BENJAMIN STEIN
LA TELA Traduzione di Elisa Leonzio
Keller editore
Due vie principali e sentieri secondari che si intersecano guidano attraverso il romanzo. A ogni svolta si trova un possibile punto di partenza degli eventi. Da dove inizierete a leggere dipende da voi o dal caso. Potete seguire il racconto fino a metà del libro e poi girare e ricominciare dall’altra parte. Per seguire uno dei sentieri secondari vi basta invece girare il libro alla fine di ogni capitolo e riprendete la matassa da dove avevate interrotto. Potete anche cercarvi un vostro cammino personale.
Jan Wechsler
Vuoi prendere la gola o il fiume? (il barcaiolo nessuno paga con amore)
Citazioni da opere tradotte R. M. Rilke, La pantera, in Id., Poesie 1907-1926, a cura di Andreina Lavagetto, Torino, Einaudi, 2000, p. 45 Raymond Quenau, Esercizi di stile, introduzione e traduzione di Umberto Eco, Torino, Einaudi, 2001 (prima edizione 1983), p. 3 B. Brecht, Ascesa e rovina della città di Mahoganny, versione ritmica di Fedele D’Amico, Torino, Einaudi, 1967 (prima edizione 1964) W. Hilbig, Nuovi poeti tedeschi, Torino, Einaudi, 1994
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i solito noi non apriamo, se suonano alla porta durante lo Shabbat. Familiari e amici non suonano. Ci avvisano prima e, all’orario concordato, aspettano sul lato opposto della strada, così che noi li possiamo vedere dalla finestra e scendere di sotto per farli entrare. Questo ha voluto l’Eterno nella sua saggezza: che per il cibo e perché celebriamo lo Shabbat ci rendiamo conto di vivere tra stranieri, in esilio. I vicini cattolici non stendono fuori la biancheria di domenica, ma nulla impedirebbe loro di scrivere una lettera o di fare una gita in auto dopo la messa. Gli studenti dell’appartamento al piano di sotto hanno, io temo, una nozione molto vaga di Dio. Nelle grandi città tedesche non è molto di moda. È meglio non sapere troppo di uno che nei confronti dell’uomo ha pretese così sofisticate e vincolanti come il rispetto dello Shabbat. Naturalmente esistono eccezioni, per esempio José Molina, un musicista un po’ sovrappeso e simpaticissimo, che vive con l’amico nell’appartamento accanto al nostro. Non abbiamo mai chiesto da dove venga. Mi è sempre piaciuto immaginare che fosse un cileno in esilio. Idea che naturalmente mi è venuta per il suo nome, per il Bacio della donna ragno e per il suo accento, difficile da collocare geograficamente. Anche se non so con sicurezza da dove Molina provenga, so però che ha viaggiato molto e che ha trascorso alcuni anni a New York. Viveva a Brooklyn, in una zona abitata prevalentemente da ebrei. Lo abbiamo saputo una sera, quando abbiamo dovuto
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pregarlo di prendere in consegna la nostra nuova lavatrice. Avrebbero dovuto portarcela al mattino, ma ormai stavamo entrando nello Shabbat e non era ancora arrivata. Molina è stato bravissimo. Ha fornito tutte le indicazioni necessarie ai facchini, ha firmato la bolla di consegna e ha persino dato la mancia ai due. Oltretutto, non c’era stato bisogno di spiegargli nulla. Si era messo a ridere e ci aveva detto: non avrei mai pensato di poter essere utile anche qui in Germania come goy dello Shabbat. Vicini come Josè Molina sono rari. Se in questo paese si vuole rispettare lo Shabbat, bisogna costruirsi una fortezza difensiva. Appena si mette piede fuori dalla porta, si calpesta un campo minato per la religione, e non meno pericoloso è quando qualcuno da fuori vuole entrare – suonando il campanello alla nostra porta durante lo Shabbat. Devo ringraziare mia moglie se non mi lascio più mettere alle strette da queste situazioni. E tu non aprire, mi ha detto un giorno, dopo che per l’ennesima volta avevo dovuto sbarazzarmi del postino perché non potevo né prendere il pacchetto né firmare la ricevuta. Come spiegarsi in un momento simile? Vado completamente nel pallone. Mi sento un idiota. La trovo una cosa penosa. E poi mi vergogno di trovarla penosa. È una cosa penosa spiegare a un perfetto sconosciuto che cosa è lo Shabbat, che è lo Shabbat e che per questo non posso ritirare il pacchetto, ma neppure pretendere che il postino se lo riporti via. E se una situazione mi sembra penosa, divento scortese. E questa scortesia in simili momenti diventa a sua volta spiacevole per mia moglie. Quindi la porta rimane chiusa, se suonano durante lo Shabbat. Sarebbe rimasta chiusa anche ieri, se proprio allora non
