Il fascino del potere

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Roberto Cataldi

Il fascino del potere Prefazione di ALDO CAROTENUTO


Ringraziamenti Durante la stesura di questo libro ho avuto la fortuna di potermi avvalere della collaborazione di quattro persone straordinarie: Francesca Garofoli, Patrizia Loren zi, Gianluca Re, Valeria Tocchetti. La loro partecipazione è stata per me un incoraggiamento costante per affrontare un tema cosĂŹ delicato. Ogni critica, ogni suggerimento, ogni colloquio, sono stati motivo di un arricchimento interiore: l’unico "cibo" per sopravvivere nel territorio desolato del potere. A loro va, con tutto il mio affetto, un sincero e profondo ringraziamento.

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INDICE Prefazione di Aldo Carotenuto Introduzione Cap.1 L’ombra del pericolo Cap.2 Le maschere del potere Cap.3 Le miserie dei Re Cap.4 Una soffocante presenza Cap.5 Una luce nell’oscurità Cap.6 L’inganno delle menti Cap.7 La violenza del diritto Cap.8 L’irresistibile forza del desiderio Cap.9 Al termine della ‚notte‛ Cap.10 I territori della sfida Cap.11 Una nuova dimensione Bibliografia

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Prefazione di Aldo Carotenuto Narra Chaucer, in uno dei suoi Racconti di Canterbury, di un cavaliere, condannato a morte, a cui viene offerta la possibilità di salvarsi se risponde ad un’enigma: ‚cos’è che le donne desiderano più di tutto?‛. Dopo aver vagato per un anno e un giorno (questo il tempo concessogli), su consiglio di una vecchia strega, espone la risposta che gli salverà la vita: ‚quello che le donne più di tutto bramano è comandare sui loro uomini‛. Ma sono davvero solo le donne a desiderarlo? O il mito della vecchia strega e della regina malvagia sono temi che illustrano che lo stesso tipo di desiderio è radicato, insieme alla paura di vedersi usurpato il proprio potere, anche nell’uomo? Rousseau sostiene che il giorno in cui il primo uomo piantò un paletto a delimitare il proprio possesso, si generò nell’umanità l’infelicità. Forse ha ragione, ma qualcuno prima o poi doveva pur farlo, perché lo stato di natura sarebbe oggi - con sei miliardi di abitanti - una prospettiva irrealizzabile. Ma all’origine di tutto c’era, anche nell’uomo preistorico, un’esigenza di ‘leadership’: l’affermazione della propria virilità nel contrastare le fiere, l’asserzione della propria femminilità nell’allevare la prole, l’ostentazione della propria superiorità nel consultare i numi... Tutto questo esisteva già prima della nascita della proprietà privata. E’ insita al bisogno naturale di comprensione, tipico dell’uomo, la necessità di trovare un senso alla propria vita e, nel farlo, di assegnarsi un ruolo da protagonista. Potremmo dunque dire che il fascino del potere, inteso come auto- affermazione, non è estraneo ad alcun uomo; ma in questo non c’è nulla di compromettente. Ma cos’è che fa la differenza tra un politico qualunque e Napoleone Bonaparte o, peggio ancora, Hitler? Cosa segna il confine tra la legittimità di un potere necessario per comandare 4


le masse al fine di perseguire un bene comune e l’usurpazione e la violenza? Quando il potere diventa fine a se stesso e con ciò segna l’inizio della decadenza e della barbarie? La ‚sfida dei potenti‛ è una sfida ai limiti: la brama di un superamento continuo e di un’egemonia sempre più allargata che, troppo spesso, rischiano di sprofondare nel baratro della meschinità e della crudeltà. Non c’è immagine di uomo potente che, superato un certo limite, abbia potuto sottrarsi poi all’ineluttabile destino della sconfitta e alla miseria generata dall’inaridirsi della sua anima. Esiste, ed è sempre esistito, una sorta di patto implicito tra chi comanda e chi si lascia comandare, ossia che le glorie vanno condivise, ma i fallimenti conoscono un solo capro espiatorio: chi li ha generati. Con ciò ogni tiranno, come ogni regnante, ha potuto assicurarsi la propria longevità fin quando perduravano le sue vittorie... una sola sconfitta poteva significare il suo stesso sacrificio. Ci basta guardare a quello che recentemente sta accadendo negli Stati Uniti, dove un presidente, a cui non si può rimproverare il suo operato politico, viene attaccato e vilipeso sul fronte personale. Quell’unica falla, aperta nella sua vita privata, ha finito per travolgere la totalità delle sue azioni, facendo minacciosamente vacillare il suo ‚indice di gradimento‛. Sono queste le ‚miserie dei re‛, che nel loro rendersi portavoce delle masse, debbono incarnarne gli ideali più puri: anche quelli che persino i loro elettori non saprebbero conservare illibati. Al ‘leader’ si chiede sempre la perfezione dell’automa, della divinità infallibile, ma al tempo stesso - contraddizione manifesta del potere - gli si chiede anche che si mantenga umano e che non si lasci prendere dall’ebbrezza della sua forza. Il potere a lungo andare logora l’uomo e la sua identità, costringendolo a pressioni troppo gravose, dove ogni passo può essere quello dell’ulteriore ascesa o dell’irreparabile crollo. Pensiamo al titanico Prometeo e alla sua miserevole ‘passione’. 5


Il mito narra che i titani, un tempo, erano i dominatori del mondo. La loro forza e la loro ricchezza non conosceva eguali e, con esse, governavano sugli uomini, con l’ac condiscendenza degli dei. Ma poi un giorno, si lasciarono prendere la mano dalla cupidigia e dall’ambizione e le loro azioni divennero malvagie. Scatenata la vendetta degli dei, solo Prometeo ebbe la lungimiranza di rendere pubblica ammenda e così fu graziato da Zeus, che gli concesse, in cambio della sua fedeltà, la padronanza delle arti e la conoscenza dei segreti celesti. Ma la natura titanica di Prometeo, ben presto, tornò a farsi prepotentemente sentire e, in un attimo di eccessiva sicurezza, donò agli uomini il fuoco della conoscenza, sottraendolo all’Olimpo. Quest’azione gli sarebbe costata un gravoso patimento: legato alla cima di un monte, di giorno un’aquila gli mangiava il fegato che ogni notte gli ricresceva. Sembrerebbe una banalità ricordare la famosa espressione ‚rodersi il fegato‛ che significa appunto ‚avvelenarsi l’anima‛ o ‚arrovellarsi la mente‛ nel cercare inutili soluzioni. Questa, di fatto, è la condizione esistenziale del potente che sempre si è dovuto guardare dalla minaccia di una possibile sconfitta. Un tempo cadevano vittime di una congiura di palazzo - come accadde a Cesare - oggi devono fare i conti con ‚tangentopoli‛ o con il ‚sexygate‛! Ma la musica non cambia: se si vogliono sfiorare le vette si deve prendere in considerazione anche il fatto che il palazzo dell’imperatore può diventare la sua prigione, se non la sua tomba. Più spesso è la follia a trarli in salvo: nel senso che, almeno così, si eludono il peso, la responsabilità e la consapevolezza della sconfitta. Non voglio prendere le parti dei potenti - o almeno non di tutti - ma va ricordato che non si è ‚potenti‛ solo quando si governa una nazione o si tiranneggia un popolo. Lo si è anche, e in egual misura, quando nel piccolo e nel segreto delle mura domestiche, si impone la propria legge ai figli o si maltrattano le mogli. 6


C’è una vecchia consuetudine secondo cui - seguendo la legge del ‚pesce grande mangia pesce piccolo‛ - il cane, in una famiglia, è l’ultimo anello nella catena dei soprusi. Sfido chiunque a negare che, almeno una volta nella vita, abbia nutrito sentimenti di rivalsa o di sopraffazione nei confronti di un proprio simile; foss’anche per difesa. Non c’è dunque modo di arginare il fascino del potere, semplicemente perché non si può negare a un uomo il suo naturale bisogno di auto- affermazione. Quello che invece si può e si deve ricordare è che quando la propria libertà e la propria forza diventano la schiavitù e la debolezza altrui, si è già intrapresa la strada del tramonto. Il potere che nasce dalla sconfitta altrui è solo un’illusione, destinata a crollare miseramente: la vera forza è una vittoria su se stessi.

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INTRODUZIONE

Sventur ata la terra che ha bisogno di eroi. (Brecht 1938-39, 634)

Definire il potere nei suoi molteplici aspetti ed esplorarne i

confini,

vaghi

e

indefiniti,

è

un'operazione

estremamente complessa, perché richiede un'analisi di fenomeni che attengono da un lato all'universo delle pulsioni,

cioè

delle

forze

e

delle

mete

inconsce

dell'animo umano, e dall'altro alle dinamiche del sistema sociale e alla sua organizzazione. Seguendo questo doppio

itinerario,

insieme

affascinante

e

terribile,

veniamo condotti sino a un luogo in cui lo studio della parola potere ci porta a capire la trasformazione - anzi la distorsione - del suo significato. Come

infatti

contenuta

nel

evidenzia dizionario

una di

sintetica Bobbio,

definizione Matteucci

e

Pasquino, la parola potere, che "indica la capacità o possibilità di operare, di produrre effetti", si precisa poi, nella

prassi

sociale,

come

"capacità

dell'u omo

di

determinare la condotta dell'uomo: potere dell'uomo sull'uomo" (Bobbio-Matteucci-Pasquino 1990, 838). Tuttavia l'obiettività concisa e lapidaria di una definizione di

dizionario

non

è

sufficiente

a

comprendere

esaustivamente i significati del fenome no 'potere': essa evidenzia solo il precipitato finale della metamorfosi del 8


termine e non dice nulla, invece, sul mistero del suo mutamento. Soprattutto essa non coglie - anzi troppo frettolosamente le pone fra parentesi - le implicazioni e le radici sociali del fenomeno, laddove invece è proprio nel territorio di confine tra la società e l'individuo che si estende una landa deserta, una terra di nessuno, in cui si compie la terribile metamorfosi: lì la parola "potere" rivela gli scenari inquietanti di una sfida: "la sfida dei potenti". La definizione di Bobbio, Matteucci e Pasquino esprime un'idea del potere come connesso alle esigenze di controllo,

di

ordine,

di

organizzazione

e

gestione,

connaturate nell'essere umano. Solo in virtù di queste esigenze e della capacità di soddisfarle, l'uomo ha potuto sopravvivere,

fornendo

risposte

efficaci

all'ambiente

ignoto e ostile che lo circondava. Anche nell'ambito dell'analisi sociologica, la nozione di potere si è andata configurando come produzione di senso e come esigenza di ordine sul mondo; anzi, è proprio nei meccanismi della costruzione delle strutture sociali

e

dei

loro

processi

d'influenza,

che

questo

concetto positivo del potere ha avuto modo di esprimersi. Esattamente ciò che ha concettualizzato la psicol ogia sociale: la produzione di tante costruttive idee di potere e

di

controllo

sulla

realtà,

di

cui

noi

tutti,

quotidianamente, abbiamo bisogno per organizzare la nostra esistenza.

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I teorici dei sistemi sociali, dai filosofi razionalisti del Seicento ai sociologi del XX secolo, hanno insistito nel definire qualsiasi sistema sociale come un aggregato regolato da leggi meccaniche o come un organismo retto da una sorta di "biologia sociale"; più recentemente se ne è parlato come di un flusso d'informazioni, u no scambio tra ambiente esterno e ambiente interno che modifica le regole di conservazione di ogni sistema. Al di là delle differenti prospettive, comunque, al centro delle riflessioni sul potere del sistema è sempre stato il sistema

stesso,

paragonato

a

u n'entità

soggetta

a

proprie leggi, non modificabili dalla volontà individuale, che da esso ne viene invece determinata e condizionata.

Ognuno di noi può constatare l'onnipresenza del potere e la sua pervasività che informa ogni aspetto della vita individuale e sociale, dall'unità minima e primaria quale è la famiglia, alle nostre istituzioni più semplici come la scuola, fino ai sistemi più complessi, rappresentati dalle istituzioni politiche e giudiziarie, dal sistema economico e da quello religioso. Da sempre questo stato di cose ha partorito, per reazione, forme di contropotere e di controcultura, le cui voci, spesso, si sono modulate sugli assoli dei cosiddetti "grandi individui": le "grandi individualità" della storia. La storiografia più recente ha ric ollocato nell'ambito culturale

(o

rappresentanti

controculturale) insigni

del

di

potere

appartenenza (o

i

contropotere),

sottolineando quanto questi in realtà fossero i portavoce 10


di idee già presenti, che essi soltanto incarnavano ed esprimevano. Talvolta questa lettura ha giustamente ridimensionato il personaggio e depotenziato il titanismo romantico che circondava tante agiografie di piccoli e grandi potenti; talaltra, però, ha ingiustamente lasciato nell'ombra il carisma individuale di alcuni uomini che hanno contribuito alla distruzione di vecchi sistemi e alla creazione di nuovi. Un breve esame delle evoluzioni che ha subìto la figura dell’eroe può aiutarci a comprendere come lo stesso fenomeno 'potere' si sia trasformato. In un recente convegno, tenut osi ad Asti, sulla letteratura del coraggio, sono vivacemente emerse quelle moltitudini che, almeno simbolicamente, hanno "dettato" le leggi dei potenti: dai forti e impavidi eroi del Foscolo agli inetti di Svevo, ugualmente rappresentativi di un modus viv endi, dai combattenti epici e mitologici ai carismatici Che Guevara e Martin Luther King, fino al fumettistico Tex o Superman, i cuori delle masse hanno sempre anelato a riconoscere un’individualità che si facesse portavoce nel dissenso e nel tormento - dei loro sogni amaramente traditi. Quello che più profondamente colpisce, nel seguire l'andamento di quest’evoluzione, è che, da qualche decennio a questa parte, l'‚eroismo‛ è scaduto a mero significante di furbizia (chi meglio si destreggia nelle maglie di un vischioso sistema impersonale è 'eroe'!) o, all’opposto, di inettitudine (coloro che soccombono nella pratica, ma non si lasciano morire nell’anima). 11


Lungi

da

noi

l'intenzione

di

celebrare

incondizionatamente il carisma individuale, vorremmo semplicemente restituire all'"eroe" il valore di un agire che, nel bene e nel male, ha inciso profondamente sul corpo sociale e sui sistemi politici: nel bene, come servizio reso alla collettività, nel male come impostura, finzione. Tenteremo di inoltrarci in quell a "terra di nessuno" che si estende tra lo spazio dell'individuo e i luoghi del sociale, e cercheremo di ricostruire i possibili scenari, le probabili dinamiche delle sfide demiurgiche - oppure soltanto tragicamente ridicole - che i potenti hanno lanciato ai sistemi, alle società e a se stessi. L'elemento

che,

fenomenologia

del

come

vedremo,

"potente",

è

caratterizza la

sua

la

capacità

camaleontica che, nel mentre assorbe le impressioni dell'ambiente e ne sintetizza le peculiarità e le voci, se ne fa insieme portavoce e trasgressore. Ma

l'intervallo

di

tempo

del

suo

potere

coincide

inesorabilmente con la parabola della sua esistenza. Oltre i limiti cronologici del suo trionfo non può andare: la sua morte fisica, spesso, non lascia eredi immediati. Le singole personalità seguono dunque il breve tragitto di ogni vita: ascesa e declino coprono un lasso di tempo più o meno breve. Ciò che si ripresenta regolarmente, invece, è la figura archetipica del potente che, in tempi e luoghi differenti, riappare e reincarna , con cadenze più o meno regolari, con tratti ricorrenti e in contesti storico 12


culturali di crisi o di generale "debacle" della società e dei suoi valori, la soluzione finale. Questa ripetitività rende il rappresentante del potere, qualunque sia il suo volto, assai riconoscibile, anche se conoscerne

la

fenomenologia

non

è

sufficiente

a

neutralizzarlo.

"Storicizzare" il potere sarà uno dei tanti modi per smascherarlo, perché è proprio con delle "maschere", con dei "travestimenti", che si ha a che fare quan do si percorrono a ritroso le tracce della sua ancestrale presenza nell'esistenza dell'uomo. Ed è proprio nella storia

che

il

potere

ha

dimostrato

una

vocazione

camaleontica, calandosi nei panni, negli scenari, nei linguaggi di coloro che, di volta in volt a, si sono trovati a gestire gli strumenti necessari per la sopravvivenza e per la vita. Si sono susseguiti perciò, con varia fortuna, i padroni della terra, i padroni delle anime, i padroni delle macchine, i padroni del denaro. Essi - come scrive Piero Ottone - hanno formato e formano la classe che domina la società con la sua ricchezza e con i suoi privilegi, come in altri secoli la dominava l’aristocrazia militare e terriera, di cui sono gli eredi. Vivono, come gli aristocratici di un tempo, in maniera diversa dai comuni mortali: tengono la loro corte nelle ville di Cape Cod o della Foresta Nera, o in Palazzi di città, massicci opulenti, inaccessibili [...] Viaggiano in modo diverso dal nostro, su treni speciali, aeroplani, elicotter i, senza mai mescolar si con noi [...] 13


Sono circondat i da ossequio e deferenza. La loro potenza è il denaro, incommensurabile quantit à di denaro, che si tramanda di generazione in generazione, e assicur a la continuità del lor o status

(come

la

grazia

divina

assicurava

la

continu ità

dei

monarchi e dei loro vassalli) (Ottone 1985,10 -11).

Questa

loro

irraggiungibilità,

diversità

si

fonda

dell'appartenenza

sul a

una

mito

della

"casta"

di

"separati"; mito alimentato e rafforzato dai mass -media, che costruiscono sui potenti vere e pro prie saghe e leggende. Esse sembrano nutrire il famelico immaginario popolare, in cui questi nuovi "olimpi" si offrono come icone di un Eden eterno e intangibile. Eppure basta una breve disamina di quelle che sono le più evidenti debolezze dei potenti per capire che gli ‚allori‛

nascondono la beffa, e che dietro le sembianze

di un forte si cela spesso un soggetto sofferente di una profonda sterilità psichica. Il legame perverso che si instaura tra chi domina e chi è dominato trasforma il potere in una sort a di malattia sociale. Sia ben chiaro, non intendiamo affermare tuot court l'equazione: potente = malato. Hitler, Stalin e gli altri personaggi che incontreremo non furono affatto dei folli come molti vorrebbero farci credere. La nostra indagine segue il percorso delle scienze umane e sociali, quindi, d’ora in poi useremo il termine malattia solo in senso figurativo per indicare una condizione abnorme che colpisce l'individuo e l’organismo sociale.

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Questo libro vuole contribuire a svelare, sulla scia di tanti altri studi di carattere storico -sociale, ciò che si nasconde dietro ogni forma di potere. Un viaggio che ci condurrà

alla

presa

di

coscienza

della

sua

realtà

effimera, sempre in bilico tra verità e finzione, tra gloria e caduta, e i cui protagonisti s eguono un destino già segnato. Sin dalle prime pagine cercheremo allora di mettere in guardia da quella facile tentazione che è il potere, rivelandone le seduzioni e le maschere.

I

potenti

costituiscono

una

galleria

interessante

di

personaggi tragici e grotteschi. Emanano sicuramente il fascino

sottile

del

"nichilismo",

di

quel

sentimento

decadente nutrito di autoassolvimento che ha contagiato tutti noi, figli di un secolo che si è aperto con le promesse e i festini della

belle epoque

ed è poi

precipitato negli orrori di due ecatombi mondiali. I territori privilegiati del Potere, come la politica e l’economia, regolati da leggi ferree, sono popolati da personaggi patetici, che esercitano sugli altri un carisma enorme, non di rado fondato sull’evidente impos tura di una presunta liceità e ‚normalità‛ del ruolo ricoperto. Scopriremo che l’inganno e la seduzione del potere si perpetuano

attraverso

codici

linguistici

non

necessariamente basati sulla sopraffazione, l’abuso e l’esclusione, e che il dogmatismo, l'a utoritarismo e la presunzione

di

possedere

la

verità

assoluta

hanno

trasformato messaggi di salvezza e valori di giustizia in pura violenza. Persino il diritto, che per sua natura 15


dovrebbe essere lo strumento per la riaffermazione della giustizia, è degenerato in un odioso sistema di potere.

La seconda parte del lavoro vuole analizzare un altro aspetto della comunità umana: la spinta di ogni uomo verso la libertà. La libertà non è solo un desiderio che riposa nelle profondità

del

cuore

umano,

bensì

è

una

f orza

irresistibile che ha permesso a milioni di persone di gridare il proprio ‚NO‛ agli oppressori. Dopo un breve viaggio sulle tracce di un destino che accomuna i potenti di ogni epoca, condannati a una inevitabile e misera fine, lanceremo anche noi la no stra ‚sfida‛:

una sfida giocata all’insegna della ragione,

dell’ironia, della demistificazione. Lo sviluppo della cultura e di una nuova coscienza sociale potranno garantirci per il futuro dal pericolo sempre presente di rigurgiti totalitari, dal perpetrar si di ataviche ingiustizie, perché, spesso, è proprio un tessuto sociale ignaro a legittimare i potenti e i loro abusi. Basterebbe riscoprire la bellezza di trovarsi di fronte all’immenso cielo della libertà per sconfiggere la paura; quella stessa paura che, nella nota novella di Pirandello, costringeva Ciaula a una vita disumana all’interno della buia ma sicura solfara.

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CAPITOLO PRIMO L’OMBRA DEL PERICOLO

Il mio demone era rimasto a lungo chiuso in gabbia e uscì fuor i ruggendo. Fui subito conscio, prima ancora di aver finit o la pozione, di una più sfrenata e furiosa volontà di male. (Stevenson 1885,88)

La nascita del tiranno

Narrando, nelle sue memorie, della violenza politica del regime nazista, Gunter Holzmann descrive un meeting del Partito Nazionalsocialista in cui era presente il Fhürer in persona. Holzmann ricostruisce e rivela la sensazione provata dinanzi a

Hitler:

quella

di trovarsi di fronte a un

impostore. Era innanzitutto rimasto colpito dal fatto che, proprio colui che aveva teorizzato una dottrina basata sull’esercizio della forza e sul predominio della razza ariana, si presentava come un uomo gracile, fragile, affatto somigliante agli eroi biondi e muscolosi che veneravano

i

nazisti:

‚Con

quell'uniforme

bruna,

sembrava la caricatura di un militare‛ (Holzmann 1995). Nel suo racconto lo scrittore ricorda che Hitler, durante il comizio, gesticolava e urlava, raggiungendo in certi momenti l'acme parossistico dell'odio e dell'isteria, e che, ciononostante, ‚aveva sulle masse un incredibile 17


effetto

ipnotico‛

(Ibidem).

La

massa

si

lasciava

trasportare da quella retorica malsana e fanatica, senza esercitare il benché minimo senso critico: Egli prometteva a ognuno ciò che più poteva desider are: ai pover i, pane e lavor o; ai r icchi, pr ofitti ancora più grandi; e alla Germania contenuto,

un ma

avvenire il

modo

di in

gloria.

L’importante

cui

esprimeva.

si

non

er a

il

Ascoltandolo,

present ivo il terribile cataclisma che questa massa f anat izzata poteva pr ovocare (Ibidem).

Ad ogni incontro con i ‚potenti" del regime, Holzmann si rendeva sempre più conto di essere alle prese con personaggi ‚penosi‛: ‚dappertutto stivali‛ - racconta Verso il 1932 in tutt a la Germania si moltiplicavano come funghi gli uomini in cam icia bruna che calzavano lucidi stivali. Per camminare con passo fermo e arrogante, darsi un’aria più maschia, più marziale. E calpestare, ferire, distrugger e [...] Indossar e la cam icia bruna dava agli uomini la sensazione di essere potenti, uniti, di m ilitare per una causa superiore; la camicia br una li liberava dalle frustrazioni, mentre dava loro cibo, birra e un sent iment o di impunità (Ibidem).

Analizzare le circostanze storiche che hanno determinato la nascita, l’ascesa e la sconfitta del nazismo è stato e resta compito degli storici; ma l’e sperienza personale di Holzmann con le ‚camice brune‛, la sua visione e il suo sguardo rappresentano un contributo molto significativo: attraverso questo sguardo, l’uomo che ha marchiato col sangue il secolo che si chiude, l'uomo temuto e riverito per il suo potere e per il terrore sistematicamente 18


esercitato contro gli uomini, appare come un soggetto essenzialmente debole e frustrato che, nella retorica, spesso ridicola e banale, aveva trovato un formidabile strumento di forza. Sono sufficienti allora l’insicurezza, l’arroganza da essa derivante e le frustrazioni che ne costituiscono la logica conseguenza a generare un tiranno? L’etimologia incerta del termine tiranno non ci aiuta di certo a comprendere la natura e le caratteristiche del potente. Sappiamo però che la tirannia, come vera e propria forma di governo, è apparsa per la prima volta nel mondo greco attorno al VII secolo a.C. Le Poleis a quel tempo erano degli organismi sociali e politici retti da un'oligarchia di nobili, i cui valori e costumi erano spesso in contrasto con la vocazione marinara e mercantile della loro economia. La loro esigenza di espansione e di crescita economica si scontrava con gli interessi di una casta ristretta, agraria e conservatrice. Queste città iniziarono a trasformarsi, da sede di templi e uffici governativi saldamente in mano all’aristocrazia, in un vero e proprio organismo sociale ed economico, luogo di produzione artigiana e di commerci. Si trattò di una profonda metamorfosi che portò alla costituzione di un nuovo ceto produttivo, quello della plebe urbana, che, pur essendo composto di uomini liberi, forniti di denaro e di

capacità

professionali,

era

escluso

dall’amministrazione degli affari e dalla gestione del potere. 19


Quando questo nuovo ceto riuscì a imporre un pro prio rappresentante nel governo di molte città lo chiamò ‚tiranno‛, semplicemente per indicare il suo capo. In origine, insomma, la tirannia pur rappresentando una forma di governo non legittima, e spesso conquistata con mezzi rivoluzionari, svolgeva una f unzione democratica. Il tiranno, infatti, era in qualche modo il rappresentante del popolo, che lottava contro le antiche oligarchie a tutela degli interessi delle classi emergenti e di quelle meno abbienti. La sua ascesa al potere, pertanto, era appoggiata e voluta dal popolo che nel tiranno vedeva un suo rappresentante. Basti pensare che, dei tiranni antichi (quelli cioè dei secoli VII e VI a.C.), solo Ipparco di Atene e Periandro di Ambracia morirono di morte violenta, assassinati per ragioni personali e non politiche. Solo intorno al VI secolo a.C., quando il nuovo ceto mercantile e industriale aveva ormai maturato al proprio interno un gruppo di dirigenti politici, il potere non fu più affidato nelle mani di una sola persona, e il passaggio dalla tirannia alla democrazia esercitata dagli eletti del popolo determinò di fatto anche un nuovo significato del termine tiranno, che venne sempre più spesso utilizzato per

indicare

colui

che,

avendo

usurpato

il

potere,

governava in maniera dispotica. La cosa più interessante comunque sta nel fatto che la nascita del tiranno, sia alle origini che nelle epoche successive, presenta alcune caratteristiche costanti. 20


Prima di tutto la presenza di gravi crisi economiche e sociali spesso accompagnate da forti scontri polit ici. Il tiranno

in

questi

casi

diventa

il

portavoce

di

quell’insoddisfazione di massa che rende il potente ‚necessario‛,

facendogli

ottenere

l’appoggio

di

consistenti fasce di popolazione: la scelta del ‚capo‛ avviene per acclamazione popolare. In secondo luogo: l’utilizzo della forza come mezzo per garantire l’affermazione del potere. Lungi dall’essere considerata un pericolo per la libertà e la democrazia essa viene accettata dalle masse che, anzi, desiderano l’uomo forte. Queste

caratteristiche

si

sono r iprodotte

anche

nei

momenti di ascesa dei tiranni conosciuti in epoche più moderne e, sotto questo aspetto, è chiaro che non esiste una risposta univoca o unidirezionale alle domande che ci eravamo posti. Non si può infatti pensare che il tiranno sia unicamente il frutto di una patologia individuale, ma è altrettanto vero che non sono solo le masse a generare un tiranno, dato che in effetti queste non fanno altro che sceglierlo e riconoscerlo come tale. Esiste

insomma

una

reciproca

interazione,

una

commistione di elementi eterogenei che determinano la nascita di un potente e per questo non è semplice una spiegazione unidirezionale del fenomeno. Vedremo che, forse, solo gli approdi e le sinergie conoscitive interdisciplinari delle attuali scienze sociali possono formulare delle risposte più concrete. 21


I

loro

studi,

infatti,

si

muovono

sul

terreno

delle

prospettive culturali attraverso cui l’uomo ha prodotto l’idea del potere.

