"Accadimenti nell'irrealtà immediata" di MAX BLECHER

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Brossura | collana VIE | pp 168 | euro 13,50 Traduzione dal romeno Bruno Mazzoni KELLER www.kellereditore.it | www.kellerlibri.it



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Max BLEchER

accadIMEnTI nELL’IRREaLTà IMMEdIaTa

Traduzione di Bruno Mazzoni

Keller editore


noTa aLLa TRaduzIonE

Il testo originale del romanzo, pubblicato da M. Blecher – grazie all’appoggio del poeta Geo Bogza – nel 1936 (presso l’Editura Vremea, di Bucarest), è stato ripubblicato a più riprese: ricordiamo qui almeno i volumi curati da dinu Pillat (1970, che comprende anche Inimi cicatrizate), da constantin M. Popa e nicolae Ţone (1999, che comprende anche Inimi cicatrizate, con prefazione di Radu G. Ţeposu) e da Florin Ioniţă (2009, con una premessa di nicolae Manolescu). alcuni refusi tipografici dell’editio princeps, non emendati da taluni editori, non sono stati da noi conservati grazie alle correzioni tacitamente quanto opportunamente proposte dall’ultimo dei curatori sopra menzionati. In ossequio all’usus scribendi dell’autore abbiamo conservato i sintagmi francesi presenti qua e là nell’opera, mentre abbiamo di necessità trasposto in italiano le pochissime creazioni lessicali romene che Blecher ha mutuato dalla lingua d’oltralpe, lingua assai familiare ancora per tutta la seconda metà del ’900, com’è noto, presso la società medio-alta e presso i circoli intellettuali dell’Europa centro-orientale. B.M.


“I pant, I sink, I tremble, I expire” P.B. Shelley



Q

uando guardo per molto tempo un punto fisso sulla parete mi accade a volte di non sapere più né chi sono né dove mi trovo. avverto allora da lontano l’assenza della mia identità, quasi fossi divenuto, per un istante, una persona del tutto estranea. Questo personaggio astratto e la mia persona reale si contendono con pari forza il mio convincimento. nell’istante successivo la mia identità recupera se stessa, come in quelle cartoline stereoscopiche dove le due immagini talvolta si separano per sbaglio e solo quando l’operatore le mette a fuoco, sovrapponendole, danno d’un tratto l’illusione della profondità. La stanza mi appare allora di una vivezza che non aveva mai avuto. Ritorna alla sua consistenza anteriore mentre gli oggetti al suo interno si depositano al loro posto, così come in una bottiglia d’acqua una zolla di terra sbriciolata si sedimenta in strati di elementi diversi, ben definiti e di vari colori. Gli elementi della stanza si stratificano nei loro stessi contorni e nel colorito dell’antico ricordo che ne conservo. La sensazione di lontananza e solitudine nei momenti in cui la mia persona quotidiana si è dissolta inconsistentemente, è diversa da qualsiasi altra sensazione. Quando 11


dura più a lungo, essa diviene paura, un terrore di non potermi ritrovare mai più. In lontananza, persiste dentro di me una figura incerta, contornata da una grande luminosità così come appaiono certi oggetti nella nebbia. La terribile domanda “chi sono davvero” vive allora in me come un corpo totalmente nuovo, cresciutomi dentro con una pelle e degli organi che mi sono del tutto sconosciuti. La sua soluzione è richiesta da una lucidità più profonda e più essenziale di quella del cervello. Tutto ciò che è capace di agitarsi nel mio corpo, si agita, si dibatte e si rivolta in maniera più potente e più elementare che nella vita quotidiana. Tutto implora una soluzione. alcune volte ritrovo la stanza così come la conosco, come se chiudessi e riaprissi gli occhi: ogni volta la stanza è più chiara – così come appare un paesaggio in un cannocchiale, sempre meglio organizzato, a mano a mano che, regolando la distanza, percorriamo tutti gli aloni di immagini intermedie. alla fine riconosco me stesso e ritrovo la stanza. è una sensazione di pacata ebbrezza. La stanza è straordinariamente concentrata nella sua materia, e io sono implacabilmente tornato alla superficie delle cose: per quanto profonda sia stata l’onda d’incertezza, altrettanto alta è la sua cresta; mai e in nessuna circostanza mi appare più evidente come in quei momenti che ogni oggetto debba occupare il posto che occupa e che io debba essere quel che sono.

