Il libro di mio padre, Urs Widmer

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urs widmer

IL LIBRO DI MIO PADRE Traduzione di Roberta Gado

Keller editore



a May



M

io padre era un comunista. Non era sempre stato comunista, certo che no, e quando morì non lo era più. A guardar bene restò iscritto al Partito comunista solo per pochi anni, dal 1944 al 1950 circa. Dopo, la sua indignazione travalicò i confini di partito e investì tutti i politici indistintamente, o quasi tutti. “Rintronati! Cretini! Assassini!” – Il Comunismo non glielo avevano instillato sin dalla culla. Suo padre lesse per tutta la vita un unico libro, la Bibbia (sua madre conosceva solo per sentito dire persino quella), e la politica non gli interessava, se si esclude una vaga infatuazione per l’imperatore Guglielmo ii. E in effetti a dieci anni mio padre andò in caserma con suo padre, sul campo di esercitazione retrostante, perché l’imperatore di tutti i tedeschi, facendo visita allo stato vicino e alla sua città più bella, avrebbe assistito a una parata delle truppe locali. Magnifico cielo blu, quel che in tedesco si dice un “tempo da imperatori”, e folla di ottimo umore. Mio padre, relativamente basso per la sua età, ottenne il permesso di mettersi davanti insieme ai più piccoli, da dove vide sfilare

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al trotto, al di là delle teste degli altri bambini, un drappello di cavalieri in sontuose uniformi, vicinissimi, ciascuno con un copricapo diverso. Cimieri d’oro, pennacchi rossi, elmi chiodati, calotte decorate a foglie di quercia. Maschietti e femminucce tutt’intorno a lui gridavano di gioia e lanciavano in aria i berretti. Anche mio padre bruciava d’entusiasmo. Peccato che non sapesse chi dei guerrieri piumati fosse l’imperatore. Quello sul cavallo bianco? O quello con i baffi arricciati? Non osò chiederlo al vicino, un ragazzotto grasso che gli toglieva la visuale. – Sulla via di casa suo padre gli comprò un krapfen zuccherato e parlarono di quant’era magnifico l’imperatore. – Un anno dopo, allo scoppio della Prima guerra mondiale, il padre di mio padre (un uomo silenzioso) stava ancora gridando “Urrà!” e “Avanti tutta!” come chiunque in città, o quasi. Ciò che era francese non godeva di grande considerazione ai tempi e mio padre leggeva «Der Gute Kamerad», una rivista dove campeggiavano puntualmente in copertina navi da guerra che sparavano da tutti i cannoni o soldati a bocca spalancata che si lanciavano all’assalto dalle trincee. – Per il resto, della guerra mio padre si accorse a malapena, registrò tutt’al più che l’entusiasmo di suo padre diminuì e alla fine si esaurì. (Sua madre non spese una parola sugli eventi bellici.) – Mio padre andava al liceo dietro al duomo, studiava greco e latino e, pur senza volerlo, era sempre il primo della classe. A casa però era lo stupido, perché suo fratello Felix lo precedeva da sempre di due anni ed era il primo

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ancor più indiscusso della sua classe. Se mio padre aveva una sfilza di dieci in pagella e solo nove in ginnastica, su quella di Felix c’era il voto massimo anche lì. (Per non parlare dei voti di impegno e condotta, il tallone d’Achille di mio padre.) Quanto meno mio padre giocava a pallone meglio di Felix, il quale peraltro non ci giocava affatto. Passava il tempo sui libri, che nel suo caso restavano immacolati anche se li aveva letti dieci volte. Mio padre diventò cannoniere negli Juniores ii degli Old Boys, dove giocava come centravanti, lo chiamavano “il piccolo bombarolo”. – Forse però quel soprannome se l’era dato lui. – La grande politica restò fuori dal suo orizzonte. I rimbombi dell’artiglieria di Ypres e Verdun erano lontani. Non incontrò nemmeno Lenin, benché sarebbe benissimo potuto succedere visto che il futuro rivoluzionario percorreva le sue stesse vie. O magari lo incrociò davvero (qualche volta ci ripensava), lui con il suo pallone sottobraccio e Lenin vestito di nero che inveiva tra sé. Il cuore non si era messo a battere più forte per segnalargli che stava arrivando il suo idolo, il suo idolo di poi. – Però dello sciopero generale si accorse eccome. Aveva sedici anni quando sentì provenire grida e spari dalla lontana piazza del duomo. La sua via era deserta, così deserta che non se la sentì di uscire di casa. Anche della Rivoluzione in Russia gli giunse notizia, ma accidentalmente. Molto più minacciosa era l’influenza che in quei giorni imperversava in città. Ne morirono suo nonno – il padre di sua madre – e lo zio Max. E anche una lontana