Il desiderio di immortalità

La ricerca storica, gli studi antropologici, sociologi ci e psicologici hanno dimostrato che sia nelle forme più esteriori, sia nelle sue radici più profonde, il potere è una delle componenti basilari delle attività umane. Queste discipline hanno ricondotto i termini dell'analisi del fenomeno all'interno di ca tegorie chiare ed evidenti: in altre parole, hanno contribuito in maniera decisiva allo smascheramento di gran parte delle tipologie ricorrenti di potere. Elias Canetti, autore dell’imponente saggio Massa e potere, ha attraversato il nostro secolo, nomade lui stesso tra culture e mentalità, cercando di comprenderne il fenomeno più caratterizzante: il totalitarismo di massa. Egli aveva ben intuito come il Novecento fosse una sorta di territorio dove stavano fruttificando delle radici nate non solo in epoche molto lontane, ma addirittura in una fase

aurorale,

se

non

ancestrale,

della

convivenza

umana. Questo geniale scrittore, romanziere e saggista al tempo stesso, fece della "transculturalità" un metodo d’analisi di straordinaria ampiezza e ponderatezza. 22


La transculturalità è la capacità di rintracciare delle coordinate comuni alle varie culture e di creare su di esse una "grammatica" strutturale del comportamento umano, sociale e individuale. Proprio

attraverso

uno

studio

transculturale

delle

ideologie e del potere, l’antropologia e la sociologia sono riuscite a scardinare lo zoccolo più duro di ogni sistema di dominio: l’etnocentrismo occidentale. Queste scienze si sono avvalse di tale metodo di indagine per comparare le diverse tipologie statuali e rintracciare nel loro interno delle identiche e trasversali microstrutture di potere e non a caso hanno assunto come loro padri fondatori Rousseau e Montesquieu, che proprio

in

Hobbes

avevano

trovato

il

loro

‚idolo‛

polemico. Hobbes,

nel

Leviatano,

sovvertendo

la

tradizione

aristotelica dell’uomo come animale sociale, formulò l’idea secondo cui la costituzione dello stato derivava da un patto o contratto artificiale. Perciò, per Hobbes, il contratto sociale non è proprio dello stato di natura, bensì è un prodotto ra zionale. Lo stato di natura è l’isolamento degli individui che, essendo in una situazione di uguaglianza assoluta e di diritto illimitato di ognuno su tutte le cose, vivono in una condizione di guerra, in cui ogni uomo si pone contro tutti gli altri uomini: "homo homini lupus". Stando così le cose, secondo il pensatore inglese, la sola via d’uscita è la costituzione dello stato come aggregazione degli individui e delle loro volontà in una volontà unica. 23


Tale volontà unica si manifesta mediante il conferimen to di tutti i poteri e di tutti i diritti dello stato di natura, tranne il diritto alla vita, alla persona del sovrano, dunque del potente. Ma questo sovrano non è identificato da una persona in carne e ossa, bensì da un’entità astratta, una sorta di soluzione

artificiale,

"legibus

solutus",

partorita

dal

pensiero razionalistico e meccanicistico che pervadeva la cultura hobbesiana. Esso

s’identifica

con

la

"chimera"

terribile

e

indistruttibile, eterna e inattaccabile del "leviatano", il mostro biblico di cui si parla nel libro di Giobbe. Rousseau riprende la lezione hobbesiana che smantella l’illusione aristotelico-cristiana di uno stato di natura sociale e ordinato. Ma se la laica scoperta di Hobbes conduce alla monarchia assoluta, Il Contratto sociale di Rousseau è l’impalcatura di ogni democrazia. Esso

è

l’amalgama

armoniosa

degli

uomini

che

rinunciano alla loro libertà illimitata, dettata dalla natura, per ricevere in dono lo stesso sacrificio dai propri simili, e non per consegnarsi nelle mani di un sovr ano, come auspicava Hobbes. Lo stato perciò diventa l’espressione di una volontà generale, inter pares, dettata all’unisono da più voci. Ma è soprattutto con le Lettere persiane di Montesquieu che si dà una definitiva "spallata" all’etnocentrismo occidentale e si impartisce una lezione fondamentale di democrazia come orchestrazione delle differenze, di un potere come servizio alla comunità degli "uguali ma 24


diversi". Solo su queste basi laiche il potere non solo può essere smascherato, ma riconsegnato alle s ue radici storico-filosofiche,

sia

nella

prospettiva

dell’ ancien

regime, sia in quella delle moderne democrazie liberali. L'analisi

socio-antropologica

del

potere

ha

quindi

permesso al nostro secolo di guardare all'impalcatura filosofica e concettuale, che ha sostenuto lo spirito di potenza dei totalitarismi di massa degli anni Venti -Trenta e

Quaranta

in

Europa,

con

una

nuova

prospettiva

interpretativa. Ma esistono degli aspetti che le scienze umane hanno tratto dal fondo oscuro della psicologia individuale e collettiva e che Elias Canetti ha felicemente sintetizzato nel titolo del suo volume, Massa e potere. Massa e potere sono le due facce di una stessa medaglia:

l'una

non può fare

a meno dell'altro,

e

viceversa. Inscindibilmente legati, hanno generato del le situazioni ricorrenti nella convivenza civile e nelle forme del controllo sociale. In questo modo si sono potute evincere delle categorie generali d'analisi con cui si è tentato di capire in base a quali dinamiche un consorzio di individualità distinte diventa "massa"; un'entità che, in Canetti, ha qualcosa di inorganico, una brutalità quasi materica. Perché emerge un potente, un individuo singolo che riesce a gestire questa concrezione di forza bruta e di energia? 25


A quanto pare, Canetti è convinto della presenza di una logica ineludibile, quasi una biologia fisica, che presiede all'esistenza di questo magma, che è la massa, che inevitabilmente genera il potente. Dalle epoche più arcaiche sino ai nostri giorni i binari per così dire obbligati del "dialogo" tra massa e potenti sono stati sempre gli stessi: l'accrescimento materiale e fisico della società e la formazione della figura del nemico esterno e interno al corpo sociale. Il tiranno nasce proprio come risposta a questa esigenza di accrescimento fisico della collettività ed è finalizzato a fronteggiare un nemico esterno o interno. Abbiamo detto che la tirannia, alle origini, ha svolto una funzione democratica. Essa in effetti ha ampliato il corpo sociale avente diritto a partecipare alla designazione d ei capi. Ma è proprio in quel momento che la massa comincia

a

delinearsi

tendenzialmente

come

determinata

da

tale: una

indifferenziata, forza

cieca

di

accrescimento e di conservazione di sé. Il tiranno è ad essa complementare. Ora, scrive Canetti, "l'aggressione esterna alla massa può solo renderla più forte [...] l'aggressione dall'interno, invece, è veramente pericolosa" (Canetti 1960,27). Il tiranno, che nasce sulla spinta di un'aggressione che la massa subisce dall'interno, si sente costantemente in pericolo, continuamente assediato. E' il caso di grandi imperi e imperatori o dittatori assurti ai fasti del comando supremo, dopo una guerra civile, una crisi economica, istituzionale, o quelli che sono nati 26


sulle

ceneri

di

un

precedente

regime

collegiale

e

parlamentare la cui partecipazione era ristretta a un’élite culturale ed economica. Gli esempi più illuminati, in questo senso, sono l'Impero Romano fondato da Ottaviano Augusto, quello francese di Napoleone Bonaparte, la dittatura di Benito Mussolini in Italia e quella hitleriana in Germania. Ottaviano diventa Augusto dopo un secolo di guerre civili che avevano insanguinato le istituzioni repubblicane (ma profondamente

oligarchiche)

dello

Stato

Romano;

Napoleone diventa il campione di un ordine restaurato dopo le conquiste democratiche, ma anche dopo gli orrori e i terrori della Rivoluzione Francese; Mussolini crea il Fascismo

sulle

rovine

e

gli

"avanzi"

delle

grandi

rivendicazioni popolari del Comunismo e del Socialismo, conculcate e aggirate dai parlament ari liberali; Hitler, imitando Mussolini, tocca le corde più segrete e profonde della cultura germanica, soprattutto il militarismo: l'unica forma di democrazia spontanea che il popolo tedesco aveva mai conosciuto nella sua storia e che le incertezze della Repubblica di Weimar non potevano realizzare. Ma l'essere nati dal fondo oscuro della discordia li rende insicuri, li rende preda della paura di cadere, perché il "nemico" non è fuori, al di là dei confini della "casa patria", che essi stano edificando, m a è "in cantina". E' dentro "la casa". Per la prima volta, in queste condizioni, i potenti della terra sanno di non essere eterni 27


i loro suddit i sanno che anche per i loro giorni è stabilita una fine: fine che si può perfino affrettare. [...] Nessun sovrano può essere certo per sempre dell'ubbidienza della sua gente. Finché si fanno uccider e da lui, egli può dormire tranquillo. Ma non appena uno si sottr ae alla sua sent enza, il sovrano è in pericolo (Ibidem,280).

Canetti sottolinea che "nel potente è semp re viva la sensazione di tale pericolo" e che le angosce del potente devono aumentare quant o più i suoi comandi vengono eseguiti. Egli può solo quietare il suo dubbio dando un esempio. Ordinerà quindi un sacrif icio capitale a proprio favore, senza che ab bia particolare importanza la colpa della vitt ima [...] I suoi suddit i più sicur i, si potrebbe dire i suoi sudditi perfett i, sono coloro che per lui hanno avuto la m orte (Ibidem).

Ordinare

la

morte

e

vedere

la

morte

conferiscono

energia, una straordinaria forza, al potente: la forza del sopravvissuto, di colui che sa di esistere ancora quando il nemico non c’è più. Quest'istinto del potente riposa su un desiderio comune a tutti gli uomini: il desiderio di immortalità. Egli sa che la morte è il massimo peri colo e vuole tenerla lontana. Per questo si arroga il diritto di dare la morte e di concedere la grazia della vita. Non è possibile, dunque, pensare che i regimi totalitari, come il nazismo e il fascismo, siano riusciti a imporsi su una realtà sociale del tutto ostile, o che siano stati solamente il frutto dell’azione di pochi folli, "pagliacci" magari un po' ciclotimici. 28


Anche Foucault ha scritto che le masse non sono state ingannate o illuse da quei regimi, ma li hanno in qualche modo "desiderati": Accade che le masse, al momento del f ascismo, desiderino che alcuni esercit ino il potere, alcuni che tut tavia non si confondono con esse, poiché il potere si esercita su di loro ed a lor o spese, fino alla loro morte, al loro sacrif icio e massacro, eppure esse desiderano questo potere, desiderano che quest o poter e sia esercitato (Foucault 1971 -76, 116).

I regimi totalitari allora sono stati l’espressione di una più generale "malattia" della società a cui, più che attraverso le armi, poteva essere messo riparo c on una diversa maturità intellettuale e culturale. William Sheridan Allen, nel saggio Come si diventa nazisti, racconta la metamorfosi di un piccolo centro dell’Hannover. Nessuno poteva immaginare che tale trasformazione

avrebbe

preso

piede

proprio

lì,

a

Thalburg: una tranquilla cittadina di diecimila abitanti dove tutti si conoscevano e socializzavano come in una grande

famiglia.

profondamente

Gente

umana,

normale,

con

le

sue

tranquilla paure

e

i

e suoi

desideri. Eppure proprio questo piccolo centro subis ce una lenta e inesorabile

mutazione,

diventando

uno

dei

tanti

agglomerati controllati e gestiti dai nazisti. Tutto in maniera graduale, quasi indolore. L'unica peculiarità dei thalburghesi - sottolinea Allen - è che stavano attraversando un periodo di cri si economica 29


e occupazionale. I pesanti debiti di guerra, a cui la Germania

doveva

sottostare

dopo

il

Trattato

di

Versailles, rendevano difficile una ripresa economica; il timore che l'uomo comune nutriva nei confronti di un possibile

avvento

dei

Socialdemocratici

era

sproporzionato, tanto da giustificare la risposta violenta che seguì. Era il clima ideale in cui l'insicurezza per il futuro si mescolava a un diffuso senso di discredito per la politica in genere. In questo scenario - scrive Gallino (1994) - i Nazisti seppero proporsi come gli unici in grado di distribuire sicurezza

attraverso

promesse

di

un

radicale

rinnovamento in campo economico e sociale. Attraverso un'abile propaganda non fu difficile ottenere consensi, senza che alcuno di quegli onesti c ittadini potesse rendersi conto di cosa stava accadendo. Allen conclude il suo saggio affermando che il problema del Nazismo fu prima di tutto un problema di percezione. Quasi nessuno a Thalburg afferrò in quei giorni quel che stava accadendo; mancò la co mprensione ver a di quello a cui la città sarebbe andata incontro quando Hitler avesse conquistat o il potere; mancò la capacità di capire realmente quel che fosse il nazismo (Allen 1965, 279).

Fu questa gradualità, questo "coup d'état a rate", come è stato definito, a rendere possibile una così impensabile trasformazione. 30


I

thalburghesi

-

racconta

Allen

-

cominciarono

ad

accettare il regime di terrore che si veniva instaurando senza più porsi il problema della legittimità delle azioni, tutto giustificando nel nome del presunto "pericolo rosso" da combattere. Si accettò anche la sistematica disgregazione di ogni piccola comunità sociale, come i sindacati, i club e i circoli privati, rinunciando così a ogni tipo di vita collettiva che non fosse direttamente con trollata dai nazisti. Vennero persino accettate le misure di boicottaggio contro gli ebrei accusati di essere i fautori di una propaganda contro la Germania e di maltrattamenti contro i tedeschi che si trovavano nei paesi stranieri. Thalburg è solo uno dei molti esempi possibili, ma la sua normalità, che diventa apoteosi del nazismo, indica eloquentemente la fragilità su cui si regge una comunità politica quando si uniscono, in una miscela esplosiva, crisi sociale e soggetti politici "malati" pronti a far l eva sui timori e sulle incertezze delle masse. Come ha scritto Luciano Gallino, nella introduzione all’edizione italiana del libro di Allen, "non esiste nulla capace di vietare che ciò che è accaduto a Thalburg [...] possa prima o poi accadere di nuovo" (Gallino 1994,VIII). L’unica speranza, per un avvenire migliore, sta nel recuperare un profondo senso etico dello Stato e della politica, ma anche e soprattutto nel rendersi consapevoli di quell’ombra che alberga silente in ognuno di noi e che Stevenson definì ‚una più sfrenata e furiosa volontà di 31


male‛. Non voglio con questo avallare la massima hobbesiana ‚homo homini lupus‛, ma rimarcare il fatto che sono poche le persone che, vedendosi o sentendosi negare

le

qualità

che

garantiscono

della

loro

sopravvivenza, non ricadono in uno stato di cieca e selvaggia vendicatività. In ciò si riscontrano ancora le nostre radici e la nostra discendenza dal mondo animale, da cui ci discostiamo talvolta

solo per l’apparente

‚banalità del male‛: se l’animale, infatti, difen de il proprio cibo e la propria prole, l’uomo è capace di uccidere per denaro o per il prestigio. L’ombra, metafora di quella forza che Goethe indicava come ciò che vuole il male ma opera il bene, rappresenta il pericolo sovversivo e distruttivo che alberg a in ognuno di noi e che, se arbitrariamente o subdolamente diretta, può

trasformarci

inavvertitamente

nel

carnefice

del

nostro simile. Avremo modo più avanti di capire come ciò possa accadere.

32


CAPITOLO SECONDO LE MASCHERE DEL POTERE

La sua m itezza le e r a d’ostacolo. Quando si ribella una sim ile natura, anche se oltrepassa i limit i, si vede sempre che si sforza, si costringe, e che a lei stessa per la prima riesce impossibile di vincere la propr ia moder atezza e la vergogna. Per

questo,

talvolt a,

nature

s im ili

eccedono,

tant o

che,

osservandole, non si crede ai propr i occhi. Al contrario, la natura

abituat a

al

vizio

attenua,

e

agisce

ancor

più

sporcament e, salvando l’or dine e la decenza, con la pretesa di imporsi. (Dostoevskij 1876,51)

L'impressione di esistere

Se quelli che abbiamo trattato sinora sono gli aspetti per così dire esterni e storici del fenomeno potere esiste però il lato ‚interno‛, quello psicologico, e come tale il più difficile da comprendere e definire. E’ la struttura interiore, la forma mentis di chi entra nel ‚dialogo‛ inconfondibile del potere. Abbiamo

visto

che

esiste

una

vera

e

propria

complementarità tra il potente e la massa, che riposa in un

bisogno

bisogno?

reciproco.

Quali

sono

Ma le

da

radici

dove

nasce

profonde

di

questo ques ta

‚insoddisfazione di massa‛, di questo malessere sociale e individuale? 33


Gli ‚esperti‛ della psiche umana si sono occupati spesso del "bluff" e del vuoto che si nascondono dietro la maschera del potente. Non è questa la sede idonea per una trattazione completa ed esaustiva di tale analisi, che ci

condurrebbe

lontano

dagli

obiettivi

della

nostra

ricerca. Ci limiteremo, quindi, a individuare solo alcune linee

di

fondo

che

la

psicologia

ha

tracciato

per

comprendere le dinamiche e le costanti che spingono un individuo alla ricerca del potere. Aldo Carotenuto (1987) ed Erich Fromm (1941) hanno formulato interessanti e significative teorie intorno al concetto di potere e alla figura del potente. Il primo ha evidenziato come alla base di ogni forma di dominio vi sia una palese incapacità creativa che si risolve in bisogno di reprimere l’originalità altrui. I potenti - scrive Carotenuto - vivono con ‚l'idea che la propria affermazione sottintenda necessariamente l'esclusione o il fallimento di altri" e sentono l'es igenza "di dominare i propri simili‛ (Carotenuto 1987,143). Per queste persone l’atto creativo è la testimonianza di una capacità di vivere che manca loro. La volontà di esercitare il controllo sull'altro nasce dall'invidia e da un profondo sentimento di vuoto e di sterilità (Ibidem,145). Ecco dunque colto il legame tra desiderio di potere e disagio

esistenziale

irrisolto:

la

mortificazione

delle

potenzialità creative genera la paura di vivere, la paura dell’altro, la paura di lottare per la vita. Questa pa ura, che è la negazione stessa della vita, è il disagio che si cela dietro la maschera di ogni potente. 34


All’apparenza

tutto

ciò

non

dovrebbe

costituire

un

problema per la società ma, quando a queste persone ne corrispondono debolezza,

altre

hanno

che,

bisogno

avvertendo dell’"uomo

la forte"

propria che

li

rassicuri e li riscatti dalle loro paure, il pericolo diventa collettivo e la sua portata assume dimensioni allarmanti. Come già individuato da Canetti, la psicologia delle masse,

la

formazione

di

una

"vol ontà

collettiva",

rappresenta una variabile difficilmente controllabile e circoscrivibile.

Essa,

infatti,

come

scrive

Freud

‚abbraccia una quantità incalcolabile di problemi‛ (Freud 1921,262). Nel saggio dal titolo Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Freud dedica un interessante capitolo alla teoria che Le Bon ha enunciato nel libro Psicologia delle folle (1895). Uno degli aspetti più interessanti, almeno per quel che riguarda la nostra indagine, è l'individuazione da parte dell'Autore, di ‚anima collettiva‛ che assume una identità a sé stante, un’anima in cui ciascuno perde la propria individualità. In tal modo è come se venisse a formarsi ‚un carattere medio degli individui appartenenti a una massa‛ (Ibidem,265) che al contempo fa acquisire a ogni partecipante delle nuove caratteristiche. Che cosa accade, allora, a coloro che diventano parte di una massa? Cosa li porta a formare questa volontà collettiva? Una delle ragioni può essere letta nelle parole di Le Bon: 35


L’individuo in massa acquista, per il solo fatto del numer o, un sentimento di potenza invincibile. Ciò gli permette di ceder e a istinti che, se fosse rimasto solo, avrebbe necessar iam ente tenuto a freno. Vi cederà tant o più volent ier i in quanto - essendo la

massa

anonima

e

dunque

irresponsabi le

-

il

senso

di

responsabilità, che raffrena sem pre gli individui, scompar e del tutto (Le Bon, cit. in Freud 1921,265).

L’individuo,

insomma,

comincia

a

sentirsi

parte

integrante della massa sulla spinta di quella che Freud definisce una innata pulsione gregaria. Il gruppo-gregge assume, dunque, una sua volontà che coinvolge tutti i suoi componenti, spingendoli a rinnegare le proprie individualità per abdicarle in favore di un interesse comune. In ogni sfera sociale, dalla più alta alla più bassa, non ap pena l’uomo non è più isolato, cade sotto la legge di un capo. La maggior parte degli individui, specialmente nelle masse popolari, non avendo nessuna idea netta e ragionata, al di fuor i della lor o specialit à, sono incapaci di guidarsi. Il condott iero serv e lor o da guida (Le Bon 1895, 117).

Questa rinuncia al ‚sé‛, secondo Le Bon, pone l’individuo in un vero e proprio stato ipnotico. Ecco allora il venir meno di ogni elemento di razionalità a cui si accompagna il sorgere degli istinti più primitivi che, in quanto tali, sono facilmente governabili dal potente. La massa può venir eccitata solo da stimoli eccessivi. Chi desidera inf luenzar la non ha bisogno di rendere logiche le

36


proprie argomentazioni, deve dipingere a fosche tinte, esagerare e ripeter e sempre la stessa cosa. [...] Se però i bisogni della massa la portano verso un capo, le doti personali di costui dovr anno corrispondere alle aspett ative della massa. Perché essa creda in lui, anche il capo deve subir e il fascino di una fede (di un’idea) potente, deve posseder e una volontà forte, imper iosa, tale da venir accettata dalla massa abulica (Freud 1921, 271).

Se esiste una volontà delle masse, dobbiamo sapere che questa volontà si forma e si trasforma sulla base di numerosi elementi sia interni che estern i. Essa vive di emozioni, eventi e circostanze che riflettono il momento storico; testimonia le crisi, le insicurezze e le tensioni

insite

nell’evoluzione

politica

e

sociale;

interiorizza e amplifica le dinamiche del potere, della lotta per il potere, fino al punto di acquisirne la stessa conformazione. Il "compito" del potente diventa quello di saper riconoscere e toccare le corde del malessere, farle vibrare al massimo, dire ciò che la massa vuole sia detto, prescindendo da ogni reale bisogno. L’abilità n el fornire risposte, anche le più rozze, a un sentimento collettivo di timore e paura fa dimenticare quello che Fromm scriveva all’inizio del secondo conflitto mondiale, ossia che il termine "potere" può assumere sul piano psicologico due significati molto diversi: "uno esprime il possesso di un potere su qualcuno, la possibilità di dominarlo, l'altro significato è il possesso del potere di fare qualcosa, di essere capace" (Fromm 1941,134).

37


La messa a fuoco di questo doppio registro di significato ci è parsa la base fondamentale per una migliore comprensione del fenomeno potere tout court. La nostra analisi, quindi, si svilupperà tenendo come riferimento questa duplice caratterizzazione. Queste tematiche furono affrontate da Fromm in uno studio di carattere psicologico, compiuto sul nazismo nel 1941, intitolato Fuga dalla libertà, a cui Carotenuto ha, per così dire, risposto con ‚Fuga nel potere‛, un capitolo contenuto

nel

approfondito,

saggio

Eros

attualizzandola,

e

Pathos, l’analisi

in del

cui

ha

binomio

frustrazione - dominio. Fromm aveva intuito che il potere come padronanza o capacità non ha nulla a che vedere con il dominare. Quando parliamo d’impotenza - scrive: non pensiamo alla persona che non riesce a dominare gli altri, ma alla persona che non è in gr ado di fare quello che vuole. [...] Nella misura in cui un individuo è capace, cioè è in grado di realizzare

le

sue

possibilità

sulla

base

della

libertà

e

dell' integr ità del suo Io, non ha bisogno di dominare, e non prova alcuna brama di potere. Il pote r e nel senso del dominare è la perversione della capacità, proprio come il sadismo sessuale è la perversione dell'amore sessuale (Ibidem,134).

