Come se mangiassi pietre

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Brossura | collana PASSI | pp 144 Traduzione dal polacco Marzena Borejczuk KELLER www.kellereditore.it | www.kellerlibri.it



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coME SE MAngIASSI PIETRE Traduzione di Marzena Borejczuk

Keller editore



Di fronte a tali e tante sventure si avverte un prepotente senso di appartenere, innanzitutto, al genere umano. E solo in secondo luogo a una determinata nazione. La condizione di essere uomini ci accomuna nella sventura, rendendoci partecipi del dolore altrui. Si vorrebbe che tutti gli esseri umani la intendessero a questo modo. Tadeusz Mazowiecki, Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo nell’ex Jugoslavia, negli anni 1992-1995



il gelo Era l’ultimo giorno dell’anno in cui iniziò la guerra (1992). Portavamo aiuti alla città assediata. Eravamo entrati in Bosnia dal sud. Prima che calasse il crepuscolo riuscimmo a scorgere villaggi disabitati. case e templi rasi al suolo. ci chiedevamo che fine avessero fatto gli abitanti. Passavamo attraverso Mostar senza vederla. La città scorreva invisibile fuori dai finestrini, come una foresta. Qualcosa sembrava baluginare nei rettangoli scuri delle finestre, ma non si capiva cosa. Il pensiero di fermarsi, di addentrarsi in quella foresta, ci faceva accapponare la pelle. Poco prima di raggiungere Sarajevo fummo fermati dai soldati serbi. Erano ubriachi. Un momento sorridevano, e il momento dopo esplodevano in grida di rabbia. così per tutta la notte, fino all’alba. Al mattino ci confiscarono una parte del carico e ci autorizzarono a entrare in città. Si gelava. Tra i palazzi e i caseggiati crivellati intravedemmo degli abitanti, affamati e spauriti. Anche noi avevamo il cuore in gola perché gli spari risuonavano in continuazione. Dragan L., figlio di una croata e di un serbo bosniaco, determinati entrambi a non abbandonare la città assediata, ci faceva da guida. Era un accompagnatore eccezionale. continuava a dire che una volta finita tutta quella sarabanda, sempre che ne fosse uscito vivo, avrebbe tagliato la corda, perché vivere lì non sarebbe più stato possibile. chissà che ne è stato di lui. In un ospedale avevamo parlato con persone senza braccia, senza gambe, senza occhi. Silvia, che faceva l’anestesista, ci disse:

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ÂŤAbbiamo bisogno di antibiotici, bende, letti, stampelle, protesi, carrozzelle e bareÂť. non ci siamo annotati il suo cognome. Per le strade incontravamo dei giornalisti: inviati, corrispondenti, cameraman. Incrociavamo scrittori e cineasti. Andavano in giro a piccoli gruppi, o anche da soli. Parlavano diverse lingue. Si moltiplicarono rapidamente un anno dopo (nel febbraio 1994). Erano accorsi da ogni parte del mondo per vedere coi propri occhi il mercato di Markale colpito da una granata che in un istante aveva massacrato decine di persone. Al conflitto in Bosnia furono dedicati migliaia di servizi speciali, mostre, libri, album, film e documentari. E quando finĂŹ (anche se alcuni credono che la guerra sia sempre lĂŹ che cova sotto la cenere), i giornalisti misero le telecamere in valigia e partirono in gran fretta per altre guerre.

