INGRID THOBOIS, SERVE UNA CASA PER AMARE LA PIOGGIA

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INGRID THOBOIS

SERVE UNA CASA PER AMARE LA PIOGGIA Traduzione di Silvia Turato

Keller editore



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arco si lasciò cadere sulla sedia spostandola con uno stridore metallico. Il rumore fu amplificato dal rimbombo assurdo della sala destinata a contenere contemporaneamente quattordici conversazioni, ventotto voci, i colpi di tosse e i mormorii, le esclamazioni e le urla. I gemiti del legno, su cui ci si appoggiava forte per toccarsi, facevano pensare a una vecchia nave. I mobili sparivano sotto una marea di schiene, spalle, di mani che si richiudevano sulle nuche e passavano tra i capelli. Si parlava rasente i tavoli, le parole rotolavano da una bocca all’altra nel corridoio di braccia tese, intrecciate, i palmi incollati ai gomiti. Si sentivano anche dei pianti, a volte qualche risata, e un silenzio opaco quando la mezzora di parlatorio era trascorsa. La mano di Norma-Jean era rimasta sospesa nel gesto di porgere, il ventaglio di dita chiuso per metà nel prolungamento del palmo. Sulla piega del polso si offrivano le vene, una complessità verde-azzurro a fior di pelle. Aveva allungato a Marco una fotocopia del suo ultimo articolo. Lui aveva fatto scattare il braccio per strapparle il foglio. Lei era indietreggiata con un istintivo movimento di protezione, mentre Marco s’immobilizzava col foglio stropicciato tra le dita, soddisfatto e disgustato dalla paura che aveva appena

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provocato. Guardò la mano di Norma-Jean, il taglio preciso delle falangi, la fede d’oro bianco e le unghie curate: terminazioni neutre di una persona che mancava visibilmente di calcio. «Un giorno mi strapperai via anche la mano!» Sulle labbra un sorriso morto sul nascere, Norma-Jean aveva parlato in modo pacato, non proprio ignorando ma senza avere misura di quanto la sua calma saturasse l’ambiente. Marco le osservò il contorno del pugno, dell’avambraccio, della spalla, del collo. Risalì fino agli occhi. La fissò allora come se fosse stato possibile ripetere la scena, annullare la durezza del suo gesto e far rimangiare a Norma-Jean le ultime parole. La squadrò ancora qualche secondo poi fece schioccare la pagina nell’aria come si fa cioccare una vela: la corsa di una mano è inarrestabile. Ringhiò qualcosa di appena udibile a proposito della “vera rivista” e di “quella cazzo di fotocopia”, un rimprovero gratuito, senza più guardarla. «Ma Marco! Sai benissimo che in prigione non fanno entrare nessun libro, nessun periodico, nessuna rivista con la copertina rigida!» Per lui l’arrivo di Norma-Jean al parlatorio aveva la ricorrenza del sogno o dell’incubo. Quando terminava di leggere l’articolo che gli aveva portato, le rivolgeva parola procedendo per schizzi concentrici, ogni volta più vicini al suo viso. Poi si riprendeva senza riuscire a scusarsi, con una voce che la sconvolgeva: nasale, troppo acuta, quella di un adolescente prima della pubertà, una voce forzata che in ogni momen-