Fromm approfondisce la sua analisi individuando, nel fenomeno della volontà di dominio hitleriana, una matrice sadomasochista che Carotenuto estende al dominio in generale, esaminando due radici essenziali del potere: la

38


percezione, fondamentalmente inconscia, della propria incapacità e la formazione della figura di affidamento. La percezione della propria incapacit à ‚nasce da una specie di ‘legge naturale’ della nostra cultura e della nostra esperienza di vita‛: il successo, in cui è sottintesa la dimensione competitiva del vivere, ‚nella quale l’altro è percepito come colui che può minacciare la nostra esistenza‛ (Carotenuto 1987,143). Proprio qui si innesta l’esigenza di dominio; perché l’uomo autoritario ha il bisogno incessante di controllare non tanto le cose, ma gli altri uomini, le loro coscienze, le loro ‚autonomie‛, in una parola la loro ‚creatività‛. Il creativo

è

nemico

del

potere,

come

evidenzia

Carotenuto, perché ‚si sente afferrato in una corrente di vita che ha la dimensione dell’eternità; egli non sente i limiti della propria esistenza, ciò che fa o pensa supera i confini entro i quali è costretto chi

semplicemente

sopravvive‛ (Ibidem,145). Il flusso di vita, a cui il creativo partecipa spontaneamente, non gli fa percepire la paura del vuoto: l'"horror vacui", che è essenzialmente vuoto di azioni, di oggetti, di ritmi e spazi ripetitivi, ovvero istituzionali e rituali. Ogni potente, così come ogni subordinato, struttura la propria esistenza, la propria ragione di essere, sulla ritualità. Essa è una forma di azione e di comunicazione che, attraverso la ripetitività, assicura la stabilità, l'ordine e il sentimento di protezione e di sicurezza. 39


Di fatto il rito è un insieme di azioni, gesti, situazioni e ruoli che "agendo" delimitano e creano un kosmos, riempiono il vuoto, scongiurano la paura che esso suscita. Perciò coloro che aspirano a dominare o voglio no essere dominati tendono entrambi a inserirsi in una ritualità che li preservi, che li faccia sentire protetti dalla paura, vale a

dire

dal

sentimento

della

profonda

incertezza

dell'esistere che la conflittualità della vita e del mondo fa sentire loro in modo viscerale. Il creativo è un "idealtipo" psicologico che sfugge alla dinamica del rito, perché non conosce la paura del vuoto. Anzi spesso egli vive di tempi e spazi vuoti, non remunerati

o

"sorretti"

da

rinforzi

esterni

e

da

ricompense materiali. Non è un caso che gli artisti sappiano trarre la loro ispirazione anche dal silenzio, dalla

solitudine,

insoddisfazione

da

che,

una come

profonda per

incanto,

e

perenne

diventa

un

patrimonio spirituale impareggiabile, una ragione di vita. L'arte accetta la scommessa col nulla e ne ricava una misura di saggezza e di libertà. Tutti possono entrarvi, perdersi e ritrovarsi. E’ il segno di un senso dato alla vita di cui si accettano le incognite, l’evanescenza, il rischio, senza ricorrere ai riti consolatori e alle certezze che, se eludono il buio della

paura,

spengono

per

sempre

le

luci

che

si

accendono spesso in fondo all’anima. Uno spirito creativo non percepisce il bisogno della protezione o del "condizionamento" motivante, perché, 40


contrariamente

agli "idealtipi"

del dominatore

e del

dominato, può contare su se stesso. Carotenuto sottolinea che "se avere il dominio vuol dire sentirsi vivi solo attraverso la manipolazione della vita altrui,

il

senso

dell'esistenza

non

scaturisce

dalla

persona stessa, ma è strettamente legato alla presenza di una "platea", su cui si ha necessità di esercitare il proprio influsso, per avere solo l'impressione di esistere" (idibem,147). Ecco, appunto, l'"impressione di vita", non la vita: la finzione, non la verità. Il legame affascinante tra l'attore sulla scena e il pubblico è magico e potente, ma è costruito su una realtà

puramente

l'esercizio

del

fittizia.

potere

"Mutatis

è,

di

mutandis",

fatto,

come

anche

vedremo,

un'azione scenica, una manipolazione della realtà. Come l'attore necessita di un pubblico e il pubblico di un attore che "agisca" sulla scena, così il dominatore e il dominato si cercano e si trovano. La spinta verso il dominio nasce, dunque, dal desiderio di superare una profonda insicurezza, una immensa paura di vivere. Questa paura avvolge sia il dominatore che

il

dominato:

l'uno,

come

detto,

la

esorcizza

attraverso l'esercizio onnipotente che gli proviene dal controllo sulle persone e sulle cose; l’altro ricercando una

figura

di

affidamento,

che

lo

liberi

dall'incubo

dell'incertezza e dell'impotenza. L’incontro

tra

queste

due

necessità

psicologiche

è

testimoniato dal legame fortissimo che si instaura tra il potente e chi si lascia dominare. 41


Ci

troviamo

dinanzi

a

fenomeni

psichici

primari,

a

richieste inconsce che permeano ogni rituale di potere: l'essere spettatore in precario equilibrio tra ciò che è vero e ciò che si "vuole" sia vero, tra la realtà e il nulla; l'inscenamento

di

una

realtà

fittizia,

di

azioni,

di

"dramata" fini a se stesse. Sappiamo bene che il potere s i nutre di distruzione: guerre,

strategie

cruente,

rituali

sacrificali

e

forme

perverse di "purificazione". Il parossismo delle gesta, la continua fibrillazione spingono i protagonisti delle lotte di potere al rialzo dell'eccitazione. La cifra distintiva d elle dittature è un vitalismo iperattivo e ipertrofico che tradisce sempre un vuoto incolmabile. Gli artisti e gli intellettuali non hanno mai esitato a svelare la matrice oscura del potere, il suo legame con le pulsioni

distruttive.

Un

legame,

a

quanto

pa re,

inestinguibile, perché ancora oggi, che ci crediamo liberi da ogni irrazionalismo di massa, continua ad avere un corrispettivo in tante sconcertanti "fibrillazioni" di morte, di violenza e di autodistruzione.

Anche il cinema, specchio e interprete fed ele del nostro tempo, non ha mancato di occuparsene. Crash, ad esempio, il noto e contestato film di David Cronenberg, rappresenta una delle metafore più compiute della nostra civiltà violenta e mortifera, incapace di elaborare il pensiero della morte. I protagonisti sono due coniugi che, miracolosamente scampati a un incidente stradale, iniziano a condurre la 42


loro vita sul filo parossistico di un’incessante attività erotica.

Insieme

inoltre

decidono

di

assistere,

con

piacere voyeuristico, ad altri scontri automobilistici che legano

l’idea

del

godimento,

della

penetrazione

sessuale, a quella della morte e della dissoluzione. Nel film il piacere erotico è, quindi, inscindibile da quello di assistere, di essere platea, di vedere agire, di veder morire: una forma di potere dello sguardo nata dal massimo dell’impotenza. Vedere i corpi che si smembrano e sentirsi lacerare è il capolinea di questo immaginario viaggio compiuto dentro il significato della concezione occidentale di potere. Sembra di poter leggere, nelle scene di questo film, tanto vituperato, la descrizione di una naturale inclinazione all’oblio e al nulla, tipica di una società non più adulta, ma addirittura senescente. Una società in cui l’esercizio laico e demistificante della ragione ha raggiunto gli estremi e gli eccessi del cinismo. Il cinismo cela, quasi sempre, dietro di sé, la paura del nuovo, dell’insoddisfazione e della creatività: percepisce la transitorietà di tutto, ma non ne ricava uno sguardo distaccato e pacato, bensì uno strisciare, u n ‚volare basso‛ tra le cose di cui percepisce solo l’abiezione e la dispersione: il nulla senza speranza. Di questo possono approfittare demagoghi e dittatori, che sanno come ingannare attraverso una promessa di liberazione

dal

bisogno,

generato

problematicità esistenziale. 43

dalla

ine vitabile


Le malattie del potere Nel 1961, l’urbanista Lewis Mumford dà alle stampe un’opera, diventata ormai classica, intitolata La città nella storia, un testo fondamentale non solo di teoria urbanistica, ma anche uno dei più suggestivi e complessi studi di storiografia moderna. E’ un’opera che, in alcuni capitoli-chiave, cerca di capire come la città, nel mondo occidentale, si sia identificata con l’organizzazione dello spazio voluta e progettata dal potere. Nell’affascinante capitolo dedicato a Roma, che egli, non a caso, chiama ‚Megalopoli-Necropoli‛, è compreso un paragrafo dal titolo sintomatico: ‚Morte nel pomeriggio‛. Mumford rileva come la struttura assolutistica del potere imperiale avesse assecondato l’aumento numer icamente considerevole della plebe urbana, che rappresentava la base di consenso più importante per il potere personale dell’imperatore.

Il

monarca

le

assicurava

un

‚mantenimento‛ fisso, grazie al quale ne gestiva gli umori. Di questo mantenimento facevano parte integrante le spese destinate agli spettacoli circensi. Perciò il parassitismo delle masse urbane era strettamente legato al fatto che esse erano "platea" di uno spettacolo di potere e di morte. Mumford sostiene che l’impero costruito su una politic a predatoria

produsse

una

forma

generalizzata

di

parassitismo, sia per i ricchi che per i poveri. Ciò condusse

al

sacrificio

delle

più

elementari

attività

autonome dell’essere umano, con radicali conseguenze 44


anche

sul

piano

psicologico.

In

particolare,

il

prolungamento del sentimento infantile della dipendenza, che nell’età adulta provoca ‚diffidenza e odio verso se stessi‛ (Mumford 1961,296). Tale diffidenza alimenta un desiderio di rivalsa oppure di ‚potere virtuale se non effettivo‛, perché chi non ha vissuto la propria vita ‚sente un violento desiderio di imporre agli altri una morte umiliante‛ (Ibidem). Il parassita proietta l'odio che nutre verso se stesso "sulle vittime e sui capri espiatori disponibili, riversando su di loro la propria disperazione, il proprio disgusto e la propria volontà di morire‛ (Ibidem). Solo una simulazione della vitalità predatoria (insita nello spettacolo circense), solo uno spettacolo di morte poteva restituire al parassita urbano, anzi ‚metropolitano‛, la sensazione di essere vivo. E - continua Mumford - ‚gli abitanti

delle

metropoli

moderne

non

sono

psicologicamente tanto lontani da Roma‛ (Ibidem,297), da non comprendere questo meccanismo compensatorio. Di fronte al sentimento di vuoto, alla scoperta della sofferenza, alla percezione del nulla si può avere un solo atteggiamento,

per

non

essere

spettatori

passivi

e

rimanerne schiacciati: quello che ci consente di creare continuamente la nostra vita, accettando la possibilità di essere sempre insoddisfatti. Ciò significa avere il coraggio di accettare il deserto, il luogo della disperata solitudine ma anche della ricerca di se stessi, dove la creatività si esprime nella tensione inesausta, non verso un effimero appagamento, bensì 45


verso

continui

superamenti

e

ritorni

alla

propr ia

condizione. L’insoddisfazione è libertà; la piena soddisfazione è ‚la fuga dalla libertà‛, è ‚la fuga nel potere‛: è morte, intesa come assenza di conflittualità e di desiderio. Fromm fu un attento lettore dell’autobiografia di Hitler Mein Kampf, che definì non solo come il documento più rappresentativo

della

letteratura

nazista,

ma

come

‚un’ottima illustrazione del carattere autoritario‛ (Fromm 1941,180). ‚La brama sadica di potere trova modo di manifestarsi in molte forme, in Mein Kampf. Essa caratterizza il rapporto di Hitler con le masse tedesche, che egli disprezza e ‚ama ‛ in maniera tipicamente sadica [...]. Egli parla della soddisfazione che le masse provano ad essere dominate‛ (Ibidem). E’ convinto che esse vogliano la vittoria del più forte e l’annientamento del più debole. Come una donna - scrive - che si sottometterà al forte piut tosto che dom inare il debole, così le masse amano il dominatore piuttost o che il supplicante, e nell’int imo le soddisfa molto di più una dottrina, che non toller i co ncorrenza, che non la concessione della libertà democr atica ( Hit ler, cit. in Fromm 1941,180).

L’esplicito richiamo a Machiavelli 1 non può, certo, portare a confondere la statura morale e politica dell’intellettuale ‚Et iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che rispettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario volendola tenere sotto, batterla e urtarla‛ - Il Principe, cap. XXV. 1

46


fiorentino con la visione totalitaria e d esplicitamente sado-masochistica del potere propria di Hitler. Vanno

invece

ricercati

nel

dittatore

nazista

quegli

elementi che ritornano costanti in coloro che hanno compensato la propria debolezza e frustrazione con atteggiamenti

autoritari

(e

quello

h itleriano

è

solo

l’esempio più esplicito ed estremo della fragile quanto controversa psicologia dei potenti). Lo studioso inglese Hugh Freeman, nel saggio dal titolo Le malattie del potere, afferma, citando Porter, che l’attitudine

per

le

attività

governat ive

comporta

un

elemento di anormalità. La brama di potere spesso serve a com pensar e qualche aspetto peculiare, fisico o psicologico [...] non possiamo illuderci che a governarci

siano

dei

signor

Rossi

(Porter,

cit.

in

Freeman

1991,92).

Chi è pr ivo di sc rupoli morali, chi è pr onto a m entir e e a f arsi strada f ino alla vetta con l’imbroglio, chi f a promesse che non potrà mantenere e può [arrivare persino a uccidere] i propri r ivali, ha un grande vantaggio su quant i sono frenati dal concetto di onestà (Dixon , cit. in Freeman 1991,72). Forse l’et erna tendenza del pot ere alla concentrazione è un indice del profondo bisogno psicologico di una figura genitor iale, ampiamente present e nelle società umane (Freeman 1991,95) .

Questa complessa e inconscia dinamica c ompensatoria può allignare in alcuni individui, che si trovano a vivere in

circostanze

storiche,

economiche

problematiche - o, più in generale, di crisi. 47

e

sociali


In tali congiunture essi, spesso, si sentono investiti di un ruolo risolutivo, palingenetico, addirittura predestinato. La loro forza riposa, soprattutto, su questo sentimento di sé: il sentimento di poter condurre gli eventi, di esserne al di sopra; in una parola, di essere "il destino". Ma per diventare l'"unto", il predestinato, è sempre neces saria una preesistente situazione di incertezza, d'insicurezza o, addirittura, di disperazione e prostrazione che esige il riscatto, la rivincita. L'"unto" è l'uomo del riscatto, della "rinascita dalle ceneri", della palingenesi totale di un popolo o di un a nazione "umiliata e offesa". Si pensi alla Germania e all’Italia dopo il primo conflitto mondiale, ma soprattutto dopo la "fedifraga" e crudele pace di Versailles. Le sue disposizioni "punirono" la Germania oltre ogni limite tollerabile e decisero le sor ti della sua situazione economica ormai al collasso. L’Italia, pur vincitrice, si trovò a fare i conti con una massa incandescente di disoccupati e di piccolo -borghesi che,

tra

irredentismo

mancato

e

vaghe

aspirazioni

sociali, alimentò la già diffusa insof ferenza per un parlamentarismo

trasformista

e,

spesso,

inetto

a

governare. Hitler

e

Mussolini

si

presentarono

a

questo

"appuntamento" con la storia come gli "unti", i condottieri carismatici, capaci di governare l'ingovernabile: di dare un senso alla disperazione. E' chiaro perciò che chi si investe o è investito di un potere, chi lo subisce o chi vuole smascherarlo deve 48


necessariamente fare i conti con il sacro, categoria ancestrale

radicata

nell’uomo

più

dello

spirito

di

sopravvivenza. Per sacro s’intende quell’elemento che asseconda la tendenza, tipica dell’uomo, a formarsi una gerarchia della realtà che lo circonda. La visione ordinata del mondo in cui vive lo spinge a immaginare

una

forza

o

un

insieme

di

forze

che

disciplina e guida questo kosmos. In altri termini l’uomo percepisce il potere come una componente necessaria affinché se stesso e il mondo in cui vive abbiano un ordine: un senso sia individuale, che sociale. In questa prospettiva il potere è ‚la capacità di produrre effetti‛.

Sta

a

indicare,

appunto,

la

possibilità

di

imprimere un ordine alle cose e di indirizzarle a un fine che

le

trascende.

Attraverso

questa

capacità

si

estrinseca l'azione "divina" dell'uomo, creato a immagine di colui che ha tratto dal caos un ordine perfetto. Tale dinamica, che le scienze sociali suppongono agli albori di ogni civiltà, ha determinato non solo la nascita delle

cosmogonie

e

delle

teogonie

(e

perciò

delle

religioni tout court), ma anche dell'ordine sociale, come realizzazione umana di un kosmos divino. Questa

embricazione

del

potere

nel

tessuto

della

religiosità e del sacro è testimoniata dalla fusione, nelle mani di un unico individuo, del potere politico e di quello religioso, come accadeva in tante grandi civiltà del passato. Solo con la civiltà romana emer ge, sia pur in 49


modo non definitivo, la coscienza di una differenziazione tra potere temporale e spirituale, mentre per la prima volta si fanno strada i concetti (a noi familiari) di sacro e profano, di Stato e culto religioso. Tale

separazione,

con

la

cons eguente

divisione

dell’aspetto formale da quello sostanziale e dell’utopia dalla pratica, ci porta a centrare l’aspetto più complesso del potere: la sua mendacità, il suo celarsi sotto false spoglie. L’amara

considerazione

della

Mizzau

-

‚tutto

è

falsificabile; il ‚naturale‛ è artificio in questo universo dove la scissione tra essere e apparire è norma‛ (Mizzau 1998,48) - attualizza il binomio avere/essere di Fromm (1976), trasformandolo nell’odierno ‚Appaio quindi sono‛ di Carotenuto (1997). Sono alquanto recenti le polemiche che hanno spinto Eugenio Scalfari (1998), e con lui tutti gli uomini di buon senso, a interrogarsi sulla natura della moralità e del reato: perché in una società in cui i potenti vorrebbero farci credere che non è reato rubare, purché l’azione sia finalizzata al beneficio economico di coloro che decidono delle sorti del nostro bilancio nazionale, sorge il dubbio di

aver

frainteso

i

valori

elementari

dell’onestà.

Soprattutto quando poi il costume si fa così diffuso e praticato e i volti di coloro che lo avallano subissano le prime pagine dei giornali e i muri delle nostre città. L’immagine trasforma l’uomo in un modello, una sorta di involucro vuoto nel quale - e attraverso il quale 50


inculcare nuovi valori, quand’anche contrastanti con l’etica e la morale dei ‚giusti‛.

51


CAPITOLO TERZO LE MISERIE DEI RE

Come il viaggiatore che naviga tra le isole dell’Arcipelago vede levarsi a sera i vapor i luminosi, e scopre a poco a poco la linea della cost a, così io comincio a scorgere il prof ilo della mia morte. Vi sono già zone della mia vita simili alle sale spoglie d’un palazzo troppo vasto, che un propr ietar io decaduto rinuncia a occupare per intero. (Yourcenar 1951,7)

La "coscienza vigliacca"

Nei precedenti capitoli abbiamo tracciato una mappa che individua i ‚sogni e i bisogni‛ della psiche individuale e collettiva, tanto forti e ancestrali da apparire come una sorta di tipologia obbligata e universale del potere e delle sue imposture. Ma sotto l’inganno della maschera, dietro l’illusione scenica, si nascondono ‚le miserie dei re‛: la dimensione umana e dolente della loro brama di potere, della loro personale storia fatta di odio, di morte e di sangue. Queste miserie sono state messe a nudo dagli artisti di ogni tempo che, con la loro innata i nclinazione a non soffermarsi sulle apparenze, hanno saputo sondare i territori più nascosti dell’animo umano. Il

rumore,

il

furore,

il

sangue

delle

tragedie

shakesperiane, ad esempio, ci hanno consegnato pagine 52


memorabili

sulle

perverse

miserie

dei

re.

Amleto,

Macbeth, Re Lear, Riccardo III, Otello, solo per citare alcuni, rappresentano bene il "sottosuolo", per usare una metafora dostoevskijana, cioè la psiche nascosta di uomini potenti corrosi dal dolore, dal dubbio, dalla passione. Tutti

i

grandi,

indimenticabili

potenti

shakespeariani

vivono il loro desiderio di vita e di potere nel tentativo disperato di dare un senso alla propria esistenza. Essi quasi sempre sono sovrani o aspirano ad esserlo e il potere diviene per loro ragione di vita e causa della loro inevitabile caduta. Il destino dei titanici e miseri protagonisti delle tragedie di Shakespeare li conduce in qualche modo a un estremo degrado: tutti, come scrive Jan Kott, ‚devono toccare il fondo‛ (Kott 1961,115). La caduta diventa però anche motiv o di riscatto e di purificazione, il momento in cui il potente riacquista la sua dimensione umana. Perché un uomo diventi nudo, o meglio, perché divent i soltanto un uomo, non basta privarlo del nome, della posizione sociale e spezzar gli il carattere: biso gna anche mutilar lo, massacr arlo moralmente e fisicamente. Trasformarlo [...] in un ‚capolavoro della natura mandat o in rovina‛, e solo allora domandargli chi è (Ibidem,116).

Sotto questo aspetto Re Lear è certamente l’opera che meglio rappresenta il mito della caduta.

53


Si tratta senz’altro di un capolavoro, ‚una vetta di fronte alla quale persino il Macbeth e l’Amleto impallidiscono‛ (Ibidem,92).

Lear è un antico sovrano della Britannia che vuole dividere il suo regno fra le tre figlie Regan, Goneril e Cordelia, in proporzione all’affetto che ciascuna di loro gli avrebbe dimostrato. Cordelia è la più umile e anche la più sincera, ma Lear si lascia incantare dalle false e ipocrite lusinghe delle altre sorelle, certamente più abili ed eloquenti, e disereda C ordelia. Proprio le due figlie che Re Lear aveva preferito, però, lo tradiscono e lo cacciano di casa durante una tempesta che

è

anche

una

rappresentazione

del

suo

sconvolgimento interiore. Egli è un potente impegnato nella faticosa ricerca del senso della vita e Shakespeare, in modo magistrale, sa rivelarci

il

suo

tormento

interiore

suscitando

nello

spettatore sentimenti di orrore e di pietà per la sua tragica sorte. Crudele e violento, ma anche umano e sensibile, muore di dolore quando ritrova sua figlia Cordelia, l’unica che non aveva saputo apprezzare e l’unica che nutriva per lui un amore sincero. La

vedrà

morire,

uccisa

davanti

ai

suoi

occhi

e

inutilmente tenterà di rianimarla: resterà solo con il suo cadavere tra le braccia e con l’immenso dolore di a verla perduta per sempre. La sofferenza lancinante che lo lacera e lo sorprende indifeso, lo risveglia e lo guarisce. 54


Ma l'improvvisa consapevolezza della sua miseria, il "lampo" che lo guarisce della sua cecità interiore, lo stronca anche. La tragedia è c ompiuta: saranno proprio la

sua

dimensione

umana

e

la

sua

sensibilità,

improvvisamente riemerse, ad ucciderlo. Anche lui ha toccato il fondo, ma le disgrazie che lo hanno

colpito

hanno

avuto

l’effetto

di

purificarlo

‚restituendogli la sua tragica grandezza ‛ (Ibidem,93). Re Lear non è solo la storia della caduta di un Re. L'intera saga dei personaggi è la trama attraverso cui Shakespeare ci offre un'analisi profondissima dell’animo umano, svelandone le zone più oscure. Indimenticabile la rappresentazione sc enica in cui Edgar finge di condurre su un precipizio il padre Gloucester (desideroso di farla finita, dopo essere stato accecato per l'accusa di tradimento) . E’ una sorta di pantomima. La scena è vuota, solo un tavolato di legno su cui gli attori con i l oro gesti ci lasciano immaginare ciò che sta accadendo. Fingono di camminare in salita sollevando le gambe e riusciamo a immaginare il paesaggio in cui si muovono. ‚Entrambi hanno raggiunto il fondo della miseria umana, o anche la vetta di quella ‚piramide della disgrazia‛ come Slowacki definì il Re Lear‛ (Ibidem,106). Abbattendosi

sulle

piatte

e

lisce

t avole

del

palcoscenico

Gloucester recita la scena di una grande ‚moralità‛. Non è più il dignitar io della corona cui sono stat i strappat i gli occhi perché ha avuto pietà del re scacciato. L’azione non si svolge più né nell’Inghilterra elisabettiana, né in quella celtica. Gloucester è 55


Everyman, e la scena è quella del ‚theat rum mundi‛ medioevale. Si rappr esent a la parabola biblica del ricco divenuto povero e dell’uomo che ritrova la vista quando diventa cieco (Ibidem,109).

Shakespeare

riconsegna

al

teatro

la

dimensione

socratica del ‚conosci te stesso‛ e lo fa attraverso la figura del Re, del potente. E’ il paradigma dell’uomo che si cerca, combatte e soffre per poi, forse, non trovarsi mai. Attraverso i suoi Re, quasi tutti evocati sotto il segno dell’ossimoro,

ci

ha

rivelato

la

perturbante

natura

ancipite del potere, di volta in volta luminosa e oscura, sincera e bugiarda, eroica e meschina.

Il

gobbo

e

ripugnante

Riccardo III,

Duca

esprime forse

di

Gloucester,

meglio di tutti

futuro

gli altri

l’aspirazione al cielo e l’abiezione infernale che ogni misero, potente sovrano cova dentro di sé. L’immagine è quella di un uomo deforme e fragile che sembra non aver mai conosciuto altra gioia nella vita che quella di dominare. Io, che son rozzamente foggiato e manco di fascino seducente, [...] io che una perfida natura ha defraudat o d’ogni armonia di tratti e d’ogni lineamento aggraziato, mandandomi anzitempo, defo rme e incompleto, in questo mondo di vivi [...] non conosco altro piacere, per ingannare il tempo, che [...] fare il furfante (Shakespeare 1597, 265 -267 - vv.16-30,I,1). 56


La consapevolezza del suo limite rispetto a coloro "che sono fatti meglio" accende in lui il desiderio di dominare. Solo così può riscattarsi dal suo senso di inferiorità. La corona

splendente

si

contrappone

perfettamente

all’immagine del suo tronco deforme. A una lettura superficiale dell’opera di Shakespeare, il protagonista può apparire come un uomo senza timori e senza sentimenti: un ‚ritratto retorico di un sinistro e grottesco tipo di superuomo rinascimentale, senza pietà, senza

paura,

senza

amore,

consumato

dall’egocentrismo‛ (Praz 1989,129 -130). In effetti questa è la sua immagine e steriore. Leggendo attentamente i suoi monologhi ci accorgiamo, però, che alla base di questa sua freddezza esiste un profondo disagio esistenziale. Il

suo

bisogno

di

potere,

accompagnato

dalla

consapevolezza della sua incapacità di conseguirlo in base ai suoi meriti, lo spinge ai più efferati delitti. Devo sposar e la f iglia di mio fratello, altrimenti il m io regno poggia solt anto su fragile vetro. Assassinarle i fratelli e poi sposar la... Incerta strada al successo! Ma mi sono inoltrato tant o nel sangue c he un delitto se ne tira dietro un altro; la pietà lacr imosa non alberga in quest i occhi. (Ibidem,467 - vv.60- 65,IV,2).

57


La sua paura e la sua miseria umana non tardano a comparire: significativa la scena in cui si sveglia di soprassalto da un incubo. Gesù, miser icordia!.. . Piano, non è st ato che un sogno. O coscienza vigliacca, come mi tormenti! [...] Fredde st ille di spavento copr ono la mia carne tremante. Di che cosa ho paur a? Di me stesso? [...] La mia coscienza ha mille lingue diverse, ciascuna delle quali racconta una diversa storia ed ogni stor ia mi condanna come scellerato: spergiuro, spergiuro, al massimo grado; assassino, feroce assassino, al grado più atroce; tutte le diverse colpe, commesse tutte in ogni grado, s’accalcano alla sbarra, gridando tutte: ‚Colpevole, colpevole!‛. Finirò disperato. Non c’è creatura che m’ami, e, se muoio, nessuna anima avrà pietà di me... (Ibidem,545 - vv.179 -202,V,3).

Questo disperato soliloquio è simile a un grido soffocato, e si propaga inquietante, senza eco, nel vuoto assoluto del suo spazio interiore. L'uomo confida a se stesso con estrema lucidità lo stato pietoso della sua coscienza 'codarda', in preda al terrore per il disconoscimento di ogni legge, profondamente veggente circa la punizione che l'attende.

Non è un caso che Riccardo III sia la tragedia che vanta il maggior numero di studi, interpretazioni e riletture.

58


Le più suggestive ‚riappropriazioni‛ risalgono all’ultima stagione cinematografica: Looking for Richard di Al Pacino e Riccardo III di Richard Loncraine. Il grande attore inglese Ian Mckellen spiega così la straordinaria longevità di questo dramma: E’ un testo cr istallino, c’è dentro il m ito del potere [...] offre un monito che è sempre verde nei secoli: state attenti ai politici, non commettete l’errore di pensare che siano mostri, i peggior i, non lo era Hitler e non lo è Saddam Hussein. I mostri, se non stiamo in guardia, siamo noi. [...] Riccardo è uno che oper a nel male, non uno psicopatico, è uno che vendica così la sua diff icolt à a farsi am are, quella sessuale, e il non amore che ha avuto dalla madre. Ne sono pieni i giornali di personaggi così.

[...] E’ stato

l’handicap il ver o punto di contatto con Riccardo. Lui era un gobbo, io un omosessuale e conosco il disprezzo che subisce il diverso (Mckellen 1996).

