GIOCO D'EQUILIBRIO. CIECO SUL TETTO DEL MONDO di Andy Holzer

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ANDY HOLZER Andy Holzer è nato il 3 settembre 1966 a Lienz nel Tirolo Orientale. Cieco fin dalla nascita, non si è mai fatto demoralizzare dal suo destino difficile. Anzi, l’ha sfidato sin da piccolo praticando sport come l’alpinismo, lo sci di fondo, il surf e la mountain bike. Dal 1981 canta nel gruppo Dolomitenduo, suona la chitarra e il basso. Dal 1984 lavora come fisioterapista e balneoterapista nell’ospedale di Lienz. Si è sposato con Sabine nel 1990. A 23 anni, Hans Bruckner, guida alpina di Lienz, gli ha insegnato “il mestiere dell’arrampicata”.


PASSI 20



ANDY HOLZER

GIOCO D’EQUILIBRIO Cieco sul tetto del mondo Traduzione di Fabio Cremonesi

Keller editore


Questo volume è stato stampato nel mese di marzo 2013 Stampa e Legatura GECA INDUSTRIE GRAFICHE

Cesano Boscone (MI)

Titolo originale: Balanceakt. Blind auf die Gipfel der Welt Traduzione dal tedesco di Fabio Cremonesi © 2010 Patmos Verlag der Schwabenverlag AG, Ostfildern IMMAGINE DI COPERTINA

© Manuel Ferrigato © 2013 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it redazione@kellereditore.it PRIMA EDIZIONE, MARZO DUEMILATREDICI


Gioco d’equilibrio Cieco sul tetto del mondo



Vedete cose che esistono, e chiedete: “Perché?” Ma io sogno cose che non ci sono mai state e chiedo: “Perché no?” George Bernard Shaw



Con la mano sinistra saggio verso l’alto, per trovare un altro punto di appoggio sicuro. Grazie a Dio con le dita scopro un appiglio, perché sto già sentendo che la minuscola sporgenza su cui stanno i polpastrelli del mio piede sinistro si sta piano piano sbriciolando. È la quarta volta che mi capita negli ultimi dieci minuti. Malgrado la tremenda precarietà, o forse proprio per quello, mi godo questa posizione, perché una volta di più sto espandendo i confini delle mie possibilità. Percepisco chiaramente di trovarmi a trenta metri dal suolo. La mia corda di sicurezza non è fissata in alto come al solito, quando c’è Hans che mi assicura da sopra. Oggi pende floscia dal mio imbraco, formando una leggera curva. All’attacco, su una rampa di roccia, c’è mia madre che mi passa la corda e si fida ciecamente delle mie doti di scalatore. Del resto non potrebbe fare altro, visto che questa è la sua prima vera scalata. E non ha idea di come si gestisca una cordata. Poco prima di affrontare la parete, le ho di nuovo mostrato come si fa il nodo frenante che, qualora dovessi cadere, bloccherebbe la fune nel suo moschettone. La mamma ha risalito con me per le prime due ore i ghiaioni spesso privi di sentiero alla base della parete del Teplitzer Spitze, perché non ho trovato un altro compagno con cui realizzare il mio proposito per quella splendida giornata di settembre. Finché si tratta di camminare, mi baso sull’analisi del rumore dei passi di un compagno. In questo modo riesco a distinguere se al prossimo passo appoggerò il piede su un terreno saldo, una scivolosa

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chiazza d’erba, una salita ricoperta di ghiaia oppure un soffice cuscino di muschio. Quel giorno sto quindi seguendo mia madre, che mi fa da guida su quel terreno accidentato. «Adesso dobbiamo salire fino a quella chiazza di neve, poi girare leggermente a destra, nel secondo colatoio» le spiego in base alla mappa virtuale che ho memorizzato nella mia testa e che a lei basta per condurci fino all’attacco. Da lì in poi divento io il capo, perché a quel punto le mie dita possono tastare la parete verticale e di colpo dispongo di impressioni sensoriali sufficienti per orientarmi. Per tenere su il morale della cordata, dico a mia madre che più in alto la pendenza diminuisce e il resto della salita si fa meno impegnativo. Ben presto mi accorgo che quel giorno non sarà una passeggiata. Segnali d’allarme: l’odore di zolfo, che si crea quando la roccia è resa friabile dall’erosione e dagli agenti atmosferici, e delle sdrucciolevoli chiazze umide all’interno di profonde fessure. Al tatto è come scalare in un negozio di souvenir, su una scaffalatura di vetro, aggrappandosi a tazzine da caffè e vasetti di fiori che possono precipitare nel vuoto in qualsiasi momento. Ciononostante riesco a spingermi sempre più in alto lungo una fenditura larga quanto me. Mi viene in mente cosa intendeva Hans quando mi ha detto che questa parete nord non è adatta a me, perché la roccia è molto friabile e pericolosa anche per gli scalatori che ci vedono. Ma io ho comunque seguito il mio irrefrenabile istinto, ho coinvolto mia madre, una donna di oltre cinquant’anni, come compagna di cordata e ora sto lottando per farcela. Per un attimo penso di tornare indietro, anche se mi sembra un vero e proprio suicidio in questa situazione precaria. Se durante una salita ci si ritrova ai limiti del possibile, la discesa è una scemenza bella e buona. E nel profondo sento con chiarezza che non c’è alcun motivo di andare nel panico.

