CIELO DI SABBIA, Sudabeh Mohafez

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Brossura | collana VIE | pp 112 Traduzione dal tedesco Anna Ruchat e le allieve della Fondazione Milano Lingue KELLER www.kellereditore.it | www.kellerlibri.it



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SUDABEH MOHAFEZ

CIELO DI SABBIA Traduzione di Anna Ruchat

Keller editore


Titolo originale: Wüstenhimmel Sternenland Traduzione dal tedesco: Anna Ruchat con le allieve della Fondazione Milano Lingue. Si ringraziano Chiara Marelli per Luoghi, Jennifer Perletti per La casa, Martina Gorni per L’unica prospettiva valida, Valentina Sironi per Cielo di sabbia, terra di stelle. Un grazie particolare a Alessandra Luise e Rosci Habib Minelli. © 2004 Arche Verlag AG, Zürich-Hamburg Citazione iniziale: Gaby Michel, Hamburg © 2012 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it redazione@kellereditore.it PRIMA EDIZIONE, GENNAIO DUEMILADODICI


Cielo di sabbia



“If one no longer has land but has the memory of land, then one can make up a map�. Anne Michaels, Fugitive Pieces



Davanti al trono di Allah

I

l buio è completo. Nâhid apre gli occhi, perché è quello che si fa quando ci si sveglia. Avrebbe anche potuto tenerli chiusi. Qui è buio anche di giorno. Di notte però non c’è altro luogo al mondo in cui gli occhi di un essere umano possano riuscire a vedere di meno. Nâhid tende l’orecchio per ascoltare il respiro di chi sta dormendo. Procede a tentoni con l’udito e sente che manca qualcuno. Tutte le sere, quando si sdraia per dormire, dice al proprio corpo quando si dovrà svegliare. Lo dice come se ci fosse qualcuno, dentro, che la può sentire, come se in lei ci fosse un’istanza presso la quale ordinare la sveglia. Lo sussurra tra sé, come se stesse parlando con qualcuno che sta lì accanto a lei. Ieri notte ha detto: «Alle tre». Un’ora prima del solito, forse di più. Aveva deciso per le tre perché prevedeva la rabbia. Niente di concreto, niente di fondato. Era solo una sensazione, una di quelle sensazioni che le capita di avere, un’intuizione vaga. Nâhid pren11


de sul serio queste cose, anche quando poi viene derisa. E agisce di conseguenza. Proprio come sa che le sue intuizioni sono importanti, sa anche che può fidarsi del suo corpo e nel momento in cui apre gli occhi, sa che sono le tre del mattino, magari due minuti prima o due minuti dopo. Sente accanto a sé il leggero russare di Mahamud, come se una brezza estiva s’impigliasse nei suoi baffi folti e brizzolati e tirasse i singoli peli giù, lungo i denti, quasi fossero fili di seta. Nâhid non può trattenere un sorriso. Fili di seta, brezza estiva. Ma i peli della sua barba sono ispidi come le setole di una scopa e ingialliti dal fumo, come peraltro anche i pochi denti rimasti, che hanno un odore sempre più fetido e gli fanno male ogni volta che mastica un granello di riso un po’ meno cotto degli altri. Già da tempo non si baciano più. Quando fanno l’amore è più per consolazione che per desiderio, ma è comunque una consolazione calda, affidabile, un atto di sostegno, di reciproco sostegno. E comunque tutto dipende dalle possibilità perché quando mai capita che siano soli? Proprio ai suoi piedi sente uno dei piccoli che si rigira con un sospiro e poi subito si rilassa ricadendo nel sonno. Sulla sinistra, a distanza di circa un metro, dovrebbero esserci Mariam e Schahrâm. Loro due non li sente più così bene, sono già troppo grandi. Strano come si attenua la vicinanza con il tempo, pensa senza per questo meravigliarsi. Lo accetta, come accet-

