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BENJAMIN STEIN

LA TELA Traduzione di Elisa Leonzio

Keller editore



Due vie principali e sentieri secondari che si intersecano guidano attraverso il romanzo. A ogni svolta si trova un possibile punto di partenza degli eventi. Da dove inizierete a leggere dipende da voi o dal caso. Potete seguire il racconto fino a metà del libro e poi girare e ricominciare dall’altra parte. Per seguire uno dei sentieri secondari vi basta invece girare il libro alla fine di ogni capitolo e riprendete la matassa da dove avevate interrotto. Potete anche cercarvi un vostro cammino personale.



Amnon Zichroni

Non sappiamo che cosa è vero, dici tu. Possiamo solo dire che cosa conta.



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P

er lungo tempo ho creduto di avere una sorta di sesto senso. Non che vedessi uomini morti o cose simili, cose che si potrebbero ritenere sovrannaturali. Era semmai l’esatto contrario. Pensavo di avere un fiuto per ciò che è realmente vitale negli uomini, un fiuto per quello che li spinge a fare qualcosa o glielo impedisce, per quel nucleo dentro di loro che essi stessi in un momento di apertura avrebbero forse definito il loro io. Quel che contraddistingue ogni uomo non lo si trova scritto sul suo volto. Non lo si coglie nel suono della voce. Non lo si può respirare e neppure assaggiare dalla goccia di sudore sulla tempia nell’attimo della paura. E se ci si volesse affidare al tatto, si sarebbe perduti, perché chi tocca e chi è toccato nel contatto si mischiano, e non si può dire se in un simile momento non si percepisca qualcosa di se stessi più che dell’uomo che si spera di conoscere. E non è neppure un miscuglio di tutte queste cose. No, ciò di cui parlo non è afferrabile mediante i sensi di cui di solito disponiamo. È una miscela di tutti i contatti, gli odori, i suoni, le immagini e i gusti che i nostri sensi hanno incontrato nel corso del tempo e che non sono stati dimenticati. Sono i nostri ricordi a fare di noi ciò che siamo. La nostra memoria è la vera sede del nostro io. Il ricordo, però, è instabile, sempre pronto a trasformarsi. A ogni ricordo diamo una nuova forma, lo filtriamo, separiamo e riuniamo, aggiungiamo, conserviamo e così, col passare

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del tempo, sostituiamo sempre più l’originale con il ricordo del ricordo. A questo punto chi se la sentirebbe di dire che cosa una volta è realmente accaduto? L’oblio, dicono con leggerezza alcuni dei miei colleghi a tal proposito, è la crosta della psiche. Ma come sotto la crosta cresce nuova pelle per completare la guarigione, così anche sotto l’oblio nasce qualcosa di nuovo. L’ho potuto osservare di continuo nei miei pazienti. Perché quel sesto senso su cui poggiava il mio successo come psicoanalista e su cui potevo sempre fare affidamento era – un senso per i ricordi. Annusavo, gustavo, percepivo, sentivo e vedevo ricordi di altri uomini; non so se lo dovrei definire un dono. Se lo avessi fatto, mi sarei dovuto chiedere chi fosse il donatore. Là da dove vengo c’è, per una simile domanda, solo una risposta: HaKadosh Baruch Hu – il Santo, sia lodato – oppure Satana, l’eterno tentatore, e sarebbe toccato soltanto a me produrre la prova della vera origine di questo regalo. Perché ogni dono, così mi hanno insegnato, ospita in sé una traccia di bene e una di male e alle fine tocca a chi l’ha ricevuto fare del regalo una benedizione o una condanna. Avevo quindici anni quando fluì dentro di me un fiume di immagini, suoni, odori e sensazioni, simile a un metallo rosso incandescente che doveva consumare in me, bruciandola, ogni traccia di puerilità e ogni resto di infanzia. Sedevo a capo chino davanti a mio padre, attendendo l’annuncio di una pena di cui dovevo aver intuito che avrebbe cambiato in modo violento e irreversibile la mia vita. Devo, credo, prenderla un po’ alla larga per rendere comprensibile la natura di quell’attimo in cui probabilmente si è decisa la mia vita e per trasmettere un’impressione del tipo di

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pena che quel giorno mi preparavo a ricevere. Quando parlo di violenza, non mi riferisco a una punizione corporale. È piuttosto la brutalità del cuore che, per il bisogno assoluto di fare l’unica cosa giusta, reprime dentro di sé ogni moto contrario. Sono nato a Mea Shearim, a Gerusalemme. Ero il primo maschio dopo tre femmine e di cinque anni e mezzo più giovane della maggiore delle mie sorelle. Nel vicinato non era una cosa inconsueta. Soltanto l’età dei miei genitori poteva attirare un po’ l’attenzione, perché entrambi avevano già passato da un bel pezzo la trentina. Per una cosa simile in un luogo come quello potevano esserci soltanto tre spiegazioni. O si erano fermati perché in una delle due famiglie c’era stato qualcosa di non kasher: per esempio la nefasta presenza del malocchio, sinonimo di minacciosa melanconia, o teives irrefrenabili che, Dio ci protegga, avevano allontanato un membro della famiglia dall’unica vera via, quella della Torà. La seconda possibilità presa in considerazione era che quello non fosse il loro primo matrimonio. E la terza possibile spiegazione, ossia che le loro radici ebraiche non risalissero proprio fino ai piedi del monte Sinai, avrebbe significato una macchia appena meno grave. In una società di norme severissime basta una deviazione minima da quel che tutti si attendono per essere sospettati. E forse dipendeva da questo, se spesso avevo la sensazione che i miei genitori facessero sempre qualcosa in più di quanto appariva necessario, che fossero un po’ più disposti degli altri a seguire la linea severamente tracciata delle attese – per essere, se non proprio stimati, almeno accettati. L’appartamento dei miei genitori era piccolo. C’erano tre stanze. In una stavano le ragazze. La seconda era dei miei

