Indian Creek. Un inverno da solo sulle Montagne Rocciose

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Brossura | collana PASSI | pp 256 | euro 14,50 Traduzione dall’americano Tatiana Moroni KELLER www.kellereditore.it | www.kellerlibri.it


PETE FROMM Fromm è nato nel 1958 a Shorewood nel Wisconsin e si è laureato in Biologia della fauna selvativa presso l'Università del Montana. Ha vinto per quattro volte il Pacific Northwest Booksellers Literary Award ed è autore di cinque raccolte di racconti, due romanzi e un libro di memorie. Nella sua vita ha fatto il bagnino, il ranger, lo scrittore e, ovviamente, il guardiano di uova di salmone.


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PETE FROMM

INDIAN CREEK Un inverno da solo sulle Montagne Rocciose Traduzione di Tatiana Moroni

Keller editore


Titolo originale: INDIAN CREEK CHRONICLES. A winter Alone in the Wilderness Traduzione dall’americano: Tatiana Moroni © 1993 by Peter Fromm This translation pubblished by arrangement with The Lyons Press, a division of The Globe Pequot Press, Guilford, CT 06437 USA IMMAGINE DI COPERTINA

Bobcat stalking in snow © Theo Allofs/Corbis © 2012 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it redazione@kellereditore.it PRIMA EDIZIONE, MAGGIO DUEMILADODICI


Indian Creek Un inverno da solo sulle Montagne Rocciose



A Ellen per i libri, e Big Dan e Paul per aver tentato, e infine a Rader, il mio collegamento col mondo.



UNO

U

na volta partiti i guardacaccia, la tenda che avevamo montato sembrò ancora più piccola. Restai lì in piedi, e tremai per una folata d’aria che mi sembrò correre lungo il collo. Era davvero casa mia ora? La mia casa per i prossimi sette mesi? Per l’intero inverno? Da solo? Alzai lo sguardo verso le pareti ripide e scure del canyon, che bloccavano già il sole di metà pomeriggio. Al di là di quelle pareti di pietra e alberi non c’era nient’altro che la natura selvaggia della Selway-Bitterroot. Ero solo, nel cuore della natura. L’ombra si rovesciò su di me e mi affrettai a spostarmi alla luce che rimaneva sul prato. I miei passi frusciavano nell’erba alta fino al ginocchio e il vento fischiava tra gli abeti imponenti e i cedri che circondavano la piccola radura. Il precipitarsi sussurrante del fiume scorreva attraverso tutto questo, creando una calma insistente che mi avvolgeva come un sudario. Mi fermai al palo del telefono che secondo la guardia mi avrebbe collegato con l’esterno. Ieri avevamo scoperto che non funzionava. Tirai su comunque il ricevitore, ascoltando il suo silenzio vuoto, la voce del resto del mondo. Col ricevitore ancora all’orecchio mi voltai e guardai la tenda all’ombra, abbastanza lontana per averne una visione completa. Le pareti di tela delimitavano una superficie di cinque metri per sei. Me l’avevano detto le guardie, vantandosene, facendola sembrare spaziosa. Al telefono, alla piscina del-

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l’università quando avevo accettato questo lavoro, era suonato sontuoso. Appesi l’apparecchio muto e tornai alla tenda. Scostando il lembo dell’ingresso entrai, lasciando fuori la natura selvaggia. Un mucchio di scatole e sacchetti – tutte le mie cose e le provviste per sette mesi – si trovava in mezzo al pavimento, riducendo fortemente lo spazio. Ricordavo come, solo ieri, quelle scatole e quei sacchetti riempissero la mia camera nel dormitorio, e come il mio compagno di stanza e io avessimo scavato dei sentieri per muoverci. Mi sedetti sulla pila e Boone, la cagnolina simile a un topo che il mio compagno di stanza mi aveva regalato, si sedette sul mio piede. Era stata svezzata troppo presto, e non le interessava nulla che non si trovasse nel raggio di un passo o due dalla mia gamba. Feci un profondo respiro e le grattai le orecchie penzolanti, sussurrando «È bello qui, vero Boone?» Ma invece di riuscire a suscitare un qualche entusiasmo per quei sette mesi di solitudine, stavo seduto e accarezzavo la sua testa calda, chiedendomi come diavolo fossi finito qui. Pensai a quella prima telefonata alla guardia forestale, dalla piscina dove avevo sentito parlare per la prima volta di questo lavoro, e realizzai che era stato il nuoto ad avviarmi verso questa tenda buia e solitaria, quando ancora non potevo intuirlo. Il primo passo sul lungo cammino per arrivare qui potrebbe anche essere stato quello mancato a Milwaukee da mio fratello su una scalinata, quattro anni prima. Paul, il mio gemello, la stella del nuoto del liceo, si era rotto la gamba prima ancora di arrivare in fondo a quella rampa, mettendo fine alla sua stagione sportiva, ma dando il via alla mia. Il mattino dopo non avevo neanche avuto il tempo di arri-

