaffurini, Maria Grazia Bellini. Già dagli anni Settanta intensifica le sperimentazioni di grafica applicata, avviate dalla metà degli anni Sessanta, dal bulino all’acquaforte all’acquatinta su rame e zinco, frequentando intensamente anche esperti della storia calcografica come Vitaliano Angelini di Urbino e lo stampatore Linati di Milano, finché negli anni Novanta pubblica anche vere e proprie cartelle tematiche dedicate a Brescia vista dai tetti, al quartiere del Carmine e al Castello, alle chiese e pievi romaniche della Valcamonica e del Sebino. Primo Tinelli partecipa a numerosi premi specie negli anni giovanili: tra i quali Iseo (1947), Suzzara, Siena, Reggio Emilia (1949), Francavilla a Mare, Genova, Rovato, Gallarate, così come alle edizioni genovese, milanese e romana delle Olimpiadi culturali (1950); e ancora i premi Gorizia (111 Mostra giovanile d’arte figurativa, 1951), quindi Monza, Melzo, Temi, Clusone (1951), Gardone Riviera (1953), Bovegno (1954), Valdagno (1956), Breno (1959), Monticelli Brusati (1965), Lumezzane (1973). In Brescia, oltre alle mostre sociali della AAB. con il Premio sulla caccia del 1964, partecipa a varie mostre collettive della Galleria Vittoria e dell’Ucai. Allestisce mostre personali, in particolare a Rovereto (1949), Gorizia, Udine e Trieste (1952), Brescia (1958 e 1963), Saviore dell’Adamello (1986), e le antologiche all’AAB di Brescia (1991), Edolo (1995). Primo Tinelli è morto a Brescia il 24 maggio 2013. Nell’aprile-maggio 2015, viene allestita la mostra retrospettiva nella sede dell’AAB e nel chiostro di San Giovanni.
Finestra chiusa, 2001 acrilico su tela cm 70x50
CURRICULA 2 Primo Tinelli (1921 - 2013). Una finestra sui tetti Mostra organizzata dall’Associazione Artisti Bresciani Brescia, AAB, salone del Romanino Brescia, Centro culturale Il chiostro 18 aprile - 6 maggio 2015 Cura della mostra Fausto Lorenzi Coordinamento editoriale Giuseppina Ragusini Allestimento della mostra Agostino Perrini e Corrado Venturini Referenze fotografiche Foto Studio Rapuzzi, Brescia Sandro Zini, Brescia Presidenza dell’AAB Dino Santina (presidente) Giuseppe Gallizioli (vice presidente) Vasco Frati (presidente onorario) Segreteria dell’AAB Chiara Malzanini, Sabrina Tengattini, Corrado Venturini
Progetto grafico Rokox Free Lance Studio, Brescia Stampa Color Art, Rodengo Saiano Finito di stampare nel mese di aprile 2015