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fossi stato a giocare in corridoio con i miei figli, così scatenati e rumorosi che i nostri giochi e le risa si sentivano per tutta la scala. La porta sarebbe rimasta chiusa se l’uomo che veniva da noi fosse stato davanti all’ingresso dello stabile e non già a quello del nostro appartamento e non avesse bussato e urlato che dovevamo pur aprirgli. Ignorarlo, quando lui sapeva benissimo che c’era qualcuno in casa, mi sembrò davvero troppo maleducato. Così aprii la porta. Sul pianerottolo aspettava – e come poteva essere altrimenti – un corriere. Sembrava innervosito. Non vedevo né pacchetti né lettere. Ma c’era una valigia, e anche l’inevitabile blocco con la lista delle bolle di consegna che attendeva la mia firma, quella firma che io avrei dovuto, ancora una volta, rifiutare. All’inizio però non dissi nulla. Veniva dall’aeroporto, spiegò il corriere. La compagnia aerea si scusava per i tempi così lunghi. Però finalmente la mia valigia era stata trovata. Eccola. Dovevo firmare la ricevuta. Così lui poteva andarsene. Aveva ancora da fare un lungo giro. Tirai un sospiro di sollievo. Questa volta il problema si sarebbe risolto facilmente. Se si pensa alle enormi misure di sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, dove non solo tutte le valigie al check-in, ma anche ogni bagaglio a mano viene dotato di etichetta con codice a barre, sembra assolutamente impossibile che un bagaglio su un volo in partenza o in arrivo in quell’aeroporto vada smarrito e attenda abbandonato che qualcuno lo recuperi. Non ho perso nessuna valigia, dissi. Non può essere, ribatté il corriere. Aspetti, ecco qui: 7 gennaio, TUIfly Tel Aviv – Monaco. Ha denunciato la perdita.
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Non riuscivo proprio a ricordarmelo. Ci sarà un modo di provare, replicai, che al check-in avevo un solo bagaglio. Questo non lo riguardava, precisò il corriere. Lui si occupava solo di recapitare i bagagli che venivano ritrovati. E venivano sempre ritrovati, anche se a volte occorrevano settimane. Intanto parecchie valigie, disse, viaggiavano per mezzo mondo, perché venivano caricate per sbaglio su altri aerei. Può darsi, ammisi io: però la valigia non è mia. Sciocchezze, sbottò il corriere. Capii che si stava arrabbiando, mi mostrò il cartellino con l’indirizzo che sembrava compilato a mano da me. Osservai meglio il bagaglio. Si trattava di una valigia da pilota, nera, probabilmente di finta pelle, munita di serrature a scatto color bronzo a combinazione. Ma le serrature sono danneggiate!, dissi. Sì, ammise il corriere. Anche di questo la compagnia di volo si scusava. Ma non c’erano eccezioni. La dogana e la guardia di frontiera dovevano esaminare tutti i bagagli smarriti e poi ricomparsi. Nella lettera di accompagnamento, comunque, veniva spiegata ogni cosa. L’avrei potuta leggere più tardi, perché lui non aveva davvero tempo di discutere tutti i particolari con me. Guardi, io sono solo il corriere, sbottò quasi esasperato. Se si vuole lamentare, chiami il numero riportato qui. E mi mostrò un numero che iniziava con 0180 nell’intestazione della bolla di consegna che io non volevo prendere, proprio come non volevo prendere la valigia. Come se non bastasse, i miei figli si erano fatti curiosi. Sbirciavano la valigia attraverso la porta aperta. Ci sono dentro dei regali, papà?