Riccardo

incarna

la

caratteristica

fondamentale

del

potente, della sua vita e della sua caduta; egli grida il lucido e ‚notturno‛ delirio di ogni potente, la sua sfida disperata ai fantasmi che assediano il cuore dell’uomo. Ma se le tragedie shakespeariane, e le produzioni artistiche più in generale, hanno indagato l’animo dei potenti per mostrarci, oltre le paure e le miserie, anche un’indiscutibile profondità d’animo, sul ‚palcoscenico‛ della storia sono saliti, per lo più, personaggi pr ivi di tale spessore; una peculiarità e un destino che accomuna i potenti di ogni epoca.

59


L'ombra della caducità

Hugh Freeman, nel suo già citato saggio Le malattie del potere, ci ha fornito una ‚carrellata‛ assolutamente illuminante di celebri personaggi politici potenti e temuti che

si

offrono

decisamente

al

più

nostro

sguardo

miserabile

di

in quella

una

veste

dei

re

shakespeariani. Egli

tenta

di

evidenziare,

attraverso

un

approccio

psicostorico, come la ricerca del potere nasca da una sorta di reazione compensatoria alla scarsa stima di sé. I personaggi analizzati da Freeman non sono illuminati da raggi di consapevolezza o dalle luci dell’ironia. Sono esseri farneticanti, farseschi, ma nessuno di loro è folle: sono semplicemente ridicoli. Eppure essi ha nno trovato nelle masse un'eco alle loro farneticazioni. All’analisi di Freeman non sono sfuggiti Woodrow Wilson, Lenin, Winston Churchill, Eisenhower, Breznev, Hitler, Stalin e molti altri potenti della storia. Sembra che ognuno

di

loro

abbia

in

qualche

modo sofferto di

sindromi patologiche: gli improvvisi e irrazionali scoppi di ira di Hitler, i suoi periodi di dissociazione mentale e di crisi depressiva; le condizioni paranoiche di Stalin e il suo grande senso di inferiorità. Ma Freeman non è il solo ad aver capito quanta miseria si nasconde dietro la maschera di un potente. Antonio Spinosa, ad esempio, in un articolo apparso su un noto quotidiano, ha ricordato alcuni comportamenti ridicoli di Mussolini, che rendono bene l’idea della 60


personalità

del

soggetto.

Benito

ormai

giovanotto

-

racconta Spinosa - amoreggiava con una ragazza di nome Giulia (Giulia Fontanesi) e pretendeva che non uscisse mai di casa. Una volta la sorprese per strada e l’assalì urlando e addentandole un braccio. In occasione di un altro litigio la ferì alla gamba con il suo coltello serramanico. Spesso a Tolmezzo - continua - lo recuperavano al mattino in preda ai fumi dell’alcol e una notte si era addormentato in un cimitero a Pieve di Santa Maria, dopo aver recitato poesie eroiche, e rotiche e blasfeme. ‚Altre volte cercava di spaventare la gente facendo il fantasma nel buio delle strade del paese, avvolto in un lenzuolo bianco‛ (Spinosa 1996). Ma più di ogni costruzione teorica, credo che ciascuno di noi possa comprendere, attraverso un semplice sguardo alla storia, quanto sia penoso il destino di ogni potente. Ogni farsa storica, che gli inquietanti ‚pagliacci‛ dei totalitarismi del Novecento hanno inscenato, ha sempre avuto un risvolto tragico. Ciò non ha nulla a che vedere con la di mensione epica e tragica dei grandi Re shakespeariani. Questi sono tornati alle radici della loro esistenza, hanno ripercorso uno straniante viaggio a ritroso e sono ‚rinati‛ più vigili e più uomini di prima, anche se in punto di morte. Mussolini e Hitler non hanno seguito questo destino. Essi sono stati semplicemente tragici, nel senso aristotelico della parola, cioè hanno subito una ‚catastrophè‛, una 61


caduta in cui è mancato il sentimento della pietà e che, per questo, non li ha portati a nulla. L’eco delle atrocità che hanno compiuto ha superato il bisogno

"umano, troppo umano" di introiettarli come

miti. Sono crollati, una caduta, la loro, che è stata solo distruzione, senza riscatto, senza umanità: pensiamo alla vita di Hitler, al suo trionfo, alla sua fine ingloriosa. Qualcosa

ha

impedito

quella

trasformazione,

quella

presa di coscienza che nasce dall’esperienza della caduta. La maggior parte delle storiografie su Hitler si sono limitate a disegnarlo come un folle, un pagliaccio, tralasciando forse la dimensione più importante, quella umana, con la quale in fondo ognuno teme il confronto. E’ più facile pensare che si sia trattato di uno psicopatico piuttosto che ammettere che Hitler in realtà era una persona come tante, non diversa da tutte quelle che hanno permesso la nascita e il trionfo del nazismo. In

giovane

fallimenti.

età Al

egli suo

non

aveva

insuccesso

sperimentato scolastico

si

che era

accompagnato anche il naufragio delle sue aspirazioni artistiche. Un uomo segnato, dunque, che aveva sofferto anche per la perdita dei genitori e per le difficoltà nel trovare un lavoro,

che

aveva

sperimentato,

insomma,

la

sua

impotenza di fronte al mondo. Un

individuo

del

genere

viene

a

trovarsi,

così,

improvvisamente di fronte a un bivio. Può ottenere la 62


salvezza attraverso l’apertura

a un

nuovo

stato di

coscienza o precipitare nel baratro del potere e della distruzione. Hitler scelse il dominio, una sorta di riscatto, una sfida con se stesso e, soprattutto, con quel mondo che aveva vissuto come ostile, come un nemico a cui dimostrare tutta la sua forza e il suo potere. Fu proprio questa normalità, questo suo essere come migliaia di altre persone, che ha reso possibile un successo politico così clamoroso. Poi

inevitabilmente

susseguiti

agli

anni

di

ascesa

si

sono

quelli della disfatta. Ed è qui che dobbiamo

cercare le ragioni che l’hanno resa una ‚catastrophè‛. La sua fu una fine miserabile, vana, meschina, non gli servì ad aprire le porte di una nuova coscienza, al contrario, rafforzò in lui il delirio di onn ipotenza. Hitler non accettò la ‚caduta‛ e alla sua disfatta politica e militare si accompagnò un lento disfacimento interiore, che

trovava

una

sua

eco

nelle

macerie

che

lo

circondavano. Il grande e opulento edificio della Cancelleria del Reich si ergeva ormai tra le rovine della capitale. Non era più il simbolo di una nuova architettura che il Fhürer aveva immaginato per un avvenire glorioso della Germania, ma il segno evidente di questo decadimento. Le finestre serrate da travi di legno, il fumo e i segni lasciati dai bombardamenti, l’esercito sovietico ormai a pochi

isolati:

tutto

si

presentava

scenografia. 63

come

un’infernale


Hitler rifiutò sino all’ultimo un confronto con questa nuova realtà. Iniziò ad accusare persino i collaboratori più fidati di essere i colpevoli delle sue sconfitte, rei di aver tradito, arrendendosi, lo spirito ariano. Cominciò a impartire comandi contraddittori e ineseguibili, fino a ordinare ai suoi uomini, costretti alla ritirata di fronte al nemico, di distruggere ogni attrezzatur a necessaria per la vita civile, di lasciare ‚terra bruciata‛ dietro di sé. In quella che è la completa identificazione del tiranno con la propria nazione, (che diventa, per usare un termine tecnico della psicoanalisi, una sorta di ‚oggetto -sé‛, la cui ragion di esistere è strettamente subordinata alla sopravvivenza del despota), la ‚cosa‛ pubblica diviene ‚cosa‛ privata, tanto che vige la legge ‚con me o contro di me‛. Così il possesso negato si trasforma nel peggior persecutore del potente. Hitler non fu neppure sfiorato dal dubbio di aver fallito, né si interrogò sugli errori, gli orrori, le nefandezze di cui si era reso responsabile. Anzi nel suo ‚testamento politico‛, ribadisce puntigliosamente le assurdità già enunciate nel Main Kampf vent’anni prima, le idee guida della propria vita: un discorso di commiato alla nazione tedesca e al mondo che, come ha scritto il giornalista americano William Shirer, autore di una monumentale opera sulla Storia del Terzo Reich, rappresenta il ‚degno epitaffio per un tiranno ebbro di potere, despota corrotto e distrutto dal potere assoluto‛ (Shirer 1959,1708).

64


Solt anto l’amor e e la fedeltà verso il mio popolo - afferma Hit ler hanno guidato i miei pensieri, le mie azioni e la m ia st essa vita [...] E’ falso che io, o qua lcun altro in Germania abbia voluto la guerra

nel

1939.

La

guerr a

è

st ata

volut a

e

provocata

esclusivament e da uomini politici di or igine ebraica o agenti al servizio degli inter essi ebr aici [...] I secoli passeranno, ma dalle rovine delle nostre città e d ei nostri monumenti r isorgerà sempre l’odio verso i ver i r esponsabili di questo conf litto; sono loro che dobbiamo r ingr aziar e: gli esponenti del giudaismo internazionale e i lor o sostenitor i [...] Non cadrò nelle mani del nem ico, che ha bisogno di un nuovo spettacolo presentato dagli ebrei, per divertire le sue masse ist eriche [...] Ordino al governo e al popolo di mantenere in pieno vigore le leggi razziali e di combattere inesorabilmente l’avvelenat ore di tutte le nazioni, l’ebraismo internazionale. (Ibid em,1709- 1712).

Hitler sapeva di avvicinarsi alla fine e nel suo baratro voleva condurre anche il mondo che non aveva potuto sottomettere. Quando il suo cameriere Heinz Linge gli dette la notizia che Himmler stava trattando la resa in Occidente, cominciò a maturare la decisione di farla finita. Quelli potevano essere, almeno per lui, attimi decisivi. In tutta fretta fece allestire una sala per sposare la sua donna, Eva Braun. Joachin Fest, autore di una straordinaria e imponente storiografia del Fhürer, des crive così quei momenti: [...] è lecito supporr e che egli avrebbe volentier i inscenato l’atto finale in maniera più grandiosa, più catastrofica, con un ben maggior sfoggio di pathos, st ile, terribilit à [...] Il raccapricciante epilogo di questo m atrimoni o, l’inevitabile doppio suicidio, quasi che Hitler riluttasse di fronte all’illegitt imità del letto di morte, 65


sfociava nella trivialit à, in pari tempo dimostrando fino a che punto egli si fosse esaur ito e avesse dato fondo persino ai suoi affetti (Fest 197 3,914).

Probabilmente - scrive ancora Fest - Hitler in quel momento rinunciava ‚a qualche cosa di più che non alla semplice regia di una vita concepita sempre come ruolo teatrale‛, e questo perché, [...] il matrimonio [...] non era soltanto un gesto di r iconoscenza nei confronti dell’unico essere che [...] gli fosse r imasto fedele fino alla f ine; il matrimonio era, più ancora, un atto di definitiva abdicazione. Nella sua qualit à di Fhür er - Hitler lo aveva più volte affermato - egli non poteva esser e spo sato, dal mom ento che l’aura mitologica da lui attribuita al concetto non tollerava tratti umani (Ibidem,914).

Sposandosi, Hitler aveva rinunciato persino a questa pretesa per consegnarsi, infine, alla morte. ‚E’ come se quell’esistenza, che tanto a lung o era stata condizionata da propositi teatrali, che aveva sempre mirato agli effetti clamorosi, potesse finire soltanto con un colpo di scena insulso‛ (Ibidem,917). Quello che ridicolizza l’esistenza di questi tiranni è proprio la loro fine: procrastinata, elusa, disattesa e, proprio perché tale, ancor più amara nella sconfitta. L’esercizio del potere - inteso come mezzo e attributo, e non come finalità - si è per loro trasformato in una smania pericolosa: il possesso, il potere per il potere. Tale smania li ha indotti a declinare la consapevolezza di

66


quel limite insito in ogni azione umana: la fine di ogni percorso, la decadenza. Le parole della Yourcenar, citate in apertura del capitolo, ci illuminano proprio sull’aspetto di cui questi tiranni erano privi, ossia la coscienza della propria finitudine. L’ombra della caducità, di cui i grandi imperatori di un tempo erano consapevoli, era anche la loro forza, ma se sottomessa

non

può

che

trasformarsi

condanna.

67

in

un’orribile


CAPITOLO QUARTO UNA SOFFOCANTE PRESENZA

Ogni

cosa

era

a

posto,

ora,

tutto

era

definit ivamente

sistemato, la lotta er a finita. Egli era riuscito vincitor e su se medesimo. Amava il Gran Fratello. (Orwell 1949,327)

Un potere impersonale Se spostiamo l’oggetto della nostra ricognizione da l potere che s’incarna nei dolori e nei bisogni al potere impersonale, in quanto sistema, incontriamo lo Stato, oggetto di una scienza, e la Politica, che ne elabora la teoria e ne determina la prassi. In quest’ottica ‚impersonale‛, la politica è il princi pale perimetro entro il quale nasce e si sviluppa il fenomeno del potere. Sarà dunque necessario, sia pur nei limiti imposti dagli obiettivi di questo lavoro, soffermarsi brevemente sul suo significato, sui suoi fini e le sue dinamiche.

Nel quadro delle prassi politiche - scrive Giulio Chiodi (1979) - sussiste un potere sistemico e unitario che denota

l’esistenza

di

una

68

dimensione

sempre


superordinata a qualsiasi sede e a qualsiasi relazione di dominio. E’ come se esistesse un’entità astratta e impersonal e, una eterea soffocante presenza, distinta da qualsiasi forma di governo. Estremizzando le attuali considerazioni di Chiodi, con la sensibilità che è tipica dell’artista, Orwell preconizzò l’oscurantismo ideologico di quello che è

stato

il

‚sistema‛,

occulto

e

impenetrabile,

per

eccellenza: la Russia staliniana. Il suo libro - 1984 - dipinge al meglio l’atmosfera cupa e soffocante in cui si trovano a vivere i due personaggi principali - un uomo e una donna - che non sono più padroni

dei

loro

pensieri.

L’at to

conclusivo

sarà,

appunto, una gelida e fiacca rinuncia alla lotta, che viene anticipata già nella sua inanità. Come è possibile, infatti, confrontarsi e abbattere un nemico che non ha volto né nome e che si nasconde dietro la spessa coltre del potere im personale? Ogni pensiero politico, sia esso anarchico, democratico o dispotico, si configura - così - come un’illusione, un puro esercizio intellettuale incapace di incidere e intaccare i luoghi dove il potere, quello effettivo, decide, delibera e impone. "La lotta del potere, per il potere e contro il potere - ribadisce Chiodi - è sempre una lotta per o contro un fantasma" (Chiodi 1979,267). Il

potere

politico,

in

questa

prospettiva,

viene

a

configurarsi come qualcosa di autonomo e separato che segue sue precise logiche, piuttosto che rispondere alle 69


direttive e agli indirizzi di coloro che, formalmente, lo gestiscono. Per questo, secondo Chiodi, diventa inutile sperare di poter eliminare il potere dalla società o di poterlo redistribuire democraticamente t ra tutti: il potere c’è sempre

ed

qualcuno

è

che

insopprimibile

così

lo

Ma

esercita.

come

c’è

questi

lo

sempre fa

solo

‚temporaneamente‛, in modo fittizio. Anche Foucault è dell’idea che non sono i governanti i detentori

del

potere,

e

che

nessuno

può

dirse ne

l’effettivo titolare in senso stretto. Esso però ‚si esercita sempre in una certa direzione, gli uni da una parte gli altri dall’altra; non si sa esattamente chi lo abbia; ma si sa esattamente chi non lo ha‛ (Foucault 1971 -76,114). Il sociologo tedesco Heinrich Popitz, riprendendo teorie già sviluppate da Max Weber, afferma su un piano decisamente

più pragmatico che qualsiasi forma di

potere si coagula nel dominio, partendo da un processo detto di istituzionalizzazione, dove si rafforzano tre tendenze: In primo luogo una crescente spersonalizzazione del rapport o di potere. Non avviene più che il potere stia o cada con quella particolare persona a cui momentaneamente spetta di dare ordini. Si collega in fasi successive con determ inate funzioni e posizion i

che

possiedono

un

caratt ere

sovr apersonale.

In

secondo luogo una crescente formalizzazione. L’esercizio del potere si or ienta sempre più nettament e a regole, procedimenti, rituali

[...]

Un

terzo

caratter e

della

progressiva

istituzionalizzazione del poter e è la cr escente integrazione dei

70


rapport i di potere in un ordinamento onnicomprensivo ( Popitz 1968,42).

Questo processo di consolidamento non è il dominio vero e proprio: questo, sempre secondo Popitz, si realizza compiutamente quando il potere, da spor adico, diventa in grado di rafforzarsi a ogni livello e di standardizzare il comportamento

di

sovrapersonale:

"un

chi

ne

posto

dipende che

è

e

poi,

ancora,

trasferibile

e

si

provvede ad occupare" (Ibidem), con tanto di successori e predecessori. Il livello finale di istituzionalizzazione del potere è rappresentato dal dominio statale e dalla trasformazione

del

dominio

centralizzato

in

pratica

quotidiana. Lo Stato dunque, secondo il sociologo tedesco, non è altro che lo strumento attraverso il quale il pote re mette in atto il proprio dominio; una visione negativa forse, ma realistica, se si tiene conto dello sviluppo storico e di come coloro che si sono trovati a gestire la "cosa pubblica" abbiano dimenticato la dimensione sociale e di servizio del loro compito. Si viene in questo modo a delineare il profilo intangibile di un’entità tanto immensa, e a volte incomprensibile, quanto pervasiva e capillare: una sorta di ‚impersonalità del potere‛ che ci eleva nell’atmosfera rarefatta e quasi metafisica del sistema, inteso come categoria astratta della logica e dell’agire sociale. Questa idea, però, non deve indurci a generalizzare.

71


Esistono infatti differenze assai consistenti tra forze politiche che si rifanno a tradizioni diverse, così come esistono differenze sostanziali tra chi esercita il potere mosso unicamente dalla volontà di dominio e chi, invece, mette al servizio della società le proprie capacità. E’ qui che vanno ricercate le costanti e le discriminanti della storia e delle organizzazioni politiche ed è qui che può aprirsi un varco alla speranza di chiunque creda in una vera democrazia. Il termine ‚politica‛ deriva dall’aggettivazione di ‚polis‛ (politikòs), significante tutto ciò che si riferisce alla città, e quindi al cittadino, alla sfera civile e p ubblica, ma anche socievole e sociale. In età moderna la parola ha perduto parte

del suo significato originale

e viene

impiegata, ormai comunemente, per indicare l’attività o l’insieme di attività che hanno in qualche modo come termine

di

riferimento

lo

St ato

(Bobbio-Matteucci-

Pasquino 1990,800). In ogni caso, essa indica la scienza o l’arte di governare. La politica ha subìto, nel corso dei secoli, numerose mutazioni, non solo nel suo significato precipuo, ma anche

negli

strumenti

e

nell’azione,

mantenendo

comunque la caratteristica di strumento indispensabile e irrinunciabile nel regolare ogni aspetto della vita degli uomini. Nel pragmatismo quotidiano, è - o dovrebbe essere - confronto, mediazione, dialogo, forza delle idee e, spesso, anche dei mezzi per farle prevalere; è di certo,

come

affermava

Benedetto 72

Croce,

"triste


necessità" di sporcarsi le mani per avere a che fare con "gente brutta", ma anche "arte sublime" di fondare e mantenere

quella

grande

istituzione,

altrimenti

impensabile e irrealizzabile, che è lo Stato. La complessità della politica risiede innanzitutto ed essenzialmente in questo: nel fatto, appunto, che essa non è solo una teoria, ma una scienza applicata; si concretizza cioè in una precisa prassi. Come scienza, infatti, si avvale di un metodo, segue una sua logica e persegue determinati obiettivi. Nella sua traduzione in azione sociale si apre un enorme divario fra teoria e prassi, fra le sue intenzioni e la ricerca di un effettivo 'bene comune', fra le necessità del popolo

e

gli

interessi

di

stato,

che

molto

spesso

divergono e trasformano l'esercizio della politica in un abuso di potere. A questo punto è inevitabile chiedersi quali siano i fini della politica. Potremmo dire innanzitutto che essa non ha fini stabiliti una

volta

per

sempre

o

un

fine

ultimo

che

tutto

comprende: ‚i fini della politica - scrive Norberto Bobbio sono

tanti

organizzato circostanze‛.

quante si Si

sono

propone, può

le

mete

secondo

individuare

che i

un

gruppo

tempi

solamente

e un

le fine

minimo: ‚l’ordine pubblico nei rapporti interni e la difesa della integrità nazionale nei rapporti di uno Stato con gli altri Stati‛ (Ibidem,804). E nemmeno appare possibile parlare, come spesso avviene specialmente in periodi di crisi come quello 73


attuale, di immoralità della pol itica. La morale confusa con la politica ha sempre inteso mascherare, nel nome di superiori ideali, autentiche ‚bassezze‛ che altrimenti sarebbero risultate immediatamente evidenti agli occhi di una pur distratta opinione pubblica.

Mi pare interessante a questo punto una contestata riflessione

di

Bobbio,

secondo

cui

la

cosiddetta

immoralità della politica si risolverebbe in una morale diversa da quella del dovere per il dovere: ‚è la morale per cui si deve fare tutto quello che è in nostro potere per realizzare lo scopo che ci siamo proposti, perché sappiamo sin dall’inizio che saremo giudicati in base al successo‛ (Ibidem,808). Questa morale machiavellica, per cui il politico deve saper essere ‚golpe‛ e ‚lione‛ pur di mantenere il potere, è stata oggetto di analisi da parte di tutte le scuole e correnti di pensiero politico, proprio perché è attorno a essa che si sono sviluppate le concezioni di dominio e capacità. E’ bene ricordare che il Machiavelli affermava, ne Il Principe, di voler andare ‚drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa‛ (Machiavelli 1513,XV), ossia più che teorizzare immaginifici Stati ideali, egli intendeva presentarci la realtà, quella a lui contemporanea, così com’era, con le sue miserie e le sue rovine. Proprio questa realtà mostrava al Machiavelli che anche la violenza e il male potevano essere dure e dolorose necessità, indispensabili però ai fini di una più 74


umana e civile convivenza. E’ in questo passaggio che troviamo

la

sua

profondissima

dimensione

etic a

e

morale. Del resto i ‚Discorsi‛ di Machiavelli sono un vero e proprio elogio alla libertà e sarebbe sbagliato pensare che il Principe sia andato in tutt’altra direzione. Lo studioso francese Raymond Aron ha dedicato gran parte dei suoi scritti e della sua elaborazione politicofilosofica alla sintesi tra queste due opere: "Machiavelli - scr ive Aron - non raccom anda le t irannie e t esse invece l’elogio della libertà romana. Ma riconosce la necessità dei dittatori e persino dei monarchi assoluti, laddove invece i popoli corrott i sono indegni e incapaci di or dinament i liberi" (Aron 1993,100 -101)

L’erronea

sintesi

del

machiavellismo

nella

massima

secondo cui ‚il fine giustifica i mezzi‛, che costituirebbe l’esaltazione di ogni violenza, menzogna e vessazio ne, in realtà tradisce l’insofferenza di coloro che non si sono mai rassegnati a una dimensione laica della politica, capace, senza principi metafisici e ultraterreni, di badare al bene della comunità e di ogni suo singolo membro, e l’arroganza di quanti, prescindendo da qualsiasi capacità o voglia di mettersi al servizio degli altri, hanno usato tutti i mezzi a disposizione per raggiungere i fini più ignobili. Va perciò recuperata l’autenticità alta e profonda del messaggio dell’intellettuale fiorentino, c olui che, come scriveva il Foscolo ne I Sepolcri ‚temprando lo scettro a’ 75


regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue‛. La mancanza di etica nella politica va ricercata, allora, nell’analisi

delle

cause

che

hanno

consentito,

storicamente, l’imporsi, nella lotta per il potere, di quanti hanno affidato la propria forza e le proprie fortune alla volontà di dominio. Non per esercizio di erudizione o per amore della storia, ma perché non si può pensare che la volontà di dominio e la sua degenerazione nei regimi totalitari, anche oggi che appare superata l’era dei conflitti ideologici, siano state sconfitte una volta per sempre: i sistemi democratici ne sono tutt’altro che immuni. Luciano Gallino, a questo proposito, sottolinea come sia sempre

possibile

la

fine

della

democrazia

poiché,

indipendentemente dalle condizioni storiche, economiche e

sociali,

‚gli

avversari

della

democrazia

circolano

numerosi tra noi, ma stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto ch’è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà‛ (Gallino 1994,XIII). L’angoscia per il futuro mal si coniuga con la volontà di decidere da soli e così si preferisce delegare ad altri la scelta. L’esempio italiano è forse tra quelli più calzanti. La democrazia repubblicana, figlia della guerra e della Resistenza, ha partorito un sistema di corruzione e un intreccio perverso tra politica, imprenditoria e malaffare che ne ha messo in discussione le fondamenta, i presupposti e la credibilità. Come chiamare, se non 76


volontà di dominio, il potere di cui alcuni si sono serviti per accrescere fortune e patrimoni personali a discapito degli interessi collettivi? Chiaramente il discorso non è limitato o circoscrivibile alla realtà italian a: in ogni democrazia l’ontologia della politica ha dimostrato di non disdegnare il ‚particulare‛, lo scambio, il mercimonio tra gli interessi di pochi; anzi, ha cominciato a farsi campo d’azione

privilegiato,

professione,

diplomazia,

scacchiera, logica di interessi. Vale la pena chiedersi a questo punto se ciò sia stato il risultato inevitabile di quella che Chiodi ha definito ‚l’illusione

democratica‛

o

se,

invece,

non

tanto

il

sistema, quanto gli uomini ne siano stati la causa effettiva. La risposta deve

essere inequivocabile: il

potere politico diventa dominio quando gli interessi personali e di parte sono prevalenti e si scontrano con quelli collettivi ed è, allora, inevitabile il suo degenerare che porta a forme di totalitarismo o a pseudo democrazie fondate su un sistema clientelare e sulla corruzione.

