Un favoloso bugiardo

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Brossura | collana VIE | pp 224 | euro 14 Traduzione dal tedesco Fabio Cremonesi KELLER www.kellereditore.it | www.kellerlibri.it


SUSANN PÁSZTOR Susann Pásztor è nata nel 1957. Conclusi gli studi artistici e pedagogici ha lavorato come illustratrice di libri per bambini. Dal 1991 lavora come giornalista freelance, autrice, scrittrice e traduttrice. Questo è il suo primo romanzo.


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SUSANN PÁSZTOR

UN FAVOLOSO BUGIARDO Traduzione di Fabio Cremonesi

Keller editore


Immagine di copertina A Woman with Headphones © Justin Ouellette | Corbis

Titolo originale: Ein fabelhafter Lügner Traduzione dal tedesco: Fabio Cremonesi © 2010, 2011 by Verlag Kiepenheuer & Witsch GmbH & Co. KG, Köln, Germany © 2012 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it redazione@kellereditore.it PRIMA EDIZIONE, OTTOBRE DUEMILADODICI


Un favoloso bugiardo



Prologo

E

ra un’assolata mattina d’autunno, nel settembre 1959, e József Molnár si accingeva a porre fine alla propria esistenza. Già la sera precedente, nella caffetteria della stazione, aveva cercato parole di congedo appropriate per le sue amanti e aveva imbucato le tre lettere. Aveva preso una stanza in un albergo a ore nel centro della città, che si trovava in una cantina un tempo adibita a rifugio antiaereo e che aveva già frequentato in precedenza. Dopo aver buttato giù parecchie pastiglie di sonnifero con un po’ d’acqua, si sdraiò su un copriletto che un tempo era stato rosa, si mise a osservare le macchie di umidità e l’intonaco scrostato sul soffitto, ad ascoltare il rubinetto che perdeva e il traffico che scorreva sopra di lui, e ad attendere la morte. Ma quello che secondo lui era il riposo eterno, in realtà non era che un altro inizio della fine, e al posto della morte comparve l’albergatore, dato che József aveva pagato solo per due ore, troppo poco per morire, e a seguirlo uno sgarbato medico di guardia. Così il giorno dopo c’erano tre persone radunate intorno a un altro letto – un letto d’ospedale con le lenzuola immacolate – che fissavano preoccupate il viso pallido e spossato di József. (Aveva tutte le ragioni per essere pallido e spossato. La lavanda

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gastrica non è una passeggiata, tanto meno lo è un tentato suicidio, specialmente se ciò che lo ha provocato è ancora in circolazione). A vegliare su di lui c’erano tre donne, che stavano ben attente a mantenere le distanze tra loro. Due di loro non si erano mai viste prima, né si sarebbero riviste in seguito. Entrambe aspettavano un bambino. Una delle due era ormai prossima al parto, mentre l’altra sapeva solo da qualche giorno di essere incinta, ed era incinta perché non c’era nulla al mondo che lei desiderasse più di quell’uomo stanco e gracile, il quale avrebbe preferito essere morto. La terza aveva già avuto un figlio da lui. Dodicenne e infelice. Piangevano tutte e tre, e ciascuna di loro aveva buoni motivi per farlo. Dopotutto la prima aveva rischiato di perdere il marito, la seconda colui che voleva sposare, la terza l’ex marito, da cui a suo tempo si era separata a malincuore, dato l’affetto profondissimo che nutriva per lui. Singhiozzavano per il dolore e il senso di impotenza, ma anche per l’imbarazzo, visto che al capezzale di un mancato suicida non ci si può accapigliare, e non va bene neppure fare scenate a un mancato suicida, per lo meno non subito. Lo sapeva anche József, e questo peraltro non migliorava la situazione. Dopo aver dato sfogo ai loro dispiaceri, nella stanza tornò la calma, perché nessuna sapeva bene cosa fare. In fin dei conti questo succedeva negli anni Cinquanta, e a

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quei tempi si rispettava ancora una sorta di gerarchia sociale: la moglie veniva prima dell’ex moglie che veniva prima dell’amante. E quindi dopo un po’ due delle donne si ritirarono discretamente, seppure a malincuore, una per sempre, l’altra per mezz’ora almeno, e József Molnár rimase solo con la moglie.

