MIMOSE A DICEMBRE

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MARIA ROSARIA VALENTINI

MIMOSE A DICEMBRE

Keller editore


Titolo originale: Mimose a dicembre © 2013 Maria Rosaria Valentini Published by arrangement with MalaTesta Literary Agency IMMAGINE DI COPERTINA

© Paola de Grenet | SIME © 2013 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it redazione@kellereditore.it PRIMA EDIZIONE, SETTEMBRE DUEMILATREDICI


Mimose a dicembre



Es irrt der Mensch, solang’ er strebt. Così erra l’uomo, finché lotta e anela.

JOHANN WOLFGANG VON GOETHE, faust



Tre fette di cozonac



L

a lavatrice gira disegnando cerchi impazziti. È tempo di centrifuga. E sputa tutto la lavatrice. Sputa attraverso piccoli fori, mentre il tamburo trattiene lenzuola bianche che si fanno nodo. Si è messa in ginocchio Adriana, davanti all’oblò. Segue i giri con pupille stordite. Non ha parole sulle labbra; tra le mani il flacone di plastica con l’ultimo goccio di ammorbidente celestino: colore stupido per i suoi gusti. Ha i piedi nudi, i talloni ben in vista sono un rosario di ragadi e duroni. L’ampio fiocco del grembiule, annodato con precisione, sa quasi di festa, ma festa non è. La treccia lunga, mesciata, attraversata da una ciocca viola, è strozzata da due elastici da pacco che saranno cavoli a sfilarli via. Ma Adriana se ne frega, sono due settimane che non si pettina. Una piccola sveglia vecchio stile scodinzola piano il suo tic tac. Quando è partita – qualche anno fa – da quelle quattro case sgretolate che insieme danno nome al suo paese, aveva con sé una sporta di plastica con dentro niente, tranne due paia di mutande di cotone spesso e una giacchetta di lana pelosa, pungente. Le strade lì erano sentieri segnati da piscio e sterco di capre, pecore e galline magre. Allora partire le era sembrato obbligatorio e forse semplice, come rompere tra i denti una zolletta di zucchero. Sua madre non l’aveva accompagnata neppure fino alla porta; l’aveva salutata dal letto, senza smuo-


vere troppo le coperte. Nessuno capiva niente della sua malattia e lei non capiva più niente di nessuno. La figlia le era parsa un’ombra da scacciare con uno scatto della mano, come si fa per scansare una mosca. E la mosca se ne era andata ronzando parole scarne. Davanti al pullman le mosche sciamavano: tante. Adriana, aspettando di salire, spingeva il collo in avanti perché voleva vedere; si sentiva già all’estero. La fiancata laterale del bus, un po’ ammaccata ma attraversata da un’ampia scritta beige, le pareva gonfia di futuro. Aveva freddo ai piedi. Poi il portellone si spalancò e, un passo appresso all’altro, raggiunse la scaletta che la catapultò dentro. Un posto a caso. Non pensò: “Meglio nel mezzo che lo stomaco fa meno male o meglio davanti così parlo con il conducente e non si addormenta o meglio dietro che magari ho più spazio per le gambe e allungo i piedi o meglio verso il finestrino…” No, non pensò niente e si sedette sul primo seggiolino che si trovò davanti, con la tappezzeria mezza strappata, accanto a un’altra donna talmente magra che per lei fu subito trasparente. Degli altri, in fondo, se ne fregava. A quel punto Adriana era già partita, sebbene le ruote facessero fatica a liberarsi da quella terra melmosa prima di muoversi per davvero. E nella testa parlava italiano. Non solo pizza, spaghetti, vino, ciao bella… quelle cose le sanno tutti, anche gli scemi. Adriana sapeva dire crema, viso, massaggio, medicina, sciroppo, orario, pomeriggio libero, pulito, gabinetto, adesso, dopo, basta per favore. La sua amica Maria c’era stata cinque anni in Italia e si era fatta bei soldi; ora si dava un’aria da signora. Era stata lei a spiegarle tutto: che bus prendere, dove scendere, a chi rivolgersi una volta arrivata a Roma. Niente strozzinaggio. Tutto legale.