La degenerazione delle ideologie

Da quando Hobbes e Machiavelli hanno decretato la nascita della politica e della gestione del potere come vera e propria scienza, le epoche si sono succedute non più all’insegna della religione e del puro pensiero, ma della consapevolezza che i sistemi politici e sociali possono produrre le coscienze e che, ormai, non sarebbe più potuto accadere il contrario. 77


Dall’assolutismo moderno in poi, il Potere in quanto sistema, ossia in quanto Stato, ha attraversato la sua apoteosi di ‚weltanschauung‛ (visione totale della vita e del mondo) che ha plasmato le identità, i costumi e gli eventi della storia. Il Novecento, così povero di filosofie forti e di ‚massimi sistemi‛, ha forse trovato nella nascita delle ideologie politiche la sua filosofia dominante. E’ stata un’epoca che ha capovolto i parlamenti e i sovrani ottocenteschi e che, dopo gli assolutismi moderni, ha portato alla nascita di nuovi poteri impersonali: i totalitaris mi. Storicamente, sono state le ideologie conservatrici a farsi portavoce della visione del potere come dominio, e con esse i regimi totalitari, ma anche in questo caso non è possibile generalizzare. Mentre, ad esempio, non esiste alcuna differenza sostanz iale tra l’ideologia del nazismo e la sua applicazione concreta, tra l’ideologia comunista, il marxismo e i regimi dell’Est (lo stalinismo) le differenze sono consistenti. Da un punto di vista strettamente teoretico si ha difficoltà a parlare di ideologia del nazismo o del fascismo, poiché le produzioni teoriche sono state assai limitate e prive di qualsiasi valore letterario e non a caso sia Hitler che Mussolini hanno attinto a piene mani da pensatori che nulla avevano a che fare con le loro farneticazioni : basti pensare all’utilizzo che il nazismo ha fatto di un filosofo libero come Nietzsche. Il nazismo e il fascismo sono esattamente ciò di cui la storia ha reso testimonianza. 78


Le ideologie della sinistra, dal lato opposto, possono contare

su

migliaia

di

pensatori

e

di

elaborazioni

teoriche. Sono

sempre

state

queste

ideologie

a

fornire

gli

argomenti e gli strumenti delle battaglie che, via via, si sono succedute per l’affermazione di una reale giustizia sociale, dell’uguaglianza, della libertà, contrastati da coloro che facendosi scudo di idee conservatrici e di falsi principi morali si opponevano a ogni tipo di progresso per difendere a oltranza privilegi anacronistici e ‚feudali‛. Lo studioso Mario Stoppino elenca alcune differenze fondamentali tra l’ideol ogia comunista e quella nazifascista che vale la pena riportare, perché esplicitano compiutamente la struttura di due concezioni e visioni del mondo assolutamente antitetiche e conflittuali: L’ideologia comunista è un insieme di pr incipi coerent e ed elaborato, che descrive e guida una trasformazione tot ale della struttura economico - sociale della comunità; quella fascista, di cui si tiene qui presente la più radicale versione nazista è un insieme di idee o di miti assai meno coerente ed elaborato, che non prevede né guida una trasformazione economico sociale della comunit à; l’ideologia comunista è umanist ica, razionalistica, universalistica: il suo punto di partenza è l’uomo e la sua ragione; ed essa assume perciò la forma di un credo univer sale, che abbrac cia l’int ero genere umano. L’ideologia fascist a è organicistica, irrazionalist ica e antiuniversalistica: il suo punto di partenza è la razza concepita come un’entit à assolutam ente super iore

agli

presuppone

la

uomini bont à

singoli e

la

[...]

L’ideologia

perfettibilità

com unista

dell’uomo

e

mira

all’instaurazione di una situazione sociale di piena uguaglianza e libertà

[...]

L’ideologia

fascista 79

presuppone

la

corruzione


dell’uomo e mira all’instaurazione del dominio assolut o di una razza

sopr a

tutte

le

altre

(Bobbio-Matteucci-Pasquino

1990,1174).

Se ciò corrisponde a una verità storica è però difficile trovare, ad esempio, nella Russia di Stalin, o più recentemente nella Romania di Ceauçescu, tracce di ciò che Marx pensava dovesse essere il comunismo, oppure di

ciò

che

Lenin

collettivizzazione

immaginava

dell’economia;

dover la

essere

la

definizione

di

‚capitalismo di stato‛ data ai regimi dell’Est è forse quella che meglio traccia la distanza con l’idea di comunismo cui dicevano, formalmente, di volersi rifar e. Questo perché la degenerazione dell’ideologia si deve ricondurre, ancora una volta, al problema del potere; il potente ‚malato‛, e tanti se ne sono visti nei regimi dell’Est, traduce qualsiasi ideologia in un mezzo per raggiungere i suoi scopi personali . Il comunismo e il marxismo sono ideologie che non hanno mai trovato un’attuazione pratica conforme e coerente alla teoria; si può discutere se ciò sia possibile, se non siano destinate a rimanere inevitabilmente nel limbo delle belle utopie, ma è un dat o di fatto che i regimi che a esse si sono ispirati, e nel loro nome organizzati, si sono rivelati, il più delle volte, delle caricature destinate, come poi è avvenuto, a crollare miseramente.

80


Perché è stato possibile che ideologie assai differenti abbiano costruito prassi di dominio sostanzialmente identiche? Il totalitarismo, termine che dai primi del Novecento sostituisce

quello

ormai

obsoleto

di

tirannia,

per

designare tutte le dittature monopartitiche, è una forma di dominio che, come affermava Hanna h Arendt, non si limita a distruggere l’uomo in quanto soggetto politico, ma

annienta

anche

le

istituzioni

e

i

gruppi

che

rappresentano il tessuto delle relazioni private dell’uomo, espropriandolo della sua dimensione sociale nonché del proprio Io. I regimi totalitari, a prescindere dalle ideologie cui dicono,

formalmente,

caratteristiche

comuni:

di

far

riferimento,

innanzitutto

essi

hanno vogliono

‚tradurre in realtà il mondo fittizio della ideologia, e confermarla tanto nel suo contenuto

[...]

quanto nella sua

logica deformata. Essi colpiscono, infatti non solo i nemici reali

[...]

(Ibidem,1170);

ma anche e tipicamente quelli oggettivi‛ secondariamente,

il

capo

è

il

solo

depositario dell’ideologia ufficiale: c’è un partito unico di massa e viene instaurato un regime di terrore poliziesco che

pretende

di

avere

il

controllo

assoluto

delle

coscienze e delle conoscenze. Mediante l’ideologia, i regimi totalitari mettono in atto la pratica

dell’inculturazione,

ossia

dell’educazione

dell’individuo, trasferendo u na cultura, e quindi una società,

debitamente

‚filtrate‛.

La

trasmissione

d’ideologia è la trasmissione del modo inconscio con cui 81


vengono

percepiti,

persone,

le

accettati

situazioni

e

i

e

subiti

gli

comportamenti

oggetti, da

le

parte

dell’individuo inculturato. Egli, nell’atto di acquisizione e d’introiezione

dell’ideologia,

diviene

anche

inconsciamente un nucleo del potere totalitario, poiché è agente attivo della cultura e dell’ideologia. Il terrore totalitario, inoltre, imposto dall’ideologia e dalla ‚logica della personalizzazione del potere inibisce ogni opposizione e anche le critiche più tenui, e genera coercitivamente l’adesione e il sostegno attivo delle masse al regime e al capo personale‛ (Ibidem,1180). Ma si tratta, con tutta evidenza, di un sos tegno fittizio che affonda le sue motivazioni nella paura ed è per questo destinato a finire, anzi il più delle volte a trasformarsi in odio rivoluzionario contro quei regimi. Dice bene David Donnini

che

gli

eccessi

dei

regimi

comunisti

rappresentano gli esempi storici più eclatanti di come un idea nata nel nome della giustizia, del riscatto degli oppressi, della libertà e dell’uguaglianza sia riuscita a mutarsi nell’autoritarismo di una vera e propria tirannia. Si capisce bene che in questo quadro e dentro queste precise

caratteristiche

differenze

ideologiche:

non i

hanno

gulag

alcun

staliniani

senso sono

le

stati

sostanzialmente identici ai campi di concentramento nazisti, così come i morti di Piazza Tien An Men e quelli degli stadi cileni dopo il golpe di Pinochet. Tornando alla domanda sul come e il perché dei regimi totalitari, Stoppino scrive che le condizioni che hanno reso possibile il totalitarismo vanno rintracciate nella 82


‚formazione della società industriale di massa‛, nella ‚persistenza di una arena mondiale divisa‛ e nello ‚sviluppo della tecnologia moderna‛ (Ibidem). Da un lato, infatti, l’industrializzazione ha generato insicurezza e mobilità

sociale,

dall’altro

lo

sviluppo

tecnologico

coniugato con gli strumenti della violenza, dei mezzi di comunicazione, delle tecniche organizzative nonché di quelle di sorveglianza e controllo ‚consentono un grado massimo della

di

penetrazione-mobilitazione

società,

che

non

ha

precedenti

monopolistica nella

storia‛

(Ibidem). Questa prima spiegazione è certamen te plausibile, ma ritengo che le motivazioni e le ragioni più profonde vadano cercate altrove e precisamente nell’individuare il processo

di

degenerazione

che

ha

portato

idee

e

ideologie ‚giuste‛ a essere piegate e trasformate in strumenti di oppressione. Nel libro della Repubblica, Platone individua quattro forme di governo: timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannia, destinate a succedersi in continua graduale discendenza:

ossia

ciascuna

rappresenta

la

degenerazione di quella che la precede, fino a toc care il gradino più basso rappresentato dal tiranno. Ciascun tipo di governo è, secondo Platone, potenzialmente positivo poiché fa riferimento a principi validi che sono: l’onore nella timocrazia, la ricchezza nell’oligarchia, la libertà nella democrazia, il potere nella tirannia. Ma proprio questi

principi

sono

destinati 83

inevitabilmente

a


corrompersi e a far degenerare il governo e con esso lo Stato. Per Platone, scrive Norberto Bobbio, la corr uzione di un principio sta nel suo eccesso. L’onore dell’uomo

timocr atico

ambizione

smodat a

si e

corrompe brama

di

quando potere.

si

trasform a La

in

r icchezza

dell’oligarchico quando diventa avidità, avarizia [...] La libertà del democrat ico quando diventa licenza, credere che tutt o sia lecito, ogni regola possa esse re impunemente trasgredit a. Il potere del tiranno, quando si trasforma in puro arbitrio e violenza fine a se stessa (Bobbio 1976,23).

Marx, dal canto suo, riteneva che tutte le ideologie fossero idee false, frutto delle relazioni e delle condizioni materiali dell’uomo, emanazioni dirette delle idee della classe dominante, destinate a essere eliminate nella futura società comunista. Non solo: nello sviluppo della lotta di classe, Marx riteneva il ricorso alla violenza e alla dittatura del proletariato inevi tabili, ma temporanei e necessari per trasformare la struttura sociale borghese e capitalista in una comunista. Proprio come i principi di Platone,

questi

che

sono

elementi

qualificanti

del

pensiero marxista, nel corso degli eventi storici, sono stati ‚corrotti‛ fino a perdere le connotazioni originali. La violenza e la dittatura del proletariato sono rimaste fini a se stesse, trasformandosi in puri e semplici strumenti di controllo sociale e di oppressione, l’ombrello dietro cui nascondere una pratica di gestione del potere non

dissimile

dai

regimi

reazionari;

il

marxismo

è

diventato l’ideologia ufficiale dei paesi dell’Est con forme 84


di ritualità, culto della personalità e venerazione dei capi non troppo diverse da una religione qualunque. E’ vero, la contingenza storica, la guerra fredda, gli armamenti nucleari, il dover soddisfare le esigenze di un territorio e di una popolazione vastissima, vissuta per secoli in condizioni di assoluta miseria e sfruttamento, hanno imposto di sacrificare le idealità alle necessità, ma non può essere taciuto il fatto che i burocrati e i funzionari di partito nulla hanno fatto per impedire che idee giuste degenerassero fino ad assumere, agli occhi della gente, le sembianze di strumenti liberticidi e oppressivi. Anzi, pur di mantenere il potere, la ‚gerontocrazia‛ dei paesi dell’Est ha ignorato e represso i mutamenti sociali, le esigenze economiche e le richieste di riforme levatesi da più parti, fino a trasformarsi in quei regimi totalitari che sono poi stati travolti nel no me di nuove libertà e di nuovi bisogni. Troppo

recenti

sono

i

fatti dell’89,

per

avere

una

comprensione esaustiva di quanto accaduto, per capire esattamente

quali

elementi

abbiano

agito

da

catalizzatore di un mutamento politico e sociale senza precedenti, ma di certo quanto avvenuto negli anni scorsi nell’Europa dell’Est dimostra, qualora ce ne fosse stato bisogno,

che

interessi ignorati

il

potere

collettivi a

favore

diventa

vengono di

interessi

dominio

subordinati, di

parte,

personali, di partito o di apparati burocratici.

85

quando

gli

sacrificati, siano

essi


Dopo la caduta del muro di Berlino anche le democrazie occidentali non sono state più le stesse; scomparso lo ‚spettro del comunismo‛ e con esso il riferimento ideale di molti partiti di sinistra, e l a ragion d’essere di altrettanti partiti di destra, basati esclusivamente sulla paura del comunismo, si sono mitigati di molto le asprezze e i toni nella lotta per il potere. Ciò doveva essere un bene, ma di fatto ha prodotto un marcato

impoverimento

del

dibattito

politico,

un

appiattimento delle posizioni, una sostanziale uniformità dell’agire dei partiti. Vi sono state epoche in cui si credeva nei valori ideali della politica e si era disposti anche alla rivoluzione pur di riaffermare una piena giustizia sociale; gli scontri hanno condotto nel tempo a un sistema sicuramente più evoluto e più umano. Ora che sono finiti i tempi delle grandi riforme, delle ideologie, sembra che il dibattito tra le varie fazioni abbia perso consistenza. Si discute sempre meno di programmi e di idee e si preferisce

basare

lo

scontro

esclusivamente

su

reciproche accuse, scadendo spesso in una schermaglia polemica di basso livello. Si ricorre, come denuncia Giorgio Bocca, a programmi vaghi

e

demagogici

e

si

adotta

un

linguaggio

insignificante che priva ogni schieramento della sua identità; sono tutti cattolici, moderati, democratici. ‚Non esistono più differenze di morale, di stile, di cultura, di convinzioni politiche ma esiste soltanto il 86


potere, con la sua società promiscua che è il suo brodo di coltura‛ (Bocca 1996). Occorrerebbe riscoprire il vero significato della politica quale impegno a contrastare in ogni modo il potere come dominio, per riaffermare l'improrogabile esigenza di una gestione

degli

interessi

comuni

a

servizio

della

collettività.

Purtroppo la storia dimostra che sono rari i casi di esercizio del potere come capacità e servizio, e quasi sempre,

come

abbiamo

visto,

accedono

a

ruoli

governativi persone con qualche elemento di anormalità. Eppure non bisogna essere degli utopici sognatori per immaginare una politica intesa come servizio, luogo di confronto e anche di scontro, da cui sappiano generarsi scelte

di

libertà,

giustizia,

uguaglianza

e

pari

opportunità. Bobbio ha ragione nell’affermare che è il successo il metro di giudizio dell’azione politica, ma ciò in una generale condivisione delle regole e di quei principi fondamentali

appena

citati

che

dovrebbero

essere

costitutivi di ogni moderna democrazia. Considerato, però, che l’esperienza e il corso degli event i ci hanno insegnato come, al di là della retorica, ciò quasi mai corrisponda a realtà, non è possibile, allora, prescindere dai fini ultimi, e quindi ideali, delle forze politiche (non di rado

traditi

proprio

in

nome

del

successo

nel

contingente). Se il fine di un partito è la libertà e quello del

suo

antagonista

l’oppressione, 87

non

è

possibile


pensare di equipararli o che il successo possa essere l’unico metro di giudizio, poiché esistono una diversa etica, coerenza e validità, anche dei fini, così come, spostando il discorso dai partiti alle persone singole che operano in politica, non basta più riferirsi esclusivamente alla condivisione dei fini del partito o dell’ideologia di riferimento. La cultura è l’unico strumento in grado di restituirci la dimensione più autentica del potere politico. Cultura, o culture, non significa erudizione fine a se stessa o sterile conoscenza enciclopedica, bensì essa deve essere unita indissolubilmente alla ragionevolezza e alla sensibilità d’animo che permettono di non fer marsi alle apparenze, ma

spingono

con

irrefrenabile

curiosità

all’indagine

dell’essenza delle cose per coglierne ‚l’intimità‛ più profonda, individuando realmente dove risiedono il ‘vero’ e il ‘giusto’.

88


CAPITOLO QUINTO UNA LUCE NELL’OSCURITA’

Quante cose, [...] ci servono come taciti schiavi, senza sguardo, stranamente segr ete! Dureranno più in là del nostro oblio; non sapran mai che ce ne siamo andat i. (Borges 1969, 47)

Potere e ricchezza

Come ha scritto Luciano Gallino, chi ha molto potere solitamente mira a conquistare un proporzionale grado di ricchezza e di prestigio, così come questi ultimi sono strumenti destinati ad accrescere il potere di un individuo o

di

una

collettività

(Gallino

1979,177).

La

stretta

parentela tra ricchezza e potere ci inte ressa molto da vicino: anche le forme di potere apparentemente più aliene

da

tale

'matrimonio

di

interessi',

come

per

esempio le dittature militari, nascondono in realtà una latente attrazione per il prestigio dell'oro: pensiamo al regime di potere di Ceauçescu e ai beni e tesori che aveva segretamente accumulato. E’ necessario, allora, soffermarsi su questa particolare attrazione fatale tra ricchezza, prestigio e potere e capire cosa li lega tra loro.

89


Tendiamo

facilmente

a

dimenticare

che

il

sistema

economico dovrebbe radicarsi nel consenso sociale e fondarsi su una riconosciuta legalità, mentre in realtà esso si accresce in modo tutt'altro che regolare e diventa facilmente strumento di prevaricazione. L’etimologia della parola ‚economia‛ è greca e vuol di re, letteralmente, ‚governo della casa‛. Famiglia, collettività, Stato, in questo senso, sono forme di organizzazione sociale che necessitano di un "governo", di una gestione delle

loro

risorse.

Governare

tali

risorse

significa

controllarle e accrescerle e, soprattutto, finalizzarle al sostentamento della comunità di persone che ne fanno parte. E' questa l'estensione di significato del termine economia per tutto il corso dell’antichità e del Medioevo. Nessun filosofo, pensatore o intellettuale del passato, infatti,

che

abbia

scritto

opere

che

trattassero

di

economia, è mai andato oltre la misura dei consigli, magari su come gestire la propria elegante tenuta di campagna. Da Varrone (I sec. a.C.) a Leon Battista Alberti

(XV

organizzare

sec.) delle

l’economia risorse

era

l’atto

o

l’art e

di

sostentamento

di o

mantenimento della vita: come tale non era degna di guadagnarsi un settore specifico di speculazione o di riflessione. Gradualmente, con la nascita del mercato e il suo costante

potenziamento,

il

concetto

di

economia

si

trasforma profondamente. L’ampliamento e la scoperta di nuove rotte commerciali tracciano una nuova ‚geografia‛ 90


del mercato, che condiziona in modo straordinario la distribuzione e lo sfruttamento delle risorse. Inoltre, cosa tutt'altro che t rascurabile, le risorse non sono più esclusivamente naturali, ma anche e soprattutto umane, poiché è dallo sfruttamento dell’ingegno e della dell’uomo

forza-lavoro

che

origina

quella

crescita

ininterrotta di produzione di beni che dalla rivoluzione tecnologica ad oggi non ha mai subìto arresti. Nel momento in cui si comprende che una diversa organizzazione delle risorse umane può cambiare i ritmi naturali del mantenimento e del sostentamento della vita, s’intuisce che l’economia non è solo un potere da esercitare nella nuova realtà commerciale e politica, ma anche

un

modo

di

concepire

l’esistenza

dell’uomo.

L’economia diventa insomma una ragione di vita, una delle risposte possibili che l’uomo si dà per spiegare se stesso e il suo posto nel mondo, elevando a lla dignità di valori assoluti elementi come il profitto, il mercato e il lavoro. Questa intuizione matura nel Settecento, secolo in cui si sono delineati quegli equilibri e quei giochi di potere decisivi per la determinazione della mappa politica ed economica delle future nazioni. Dalla giustificazione e legittimazione della gestione delle risorse vengono allora gettate le basi per la giustificazione logica, filosofica e antropologica

del

potere

economico,

le

basi

della

legittimazione dello sfruttamento de ll'uomo sull'uomo: uomini e Stati, che sono in grado di sfruttare meglio le 91


enormi potenzialità dell’economia, potranno esercitare il proprio dominio su altri uomini e su altri Paesi. Grazie a intellettuali e pensatori che fanno dell’economia il fulcro dei loro studi si diffondono correnti e dottrine economiche, mentre acquistano fama le opere di Adam Smith, di David Ricardo e di John Stuart Mill, i campioni del liberismo. Fisiocratici, giusnaturalisti e teorici del liberismo non parlano più solo di tecnich e agricole, di industria e di commercio, ma fanno dello specifico economico un campo speculativo e filosofico. Grazie alla loro riflessione, l’economia diventa ‚potere economico‛ e, attraverso nuovamente

la

sua

definizione

concettualizzate

teorica,

idee

vengono

fondamentali

per

l’essere umano: natura, storia, convivenza civile, libertà, stato, progresso.

La mistificazione dell'oppressione: l'ideologia capitalista

Questa cornice serve per illuminare una verità troppo spesso occultata: ogni forma di potere, economico e politico, giustifica e legittima il suo esercizio - nonché i suoi abusi - attraverso assunti teorici arbitrari. Non occorre essere studiosi di economia per comprendere che

un'organizzazione

sociale,

che

si

fondi

sullo

sfruttamento dell'uomo sull'uomo e sull'alienazione del tempo

e

dello

spazio

vitale

degli

individui,

è

fondamentalmente ingiusta. E ogni ingiustizia, pur se supportata e legittimata da sofisticate enunciazioni di principio, cela l'inganno. 92


Per comprendere quanto la libertà e il bi sogno di sicurezza siano considerati beni primari e inalienabili, pensatori antichi e moderni si rifacevano al concetto di "stato di natura", una sorta di condizione originaria dell’uomo, anteriore all’istituzione di una convivenza organizzata e regolata da leggi positive, in cui la vita, la libertà e la proprietà rappresentavano diritti originari e incoercibili. Tuttavia uno stravolgimento del significato di "libertà" e "proprietà" ha finito per giustificare qualsiasi azione compiuta in loro nome: in nome del progresso e dell'espansione del benessere individuale si è precipitati nell'arbitrio

economico,

sulla

base

di

teorie

evoluzionistiche di stampo darwiniano che fanno apparire il nostro sviluppo capitalistico un percorso inevitabile, unidirezionale

e

continuo,

dalla

scimmia

all’‚homo

aeconomicus‛. Ma come possiamo credere che tale "sviluppo naturale" inerisca solo un numero più che ristretto di individui, mentre la maggioranza dei viventi sul pianeta è chiamata a subire le conseguenze di uno sfruttamento continuo delle risorse? Non possiamo più ignorare i drammi e le nefandezze che lo sviluppo economico porta con sé come sua ombra. La storia delle idee aiuta a comprendere meglio il senso di

quanto

appena

affermato.

La

parola

libertà,

ad

esempio, è stata tradotta dal liberalismo economico con arbitrio e inganno. Non è, come vedremo, piena libertà, ma una libertà ‚controllata‛ da una serie di ‚correttivi‛ che favoriscono la concentrazione del potere nelle mani di pochi. 93


Per i grandi capitalisti vuol dire, es senzialmente, avere le mani libere da qualsiasi ‚fastidioso‛ vincolo legale, legittimare lo sfruttamento del lavoro altrui, limitare la concorrenza e assumere il profitto come regola non solo del mercato, ma anche delle scelte politiche e degli interventi sociali. Allenati da secoli di prepotenze e indebite

ingerenze,

essi

chiamano

‚oppressione‛

qualsiasi tentativo di limitarne o delimitarne l’immenso potere. Per loro la libertà si identifica con la possibilità di fare ciò che si vuole pur di accrescere le proprie ricchezze, con il risultato di far pagare ai molti con la miseria, il lusso e il benessere di pochi. Lo stesso Marx sembra non sia stato mai compreso su questo punto: nel teorizzare la futura società comunista, il pensatore non si esprimeva affatto contro la proprietà in

generale,

ma

contro

‚l’esproprio‛

perpetrato

dai

padroni ai danni dei beni, delle ricchezze, della vita di altri uomini. Era contrario allo sfruttamento e denunciava l’ingiustizia di un sistema in cui era consentito privare il lavoratore del prodotto del proprio lavoro e quindi, in sostanza, privarlo della sua proprietà. Ciò che distingue il comunismo - è scritto nel Manifest o del Partito comunista - non è l’abolizione della propr ietà in generale, bensì l’abolizione della propr ietà borghese [...] Il comunismo non toglie a nessuno la facolt à di appropr iarsi dei prodotti sociali; toglie solt anto la f acoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altr ui (Marx -Engels 1848,24 -27).

94


E’ già stata sottolineata, nel precedente capitolo, la distanza dei cosiddetti ‚Paesi del Socialismo Reale‛ dal comunismo teorizzato da Marx, ma sul problema della proprietà

appare

ancor

più

evidente.

Essi

hanno

sostituito all’esproprio del padrone, quindi del privato, un esproprio statale che ha comunque impedito ai cittadini di

avanzare

il

possesso

dei

‚prodotti

sociali‛,

mantenendo di fatto, sotto mentite spoglie, l’alienazione e

lo

sfruttamento

del

lavoro

salariato

dei

regimi

capitalisti. ‚Tutto il potere ai soviet‛, aveva ordinato, invano,

Lenin

decentramento

in

punto

del

potere

redistribuzione

di

che

affinché

permettesse

delle

quell’accentramento

morte,

anche

ricchezze è

poi

e

avvenuto

e

il una non

che

ha

trasformato in ‚capitalismo di Stato‛ i sistemi economici dei Paesi dell’Est. E’ mancata, in sostanza, una dimensione libertaria del comunismo

in

grado

di

superare

l’etica,

di

chiara

impronta ottocentesca, della ‚liberazione del lavoro‛ per passare alla ‚liberazione dal lavoro‛. Ancora alle soglie del Duemila il lavoro somiglia spesso a una nuova forma di schiavitù. Nella maggioranza dei casi,

il

tempo

è

quasi

esclusivamente

assorbito

e

scandito sulla base dell'organizzazione del lavoro, che consuma in maniera totalizzante le energie dell'individuo, incapace poi di soddisfare altri personali b isogni e aspirazioni. Ognuno di noi dovrebbe avere la possibilità di realizzare se stesso e di sviluppare i propri talenti attraverso l’attività lavorativa, ma le leggi del mercato e 95


del potere impongono che ritmi personali e talenti individuali vengano sacrificati alla produzione di beni di consumo. Questo

ci

è

stato

imposto.

Così

ci

affanniamo

disperatamente nella ricerca di un impiego finché, una volta trovato, ne veniamo assorbiti a tempo pieno al punto da non avere più spazi privati per noi, per le nos tre aspirazioni, per dare adito alla nostra creatività. Non siamo più noi a decidere, ma i ritmi e le necessità quotidiane. Perché,

viene

allora

da

chiedersi,

si

condanna

giustamente la pratica dell’usura ma si accetta, come la più normale delle cose, l’usura quotidiana praticata ai danni di coloro i quali, in cambio di uno stipendio appena sufficiente per sopravvivere, si vedono privati, a un tasso elevatissimo, di anni, idee ed energie? Proprio come per l’usura, anche in questo caso è il bisogno

a

generare

un

meccanismo

perverso

di

dipendenza e ricatto capace di determinare le dinamiche sociali interne a ciascuno stato, nonché le gerarchie e i rapporti di forza tra nazioni ricche e nazioni povere. Per secoli le potenze economiche hanno effettuato un vero e proprio saccheggio delle risorse dei paesi del terzo mondo; per secoli esse hanno sfruttato centinaia di migliaia di persone, sottopagate e costrette a ritmi lavorativi infernali, imponendo un modello e un tenore di vita del tutto estraneo a quelle terre e a quelle genti. Non solo.

