jacek hugo‑bader
I DIARI DELLA KOLYMA Traduzione di Marco Vanchetti
Keller editore © riproduzione riservata
Nuove isole siberiane
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Jakutsk
MAR SIBERIANO ORIENTALE
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MARE DEI CIUKCI
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Susuman Jagodne Debin
MARE DI OCHOTSK
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KA ČAT KAM
Magadan
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La sindrome del silenzio
Qua la falce, là il martello È il sovietico vessillo. Che ti piaccia o paia duro Te lo piglierai nel culo.*
«Hai avuto paura?» «Nient’affatto. Dopo tutto sto morendo». Scoppio a ridere come uno scemo ma lui non si offende perché parecchie persone reagiscono così allo stress. A me a volte capita. Per giustificarmi aggiungo che in quel momento mi era tornata in mente una barzelletta ceca, ma anche polacca su Pepik Vondráček**, il quale, quando il discorso cadeva sui comunisti diceva: “Io non c’ho mica paura, c’ho il cancro”. Ma il cuore di Ivan Ivanovič è gravemente ammalato e la fine è vicina, vuol dire che gli rimangono poche setti‑ mane o forse qualche mese di vita. Così dicono i medici. Sta morendo, e perciò era stato l’unico a non aver paura e, così come me, non si è sbronzato, al contrario dei nostri compagni. Non sapevo che avrei dovuto averne, di paura, che avevo davanti i sette minuti peggiori della mia vita, che *Canzone del repertorio rivoluzionario sovietico intitolata Krasnaja Plesen’ – S’erp i molot [Canzone Rossa – Falce e Martello] Слева молот справа серп/ Это наш советский герб/Хочешь сей а хочешь куй/Все равно получишь хуй. n.d.t. **Pepik Vondráček è il protagonista di numerose barzellette ceche, un po’ come da noi Pierino. In quanto personaggio delle barzellette è venuto anche ad imper‑ sonare il signor Nessuno, una persona qualunque, un tizio. Una sorta di Mario Rossi in Italia, di Mr. Smith in Inghilterra, in Polonia si chiamerebbe Kowalski. n.d.t.
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avrei avuto ancora più paura del giorno in cui, al tempo della Prima guerra cecena, i russi presero la città di Šali e io non feci in tempo a tagliare la corda coi civili. Come faccio a sapere che si è trattato solo di sette minu‑ ti? È perché avevo acceso il dittafono quando sono salito sulla nostra barchettina. Quello segna la durata della regi‑ strazione. L’ho spento sulla riva opposta. Adesso posso sentire che tutti tacevano come ammaliati mentre i bloc‑ chi di ghiaccio portati dalla corrente urtavano le fiancate di metallo con un fracasso spaventoso, il motore ululava come un ossesso al massimo dei giri e io mi sbellicavo dal ridere. Ecco come doveva apparire la nostra spedizione sul pos‑ sente fiume siberiano Aldan negli ultimi giorni di ottobre dell’anno scorso. Perché racconto queste cose? Beh, perché mi sembra che si debba avere il cancro, o una malattia grave al cuore o alla testa, per vivere qui. Non avere davvero nulla da perdere, nessuna alternativa per fermarsi al polo dell’atrocità. Così la gente parla e scrive della Kolyma. Altre volte parlano del più grande incubo del ventesimo secolo, della più terribile, maledetta o lontana isola dell’Arcipelago Gulag, il suo polo di ghiaccio, il Golgota russo, il crematorio bianco, l’inferno artico, un campo di concentramento senza forni, o, diciamo, un macchinario industriale per tritare la carne e frantumare le ossa. Sapete che la carne umana ha un sapore simile a quella di renna: molto delicata, magra e dolciastra? Non so come quelli del posto facciano a saperlo. Suppongo che si tratti di un’opinione tramandata di generazione in generazione. Si dice che una metà degli odierni abitanti della Koly‑ ma sia discendente degli zek, ex prigionieri dei lager. La seconda o terza generazione. Zek (nei documenti sovie‑ tici trascritto come z/k) è un’abbreviazione della parola collana razione K | 16 © riproduzione riservata
