Eredita previewL'eredità delle dee di Katerina Tuckova, Keller

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kateŘina tučkovÁ

L’EREDITÀ DELLE DEE Una misteriosa storia dai Carpazi Bianchi Traduzione di Laura Angeloni

Keller editore



prologo

D

entro non si vede niente. Si solleva sulle punte, appiccica il naso al vetro per sbirciare al di sopra della tenda, appesa a metà finestra. Tra i rigogliosi cespi di gerani che di solito pendono all’esterno e oggi, per motivi incomprensibili, sono intrappolati dietro i vetri, è tutto buio. Ma è quasi sempre così. Attraverso quelle finestrelle la luce filtra in casa solo nelle giornate di sole. Si gira a guardare la strada. Surmena si trascina quasi, ha fatto sempre fatica a camminare e Jakub non le agevola certo il compito. È pesante e Dora lo sa bene, ormai lei stessa riesce a portarlo in braccio a malapena. Torna a voltarsi verso la finestra, le sembra di vedere delle gambe. Spuntano da dietro la stufa, solo dalle ginocchia in giù, ma sono due gambe di sicuro, e calzano dei pesanti stivali neri. «Vedo delle gambe! Papà è a casa!» grida a Surmena. «È tornato!» «Aspetta, spostati» dice Surmena che è appena arrivata, ancora con Jakub in braccio. La scosta di lato e riparandosi gli occhi col palmo della mano accosta il viso alla finestra. «Già, è tornato, il farabutto». Si raddrizza e sistemandosi Jakub sull’avambraccio dice: «Vieni, dai». Mentre si gira borbotta ancora tra sé: «Adesso mi sente, quell’ubriacone». Con passo risoluto avanza lungo il muro grossolanamente intonacato, Dora la segue attaccata alla sua gonna. Le scarpe 9


sciabordano sul terreno bagnato e melmoso. Prova a saltellare sulle impronte di Surmena, ma non riesce a starle dietro. Il cancelletto scricchiola e ci sguscia dentro di corsa. Lo lascia aperto e corre verso la porta superando Surmena, la grande cartella che le sobbalza sulla schiena, le due treccine ispide, ormai con un solo nastrino, svolazzano avanti e indietro. Davanti alla soglia si ferma e sgranando gli occhi, la bocca spalancata, si gira verso Surmena. Accanto alla porta è poggiato un ceppo di legno, ma manca l’accetta che di solito vi è conficcata dentro. I corpi gonfi della gatta e dei cuccioli giacciono lì, probabilmente da un bel po’ di ore. «È Micka» dice attonita, «la nostra Micka. E i suoi gattini. Non abbiamo nemmeno fatto in tempo a vederli!» Il corpo della gatta ha preso la forma di un pallone, la ferita sanguinante sul collo brulica di mosche. I corpicini dei cuccioli entrerebbero in un palmo di mano. Sono minuscoli, rigonfi di flato. Se fossero caduti, sarebbero rotolati giù fino a Hrozenkov. «Quell’alcolizzato schifoso la pagherà» dice Surmena soffocando di rabbia, afferra Dora per la spalla e la scosta via da quella scena sanguinosa, spingendola in casa, nel piccolo atrio. «Pulisciti le scarpe, non sporcare dappertutto» dice brusca, ma lei lo sta già facendo, strofina lentamente le suole sul tappetino e intanto si gira verso i resti di Micka. «Basta guardare, o ti verranno gli incubi!» la ammonisce Surmena. Dora attraversa l’atrio come un fulmine, sulla porta del salotto sbatte contro Surmena. Una frazione di secondo infinitamente lunga dura quell’ultimo passo, mentre sguscia tra il fianco di Surmena e lo stipite della porta e poi all’improvviso si blocca, lo sguardo incollato al pavimento di legno. Accanto alle gambe di papà è sdraiata la mamma, la gonna