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vare che l’allenatore mi cercò: «Sei il gemello di Fromm?» voleva sapere. Anche se non ci somigliavamo per niente, non vedevo ragioni per mentire. «Bene. L’allenamento inizia alle quindici e trenta. Ci vediamo dopo». «Io non nuoto» dissi. «Sei il gemello di Paul, giusto?» Visto che non rispondevo ripeté: «Quindici e trenta», e uscì. Quando suonò l’ultima campanella quel pomeriggio mi avviai verso casa, deviando per la piscina solo all’ultimissimo momento. Prima di ritrovarmi all’interno, assalito dalla puzza di cloro che mi avvolgeva, non avrei mai pensato di andarci. Involontariamente, avevo preso la prima di una serie di decisioni completamente sconsiderate che mi avrebbero condotto a questa tenda. Ho arrancato per venti vasche e quando tutti si sono fermati ho pensato che avessimo finito. Non avevo la forza di fare nemmeno un’altra bracciata. Ma l’allenatore assegnò una nuova serie e ricominciai a dibattermi nell’acqua con gli altri. Qualsiasi altra cosa avrebbe voluto dire rinunciare. Anche se questo non era il mio mondo, non avrei affrontato un’onta simile. Era il penultimo anno. Quello delle selezioni per l’università. Ma il mondo del nuoto mi aveva travolto e non ci pensavo per niente. All’ultimo anno passavo in piscina anche l’ora di pranzo, recuperavo il tempo perduto spostando l’acqua avanti e indietro da solo, con l’allenatore che camminava al mio fianco sul bordo, urlando degli incoraggiamenti. Con le sue grida nelle orecchie e il debito di ossigeno che mi brucia-

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va i polmoni creavo nuovi mondi nella testa – record del mondo, le Olimpiadi, i sette ori di Mark Spitz al collo – ponendo le basi per una vita di sogni a occhi aperti. Appropriato alla solitudine. Verso la fine dell’ultimo anno passai sempre più tempo a eludere le domande dei miei genitori sull’università, fino al giorno in cui un foglio di carta scivolò giù dalla pila di cataloghi accademici di un amico. In cima alla pagina campeggiava una pecora selvatica, simbolo commovente di natura e libertà. Al di sotto c’erano le parole oscure “Biologia della fauna selvatica” e “Università del Montana”. Per anni d’estate la mia famiglia era andata in campeggio, iniziando dalla roulotte, passando per tende dimensione famiglia, fino ad arrivare ai viaggi in canoa e, un paio di volte, a quelli con gli zaini. Meno civilizzato era meglio era, pensavo, e mi facevo spesso lasciare da solo mentre loro seguivano i percorsi guidati. Preferivo esplorare in solitudine, vedere quello che c’era da vedere senza una guida che mi dicesse cosa guardare, senza diventare parte di quella che consideravo una folla di cittadini ignoranti. Gironzolare, lo chiamava mio padre. Gironzolare in giro. Non avevo mai sentito parlare di biologia della fauna selvatica, ma suonava un po’ come un gironzolare professionale. Nella seconda di una serie di decisioni sconsiderate, inviai una sola candidatura all’università. La mia conoscenza della geografia dell’ovest era sommaria e non sapevo neanche come pronunciare la parola Missoula, ma tre mesi dopo sbarcai lì, studente di biologia della fauna selvatica. E anche se non lo sapevo ancora, il posto dove si trovava la mia tenda, sul fiume Selway, era solo a centotrenta chilometri in linea d’aria.