zaključënnyj, recluso, cioè prigioniero. Quando fuggivano dai campi, a volte portavano con sé nella taiga un compa‑ gno più debole. Erano “fughe col panino” o “con la vacca”, che andava dietro a chi alla fine se la mangiava. Ma tornando alla carne: dev’essere per via della somi‑ glianza di sapori che gli orsi di qui sono così maledetta‑ mente pericolosi. Le renne sono il loro piatto preferito e l’uomo è per loro una renna che non riesce a correre, una vittima senza corna, un coglione da nulla, facile preda. Una volta che questo miška [orsacchiotto]*avrà assaggiato l’uomo, ci prenderà gusto. Non vorrà più inseguire per i monti renne e alci, non si metterà più a cogliere bacche, mirtilli e sorbe, non si avventurerà in cerca di funghi e non rovisterà nelle discariche. Si manterrà lungo la Strada della Kolyma, vicino agli insediamenti umani, agli accam‑ pamenti dei cercatori d’oro. Quante storie ho sentito! Per esempio su quel minatore di Susuman che se ne stava in mezzo alla strada perché aveva squarciato una gomma e quando ha visto l’orso si è chiuso in macchina. L’animale ha aperto la lamiera del tettuccio come uno scalmanato e ha estratto la vittima come si estrae stufato di maiale da una lattina. Questi orsi sono chiamati šatun. In russo significa “vagabondo” ma nella Kolyma questa parola è riservata agli orsi impazziti, antropofagi. Nell’ultima decade si è fatto un gran parlare di uno šatun che aveva scorrazzato lungo la Strada della Kolyma sui monti di Verchojansk. Un maschio enorme, grosso come un carro armato, un vero mostro, un marchingegno viven‑ te. Era riconoscibile perché andava in giro con un cappio d’acciaio al collo. Nella Kolyma vengono messe trappole per gli orsi e il nostro ci era finito dentro anni addietro. I cacciatori erano *La traduzione tra parentesi quadre si riferisce sempre a parole russe. n.d.t.
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arrivati dopo alcuni giorni. Si trattava di un padre con due figli. L’orso era appeso al cappio sopra una buca enorme, l’aveva scavata con le unghie lottando disperatamente per liberarsi. Era ancora vivo. I cacciatori si sedettero e si misero a fumare. Si godevano lo spettacolo delle con‑ vulsioni dell’animale. Si gustavano la sua sofferenza. Poi accesero un fuoco, misero in un pentolino l’acqua per il tè, mangiarono pesce secco. Alla fine il vecchio disse ai figli di porgergli la carabina. Da qualche passo di distanza mirò al collo del colosso e sparò. Colpì il cappio d’acciaio con cui la bestia era legata all’al‑ bero. L’orso lo fece a brandelli, poi assalì quello che aveva porto la carabina al padre. Così diventò uno šatun. L’altro ragazzo riuscì a scappare. Per molti anni lo šatun di Verchojansk ha dato la caccia agli uomini e loro a lui. Perfino con l’elicottero. «L’ho incontrato al Torrente dello Sciamano» racconta Jura. «Ero sceso dall’abitacolo per prendere dell’acqua per il tè alla sorgente, ma prima di avviarmi verso il torrente sono salito un attimo sul cassone per controllare che gli sportelli fossero chiusi per bene prima che facesse buio. Stavo già per saltar giù quando all’ultimo momento l’ho visto: mi stava aspettando. Era apparso all’improvviso e in silenzio come un fantasma. Lo riconobbi subito». Sto andando con Jura sul suo Kamaz* cisterna da Ust’-Ne‑ ra a Chandyga. È il tratto più difficile, più spopolato, meno frequentato della Strada della Kolyma. Il mio autista, come sempre, si ferma per la notte al Torrente dello Sciamano, al chilometro 1.459, sui monti di Verchojansk. «Alla fine d’aprile» continua a raccontare Jura mentre versa la vodka nelle tazze «di notte le temperature scendono *KAMAZ (in russo. ОАО «КАМАЗ» – Камский автомобильный завод, Fabbrica di autoveicoli KAM), marca di automezzi industriali. n.d.t.