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sollevata fino alla coscia e attorno a lei, tutt’intorno, una pozza di sangue scuro, secco. Silenzio. E loro tre sulla porta come statue. «Fuooori!» il grido possente di Surmena la trapassa come un coltello affilato, Dora trasale, sbatte la testa contro il telaio della porta e scappa via, le gambe inciampano l’una sull’altra, non cade per miracolo. Sente dietro di sé il pianto disperato di Jakub e il grido di Surmena che sembra inceppato: «Fuooori! Fuori!» E lei corre, passa accanto a Micka e ai suoi cuccioli, sfreccia lungo la staccionata di legno, attraversa il cancello, gira intorno alla casa e continua a correre sul sentiero inzuppato dalla pioggia estiva, giù per la strada, sempre più lontano. Fino a casa di Surmena. Lì si ferma, apre il cancello e lo richiude con cura dietro di sé, e piano, come sempre, raggiunge la panchina vicino alla porta. Si siede e con lo sguardo fisso alla collina di fronte aspetta. Sulla strada che ha appena percorso osserva Surmena trascinarsi, ingobbita dal peso di Jakub, ma veloce, veloce come non l’ha mai vista. E già le arriva alle orecchie il pianto del fratello e l’ansimare di Surmena. Surmena si lascia cadere sulla panchina e con una mano sulla testa di Jakub e l’altra sulla spalla di lei li tranquillizza. «Non è niente, non è niente» dice. Ma lei non le crede. Non può non essere niente, quella cosa lì. Il sole è già tramontato e il buio si insinua tra le montagne. Stanno seduti sulla panchina e il pianto di Jakub pian piano si quieta, solo qualche piccolo singhiozzo convulso di tanto in tanto. Pochi istanti dopo Dora sente il suo respiro regolare e il gorgoglio del moccio nel naso. Surmena ora respira calma, ma la mano intorno alle spalle di Dora, avvolte dalle cinghie della cartella, le trema ancora. Sulle cinghie ci sono delle grosse strisce rifrangenti, proprio come l’aveva desiderata. Gran-

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di strisce che riflettono la luce, come quelle dei bambini giù a Hrozenkov. Erano andate con la mamma fino a Uherský Brod a comprare quella cartella, l’estate prima. La loro casa sul pendio di fronte è già avvolta nel buio, la notte è spuntata da dietro l’altura avanzando come un’onda lenta ma inarrestabile, come se da Bojkovice qualcuno l’avesse rovesciata giù. «Resterete qui da me» dice poi Surmena. E quando si corica dietro la stufa, sotto le coperte e le pelli di pecora, nel tepore che la invade fuori e dentro, dopo l’infuso bollente di papavero, Dora sente ancora la voce di Surmena: «Non avere paura, insieme ce la faremo. Sarai il mio andzjel, il mio angelo. E starai bene, vedrai».

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prima parte



surmena

P

er lungo tempo aveva pensato che fosse quello il principio di tutte le sue sofferenze. Ma non era vero. Non erano iniziate lì, in quell’istante in cui sbigottita, insieme a suo fratello, si era trovata davanti i corpi dei suoi genitori. Dora non era stupida, e i volti sconvolti dei paesani parlavano chiaro: la loro sciagura aveva origine molto tempo prima, un tempo che la sua breve memoria non poteva ricordare. I loro visi afflitti, le esclamazioni incredule: «Che disgrazia!» Oppure: «Perché è successo proprio a voi?» non riuscirono a trarla in inganno, perché di quel tutto era parte anche lei, lo sentiva, lo respirava. E nonostante cercassero di impedirlo, ciò che si mormorava alle loro spalle la raggiunse comunque, cioè che era tutto previsto, che doveva accadere, in un modo o nell’altro. Perché sua madre era una bohyně, una dea, e le dee hanno un destino infelice. Infelice fino a quel punto però non se lo aspettava nessuno, le sembrò di capire. Perché erano trecento anni che una dea non moriva così, sotto il colpo di un’accetta. Perché proprio mia madre? continuava a chiedere, senza mai ottenere risposta. Nessuno voleva parlarne. Ogni volta che tentava di affrontare il discorso tutti si ritraevano spaventati, come se avesse profanato delle sacre reliquie. Non rispondeva nemmeno Surmena. Così soffocò quella disgrazia nel profondo di sé. La serrò dentro e chiuse a chiave la porta, decisa a non riaprirla mai più. Non importava quando e come fosse iniziata, né in che modo fosse destinata a finire. 15


