Brossura | collana PASSI | pp 480 Traduzione dal romeno Anita N. Bernacchia KELLER www.kellereditore.it | www.kellerlibri.it
VARUJAN VOSGANIAN Varujan Vosganian è nato nel 1958 a Craiova da una famiglia di origine armena emigrata in Romania dall’antico Impero ottomano dopo il genocidio contro gli armeni del 1915. Personalità complessa, Vosganian è scrittore, politico, economista, matematico, professore universitario. è stato Ministro dell’Economia e delle Finanze, è presidente dell'Unione degli Armeni di Romania e primo vicepresidente dell'Unione degli Scrittori di Romania. Tra il 2006 e il 2008 è stato Ministro dell’Economia e del Commercio e, attualmente, è membro del Parlamento come senatore. Tra le sue opere si annoverano tre volumi di poesia Lo sciamano blu (1994), Il bianco occhio della regina (2001), Gesù dalle mille braccia (2004) e la raccolta di racconti La statua del Comandante (1994) che ha ricevuto il Premio dell’Associazione degli Scrittori di Bucarest. Il romanzo Il libro dei sussurri, in fase di traduzione in numerose lingue, lo ha consacrato come scrittore sia per il successo di critica e vendite in libreria sia per l'interesse suscitato sul piano internazionale. Numerosi sono i riconoscimenti concessi al romanzo e all’autore tra cui il Premio Libro dell’anno (2009) della rivista «România literară», il Premio “Mihail Sadoveanu” per la prosa della rivista «Viaţa Românească» (2009), il Premio per la prosa e il Premio dei lettori della rivista «Observatorul Cultural» (2009), il Premio della rivista «Convorbiri literare» (2010), il Premio BestSeller della Fiera del Libro “Librex” di Iași (2010) e il Premio per la prosa della rivista spagnola «Niram Art» (2010).
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VARUJAN VOSGANIAN
IL LIBRO dEI SUSSURRI Traduzione di Anita Natascia Bernacchia
Keller editore
Noi non ci distinguiamo per ciò che siamo, ma per i morti che ognuno di noi piange diceva mio nonno Garabet.
Oggi gli armeni parlano e scrivono in due principali dialetti. Gli abitanti della Repubblica dell'Armenia e gli armeni dell'Iran parlano il dialetto Orientale, mentre tutti coloro che hanno le proprie radici nell'ex Impero ottomano, cioè nell'Armenia Occidentale, usano il dialetto Occidentale. Le traslitterazioni sono state adattate alla pronuncia di quest’ultima variante. L’Armenia Occidentale è infatti l'ambiente dove si svolge gran parte delle storie qui narrate, i cui protagonisti sono armeni occidentali.
UNO
I
o sono, più di ogni altra cosa, quel che non sono riuscito a compiere. La più vera delle vite che indosso, come un fascio di serpenti annodato a un’estremità, è la vita non vissuta. Sono un uomo che su questa terra ha vissuto immensamente. E che nella stessa misura non ha vissuto. I miei genitori sono vivi. Vuol dire che io non sono nato interamente, non ancora. Loro sono ancora intenti a smussare le mie spalle ossute. A riversare spirito nel mio petto, che muta contorno, così come le anfore degli antichi greci prendevano la forma del vino che s’ingrossava all’interno. A levigare il mio volto ramato. Poiché non sono ancora nato interamente, la morte è ancora lontana. Sono tanto giovane che potrei amarla, come una bella donna. Il mio primo maestro fu un angelo anziano. Colui che ci avesse osservati da lontano, in fondo al cortile, avrebbe visto un bambino seduto ai piedi di un noce enorme. In realtà, io sedevo ai piedi di quell’angelo anziano, che era il mio maestro. La sua ombra odorava di iodio e le mie dita, scrivendo, si macchiavano delle sue ombre, come sangue rappreso. Tanto che non sapevo più di chi fosse la ferita, mia o sua. da lui imparai che il nome non è di alcuna utilità. Persino il mio, a scriverlo senza maiuscola, come il nome di un albero o di una bestia selvatica. Tra di noi dialogavamo senza parole ed era piacevole, come quando corri a piedi nudi sull’erba. Non restano impronte, per questo camminare sull’erba è senza peccato. Gettavo via i sandali e correvo per i campi alla periferia della città. La sua ombra si adagiava sulla mia ed eravamo felici. Un giorno l’angelo anziano scomparve. Guardai perplesso il noce, il suo tronco spesso, le foglie turgide. Sui rami discesero gli uccelli. In autunno, il vento scrollò i rami e le noci caddero a terra. Ne spac11