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La mia pena nell’incertezza non ha più in quel momento alcun nome; è un semplice rammarico per non avere trovato nulla nella sua profondità. Mi sorprende solo il fatto che una mancanza totale di significato abbia potuto essere legata così profondamente alla mia materia interiore. ora, nel momento in cui mi sono ritrovato e cerco di esprimere la mia sensazione, essa mi appare del tutto impersonale: una semplice esagerazione della mia identità, cresciuta come un cancro dalla sua stessa sostanza. un tentacolo della medusa che si è esteso oltre misura e ha cercato in maniera esasperata fra le onde fin quando alla fine è tornato sotto la gelatina della ventosa. In alcuni momenti di inquietudine, ho percorso così tutte le certezze e le incertezze della mia esistenza, per ritornare definitivamente e dolorosamente nella mia solitudine. Si tratta allora di una solitudine più pura e più patetica delle altre volte. La sensazione di separatezza dal mondo è più chiara e più intima: una malinconia limpida e soave, come un sogno di cui ci si ricorda nel cuore della notte. Lei sola mi rammenta qualcosa del mistero e dell’incanto un po’ triste delle mie “crisi” d’infanzia. Solo in quest’improvvisa scomparsa d’identità ritrovo le mie cadute negli spazi maledetti di un tempo e solo nei momenti di immediata lucidità, che si succedono al ritorno in superficie, il mondo mi appare in quell’insolita atmosfera di inutilità e desuetudine, che si formava attor-

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no a me quando le mie allucinanti trance finivano con l’abbattermi. Erano sempre gli stessi luoghi in strada, in casa o in giardino che mi provocavano le “crisi”. Tutte le volte che entravo nel loro spazio, mi coglievano lo stesso deliquio e le stesse vertigini. autentiche trappole invisibili, collocate qua e là nella città, in nulla diverse dall’aria che le circondava, mi attendevano con ferocia perché cadessi preda dell’atmosfera speciale che racchiudevano. Se avessi fatto un passo, un solo passo e fossi entrato in un siffatto “spazio maledetto”, la crisi sarebbe sopraggiunta inevitabilmente. uno di questi spazi si trovava nel parco della città in una piccola radura alla fine di un viale, dove non passeggiava mai nessuno. I cespugli di rosa canina e le robinie nane che la attorniavano si aprivano da una sola parte verso il paesaggio desolato di un campo vuoto. non esisteva al mondo un luogo più triste e più abbandonato. Il silenzio si deponeva denso sulle foglie polverose, nella calura stagnante dell’estate. di tanto in tanto si udivano gli echi delle trombe dei reggimenti. Quegli appelli prolungati invano erano atrocemente infelici... In lontananza, l’aria incendiata dal sole tremolava diffusamente, come i vapori diafani che fluttuano sopra un liquido in ebollizione. Il luogo era selvaggio e isolato; la sua solitudine sembrava essere senza fine. Lì sentivo più estenuante l’afa 14