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All’improvviso urto con il casco contro una sporgenza. Capisco che sono arrivato sul margine superiore della fenditura e che mi devo spostare verso destra, in una zona non così ripida. Allungo la mano oltre il margine destro e cerco di passare al di là di una gobba nella roccia che al tatto sembra il bordo di una gigantesca vasca da bagno. Mentre sposto un piede, si stacca un altro frammento di roccia e credo di cadere nel vuoto. Mi è chiaro che in quel posto non sopravvivrei a una caduta, perché finora non ho ancora fissato un singolo rinvio. E a proposito di fissare, non ho ancora neppure trovato un punto di ancoraggio a cui assicurarmi. A intuito mi giro con la parte superiore del corpo e riesco ad aggrapparmi con precisione millimetrica a una fessura larga quanto un dito, che avevo trovato al tatto pochi secondi prima. In quello stesso momento sento in lontananza, da qualche parte sotto di me, il frammento di roccia che sbatte con un tonfo sordo. Oh Dio, mia madre! «Stai attento!» grida, e dato che non è più in contatto visivo con me, non ha idea di quanto io stia lottando duramente. Mi rassicura: la pietra che è riuscita a stento a schivare, non l’ha ferita. Mentre le grido qualche parola d’incoraggiamento, continuo a muovermi verso l’alto lungo la ripida fenditura. Io stesso non ero mai stato su questa parete e mi arrampico seguendo l’immagine che ne ho in testa. Quando una persona mi descrive qualcosa, dopo poche domande precise, sono in grado di farmene un’idea esatta, addirittura dettagliata. In base ai racconti di altri scalatori ho creato di questa via un’immagine che spero sia affidabile. La mia corda, lunga cinquanta metri, dovrebbe finire tra poco e qui da qualche parte ci dovrebbe essere la prima sosta con due chiodi da roccia. Da sotto, mia madre conferma ad alta voce che me ne rimangono solo due metri e ora so

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che devo subito trovare la sosta a cui legarmi saldamente, per recuperare a corda tesa mia madre e affrontare il prossimo tiro. Finora non ho trovato il minimo indizio che qui ci sia davvero un punto di ancoraggio artificiale. Quindi non so se mi trovo sulla via giusta e inizio a innervosirmi. Ovviamente è sempre possibile che la mia mappa immaginaria sia differente dall’effettiva topografia e che la mia capacità d’immaginazione mi abbia giocato un brutto tiro. Mi metto a tastare all’impazzata, con tutte e due le mani, la roccia intorno a me, per trovare infine quel dannato gancio di metallo. Se adesso mia madre dovesse mettersi a scalare senza essere assicurata, all’improvviso avrei nelle mie mani non solo la mia vita, ma anche la sua. Sento il palato secco e un saporaccio amaro in bocca. Mentre mamma da sotto continua a chiedermi cosa sia successo, perché dal movimento stagnante della corda capisce che c’è qualcosa che non va, io provo a dirle con voce rilassata che mi sto solo allacciando le scarpe. So benissimo che tocca a me risolvere il problema di quella corda lasca. Quindi mi concentro a fondo su ciò che mesi prima mi è stato raccontato sulla parete nord del Teplitz da altri scalatori. Di sicuro non avrebbero mai immaginato che questo matto cieco si sarebbe messo a scalarlo come capocordata, altrimenti se ne sarebbero stati zitti. Non è che qualcuno aveva detto che, per riuscire a raggiungere con la mano il punto di ancoraggio a cui agganciare il moschettone, era dovuto salire ancora un pochino più in alto? E allora con il moschettone in mano allungo il braccio più in alto che posso e finalmente sento il tintinnio metallico del chiodo di sosta. Mi aggancio in fretta e grido in tono orgoglioso: «Vieni su!» Poco dopo avverto da sotto che la mia compagna di cordata inizia a salire e posso recuperarla a corda tesa per il primo tiro. Presto riacquisto la sicurezza in me stesso; sono fiero di mia