cai il guscio e le mangiai. Erano saporite. Mangiai del suo corpo. da allora non cercai più l’angelo anziano. Mi rimase solo l’odore di iodio e oggi, talvolta, vedo ancora quelle tracce nero-verdastre sulle dita. Segno che sotto la pelle la carne non si è ancora rimarginata. La Focşani della mia infanzia era una città dalle strade larghe e le case imponenti. Man mano che crescevo, le strade si restringevano e le case si rattrappivano. Erano sempre state così in realtà, ma il mio occhio di bambino assegnava loro, come del resto al mondo intero, dimensioni che risultavano enormi soltanto a me. Nelle fondazioni delle case e sotto i pilastri della veranda si dovrebbero collocare non travi di legno asciutto, ma tronchi vivi. In tal modo, le case crescerebbero con le persone, il mondo non diventerebbe più piccolo, né il tempo più breve. Poco era cambiato dalla Seconda guerra mondiale. Il nostro quartiere, nella parte orientale della città, aveva strade non lastricate, e così i marciapiedi, separati dalla strada solo da un bordo di pietra alto una spanna. I recinti erano in legno, a volte verniciati di fresco. Spesso erano formati da assi disuguali e fissate l’una all’altra con dei chiodi, prive di vernice oppure spennellate di calce. Ai piedi dei recinti cresceva la camomilla. Quando si avvicinava l’autunno, ne coglievamo i fiori minuti e profumati. La nonna li metteva in cortile a essiccare, per i tè curativi da bere tutto l’inverno. Proprio come faceva d’estate con le albicocche tagliate a metà e, più in là, con le prugne e le fette di mela. Con la frutta secca riuscivi a saziarti perché la masticavi a lungo. E, se avevi la pazienza di farlo abbastanza, acquisiva il sapore della carne. La nostra era una piccola strada. C’erano solo dieci case e all’angolo il muro di una fabbrica di ghiaccio, che noi chiamavamo “il Frigorifero”. La via si chiamava 6 Marzo 1945. Sulla targhetta era stata collocata una spiegazione: INSTAURAzIONE dEL PRIMO GOVERNO dEMOCRATICO. dopo la Rivoluzione del 1989, quando a quelli del Comune il governo del 1945 non parve più tanto democratico, si cambiò il nome in Jilişte, per motivi a me sconosciuti. All’epoca mi capitò di spedire una lettera a casa. Arrivò qualche mese dopo. dap12
prima la posta l’aveva inviata, come era parso loro più comodo, sempre nel distretto di Vrancea, ma nel villaggio chiamato Jilişte. Il sangue scorre più lentamente del tempo. Per questo le abitudini si perdono più difficilmente. Assai più ispirata si era rivelata un’altra denominazione, pochi isolati più in là: via della Rivoluzione. dopo il 1989 quel nome rimase immutato. Ognuno aveva pensato alla rivoluzione che più gli garbava. Quando pioveva, nella nostra via si raccoglievano dei fiumicelli che si mescolavano l’uno all’altro. Avevo scoperto qual era la parola che denotava quei piccoli canaletti d’acqua, nei quali, in tempo di siccità, la terra diventava fine come polvere. Si chiamavano cunette. I gusci di noce erano le barche sui rigagnoli della cunetta. Li ricolmavo di fango caldo come una pasta, e vi conficcavo piume di tacchino a mo’ di albero maestro. Raramente si vedevano passare delle macchine. Arrivavano però dei carretti, con taniche di alluminio piene di latte. dietro l’angolo c’era un centro per la sua raccolta e lavorazione. Parcheggiavano in fila, ognuno con le sue taniche. Noi ci arrampicavamo sulle sbarre dei carretti e facevamo un po’ di strada abbarbicati così. Qualche carrettiere più permaloso, al quale non tornavano più i conti del