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Al mattino mi svegliai presto, e il cielo era stellato, non nuvoloso. Corsi al bacino per assicurarmi che fosse tutto a posto. Poi mi misi lo zaino in spalla e mi diressi verso il valico. Sotto la neve fresca c’era lo strato indurito dal freddo, abbastanza solido da sopportare il mio peso almeno fino a mezzogiorno, quando il sole l’avrebbe scaldata e avrei ricominciato a sprofondare. Trasportavo le racchette sullo zaino e camminavo veloce. La capanna di Blondie era a trentanove chilometri di distanza e anche sapendo che si trattava di una lunga camminata, non pensavo che avrei avuto problemi. Mi immaginai la faccia di Rader una volta alla sua porta, con lo zaino in spalla, vestito di lana, mukluks di pecora ai piedi, Boone alle calcagna. Avevo i capelli abbastanza lunghi da legarli in una coda di cavallo. Sarei stato una sorta di apparizione. Partii prima dell’alba ma lo spicchio di luna e le stelle mi illuminavano in maniera più che sufficiente. Mi muovevo senza rumore attraverso gli strati di soffice neve fresca, argentea e scura. Era piacevole spostarsi di nuovo in maniera silenziosa, dopo settimane di passi scricchiolanti sulla neve gelata. Andai su e giù per le slavine e avevo percorso rapidamente tre chilometri prima che il pelo di Boone si rizzasse all’improvviso. Si fermò ad aspettarmi. Stavo tornando alla civiltà e, praticamente per la prima volta, non avevo armi. Avanzai lentamente, con Boone attaccata. L’unica altra circostanza in cui le avevo visto rizzare il pelo fu la notte gelida in cui mi svegliò ringhiando e, accendendo la torcia, feci in tempo a vedere un cervo ritirare la testa dalla tenda. Seguimmo le anse del fiume e arrivammo a un’altra slavina vuota e sporca. L’alba cominciava appena ad essere abba-

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stanza luminosa per distinguere le cose. Guardai Boone, ma si teneva ancora stretta a me. Mentre attraversavamo la slavina Boone prese a ringhiare. Rallentai, ma ero curioso. In cima alla slavina c’era una femmina di cervo morta. Aveva il fianco squarciato e del vapore saliva dalla ferita. Ricordai il ringhio di Boone e percorsi con lo sguardo gli alberi scuri che mi circondavano. Controllai ma non riuscii a trovare altre ferite. Non c’erano nemmeno delle impronte. A monte rispetto al cervo vedevo una tacca nella neve, e poi un’altra più in giù, con un segno di scivolata fino al corpo. Come una caduta, un salto e una scivolata. Guardai il dirupo sopra di me. C’era un dislivello di quindici o venti metri. Ma i cervi non cadono nei dirupi. Mi guardai di nuovo intorno, ma non scovai altri indizi. Boone aveva smesso di ringhiare quando aveva trovato l’animale. Lo annusò e si accucciò. Girandogli di nuovo intorno notai un segno di trascinamento. Si allontanava dal cervo, giù per la slavina. Nella neve soffice era più facile da vedere. Era una depressione regolare, profonda qualche centimetro, larga forse venti. Controllai il cervo un’altra volta, e lo rovesciai. Era morto da poco, le interiora erano ancora calde. Non capivo il perché di quel segno, a meno che un animale avesse portato via un pezzo del cervo. Ma non mancava niente. C’erano due cervi? Riguardai e pensai di no. Nella striscia per terra non c’era sangue. Non aveva senso e guardai ancora gli alberi scuri prima di cominciare a seguire la traccia. Svoltai alla prima curva e la striscia finiva dritta nella neve fresca e piatta, fino alla curva successiva. Non c’erano impronte da nessuna parte, solo quella traccia liscia nella neve. Non avevo idea di cosa fosse. Boone ricominciò a comportarsi

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stranamente, aveva il pelo rizzato, ringhiava, e io avrei davvero voluto avere il fucile. Avanzai in punta di piedi, a lato del sentiero, immaginando che probabilmente sarei dovuto tornare indietro per esaminarlo ancora, e non volevo calpestare gli indizi. Alla curva successiva Boone caricò. Il segno di trascinamento conduceva dritto a una lince rossa seduta in mezzo alla strada. Prima di rendermene conto, si era voltata e colpiva Boone con la zampa, gli artigli in fuori. Boone invertì la carica a un pelo da quegli artigli e tornò al mio fianco. La lince ci guardò in modo truce, poi si voltò e cominciò a trascinarsi giù per la strada. Virò verso il fianco del burrone, dirigendosi a una cavità della neve sotto un albero. Ora cominciavo a fare due più due. La lince e il cervo dovevano essere caduti insieme dal precipizio. Il cervo era morto e la lince azzoppata. Era evidentemente paralizzata da metà schiena in giù. La guardai trascinarsi verso l’albero, dove avrebbe avuto la schiena al coperto, e avrebbe potuto opporre un’ultima resistenza. Ma gli era difficile salire fin lì e dovette fermarsi a riposare. Si era già trascinata a duecento metri dal cervo. Restai ancora un momento a guardare, troppo sorpreso per fare qualcosa. La striscia era stata lasciata dal suo fianco e dalla zampa sinistra. Macchie nere bordavano il fianco che passava dal marrone chiaro e chiazzato e dal color camoscio del dorso al bianco immacolato del ventre. La base delle inutili zampe era nero, con peli scuri tra le dita. Trascinando il posteriore aveva coperto le tracce lasciate dalle zampe anteriori. Montando la leggera salita fino all’albero riusciva a fare

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