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madre, che sta procedendo abbastanza spedita, e sono altrettanto fiero di essere il capo di questa singolare cordata. Non scambiamo molte parole perché ci troviamo nel bel mezzo di una selvaggia parete di trecentocinquanta metri di altezza. L’unica via di fuga possibile è ancora verso l’alto. Mia madre capisce in fretta che in questo momento non può assumere un atteggiamento distruttivo e di panico, e che anzi, con la fiducia reciproca può avere un effetto positivo sulla cordata. Ci aspettano pur sempre altri dodici tiri di corda. Il colpo d’occhio sul secondo tiro è un piccolo shock che le toccherà digerire da sola, dato che solo lei può vederlo. Si tratta di attraversare in orizzontale un viscido ripiano di roccia, inclinato come una finestra basculante aperta. Mia madre può vedere l’intero tragitto fino alla prossima sosta e tutti i rinvii. D’altra parte quella vista per lei insolita su un labirinto di precipizi, mi serve per superare il nostro secondo tiro. I suoi brevi richiami mi bastano per orientarmi a grandi linee, e mi devo solo concentrare sui segnali che mi manda il mio corpo, sui passaggi e sugli appigli. Attraversare quel piano inclinato è una grande sfida, perché i miei piedi non possono più seguire le mie mani e non ho informazioni di quello che c’è sotto le suole delle mie scarpe. Comunque concludo quel gioco di equilibrio e mi rallegro per una fenditura lunga venti metri e larga una spanna che mi indica il percorso attraverso quella parete liscia, fino alla prossima sosta. E poi di nuovo le manovre con ganci e moschettoni, fissare la corda, il comando «Vieni su!» e mia madre, messa in sicurezza da me, può avvicinarsi un altro po’ alla vetta. Passano le ore, un tiro dopo l’altro. La nostra cordata ha già imparato da tempo quali sono i propri punti di forza e le proprie debolezze e ormai dalla vetta ci separano soltanto quaranta metri di dislivello. A questo punto do la precedenza a mia madre. Lei

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mi guarda incredula. Mi guarda? Lo percepisco dal suo respiro, dal calore della sua pelle e da altri segnali a me almeno in parte sconosciuti, che mi dicono anche come è posizionato il resto del suo corpo. Mia madre è sempre stata una donna sicura di sé e scala davvero gli ultimi metri di quella parete perfettamente verticale per poi raggiungere in pochi passi il piccolo spiazzo in vetta. Un grido di gioia che le risuona dal profondo del cuore mi conferma che anche per lei questo dev’essere uno dei giorni più belli della nostra vita…

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Un’infanzia normalissima

A

mlach, il paese in cui sono nato, è un comune di trecento anime, un piccolo, idilliaco nido nel Tirolo Orientale. Tra la ripide cime delle Dolomiti a sud e il selvaggio, romantico gruppo degli Alti Tauri a nord, è adagiato nel pianeggiante fondovalle di Lienz e circondato dall’Amlacher Waldele, il bosco di Amlach. In questo luogo da sogno mio padre è cresciuto nella fattoria dei suoi genitori e insieme a mia madre, che viene da Lienz, suo fratello Alois e sua cognata Christl, ha costruito una casa bifamiliare. Nel 1961 i miei genitori si sono sposati e sono andati a vivere in quella casa di proprietà pagata a prezzo di grandi sacrifici. Mio padre faceva il postino e mia madre vendeva tessuti, quindi tutti e due ebbero il loro bel daffare per mantenere l’abitazione comune. Nel maggio 1963 finalmente venne al mondo il primo figlio, una bambina. Quando mamma tornò a casa dall’ospedale con quel fagottino di nome Elisabeth in braccio, l’umore tra gli Holzer non sarebbe potuto essere migliore. I miei genitori poterono godersi quel senso di felicità soltanto per pochi giorni, poi ricevettero una notizia terribile: il fratello di mia madre non era tornato da una scalata, sebbene il mattino successivo dovesse andare a lavorare e fosse già notte fonda. Lo zio Franz era uno scalatore appassionato e ad appena sedici anni era già riuscito a fare parecchie vie molto difficili. Aveva deciso di impiegare il ponte di Pentecoste per sfuggire per un po’ alla monotonia della vita quoti-

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diana, facendo delle escursioni in giornata sulle tiepide rocce delle Dolomiti. Il sabato si era messo in cammino da solo e ormai era lunedì notte, ma dello zio Franz non c’erano tracce. I miei genitori capirono subito che qualcosa non andava, mio zio era un ragazzo responsabile al cento per cento. Il martedì pomeriggio arrivò la triste notizia che era stato travolto da una frana di neve e sassi sul versante nord dell’Hochstadel, una parete di poco meno di millequattrocento metri, sul margine orientale delle Dolomiti di Lienz. Anche mio nonno era un buon alpinista e aiutò il soccorso alpino nelle ricerche di suo figlio. Dare alla luce il primo figlio e perdere il proprio fratello nel giro di una settimana dev’essere stato un vero e proprio otto volante dei sentimenti per mia madre, che ai tempi aveva appena ventun’anni. Mio padre, che ha quattordici anni più di lei, all’epoca fece tutto il possibile per esserle di conforto. Una seconda dura prova attendeva la giovane coppia, quando i medici dopo alcuni esami diagnosticarono alla loro figlia Elisabeth la tremenda Retinite Pigmentosa. La RP, come i medici abbreviano questa grave patologia dell’occhio, è una malattia incurabile della retina che spesso conduce alla completa cecità. Nella retina mancano parzialmente o totalmente i coni e i bastoncelli. Queste cellule visive fotosensibili trasformano l’immagine ottica, che attraverso la pupilla viene proiettata sulla retina, nel fondo oculare, in segnali elettrici che vengono inviati al cervello tramite il nervo ottico. Elisabeth sarebbe diventata cieca, un’amara scoperta per i miei genitori, che fino a quel momento non si erano accorti che qualcosa non andava negli occhi della piccola.

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