Giorni vicini

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VIE 16



ANGELIKA OVERATH

GIORNI VICINI Romanzo in una notte

Traduzione di Laura Bortot

Keller editore



I

M

a respira. Inorridì. Sua madre era sistemata, pettinata e lavata, ed era lì distesa, tranquilla. E lei la sentiva respirare. Ma respira. Voleva gridarlo, eppure se lo proibì. Guardò le apparecchiature per la dialisi spente e ripulite da poco, con i loro tubi trasparenti arrotolati. La stanza rifulgeva di una tenue, chiara luce d’estate, filtrata dai castagni. Solo ieri il sangue della madre scorreva ancora in grovigli rosso ciliegia. Ma respira, pensò, lo sento chiaramente che respira. Invece non respira più, si rese conto. È morta. Già al telefono le avevano detto che sua madre stava morendo e che non avrebbe fatto in tempo a trovarla viva, anche se fosse partita subito e avesse percorso in taxi quei cento chilometri. Aveva accolto la notizia con una punta di sollievo – seguita da un folle attacco di panico. Era salita sul taxi, e in quell’attimo aveva visto l’orologio digitale scattare sulle 11.03. Come era venuta a sapere più tardi, quello era stato il momento della morte. Accanto al suo letto, in cui ora giaceva così quieta, immersa nella luce verde – e lei la sentiva respirare – capì

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che sua madre era stata una creatura mortale. Il respiro doveva essere un’illusione, un’allucinazione sensoriale. La madre era morta. Quindi è possibile, pensò. Naturalmente sapeva che prima o poi sarebbe successo, la madre muore e la figlia vive, ma non ci aveva creduto davvero. Quella morte smentiva il loro tacito accordo, smentiva ogni aspetto del naturale principio della vita. Ora dovrei pregare, pensò, ma non pregò. Dovrei dirle addio con un ultimo bacio, pensò. E non la baciò. Cercò di coglierne il respiro, e non lo sentì. Trattenne il fiato. Lì, in quella stanza rivestita di piastrelle verde tiglio, qualcosa irrevocabilmente finiva. Fuori dalla finestra gli uccelli stridevano all’estate. Tutto ciò che doveva accadere a quel punto, doveva accadere con estrema lentezza. Non riusciva più a raccapezzarsi. Questa stanza rivestita di piastrelle, disse sillabando le parole, è una stanza rivestita di piastrelle. Dove respira la madre che non respira più. Sarebbe rimasta attenta in ascolto. Girò intorno al letto, guardò ancora una volta quel torace che non accennava a sollevarsi né ad abbassarsi, e percepì quel sibilo affannoso e regolare. Il viso della madre era chiuso, quasi non le appartenesse più. Non voglio rimanere qui, pensò, e pensò al rispetto e al riguardo che le avrebbero imposto di rimanere. Si diresse rapida verso il verde tiglio delle piastrelle e tornò indietro, neanche fiutasse un’uscita segreta. Rivolse lo sguardo alla

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madre. Disegnò un’orbita intorno al letto, una provocazione irragionevole. Poi non ci fu bisogno di altro.

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X

C

on la nonna e la madre i Sudeti erano giunti al Reno. Perché i popoli e le regioni possono viaggiare. Viaggiano in quanto odori, immagini, storie. Viaggiano accompagnati da reliquie e ricette. Sono là dove vengono vissuti. Naturalmente anche con il nonno erano giunti al Reno i Sudeti, solo che i suoi Sudeti, quelli che aveva portato con sé, nei ricordi di Johanna erano un paese piccolo, in realtà solo un mucchietto di terra, alcuni vasi di fiori pieni di Sudeti. I suoi Sudeti erano il laboratorio di calzolaio, il violino e quella saggezza che gli permetteva di riconoscere le persone. Johanna non credeva che il nonno avesse potuto trasmettergliela di propria mano, la saggezza; quando era morto lei era troppo piccola, piuttosto dei suoi Sudeti le erano rimaste le storie, rade, sfuggite alla nonna e alla madre, parole esili su di lui, quasi mute. Dunque, per sapere con che genere di individuo si avesse a che fare, bastava guardargli scarpe e mani. Dalle scarpe e dalle mani si riconosce una persona, diceva sempre il nonno. In effetti Johanna per tutta la sua vita si era attenuta a questo consiglio. Che il nonno prestasse attenzione alle scarpe e alle mani, era in realtà assolutamente