Diceva: «Una compagnia di trasporti romena organizza viaggi a un prezzo abbordabile, che puoi pagarti senza impegnare l’anima al diavolo. Di solito quando si arriva si deve solo stare un po’ attenti e mettersi a disposizione per curare vecchi e malati. E tutto si sistema». A Maria le cose erano andate bene, da subito. L’avevano assunta e messa in regola. Le avevano dato da mangiare, da dormire e lei in cambio doveva curare una vedova sorda e un po’ svanita, ma niente di più. I figli venivano a trovarla di sabato, a Maria portavano sempre qualche regalo pregandola di non lasciarli nella merda. E Maria era restata, cinque anni di fila, dentro a un appartamento a parlare con la sorda; le sue uniche uscite erano quelle dal tabaccaio, proprio sotto al portone, perché la sorda fumava, o al supermercato per fare la spesa. Il Colosseo se lo guardava tutte le mattine su una cartolina che si era portata da casa e quando, la domenica sera, prendeva il cellulare e telefonava in Romania, diceva che l’aveva visto, che era enorme e bello. In fondo non raccontava balle: per averlo visto, l’aveva visto! Ogni tanto telefonava anche a Adriana, buttandole addosso il gusto della fuga verso un domani migliore e quando la sorda le faceva usare il suo telefono, allora si dilungava e raccontava della città: esplorata dalle finestre di un ottavo piano, in un quartiere piuttosto lontano dal Colosseo. Ma tanto Adriana che ne sapeva? «Devi venire, devi venire anche tu. «Non ti preoccupare per la lingua. No, no il francese non serve, non serve, in Italia non lo parla nessuno. Nemmeno la sorda. Ma l’italiano è facile e si capisce. Usi sempre le stesse parole. apă minerală naturală è uguale all’italiano, per esem


pio; infatti si dice: acqua minerale naturale; bună ziua si dice buongiorno, buonasera vuol dire bună seara. Sai, qui le strade sono tutte larghe e asfaltate, ma proprio tutte e c’è sempre traffico a qualsiasi ora. Le donne vanno dal parrucchiere anche quando non si sposa nessuno. La carne è rosa, a fette larghe. Se le banane diventano nere qui non le mangiano, le buttano! Se un coltellino ha una punta di ruggine buttano pure quello. Insomma, si sta bene hai capito? «Poi la sorda ha tante uova. Ci faccio la torta di mele. Le mele a Roma sono grandi. Le piastrelle del bagno della sorda sono rosa, come la carne. Il cielo è azzurro, pieno di piccioni che non piacciono alla sorda perché le sporcano il davanzale. A me piacciono. Si sta bene qui. Ho una stanza per me. Guardo sempre la televisione con la sorda. «Qui si mangia tutti i giorni, almeno tre volte al giorno. Devi venire anche tu, Adriana. La sorda mi ha regalato le sue camicette con i bottoncini, lei non le mette più, non riesce ad abbottonarle. Le voleva buttare, ma io le ho prese per me. Sono di seta. «Qui la gente si veste con la seta. «È bella Roma». Adriana non sapeva che dire, tranne qualche timido da, da! Così, domenica dopo domenica, Maria l’aveva convinta a imparare poche parole sufficienti per trasferirsi e provare come fanno tutti. Lei ci aveva pensato a lungo. Altri le avevano detto che non era facile; altre erano tornate con una faccia che sapeva di fregatura; altre ancora non erano tornate affatto. Ma poi si era decisa, Adriana, e si era buttata. Il viaggio su quel bus era stato quasi una vacanza. Sì, è vero, c’era puzza: chi si levava le scarpe, chi mangiava salami ranci-

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di… Ma chiunque, da che mondo è mondo, ha voglia di vedere Roma, e allora perché a lei sarebbe dovuta mancare quella curiosità? Perché avrebbe dovuto rinunciare a una città straordinaria ed eterna? Era proprio quel senso di eternità che più l’attirava; lei che era cresciuta nel provvisorio necessitava di una bellezza costante, inalterata come una conferma. Adriana si era portata un po’ di cozonac*; Pasqua era passata da un mese, ma il cozonac dura tanto se lo metti in una latta e la latta l’aveva trovata nel pollaio, un po’ arrugginita, ma della giusta dimensione per rimanere infilata in una tasca piuttosto larga e sformata. Tre fette. La prima se la mangiò per mascherare la tensione, visto che lei non era mai partita per nessuna parte fino ad allora e aveva paura: delle gomme che scoppiano spesso in autostrada e si finisce tutti dentro una scarpata; dei compagni di viaggio che chissà chi sono o chissà che pensano se ti conoscono; del dove andare a fare pipì perché prima o poi scappa; del mucchietto di lei che si era cucita attorno all’elastico delle mutande. Le molliche caddero su una piega della gonna e Adriana le raccolse, una dopo l’altra, infilandosele in bocca come una processione di formiche che le scendeva in gola. Il suo villaggio intanto scompariva dietro la rete di un’ultima stalla dove una bimba dalle guance rosse, il moccio al naso e un berretto di lana grezza salutava con la mano il passaggio del bus. Adriana incrociò le braccia sul petto pensando alla madre inferma, contando, come le pecore un insonne, le piaghe che *Il cozonac è un dolce tipico della Romania, della Bulgaria e dell’Albania. Si prepara per feste importanti e ricorrenze religiose. È a base di uova, farina, latte, frutta secca, ma la ricetta conosce numerose varianti. N.d.A.


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