L'ULTIMO AMORE DI BABA DUNJA, Alina Bronsky

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L’ULTIMO AMORE DI BABA DUNJA Traduzione di Scilla Forti

Keller editore



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onstantin, il gallo di Marja, mi sveglia di nuovo durante la notte. Per Marja è una specie di surrogato. È stata lei ad allevarlo, coccolarlo e viziarlo fin da quando era un pulcino; ora è cresciuto e non serve a un bel niente. Si aggira impettito e dispotico per il cortile di lei e mi guarda di sbieco. Il suo orologio biologico è completamente sballato, è così da sempre, ma non credo che abbia a che fare con le radiazioni. Non possono certo essere ritenute responsabili di ogni forma di demenza che compare sulla terra. Sollevo la coperta e appoggio i piedi sul pavimento. Sulle assi c’è uno scendiletto che ho fatto io stessa, intrecciando vecchi lenzuoli ridotti in strisce. D’inverno ho molto tempo, perché non devo occuparmi dell’orto. D’inverno esco di rado, giusto per procurarmi l’acqua o la legna o per spalare la neve dalla porta di casa. Ora però è estate e io sono in ballo già di prima mattina per tirare il collo al gallo di Marja. Ogni mattina resto stupita quando mi guardo i piedi, che stanno lì, grossi e nodosi, nei loro sandali da trekking tedeschi. Sono sandali robusti. Sopravvivono a tutto, di sicuro anche a me entro un paio d’anni.

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I miei piedi non sono sempre stati così grossi. Un tempo erano graziosi e affusolati, ricoperti di fango secco, scalzi e meravigliosi. Jegor adorava i miei piedi. Mi aveva vietato di andare in giro a piedi nudi, perché gli uomini si infervoravano anche soltanto scorgendone le dita. Adesso, quando passa a trovarmi, gli mostro le protuberanze nei sandali da trekking e gli dico: Hai visto che fine ha fatto tutto quello splendore? Lui ride e dice che in fondo sono ancora carini. Da quando è morto è gentilissimo, bugiardo che non è altro. Mi servono un paio di minuti per riattivare la circolazione. Resto ferma in piedi e mi aggrappo forte all’estremità del letto. La mia mente è un po’ offuscata. Konstantin, il gallo di Marja, gracchia come se lo stessero strozzando. Forse qualcuno mi ha preceduto. Tiro su dalla sedia l’accappatoio. Un tempo era colorato, fiori rossi su sfondo nero. Ora i fiori non si vedono più. Ma è pulito, questo è l’importante. Irina mi ha promesso di mandarmene uno nuovo. Me lo infilo e annodo la cintura. Scuoto il piumone, lo adagio sul letto e lo appiattisco con la mano, sopra ci metto il copriletto ricamato. Quindi vado verso la porta. I primi passi dopo il risveglio sono sempre lenti. Il cielo azzurro sovrasta il paese come un lenzuolo sbiadito. Si vede un pezzo di sole. Non riesco a capacitarmi del fatto che per tutti splenda sempre lo stesso sole: per la Regina d’Inghilterra, per il presidente nero d’America,

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per Irina in Germania, per Konstantin, il gallo di Marja. E anche per me, Baba Dunja, una donna che fino a trent’anni fa steccava ossa rotte e si faceva carico dei neonati altrui e che oggi decide di diventare un’assassina. Konstantin è un essere stupido, il suo baccano non serve a niente. E poi è da parecchio che non mangio brodo di pollo. Il gallo è appollaiato sulla staccionata e mi guarda di sbieco. Con la coda dell’occhio vedo Jegor, appoggiato al tronco del mio melo. La sua bocca è sicuramente contratta in una smorfia beffarda. La staccionata sbilenca traballa nel vento. Lo stupido volatile si tiene in equilibrio, come un funambolo ubriaco. «Vieni qua, tesoro» gli dico. «Vieni qua, ci penso io a farti stare zitto». Io tendo la mano. Lui sbatte le ali e starnazza. Il suo bargiglio, più grigio che rosa, trema nervosamente. Cerco di ricordarmi quanti anni ha. “Marja non mi perdonerà mai” penso. La mia mano tesa resta sospesa a mezz’aria. E a quel punto, prima ancora che lo sfiori, il gallo precipita ai miei piedi.