Del resto da lì in poi fu molto impegnata. Doveva imparare a diventare un andzjel e nell’onda dei nuovi, eccitanti, avvenimenti, si attenuò pian piano anche il dolore. Lei – un andzjel! Ne aveva sentito parlare da tempo, degli angeli buoni che hanno il compito di condurre i bisognosi al cospetto delle dee ricevendo una ricompensa, ma non ne aveva mai visto uno, nonostante si fosse appostata più volte sul pendio per guardare da lontano la casa di Surmena, o di Irma, o di Kateřina Hodulíková. «Fammi vedere il tuo andzjel, zietta! Chi ti fa da angelo?» voleva sapere ogni volta che passavano con la madre da casa sua. Surmena faceva finta di non saperne niente e sua madre Irena sorrideva. «Anch’io sono una dea, ne hai forse visto qualcuno accanto a me?» le chiedeva. Ma sua madre era una dea diversa, speciale. Lei non divinava, per questo gli angeli non le portavano mai nessuno. E di colpo poi quel segreto germogliò, si aprì come un baccello e rivelò tutti i suoi frutti. Non solo scoprì chi erano gli angeli delle dee, ma lei stessa diventò uno di loro. Il sostrato del suo mondo cambiò. Prima c’erano lunghi pomeriggi tutti uguali, attimi pieni di noia in cui la vita perdeva i suoi contorni. Da quando era diventata un angelo non sedeva più inutilmente sulla panca davanti alla soglia di una casupola di montagna. Il suo tempo era diventato parte di quello di molti, per i quali rivestiva un ruolo importante. Lo assumeva con orgoglio e con la consapevolezza di avere una responsabilità nei confronti di questa misteriosa tradizione che risaliva a un passato così remoto che nessuno ne conservava memoria. Tutti dicevano con riverenza: «La divinazione è una pratica antica, dee e andzjeli abitano qui dai tempi dei tempi».

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Dai tempi dei tempi, da sempre. Questo Dora lo sapeva, quello che non immaginava, prima di diventare un angelo lei stessa, era che le dee e la loro pratica fossero una prerogativa di quei luoghi. Da altre parti non esistevano. Quando era piccola pensava persino che essere una dea fosse solo una delle varie forme dell’esistenza, che le donne potessero essere impiegate della posta, mungitrici o allevatrici della jzd*, oppure dee. Le sembrava che fosse una professione normale come qualsiasi altra. E mai avrebbe creduto che non esistesse altrove. Solo dopo essere diventata angelo e aver constatato da quanto lontano venissero le persone pur di ricevere un consiglio o una cura, capì quanto fossero straordinarie quelle donne. E da allora svolse il suo ruolo di angelo con ancora maggiore entusiasmo, attenendosi con impegno alle indicazioni di Surmena. «Quando arriva un autobus rimani nei paraggi, non attirare l’attenzione, aspetta che siano loro a rivolgersi a te. Se ti chiedono indicazioni per arrivare dalle dee, domandagli se sono davvero tanto stupidi da crederci. Aspetta che rispondano. Se ti sembrano confusi, allora portali qui. Se invece sono sicuri di sé, allontanati, da quelli non viene mai niente di buono. E diffida delle coppie. Chi viene qui spesso porta da solo il peso della sua sofferenza, non vuole testimoni» le ripeteva Surmena. Dora non lo dimenticava mai. Osservava attenta le persone che scendevano dagli autobus pomeridiani provenienti da Brod e quando vedeva qualche sconosciuto che si guardava intorno confuso gli si avvicinava e aspettava che le chiedesse: «Bambina, sai per caso dove abita una dea?» Alcuni avevano un aspetto del tutto ordinario, altri erano un po’ strani, spesso avevano un’aria preoccupata e venivano quasi sempre da soli, di tanto in tanto però capitavano anche * jzd, Jednotné zemědelské družstvo: Fattoria collettiva [n.d.t.]

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le coppie da cui Surmena l’aveva messa in guardia. Di solito si trattava di un uomo e una donna, entrambi giovani, in salute, e a un primo sguardo non sembravano affatto afflitti da un problema, almeno Dora non avrebbe mai immaginato, guardandoli, che avessero bisogno dell’aiuto di una dea. Una di quelle coppie se la ricorda ancora oggi, li aveva incontrati all’inizio della sua angelizzazione. La coppia era rimasta lì alla fermata a lungo, dopo che l’autobus era ripartito, esattamente come facevano di solito gli estranei che erano in cerca di una dea e non sapevano la strada. Dora li aveva osservati per un po’, la donna era vestita come una turista, un abito che risultava strano in un giorno lavorativo. Si stizziva ogni volta che l’uomo le rivolgeva la parola. Lui indossava un cappello e un lungo impermeabile, e si comportava come se non fossero arrivati insieme. A Dora parvero sospetti e stava per andarsene, quando vide l’uomo fare un cenno alla donna e la donna venire verso di lei. «Bambina, sai per caso dove abita una dea?» le chiese con voce carezzevole. Dora rimase un attimo in silenzio, poi annuì esitante, indicando la cima del monte Kykula. «Lassù, nel bosco. Dovete seguire il segno azzurro che vi porterà fino a un bivio, da lì vedrete una casa, in quella casa vive una dea». La donna la ringraziò con slancio, tirò fuori dalla tasca una corona e gliela infilò in mano. Poi, con passo agile, si incamminò nella direzione indicata. A qualche metro di distanza la seguiva l’uomo. Dora li guardò finché non scomparvero oltre la curva del sentiero che portava ai piedi dei monti Carpazi. Dora si chiedeva ancora dove avessero passato la notte quei due. Forse in una mangiatoia nel bosco, che era così fitto che

