Brossura | collana PASSI | pp 328 | euro 16 Traduzione dal ceco Angela Zavettieri KELLER www.kellereditore.it | www.kellerlibri.it
RADKA DENEMARKOVÁ Radka Denemarková è nata nel 1968, ha conseguito il dottorato in germanistica e boemistica nel 1997 presso l’Università Karlova di Praga. Ha lavorato per l’Istituto di letteratura ceca dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca, come lettrice e drammaturga presso il teatro Na zábradlí. Dal 2004 si dedica esclusivamente alla scrittura. Ha pubblicato la monografia di Evald Schorm Sám sobě nepřítelem (1998), e curato la raccolta Zlatá šedesátá (2000). Nel 2005 è uscita la sua prima opera in prosa, A já pořád kdo to tluče. Il suo secondo romanzo I soldi di Hitler (2006) ha ottenuto il premio ceco “Magnesia Litera” nel 2007 per la prosa, i premi letterari tedeschi “Usedomska” nel 2011 e “Georga Dehia” nel 2012 ed è stato nominato al premio polacco “Angelus” nel 2009. Fra il 2010 e il 2012 è stato adattato e rappresentato al teatro Švandovo. Nel 2009 Radka Denemarková ha ricevuto ancora il premio “Magnesia Litera”, questa volta per la pubblicistica, con la monografia romanzata Smrt, nebudeš se báti aneb Příběh Petra Lebla. Nel 2010 ha scritto Spací vady per il teatro Na zábradlí. Nel 2011 ha ricevuto il premio “Magnesia Litera” per la traduzione in ceco di L’altalena del respiro di Herta Müller. Nel 2011 è stato pubblicato il suo ultimo romanzo Kobold (Přebytky něhy. Přebytky lidí). Attualmente viva e Praga con i figli Ester e Jan.
PASSI 15
RADKA DENEMARKOVĂ
I SOLDI DI HITLER
Traduzione di Angela Zavettieri
Keller editore
Al giovane Jan Denemark, che non ha paura di guardare il sole. E a VladimĂr Volf, che non ebbe paura di guardare il sole‌
E non abbiamo forse verso tutti i nostri personaggi più o meno questo atteggiamento: questo sono io, e che Dio mi perdoni? Graham Greene L’uomo pensa, Dio ride. Proverbio ebraico Non vi è alcuna somiglianza casuale. Tutte queste vicende sono realmente accadute. Continuo a non saperne il perché.
Prologo
D
enis stringe fra le mani una paletta verde appuntita e l’affonda nella morbida terra rossastra. Impregnata, zuppa d’acqua dopo il nubifragio della notte. Ha la lingua di fuori, in alcuni momenti la appoggia con ostinazione al piccolo steccato bianco dei denti, dal quale mancano due assicelle, e spinge sempre più a fondo la vanga in miniatura, poi rivolta l’arnese nel terreno e ripone il mucchietto scavato su una collinetta che cresce accanto al ginocchio destro. Con dei colpi sonori appiattisce il cumulo che si è formato. Gli piace quel materiale melmoso. Poi posa la paletta. Ora vi affonda l’indice teso. Il dito è già infilato per metà nell’argilla, questa lo avvolge con una piacevole sensazione di gelo, ma va anche a nascondersi sotto l’unghia, ammassandosi, distorce il bordo fra quella e la carne, la terra spacca l’ostacolo dolorante. Spingere ancora il dito con la stessa forza trasformerebbe la delizia in una punizione. Denis svelto lo tira fuori. Ispeziona con curiosità quella specie di molletta rovinata dall’argilla in cui era rimasta avvolta, la guarda da tutte le parti, se la poggia sulla faccia. Si traccia una linea sulla guancia sinistra e una su quella destra, una al centro della fronte, e sotto il collo stende una striscia oltre la collinetta del pomo d’Adamo. Un indiano in agguato sul sentiero di guerra. Con la mano sudicia afferra di nuovo saldamente il manico verde scrostato e comincia a separare le zolle di terra, a ripulire l’argilla ricoperta di cespi di piccole radici d’erbe e
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malerbe. Dopo qualche minuto la paletta colpisce e si conficca in un ostacolo duro e resistente, irrigidendosi. Denis allenta la presa. Non affonda più in lungo, ma inizia a dare dei colpetti morbidi e febbrili, come tagliasse un gyros di argilla. Quando finisce, ormai senza fiato, a terra davanti a lui c’è una ciotola stranamente lunga e stretta, con delle curiose sporgenze, delle fenditure rugose e dei buchi. Una ciotola bianca. La solleva e la pulisce. Toglie i residui di sporcizia. La sciacqua con un annaffiatoio giocattolo, anche questo verde, con il beccuccio rosso. Corre via solo due volte, per riempire l’annaffiatoio di acqua piovana sporca. Da una vecchia vasca arrugginita, che anni prima era stata gettata vicino all’aiuola delle fragole, perché Denis vi potesse sguazzare durante l’estate. Rigira la ciotola pulita, svuotata, forata. E la solleva. Sorpreso guarda i due fori vuoti: cavità oculari. È un teschio. Un teschio umano. Con cautela Denis, che ha cinque anni, lo porta