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ta quasi tutte le altre cose della vita quando sa che non le può cambiare. Manca qualcuno nella stanza e non è uno dei suoi figli più piccoli. Forse Schahrâm è partito per una delle sue scorribande notturne con gli amici. Si sottraggono ai controlli della polizia con abilità e si divertono a rischiare la vita come se non valesse nulla. Quegli sporchi bordelli semiclandestini che frequentano. Quelle due, tre ore per cui si sposano con una puttana affinché poi sia tutto in ordine. Non è questo, pensa Nâhid, che intendeva il profeta quando parlava di matrimonio a tempo determinato. Detesta le scorribande di Schahrâm, ma non può cambiare le cose. Non sta a questionare con lui. Non dice niente. Soltanto una volta lo ha preso da parte, in un angolo tranquillo, e gli ha detto che prima di rientrare da quei posti doveva passare dalla moschea e lavarsi. Lui era arrossito e per qualche istante lei non aveva capito se fosse arrabbiato o semplicemente imbarazzato. Poi s’era girato di colpo, si era precipitato fuori dalla caverna ed era sparito per tre giorni. Da allora rientra sempre pulito e lavato. Ma forse chi manca è Mariam. Scompare, a volte, per partecipare a degli incontri clandestini. Clandestino è una parola nuova nel vocabolario di Nâhid. Lei capisce perché le persone che frequenta Mariam s’incontrano in segreto. Stanno progettando cose pericolose, vogliono provocare una rivolta e generare un nuovo ordine che Nâhid non

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crede potrà essere migliore di quello presente. Mariam invece ne è più che convinta. Tiene lunghi discorsi sulla giustizia, sul diritto all’istruzione per tutti, sulle pari opportunità tra uomo e donna – qualunque cosa questo significhi – e legge libri. Libri in persiano, in arabo e a volte addirittura in inglese. Nâhid non sa leggere né in persiano né in un’altra lingua. Ma poco tempo prima ha chiesto a Mariam di insegnarle a scrivere i numeri – con grande sorpresa di quest’ultima, non voleva imparare solo le cifre arabe ma anche quelle latine. Si è esercitata con scrupolo e ora padroneggia senza errori tutti i numeri dall’uno al trentuno nelle due grafie. Le lettere invece non sono riuscite a entusiasmarla. Mariam le racconta sempre dei libri sui quali sta studiando, come li ha avuti e di cosa parlano. Nâhid non capisce cosa ci sia di tanto importante in quei libri. Sembrano libri tutti uguali uno all’altro. Sono libri pieni di rabbia. Pensieri sul denaro, sul petrolio e sulla storia dei popoli. Nâhid è orgogliosa del fatto che Mariam sappia non solo leggere ma anche parlare diverse lingue, è orgogliosa del fatto che sua figlia sia così intelligente e conosca tanta gente importante. Ma a volte preferirebbe comunque che si cercasse un lavoro retribuito e magari non solo in un futuro lontano e a parole. Avrebbe potuto lavorare dalla signora Marquardt, cui serviva urgentemente una donna delle pulizie affidabile. Durante le quattro chiacchiere delle signore all’ora del caffè una di loro per scherzo si era messa a parlare persia-

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no. Era un persiano stentato, gutturale, che Nâhid conosceva già dalle sue precedenti datrici di lavoro. La signora Engelhardt invece è un’eccezione. Parla con un accento duro, ma in modo scorrevole e quasi privo di errori. Nâhid apprezza il buon persiano della signora Engelhardt, facilita molte cose. «Khânom» le aveva detto più tardi, «Khânom, io la conoscerei una brava ragazza per la signora Marquardt, se cerca qualcuno per le pulizie». La signora Engelhardt non la stava a sentire. Era annoiata dal pomeriggio con le altre signore, appesantita dai troppi dolci e leggermente irritabile per via delle tre tazze di caffè che aveva bevuto. C’era un caldo insolito e l’aria condizionata era fuori uso. In giornate come queste non c’era niente da fare. La signora Engelhardt non si sarebbe nemmeno accorta di lei. Se Nâhid aveva un po’ di fortuna si sarebbe ricordata di metterle sul tavolo i trentadue tomân che le doveva per i cinque giorni di lavoro di quella settimana. Dunque non disse nient’altro e la sera partì verso sud con i soldi messi al sicuro in una bustina che teneva tra i seni. La settimana dopo chiese un’altra volta alla signora Engelhardt e la sera tornò a casa trionfante con la notizia che sua figlia, dalla settimana successiva, poteva andare in prova a pulire dalla signora Marquardt. Mariam l’aveva guardata con gli occhi sbarrati come i fari dei carri armati che da qualche tempo circolavano costantemente per le strade di quel quartiere povero. Aveva det-