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i vestiti La sala teatrale della casa della cultura del paese viene aperta una volta alla settimana, il giovedì. chiunque vi può entrare a dare un’occhiata. ci vengono gli abitanti dei dintorni, ma anche visitatori da lontano. Arrivano credendo che sia il posto giusto per chiarire i loro problemi. nella sala c’è un palcoscenico, ma non c’è platea. Sulle mattonelle di terracotta si vedono dei vestiti distesi in ordine. Prima sono stati suddivisi e raggruppati: questo è stato trovato sulla prima persona, quest’altro sulla settantesima. Poi lavati, per ridare vita ai colori, e stesi su una corda ad asciugare. Adesso sono disposti in stretta vicinanza, ma comunque ben distinguibili l’uno dall’altro. Raramente si tratta di un abbigliamento completo. Di fianco alla porta d’ingresso, tanto per dire, c’è soltanto una camicia a maglia a righe trasversali bianche e blu. Veniva senz’altro indossata da un uomo ben piazzato. In compenso quell’altra, con la scritta MonTAnA, apparteneva sicuramente a un tipo mingherlino. Un po’ più in là: un paio di pantaloni di velluto a coste, un tempo bianchi, ora ingialliti. chi li aveva portati? Accanto alla finestra, una sola gamba dei jeans. Di chi? Poco oltre: una cintura di cuoio, uno slip, una scarpa da tennis, un calzino nero spaiato. A fianco di ciascun vestito (sarebbe meglio dire: di ciascun completo di stracci) giace una borsa di carta in cui vengono normalmente custoditi gli indumenti ritrovati sui corpi. E un foglio, con sopra un grosso numero stampato al computer. A parte il numero, sul foglio si vedono anche delle lettere. La B significa che al vestito è stata associata l’ossatura completa, il cranio, i denti. corpo intero (body).

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BP: ossatura incompleta, vale a dire che sono presenti soltanto alcune ossa. Parti del corpo (body parts). A: solo vestito, e a volte qualche effetto personale (artifacts). niente ossa. Tutto questo è stato rinvenuto nell’autunno 1999, a Kevljani (da qui la sigla KV che precede il numero). La fossa comune di Kevljani era lunga e correva per centinaia di metri accanto all’asfalto (un fossato preesistente era stato opportunamente ingrandito e, alla fine, ricoperto di terra). Il paese di Kevljani si trova a pochi chilometri da omarska. nel 1992 la miniera di ferro di omarska era stata trasformata in campo di concentramento per musulmani, smantellato nel corso dello stesso anno. I detenuti erano per lo più uomini, sebbene ci fossero anche delle donne. Quasi tutte sono sopravvissute. nella sala teatrale arrivano coloro che hanno buone ragioni di credere che otto anni prima un loro parente, che risulta scomparso, sia finito a omarska. Entrano, si tappano il naso. non possono più tirarsi indietro, devono andare fino in fondo. Sono arrivati sin qui per vedere, riconoscere e seppellire. hanno l’aria di pensare che sia il solo modo per trovare sollievo, e pace. I visitatori sono intenti a osservare. Tra i vestiti corre uno stretto passaggio. nel timore di sfiorare qualcosa con la scarpa, si muovono come se camminassero su una corda tesa nel vuoto. ogni poco si soffermano. Scuotono il capo esitando, quindi avanzano ancora di qualche passo, si bloccano, ripartono di nuovo. Passa mezz’ora, passa un’ora, tre ore. ognuno si prende il tempo che vuole. Per la sala scorrazzano i ratti. Una giovane coppia, con una bambina di sette anni in braccio, è in cerca del nonno della ragazzina. Da un lungo istante indugiano sopra il vestito KV 22 B. Più in là una signora canuta, in un completo blu scuro, si chi-

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na su un altro gruppo di indumenti sbrindellati. è dalla mattina che resta ferma sullo stesso vestito. Lo dispone con cura, tanto da sembrare preoccupata di fargli fare una bella figura. Aggiusta il pantalone scuro, la camicia chiara, e quello che una volta era un maglione bordeaux. Sfiora tutto dolcemente con una mano, proprio come carezzerebbe una persona in carne e ossa. La chiamano Madre Mejra.