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diverse decine di gradi sotto zero e io ero con un maglionci‑ no, senza guanti né berretto perché ero sceso solo un attimo per prendere l’acqua. Mi sono spostato sull’abitacolo e dal tettuccio ho provato a raggiungere la maniglia per scivolare all’interno dall’alto, ma lui non stava aspettando altro, si è alzato sulle zampe posteriori e ha cercato di acchiapparmi. Era enorme, arrivava senza sforzo al bordo del tetto. Sapeva bene che prima o poi sarei dovuto scendere». Jura trova nella tasca l’accendino, dà fuoco alla bottiglia di plastica per l’acqua, ma l’orso non ha paura neanche del fuoco. Un vero diavolo, non una bestia! Si è appena risve‑ gliato dal letargo invernale, e perciò ha una fame rabbiosa. Per tutta la notte gira attorno al camion e aspetta che l’uomo sia preso dal freddo e cada ai suoi piedi. Ha tutto il tempo perché in questo tratto di strada si vedono sola‑ mente quattro o cinque automobili ogni ventiquattr’ore, ma di sicuro non di notte. Per dieci ore Jura saltella sul tettuccio del suo Kamaz, fa piegamenti, flessioni, tira di boxe con la sua ombra, ma alla fine perde le forze e si assopisce per il freddo. Lo salva dalla morte il raglio spaventoso di un clacson. Vede un potente tir KrAZ*, il cui autista prova a investire l’orso, ma la belva è più agile. Evita con destrezza l’urto. Il salvatore affianca i veicoli e Jura si insinua dal suo tetto nell’abitacolo caldo. Il motore era stato acceso tutta la notte. «Però mi sono congelato le mani» dice passandomi una bottiglia vuota. «Quando fa freddo cominciano sempre a farmi male». «Se pensi che vada a prendere l’acqua ti sbagli». «Ma va là! Due anni fa a quanto pare gli han sparato. Dicono che avesse sulla coscienza tredici persone». *KrAZ – Кременчуцький автомобільний завод, Kremenčutskij Avto‑ mobil’nyi Zavod, Fabbrica di autoveicoli Kremenčuk), fabbrica ucraina di auto‑ mezzi industriali. n.d.t.
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Ogni sera del mio viaggio metto mano al Diario della Kolyma, che in forma ridotta cerco di inviare giornalmente al portale Wyborcza.pl*, insieme a qualche foto. È lì ancora oggi, basta digitare sul computer Dziennik Kołymski. Spo‑ stiamoci ora indietro di quattro settimane, all’inizio del viaggio, come Dio comanda: a sabato 18 settembre 2010.
magadan. metà settembre. sulle alture attorno alla città c’è già la neve.
*La versione internet di «Gazeta Wyborcza» uno dei più diffusi quotidiani po‑ lacchi. n.d.t.