latte, ci rifilava una frustata sulla schiena ciascuno. Saltavamo giù dal carretto, mentre poi lui fischiava e spronava i cavalli. All’epoca non c’erano palazzi in città e le case con piano superiore si contavano sulle dita di una mano. Con primo piano e mansarda c’erano stati una volta i negozi degli ebrei sul corso. durante il terremoto del 1940 i piani superiori erano crollati e i negozi si erano rimpiccioliti e addossati gli uni agli altri. Il nostro era un quartiere di gente povera. Neppure noi avevamo granché di cui vantarci, se non che i miei genitori avevano studiato, erano ingegneri. I giornali arrivavano raramente, le notizie le venivamo a sapere dal cinegiornale e dal filodiffusore, una scatola gialla che dal muro ronzava notiziari, musica folklorica e cori patriottici. Quando la signora Maria, la vicina di fronte, si comprò un televisore, nella nostra via fu un vero e proprio avvenimento. Il televisore, di
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marca Rubin, era russo come quasi tutti gli oggetti che avevamo all’epoca. Lo schermo era grande quanto un piatto. Nelle sere in cui faceva caldo la signora Maria lo metteva in giardino, e ognuno si portava la sedia da casa. Mi addormentavo presto raggomitolato sulla mia, ma mi sentivo orgoglioso come un adulto. Quel che riuscii a vedere da sveglio dall’inizio alla fine furono i funerali, perché li trasmettevano sempre all’ora di pranzo. Quello di Leontin Sălăjan, ministro dell’Esercito, poi di Gheorghe Gheorghiu-dej1. Per ore e ore, il quartiere guardò il corteo funebre, mosso più da curiosità che da dolore, bevendo ţuica e commentando come a una partita di calcio. Funerali di quel genere erano piuttosto rari, per i gusti di mio nonno Garabet, soprattutto dopo quello di suo cognato, Sahag Sheitanian. Altrimenti, nel nostro quartiere non accadeva praticamente nulla. Oggi i fuochi sono scomparsi. Hanno battuto in ritirata, ronzando via nei fili elettrici, si sono nascosti dentro i muri, o sotto terra. Ma nella mia infanzia i fuochi si facevano sempre vedere. La fiammella gioconda della candela o quella pacata della lampada a gas. Il crepitare rossastro della brace nella stufa. Il fuoco sotto il pentolone in cui borbottava la marmellata di prugne. O quello sotto il pentolone annerito dove bolliva il catrame per i cartoni sui tetti, o dove si scioglieva il grasso per il sapone da bucato. La fiamma asfissiante delle foglie bruciate a primavera. Le notti erano allora più lunghe e più ricche, c’era meno luce e le ombre erano più vivide. Nel gioco delle ombre che si proiettavano sui muri molti fantasmi sembravano veri. Il fuoco era una creatura viva, si sedeva a tavola accanto a noi, scivolava su di noi con le sue ombre, ci allungava i volti e scavava i nostri sguardi. Molte di quelle storie, dopo che le avevamo ascoltate, si raccontavano ancora una volta da sole su quelle pareti in movimento. Per questo la mia infanzia fu più libera e più ricca. Persino i morti provavano più sollievo. Altri compagni della mia infanzia furono gli odori. Tra tutti i sensi, l’odorato è il più pregno di memoria. Basta aprire una porta da cui penetra un effluvio familiare perché ti tornino in mente tutti gli 14
accadimenti legati a quella sensazione. Una vita intera potrebbe essere descritta attraverso i suoi aromi. Parimenti si potrebbe raccontare la mia infanzia. Prima di tutto, l’odore dell’impasto caldo. Se dovessi concentrare tutta la mia infanzia in un’unica forma della materia, direi: impasto. O meglio, l’impasto caldo della scodella di mia nonna. Cresceva dalla sera alla mattina come una creatura animata. Ne ero affascinato. E talmente legato alla vita che cresceva in lui, da sentire che ogni movimento di quelle mani che lo tormentavano gli provocava dolore. Mi calmavo solo quando vedevo nonna Arshaluys – Aurora, in romeno – e sua sorella Armenuhi stenderlo e accarezzarlo, finché non