dal meleto nella vasca di sabbia. In piedi, a gambe larghe, una Donna si asciuga le mani distrattamente con uno strofinaccio a quadri rosso e bianco. È un po’ che sono asciutte, ma lei continua a strofinarle, le massaggia straordinariamente a lungo, persa nei ricordi frammentati che si sforza di catturare, connettere, sistemare. Poi getta lo strofinaccio su una sedia da cucina scrostata e più volte riverniciata, non lontano dai fornelli. Prende un piatto di porcellana di un bianco candido con le decorazioni blu, che contrasta con la sua faccia abbronzata da campagnola, e vi dispone un ventaglio simmetrico di canederli di pane. Con un mestolo di metallo versa una salsa marrone scuro con degli
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sfilaccetti di carne nella cavità asciutta formatasi al centro del piatto. Con cautela, per non macchiare il candore dei canederli. Poggia il piatto caldo in sala da pranzo, davanti a un uomo che si è già lavato il viso stanco e si è rimboccato le maniche della camicia di flanella bianca e blu. L’uomo mangia con voracità senza parlare. La Donna siede accanto a lui e osserva la peluria nera sul dorso della mano possente con le unghie spezzate, di quella mano amata che serra il cucchiaio d’argento in modo maldestro. Una ruspa instancabile che rimuove i detriti dal piatto. La Donna si alza solo una volta per andare a prendere lo strofinaccio dimenticato in cucina, lo tiene appoggiato sulle ginocchia e lo stringe, di tanto in tanto vi si asciuga le mani secche, screpolate e arrossate. Con un ultimo tocco leggero l’uomo raccoglie la traccia della salsa rimasta, la segue con cura, descrivendo due volte il giro del piatto. Solo quando il boccone sorbito sparisce nelle fauci insaziabili, la Donna si fa coraggio e dice all’uomo, che intanto mugola per la soddisfazione, di aver trovato Denis nella vasca di sabbia a fare castelli, torta tortella, se mi vieni bella ti do la caramella, se mi vieni brutta ti do la pastasciutta. L’uomo rutta possentemente e finisce di bere la birra da una bottiglia madida di condensa, sebbene abbia davanti a sé un bicchiere decorato da una straordinaria incisione, prodotto appositamente per questo scopo. «Embè, e che mi significa?» Aveva trovato Denis che faceva castelli di sabbia. Stava accoccolato in mezzo a un mucchio di sabbia, circondato da enormi colline dalla strana forma. Colline dal colore giallastro scuro con cavità e prolassi. Simili alla pasta che, prima
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di cuocersi in forno, è uscita fuori dalla forma. Tutto assorto, Denis riempiva di sabbia bagnata una strana stoviglia forata. «Se t’ha pigliato qualche cosa dalla cucina, dagli una sberla una buona volta, così alla prossima s’impara». La Donna inspira e continua senza interruzione a far sfilare le sue parole. Si era avvicinata alla vasca di sabbia, Denis stava zitto nell’attesa, come se intuisse di avere trovato qualcosa di prezioso. Di sacro. Un tesoro. Solo che ancora non sapeva di quale tesoro si trattasse. La Donna gli aveva strappato convulsamente dai ditini insudiciati quello strano oggetto e l’aveva portato nella rimessa. In silenzio e testardamente Denis sgambettava dietro di lei, la tirava per la gonna, la picchiava. Lei gli aveva assestato uno schiaffo. «E che cazzo, donna, allora ti vuoi decidere? Vuota il sacco!» «Questa non è… una cosa di tutti i giorni. È… è…» È come se qualcuno avesse ficcato in gola alla Donna tutto quel ventaglio di canederli appena sparito e glielo avesse impastato con una paura palpabile che le fa tremare la voce. «Voglio che la vedi da te». «E allora portala qua!» «Non si può. Devi venire con me. Alzati, andiamo!» «Dove?» «Nella rimessa». L’uomo si raddrizza contro voglia, si riallaccia la cintura aperta stringendo una massa di grasso intorno ai fianchi. «Tutta ’sta tiritera per chissà che cavolata di giocattolo». Notte. Tagliata da una luce in cui avanzano due figure. Sulla