body bag I due giovani con la bambina di sette anni che si sono trattenuti per tutto quel tempo in prossimità del palcoscenico a fissare il vestito KV 22 B, si voltano a cercare qualcuno che si occupa dell’identificazione. Si fa subito avanti una donna in jeans, dai capelli bianchi e dal piglio energico. Si chiama Eva Elvira Klonowski. La dottoressa Eva Klonowski, classe 1946, antropologa di formazione, membro dell’Accademia Americana di Scienze Forensi, sposata, madre di famiglia, esule politica fin dal periodo dell’introduzione dello stato di guerra in Polonia, un tempo abitante di Breslavia, attualmente vive in pianta stabile a Reykjavík. In Islanda si è specializzata nella ricerca della paternità biologica dal momento che non ha potuto dedicarsi al campo che l’appassiona maggiormente, vale a dire le ossa. «Amo le ossa. Le ossa mi parlano. guardo l’ossatura di un uomo e capisco di quali malattie soffriva, come camminava, in che modo era solito sedersi. nelle ossa leggo l’appartenenza etnica. Il femore di un musulmano è leggermente arcuato, perché i musulmani usano stare accosciati sui calcagni. Lo stesso vale per i giapponesi, che stanno spesso in ginocchio, seduti sui talloni». La storia ha offerto alla dottoressa Eva l’occasione di dedicarsi, in Bosnia ed Erzegovina, al lavoro che l’appassiona. La guerra e il

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dopoguerra: campi di concentramento, esecuzioni di massa, fosse comuni, riesumazioni. Identificazione. Senza pensarci due volte la dottoressa Eva si era fatta vaccinare contro il tetano e contro l’epatite, e aveva preparato le valige. Il marito e le due figlie adolescenti l’avevano accompagnata all’aeroporto. è impegnata in Bosnia dal 1996. In un primo momento per conto del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja (i giudici vogliono sapere: chi ha ucciso, in che modo e quante persone; i nomi delle vittime a loro non interessano). Attualmente, con il denaro elargito dal governo americano e da quello islandese, lavora per la commissione bosniaca per la ricerca delle persone scomparse (in questo caso l’identificazione delle vittime rappresenta la priorità maggiore). La dottoressa Eva ha già recuperato i resti di duemila persone. Li ha ripescati dai pozzi, tirati fuori dalle grotte, estratti da una discarica o da un’accozzaglia di ossa suine. In questo momento dà una rapida sbirciata tra le carte, infila i guanti di lattice e sale sul palco. La giovane donna e suo marito (sempre con la figlia in braccio) s’accostano. La dottoressa Eva si muove (con molta cautela, per non pestare niente) tra alcuni sacchetti di plastica chiusi ermeticamente. cerca quello contrassegnato con il numero KV 22 B. Trova il sacchetto giusto, lo apre. Sfila da dentro una mascella, una mandibola con qualche dente ancora attaccato e qualcun altro sparso. Incastra quest’ultimi nei corrispondenti alveoli, ricompone agilmente l’intera mascella. Muove qualche passo verso il bordo del palco e la mostra alla famiglia. «Potrebbe essere stata di suo padre?» La giovane donna contempla con attenzione, sposta lo sguardo sul viso del marito, come in cerca di un consiglio. La bambina continua a tapparsi il naso.

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«Sì, potrebbe essere stata di mio padre» risponde la donna, inaspettatamente calma. «Bene» la dottoressa Eva rimette la mascella nel sacchetto e la ripone al posto di prima. «Andiamo avanti». Andare avanti significa recarsi all’altro capo del paese (che si chiama Lušci Palanka). Laggiù si trova un capannone in calcestruzzo, un tempo mensa operaia. Alcuni mesi prima davanti al capannone erano stati sistemati dei grossi tavoli; dalla cascina più vicina era stato portato un tubo per l’acqua. Intorno ai tavoli si radunavano gli abitanti del posto: uomini, donne, bambini. Sotto i loro occhi la dottoressa Eva selezionava le ossa, ne determinava il sesso e l’età, e infilava il tutto dentro i body bag. Adesso i body bag sono impilati per terra, nel capannone buio. Semplici sacchi di plastica bianca con chiusura lampo, una sorta di custodie porta-abito se non fossero lunghi ben due metri. Se ne stanno lì buoni, in attesa che arrivi qualcuno disposto a riconoscerli. ci accingiamo a cercare il body bag KV 22 B. Eccolo: proprio nell’angolo, addossato alla parete. Schiacciato sotto altri sacchi. La dottoressa Eva comincia a rimuovere i sacchi sovrastanti, li appoggia di lato e finalmente raggiunge quello che cerca. Apre la chiusura lampo. La bambina osserva tutto con sguardo fisso, nessuno fa una piega. La dottoressa Eva non è sorpresa. All’inizio, appena arrivata in Bosnia, si sorprendeva, ora non più. «Perché vi portate dietro i bambini?» chiedeva le prime volte. «Perché non dimentichino» si sentiva invariabilmente rispondere. «Ricorda se suo padre soffrisse di problemi all’anca?» la dottoressa Eva regge nella mano destra una parte dell’osso del bacino, e nella mano sinistra l’altra parte.