si mutava in sfoglie sottili. Le donne collocavano sui letti e sui tavoli delle lenzuola stirate, dove adagiavano le sfoglie sottili di impasto per la baklava. Quelle notti dormivamo tutti ammucchiati sui divani. Le sfoglie non dovevano essere turbate da alcun movimento né rumore. Passavo tra loro con accortezza e parlavo a bassa voce. di tanto in tanto la nonna si alzava e, alla luce della lampada a gas, le ungeva con un miscuglio di olio e uova. La mattina, asciutte come tavolette d’argilla e fruscianti come fieno, venivano adagiate l’una sull’altra. In mezzo agli strati si spargevano noci tritate e sopra si versava dello sciroppo caldo. I bordi si tagliavano, affinché le sfoglie prendessero la forma delle teglie messe in forno a rosolare. domenica, a pranzo, nonno Garabet tagliava le baklava con un lungo coltello, e le distribuiva a ciascuno in modo equanime. Lo stesso coltello era utilizzato per tagliare la carne di vitello essiccata che chiamavamo, alla turca, pastrma. La carne si appendeva alla grondaia della casa, affinché la asciugasse il vento e la addolcisse la luce. «Tra tutti» diceva il nonno, «il più buono è il sapore del vento. devi sapere come farlo penetrare nel cibo». La carne essiccata si metteva a bagno in una pasta chiamata çemen, inviata appositamente da Erevan. Il nonno prendeva il coltello e tagliava la prima fetta. Uscivo in giardino e guardavo attraverso la fetta di carne rossastra. «Non si vede la luna» riferivo. E il nonno: «Non va bene». Affilava il coltello
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su una pietra inumidita e tagliava un’altra fetta. La carne trasparente, penetrata dai raggi della luna, acquisiva un colore giallino. «Adesso si vede» dicevo io. «Bene» apprezzava il nonno. «La luce e il vento sono gli ingredienti più saporiti quando si mescolano. Così la frutta matura al punto giusto e la carne si taglia per bene». L’odore della frutta si diffondeva per tutta la casa. Soprattutto all’Anno Nuovo, quando gli armeni osservano ancora il digiuno di Natale, e si cucina in grosse padelle l’anush-abur. Che tradotto vorrebbe dire “minestra dolce”. è una specie di colivă2, solo che al grano bollito si mescola frutta di tutti i tipi: fichi, datteri, uva sultanina, noci, arance. E sulla superficie si setaccia polvere di cannella. E poi c’era l’odore dei cantucci. Luoghi celati, ombrosi oppure visibili, che venivano aperti di rado. E poi, ancor più allettanti, i luoghi proibiti. Senza cantucci da scandagliare, l’infanzia perde di significato. Solo quel che è nascosto merita davvero di essere visto. L’odore dei cantucci si accompagna alla tranquillità, anch’essa dotata dei suoi odori. In primo luogo, gli armadi dei vestiti sotto cui giacevano, ripiegati, coperte e materassi. Nell’armadio della nonna si conservavano solo abiti pesanti e cappotti che odoravano di naftalina, e tra questi ce n’era qualcuno appartenuto persino alla mia bisnonna, Heghiné Terzian. dei vestiti del bisnonno non si poté conservare nulla, tutto era rimasto su una strada di Costantinopoli, da dove si vedeva il sole tramontare sul Bosforo. Erano scappati una notte, con addosso i vestiti e delle bisacce in cui avevano raccolto alla svelta i loro oggetti più vendibili. Girava voce che al porto, a Pera, fosse attraccato un vapore che accoglieva rifugiati armeni. Mentre saliva sul ponte, in mezzo alla folla disorientata e impaurita, il mio bisnonno cadde sulle ginocchia, e morì a faccia in giù, mentre teneva le due figliole per mano. Lo rigirarono, gli chiusero gli occhi e gli disgiunsero le mani. Vegliarono su di lui, dopo aver trovato un pezzo di candela chissà dove. Non fu l’unico a rendere l’anima nella confusione e nello spavento di allora. Prima di giungere a Costanza, il capitano diede ordine che tutti i morti fossero gettati in mare. Fu così che il Mar Nero divenne la tomba mobile del mio bisnonno Baghdasar Terzian.