Il

mercato

ha

anche

creato

esigenze,

prima

sconosciute, da soddisfare ad ogni costo: così, ad 96


esempio,

in

Albania

può

mancare

il

minimo

indispensabile per sopravvivere, ma quasi ogni famiglia possiede un antenna satellitare per la tv! Ora che i flussi migratori sono diventati più consistenti e che in tanti sono venuti a presentarci il conto della loro miseria, l’opinione pubblica inizia a interrogarsi sulle condizioni di questi paesi, ma quasi mai si ha l’onestà intellettuale di riconoscere i veri responsabili e le ragioni di fondo che le hanno determinate. La coscienza sociale non giustifica l’usura ma ha ormai ‚metabolizzato‛ la pratica dello sfruttamento del lavoro, due

esercizi

identici

nei

principi

e

nel

metodo,

consistente nel trarre ingiusti profitti da uno stato di bisogno altrui. I valori della libertà e il riconoscimento del diritto alla proprietà

si

sono

trasformati,

insomma,

nella

legittimazione dello sfruttamento di migliaia di persone, perpetuando l’arbitrio di chi, come ricorda Rousseau nel Contratto sociale, per primo osò dire: ‚questo è mio‛ e trovò uomini disposti a credergli. L’evoluzionismo

darwiniano

trova

in

questo

arbitrio,

forse, la sua incarnazione più compiuta, poiché ci offre l’immagine che un’epoca aveva della felicità dell’uomo. Dato che nei suoi ‚cromosomi‛ è scritta la parola ‚proprietà‛,

l’uomo,

per

essere

felice,

deve

agire

assecondando tale bisogno, il quale ovviamente detta le regole dell’interesse personale, della produttività e del profitto.

Queste

regole,

com’è

nello

spirito

dell’evoluzionismo, selezionano il più adatto o meglio il 97


più forte, come erroneamente si è voluto attribuire al pensiero di Darwin. Ma, in campo sociale, la legge del più

forte

non

è

affatto

segno

di

evoluzione

e

di

progresso. Essa è la malattia del potere. Il paradosso di tali regole è quello di non esistere in quanto

tali:

l'economia

è

un

organismo

che

si

autogoverna, che non ha bisogno di nessuna norma al di fuori di quella che lui stesso prescrive secondo l’utile. I concetti di evoluzione e di utile hanno delle radici nobili: si pensi all’idea, sanamente laica, del progresso umano

che

è

implicita

nella

teoria

evoluzionistica

darwiniana; si ricordi come Jeremy Bentham abbia fatto dell’utile il principio base della filosof ia dell’utilitarismo, assumendo come scopo principale della vita quello della felicità del maggior numero possibile di persone. Come la storia delle idee e delle prassi politiche ci insegna, il pericolo consiste nella metamorfosi di un concetto in un precetto assoluto. E' ciò che è accaduto al concetto di evoluzione e a quello di utile i quali, nati dalla legittima richiesta dell'uomo di affrancarsi da ogni principio di autorità, sono stati utilizzati per giustificare una gestione arbitraria e iniqua delle risorse, invalidando il diritto fondamentale della pari dignità tra simili, a prescindere

da

condizioni

sociali,

economiche,

dal

proprio potere o dalla propria forza. In quest’ottica, il più forte tra gli individui è colui che per iniziativa, proprietà e profitti può mettersi in rapporto con altri forti, allearsi con loro per gestire le risorse umane e naturali della comunità nazionale o internazionale. E’ 98


colui che può dettare le regole per un antagonismo controllato, fino a quando la libera concorrenza no n apparirà più utile. Ecco cosa scrive Adam Smith: Un elemento di ‚sim patia‛ porta l’individuo ad espr imere un giudizio favorevole sul comportamento altrui e ad aspettarsi altrettanto dagli altri: è un insieme di reciproche aspettat ive che lega gli indiv idui tra loro e f a della società un sistema di scambi di servizi tra gli individui. In questo sistema la libertà è la condizione di ogni possibile progresso e le ingiust izie create dalla libertà economica non sono t anto insopportabili da giustif icare una r inuncia alla libertà stessa; infatti solo l’assolut a libertà della natur a umana conduce alla condizione ottimale per la creazione del suddetto sistema di scambi: la divisione del lavoro. L’individuo lasciato libero è in grado di scegliere la via che assicu ri a lui e quindi alla collett ività il massimo benef icio ( A. Smith 1759,85)

In fondo il protezionismo non è il ‚nemico giurato‛ del liberismo, poiché, come si ritiene da più parti, è una sorta di ‚instrumentum regni‛ del liberismo avanzato. Infatti, a cominciare dal lontano 1880, vennero elaborati argomenti a favore di una moderata regolamentazione del

libero

scambio

che

fungevano,

di

fatto,

come

contributi alla protezione della produzione nazionale, ma anche e soprattutto come un formidabile mezzo di conservazione dell’ordine sociale esistente. Lo Stato servì a privilegiare i prodotti nazionali e le grandi concentrazioni di capitale: cioè un solo unico ‚forte‛ o pochi ‚forti‛. A ben guardare è questo lo stesso fine a cui tende ‚l’evoluzionismo‛ economico implicito nel gioco liberistico 99


delle iniziative private: la vittoria di un individuo o di una categoria di individui, e ciò a qualunque costo e con ogni mezzo. E’ una sorta di ‚patologia‛. Giovanni Verga utilizzava metaforicamente l'immagine de ‚la

fiumana

del

progresso‛,

proverbiale

espressione

presente nella prefazione ai Malavoglia: Il camm ino fatale, incessant e, spesso faticoso e febbr ile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo r isultato, visto nell’insieme, da lontano [...]. Il

risultato

umanit ario

copre

quanto

c’è

di

meschino

negli

interessi particolari che lo pr oducono: li giust ifica quasi come mezzi necessar i a stimolare l’attività dell’individuo cooper ante inconscio a benef icio di tutti. Ogni movente di cotesto lavor io universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevat e am bizioni, è legitt imato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’at tività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla f iumana, guardandosi attorno, ha il dir itto di interessar si ai deboli che restano per via, ai f iacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finir e più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto

il

piede

brut ale

dei

sopravvenienti,

i

vincitor i

d’oggi

affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare e che sar anno sorpassati domani (Verga, ‚I Malavoglia‛ , 1881,4 -5)

La prefazione 'nichilista' ai Malavoglia, che ci aiuta a comprendere meglio il meccanismo perverso che ha separato l’uomo da se stesso, fu redatta nel 1881, nel pieno della rivoluzione industriale, nata nel nome del profitto e dell’utile, non del soddisfacimento dei bisogn i e 100


del

miglioramento

delle

condizioni

di

vita,

anzi

prescindendo e contro di essi.

Il potere e l'innocenza

Non si tratta più di mettere in discussione l'indubbia necessità

del

progresso

tecnologico,

tantomeno

di

prospettare un improbabile ritorno al pa ssato: ma è altresì

impossibile

dell'ideologia

dimenticare

liberale

e

delle

la

mistificazione

teorizzazioni

sulla

necessità del capitalismo, tese a fornire un supporto teorico a scelte operative che non avevano altro fine che l’accrescimento dei guadagni e dei capitali dei potentati industriali. La

pervasività

della

dimensione

produttiva

e

della

‚merce‛ nella nostra vita quotidiana non lascia spazio a dubbi. Dall'inizio della rivoluzione industriale ha preso piede, e continua ad essere perpetrato, il sacrif icio della coscienza di sé, degli altri e della realtà che ci circonda. Coscienza società

senza

umana

la

da

quale

nulla

un’immensa

differenzierebbe colonia

di

la

laboriosi

castori. Il nostro è un modo di esistere e di rapportarsi alle contraddizioni della realtà ben diverso dal ‚servizio reciproco‛ che, secondo Smith, lega gli uomini gli uni agli altri, poiché non è fondato sul commercio dell’utile, ma sull’interscambio

gratuito

delle

singole

diversità

individuali: queste cessano di essere degli atomi tra atomi e si fanno persone, fatte di carne e sentimenti che 101


si incontrano, si sfiorano, si evitano, ma comunque vivono di contatti motivanti e ricchi di senso. Tali ‘singolarità’ sperimentano lo spazio incommensurabile che esiste tra gli individui, lo spazio imprevedibile, libero dai

profitti

e

dalle

utilità,

così

immenso,

così

apparentemente ‚pieno di niente‛ che, indubbiamente, spaventa. Questa paura ricorda molto da vicino il sentimento di Ciaula nella celebre novella di Pirandello Ciaula scopre la luna (1925). Ciaula è un caruso che lavora in una solfara siciliana. E’ l’ultimo anello di una catena di sopraffazione che da Zì Scarda, suo padre-padrone, attraverso il sorvegliante Cacciagallina, latifondisti

giunge

del

Sud

a

uno

dei

post-unitario.

tanti

proprietari

Pirandello

ce

lo

presenta con una frase lieve e bellissima: il ‚ caruso, che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era)‛ (Pirandello 1925,1274). Un caruso la cui innata ingenuità e la cui innocenza affranca dai meccanismi del potere, pur facendo di lui ‚lo sfruttato‛ per eccellenza. Tuttavia, pur essendo avvenuta in lui la mutazione da uomo a ‚castoro‛, egli è un castoro che prova un sentimento: la paura. Essa gli deriva dal pensiero dell'immenso spazio vuoto e oscuro che circonda e sovrasta il sicuro alveo materno della solfara, al di sopra e al di là dell'oscurità protettiva della cava: il ‚buio vano della notte‛. Attraverso il sentimento puro di Ciaula si afferma la vera protagonista

della

novella: 102

questa

indiffere nte

e


spaventosa oscurità che lo attende alla fine della sua giornata di lavoro. Leggendo

il

racconto

si

prova

quasi

una

sottile

trepidazione nell’attesa che l’incontro tra questo uomo ‚mutante‛ e il vuoto si compia. Ma all’esterno Ciaula non trova, come temeva, il buio e il vuoto, metafore della morte; nel ‚silenzio nero‛, nell’‚impalpabile vacuità di fuori‛ viene colto, come può fare lo sguardo di un incontro per troppo tempo temuto e procrastinato, da ‚un occhio

chiaro,

d’una

deliziosa

chiarità

d’argento ‛

(Ibidem,1278), improvviso e abbacinante: la luna. Già quella sua paura di ‚talpa‛ lo aveva riscattato e il pianto finale, nell’ampio, ignaro velo di luce dello spazio reale, lo innalza alla dignità di uomo. La luna di Ciaula è lo spazio e il tempo ritrov ati e liberati: è il regno liberato dai fini, gratuito come uno sguardo, come l’imprevedibile realtà che ci aspetta fuori dai gangli dell’‚homo aeconomicus‛.

103


CAPITOLO SESTO L’INGANNO DELLE MENTI

E se la realtà, sotto i nostri occhi, si dissolvesse? Non nel nulla, ma nel più reale del reale (il tr ionf o dei simulacr i)? Se l’universo

moderno

dell’ipercomunicazione,

della ci

avesse

comunicazione, sprofondato,

non

nell’insensato, ma in un’enorme satur azione di senso, che si consuma del suo successo - senza gioco, senza segr eto, senza distanza? (Baudr illard 1987,69)

Linguaggio e potere

Gli strumenti che il potere utilizza per operare un controllo serrato in ogni ambito sociale e per impedire la coscientizzazione delle masse, la libertà delle scelte, dei comportamenti e delle idee non sono necessariamente coercitivi, come accade sotto dittatori e tiranni. Molto più frequentemente sono strumenti di controllo sofisticati e invisibili che pur non intervenendo fisicamente sugli individui

operano

in

maniera

subdol a

sulle

loro

coscienze, attraverso la 'conversione' della ragione e la seduzione dei sentimenti. Parliamo prima di tutto di uno strumento

sofisticatissimo

utilizzato

dal

potere

per

sedurre le coscienze: la parola, il linguaggio, strumento che proprio per questo risulta assai più pericoloso e difficile da combattere. 104


Il

progressivo

perfezionamento

delle

forme

di

comunicazione tra esseri umani è stato decisivo per la loro sopravvivenza e la loro convivenza; non mancano esempi che testimoniano come esso sia st ato uno strumento di selezione naturale della specie. Il passaggio dall'età dei segnali a quella dei segni verbali e successivamente a quelli scritti, ha segnato il processo di

sviluppo

della

massa

cerebrale

umana

con

il

concomitante sviluppo di straordina rie capacità operative e

soprattutto

dei

immagazzinamento

processi e

di

apprendimento,

trasmissione

di

informazioni.

Informazioni sempre più complesse e svincolate da condizionamenti materiali, corporei. La linguistica inerisce dunque non solo le struttur e elementari e universali del comunicare, ma anche quelle forme "a priori" del pensare e dell'interagire simbolico, essenziali

e

imprescindibili

per

la

creazione

dei

significati condivisi, e, perciò, della società. Nella

convenzionalità

d'astrazione

e

che

deriva

standardizzazione

dalla

ca pacità

dell'uomo,

s'intuì

immediatamente lo spazio dell'arbitrio e, quindi, del potere di controllo che la mente dell'uomo può esercitare sul mondo circostante e sui suoi simili. Platone tra i primi ci ha lasciato riflessio ni mirabili sul potere del linguaggio, avendo compreso il discrimine tra la

"parola",

come

esercizio

indebito

del

potere

persuasorio e incantatorio delle opinioni, e la "parola" come "parto" di sé, come "maieutica", conoscenza. 105


E' proprio su questo legame profondo tra la parola e il potere

che

gli

inganni

si

sono

perpetuati

e

istituzionalizzati. Il potere, infatti, ha bisogno di un linguaggio che sia la testimonianza dell'affermazione di un rapporto di forza e, al contempo, di negazione della verità. L'esempio storico più eclatante di mistificazione della realtà attraverso la parola ci riporta ancora una volta al nazismo e agli orrori di Auschwitz. Till Bastian nel suo saggio Auschwitz e “la menzogna su Auschwitz”,

evidenzia

proprio

la

peculiarità

di

un

linguaggio che nelle sue affermazioni serve a negare la realtà: dell'"azione speciale" sulle banchine ferroviarie, per esempio, che non era altro che una "selezione per il massacro"; o dello sterminio di massa, ironicamente definito

"soluzione

finale".

Una

men zogna

che

non

sembra avere avuto fine, se ancora oggi si tenta di negare

l'olocausto

attraverso

improbabili

tesi

revisionistiche. Bastian riporta testualmente una domanda,

inoltrata

all'ufficio brevetti di Berlino dalla ditta J.A. Topf e figli, di Erfurt, che aveva ad oggetto un forno crematorio. Nei campi di sm istamento che la guerra e le sue conseguenze hanno reso necessari nelle zone orientali, a causa della mort alità inevitabilment e

molto

elevata,

è

impossibile

pr ocedere

alla

inumazione della enorme qu ant ità di morti: da una parte per mancanza di spazio e di personale, dall' altra per il r ischio diretto e indiretto che minaccia l'ambiente immediatamente circostante e anche più lontano a causa dell' inumazione di mort i per malattie 106


infettive. Siam o per ciò costretti a eliminare l'enorme numero di cadaveri, in costant e aumento, in maniera assolutamente rapida, sicur a e igienica mediante incenerimento (Bastian 1994,77 -78).

Si

tratta

-

scrive

Bastian

-

di

un

"linguaggio

impassibilmente burocratico‛, un linguag gio che dimostra la decisa volontà di negare i misfatti. Le "follie" del nazismo non sono che un esempio, perché il potere ha sempre voluto ingannare e negare la sua realtà.

Dal

‚vincere

e

vinceremo‛

proclamato

da

Mussolini, quando era ormai certa la sconf itta, ai gridi di battaglia di Saddam Hussein che, attraverso i suoi mezzi di informazione, lanciava messaggi farneticanti in cui sosteneva di aver respinto il nemico. Allo stesso modo, nei regimi dei paesi dell’Est, il linguaggio del potere è stato sintom atico della realtà politica. Nulla doveva filtrare all’esterno degli eventuali dissensi interni al partito e quando qualche organo ufficiale diceva in un messaggio chiaramente cifrato che un determinato ‚compagno‛ aveva espresso un ‚marcato dissenso‛ rispetto alla linea ufficiale, nascondeva sotto l’asetticità delle parole, l’esistenza di una faida interna senza esclusione di colpi; oppure dire che bisognava ‚ristabilire l’ordine‛ in un qualche ‚paese amico‛, come in Ungheria,

Cecoslovacchia,

Polonia

o

Afgh anistan,

significava rispondere a una rivolta con un’invasione. Anche in Italia il linguaggio del potere, più generalmente politico, ha conosciuto periodi veramente oscuri. Erano gli anni del ‚politichese‛, termine giornalistico coniato 107


per caratterizzare un gergo esclusivo, patrimonio della classe politica, lingua criptica e cifrata che solo gli uomini dei partiti riuscivano a parlare e comprendere perfettamente. Il ‚politichese‛ ha lasciato testimonianze sublimi di non-senso logico prim’ancora che semant ico: le

‚convergenze

parallele‛

della

Dc

e

del

Pci,

il

‚centralismo democratico‛ sempre del Partito Comunista, il

‚governo

delle

astensioni‛.

Tutto

a

rimarcare

la

manifesta ‚alterità‛ dei potenti rispetto al mondo più terrestre, ma almeno esplicito nella s ua schiettezza, dei comuni mortali! Il

linguaggio

serve

a

mascherare

la

corruzione:

‚riconoscere le legittime aspirazioni e richieste‛, di un partito e di una corrente, equivale a versare una precisa percentuale di denaro; ‚comprendere l’alto costo della politica‛ sta a significare il mettersi d’accordo su quanto versare

per

garantirsi

l’appoggio

su

un

qualche

importante progetto. E’, tuttavia, nella demagogia che il linguaggio e il potere si saldano in un connubio fortissimo. La demagogia è infatti una ‚prassi politica che poggia sul sostegno delle masse assecondandone e stimolandone le aspirazioni irrazionali ed elementari distogliendole dalla reale e cosciente partecipazione alla vita politica‛ (Zucchini, cit. in Bobbio-Matteucci-Pasquino 1990,286). Abili retori e affabulatori sono riusciti, utilizzando il loro personale carisma e la loro capacità di captare i segnali del malessere sociale, a eccitare le masse e a piegarle ai loro fini; essi hanno usato la forza della dialettica e 108


della retorica per imbonire le folle con programmi e promesse come

irrealizzabili,

diceva

riuscendo

a

‚simulando

Machiavelli, sfruttare

quasi

e mai

particolari

dissimulando‛, agendo,

situazioni

ma

storico -

politiche. L'odierna demagogia fa leva sulla crescente conflittualità interetnica,

sui

problemi

complessi

della

mondializzazione e dell’integrazione etnica e razziale: essa fomenta l'ideologia della riscoperta delle identità nazionali

per

ergere

nuove

frontiere

dell’odio,

dell’antisemitismo e dell’intolleranza. La negazione del vero, insomma, si annida da sempre nella prassi, ma anche nelle teorizzazioni del potere che, pur nella loro inaudita inconsistenza, sono in grado di mistificare la verità e di confondere una moltitudine di indifesi.

E' per interessi di classe che la scie nza politica ha formulato teorie che giustificavano e legittimavano abusi e angherie: per esempio, la teorizzazione della presunta inferiorità

della

razza

negra,

adducendo

persino

motivazioni etiche e morali al fine di far apparire il razzismo una verità avente un fondamento biologico. Lo scopo era quello di legittimare l’arbitrio con cui degli esseri umani venivano ridotti in stato di schiavitù. Stuart Mill scriveva che "dovunque vi sia una classe ascendente, una larga parte dei principi etici del paese promana dai suoi interessi di classe e dal suo senso di 109


superiorità

di

classe"

(Mill,

cit.

in

Lasswell -Leites

1949,38). Esiste insomma un vero e proprio legame tra il potere e il linguaggio, un legame che affonda le sue radici nel nesso profondo tra la parola e l'agire umano.

Il potere e il femminile Il linguaggio ha una forza demiurgica: "crea" realtà e identità. Basta guardare, con occhio critico, alle strategie pubblicitarie, per capire come non solo il linguaggio crei l’oggetto, ma sappia far molto di pi ù: caratterizzarlo e personalizzarlo, fino a renderlo soggetto mitologico. Perciò, chi si impadronisce della parola può, nel bene o nel male, condurre il "gioco" delle parti che, in qualsiasi dimensione sociale, si viene a determinare. L'uso del linguaggio, a fini più o meno evidenti di potere, si basa su un preliminare processo di canonizzazione di norme

condivise,

sia

linguistiche

che

sociali.

Esse

agiscono sempre nelle opposte e complementari direzioni dell'integrazione degli "uguali" e dell'esclusione d egli altri, dei diversi. Un'altra, ma non meno importante direzione, è quella della

gerarchizzazione

dei

ruoli

e

delle

strutture

funzionali al potere, che è, poi, di fatto, una vera e propria

"idea"

del

mondo:

una

"ideologia",

una

"cosmologia". I tabù, i divieti, i riti sociali vengono stabiliti a partire dalla loro "dicibilità" o "indicibilità". 110


Quindi è più che mai evidente che ogni potente, in cui in diversi momenti storici si è incarnata una cosmologia della realtà, si è posto il problema del linguaggio come presupposto ineliminabile della propria autodefinizione. E' attraverso i codici linguistici e non (temporali, spaziali, gestuali) che si sono organizzati e si organizzano i sistemi di potere e di convivenza che, per potersi riprodurre, hanno sempre preteso un margine più o meno ampio di sopraffazione e di violenza. Una delle più antiche forme di sopraffazione e di violenza è stata sicuramente quella perpetrata ai danni dell'elemento

femminile

della

attraverso

linguaggio

verbale,

il

specie c he

umana,

sia

attraverso

il

linguaggio degli spazi della convivenza sociale, che ha sancito

l'esclusione

del

femminile

dal

potere,

dalla

partecipazione politica, sociale e culturale. Un'esclusione tanto assidua, continua e radicata da determinare, al contrario di alt re entità emarginate, la nullificazione della specificità femminile, dissoltasi nella "funzionalità al maschile". Solo

da

pochi

differenziazione

decenni femminile

è

iniziata che

la

spesso

ricerca viene

della sentita

come una chimera, come una "controcultur a", più che una cultura a sé. Lo studio degli spazi sociali del potere, stabiliti dal "maschile", per esempio, è di aiuto nel chiarificare l'esclusione della donna. Per

spazi

sociali

del

potere

intendo

riferirmi

all'organizzazione del controllo dell'ambien te naturale 111


attraverso ben precise forme estetiche e architettoniche, che

veicolano

dei

significati

condivisi,

dei

simboli

riconoscibili. Essi scandiscono i tempi e i modi del rapporto degli uomini tra loro e con ciò che essi ritengono istituzionale, sacro o "potente". Lewis Mumford in La città nella storia, di cui abbiamo già parlato, rileva proprio nella nascita della città la prima consapevole comparsa di una organizzazione sociale dello

spazio

fondata

sull'esclusione:

esclusione,

cosciente, voluta e programmata, del femminile. Prima

della

città

è

il

villaggio

neolitico

lo

spazio

dell'organizzazione sociale. In

esso

giunge

a

conclusione

il

passaggio

da

un'economia nomade a una stanziale, da un'economia basata sulla caccia e sulla raccolta a una basata sull'addomesticamento

di

alcune

specie

animali

e

vegetali, ossia sull'esercizio di "un controllo attento sui processi un tempo soggetti ai capricci della natura" (Mumford 1961,23). Una trasformazione che dette il predominio non al maschio cacciatore, agile, svelto di piede, sempre pronto ad uccidere [...] ma alla femmina, più passiva, attaccata ai suoi bimbi, sui passi dei quali modellava i propri lent i movimenti (Ibidem).

Era

lei

che

maneggiava

gli

utensili

dell'addomesticamento della natura e degli animali . "Le parole

‚casa

dell'agricoltura

e

madre‛ del

s'inscrivono

villaggio 112

in

neolitico,

ogni

fase

finalmente


identificabile grazie alle fondamenta delle case e delle tombe" (Ibidem). Una costante matrice mitigativa di questo momento della convivenza umana rivela la centralità della donna, della sessualità femminile, che, dice Mumford, non

raggiunge

mai

quella

esclusiva

ed

esagerata,

di

tipo

mastodont ico, della termite regina, che si assume il compito di deporre le uova per tutto il termitaio. Lei s'occupava dell'or dito e compì quei lavori d'incrocio e di selezione, che trasformar ono specie selvat iche in varietà domest iche prolifiche nutrientissime; fu la donna che f abbricò i pr imi r ecipient i, intrecciando canest ri e modellando il primo vaso di terracotta. Anche il villaggio è, fondamentalment e, una sua creazione, essendo esso, prim a di ogni altra cosa, un nido collettivo per proteggere e allevar e (Ibidem,22 -23).

Il successivo sviluppo della prossemica sociali

portò

alla

scomparsa

della

degli spazi

centralità

della

femmina procreatrice e simbiotica con la natura e, quindi, alla fine del villaggio costituito dalle capanne sparse

e

dalle

dimore

aperte

guidate

dalle

donne

contadine allevatrici e solidali. Gli spazi e il loro linguaggio si concentrarono sulla figur a del

maschio,

audace

predatore

e

conquistatore

dell'ambiente naturale, sul sovrano separato dagli altri uomini, arroccato sull'acropoli e nel palazzo. La monumentalità e la separatezza saranno le sue cifre distintive, così come lo diventeranno della città , spazio separato, kosmos precipuamente umano e artificiale, volutamente separato dalla natura. 113


Si

pensi

alle

torri

svettanti

dei

comuni

medievali,

all'acropoli superba di Atene, ai larghi "boulevards" dell'assolutismo del "Re Sole": la "grammatica" ricorr ente di un linguaggio dello spazio codificato dal potere e declinata al maschile. Quindi sicuramente la differenza sessuale è stato uno dei primi modelli della subordinazione, come giustamente sottolinea l'antropologa Matilde Callari Galli (1994) nel suo volume Antropologia culturale e processi educativi .

Nomi e significati

La prospettiva di studio dell'antropologia può dare un notevole

contributo

all'approfondimento

di

un

altro

aspetto del ruolo esercitato dal linguaggio all’interno della logica dell'esclusione, implicita nella dinamica del potere. Come abbiamo già sottolineato, l'adozione di un sistema linguistico equivale all'utilizzo di un insieme organico di simboli condivisi, che condiziona le forme "a priori" del pensiero e la stessa percezione sens ibile di un qualsiasi gruppo umano. La parola ‚extracomunitario‛, ad esempio, evidenzia bene

la

forza

di

questo

condizionamento.

Essa,

letteralmente, sta a indicare colui che è fuori dalla comunità

cui

si

fa

riferimento.

In

Europa

vengono

considerati extracomunitari i cittadini di nazioni non appartenenti alla Cee. Ebbene, mentre non si ha alcuna difficoltà, nel linguaggio comune e nella stampa, a 114


definire

tale

sognerebbe

una mai

persona di

di

chiamare

colore,

nessuno

‚extracomunitario‛

si un

cittadino svizzero o americano, che pure sono fuori dalla Cee! La parola, neutra in sé, ha assunto un significato preciso

che

denota

una

altrettanto

chiara

scelta

culturale: l’extracomunitario non è più semplicemente colui che non appartiene alla comunità, ma è il dive rso, per colore della pelle, religione, costumi. Ogni adozione, ogni "scelta" linguistica e culturale (che è soprattutto il frutto di un meccanismo di apprendimento) è, dunque, un atto che implica esclusione dell'altro da sé.