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«Beh, qualche disturbo ce l’aveva» risponde la giovane. «è stato operato». «D’accordo, ma vorrei sapere se camminava così» la dottoressa Eva si mette a mimare l’andatura da papero. «no, non mi sembra». «Invece questo si muoveva proprio così. Dovrebbe trovare l’ospedale dove l’hanno operato. Forse avranno ancora la cartella». «Va bene. Tornerò giovedì prossimo». «Quando torna le faremo un prelievo di sangue. E confronteremo il suo DnA con quello delle ossa. A quel punto avremo la certezza assoluta». Finalmente la dottoressa Eva si concede un momento di pausa. Torniamo alla casa della cultura. La signora canuta in completo blu scuro, che avevamo già visto prima, distoglie per qualche istante la sua attenzione dal vestito che da questa mattina tiene d’occhio con tanta premura e ci prepara un caffè nella stanza accanto. «Sono Madre Mejra» si presenta. «Vengo in questo posto tutti i giovedì. Do una mano alla dottoressa Eva, cerco di confortare le famiglie».

il bagno Mejra Dautović (cinquantotto anni) abitava a Prijedor. Quella primavera (1992) i serbi avevano condotto per le vie della città dei giovani musulmani, usandoli come scudi umani contro gli attacchi della Difesa territoriale bosniaca. All’esterno degli edifici pubblici e delle stazioni vennero esposte le bandiere serbe. Ai musulmani fu ingiunto di appendere lenzuola bianche ai davanzali delle loro finestre e di indossare un bracciale bianco. All’interno dei caseggiati popolari si erano appostati i cecchini. oggi Prijedor fa parte della Repubblica serba di Bosnia. non vi è più posto per Madre Mejra. Tant’è vero che lei e suo marito

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si sono trovati a vivere a Bosanski Petrovac, in una casa serba che non è loro. Seguiamo Madre Mejra attraverso gli stretti passaggi lasciati tra i completi di indumenti sbrindellati. ci fermiamo sopra il suo: pantalone scuro, camicia chiara, e qualcosa che una volta era un maglione color bordeaux. Mejra si china, sistema una gamba del pantalone. Poi si rialza e cerca di capire se tutto è veramente a posto. «Questo è Edvin» dice, come se ci presentasse qualcuno. «Mio figlio. corrisponde tutto, il sesso, l’età, l’altezza, i denti. Ma la dottoressa Eva non è del tutto sicura. non hanno ancora analizzato il DnA o quel che è. Avevo Edvin» Mejra si china di nuovo, sfiora le gambe del pantalone «e avevo Edna. So tutto, di com’è andata con la mia Edna. So chi la picchiava, chi la violentava. Quel che non so è: verso dove si è diretto quel pullman? Dove l’hanno portata dopo omarska? non è stato trovato nessun suo vestito, non una scarpa, niente di niente». Da un po’ di anni a questa parte Madre Mejra gira per i paesi circostanti e incolla le foto dei suoi figli sui muri. ha scritto persino un libro sulla loro storia. cerca un indizio, uno qualunque, che le permetta di rintracciare la verità. Vorrebbe sapere tre cose: come sono morti i suoi figli? chi li ha uccisi? Dove si trovano le loro ossa? Quando Madre Mejra piange (e piange tutti i giorni), lo fa di nascosto dal marito, per non gravarlo di nuove sofferenze. Uzeir è già malato, in seguito a tutto ciò ha avuto ben due emorragie cerebrali, non apre bocca per giorni interi. Di quando in quando scatta in piedi e si prende a pugni sulla testa. Poi s’accascia per terra, resta disteso sul dorso, si copre con le mani il viso contratto. Si contorce tutto, quasi a volersi riparare dall’ennesimo calcio sferrato da un aguzzino invisibile. Viene colpito al ventre. con forza. Poi sul torace, sulla testa, torna a coprirsi il viso. Si direb-