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cugina di secondo grado che mio padre conosceva appena. I suoi genitori erano in un mare di lacrime. – Negli anni Venti l’atto più politico che compì fu iscriversi a un’associazione studentesca considerata progressista per il fatto che gli studenti non si spaccavano la testa a sciabolate. Al contrario: i picchiatori, quelli con gli sfregi, erano i nemici, e quando la sera mio padre e i suoi sbicchieravano al loro tavolo al ristorante Armonia, si indignavano che le prime cariche statali e i posti nei consigli d’amministrazione delle grandi imprese venissero sempre assegnati a vecchi membri dell’Helvetia e della Rhenania, grassi rampolli della borghesia con le guance segnate dalle cicatrici. Quelli della Zofingia, l’associazione di mio padre, erano figli di falegnami, fabbri, ferrovieri. (Il padre di mio padre insegnava alla scuola elementare.) Erano sicuri che prima o poi, e più prima che poi, ai posti di comando ci sarebbero stati loro, e allora avrebbero preso a calci nel sedere i ricchi figli di papà. – Ai tempi le donne non erano ancora ammesse. – Con i comunisti mio padre venne a contatto solo negli anni Trenta. All’epoca ne aveva una trentina anche lui ed era diventato un giovane intellettuale. L’aspetto lo confermava: occhiali, fronte stempiata, sigaretta in bocca. Fumava sempre, non importa se parlasse, leggesse o mangiasse, e i suoi nuovi amici, i comunisti, gli chiedevano come facesse quando dormiva e quando baciava. Mio padre rispondeva che non era un problema. Baciava poco e dormiva ancora meno. Fumavano anche i suoi amici ma, a differenza di

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mio padre, bevevano pure spesso e volentieri. Erano tutti pittori – a parte uno che era architetto – e, due anni prima che mio padre entrasse nel giro, si erano riuniti in un gruppo che chiamarono come l’anno di fondazione. Trentatré. Mio padre, che non dipingeva, ne divenne una specie di segretario. Amministrava la cassa del gruppo, proprio lui!, e cercava di convincere i galleristi a esporre i quadri dei suoi amici. Passavano le serate al ristorante Ticino, un locale dietro lo scalo merci che tutti chiamavano “il covo dei briganti” o “la caverna” perché ci stavano bene i sottoproletari, le ragazze facili e gli artisti. L’oste, un certo Luigi, veniva davvero dal Canton Ticino – dalla Val Maggia – ed era un compagno appassionato. Ogni tanto, mentre stava al bancone, cantava le canzoni del suo paese o l’Internazionale, e tutto il locale gli si univa in coro. I pittori e mio padre parlavano dell’arte degli africani, di Picasso e dei surrealisti e della dittatura del proletariato che avrebbe dato il colpo di grazia alle ignobili ingiustizie della borghesia. L’ascesa di Hitler li spaventava, facevano un sacco di battute su di lui. Quanto più spudoratamente agiva Hitler, tanto più Stalin diventava il loro faro; su di lui di barzellette non ne raccontavano. Logico che sentissero parlare dei processi spettacolo, ma presero le voci per calunnie. (La guerra, poi, rese Stalin inattaccabile. Chi, se non lui, poteva opporsi a quel mostro di Hitler? La vittoria di Stalingrado portava il suo nome ed era il primo segno del fatto che i nazisti avrebbero perso la guerra.) A mio padre non venne in mente

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nemmeno allora di iscriversi al Partito comunista, anche se quasi tutti i suoi amici pittori avevano la tessera in tasca. Guerra di Spagna! Due dei pittori, appena sentito del colpo di Stato di Franco, erano partiti in bicicletta per andare a combattere a Toledo. Ne era tornato uno solo, che si era riseduto al tavolo dell’osteria senza una parola. Era lo stesso di prima, ma non parlava più. Non una sillaba su cos’era successo al suo amico. Il terzo giorno vennero a prenderlo al tavolo per arrestarlo e il tribunale militare lo condannò a cinque mesi di detenzione perché aveva servito in un esercito straniero pur essendo un soldato svizzero. Mio padre, che dalla Svizzera si sarebbe piuttosto aspettato gratitudine per gli eroi che avevano provato a difendere la democrazia, andava tutti i mercoledì a Lenzburg, o forse persino a Aarburg, o comunque in una delle carceri militari, per portare sigarette, cioccolata e colori al pittore. Lui continuava a tacere e a fumare, cupo. Solo una volta borbottò che doveva smetterla di portargli i colori. Non avrebbe dipinto mai più. – A quel punto mio padre era pronto per il Partito. Ma solo quando lo vietarono, all’inizio della Seconda guerra mondiale, sentì di farne davvero parte, e di fatto ci si iscrisse non appena tornò legale, nel 1944, circa un anno prima della fine del conflitto. L’unica differenza era che il partito non poteva più chiamarsi come una volta, Partito comunista, e quindi si scelse il nome di Partito del lavoro. Ovviamente i suoi amici ne facevano ancora o di nuovo parte. Uno dei pittori – che aveva imparato molto da Ernst

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