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E poi c’era l’armadio dei libri. Nonno Garabet conosceva quasi tutti gli alfabeti: latino, cirillico, greco e arabo. «Per non sbagliare» era solito dire. «L’alfabeto è il principio, per questo si chiama alfabeto. Puoi cominciare da dove vuoi, a condizione che tu riesca a decifrare qual è il principio». Mio nonno decifrò i principi, ma confuse le fini. Noi bambini fummo chiamati al suo capezzale, sul letto di morte. Non capimmo quello che ci disse. Appariva tranquillo e parlava con saggezza. Ma non riuscivamo a capire. Più tardi, mio padre mi spiegò che il nonno ci aveva parlato mescolando le lingue: persiano, arabo, turco, russo e armeno. Tutte le contrade che aveva conosciuto nell’infanzia e nell’adolescenza erano ora risorte in lui. Proprio come quando, nella fretta di partire, afferri con foga gli oggetti che ti cadono di mano, così anche lui, nella fretta di parlare prima di lasciare questo mondo, aveva afferrato le parole a caso. Così i libri. C’erano libri in turco, dai caratteri antichi, orientali, manuali da disegno in inglese e vecchie edizioni Larousse. Il nonno sfogliava spesso uno splendido libro tedesco sui tappeti. «I nostri tappeti sono come la Bibbia. Ci trovi ogni cosa, dalle origini ai giorni nostri». Così, entrambi vi cercavamo le manifestazioni del mondo. «Qui c’è l’occhio di dio» tiravo io a indovinare, e nonno Garabet annuiva. «E questo è un angelo». «Non è un angelo. è anziano, deve essere un arcangelo. Forse Raffaele, lui è il più anziano di tutti». Avrei voluto dirgli dell’angelo anziano in cortile, che d’estate odorava di iodio e d’inverno si lavava i piedi scalzi nella neve. Capii, tuttavia, che le persone che non hanno potuto vivere un’infanzia senza paure non potevano aver incontrato angeli anziani. E infine il nonno arrivava alla pagina di cui andava più orgoglioso: il tappeto intessuto da lui in persona. Quel tappeto era stato collocato nella nostra stanza, quella dei bambini, e ora si trova in camera di mia figlia Arminé. «è importante» diceva il nonno, «avere sopra la testa un tetto solido e sotto i piedi un tappeto spesso». Il nostro tappeto persiano era fitto, lavorato a mano, con molti nodi. «Un tappeto deve essere così spesso» spiegava il nonno «che, arrotolandolo, deve pesare quanto un tronco d’albero dello stesso spessore». Il nostro tappe-
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to attraversò diverse epoche storiche, e non in un modo qualsiasi. Nell’agosto del 1944 l’armata sovietica entrò nella città di Focşani. Tre ufficiali furono acquartierati in casa nostra. Bevvero tutta la notte e si ubriacarono come spugne. Mio nonno e suo cognato, Sahag Sheitanian, marito di zia Armenuhi, rimasero svegli e all’erta fino all’alba, intervenendo ogni qual volta uno dei russi gettava un mozzicone acceso sul tappeto. Tra pugni, gomitate e insulti, Garabet e Sahag raccolsero tutte le cicche. Rimasero due o tre tracce appena, che si vedono ancora oggi. Il nonno aveva una visione genuinamente kantiana del mondo: il tetto sopra di me, l’altare innanzi a me e un tappeto soffice sotto i miei piedi. Non mi era permesso leggere qualsiasi libro della casa. Ma sapevo riconoscerli dall’odore. Me lo aveva insegnato nonno Garabet. Un buon libro possiede un odore particolare. Legato stretto nelle sue cinghie di pelle, odora quasi come un essere umano. Quando giro per le librerie, mi sorprendo a volte ad annusare i libri. «Mi sembro cieco» dicevo. «E allora?» alzava le spalle nonno Garabet. «di tutto quel che sei, gli occhi sono quelli che ti appartengono di meno. La luce è come un uccello che depone le uova in un nido estraneo». Iniziai a comprendere i libri prima toccandoli e odorandoli. E non ero l’unico. Tra le pagine scorgevo a volte un insetto rossiccio. «Non lo uccidere» mi fermava il nonno. «è lo scorpione dei libri. Ogni mondo deve avere le sue creature viventi. Il libro è anch’esso un mondo. Le creature viventi sono destinate a nutrirsi dei peccati e degli errori del mondo. Così anche questo scorpione: corregge gli errori nei libri». Per molto tempo non gli credetti. Ora, però, il narratore sono io, una specie di scriba che intende correggere gli errori passati. Sono, pertanto, uno scorpione dei libri. E poi, l’altro odore, che condusse me bambino lontano, tra le spezie d’oriente: l’aroma del caffè. Quest’arte i miei nonni l’avevano portata dall’Anatolia natale. Preparavano il caffè in modo spontaneo, così come l’artigiano sa, sentendone il gusto, se l’argilla è adatta per essere modellata. Lo preparavano con raffinatezza, disprezzando coloro che bevevano il caffè senza conoscerne l’intima ragion d’essere.