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be che ci sia anche un altro carnefice invisibile. Quello è solito prendere Uzeir a pedate sulla schiena e sul sedere. Uzeir sobbalza, ricade, si dimena, si torce fino a diventare una S immensa. geme. Di colpo si calma. Si alza di scatto. Fissa con disprezzo qualcosa che giace ai suoi piedi. non è più un padre in preda allo spavento, venuto al commissariato della milizia serba per informarsi su che ne sarà di sua figlia. Adesso Uzeir si erge, con aria trionfante, su una vittima invisibile. Emette grida incomprensibili. A sua volta prende qualcuno a pedate, con evidente soddisfazione. In un accesso di violenza continua a sferrare calci con sempre più forza, non molla. «calmati» dice Mejra al marito. nel 1992, all’inizio della guerra, il loro figlio Edvin aveva ventisette anni. Si era diplomato come perito elettronico. conosceva l’inglese e il tedesco. Era cintura nera di karate. Quella primavera aveva deciso di arruolarsi nelle forze della Difesa territoriale musulmana e verso la fine di maggio aveva tentato, con un centinaio di commilitoni, di liberare Prijedor. Ferito nel corso di un’incursione, morì il giorno dopo. Questo è quanto riferiscono i testimoni. Tuttavia esiste anche una seconda versione della morte di Edvin. Altri testimoni lo ricordano a omarska. Torturato sotto gli occhi di sua sorella. Poi, il 16 giugno, videro gettare il suo cadavere su un camion giallo che si allontanò in direzione ignota. Madre Mejra si è convinta che il camion si sia avviato alla volta di Kevljani, verso il fossato che correva accanto all’asfalto e che per l’occasione era stato opportunamente ingrandito. Dopotutto è stato trovato il vestito di Edvin, l’altezza coincide, e pure il sesso, l’età, i denti. Edna, la sorella di Edvin, all’epoca aveva ventitré anni. Era una ragazza allegra, vivace, spontanea. Lavorava al negozietto di casalinghi che suo padre aveva sistemato per lei al pianterreno della

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loro casa. nel contempo seguiva corsi a distanza all’Università di Tuzla, voleva laurearsi in pedagogia. Sognava anche di diventare una modella. “Aveva la figura di una Barbie” scrisse Madre Mejra nel suo libro. con i soldi che avrebbe guadagnato, aveva già in mente di comprarsi un cavallo e una casa in una radura in montagna. Le piaceva camminare sui monti. Faceva judo e karate, era una buona tiratrice. E così, quando scoppiò la guerra, senza pensarci due volte decise di seguire l’esempio di suo fratello. Verso la fine di maggio Edna prese parte all’operazione di liberazione di Prijedor. Trasportava munizioni, medicinali e medicazioni. Riuscì a trarre in salvo alcuni feriti trascinandoli via dalle zone di rischio. Finiti i combattimenti, tornò dai genitori. In preda a un terrore incontrollabile, si rinchiuse con loro in un ripostiglio fuori casa, dove rimasero a vivere per alcuni giorni. «Mi aveva chiesto di scaldarle dell’acqua per il bagno. Siccome nelle case dei musulmani era stata tagliata la corrente, mi apprestai ad accendere il fuoco nella stufa. nella sua infinita bontà Allah ha voluto che quell’ultima volta fossi io a lavare la mia bambina». Arrivarono due miliziani per prelevare Edna. Sul punto di uscire la ragazza fece per prendere un maglione, ma le dissero che non ne avrebbe avuto bisogno. Uzeir si precipitò immediatamente al commissariato per informarsi su cosa ne sarebbe stato della figlia. Per tutta risposta fu pestato e preso a calci. Sentì dire che Edna si trovava sulla strada per omarska. Madre Mejra prese il telefono e chiamò nebojša B. Lo conosceva bene. nebojša, ex fidanzato di Edna, era un funzionario investigativo a omarska. Quando gli dissero chi lo cercava, si fece negare. Stando a quanto riferiscono le donne che si sono salvate, il più delle volte fu nebojša B. a interrogare Edna.

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