NOテ記LE REVAZ
CUORE DI BESTIA Traduzione di Maurizia Balmelli
Keller editore
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ià avanti di uscire la mattina, butto giù un bel goccio e le cose si imballano, come la paglia. Prima sto tutto storto e ho l’aglio in bocca e non sopporto chi vuole le carezze come i cagnetti che han la morva. Mi sciacquo la testa sotto il rubinetto e son già lì che tiro fuori le macchine. La Vulva traccheggia, si strofina in un angolo e si asciuga in cucina. C’è da sfamare. Le bestie si alzano parecchio prima di noi, sono mica delle poltrone, aspettano brave che finiamo le nostre lavande per recuperare le forze e rimettersi allo sgobbo. C’è da sfamare e anche da mungere. La Vulva sarebbe d’aiuto se solo fosse in grado, ma i bidoni del latte sono già pieni e lei è ancora là che si striglia, e il caffè io lo trovo freddo e il pane tostato mezzo secco. Delle volte mangio solo quello che non cucina e i suoi intrugli non li tocco, e i suoi piatti li schifo. La Vulva è una tosta, non batte ciglio. È come con le bestie: a furia di vedere il bastone, prima di fare danni ci pensano, ed è così che le governi, col ricordo e col rispetto del padrone. La mattina c’è una montagna di lavoro che ci aspetta. Lo sappiamo andando a letto, lo sappiamo già la sera, e anche se la tentazione è quella di uscire per riattaccare e portarsi avanti, c’è da rimanere a letto e dormire, e manda in bestia star lì a far niente e passar la notte a perdere tempo. Io posso restare parecchio sveglio al buio se penso al mucchio di lavoro che rimane. La Vulva non pensa. Si addormenta da sola e mugugna la notte intera.
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Non fosse arrivata la Vulva in fattoria, le cose sarebbero state più semplici. Non avrei avuto spese di ingaggio per l’operaio; se la Vulva avesse lasciato il posto a qualchedun altro di capace, non avrei preso le macchine e non avrei avuto il debito né dovuto vendere il terreno che ci ha lasciato mio padre. Non ci sarebbero stati i figli: e i figli, vuol dir lavoro. Vuol dire stare tutto il santo giorno all’occhio che non giochino con gli erpici, vuol dire far sì che non si caccino nei silos mentre li riempi e che non parlino coll’operaio, perché sapere il portoghese e il francese insieme può far danno. Ma la Vulva quei figli mica li ha fatti da sola, e tocca fargli da padre. Quando li governo, ci do quel che gli manca e se non stan fermi bacchetto, perché quando si ama si mena. La vita è così, tutta buche e bozzi e mica tanto da ridere o chissà che spettacolo, al punto che la sera a veder la Vulva sbracata ficcarsi nel letto e ruminare le sue scemenze nel gozzo tutto intasato dalla cena, vien una gran vergogna e la voglia canaglia che ti tira il braccio fuori dal letto e ti fa abbrancar le cose e brandirle, e poi sbraito: «E finiamola!» È che ogni sera o quasi quella esprime il desiderio, viene a strusciarsi contro la mia gamba e la cosa è eccitante sennonché disgustosa e fa paura quel modo di incollarsi e gemer forte. La spingo dall’altro lato, che mi molli e che mi dorma lontano, sola. Alle volte la notte quando credo, quando sento che respira quieta, mi ci infilo tra le gambe e me la sbrigo veloce, non che poi mi sciorina le sue menate di donna.