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Giorno I Magadan sul Mar di Ochotsk
È la capitale della Kolyma, di cui si parla già nel primo capoverso di Arcipelago Gulag, il fondamentale libro di Aleksandr Solženicyn. Ma qui non si parlerà di Gulag, lager, carceri, fame, morte, tortura. Da Magadan devo andare lungo la Strada della Kolyma, un tempo nota come Strada Maestra della Kolyma e, sull’atlante automobilistico russo, come strada federale della Kolyma. Quelli del posto il più delle volte la chiamano semplicemente Trassa [pista]. È l’unica via in questo immenso territorio che equivale (a fronte di numerosi cambi amministrativi) a un terzo dell’intera Europa. In altre parole è otto volte e mezzo la Polonia e ha solo 2.025 chilometri di strada (con poche e piccole ramificazioni), che collegano Magadan con la città di Jakutsk in Jacuzia. Voglio fare questa strada. Si tratta di un paese assolutamente inaccessibile, selvaggio o meglio inselvatichito (un po’ come la regione Bieszczady in Polonia dopo la Seconda guerra mondiale), con insediamenti umani disseminati a distanza di decine, a volte di centinaia di chilometri. Le montagne sono quelle che mi preoccupano di più. Sono tutte bianche. Dal finestrino dell’aereo con cui sto arrivando da Mosca, vedo che lontano dal mare, nell’interno della Kolyma, è inverno inoltrato. Quest’anno è arrivato prima. È un male. Proprio una disdetta! Doveva aspettare ancora un paio di settimane. Può diventare un grosso problema per i collegamenti e i fiumi, perché non sono pochi quelli che vanno attraversati a guado o in traghetto. Quando l’acqua comincia a gelare trascina con sé lastroni di ghiaccio, i traghetti smettono di andare e bisogna aspettare quasi fino a dicembre per poter proseguire lungo le piste invernali, sul ghiaccio. L’unica maniera di percorrere questa tratta è l’autostop. Un viaggio su camion solidi ma rozzi di produzione rus-
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sa: Kamaz, Ural e KraZ, detti comunemente fangomobili. Anche i LiAz bielorussi se la cavano bene qui. I vecchi dicono che la strada è il più lungo cimitero al mondo. Ho calcolato che se si mettessero tutte le vittime dei lager della Kolyma dell’epoca di Stalin una di fila all’altra non ci starebbero tutte… Rifacciamo il conto. 2.025 chilometri sono oltre due milioni di metri. Dividendo per un metro e ottanta, ne risultano un milione e centomila uomini. E donne. Dite che allora le persone non arrivavano a quell’altezza? I lituani e gli estoni erano per quei tempi degli stangoni. I giapponesi, i calmucchi, i tartari e le donne erano più bassi. Anche se dividessi per un metro e settanta il numero cambierebbe solo dopo il centinaio di migliaia. La Kolyma conterrebbe lo stesso più di un milione e cento-duecentomila vite umane. Il fatto è che nessuno sa quante siano. Solo a conteggiare tutti i trasporti di persone via mare dalla primavera del 1932 all’estate del 1956, risulterebbe che nella Kolyma sono stati detenuti oltre due milioni di prigionieri. Il professor David Semënovič Rajzman, titolare della cattedra di scienze umanistiche dell’Istituto di Economia di Magadan, dalla finestra del suo ufficio su via Proletarskaja, in diagonale rispetto all’incrocio con il Lenin Prospekt, indica il vecchio centro di detenzione dell’nkvd, trasformato in archivio per la polizia segreta. I documenti che riguardano i prigionieri sono ancora lì, nelle celle, sui letti a castello di legno. Poi il professore punta il dito più a nord e indica una grande rotonda oltre il torrente Magadanka, con la fermata dell’autobus n.31. È il quartiere dove dal 1940 si trovava un campo di transito da cui passarono tremila soldati polacchi catturati dai Sovietici un anno prima. Da qui venivano spediti a gruppi verso altre destinazioni, soprattutto nelle miniere d’oro in tutta la Kolyma. Quante sono state, allora, queste vittime? Anne Applebaum, scrupolosissima giornalista del «Washington Post» nel suo libro Gulag (Gulag o GULag, è l’abbreviazione di Glavnoe Upravlenije Ispravitel’no-Trudovich Lager’ej i Kolonii – Direzione Amministrativa dei Campi e delle Colonie di Correzione), per il quale ha ricevuto, nel 2004, il premio Pulitzer, parla di 28,7 milioni di condannati ai