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Prima di tutto, i miei nonni non acquistavano il caffè tostato o – ce ne guardi il cielo! – macinato. Avevamo una casseruola di rame, che da tante tostature si era fatta nera. Il coperchio era dotato di un certo meccanismo, messo in moto con l’ausilio di una manovella, la quale rendeva la tostatura dei chicchi il più uniforme possibile. Questa operazione, da compiere a fuoco lento, durava circa un’ora. Tutto quello che noi, i bambini, riuscivamo a guadagnarci erano i chicchi tostati. Li succhiavamo come delle caramelle, e quando il sapore svaniva li sbriciolavamo tra i denti e li masticavamo. Seguiva la macinatura. Anche oggi mi capita di vedere, nelle collezioni di qualche snob, dei macinacaffè simili, cilindrici, con il coperchio aguzzo in cima, dorati e arabescati, ammassati con altri oggetti divenuti inutili, come i samovar o i ferri da stiro a carbone. Nella mia infanzia, il macinino del caffè era un membro della famiglia. La macinatura durava a lungo. Gli anziani cominciavano a radunarsi nel cortile. La nonna collocava dei cuscini morbidi sulle panchine di legno dai braccioli in ferro battuto. Macinavano a turno, contando a mente fino a cento. Chi era alla macina non si immischiava nei discorsi degli altri, per non perdere la concentrazione. Se, tuttavia, interloquiva, voleva dire che era per un motivo serio. Mi sembra quasi di vederli, sotto l’albicocco in giardino: ecco nonno Garabet Vosganian, ponderato, sobrio, con il suo sguardo da conquistatore del mondo, e Sahag Sheitanian, suo cognato, più irrequieto e brontolone, ecco Anton Merzian, il calzolaio, che raccontava sempre la stessa storia, di come aveva rapito sua moglie zaruhi ai suoi genitori di Panciu. Il viaggio di venti chilometri fino a Focşani, compiuto a cavallo una quarantina di anni prima, acquisiva per il narratore la grandiosità della fuga in Egitto. Lo impreziosiva di particolari ogni volta, perché zaruhi, sorda come una campana, non aveva modo di contraddirlo. C’era poi Krikor Minasian, l’altro calzolaio del corso, in concorrenza spietata con Anton Merzian. E infine, Hovhannes Krikorian e Arshag, il rubicondo campanaro della chiesa armena, cacciatore di uccelli. E tutt’intor-
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no le donne pienotte, le mani in grembo, odorose di acqua di colonia. Arshaluys, mia nonna, sua sorella Armenuhi, poi Parantzem, zaruhi, Satenig. La macinatura durava circa millecinquecento giri. Il macinino si surriscaldava. «Finché non riesci più a tenerlo in mano» diceva il nonno. «Finché il caffè diviene come sabbia» aggiungeva. Ma questo solo quando Sahag Sheitanian non era presente. A lui la sabbia non piaceva. A volte, anche a me veniva affidato il macinino per girarne la manovella. L’ottone si arroventava e, attraverso le commessure, si faceva largo l’aroma del caffè. Talvolta, il nonno ne prendeva in mano un mucchietto e lo annusava, con quell’aria tipica degli investigatori quando stabiliscono il valore del bottino di narcotici. Non di rado, ordinava di fare un altro giro e gli anziani obbedivano, per rendere più fina possibile quella polvere dall’aroma squisito. Seguiva la bollitura del caffè. Il pentolino era cilindrico e aveva un beccuccio angusto. «Perché i vapori si affollino e sibilino» diceva il nonno. «Quanto più i vapori si affollano, tanto