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nessuna strada lo attraversava, solo un sentiero segnato in blu che da Hrozenkov arrivava all’incrocio per poi perdersi nel nulla, o forse erano riusciti a tornare al paese. L’ultimo autobus per Brod, che partiva alle 16.15, l’avevano perso di sicuro. Ma non tutti i forestieri erano così sospetti. La maggior parte al contrario erano persone davvero bisognose. Dopo un po’ Dora imparò a riconoscerli a un primo sguardo. Le donne anziane, sempre corrucciate, erano una certezza, di solito venivano per i figli. Anche le giovani che sostavano confuse davanti al tabellone degli orari erano una certezza, loro venivano per amore. Arrivavano anche persone che sembravano malate. Dora era contenta di portarli da Surmena, perché sapeva che lei li avrebbe aiutati e che i loro visi presto si sarebbero illuminati di speranza. Subito alla fermata Dora li prendeva per mano e li portava su, costeggiando il cimitero, la kopanice* Černá, e poi attraversando il bosco fino all’incrocio, da dove si scorgeva la casa di Surmena, sulla collina di Bedová. E intanto faceva l’andzjel come Surmena le aveva insegnato. «Ha fatto un lungo viaggio?» chiedeva Dora di sfuggita, come per attaccare discorso. «È stanco? Surmena le farà un infuso di piantaggine, si sentirà subito meglio!» «Mi sembra triste, le fa male qualcosa? Il corpo o l’anima?» Si era esercitata con Surmena innumerevoli volte – un sistema di domande intelligenti, cadenzate lungo il tragitto e poste con naturalezza. Durante il cammino Dora chiac* Kopanice è una regione morava. Più genericamente, si tratta di un termine intraducibile proprio della regione dei Carpazi Bianchi. È un pendio roccioso che necessita di una lunga lavorazione del terreno prima di venire coltivato. Deriva dal verbo kopat, okopávat: zappare [n.d.t.]

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chierava. E man mano che arrivavano in cima i suoi protetti diventavano sempre più calorosi e intimi, e lasciavano che le preoccupazioni tanto trattenute sgorgassero fuori, lentamente o tutte di un colpo, consapevoli che presto sarebbe arrivato il sollievo, che già sulla soglia di quella casa avrebbero potuto scaricare il loro macigno di sofferenza ai piedi di una donna che aveva il potere di alleviare ogni dolore. Dunque rivelavano a Dora, una bambina estranea, sconosciuta, che sarebbe presto scomparsa dalla loro vita, la pena che li affliggeva, e quando lei li salutava, davanti all’incrocio che vedeva il sentiero diramarsi in due direzioni, Koprvazy o Bedová, sapeva tutto di loro. Poi le bastavano quei dieci minuti di vantaggio che riusciva a guadagnare prendendo la scorciatoia attraverso il bosco, mentre il visitatore percorreva la strada più lunga, per raccontare a Surmena tutto ciò che aveva scoperto su di lui. «Venga, venga» li accoglieva poi Surmena ancor prima che aprissero il cancello, «venga e non abbia paura, la aiuterò io a guarire il suo mal di schiena o a recuperare quei soldi persi. Ultimamente ha difficoltà con la memoria, vero? Ma non si preoccupi, vedrà che non è grave, prego, venga, risolveremo tutto!» A quel punto i visitatori venivano colti da un rispetto reverenziale nei confronti di quella donna che, ancor prima che aprissero bocca, aveva già compreso ciò che li affliggeva. Poi entravano umilmente nell’oscuro salone in cui il tempo sembrava essersi fermato a metà del secolo scorso, e Surmena metteva velocemente sul fuoco un pentolino per fondere la cera e posava sul tavolo una ciotola con l’acqua fredda. «Questa è la cosa che li aiuta di più» rise affettuosamente Surmena quando Dora, dopo che un visitatore se ne fu andato, le chiese se non si trattasse di un inganno.

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