IL RE NON HA SONNO

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CÉCILE COULON

IL RE NON HA SONNO Traduzione di Tatiana Moroni

Keller editore



PRIMA PARTE

Tutto quello che aveva fatto nella sua vita gli risaliva al cuore e alla mente; tutto quello che aveva fatto era male. JOHN STEINBECK, Vicolo

Cannery



UNO

Quello che nessuno ha mai saputo, quel mistero di cui non si parlava la domenica dopo la partita attorno a una birra fresca, quella sensazione che le vecchie cercavano di analizzare la sera infilate sotto le lenzuola, quel peso, quell’orrore nascosto dietro ogni frase, ogni gesto, coperto dai tappi delle bibite, macchiato dalla senape degli hot dog venduti prima dei concerti; quella paura insopportabile, soffocata dalle famiglie, gli alunni, i conducenti di bus e le prostitute, quello che nessuno ha potuto sapere, è quello che Thomas aveva provato quando il poliziotto coi capelli unti era venuto a mettergli le manette, stringendogli così forte i polsi che il sangue era schizzato sulla manica della camicia. Quel tipo, uniforme nuova e scarpe da sbirro, non sorrideva. Portava i due anelli di metallo appesi alla cintura come palle di Natale al ramo di un pino. Thomas non era che una canaglia di più, una specie di sciacallo che avrebbe dovuto essere ucciso nell’uovo. “Bingo. Ti spedisco in un posto dove potrai assaggiare sbarre di ferro tutto il santo giorno. Devi pagarla. Credimi, se ne avessi avuto l’occasione ti avrei dato una lezione da un bel pezzo”.

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Nessuno ha mai saputo. Quando la madre di Thomas si è precipitata fuori di casa, col vestito mezzo aperto, non hanno capito realmente. Ha urlato più forte delle sirene di tutte le caserme della regione. Il vecchio Puppa, seduto sulla sua poltrona malandata, non si è mosso di un millimetro; i suoi occhi sono rimasti chiusi, la bocca emetteva degli strani cigolii: i cardini della porta di un saloon. Puppa conosceva Mary fin dalla sua più tenera infanzia. Avevano giocato a biliardo, trovato nascondigli per fumare le loro prime sigarette, mangiato hamburger con le altre pollastrelle della città. Si erano strofinati gli uni contro gli altri su coperte che puzzavano di pino e di whisky adulterato. Urlava come un puledro che viene sgozzato. Quando la sua voce si era trasformata in un nitrito di disperazione, i ricordi del vecchio erano spuntati d’un tratto. Bisbigliavano, ronzavano in lui come api attorno a un dente di leone. Mentre Mary perdeva la testa in mezzo alla strada principale, Puppa si era reso conto che non sapeva perché Thomas avesse preso una brutta strada proprio nel momento in cui tutto gli sorrideva. “Non c’era alcuna ragione” si diceva, “perché questa storia finisse così”. Mary fu condotta al commissariato da tre sergenti. O’Brien, il medico di famiglia, la aspettava. Era lui che aveva curato Thomas quando si era aperto l’arcata sopraccigliare. Il dottore non poteva parlare, non era ancora al

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corrente. D’altronde, nessuno in città sapeva di preciso perché Mary avesse urlato in quel modo, ma tutti erano sicuri che una tragedia aveva avuto luogo. Ma né O’Brien, né Puppa, né i sergenti, nessuno sapeva perché quella povera donna si era ridotta a strapparsi le vesti in pubblico. Fu trasportata all’ospedale più vicino e non rimise piede in città che un mese più tardi. Al suo ritorno, sapevano. Quando entrò nella drogheria del centro per comprare fagioli rossi e petti di pollo all’aglio, le donne abbassarono lo sguardo. Nel momento in cui tirò fuori il portafogli, il gestore le prese le mani e le offrì tutto quello che aveva nella sporta. Mary lo ringraziò, le sue parole erano tese, la lingua si muoveva poco tra i denti. Delle urla volevano uscire. Sotto lo sguardo dei clienti, strinse il manico di vimini e girò i tacchi. Sapevano perché Mary non sarebbe più stata quella che avevano conosciuto. Ma nessuno fece domande a proposito di Thomas: sentivano tutti che non bisognava parlarne e nemmeno pronunciare il suo nome. Si chiedevano cosa potesse provocare una tale scomparsa nel cuore di una madre. Fino alla morte di Mary, Puppa restò stravaccato al suo posto, un mozzicone tra i denti, senza spiccicare una parola. Fu soltanto dopo il funerale della madre, un giovedì pomeriggio, che i vecchi cominciarono a far saltare le

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serrature. Puppa fu il primo a parlare di Thomas. O’Brien, ben dritto nel suo completo scuro, ammise: «Ho visto il corpo. Nessuno dovrebbe vedere il proprio figlio in quello stato». Gli altri approvarono con un cenno della testa. La zia di Mary, una donna dalle mani magre, serviva panini farciti di formaggio su un vassoio di rame. A partire da quel giorno, non passò un’ora senza che qualcuno menzionasse il “figlio maledetto”. Ognuno aggiungeva il suo aneddoto: le donne raccontavano che era più bello di una Chevrolet appena uscita dalla fabbrica, gli uomini parlavano dei suoi muscoli, delle serate ben innaffiate. Attorno alle tazze di tè e ai bicchieri di birra, durante i pranzi al sole e davanti ai caminetti, le ragazze narravano la storia di Thomas, abbellivano i racconti di dettagli piccanti e di pensieri sconci: i loro compagni scoppiavano a ridere. Negli spogliatoi della squadra di baseball, i giocatori inventavano battute di pessimo gusto su di lui, poi si spogliavano e andavano a riposare il loro corpo sotto l’acqua tiepida. Nessuno sapeva davvero quello che era successo. Le imposte della casa restavano chiuse. Le travi marcivano. Nessun parente era andato ad aprire la baracca dal giorno del funerale. Poco a poco, la città inghiottiva quello che restava della famiglia Hogan. Ben presto, la storia di Thomas divenne una leggenda del villaggio: un brutto ricordo

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che faceva paura ai bambini e alimentava le conversazioni da bar. No, davvero, nessuno ha mai saputo.

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