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lavori forzati in Unione Sovietica, di cui, secondo i dati d’archivio acquisiti a oggi ma, secondo lei, molto, molto incompleti, 2.749.163 vi ha perso la vita. Da questo deriverebbe che il “coefficiente di mortalità” nei lager era circa del dieci percento. La cosiddetta “capienza” dei centosessanta campi di concentramento della Kolyma è di duecentomila persone (questo è il numero delle persone che potevano stare lì nello stesso periodo). Si trattava di persone che le autorità sovietiche avevano spedito nel profondo nord perché se ne perdessero le tracce e che non volevano vedere mai più. Dovevano crepare laggiù. Durante il primo inverno, quello tra il 1932 e il 1933, sopravvisse un internato su cinque. Chi aveva estinto la pena se ne vedeva affibbiare un’altra con un pretesto qualunque e ritornava al zaboj, alla cava, ai pozzi nella sua miniera d’oro oppure diventava un detenuto fisso, ovverosia un prigioniero che dopo aver scontato il periodo di reclusione fino in fondo non veniva liberato dal lager, per esempio, fino alla fine della guerra, anche se non vi era una sola motivazione economica perché rimanesse lì. Qualunque lavoro svolto dai detenuti avrebbe potuto essere svolto da persone libere a costo inferiore e in modo migliore. È curioso che in russo la parola zaboj significhi anche mattatoio (per il bestiame, bovini o suini). Così l’nkvd cercava di mettere insieme due diverse esigenze: estrarre la maggior quantità possibile di oro e sterminare nel modo più rapido le persone considerate nemiche dai bolscevichi. Il generale Władysław Anders nel suo libro Bez Ostatnego rozdziału. Wspomnienia z lat 1939-1946 (Senza l’ultimo capitolo. Ricordi degli anni 1939-1946), scrive che, in base alle sue ricerche, negli anni 1940-41 sono finiti nella Kolyma oltre diecimila cittadini polacchi. Tra di loro vi erano di sicuro quei tremila prigionieri di guerra di cui fa menzione il professor David Rajzman di Magadan. Quando il generale creò la sua armata i russi liberarono dai lager della Kolyma cinquecentoottantatré persone. Tanti erano i polacchi a cui riuscì di superare i due tremendi inverni del 1941 e 1942. Tra di loro vi era Ryszard Kaczorowski, ultimo presidente della Repubblica Polacca in esilio. Un coefficiente di mortalità secondo me più attendibile è l’unico gruppo formato dai centosettantuno ex internati
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che dai campi di concentramento della Kolyma riuscì a entrare nell’esercito polacco che si stava formando. Erano i soldati polacchi rimasti in vita dalla campagna di settembre. Quasi tutti avevano le dita delle mani e dei piedi amputate per l’assideramento. Ecco il coefficiente di mortalità più veritiero! Centosettantuno persone su tremila! L’88,6 %.
un corteo nuziale fa il giro della città. sosta a una rotonda dove dal 1940 si trovava un lager per tremila prigionieri di guerra polacchi. sono sopravvissuti 161 soldati.
Ma di questo nei miei racconti non ci sarà quasi nulla! Su quei tempi là. Se andrò dagli ultimi rimasti in vita lo farò con circospezione per non perdere quello che resta, perché questo è l’ultimo momento per scrivere cosa è toccato loro passare, provare. Perché si tratta di persone eccezionali: hanno visto il fondo della vita, nel lager hanno varcato il confine oltre il quale ogni anima si disintegra. Ma soprattutto vorrò sentire cosa è successo dopo, come si fa a vivere con questa esperienza addosso. Come hanno fatto a vivere? Vado nella Kolyma per vedere come si vive in quel posto, in quel cimitero. Il più lungo. Si può amare, ridere, gridare di gioia qui? E come si piange qui, come si concepiscono e crescono i bambini, come ci si guadagna da vivere, si beve vodka, si muore? Di questo voglio scrivere. E di come mangiano, setacciano l’oro, cuociono il pane, collana razione K | 24 © riproduzione riservata
pregano, si curano, sognano, combattono, si spaccano il muso… Quando atterro, nell’aeroporto di Magadan leggo una grande scritta: benvenuti nella kolyma – il cuore d’oro della russia.
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