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genitori ed era chiusa a chiave. Nella terza, la più grande, c’era spazio solo per una credenza, uno scaffale con le edizioni della Ghemarà e dei commenti di Rashi, un tavolo pieghevole e sedie appena sufficienti per i membri della famiglia e per uno o due ospiti. Lì si svolgeva la vita della famiglia, perché le cucine – ce n’erano addirittura due, una per la carne e una per il latte, a destra e a sinistra del corridoio – erano così minuscole che c’era appena spazio per un lavabo, un forno e uno stretto tavolo da lavoro. La mia nascita fu un gradito stimolo a cercare un nuovo appartamento. Non potevo assolutamente dividere la camera con le mie sorelle; e la stanza dei miei genitori era tabù. Rimaneva chiusa a chiave. E comunque, se anche avessero voluto collocare lì il mio letto, la soluzione avrebbe avuto durata breve, perché non si lascia dormire un bambino con i genitori per più di uno o due anni. Il nuovo appartamento era a poche strade di distanza dal vecchio. Per il trasloco i miei genitori presero in prestito carri con rastrelliera. Due giovani aiutarono con il trasporto. E ciò, sebbene i vicini disapprovassero apertamente il nostro trasferimento in un altro quartiere. La nuova casa, infatti, distava poco più di duecento metri, ma apparteneva già a un altro mondo. Ci trasferimmo nel Rechov Malchei Israel, a Geula, che per noi era un po’ come dire redenzione. Non solo attraversammo un confine linguistico – lì non si parlava yiddish bensì ebraico – ma facemmo anche un viaggio nel tempo di circa cento anni e scaricammo le nostre suppellettili domestiche in un altro continente del mondo ebraico. A Geula non si vedevano solo cappelli neri. E che mio padre aprisse un negozio e ora sedesse con i libri sacri soltanto una o due ore dopo cena,

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mentre prima lo faceva l’intera giornata, qui non era un buon motivo per rompere un’amicizia. Dall’attimo che precedette la punizione so che non solo la mia vita è stata salvata da quel trasferimento, ma anche quella dei miei genitori. A poche centinaia di metri discosti dal centro della santità, i miei genitori devono essersi sentiti infinitamente meglio, molto meno sotto la pressione di dimostrare la propria adesione e quindi, lo so da allora, di fingere. Di tutto ciò, per anni, non ho avuto il minimo sentore. Mio padre praticamente non toglieva mai il caffettano. E ovviamente mi mandò al cheder nella nostra vecchia zona, dove imparai a leggere e appresi tipi e ordini delle offerte sacrificali nell’antico tempio. Non meno ovvia, poiché imparavo bene e non mi facevo notare, fu la scelta della yeshivà subito accanto al cheder rispetto a qualsiasi altra. E sicuramente era previsto che a diciannove o vent’anni, sposo e novello padre, avrei studiato nello stesso kollel in cui mio padre studiava di sera, dopo aver chiuso il negozio. Tutto così come doveva essere e come se non fosse cambiato nulla, a parte che l’Eterno non aveva voluto trovare nessun appartamento adatto per la mia famiglia a Mea Shearim e ci aveva mandato tra gli estranei di Geula – forse come esame, chi poteva dirlo? Fu più facile risolvere il mistero di ciò che si nascondeva dietro la porta sempre chiusa a chiave della camera dei miei genitori. La soluzione fu deposta ai miei piedi, nel senso letterale del termine, ossia nella forma di una delle due chiavi che i miei genitori di solito portavano sempre con sé. All’inizio non capii che chiave fosse quella che un giorno trovai a terra proprio davanti alla porta dei segreti. E invece l’avrei proprio voluto sapere, perché non potevo credere che

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mi fosse finita tra le mani, dopo così tanti anni, per distrazione dei miei genitori. Quando infine, dopo aver esitato appena un attimo, aprii la porta ed entrai nella camera proibita, potevo crederci ancora meno. Dopo pochi secondi, con occhiate furtive e senza aver cambiato nulla nella stanza, senza neppure aver toccato nulla, scoprii in che cosa consisteva il mistero. Era dicembre. Il cielo fluttuava, freddo e chiaro, sui portoni del quartiere e la luce del sole filtrava nella stanzetta attraverso le finestre che davano sulla strada. Illuminò il segreto, mi guidò direttamente lì. Sfiorò le pareti, l’armadio, il letto e diresse il mio sguardo a una stretta e alta libreria stipata di libri – libri goy, libri proibiti. Era una libreria da sogno, zeppa di un sapere che io avevo agognato, un sapere che faceva saltare il cosmo di strette strade e viuzze del nostro quartiere e che poteva tirarmi fuori dai severi confini in cui vivevo. Nelle file di libri davanti a me si trovavano libri di autori di cui mio padre mi aveva parlato solo pochi giorni prima, come spinto a mettermi sulle tracce, a spronarmi a svelare il segreto e ad aprire quei libri come una porta su una stanza fino a quel momento proibita e accuratamente chiusa a chiave, che per lungo tempo era stata riservata ad altri. I nomi – Freud, Jung, Poe e Wilde – erano stati menzionati durante una conversazione a proposito di un trattato del Talmud che stavo allora studiando alla yeshivà: Berakhot. L’avevo quasi finito e, dopo molte grandi pagine in folio piene di astute deduzioni legali, ero approdato a uno degli amati, perché più avvincenti, passaggi haggadici: niente leggi, niente calcoli – bensì storie, e per di più sui sogni, sulla loro interpretazio-

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