più il caffè bollito è gustoso». Ogni tanto, il contenuto si mescolava. Anche in questo c’era un accorgimento da rispettare: il pentolino rimaneva sulla fiamma finché il liquido non era sul punto di bollire. Allora, si toglieva col cucchiaino la schiuma formatasi in superficie, la si versava in una delle tazze. Poi il pentolino tornava sulla fiamma. E si ripeteva, finché il caffè non era sul punto di bollire tante volte quante erano le tazze preparate. Mi piaceva stare accanto al nonno quando bolliva il caffè. Se ne intendeva, ed era un uomo saggio. In quel mentre mi raccontava le cose più strampalate. «Mentre fai il caffè» diceva «puoi dire tutto quello che ti passa per la testa. Ogni cosa è perdonata. A chi si riunisce intorno a un caffè non è permesso litigare. dopodiché, è affar suo». Era il suo attimo di libertà. Allora somigliava al mio angelo anziano. E ora, sulle tazze. Come molte altre abitudini dimenticate, è scomparsa anche questa, la bevitura del caffè. Oggi si beve da ogni genere di tazze, spesso perfino dalle tazze grandi, per l’acqua. Si beve
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il caffè istantaneo, che non lascia fondiglio, figuriamoci se fa la schiuma. «La schiuma» spiegava il nonno, mescolando con il cucchiaio «è il blasone del caffè». E le sedie non sono più soffici, disposte in circolo, allestite per le buone chiacchiere. La gente beve il caffè la mattina presto, ancora intontita dal sonno e senza alcuna voglia di parlare. Mentre per molti altri, il caffè è solo un pretesto per farsi un’altra sigaretta. Le nostre tazze di caffè erano piccole, graziosamente colorate e abbinate al piattino. Il pentolino lo chiamavamo alla turca giezve, e le tazzine fingian. Tutto l’armamentario portava nomi turchi e perfino il caffè lo chiamavamo a volte in turco, ghaife. Forse nella mente dei miei nonni, che in tempi andati avevano visto le medesime usanze presso i loro genitori, sulle sponde del Bosforo o dell’Eufrate, i ricordi e le parole avevano finito per mescolarsi. Gli anziani della mia infanzia bevevano il loro caffè alle sei del pomeriggio. Il cerimoniale della preparazione indirizzava già la conversazione verso la rilassatezza. Si ricavavano un po’ di spazio tra i cuscini e bevevano il caffè senza fretta, sorseggiando rumorosamente e schioccando le labbra con soddisfazione. Era l’istante in cui, nonostante le peregrinazioni, i ricordi insanguinati e il tempo che scorreva, il mondo appariva immutato e pacifico, e gli animi riconciliati. Il nonno prendeva il suo violino e suonava, finché il fondiglio del caffè non si asciugava nelle tazzine, fingendo i sentieri più tortuosi. La nonna non leggeva il caffè, poiché il nonno diceva che quel che è scritto deve comunque accadere. E le disgrazie sono date al mondo, come l’erba o la pioggia. E, qualora tentassi di aggirare le disgrazie preannunciate, esse accadrebbero ugualmente, solo che le getteresti sulle spalle degli altri. E allora, oltre a quel che devi già sopportare, perché prendere su di te un peccato in più? Parlerò adesso del mio secondo nonno, quello materno, Setrak Melikian. Era un uomo buono e allegro. Accolse benignamente quel che la vita gli diede, e non provò rancore per quel che la vita gli tolse. E se gli tolse più di quel che gli diede, perché perdere tempo in
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