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to un paio di cose screanzate che Nâhid non ricorda più e poi era sparita con due libri sottobraccio. Nâhid ha smesso da tempo di intromettersi nelle faccende dei suoi due figli più grandi. Hanno quindici e sedici anni, sono adulti. A volte si portano via del cibo, a volte un po’ di soldi. A volte stanno via per qualche giorno. Nâhid non ha la forza di preoccuparsi anche per loro. Quando il cibo c’è, ognuno ne riceve una parte. Quando non ce n’è ognuno riceve la sua parte di fame. È una cosa che vale per i grandi come per i piccoli, per le donne delle pulizie come per i rivoluzionari. Alla fine Nâhid scosta le tre coperte sottili e piene di buchi sotto le quali stanno lei e Mahamud. Si lascia rotolare da una parte, sulla terra fredda. fa aderire le due coperte al corpo di Mahamud e ne mette una, alla cieca, sopra i bambini. Con un solo gesto afferra il chador dal tappeto rattoppato dov’era finito, lo appallottola e se lo infila sotto l’ascella sinistra. Ha dormito con gli unici vestiti che possiede e senza toccare niente fa i quattro passi nel buio che la separano dal telone sottile. La stoffa è un riparo di emergenza dal vento di ottobre che in certi momenti mostra già i denti dell’inverno. Prima di sollevare il telo Nâhid si mette ancora una volta in ascolto, nel locale basso che le sta alle spalle, sente il fruscio di un piccolo roditore da qualche parte sulla sinistra e l’assenza di uno dei suoi figli più grandi. Nâhid scosta uno spiraglio e si spinge fuori tra la terra che sa di muffa e il telone, per

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ritrovarsi in una nebbia intrisa di urina, catrame, immondizia e pozzanghere putride e maleodoranti. Si tira su, tende l’orecchio alla leggera compressione delle singole ossa che le fa passare nella schiena una sensazione di rilassamento. Solleva il chador sulla testa, lo sistema più morbido intorno al corpo e lega le due estremità sul seno, per avere le mani libere, dopo di che si guarda intorno. Lassù in un cielo pulitissimo brillano le stelle. Brillano perché la luna è nuova e niente contrasta il loro fulgore. Nâhid fa scivolare il suo sguardo nelle profondità della notte, da sinistra verso destra, lungo lo stretto fossato sul fondo del quale si trova e che percorre tutto il confine meridionale della città. Ogni due metri le pareti del fossato, alte poco meno di due metri, si fanno più scure e si aprono in profondità ricoperte da teloni o da tavole di legno o semplicemente stanno lì come bocche spalancate, quando gli abitanti non hanno i mezzi per poter ostacolare l’accesso al freddo e all’umidità della notte. Qua e là c’è sempre una caverna distrutta, dove il soffitto è crollato perché un’auto s’è avvicinata troppo al fossato o perché gli abitanti non sono stati sufficientemente cauti e hanno voluto alzare troppo il soffitto del locale. Molti si abituano solo lentamente e male all’altezza di un metro e sessanta che possono offrire le caverne, nel migliore dei casi. Nâhid sospira, i suoi passi sono lenti, le ossa le fanno male per i reumatismi, gli occhi sembrano bacini conte-

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nenti spigolosi granelli di sabbia e quella maledetta gravidanza che rende fin d’ora il suo corpo più pesante di quanto lei non riesca a sopportare. Cerca a tentoni la busta con le ultime monete e guarda se per terra trova un bastone al quale potersi appoggiare. Taniche, cartone intriso di umidità, la gamba lacerata di una bambola. Qualunque cosa, ma di bastoni, niente. Quando Nâhid solleva lo sguardo, i suoi occhi cadono su di lei. Mariam sta su quei gradini sprofondati nella terra per via dei tanti piedi che li hanno calpestati, essendo quello l’unico accesso al fossato nell’arco di un chilometro. Nâhid riconosce da lontano il portamento combattivo che sua figlia, la maggiore, ha assunto ormai da tempo. Il chador stretto intorno al corpo sottile sembra quasi un’uniforme. Anche lei ha fatto passare le estremità dietro le spalle e poi le ha legate sul petto. Tiene i pugni sui fianchi e le gambe lievemente allargate. Se davanti a sé tenesse, di sbieco, un fucile, il quadro sarebbe completo. “Oh tesoro” pensa Nâhid, abbassa di nuovo la testa e procede, determinata ma nervosa e senza gioia finché non sta davanti alla sua bambina che deve poi guardare da sotto in su perché è più alta di lei di quasi dieci centimetri. «Ora voi tornate indietro» sibila Mariam rivolta a sua madre quando questa è abbastanza vicina da poterla sentire. «Tornate immediatamente indietro, ora!» Nâhid solleva la mano e accarezza la pelle di Mariam, morbida come la seta, quella pelle il cui profumo le ricor-