Marja ha detto che le si spezzerebbe il cuore. Perciò devo farlo io. È seduta nel mio cortile e si soffia il naso in un fazzoletto a quadretti. Si è allontanata per non essere costretta a

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guardarmi mentre strappo via le penne screziate di bianco per poi buttarle in un sacchetto di plastica. Le piume si librano in aria. «Lui mi amava» dice lei. «Mi guardava sempre con quello sguardo quando arrivavo in cortile». Il sacchetto è mezzo pieno. Konstantin, ormai nudo al limite della decenza, è steso nel mio grembo. Ha un occhio semiaperto, rivolto verso il cielo. «Guarda» dice lei. «Sembra che voglia ancora ascoltarci». «Di certo non c’è niente che non ti abbia già sentito dire». È la verità. Marja parlava sempre con lui. Questo mi fa temere che d’ora in poi avrò molta meno pace. A parte me, tutti hanno bisogno di qualcuno con cui parlare, soprattutto Marja. E tra gli abitanti della zona io sono quella più vicina a lei, i nostri terreni sono separati soltanto dalla staccionata. Che forse un tempo era una vera e propria staccionata. Ma adesso non è altro che un’idea di staccionata. «Insomma, raccontami com’è andata esattamente». La voce di Marja sembra quella di una vedova. «Te l’ho già detto un migliaio di volte. Sono uscita perché il gallo strillava e all’improvviso è piombato giù dalla staccionata. Proprio ai miei piedi». «Forse qualcuno gliel’ha mandata». Faccio un cenno col capo. Marja crede a queste cose. Le lacrime le scorrono sul viso, per poi scomparire tra le rughe profonde. E pensare che è più giovane di me

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di almeno dieci anni. Non è molto istruita, è una mungitrice, una donna semplice. Qui non ha neanche una mucca, ma se non altro ha una capra, che vive a casa sua e guarda la televisione insieme a lei, sempre che ci sia qualcosa da vedere. Così ha la compagnia di una creatura che respira. Solo che la capra non può rispondere. Perciò rispondo io. «Chi mai dovrebbe augurare qualcosa di male al tuo stupido volatile». «Shh. Non si parla così dei morti. E in ogni caso la gente è cattiva». «La gente è pigra» dico io. «Vuoi cucinarlo tu?» Fa segno di no. «Bene. Allora ci penso io». Lei annuisce e lancia un’occhiata furtiva al sacchetto con le penne. «Veramente volevo seppellirlo». «Avresti dovuto dirlo prima. Adesso saresti costretta a rimettergli le penne, altrimenti i suoi simili in paradiso gli riderebbero dietro». Marja ci riflette. «Ma sì, che diamine. Cucinalo tu e dammi metà del brodo». Lo sapevo che sarebbe finita così. Ci capita raramente di mangiare carne e Marja è una persona ingorda. Io annuisco e abbasso la palpebra raggrinzita del gallo sul suo occhio vitreo.

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Questa storia del paradiso era tanto per dire. Io non ci credo. O meglio, credo all’esistenza di un paradiso sopra le nostre teste, ma so per certo che i nostri morti non sono lì. Neanche da bambina credevo che ci si potesse raggomitolare nelle nuvole come si fa con un piumone. Credevo invece che le nuvole si potessero mangiare, come lo zucchero filato. I nostri morti sono tra noi, spesso non sanno nemmeno di essere morti, né che i loro corpi decomposti stanno sottoterra. Černovo non è grande, ma abbiamo il nostro cimitero, perché quelli di Malyši non vogliono più le nostre salme. Attualmente l’amministrazione comunale sta discutendo sull’eventuale prescrizione di una bara di piombo per seppellire la gente di Černovo a Malyši, dal momento che le sostanze contaminate continuano a emettere radiazioni anche quando cessano di vivere. Intanto abbiamo un cimitero provvisorio, là dove centocinquant’anni fa sorgeva una chiesa e fino a trent’anni fa una scuola di paese. È un luogo modesto, con croci di legno, e le poche tombe non sono nemmeno recintate. Se fosse per me, non vorrei affatto essere seppellita a Malyši. Dopo l’incidente nucleare me ne sono andata, come quasi tutti. Era il 1986 e all’inizio non sapevamo cosa fosse successo. Poi a Černovo sono arrivati i liqui-