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ll’inizio, quando è arrivato l’operaio, ho detto alla Vulva: «Arriverà l’operaio. È un portoghese. Non parla bene il francese. Toccherà trattarlo come si deve, non che poi se ne va e ci sguinzaglia dietro la polizia». E la Vulva ha detto sì. «Toccherà evitare di giragli intorno e fargli le moine. Quello vien qui da noi per lavorare, guai a fargli vedere la pancia, non è qua per le donne». E intanto l’ho presa da dietro per farle capire come e dove tenersi le voglie. La Vulva è fatta così, capisce solo attraverso il corpo. La testa rimane indietro, appoggiata lì leggerissima e alle volte mi dico che anche se gliela togliessero, sarebbe sempre la stessa Vulva, se non le toccano il resto. Idee lei non ne ha, le sale tutto da sotto e quando dico che pensa con quella lei dice sì, che è vero. Non ha mai capito tutto, è buona solo a far figli più annessi e connessi, ma se la marchi a fuoco vedi come impara. Quando voglio che ubbidisca la domo a suon di pizzichi e riga dritto, garantito. Sennò son bastonate, come ai bambini, o peggio la corda o le forbici, e allora afferra e dice sì. È per questo che alla lunga abbiamo smesso di parlare e che in fattoria non si sente una mosca, solo gli strilli dei bambini che giocan di fuori. E non dà niente fastidio, perché io è così che sgobbo: nella calma, che uno può pensare e concentrarsi sulle bestie. La Vulva non si esprime mai di bocca, fa giusto Sì con la testa, perché è sempre d’accordo e sennò son dolori. Le parole le vengon fuori bagnate e molli come il fan-
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go, fa imbarazzo, e io non le lascio dir niente quando vengono le autorità per un saluto e a controllare che non sfruttiamo nessuno in nero. La Vulva ce l’ho appresso ogni giorno e alla fin fine mi sono abituato, perché non la vedo mai e manco la penso. Ma alle volte Dio buono mi dico: «Anche la Vulva è un essere umano!» e la guardo con altri occhi come se non avessi mai visto un paio di mammelle e un gran mento ottuso e certi rotoli di ciccia da strizzare a piene mani come della pasta. Quanto può esser brutta la Vulva! Più brutta di un tacchino. Eppure alle volte è strano ma a guardarla, a vederla nella sua cucina che dà il mangiare ai figli, vien quasi una voglia di qualche cosa, quasi da dire: «Alle volte sei una brava donna, Vulva». Però poi non si arriva a dirlo, perché ci son le immagini che ci assistono e ci rimettono sotto gli occhi la Vulva della sera e impediscono di abbassare la guardia, perché quelle, le donne, alla prima occasione ti rigirano la frittata. E così, quando la guardo, mi diverto a far finta che ha anche un cervello. È vero che la Vulva ha una testa, degli occhi e tutto. A guardarla muoversi non si direbbe affatto, si direbbe che dorme, ma e se invece poi fa la morta e a un certo punto si ribella e fa la rivoluzione e mi intrappola in cantina? Sono cose che succedono. Nei giorni che la osservo, la Vulva se ne accorge perché ne approfitta e cerca di comprarmi sospirando a tutto spiano: crede che ho intenzione di andarci a letto, e infatti si spiccia coi mestieri. Ma io cerco di parlare, faccio finta di dare ordini ai bambini e intanto sto all’occhio e cosa vedo? Che questa benedetta Vulva non sa parlare, che non capisce niente dei discorsi che si fanno e che quando le dici una frase sa solo fare sì sì sì ma la bocca non si muove, e si direbbe che non vede e
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non sente granché, e quando le chiedi: «Che cosa ne pensi, Vulva, delle sementi?» lei fissa nel vuoto e interrompe i mestieri e non risponde un accidente di niente salvo rimanere lì a bocca aperta. Allora io mi dico che questa Vulva non è proprio in grado di pensare, e che non ha sale in zucca, io l’ho sempre saputo, e mi avvicino per farle male perché mi dà sui nervi così muta, stupida come nessun altro, e le mollo uno sganascione. Mi piace perché non strilla ma si allontana, e almeno è fuori dai piedi. Bene, e dopo son solo coi mocciosi. Con un moccioso non è complicato, ha solo da imparare a chiudere il becco e finire quello che ha nel piatto, e quando ha spazzolato tutto basta gridare: «Fuori!» Il tempo di dirlo e non ce n’è più mezzo. Ai mocciosi nemmeno piace la Vulva, non se ne curan proprio. Si presentano all’ora dei pasti e spariscono appena cerchi di cavarci qualcosa. La Vulva li mette a letto la sera, e a loro quando tenta di baciarli gli viene il voltastomaco, li senti schifarsi appena lei chiude la porta. Un po’ quei mocciosi mi somigliano, ma un po’ sono anche della Vulva, ed è questo il fastidio e il motivo per cui non c’è verso di trovarli simpatici e chiamarli per nome.
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