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da la terra ricca sotto il vecchio ulivo nel villaggio dove Nâhid è nata trentun anni prima, e che appartiene a un altro mondo. «Cosa ci fai qui, cara?» sussurra Nâhid «sono le tre e un quarto del mattino e tu dovresti dormire, amore mio». «Madre, ora voi tornerete a casa e io vi accompagnerò. Questa scemenza deve finire. Venite». Mariam afferra sua madre per il gomito. Nâhid sorride. «Mi fai male, cara, luce dei miei occhi, mia rosa. Stai facendo male a tua madre che ti ha messo al mondo, le blocchi la strada. Sii buona, non rendere la mia vita più difficile di quello che è, non turbare così il mio cuore e torna a dormire». «Questa volta no». Mariam è irremovibile e si piazza risoluta davanti alla scala. «Lei vi ha licenziato, quella cagna. Lei vi ha sbattuto fuori casa. Senza un motivo, senza il benché minimo motivo. Vi ha messo alla porta, quella puttana, e voi volete tornare da lei? Non vi pagherà per il lavoro fatto, ancora una volta vi umilierà. Magari non vi lascerà nemmeno entrare in casa. No, no e poi no! Questa notte voi rimanete qui, dovessi costringervi con la forza. Questi europei se ne devono andare dal paese! Noi patiamo la fame e loro vivono in sontuosi palazzi. Mentre noi sfreghiamo i loro pavimenti, loro bevono caffè freddo e soffrono di emicrania». Nâhid si perde sotto l’ombra della notte nel luccichio, nello sfavillio degli occhi di sua figlia. Per un attimo vede

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davanti a sé la bambina che era quando cominciava a gattonare, quando cominciava a parlare, quando perdeva i primi denti. Per un attimo vorrebbe poter riavvolgere il tempo per non dover avere a che fare con quella giovane donna furibonda e irragionevole che le si erge di fronte. «Bambina mia, lo sai, io non sono intelligente come te» dice a voce bassa «non ho letto un solo libro in vita mia, non capisco il mondo e non conosco nessuno di influente, e nemmeno il Corano, che Allah mi perdoni, lo conosco come dovrei. Sai anche che non vorrei mai dire nulla che ti desse dolore, perché tu sei il mio cuore e la mia rosa, bambina mia, che sei arrivata in questo mondo dal mio grembo. Ora però ti devo ricordare che mentre tu con i tuoi compari leggi i libri, io pulisco i pavimenti degli europei. Dunque ti prego di scostarti e di permettere alla tua vecchia mamma di fare quello che ha deciso di fare». Mariam ha un sussulto e tace. Nâhid approfitta della pausa e dice: «Proprio come tua madre ti permette di fare quello che hai deciso di fare tu». Carezza di nuovo la figlia sulla guancia con il dorso della mano, poi bruscamente la spinge di lato e avanza con il suo corpo stanco su per la cosiddetta scala. «Lo sapete voi perché gli Engelhardt vi hanno buttato fuori, madre?» Mariam non aspetta la risposta. Procede lenta, incitandola, su per i gradini, il busto piegato in avanti, la bocca che sfiora l’orecchio destro di Nâhid. «Perché tra loro, le donne tedesche, anche le francesi, cer-

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tamente le americane, circola una nuova moda. Ora preferiscono assumere i giovanotti dello Sri Lanka. Singalesi esili, alti, dalla pelle vellutata, che sicuramente non mettono le loro abili dita solo negli angoli polverosi dietro gli armadi». «Mariam» dice Nâhid, e l’irritazione dà alla sua voce un accento spigoloso «usa un altro linguaggio in presenza di tua madre. Vai e stai attenta ai piccoli. Nasstaran si sta ammalando. Vai alla fontana, se ti affretti forse ce la fai in venti minuti, prima che la coda sia troppo lunga, vai subito, dai, già che sei sveglia. Magari riesci anche a trovare da qualche parte un mezzo limone. Vai da Purân e vedi se ti danno della legna per il fuoco. Se te lo lascia fare, scalda una tazza di acqua e dalla a tua sorella con un po’ di limone. Sono preoccupata perché ha di nuovo la febbre. Occupati di lei, hai capito? E ora lasciami in pace, sperando di rivederci, Inshallah, questa sera». Nâhid arriva in cima alla salita, comincia a camminare sulla strada polverosa, piena di detriti e d’immondizia e sottovoce si lamenta, per lo sforzo. Tende l’orecchio ai passi di sua figlia, che prima sembrano essersi fermati e dopo ricominciano lenti per perdersi in profondità, e alla fine vede scivolare la sagoma di Mariam che si confonde con l’ombra del fossato, verso la caverna. Verso Nasstaran, che ha cinque anni e forse è già febbricitante. Nasstaran alla quale non ha toccato la fronte questa mattina, per paura di non farcela poi a lasciare la caverna.

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