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to minacciava di andare in mille pezzi. Marco si comportava come un motore a due tempi: spontaneamente odioso, subito pentito. Avrebbe dato di tutto per essere capace di chiedere perdono, a condizione che quel perdono rendesse il mondo reversibile. L’esistenza allora sarebbe rimasta sospesa dando agli assassini il tempo di fare marcia indietro, ai morti di rialzarsi, aggiustare i vestiti, scacciare il sangue secco dal collo, richiudere i buchi sul petto e camminare a ritroso finché necessario, fino a ritrovare il punto d’avvio della vita. Ma quella parola, “perdono”, non avrebbe mai prodotto l’effetto sperato. Oltretutto Marco non sapeva più chi doveva perdonare cosa a chi, chi perdonare chi, ora che si trovava là, dissolto nel fuoricampo del mondo, a temperatura carceraria vicina allo zero assoluto, come nemico principale il tempo: sempre troppo breve altrove, sempre troppo breve prima. Avrebbero dovuto inventare un altro termine, un termine completamente nuovo, per domandare e allo stesso tempo accordare quella semplice cosa, un vocabolo destinato ad aprirsi un varco nel mondo. Perdono! Perdono! Nella sala gremita di un caffè parigino una voce di donna, un sorriso sotto un neo… ma Marco aveva dimenticato sia il titolo del film sia il nome dell’attrice. Era castana, l’aveva trovata molto bella. Era stato condannato all’ergastolo, con l’aggiunta del regime di sicurezza per ventidue anni. Si era dichiarato colpevole.

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«Un giorno mi strapperai via anche la mano!» «Tu però fai di tutto per mandarmi fuori dai gangheri, Norma-Jean!» «…» «E poi, continui!» «…» «Ma perché non ti arrabbi mai? Perché non sbatti i pugni sul tavolo? O almeno non alzi la voce? Neanche una smorfia che ti stropicci il viso!» «Sono fatta così». «Ma nessuno è fatto così! Non si può essere fatti così!» «Così come?» «Come te!» Norma-Jean si lasciò andare sorridendo sullo schienale della sedia. Riaggiustò il cappello nuovo: “di carta” diceva l’etichetta. Era contenta di aver comprato quel copricapo color kaki, informe, ma che, data la massa dei suoi capelli, una volta calzato le stava bene. Con un po’ di fortuna avrebbe potuto usarlo in bici, per andare da casa alla stazione di Empoli e tornare indietro, o per l’andata e il ritorno da Firenze. La tesa era abbastanza larga da proteggerla dal sole. I dermatologi sono asfissianti. Il pallore è salute! Soprattutto con una pelle come la sua! Restava solo quella gentaglia a ricordarsi che Norma-Jean un giorno era stata bionda. Da bambina i capelli le viravano al bianco nel sole che l’asciugava in qualche secondo, colando una lingua di sale sull’epidermide. La sua figura, tutta gambe e braccia, si stagliava cremisi contro il mare scintillante. Norma-Jean si teneva

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ben dritta, sottile come un insetto, gli occhi chiari piantati su tutto e tutti, abitando risoluta quel piccolo corpo, tirando su di continuo la bretella sinistra del costume – un due pezzi che credeva bastasse per essere ammessa nel mondo degli altri. A meno che non fosse la bretella destra? NormaJean si confondeva sempre. Con gli anni i capelli e gli occhi si erano scuriti, e adesso era il mondo dei bambini che sembrava indietreggiare quanto più lei allungava la mano. La sua pelle non si arrossava più al sole, ma lo assorbiva subito, scurendosi come la terra abbeverata. Qualche minuto d’esposizione bastava a dorarle le spalle, la gola, la schiena. Il suo capitale di sole è andato! Anche le gambe si abbronzavano, ma meno bene e meno velocemente. Si trattava comunque della parte del suo corpo che odiava di più: un prolungamento di sé a cui bisognava adattarsi, utile per muoversi ma privo di grazia. Troppo corte. Deformi sulle ginocchia. Troppe vene là dentro. Peggio di un circuito elettrico, un reticolo di complicazioni. Sua madre ne aveva molto sofferto. I geni non la risparmiavano. Norma-Jean aveva una spalla un po’ più bassa dell’altra. Ormai portava dei costumi interi. Fece roteare il cappello sulla punta del dito. Da quanti anni non andava in bici? Da quanti anni non si era più messa in costume? «Marco, Livio adora la tua rubrica! Vorrebbe che continuassi. Bisogna che tu gli spedisca due pezzi al mese, una critica, un ritratto… Adora il tuo stile, le tue analisi, ti dà fiducia, ti lascia del tutto liber…» 17


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