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soglia della rimessa si fermano. Comincia ad abbaiare il primo cane. Quello del vicino. E poi un intero branco, il villaggio viene percorso da uno staccato, il segnale d’allerta. Il cane riconosce di essersi sbagliato e comunica agli altri la notizia rassicurante e il villaggio torna a tacere. Soltanto dopo la coppia riprende a muoversi. Nella rimessa manca la lampadina, l’uomo accende l’occhio di una torcia. Vi è raccolta ogni sorta di vecchie cianfrusaglie. Cose che una volta potevano andare bene; per la maggior parte oggetti di cui nessuno si ricorda più ormai. Un rastrello rotto e un vecchio forcone. Una macina per il grano. Delle vanghe spaccate. Una pressa per imballare la paglia e vari arnesi per raccogliere il fieno. Uno scaffale basso con le mensole sfondate. Un seggiolone per bambini decorato. Una grossa radio muta e sventrata. Un ventilatore. Una tarara per la pulitura del grano, rotta. Un armadio dipinto scrostato, con l’anta anteriore che non si chiude, la cui metà di destra si è accasciata e piegata verso terra. Una credenza verde chiaro dalle ante in vetro scorrevoli e con i cassetti divelti e senza pomelli. Sulla credenza troneggia una scatola di cartone marrone scuro con la scritta ELECTROLUX, sulla quale fa pressione un vecchio libro con la copertina in pelle. La Donna strappa la torcia di mano all’uomo. È così affascinata dal bruno della carta e con l’animo assente che l’uomo ingoia la propria riluttanza. Si avvicina alla scatola. Inciampa in una sedia ribaltata con il fondo intrecciato squarciato. «Maledizione, ti dico che stiamo a perdere tempo e chissà per quale stronzata!» La Donna si ferma in silenzio davanti alla scatola. In silenzio passa la torcia all’uomo, in silenzio solleva il libro di pelle e
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lo getta a terra. L’uomo punta la luce su una scritta indecifrabile incisa a caratteri gotici sulla rilegatura in pelle. Come celebrasse un rito, la Donna alza le ali della scatola e indietreggia. In silenzio fa segno all’uomo di guardare da sé. Aspetta. «Beh? Vai e guarda un po’!» L’uomo sputa. «Me ne sto qua a fissare come un deficiente». Fruga nella scatola, ne tira fuori un oggetto bianco e duro. Fa luce sulla palla asimmetrica suturata. La gira e si irrigidisce, la torcia mette a fuoco i contorni dei punti induriti, le concrescenze delle suture e attira l’attenzione sul vuoto buio delle cavità. Le cavità oculari. Lo scheletro di un volto. L’uomo rigetta subito il teschio lì dov’era. «Cazzo! Cazzo, cazzo! – E dove l’ha pescato?» «Dice che l’ha trovato scavando in giardino». «Che giardino?» «E che giardino, il nostro, no? Dove comincia il meleto. Vicino alle renette e a quei meli di Holovousy». L’uomo scatarra e sputa. «E ha trovato… s’è messo a giocare… ha scoperto solo questo?» «Solo questo». «E che c’hai da guardarmi così imbambolata? Che c’hai da fissarmi? Forse, forse è uno di quei cosi… quelli di Neanderthal che li vanno scavando fuori e che ci scrivono sui giornali, mica che ora per forza dev’essere…» «Che facciamo?» L’uomo capisce. Non è proprio il momento di fantasticare. Loro due non hanno bisogno di mentirsi. La Donna lo esprime con la sua postura salda, ma anche con la voce tremante. Con gli occhi umidi. L’uomo torna alla realtà.
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«Troviamo il resto. Ci deve dire dove l’ha trovato. E tu preparati una storia da raccontargli». «Già dorme». «E tu sveglialo!» Mezz’ora dopo Denis sta in piedi vicino alla finestra della sua ampia stanza al primo piano. Fra i veli della tenda. Non ha bisogno di nascondersi, quei due di sotto sono troppo presi dal loro lavoro e acquietati dal buio della notte. Denis invece li vede. Vede l’uomo e la Donna che scavano febbrilmente la terra intorno al punto del suo tesoro, arano il terreno del suo teschio, tastano il giaciglio di uno sconosciuto. Su di loro lo stormire delle foglie del melo, foglie che fra un mese cadranno, che ogni anno sono cadute mescolandosi e coprendo il dormiente, dandogli sollievo si sono dissolte insieme a lui, finché Denis non ha scoperto il giaciglio. Era Denis che doveva scoprirlo, era lì ad aspettarlo. L’uomo e la Donna estraggono delle assicelle storte e dei bastoni bianchi e un cestino di una strana forma. A quel punto la Donna barcolla, si appoggia al tronco di un melo e vomita. Denis guarda, il suo dispetto cresce. Quei giocattoli appartenevano a lui, lui doveva trovarli. Uno dopo l’altro. Glieli hanno rubati. Quei giocattoli sono suoi. Domani se li riprenderà. Denis è stanco, gli occhi gli si appiccicano, non ce la fa più a stare in piedi. Zampetta fino al letto, si mette accanto l’orsetto di peluche e si copre. Prima di addormentarsi completamente immagina con gioia il giocattolo bianco accanto a sé nel letto, con le cavità accese da un fuoco d’artificio colorato di luci favolose. Rimarrà a lungo nelle fantasie infantili di Denis. Soltanto due anni più tardi verrà coperto e ricacciato via dalla nascita
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della sorella NataĹĄa. Allora comincerĂ ad affascinarlo la fragilitĂ e la bellezza di un corpo umano vivo.
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