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datori, armati di tute protettive e di dispositivi sibilanti con cui facevano avanti e indietro sulla via principale. Scoppiò il panico, le famiglie con bambini piccoli impacchettarono le loro cose più in fretta che poterono, arrotolarono i materassi, stiparono gioielli e calzini nei bollitori, legarono i mobili sui portapacchi e se ne andarono strepitando. Bisognava sbrigarsi, perché l’incidente si era verificato almeno due giorni prima, ma nessuno ci aveva dato informazioni tempestive. All’epoca ero ancora giovanissima, cinquant’anni o giù di lì, ma non avevo più nessun figlio a casa. Perciò non ero molto preoccupata. Irina studiava a Mosca e Alexej stava facendo un giro sui monti Altaj. Sono stata una delle ultime a lasciare Černovo. Avevo aiutato gli altri a stipare i vestiti nei sacchi e a staccare le assi del pavimento sotto le quali avevano nascosto le banconote. In realtà non vedevo proprio nessun motivo per andare da qualche altra parte. È stato Jegor a spingermi in una delle ultime auto inviate dalla capitale, per poi pigiarsi a sua volta nell’abitacolo. Jegor si era fatto contagiare dall’ondata di panico, come se le sue palle avessero dovuto generare altri figli e fossero quindi da mettere al riparo con la massima urgenza. Peccato che il suo bassoventre non fosse l’unica cosa ormai floscia e spompata a furia di sbevazzare. La notizia dell’incidente nucleare lo fece momentaneamente rinsavire, si disperava per la fine del mondo e a me dava sui nervi.

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Non ho pentole grosse in casa, perché vivo da sola da quando sono tornata. E gli ospiti non fanno certo la fila. Non preparo mai provviste, cucino ogni giorno piatti freschi, l’unica cosa che riscaldo anche più volte è il boršč*. Lasciandolo a riposo, diventa sempre più buono. Tiro fuori dalla credenza la pentola più grande che trovo. Cerco un coperchio della misura giusta. Nel corso degli anni ho collezionato molti coperchi, non tutti sono adatti, ma per me vanno benone. Taglio via la testa e le zampe del gallo, che andranno nel brodo insieme al resto, e poi il codrione, che do alla gatta. Metto il gallo nella pentola, aggiungo la testa e le zampe, una carota del mio orto già pelata e una cipolla con la buccia, per conferire al liquido un colore dorato. Verso l’acqua del pozzo direttamente dal secchio, in quantità sufficiente a ricoprire il tutto. Il brodo sarà sostanzioso, grasso e lucente. Ai tempi dell’incidente nucleare, mi ritenevo tra quelli che se l’erano cavata meglio. I miei figli erano al sicuro, mio marito in ogni caso non avrebbe retto a lungo e io avevo già la carne dura. In fondo non avevo niente da perdere. Ed ero preparata a morire. Il mio lavoro mi aveva insegnato a tenere sempre sottocchio questa eventualità, per non farmi cogliere alla sprovvista da un momento all’altro. Ancora oggi mi stupisco ogni giorno di essere viva. Un giorno sì e uno no mi chiedo se magari non sia anch’io uno di quei morti che vagano sotto forma di spiriti e che * Zuppa a base di barbabietole arricchita con vari ingredienti [.d..]

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non vogliono accettare che il loro nome sia già su una lapide. Qualcuno dovrebbe dirglielo, ma chi sarebbe così sfacciato. Io sono contenta che nessuno abbia più niente da dirmi. Ho già visto tutto e non ho più paura di niente. La morte può arrivare, purché sia gentile. L’acqua nella pentola inizia a fare le bolle. Abbasso la fiamma, prendo un mestolo dal gancio e comincio a togliere la schiuma, che si ammassa densa e grigia lungo i bordi. Se l’acqua continuasse a bollire, la schiuma si scomporrebbe in tanti pezzettini e si sparpaglierebbe per tutto il brodo. Nel mestolo, la schiuma torbida e rivoltante sembra una nuvola grigia ormai sgonfia. La lascio scivolare nella ciotola della gatta. I gatti sono ancora più refrattari di noi. Questa è la figlia della gatta che stava già in casa mia quando sono tornata. Di fatto era lei la padrona di casa e io ero sua ospite. I pochi paesi limitrofi sono disabitati. Le case ci sono, ma le pareti sono storte e sottili e le ortiche si innalzano fin sotto il tetto. Non ci sono nemmeno i topi, perché ai topi servono rifiuti, rifiuti freschi e abbondanti. Ai topi servono gli esseri umani. Quando sono tornata, potevo scegliere qualsiasi casa a Černovo. Io mi sono ripresa la mia vecchia casa. La porta era aperta, la bombola del gas era appena semivuota, il pozzo era raggiungibile a piedi in pochi minuti e l’orto era ancora riconoscibile. Ho estirpato le ortiche e sfrondato i rovi, per settimane non ho fatto altro. Per me era chiaro: “Ho