Esso

implicitamente

scopre

una

dinamica,

un

rapporto di forza e di potere. Quest'atto scandisce tutte le infinite miriadi di rapporti che ognuno di noi intrattiene con gli altri, con le istituzioni, con i luoghi d'incontro e di scambio. Si pensi all’uso dei pronomi tramite i quali, sp esso, si tendono a rimarcare le differenze sociali e i diversi gradi di potere. Per

la

seconda

persona

singolare,

si

dovrebbe

teoricamente far uso di un solo pronome. Nella realtà oggi si ricorre anche al "voi" al singolare. Nell'antichità l'uso del ‚vos‛ al singolare fu introdotto come una sorta di risposta al plurale ‚majestatis‛ di cui facevano uso gli imperatori. Nel tempo la forma plurale fu estesa ad altre cariche sino a consolidarsi in una forma di reverenza verso chi ha un determinato ruolo di potere. 115


Anche nel linguaggio non esiste una reciprocità, ma si instaura una vera e propria ‚semantica del potere‛: ‚l’uso pronominale che esprime questa relazione di potere è [...]

asimmetrico o non reciproco: chi sta più in alto riceve

V [oi] , chi sta più in basso T [u] ‛ (Brown-Gilman, cit. in Giglioli 1973,306).

Il sacro e il potere

I rapporti di potere che il messaggio religioso veicola, risentono della stessa logica e perseguono i medesimi fini dei sistemi ideologici. Il parallelismo tra ideologie e religion i non è né nuovo, né originale e un’attenta analisi etno -antropologica e filosofica può svelarne la comune matrice nel bisogno di assoluto e di assolutizzazioni, proprie dell’essere umano. Nel territorio accidentato del potere e del suo esercizio, le dottrine delle varie "chiese" devono essere osservate alla luce dei pesanti condizionamenti di cui sono state responsabili nei confronti della società di cui hanno dettato le regole morali, imposto i costumi e, più in generale, limitato la libertà. Ciò nel nome di una verità assoluta da difendere e imporre ad ogni costo, persino con i crimini e le barbarie più autentiche. Proprio la pretesa di possedere la verità è il motore che trascina le religioni verso la violenza, perché chi si ritiene il depositario di una verità assoluta non ha interesse a porla in discussione. 116


Chi la diffonde - predicatore, evangelizzatore ecc., secondo i casi - non mette in discussione né se st esso né il contenut o del suo messaggio. La sua verit à non entra nel comune mercato dove si ven de e si acquista: non si abbassa. La sua certezza, se è autent ica, non può e non deve retroceder e (Gentiloni 1991,58).

L'incapacità

di

nell'imposizione

accettare delle

un

proprie

confronto idee

e

ciò

si

traduce

attraverso

qualsiasi forma di espressione, perché ‚imporsi - scrive sempre Gentiloni - vuol dire dominare anche se con i mass media invece che con i fucili‛ (Ibidem,59). Chi impone la sua verità tende a opprimere, ‚a togliere all’altro, all’interno e all’esterno, una certa dose di libertà di pensiero, di coscienza, di parola, di movimento‛ (Ibidem).

La

significativi:

storia

non

è

avara

dall’evangelizzazione

di e

esempi la

assai

"salvezza",

portate a intere popolazioni con la spada e le guerre, dagli eserciti e dai crociati sanguinari, mascherati da "profeti" di Dio, ai roghi, all’Inquisizione, all’indice dei libri proibiti, insomma a tutto il triste armamentario di violenza e repressione che ha tracciato il cammino di religioni diverse, ma eguali nei metodi e nei fini. La paura del dialogo, il non aver mai ammesso la divulgazione di testi o messaggi ritenuti scomodi, l’aver sempre represso il dissenso rappresentano delle costanti nella storia di tutte le religioni, specialmente di quelle rivelate. Tutte,

attraverso

quelle

strutture

gerarchiche,

che

sovente ne hanno tradito i principi, si sono occupate dell’individuo

con

la

volontà 117

di

azzerarne

le


caratteristiche più umane, si sono intromesse nella sfera intima

con

la

pretesa

di

indicare

costumi

e

comportamenti marcatamente sessuofobici, sostenendo, con motivazioni del tutto arbitrarie, la rinuncia ai piaceri della vita quale condizione essenziale per avvicinarsi a Dio. Interessante, da questo punto di vista, quanto scrive Ginette Paris: quella giudeo-cristiana è davvero una strana religione, in cui è permesso desiderare la m orte perché avvicina a Dio, ma si proibisce di desiderare le donne! In cui le orge dei flagellant i, le automut ilazioni e gli spasimi dei martiri sarebbero gr adit i a Dio, mentre le gioie dell’amore tra uomo e donna lo off enderebber o! (Paris 1985,80).

Contraddizioni palesi e ancor più intollerabili se si pensa che, ricorda ancora la Paris, agli

uomini

del

clero

sarà

permesso

di

prender

parte

a

spargiment i di sangue [...] di mandare soldat i al massacro con la benedizione della Chiesa, ma verrà lor o proibito di desiderare una donna. E quest i uomini asessuati, vegliardi sempre vergini che conf ondevano costantemente la Donna con la Madre e il sesso con il male, si r itenevano e si ritengono in dir itto di controllare la vita sessuale altrui (Ibidem).

Chiunque si sia accostato in maniera critica e non fideista alle tematiche religiose si è dovuto scontrare con un pesante, quanto intollerante, monopolio culturale di quelle istituzioni che della fede si sono fatte principali depositarie e se ne sono servite per esercitare un potere di controllo che, fin dall’antichità, ha operato da vero e 118


proprio filtro di ciò che poteva essere ‚donato‛ alla causa del Sapere e ciò che doveva essere assolutamente escluso in quanto pericoloso. Eppure, come affer ma David Donnini, ‚la ricerca di Dio non può che detestare le verità di regime e amare i regimi di verità‛; ma quando questa ricerca può approdare a lidi diversi da quelli indicati

dalle

gerarchie

religiose,

allora

è

meglio

‚prevenire‛ e reprimere. Scrive Norberto Bobbio: Tra la verità assoluta e la non verità c’è posto per la verità da sottoporsi a continuo revisionismo [...] [poiché ] quando gli uomini

cessano

di

credere

alle

buone

ragioni

comincia

la

violenza‛ (Bobbio, cit. in Perelman -Olgrechts 1976,XI X).

Da sempre l’uomo ha cercato di superare i limiti e la finitudine della propria condizione; da sempre la sua mente

ha

ultraterreni,

costruito, speranze

immaginato, celesti

per

cercato vincere

la

mondi paura

tremenda che quella terrena fosse l’unica vit a concessa. A questa coscienza della propria morte, l’uomo risponde con una inesausta tensione verso il superament o del suo stesso limite mortale, e sempre aspira a ricongiungersi a quella totalità originaria che la nascita della coscienza ha spezzato una volta per tutte (Carotenuto 1996(a),62).

In questo senso la ricerca filosofica e quella religiosa, rispondendo ai bisogni fondamentali dell'uomo di situarsi in un universo cui si riconosce un senso e di prenderne 119


possesso per mitigare la propria inferior ità e impotenza, possono venire impiegate ai fini di un esercizio di potere, entrambe attraverso l'uso sottile e manipolatorio del linguaggio. Attraverso il rituale il primitivo come l'uomo moderno, legittimano e impongono la loro presenza e le loro

gesta

sull’ambiente,

ordinandolo,

dominandolo,

nominandolo. Ricordiamoci che la Genesi narra che Dio stesso sottomette all'uomo tutte le creature della terra e gli concede il diritto di 'nominare' tutte le cose esistenti: è proprio l'azione del dare un nome a ci ò che è stato creato, che rende l'uomo "signore" della creazione. All’origine è il Verbo. Procedendo nel tempo, la religione ha mantenuto sempre questa "vocazione" a dare un nome e a giudicare ciò che esiste, a nominare come 'buone' o come esecrabili determinate azioni dell'uomo, offrendosi essa stessa come "messaggio rivelato", come detentrice del potere di ribattezzare le cose e il mondo oltre i limiti della loro finitudine. Essa si fa promotrice di una ricerca di significato e custode del bene, proponendosi come misura e verità. Secondo Freud l'uomo tenterebbe di rispondere, con la metafora religiosa, alla paura dell'insignificanza e della vulnerabilità

totale

di

fronte

ai

poteri

indifferenti

dell'universo. Il tal senso la religione si propone come una sfida per l'uomo, una ricerca che mira ad attingere alla divinità, al fine di ergersi vittoriosi sulle forze della natura. L'uomo, cosciente dei propri limiti, tende a proiettarsi

oltre

la

morte: 120

arrendersi

alla

morte


significherebbe abdicare al proprio sog no di 'eternità'. Ma abdicare, assumere un ruolo rassegnato e passivo, rappresenta una sconfitta, come afferma Freud: I

critici

-

scriveva

nel

1927

-

persistono

nel

definire

‚profondamente religioso‛ un uomo che ceda al sent imento della piccolezza e dell’ im potenza umane di fronte all’universo, benché il sentimento che costituisce l’essenza della religiosit à non sia questo, ma solo il passo immediatamente successivo, e cioè la reazione che cerca un rimedio contro t ale sent imento. Chi non procede oltre, chi umilment e si rassegna alla parte insignificante dell’uomo nel vast o mondo, cost ui è davvero irreligioso nel più vero significato della parola (Freud 1927,462 -463).

In questo modo Freud ci indica quale sia

l'acqua

profonda a cui attinge il desiderio del sa cro, il suo nucleo intimo e più vero: non un sentimento di insignificanza, ma di profonda significanza, validità e libertà.

Quello che intendiamo sostenere è che laddove la spinta dell'uomo a creare nuovi linguaggi e nuove forme di conoscenza nasce dalla frustrazione e dalla debolezza, dal desiderio di risarcire il danno ricevuto, lì è anche la radice della violenza e del potere. Il vero sentimento religioso, al contrario, è un sentimento antiautoritario, che muove dal desiderio di realizzare il benessere e di condividerlo con altri esseri umani. Kant e Einstein hanno individuato in poche decisive parole il nesso paradossale tra libertà e religione, o meglio il significato di religiosità non vincolata a una confessione precisa. Il primo affermava sempliceme nte: 121


‚la legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di me‛; il secondo: Voi troverete diff icilmente uno spirito pr ofondamente devoto alla scienza che non abbia un suo proprio sentimento religioso. Si tratta,

però,

di

una

religiosità

diversa

da

que lla

dell’uomo

semplice. Per quest ’ultimo Dio è un essere di cui si cerca la bontà e si t eme il castigo; la sublim azione di un sentimento simile a quello che nutre il bambino verso il padr e; un essere col quale si stabilisce, per così dire, un rapporto pers onale, per quanto r ispettoso esso sia. Al contrario lo scienziato è penet rato dal senso della causalità universale [ ...]; il suo sent imento religioso

assume

la

forma

dello

stupore

estat ico

di

fronte

all’armonia delle leggi della natur a, rivelandogli un’int elligenza super iore [...]. Questo sentimento è il pr incipio che lo guida nella sua vita e nel suo lavoro nella m isura in cui egli può elevarsi al di sopra della schiavitù dei suoi egoistici desideri ( Einstein 1955, 46).

L’elevazione al di sopra dei propri ‚egoistici desideri‛ è lo stesso sentimento che anima lo spirito del creativo, è la sensazione che conduce a percepire la varietà delle esperienze

e

il

divenire

degli

eventi

come

un

affascinante viaggio alla scoperta di sé e degli altri, e non come un avvicendarsi vertiginoso di stagioni e cose, di spazi ed eventi di cui avere paura e da cui difendersi. Come ha scritto lo psicoanalista Aldo Carotenuto: Religiosa è quella dimensione umana per la quale un individuo si sente partecipe del mondo, parte integr ante di un organism o, di un tutto con cui egli è in pr ofonda relazione. [...] Quando l’individuo avverte questa prof onda appartenenza a un universo ordinato, sottoposto a leggi invisibili e purtuttavia precise, vive il 122


suo

esser e

parte

di

questo

tutto

con

profonda

gioia

e

compassione per gli altr i esseri, come ci test imoniano le gr andi figure della st oria delle religioni ( Carotenuto 1996(b),77 -78).

Quando il sentimento predominante è la paura, è fatale che si diffondano fenomeni illusori che hanno l’effet to di tranquillizzare continuo

gli animi.

confronto

Il timore della

con

il

limite

e

morte e il la

fragilità

dell’esistenza generano il bisogno di credere in qualche cosa che ci trascende. Il desiderio che la vita continui rende l’individuo pronto ad accogl iere anche le più clamorose menzogne come supreme verità. Mai come oggi, per esempio, si è assistito a una imponente diffusione del fanatismo religioso. Gruppi e sette di vario genere - ‚Guru‛, predicatori e padri spirituali - si propongono come la panacea di tutti i mali, di tutte le attese e le sofferenze del mondo. La figura carismatica del liberatore, di un nuovo Messia, rianima l'anelito incoercibile verso un 'al di là' da venire, in cui troverà pieno compimento e piena realizzazione la giustizia impossibile sulla terra. Etimologicamente

il

‚religare‛,

‚legare‛,

ossia

termine

religione

‚tenere

deriva

insieme‛:

da

è

la

testimonianza del legame che unisce l'uomo al dio. Nelle sette, al contrario, non si comunica, non c’è un vero dialogo

un

vero

rapporto

con

il

divino.

Si

è

semplicemente "seguaci", come suggerisce il termine setta derivante da ‚sectari‛, che significa ‚seguire‛. Vi è una sottile, ma profonda differenza tra il significato della 123


parola ‚seguace‛ e il significato della parola ‚fedele‛: l’uno segue un capo, l’altro stabilisce con lui un ‚foedus‛, un patto, basato, appunto, sulla ‚fides‛, sulla reciproca fiducia. Chi cerca un'ancora di salvezza, il miracolo ad ogni costo, e ricorre a maghi, veggenti e sette, sottoscrive una sorta di delega in bianco affinché siano altri i "solvitori di enigmi" e i risolutori delle crisi, e non la propria faticosa e sofferta ricerca interiore. In questo modo la paura della morte viene aggirata e non affrontata. Si alimenta un’illusione di vita eterna che esclude la vita, disprezza il presente e si protende verso un futuro sempre dipinto come luminoso, ma più vicino a un delirio che a una mèta. La fede non è farneticazione né mercimonio d’indulgenze e di ricompense: essa crea certamente un’illusione, ma di un genere tutto particolare, come diceva Freud: Caratter istico dell’illusione è il suo derivare dai desideri umani; sotto questo prof ilo essa si avvicina alle idee delirant i note alla psichiatria; differisce tuttavia anche da queste, a prescindere dalla più com plicata struttura dell’idea delirante. In quest’ultima l’elemento essenziale che mettiamo in rilievo è la contraddizione rispetto alla realtà; l’illusione, invece, non necessar iamente è falsa, cioè irrealizzabile o in contraddizione con la realtà (Freud 1927,461).

L’illusione religiosa, per essere tale, pretende di essere inconfutabile e indimostrabile. Talora inverosimile, come dice Freud. Ma l’inganno a cui tanti potenti e tanti gruppi 124


di

potere

hanno

piegato

la

religione,

sta

nell’aver

trasformato lo spazio dell’inverosimile, dell’illusione e del desiderio in quello falso del delirio, dell’ottundimento delle menti. Soprattutto il desiderio di una negazione totale della morte. Un'altra caratteristica interessante dei gruppi religiosi e delle sètte è che in essi vi è sempre un capo che riesce a

condizionare

la

‚spiritualità‛

della

comunità

di

aggregazione. I seguaci credono che il loro leader abbia delle qualità eccezionali e per questo ne fanno la loro guida. In realtà siamo di fronte a ‚una sorta di ‚foll ia‛ di gruppo di

cui

il

capo

rappresenta

l’espressione

più

caratterizzante‛ (Maniscalco 1994,107). La forza del leader non risiede affatto nelle sue qualità umane,

ma

nella

sua

capacità

attrattiva:

‚Egli

sa

comunicare un sogno, una visione, un’utopia; sa d efinire e dare corpo ai desideri e alle fantasie‛ (Ibidem,110). E’ per questo che i seguaci accettano ogni umiliazione e ogni sacrificio, essi desiderano ‚raggiungere quel fine, quella condizione che si pone al centro di ogni desiderio, di ogni volizione‛ (Ibidem).

Mass media e potere L’‚inganno delle menti‛ che la società contemporanea riesce a perpetrare è quello di far credere che felicità e benessere, spirituali o materiali poco importa, si possano 125


acquistare

come

qualsiasi

altra

merce,

in

qualche

‚negozio specializzato‛. Il luogo di culto di questa nuova corsa all'acquisto è oggi l'informazione. Alternandosi, predicatori di ogni risma, nuovi profeti, maghi della giovinezza, fattucchiere della dieta, santoni dell’eterno amore e ballerine della fiction propongono nuovi ideali di massa

e

dettano

nuovi

modelli

di

identificazione,

attraverso un linguaggio completamente 'vuoto' di senso, e carico soltanto di frasi fatte e luoghi comuni, cinismo e narcisismo a buon mercato. L’equazione informazione = nuova forma di religione, e quindi di controllo, non è più solo un’ipotesi suggestiva. Il

sempre

unitamente

più alla

basso loro

livello

dei

tendenza

prodotti

a

televisivi,

pervadere

ci

fa

seriamente pensare che la televisione sia andata a colmare

dei

bisogni

naturali

nell’epoca

della

riproducibilità, dell’elevata formalizzazione dei rapporti umani e delle attività lavorative, che hanno appiattito le aspirazioni sull’esistente, senza eliminare il bisogno della fuga dai limiti. La figura dell’‚opinion leader‛ è fo rse il prodotto più rappresentativo

di

questa

nuova

e

pericolosissima

industria della banalità e dell’inganno, che agisce nel corpo sociale attraverso messaggi mass -mediali filtrati da ambigue personalità di comunicatori. L’‚opinion

leader‛

televisivo

è

il

risultato

della

demitizzazione del ‚potente‛ epico, eroico, folle, che abbiamo

avuto

modo

di 126

fotografare

nei

capitoli


precedenti. Egli si offre come un modello con cui identificarsi

facilmente,

perché

la

sua

caratteristica

precipua è la normalità. La tele visione e la radio, infatti, hanno perso oggi la loro dimensione istituzionale e pedagogica

per

lasciare

spazio

a

quella

emotiva,

affettiva, enormemente più efficace e penetrante. Questo nuovo tipo di televisione subentra al rigore e all’onestà intellettuale di tanti prodotti televisivi del passato. Con la velocità febbrile dei tempi e delle immagini, che vorrebbe riprodurre la mobilità dei nostri tempi

convulsi,

compiaciuto potrebbe

esso

prodotto

aspirare

si

offre,

invece,

dell’instabilità ad

essere,

e

quale

come non,

un

come

mezzo

di

comprensione. Così la televisione diventa un esercizio di conformismo, un’industria di ‚déjà vu‛ e di luoghi comuni, nel flusso dei mutamenti della nostra epoca. E il pubblico sembra esserne assuefatto, stordito, ipnotizzato,

ma ancora

straordinariamente recettivo. Il disagio esistenziale di questo fine millennio ha bisogno della sua nutrita claque che

sappia,

al

solo

comando,

alzarsi

in

piedi

e

applaudire festante gli attori di turno. Già nel 1973, un grande interprete del nos tro tempo, Pier Paolo Pasolini, riteneva che il potere della seconda rivoluzione industriale volesse forgiare un nuovo tipo di uomo, non più tradizionalista, buon cittadino, onesto e religioso, ma semplicemente conformista e consumatore. Come imporre questa metamorfosi sociale? ‚Mediante quel processo - affermava Pasolini - che si chiama 127


acculturazione: cioè riducendo e appiattendo tutti gli altri valori e le altre culture non omogenee, ai modelli di una Cultura centrale cioè di una Cultura del Potere‛ (Pas olini, cit. in Anselmo, 1988).

Inevitabilmente l'informazione, che utilizza un nuovo modello di comunicazione basato su un ‚linguaggio totale‛, fatto di parole, di suoni e di immagini, ci pone altri interrogativi sulle dinamiche sociali del potere. La strategia del potere è di utilizzare le nuove, confuse frontiere

della

multimedialità,

dell’‚ipertesto‛,

della

colonizzazione delle ore notturne. Questi fenomeni sono il prodotto della fruizione mass mediale - e in particolare di quella televisiva - che attraverso di essi esercita il suo singolare e inevitabile potere. E’ chiaro che essi creino nuovi poteri, nuove ‚cittadinanze‛, nuove appartenenze, contemporaneamente all’idea opposta di nuove libertà e opportunità. I mass media, la televisione in particolare, esprimono dei bisogni latenti e forti dell’individuo e della collettività e risultano essere formidabili veicoli di modelli sociali, promulgatori di nuove tendenze: ‚tendono a imporre afferma

Umberto

universalità,

Eco

creando

-

simboli dei

e

miti

‚ tipi ‛

di

dalla

facile

immediata

riconoscibilità e perciò riducono al minimo l’individualità e la concretezza delle nostre esperienze‛ (Eco 1964,38). Raramente però sono capaci di imprimere un nuovo sviluppo culturale; anzi toppo spesso assistiamo a una sorta di impoverimento ideologico che ha l’effetto di 128


fornire una visione del mondo e della realtà distorte, prive

del

filtro

essenziale

dell’imparzialità

e

della

completezza delle informazioni, nonché di modellare le coscienze, soprattutto delle giovani generazio ni e dei bambini, sulla falsariga di nuovi archetipi educativi e di nuovi valori imposti quasi esclusivamente dal mercato. La cosa è particolarmente preoccupante se si tiene conto che, come ricorda John Condry, i bambini, a differenza degli

adulti,

non

guardano

la

televisione

solo

per

divertimento ma perché cercano, suo tramite, di capire il mondo (Popper-Condry 1994). La televisione ha oggi il compito di trasformare in bisogni reali le richieste artificiali di cui i paesi ricchi hanno necessità per espandere e mantenere il proprio mercato, quasi sempre a discapito di quelli poveri. In questo modo il ‚culto del consumo‛ viene imposto a milioni di persone attraverso l’idea fittizia di un possibile livellamento verso l’alto del tenore di vita, da realizzare a d ogni costo e con ogni mezzo necessario, anche criminale. Ha scritto Karl Popper: La

televisione

[ è]

diventat a

un

pot ere

politico

colossale,

potenzialmente si potrebbe dir e anche il più importante di t utti, come se fosse Dio stesso che par la. E così sar à se cont inueremo a consentir ne l’abuso. Essa è diventata un potere troppo grande per la democrazia. Nessuna democr azia può sopr avviver e se all’abuso di questo potere non si mette fine (Ibidem,44).

Il ‚grosso totem‛, che 24 ore su 24 ci propina messaggi di ogni genere, notizie e opinioni tra le più disparate, 129


sembra

dimenarsi

programmi

tra

‚trash‛,

tentazioni spazzatura,

nazional -popolari tenendo

e

d’occhio

l’audience piuttosto che l’aspetto qualitativo.

Come afferma Popper, la televisione, che attualmen te è una ‚tremenda forza per il male, potrebbe essere una tremenda forza per il bene‛ (Ibidem,34). Questa forza è radicata nella straordinaria capacità seduttiva delle immagini, una capacità che ha radici antiche. La

nostra

cultura,

infatti,

ha

sempre

pen sato

per

immagini: dal mito al teatro greco, dalla vocazione antropomorfica della religione greca a quella teocentrica del cristianesimo. La stessa ‚crocefissione -resurrezione‛, come alternarsi di vita e di morte, prima ancora di essere un dogma, è ed è stata un’icona. Forse è per questo che nella cultura occidentale, la storia dell’arte s’interseca nei suoi percorsi con la logica, la filosofia e l’antropologia. L’immagine, affondando profondamente le sue radici nella percezione che l’uomo ha del reale, str uttura sia il pensiero logico che la facoltà immaginativa e riesce a dare un corpo ai pensieri. Un bambino impara a crescere ascoltando, attraverso le fiabe,

gli

eterni

miti

dell’inconscio

collettivo,

trasformandoli in immagini che, nei sogni e nei pensier i, daranno forme certe alle speranze e alle gioie come alle angosce e alle paure, che assumono così contorni ben definiti e controllabili. 130


L’immagine, che il tocco leggero di un pittore, di uno scultore o di un regista riesce a proiettare davanti ai nostri occhi, esercita una sua seduzione irresistibile. Questa seduzione è un gioco dei sensi e della mente, in cui le immagini diventano avventura conoscitiva ed esperienza etica. Anche i grandi miti del cinema, i suoi grandi ‚attori icone‛, esercitano la straordinaria magia di dirci dove e per chi schierarci. Non sono semplici maschere o tipi, ma dei veri e propri archetipi. Il

segreto

dell’immagine

sta

proprio

nella

sua

‚leggerezza‛ e chi sa usare questa ‚corporea leggerezza‛ saprà

coniugare

alla

persuasione

il

gioco

della

seduzione, quel gioco delle parti in bilico tra intelligenza e immaginario, tra ironia e abbandono. L’avvento

della

scenario

poiché,

Ferrarotti,

la

televisione come

ha

però

afferma

televisione

non

il si

mutato

questo

sociologo

Franco

limita

a

proporre

immagini, ma ‚teatralizza straordinariamente il fatto in sé, tanto da ridurre, fino ad annullarla, la capacità di giudizio autonomo dello spettatore‛ (Ferrarotti 1992,67). Non è più il gioco della seduzione. A differenza di altri mezzi

di

comunicazione,

come

la

stampa,

che

permettono la riflessione critica e il costante controllo della coerenza logica delle tesi e delle prove - potendo il lettore continuamente rileggere un articolo in ogni sua parte - la televisione invece tende a fornire informaz ioni e immagini che già contengono un giudizio sulla realtà. Far vedere, ad esempio, un gruppo di manifestanti che si 131


scontra

con

le

forze

dell’ordine,

definirli

‚teppisti‛,

mostrarli come tali in un atto o in un gesto determinati e non fornire nessuno di quelli che Ferrarotti chiama ‚dati di sfondo‛, ossia ‚le matrici causali e condizionali che aiutano una comprensione globale del fatto specifico‛ (Ibidem,68), significa certo dare informazioni ma anche far conoscere agli spettatori una realtà assolutamente distorta e parziale. Le immagini televisive offrono, quasi sempre, messaggi che oscillano tra la finzione assoluta e la verità più bruta: finzione e materialità, ossia niente di più "disumano". Umano è l'immaginario, il ricordo, il sentimento, la riflessione e la fantasia sulla vita vissuta. Le scienze sociali, "in primis" la pedagogia, devono raccogliere la sfida che la sorte dei non privilegiati, dei nuovi analfabeti, lancia loro. E' una sfida che esse dovrebbero rivolgere apertamente al potere ‚leggero‛ e spaventoso dei nuovi media, militando sul terreno dell'indagine linguistica. Solo

la

codificazione

rigorosa,

dal

punto

di

vista

linguistico e cognitivo, di una "grammatica" della brutale virtualità

televisiva

potrà

avviare

una

metodologia

educativa e scientifica che smascheri e annienti il potere dei Media. Oggi infatti la fruizione isolata e individuale dei mezzi telematici di comunicazione ripropone la questione delle differenze che ogni individuo attiva nell'applicare le proprie conoscenze, le proprie competenze, le proprie capacità cognitive di processare le informazioni. 132


Maggiore è la sua alfabetizzazione culturale e linguistica sugli attuali strumenti del comunicare, maggiori saranno le sue possibilità di entrare nel libero mercato delle conoscenze, ormai caratteristico dell'attuale ‚economy information", in cui specializzazione e globalizzazione si muovono simultaneamente in equilibrio instabile, ma promettente di nuovi sviluppi. "A queste magnifiche sorti e progressive" che delineano gli affascinanti orizzonti della "ricezione interattiva" ed eterogenea, non parteciperanno certo gli esclusi di sempre:

gli

esclusi

dal

sistema

formativo

degli

alfabetizzati, oppure i più indifesi - i bambini a rischio e i cosiddetti ‚extracomunitari". Essi transitano ai confini di questo modello di potere e di sviluppo imperfetto e fortemente cristallizzato.