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Quali regali? Ma sì, i tanti regali che tu ci hai comprato in Israele! Ve li ho già dati! Ma papà guarda, nella valigia ce ne sono di sicuro molti altri. È fantastico! Sì, bambini, disse il corriere, la valigia è di certo piena di regali per voi e il vostro papà non ha voluto dirvi nulla perché si era persa. Ma l’abbiamo ritrovata e io ve l’ho portata a casa, con tutti i regali dentro. Non manca nulla. Se mi avessero raccontato a quali subdoli trucchi i corrieri ricorrono per liberarsi di una valigia, non ci avrei creduto. Mio figlio era ormai incontenibile. Si mise a saltare eccitato attorno alla valigia e a un certo punto perse l’equilibrio cadendo all’indietro con un tonfo contro la porta del nostro vicino Molina, che si stava esercitando al violino. Dovevo a tutti i costi riprendere il controllo della situazione e feci anch’io ricorso a un’astuzia. Bambini, dissi, andate dentro a chiedere alla mamma se ha ancora un dolce per voi. Funzionò. I bambini si precipitarono urlando nell’appartamento. Ma non mi servì a molto. Se ne erano appena andati che aprì la porta con il violino in mano José Molina. Sostenne di avermi sentito bussare. Notai nei suoi occhi lo stesso scintillio complice che gli avevo già visto quel venerdì della lavatrice. Gli era bastata un’occhiata per capire la situazione. Ah, disse, vi hanno riportato la valigia! E subito si rivolse al corriere per sapere se non poteva per caso firmare lui al posto mio. Era quasi uno di famiglia. Naturalmente, disse il corriere sollevato e subito gli porse il blocco. Molina appose la firma sulla lista, prese la valigia e,
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senza che glielo chiedessi, la portò oltre la soglia e la depose nell’ingresso di casa nostra. È tutto, vero?, urlò da dentro. Ma il corriere se n’era già andato. Dal piano di sotto lo sentimmo mormorare: che strana gente che c’è al mondo! E prima che potessi spiegarmi, il mio vicino mi batté comprensivo sulle spalle e in un attimo scomparve nel suo appartamento insieme al violino e alla sensazione di aver compiuto una buona azione. Un dolce dopo il dolce non c’è stato. Perché mia moglie è inflessibile. Nemmeno regali. E i bambini ci sono rimasti male. La valigia, alcuni giorni dopo la consegna, è nel mio ufficio, ancora chiusa. Perché rimane il fatto – e lo confermerei sotto giuramento – che io quella valigia non l’ho mai vista prima. I giorni sono diventati settimane e le settimane mesi. La valigia si trova ancora nel mio ufficio. Non l’ho aperta. Sta proprio accanto alla mia scrivania e così lo sguardo immancabilmente ci cade sopra ogni volta che alzo gli occhi dal lavoro, li distolgo dallo schermo o li sollevo dalla tastiera e li lascio vagare di lato. Nel frattempo spero che si mimetizzi nell’ambiente, che diventi una cosa sola con la scrivania, scompaia tra le pile di libri e diventi invisibile, così come accade a tante cose attorno a noi che giorno dopo giorno divengono abituali e prima o poi finiscono per passare inosservate. Ma la speranza in questo caso è vana. Questa valigia è come una spina nella carne, una scheggia che ti si conficca nel piede se cammini trasognato su un vecchio pontile. Una ferita piccola, ma capace di farti sobbalzare e strapparti ai tuoi pensieri, il che nel mio caso significa essere strappato alla routine dei sogni.
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