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N

ella mia famiglia capita spesso che ci si conosca molto tardi e in certi casi mai. È per questo che si riflette molto sugli altri componenti della famiglia, soprattutto se non se ne sa nulla, o non se ne vuole sapere nulla. Si raccontano delle storie e non si sa mai se siano vere oppure no, né chi le abbia inventate. Perché ciò che le altre famiglie chiamano albero genealogico, da noi è una specie di sudoku a cui si lavora da anni, in particolare rimuovendo, e il risultato è sempre diverso. Le diverse storie non collimano, tutto qui. Alcune si escludono a vicenda, altre fanno a gara quanto a dettagli coloriti, per le domande è comunque troppo tardi, perché non c’è più nessuno che abbia una risposta. In effetti l’unica cosa che quelle storie hanno in comune è che i rispettivi eroi sono tutti morti. Quel fine settimana mio nonno József, detto Joschi, avrebbe compiuto cento anni. Mio nonno lasciava in giro donne e figli come altre persone fanno con i calzini o le biro. Se non era il destino a sottrarglieli, ci pensava lui a perderli. Purtroppo non l’ho mai conosciuto. Quando morì, mia madre e Hannah avevano giusto qualche anno in più di quelli che ho io oggi. Ne ho sedici. Hannah e mia madre sono sorellastre. Si erano viste per la prima volta a quattordici anni, e da allora avevano continuato a vedersi

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spesso. Hannah ha cinque mesi meno di mia madre. Questo fatto ha sempre dato molto da pensare alla mia famiglia, ci sono moltissime storie al riguardo. L’idea di celebrare il centesimo compleanno di Joschi con una riunione familiare tutta speciale era venuta a Hannah, ma senza il mio appoggio sarebbe naufragata per l’ostilità di mia madre, poco ma sicuro. Il primo problema era Buchenwald. L’altro problema era Gabor. Quanto a Buchenwald, mia madre si era finalmente convinta che fosse arrivato il momento di andare a visitare il luogo in cui era stato rinchiuso suo padre. Con Gabor la faccenda era diversa. Anche Gabor è uno dei bambini di mio nonno, per quanto suoni strano chiamare bambino un sessantenne. Mia madre conosceva Gabor da sempre, ma anche in questo caso aveva scoperto solo a quattordici anni che era suo fratellastro. Non si sentivano più da una trentina d’anni. Sarebbe certo più eccitante se adesso dicessi di aver scovato Gabor in qualche angolo dell’Outback australiano o in una sperduta stazione meteorologica siberiana, ma in realtà lo trovai sull’agenda di mia madre. Viveva da più di tre decenni a circa quattrocento chilometri da noi, sempre nella stessa casa allo stesso indirizzo e con lo stesso numero di telefono, che di anno in anno mia madre aveva trascritto sulla rubrica senza mai sentire il desiderio di chiamarlo. Non avrebbero avuto niente da dirsi, era la sua giustificazione, già di per sé molto sospetta, visto che non c’era praticamente nulla al

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mondo su cui mia madre non avesse niente da dire. È vero che anche Hannah era dell’idea che fosse piuttosto rischioso invitare Gabor alla riunione di famiglia, ma insisteva comunque sul fatto che dovessimo esserci tutti, e dato che si dava per certo che i due figli maggiori di Joschi fossero morti ad Auschwitz e nessuno disponeva di altri nomi, indizi o informazioni concrete, la lista si concludeva con Gabor. Oltre che con me, naturalmente, l’unica nipote, almeno per quanto ne sapevamo noi. Mi ero offerta di chiamare Gabor, perché trovavo eccitante salutare uno zio sconosciuto dicendogli “Pronto, sono tua nipote”, ma Hannah pensava che toccasse a lei, ed effettivamente era riuscita a convincerlo a venire. In seguito aveva detto che era stata dura. Mia madre affermò che di certo lui aveva preteso dei soldi, ma io non credo, tanto più che non le avevo mai sentito dire una singola frase gentile che lo riguardasse. Quando chiesi a Hannah dei suoi rapporti con Gabor, mi raccontò che l’aveva incontrato per la prima volta qualche anno dopo la morte di Joschi e che semplicemente non avevano relazioni. Anche questo mi parve in qualche modo sospetto. Hannah è quella che si impegna di più nel nostro sudoku familiare e mi sembrava abbastanza poco professionale che proprio lei trascurasse per decenni una fonte di informazioni. Non era mica necessario che lo amasse. Quando glielo dissi, si mise a ridere e si dichiarò pronta a cambiare opinione dopo tutti quegli anni, a patto di avere un

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