diurna e più soffocante l’aria che respiravo. I cespugli polverosi s’ingiallivano sotto il sole cocente, in un’atmosfera di assoluta desolazione. Fluttuava una bizzarra sensazione di inutilità in quella radura che esisteva “da qualche parte nel mondo”, in qualche parte dove io stesso ero capitato inspiegabilmente, in un qualunque pomeriggio d’estate anch’esso senza significato alcuno. un pomeriggio che si era smarrito caoticamente nella calura del sole, in mezzo a dei cespugli ancorati nello spazio “da qualche parte nel mondo”. allora sentivo più profondamente e più penosamente che non avevo nulla da fare in questa realtà, null’altro che vagabondare nei parchi, nelle radure polverose e bruciate dal sole, deserte e selvagge. Era un vagabondaggio che finiva per lacerarmi il cuore. un altro luogo maledetto si trovava giusto dalla parte opposta della città, tra le sponde alte e cedevoli del fiume nel quale facevo il bagno con i miei compagni di gioco. La scarpata era franata in un punto. Sul ciglio era sistemata una fabbrica per estrarre l’olio dai semi di girasole. Le bucce dei semi venivano gettate a lato della scarpata franata e col tempo il cumulo si era elevato così tanto da formare una scesa di bucce secche, dal ciglio della scarpata fino al bordo dell’acqua. I miei compagni scendevano giù al fiume su questo pendio, prudenti, tenendosi per mano, con i piedi che sprofondavano nel tappeto di putridume. 15


Le pareti dell’alta scarpata, da una parte e dall’altra della scesa, erano impervie e piene di incredibili irregolarità. La pioggia aveva scolpito lunghi rivoli di crepe sottili simili ad arabeschi, ma repellenti come piaghe mal cicatrizzate. Erano veri brandelli dal midollo argilloso, ferite orribili e slabbrate. Fra queste pareti che mi impressionavano oltre misura, dovevo scendere anch’io verso il fiume. Già da lontano e molto prima di giungere alla sponda del fiume, le narici mi si riempivano dell’odore delle bucce putride. ciò mi preparava alla “crisi” come una sorta di breve periodo di incubazione; era un odore sgradevole e tuttavia soave. Erano così anche le crisi. In qualche parte di me il senso olfattivo si scindeva in due, e gli effluvi dell’odore di putridume attingevano aree appartenenti a sensazioni differenti. L’odore gelatinoso della decomposizione delle bucce era distinto, ancorché concomitante, e molto diverso dal profumo piacevole, caldo e familiare di nocciole tostate. Questo profumo, non appena lo sentivo, mi trasformava in pochi istanti, circolando diffusamente in tutte le mie fibre interiori, e pareva dissolverle per sostituirle con una materia più aerea e più vaga. da quel momento non potevo più evitare nulla. Iniziava dentro di me un deliquio piacevole ed esaltante che accelerava i miei passi verso la riva, verso il luogo della mia definitiva disfatta. Scendevo fino all’acqua in una corsa folle, sopra l’am-

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masso di bucce. L’aria mi opponeva una densità ferente e forte come la lama di un coltello. Lo spazio cavo del mondo si rovesciava caoticamente in una fossa immensa con poteri di attrazione inopinati. I miei compagni guardavano spaventati la mia folle corsa. Il greto in basso era molto angusto e il minimo passo falso mi avrebbe fatto cadere nel fiume, in un punto in cui già dalla superficie dell’acqua i vortici mostravano grandi profondità. Io però non sapevo granché bene cosa stessi facendo. Giunto vicino all’acqua, in quella medesima corsa, aggiravo il cumulo di bucce e correvo sul greto giù al fiume fino a un certo punto dove la riva presentava una cavità. Sul fondo della cavità si era formata una piccola grotta, una caverna buia e fresca simile a un minuscolo vano scavato nella roccia. Entravo lì e cascavo in terra sudato, sfinito per la stanchezza e tutto tremante dalla testa ai piedi. Quando mi riavevo un po’, trovavo accanto a me l’ambiente intimo e incredibilmente gradevole della grotta con una fonte che zampillava placidamente dalla roccia e gocciolava giù sul terreno, formando al centro della ghiaia una conca con acqua limpidissima, sulla quale mi piegavo per vedere, senza mai saziarmi, nel fondo dell’acqua, i meravigliosi pizzi del muschio verde del fondale, i vermi sospesi ai frammenti di legno, i pezzi di ferro vecchio ricoperti di ruggine e di melma, animali e cose varie indicibilmente belle.

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