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bisogno di questo orto. Non posso affrontare tanto spesso la scarpinata fino alla fermata dell’autobus e il lungo viaggio verso Malyši. Ma tre volte al giorno devo pur mangiare”. Da allora coltivo un terzo dell’orto. È sufficiente. Se avessi una famiglia numerosa lo ripulirei del tutto. Prima dell’incidente nucleare me ne prendevo molta cura, cosa che in seguito ha giocato a mio favore. La serra è un gioiellino nato dalle mani di Jegor, raccolgo pomodori e cetrioli con una settimana d’anticipo rispetto agli altri abitanti del paese. C’è l’uva spina verde e rossa e il ribes rosso, bianco e nero, vecchi arbusti che in autunno poto attentamente per ottenere nuovi germogli. E poi ho due meli e due cespugli di lamponi. Questa è una zona molto fertile. Il brodo continua a bollire con la fiamma al minimo. Lo lascerò cuocere per due, anzi tre ore, finché la carne vecchia non diventerà tenera e non si staccherà dall’osso. È come per gli esseri umani: più sono vecchi e più hanno la pellaccia. L’odore del brodo di pollo rende la gatta irrequieta. Mi sguscia tra i piedi miagolando e si strofina ai miei polpacci avvolti nelle spesse calze di lana. Mi accorgo che sto invecchiando proprio dal fatto che ho freddo. Perfino d’estate non riesco più a girare per casa senza i calzini di lana. La gatta è gravida, più tardi le darò anche la pelle e la cartilagine del pollo. A volte dà la caccia a coleotteri e ragni. Abbiamo molti ragni a Černovo. Dopo l’incidente nucleare i parassiti si sono moltiplicati. Un anno fa un

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biologo è venuto a casa mia a fotografare le ragnatele. Io le lascio appese, anche se Marja dice che sono una casalinga negligente. Il bello della vecchiaia è che non hai più bisogno di chiedere il permesso a nessuno, né per vivere nella tua vecchia casa né per lasciare le ragnatele appese. Anche i ragni erano qui già prima di me. Il biologo li ha ripresi con una videocamera che sembrava un’arma. Ha disposto i riflettori e illuminato ogni angolo della casa. Io non avevo nulla in contrario, facesse pure il suo lavoro in pace. Doveva solo abbassare il volume di quell’arnese, che con i suoi fischi mi faceva venire il prurito alla schiena. Il biologo mi ha spiegato perché abbiamo così tanti parassiti. Perché da quando c’è stato l’incidente nucleare ci sono molti meno uccelli nella nostra zona. Perciò coleotteri e ragni si moltiplicano indisturbati. Invece non ha saputo spiegarmi come mai ci sono così tanti gatti. Probabilmente è nella natura dei gatti proteggersi dalle cose brutte. Dalla porta si insinua un’altra gatta. La gatta che abita con me fa subito la gobba. È una carogna e non permette a nessuno di varcare la soglia. «Vieni, sta’ buona» dico io, ma lei non è per niente buona. Fa “zsshsh” e “pshsh” e rizza il pelo. Ha solo mezza coda, qualcuno le ha tagliato via l’altra metà. Io ho sempre avuto gatti e polli, un tempo anche cani, è questo che mi piace della vita di paese. È anche uno dei motivi per cui sono tor-

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nata. Qui gli animali non sono malati di testa come in città, nemmeno quelli radioattivi e storpi. Gli spazi angusti e i rumori della città fanno impazzire gatti e cani. Ai tempi Irina ha preso apposta un volo dalla Germania per impedirmi di tornare a Černovo. Ci ha provato con ogni mezzo, ha persino pianto. La mia Irina, che non piangeva mai, neanche da bambina. Eppure non le avevo vietato di piangere, al contrario, qualche volta le avrebbe fatto bene. Ma lei era come i maschi, si arrampicava su alberi e recinzioni, ogni tanto cadeva pure, e incassava le legnate senza mai piangere. Poi ha studiato Medicina, adesso fa il chirurgo nelle forze armate tedesche. È questa la mia bambina. E alla fine ha pensato bene di mettersi a piangere solo perché volevo tornare a casa. «Io non ti ho mai detto cosa fare» le ho spiegato. «E non voglio nemmeno che tu lo dica a me». «Ma mamma, chi, in piena coscienza, vorrebbe tornare nella zona della morte?» «Ragazza mia, non sai quello che dici. Mi sono informata, le case sono ancora in piedi e nei giardini crescono le erbacce». «Mamma, tu sai cos’è la radioattività, vero? Non c’è una cosa che non sia contaminata». «Sono vecchia, le radiazioni non possono più colpirmi e anche se fosse non è certo la fine del mondo». Lei si è asciugata gli occhi, con un gesto da cui si capiva chiaramente che faceva il chirurgo.

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