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comprensibile. Non era stato solo calzolaio, mastro ciabattino, anche se poi era finito a lavorare nella fabbrica di seta. Aveva anche suonato il violino. Come gli zingari, diceva la madre, riferendosi al fatto che suonava tutto a orecchio, senza aver mai studiato una nota. Tra i primi ricordi di Johanna c’erano le passeggiate al parco municipale, dove vicino al laghetto con i fenicotteri e le ninfee si trovava un palco per le orchestre. Là, la domenica, il nonno suonava il violino davanti a un fitto pubblico, e Johanna andava a sentirlo con la madre. E credeva di rammentare un profumo di seta sintetica rosa pallido, e il nero ancora più intenso dei capelli folti e lucidi della madre, e i suoi piedi nudi che calzavano bianchi sandali fatti di stringhe di cuoio. Mentre Johanna aveva di sicuro indossato i calzettoni bianchi della domenica, che immancabilmente scivolavano adagiandosi su impeccabili stivaletti blu. Doveva essere in quell’epoca che il nonno aveva avuto un’amante. Perché non solo suonava il violino, ma cantava anche in un coro. E in quel coro una volta doveva esserci stato un gioco dei pegni in occasione del quale il nonno aveva baciato una donna del gruppo dei soprani – e chissà a causa di quale pegno. E i due non si erano fermati al bacio. E quella donna, diceva la madre con amarezza, aveva poi convinto il nonno a negarsi con lei, con lei! Infatti la madre era andata a casa sua per dirle che la storia dove104


va finire. Ma quest’ultima non le aveva permesso di entrare e si era limitata a sostenere che il padre non fosse lì. La madre però era stata certa del contrario, aveva visto appeso nell’ingresso il suo cappello. Il fatto che in quel periodo la nonna avesse avuto un colpo apoplettico e fosse rimasta per sei mesi paralizzata, la madre lo collegava direttamente alla donna in questione. Poi il nonno aveva lasciato la sua amante. Ma la nonna non era più stata la stessa e in seguito alla paralisi le era rimasta la bocca un po’ storta, cosicché anche i suoi sorrisi potevano essere solo storti. Il nonno era morto presto. Aveva fumato troppo, dicevano alcuni, il cuore, dicevano altri. E i Sudeti si erano presentati al suo letto di morte. Infatti il prete, anche lui uno “di casa, del paese”, non aveva detto molte parole, ma aveva preso il violino del nonno e gli aveva suonato una melodia. Più avanti, quando una volta erano a casa della zia, la zia con i secchi in bagno, suo marito, che era un fratello del nonno, aveva tirato fuori una vecchia registrazione su nastro in cui lui suonava la fisarmonica e il nonno il violino. Ma la madre non aveva mai voluto ascoltare il nastro, e neanche lo aveva voluto in regalo, perché aveva paura di piangere. La madre aveva amato molto suo padre, anche se lui l’aveva picchiata. L’aveva picchiata quando lei non voleva esercitarsi con il violino, perché era portata per la musica 105


e lui desiderava che suonasse bene uno strumento. Ma lei non voleva, per otto anni interi non aveva voluto. L’aveva picchiata anche quando aveva mangiato la salsiccia. Forse l’aveva picchiata perché sarebbe stato lui stesso felice di mangiarla, oppure semplicemente perché mangiandola la figlia aveva disobbedito. Johanna credeva che fosse in primo luogo la madre a non aver capito bene perché l’avessero picchiata in quel modo a causa della salsiccia, comunque ogni tanto raccontava questa storia. Abitavano nella fattoria di un ricco contadino a cui erano legati da un contratto di vitalizio. Un giorno, era una bambina, l’avevano mandata dal macellaio del paese vicino a comprare una salsiccia. Aveva in mano una corona, e in cambio di quella corona doveva portare a casa un pezzo di salsiccia grande quanto il valore della moneta. Sulla via del ritorno, attraverso i prati lungo il corso del fiume Zwittau che proprio in quel punto separava Moravia e Boemia, in quella provincia ceco-tedesca a duecento chilometri da Praga e altrettanti da Vienna, su quella via del ritorno di per sé non così lunga, ma che poteva diventarlo per una bambina che teneva in mano un pezzo di salsiccia, soprattutto in un tardo pomeriggio d’estate, mentre correva sui prati quando magari si faceva già sentire la fame, la bambina ne aveva assaggiato un po’ e proseguito la sua corsa in mezzo ai fiori estivi alti fino ai fianchi, e siccome la salsiccia era buona, ne aveva preso un altro morso, forse senza rendersene conto, e un altro ancora. E

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quando era arrivata a casa con l’intenzione di consegnarla al padre, non ne era rimasto più neanche un pezzo, se non forse il culaccino. Che però il padre l’avesse anche molto amata, nonostante questa storia, era confermato dal racconto della cioccolata pregiata. Nel paese dove si trovava il macellaio c’era anche un negozio che vendeva cioccolata, e prima di Natale la vetrina era piena di piccole figure dolci, ognuna incartata a parte. Alcune nella carta stagnola rosa, altre in quella blu. Ce n’erano tante e diverse, anelli, stelle, cavallini, campane. E quando era arrivato Natale il padre aveva preparato un albero interamente decorato con le figure di cioccolata avvolte nella carta stagnola, ma solo quelle blu. Interamente, raccontava la madre. E aggiungeva che in realtà loro non avevano soldi, erano davvero poveri, e il padre per una volta aveva fatto tutto questo solo per lei. Perché lei era la sua unica figlia e lui voleva che fosse felice.

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