La televisione, insomma, ci espone quotidianamente a un rischio

gravissimo,

che

non

è

solo

quello

di

una

informazione faziosa: Il poter e di incantamento dell’imm agine ci sottopone ad un rischio ancor a più insidioso, di cui lo spettatore singolo non è certamente consapevole e che si pone tuttavia come un esit o che sarebbe

imprudente

scartare

a

priori:

alla

lunga

scadenza,

attraverso il condizionamento delle coordin ate spazio-tempo in cui il processo cognit ivo ha luogo, la TV potrebbe ottenere il monopolio

della

conoscenza.

Non

è

un

r ischio

da

poco

(Ibidem,69).

Non solo quindi giudicare la realtà, ma arrogarsi il diritto di decidere a priori per conto di chi guarda, ciò che può e 133


deve essere ‚conosciuto‛ e ciò che non può né deve esserlo. La mondializzazione è ormai una realtà: Internet e la multimedialità

consentono

una

comunicazione

interplanetaria praticamente in tempo reale; le distanze si riducono vertiginosamente giorno per giorno. Chi gestisce questo enorme mercato mondiale, chi ne decide gli indirizzi? Il Potere - di nuovo, come sempre - sta riorganizzando velocemente la sua ‚dimora‛; non teme le sfide

della

contemporaneità.

Per

non

rimanere

schiacciati da una nuova sudditanza telematica, ridotti al rango di semplici codici di ‚password‛ e ‚user name‛, terminali in carne ed ossa di elettronici ‚bip‛, la strada deve essere quella di una sempre maggiore presa di coscienza,

riscoperta

dell’essenza

profonda

dell’esistenza umana. Sarà allora possibile modellare e non essere modellati dal progresso, usare e non essere usati da Internet, orientare e non essere orientati dal mercato televisivo. Consapevoli delle nostre forze intellettuali, non sarà difficile squarciare ‚il velo di Maia‛ delle menzogne e degli

inganni

cercati,

come

spesso palliativi

subiti, e

ma

altrettanto

analgesici

dell’angoscia di vivere.

134

della

spesso paura

e


CAPITOLO SETTIMO LA VIOLENZA DEL DIRITTO

Quanto più è dur a la vita, tanto più evidente s i mostra l’egoismo, sotto l’im pulso dello spir ito di conservazione. (Hoss 1958,97)

C’è un solo luogo, sosteneva Foucault, ‚in cui il potere può manifestarsi allo stato bruto, nelle sue dimensioni più eccessive, e giustificarsi come potere morale‛: la prigione (Foucault 1971-76,111). Sicuramente non è questo l’unico luogo in cui si concentra l'onnipotenza del potere; certo è che il diritto - e più in generale il potere giudiziario - rappresenta l’espressione più palese di quella

ancestrale

arroganza

che

fo nda

la

propria

giustificazione su una dogmatica presunzione di verità. In un saggio sulla violenza delle religioni, il teologo Filippo Gentiloni ha dedicato un capitolo alla ‚Violenza del Diritto‛, evidenziando quanto l'esercizio del potere diventi, nell'ambito del diritto più che in altri contesti per necessità e per vocazione antropologica -, coattivo e dogmatico:

ossia

mostri

quell'incoercibilità

cieca

e

assiomatica che solo il sacro possiede. L'autore

sostiene

infatti

che

il

diritto

rivela

una

incontenibile inclinazione a cristallizzarsi come verità assoluta e inappellabile; la violenza che ne deriva è riscattabile soltanto attraverso l'assunzione di una veste 135


e di una forma sacrale. La pena di morte - scrive - ne è l’esempio più emblematico: ‚niente d i più violento, niente di

più

giuridico,

niente

di

più

sacrale‛

(Gentiloni

1991,82). La storia ci insegna che la violenza del diritto è stata sempre proporzionale alla paura, al timore nutrito da un regime o da una ‚leadership‛ nei confronti del dissenso e del libero pensiero individuale. Ciò che è in gioco, infatti, come sul piano personalistico, è la sopravvivenza che il confronto con l’alterità mina radicalmente. Da questo punto di vista, la leadership rappresenta una condizione limite, in cui il potente è - o si sente - continuamente assediato dal pericolo dello spodestamento. Diventa, così, incredibilmente calzante il detto ‚la miglior difesa è l’attacco‛. ‚Imputato si alzi‛: la bilancia è pronta a soppesare colpe e responsabilità, la pena a riscattare il danno. Perché chi ha sbagliato deve pagare. E non basta la privazione della libertà, occorre anche l’umiliazione. Si usano le catene, le sbarre, le celle, come si farebbe con una belva in

cattività;

il

paradosso

consiste

nella

dichiarata

intenzionalità di recupero del reo a cui poi viene impedito di condurre una vita che consenta un vero e proprio recupero: è impedita l’intimità con i propri familiari, negata ogni forma di contatto affettivo, che più di ogni altra

cosa

può

consentire

trasformazione. Come afferma Gentiloni, 136

una

vera

e

propria


nello stato di diritto, il Diritto [...] ha preso il posto dell’antico Dio. Dirige, controlla, ordina, ma anche domina‛ (Ibidem,84). A queste condizioni diventa veramente difficile parlare di una autentica giustizia e ci si domanda se non sia vero che "la giustizia delle leggi e dei tribunali sia facilmente la giustizia del più forte, ricco, potente; quanto difficilmente, come dicevano le antiche scritture di Israele, alla vedova e all’orfano sia fatta giustizia‛ (Ibidem).

Anche secondo Marx il diritto è l'arbitrio della classe dominante, ed è per questo motivo che sua caratteristica è quella di manifestarsi come la negazione della giustizia di cui pretende di essere il depositario e l’interprete autentico. La sua violenza non si rende manifesta soltanto nelle sentenze, ma si incarna in ogni forma del processo stesso: investe e caratterizza i protagonisti e i loro atti, e la sua intrinseca irrazionalità, la prepotenza delle sue norme,

riesce

a

materializzarsi

in

ogni

passaggio,

palesandosi negli oggetti utilizzati, nella forma stessa delle aule di tribunali, nelle parole come negli sguardi. Assistere

a

procedimento,

un

processo,

permette

a

di

un

qualsiasi

accorgersi

di

semplice come

la

teatralità gratuita dei gesti, l a meccanicità degli atti e delle formule, l’insipienza del linguaggio, occupino i posti stabiliti da un’abile regia in uno scenario rituale che mira a impressionare e raggelare i colpevoli.

Magistrati,

Pubblici ministeri e avvocati, con le loro toghe, i lo ro codici, le loro regole, sottolineano l'inermità delle parti. Al di sopra di questi, il giudice: l’officiante intoccabile, il 137


cerimoniere laico; è lui che ha il potere di condannare, stabilendo ciò che è giusto e ciò che non lo è. Questo scenario non fa altro che accentuare il divario tra gli uomini di legge e i poveri cittadini che si aspettano giustizia, un divario che esiste da secoli e che ancora oggi non si riesce a colmare. Ma acuisce anche il divario tra il ‚giusto‛ e il ‚colpevole‛, a cui viene co sì negata - a priori - l’auspicabile e predicata reintegrazione. L’enorme importanza che l’uomo ha riconosciuto alla legge ha reso il diritto una mèta ambita dei potenti. Le stesse fonti di produzione normativa sono state spesso nella storia l’espressione di una stratificazione sociale. Nella

prima

età

repubblicana

dell’antica

Roma,

ad

esempio, sia la produzione che l’interpretazione dello ‚jus‛ era monopolio esclusivo dei patrizi e solo dopo lunghe lotte fu possibile il raggiungimento di un sistema più democratico che portò alla formazione dello stato patrizio plebeo. Ma anche dopo questa prima conquista, per lungo tempo i giuristi sono sempre stati l’espressione delle classi dominanti o comunque dei gruppi di potere. Emblematica, da questo punto di vista, la ricostruzione del periodo arcano del diritto romano fatta da Fritz Shulz che evidenzia come i più antichi giuristi siano stati dei sacerdoti di Stato, scelti tra le persone di alto rango sociale:

a

loro

era

affidata

l’interpretazione esclusiva delle leggi. 138

la

produzione

e


Solo nel terzo secolo emerse una giurisprudenza laica che rimase comunque saldamente in mano alle classi agiate, poiché da queste provenivano gli individui che andarono ad amministrarla. Ciò che lo Shulz non coglie è l’importanza, in t ale processo, delle grandi lotte che, sul terreno economico e politico, si svolsero per circa due secoli tra patrizi e plebei: la costituzione romana del III secolo, infatti, appare come il risultato di un percorso segnato dal conflitto di classe e da una serie di compromessi tra queste. Il diritto, in sostanza, fin dal suo sorgere, non è mai stato avulso dal contesto delle lotte politiche, ma uno

strumento

di

queste,

altri

studiosi

anzi

una

delle

armi

fondamentali. Le

analisi

di

dell’interpretazione

delle

individuano

leggi

l’aspetto

nel

mutare

forse

più

importante dell’evoluzione storica e politica. L’interpretazione

canonica

del

diritto

era

la

prassi

consolidata della classe patrizia, poiché loro era la produzione normativa: metterla in discussione poteva significare, indubbiamente, mettere in discussione il proprio ruolo di potere. Un'interpretazione più evoluta, dialettica, era invece la richiesta costante dei plebei e dei

patrizi

più

illuminati,

affinché

fosse

infranto

il

carattere arcano e segreto del diritto restituendolo alla sua dimensione pubblica e sociale. Non si approdò, certo, ad una legalità democratica, la giurisprudenza laica non si poneva in contrasto con quella pontificale, ma le conseguenze della lotta politica determinarono 139


significative aperture e la progressiva decadenza della giurisprudenza pontificale. La certezza del diritto divenne, invece, l’obiettivo delle lotte dei secoli successivi della repubblica romana. Nelle leggi d’iniziativa democratica, che erano sovente leggi di riforma, i populares furono costretti a introdurre clausole cautelative avrebbero

al

fine

dovuto

di

impedire

applicarle

-

che gli

coloro

i

aristocratici

quali -

le

boicottassero fino a stravolgerle. Con la nascita dell’Impero il diritto costituzionale cambia completamente: l’interpretazione della costituzione fa parte degli ‚arcana imperii‛ e come tale è monopolio del principe e dei suoi consiglieri segreti; ai giuristi non resta che il potere nel campo del diritto amministrativo.

La sacralità del diritto

La storia del diritto, nella comunità che per prima lo ha investito di un ruolo assolutamente fondamentale per la vita

politica,

dimostra

che

i

potenti

per

usare

strumentalmente le leggi contro i rappresentanti sociali, hanno posto i principi e i riti dei procedi menti su un piano quasi metafisico, inaccessibile, arcano appunto. E oggi? Per quale ragione ancora si fa fatica a eliminare rituali e simboli così arcaici? Siamo certi che oggi imperi la democrazia? O non è piuttosto vero che il potere giudiziario delle attuali, sedicenti democrazie occidentali è il fedele continuatore di questa atavica strategia di conservatorismo con cui, da sempre, il corpo sociale 140


ripristina l’ordine infranto dal delitto, riafferma la validità dei suoi valori, esorcizzando il potenzial e eversivo che lo minaccia? Eppure oggi, scomparsa l’identificazione tra ‚tempio e palazzo‛, tra Dio e Società, il diritto dovrebbe assumere, nelle forme come nei principi, quella dimensione laica e razionale guadagnata al mondo occidentale dalla cultura illuministica, e pensiamo in particolare a due esimi personaggi dei ‚lumi‛ come Charles Louis de Secondat, più comunemente noto con il nome di Montesquieu, e Cesare Beccaria. Montesquieu, ne Lo spirito delle Leggi (1748), affermò un concetto fondamentale, cioè che solo la legge positiva sancisce l’equità, solo uno sforzo razionale, successivo allo stato di natura, garantisce il giusto funzionamento del diritto e dello stato. Partendo da ciò, Montesquieu attribuiva all’uomo, e soltanto a lui, la costruzione d elle regole della convivenza civile. Questa costruzione è operazione del tutto umana e razionale

e,

come

la

ragione

dell’uomo,

anch’essa

procede per gradi, per suddivisioni successive, spesso legate alla contingenza del momento e delle necessità. In questo modo il grande pensatore francese consegnò alle democrazie dell’occidente due concetti fondamentali: la suddivisione dei poteri dello stato e la relatività delle leggi positive. Liberando l’uomo sia dai dogmi dei miti religiosi, sia da quelli dello stato di natura, Montesquieu lo restituisce alla sua finitudine, agli svariati, particolari 141


modi con cui l’individuo organizza la convivenza sociale, la guida e la protegge dai pericoli di sovvertimento. Ogni forma di governo agisce in base a un suo principio fondamentale: determinò

Montesquieu

quella

più

con

adatta

scrupolo alle

sociologico

varie

strutture

geografiche dei paesi da lui presi in considerazione. Soprattutto garantita

ritenne dalla

complessa

che

la

libertà

suddivisione

macchina

dello

dell’individuo

delle

Stato:

funzioni

quella

è

nella

legislativa,

esecutiva e giudiziaria. A tutt’oggi i governi dispotici, ma anche le democrazie dirette, come quella americana, ignorano la distinzione tra il potere esecutivo e quello giudiziario. L’assenza dell’autonomia del potere giudiziario non è, in se stessa, giusta o ingiusta. Certo è che, laddove si verifica,

è

‚leadership‛

causa

ed

economica

effetto e

dell’esistenza

sociale,

di

interessata

una a

mantenersi al potere nella gestione della ‚cosa pubblica‛, anche al di là delle dirigenze politiche. Si può giungere a vere e proprie forme di asservimento strumentale dispotismi.

come Ne

nel

fornisce

caso un

dei

totalitarismi

esempio

o

illuminante

dei lo

splendido film di Gianni Amelio Porte Aperte, che rievoca il clima di strettissimo controllo esercitato dal regime fascista sull’ordinamento giudiziario italiano durante il ventennio. In questa pellicola viene rievocato l’ordine radicale, o meglio l'affermazione di un controllo capillare e assoluto da parte del regime, ta le che ogni cittadino italiano doveva avere la certezza di poter dormire 142


lasciando le "porte aperte": nessun malvivente avrebbe osato turbare le notti dei "cittadini dell'Impero"! Proprio per soddisfare questa esigenza di ‚ordine e disciplina‛, per venire incontro alle paure dei cosiddetti ‚cittadini per bene‛, i regimi dell’epoca vollero ripristinare la pena di morte per i reati di sangue. Già nel 1764 Cesare Beccaria, con l’opera Dei delitti e delle pene, si scagliava contro le esecuzioni capitali. Questo breve saggio propugnava l’abolizione della pena di morte per motivi sia pratici, sia umanitari: tale pena, in effetti, non ha mai impedito il crimine. Beccaria, inoltre, afferma che le leggi dello stato devono assicurare la massima felicità al maggior numero possibile di cittadini e le pene devono soltanto garantire l’azione delle leggi. Perciò, tutte le pene che superano la necessità di salvaguardia della sicurezza degli individui sono ingiuste per natura. Soprattutto, Beccaria delineò la concezione dell a pena come

strumento

di

difesa

sociale,

principio

che,

unitamente a quello di prevenzione del delitto, non è stato più abbandonato dal pensiero giuridico moderno. La violenza del diritto che il potere giudiziario pratica, spesso

quotidianamente,

l’esasperazione

della

sull’indi viduo

concezione

non

della

è pena

che e

dell’apparato giuridico penale come strumento di difesa sociale. La sacralità è anch’essa funzionale a questo disegno e manifesta

in

maniera

esplicita 143

il

timore

che

una


‚laicizzazione‛ del potere giudiziario possa ridurne la capacità

coercitiva.

Probabilmente

si

vuole

ancora

incutere timore attraverso un rito inaccessibile. E' così che ancora oggi ‚i tribunali assomigliano a chiese, i giudici a sacerdoti

[...] .

La sentenza viene pronunciata ‚ in

nome di ‛ , anche se del popolo italiano invece che di Dio‛ (Gentiloni 1991,84). Il processo appare come una grande liturgia: ‚prima della ‚ camera ‛

sentenza i giudici si ritirano in una

riservata:

silenzio, ritiro, segreto. Il muro come un’iconostasi‛ (Ibidem,84).

Il rito, i rituali e i simboli esercitano un enorme potere di attrazione e di inibizione sulla coscienza dell'uomo. Esistono

riti

condizione

che

sanciscono

dell'esistenza

a

il

passaggio

un'altra,

la

da

perdita

una o

l'acquisizione di un determinato potere, l'investitura o la condanna di un essere umano. Il rito ha un'importanza considerevole, ma come ogni altro strumento di potere, può essere travisato e utilizzato per esorcizzare la forza del

singolo

e

sottometterlo

a

un

ordine

'assoluto',

superiore, che lo mantiene sotto controllo. Ogni rituale simbolo, ogni forma nell'ambito del processo penale mira a far sentire il cittadino sempre più estraneo e intimorito. I banchi dei giudici sono normalmente in una posizione più alta rispetto a quella riserva ta ai comuni mortali e la sedia di chi presiede il collegio è molto più grande di quella che viene concessa ai giudici ‚a latere‛ e ai cancellieri. 144


La legge richiede il massimo rispetto nei confronti di chi indossa la toga, ma questo rispetto non è mai rec iproco, per cui non è raro assistere a veri e propri soprusi e prepotenze. Chi è investito del potere, sia esso un giudice o un avvocato, può permettersi di rimproverare un testimone che magari non ha capito bene la domanda o forse non ha compreso l’insensata terminologia forense. Così come accade che si rimproverino le parti per il contegno da tenere nelle aule, senza capire che a volte l’emotività di chi è direttamente coinvolto in una vicenda giudiziaria non consente un atteggiamento sereno e distaccato . Sembra quasi che ci si compiaccia della possibilità di umiliare, sapendo bene che dall’altra parte non vi è alcuna possibilità di reazione o di difesa . Il rimprovero in questa prospettiva serve a imporre le regole e garantisce il rispetto dei ruoli, così come garantisce il distacco con chi deve sottostare senza discutere . La dignità umana si accomoda fuori dalle aule dei tribunali; come in un moderno ‚Colosseo‛, lo ‚spettacolo‛ del processo non tollera i sentimenti: devono vincere la ‚verità‛ e la ‚giustizia‛, quelle assolute. Le personalità mediocri utilizzano l'esercizio del loro potere per garantirsi il miraggio di appartenere a una casta superiore, illusione che chiunque sia dotato di buon senso sa smascherare, rendendosi conto della povertà mentale di simili individui. Credere che operare per la giustizia si riduca ad esercitare rigidamente severità e autoritarismo significa restare ancorati a una 145


riflessione formale sulla giustizia. L'intransigenza, la pedissequa

adesione

alla

norma

nascondono,

al

contrario, una carente dimensione etica, perché laddove incomincia una ricerca etica, cadono le astrazioni e vince l'attenzione al singolo caso, alla sua particolarità. Sono persone incapaci di guardare, al di la delle forme, alla sostanza delle cose. Così un giudice può ammonire un avvocato perché non ha messo la cravatta o non ha indossato bene la toga e rimanere del tutto indifferente di fronte all’arroganza, alla scorrettezza, alla prepotenza, alla stupidità di chi magari rispetta sempre le forme.

Non voglio certo generalizzare, ma è drammaticamente alto

il

numero

di

coloro

che

si

presentano

come

irreprensibili, rispettosi della deontologia e delle regole morali, per poi dimostrarsi inaffidabili. Giudicare è un compito

delicatissimo

che

richiede

umiltà,

n on

arroganza. Ciò non significa che nell’ambito del diritto si debba assumere un’ottica e un’etica pretestuosamente antigiudiziaria e, quindi, legiferare presupponendo le inadeguatezze e le storture degli organi giudicanti. Ma i dati, più delle parole e d elle intenzioni, stanno lì a dimostrare come l’errore non sia più ‚l’eccezione‛, ma abbia assunto i connotati quasi della regola, per cui sorge il sospetto che qualcosa non funzioni nei diversi gradi

di

giudizio

dove,

in

sostanza,

solo

l’ultima

sentenza, anche dopo più contraddizioni, modifiche e risultati

spesso

diametralmente

opposti,

è

quella

definitiva, quella che si presume conforme al diritto. 146


Le decisioni di un collegio sono decisioni quasi mai unanimi, ma espressioni di una maggioranza; e questo fa rabbrividire perché significa decidere della vita degli uomini e del loro destino su basi del tutto incerte, a maggioranza

appunto.

Più

logico,

oltre

che

giusto,

sarebbe prevedere, allora, l’uniformità dei primi due gradi di giudizio almeno nel caso di pen e detentive molto lunghe. Non è improbabile invece che le sentenze vengano stravolte, di volta in volta, e chi è stato riconosciuto innocente in primo grado si ritrovi colpevole in

appello

e

poi

di

nuovo

innocente,

per

errori

procedurali, in Cassazione. Se non proprio la certezza, quanto

meno

la

coerenza

del

diritto

deve

essere

garantita! Solo la dea bendata, invece, potrà dare una mano a chi per sua sventura dovrà essere giudicato. Il fatto è che si sbaglia spesso, troppo spesso perché si possa parlare di giustizia. Del resto il diritto è per sua natura opinabile, mentre il sistema giudiziario è per sua natura sentenzioso. Dovremmo cominciare a capire che ragione e torto non sono mai da una parte sola e quando si giudica si deve sapere che ogni decisione è potenzialmente sbagliata, se si impone con la presunzione di essere giusta. Essa è soltanto un modo di vedere, una sorta di idea della giustizia, ma non è la Giustizia.

Dalla

nascita

dei

Foucault, ‚i giudici

nuovi [...]

sistemi

penali,

ha

scritto

si sono messi a giudicare 147


qualcosa di diverso dai reati: l’ ‚ anima ‛ dei criminali‛ (Foucault 1975,22). Solo se si riesce a comprende l'ambivalenza costitutiva, insita nell'atto del giudicare, diventa possibile rivedere il significato di questioni come la pena di morte, l'ergastolo e la disumanità delle prigioni. Solo allora è possibile confrontarsi con il paradosso di un'umanità che vuole giudicare l’anima degli altri, senza mai interrogarsi sulla propria.

148


CAPITOLO OTTAVO L’IRRESISTIBILE FORZA DEL DESIDERIO

La parola libertà ser ve a espr imere una t ensione important e, forse la più importante. L’uomo vuole sempre andare via, e se il luogo dove si vuole andare non ha nome, se è indefinito,

senza

confini,

allora

lo

si

chiama

libertà.

L’espressione spaziale di ques t a tensione è il violento desider io di varcar e un conf ine. (Canett i 1942,15)

La trasgressione necessaria

Il potere ha sempre ostacolato il progresso della società e la realizzazione dell’uomo. I potenti di ogni epoca, atterriti dal pericolo di perdere i l ruolo

di

dominio,

si

sono

arroccati

su

posizioni

conservatrici opponendosi a tutte le istanze dirette a un rinnovamento

e

alla

riaffermazione

della

giustizia

sociale. L’uomo però non tollera le imposizioni e non accetta l’idea di sottomettersi ai voleri altrui, perché è nato libero e

la

sua

stessa

natura

lo

spinge

alla

ricerca

dell’autonomia. Una forza superiore alle catene della dura quotidianità ha messo le ali a coloro che non si rassegnano a subire: spacca, fruga tra i pensieri, urla di cambiare, di s metterla

149


con l’accettazione passiva di un destino troppo spesso ritenuto inevitabile. La libertà allora si trasforma nell’ossimoro cristallino di un’improvvisa metamorfosi, illumina le notti insonni degli utopisti di oggi, gli eroi di domani; infiamma e tr ascina i cuori e le menti di tutti gli oppressi e ugualmente, ma con aspetto sinistro e terribile, quelli di tutti gli oppressori. E’ un viaggio continuo, quello dell’uomo alla ricerca della libertà,

un

peregrinare

atavico,

dove

la

mèta

da

raggiungere è l’unica linfa vitale, l’unico ‚cibo‛ dei viaggiatori. Talvolta può essere necessario riposarsi al riparo di un focolare, aspettare che passi una notte, giunta di sorpresa, a spaventare i cuori; si dubiterà del proprio percorso, ma quando tornerà il mattino c on il suo tepore, si ripartirà con nuovo coraggio e nuovo vigore verso ‚l’isola che non c’è‛: è lì che gli stolti accantonano i sogni, è lì che invece bramano di arrivare coloro che hanno

scelto

di

essere

persone

libere ,

sempre

e

comunque, piuttosto che ombre sbiadite di ipocrisia e rassegnazione. La libertà è il motore della storia dell’uomo: la ribellione di Adamo ed Eva alle regole di un paradiso terrestre dove erano proibite ‚virtute e conoscenza‛, ne è il primo esempio. Mangiare il frutto proibito, in questa ottica, non è il peccato originale ma il simbolo di come l’uomo abbia sempre rifiutato ogni forma di imposizione, spingendosi anche ad abbandonare, come afferma Aldo Carotenuto, ‚l’esistenza protetta ma cieca dell’Eden‛ (Carotenuto 1996(a),6): 150


la nudità dei progenitor i mit ici vuol essere intesa come nudità psicologica, come l’essere esposto, privo di protezione e r iparo, di chi è stato abbandonato; e tuttavia è proprio questa solitudine il

passaggio

irrinunciabile

del

far si

uomo.

L’uomo

è

disperatam ent e solo, anche se ricorre a tutti i trucchi possibili per poter dimostrar e il contrario. Ed è proprio nel conflitt o di dover i, nelle contraddizioni più crudeli della sua vita che l’uomo sente la vertigine della sua solitudine (Ibidem,8).

Adamo ed Eva hanno iniziato il loro viaggio verso la libertà, nel momento in cui si sono accorti di essere nudi. L’illuminazione che rende visibile il mondo, propria di ogni mito di creazione, porta a un atto di trasgressione che si fa espressione di un desiderio irresis tibile di ricerca di senso e volontà di mettersi alla prova, di sperimentare le proprie capacità. L’esigenza della conoscenza è una delle più autentiche dell’essere umano, un momento necessario verso la realizzazione personale e la libertà. Prendere coscie nza della propria condizione, saper individuare gli ostacoli e le coercizioni imposte dal Potere, significa già aver intrapreso una strada che porterà inevitabilmente alla ribellione. ‚Ogni lotta - ha scritto Foucault - si sviluppa intorno ad un centro particolare di potere‛ (Foucault 1971 -76,115). E il primo passo della rivolta, prima ancora dell’azione in sé, non può che essere la denuncia, il puntare l’indice contro

i

potenti:

‚forzare

la

rete

dell’informazione

istituzionale, nominare, dire chi ha fatto, che cosa, 151


indicare il bersaglio, è un primo rovesciamento del potere, un primo passo per altre lotte contro il potere‛ (Ibidem). La storia dell’umanità, del resto, è una storia di rivolte. Come per Adamo ed Eva che non temettero e infransero l’ammonimento divino: ‚se ne mangerete certamente morirete‛, la forza vitale e incoercibile ad opporsi ad ogni divieto ha spinto milioni di persone, intere generazioni, a urlare il proprio ‚NO‛ di fronte a ciò che veniva avvertito come intollerabile. Lo stesso Camus - scrive Flores d’Arcais (1996) - riconduce la rivolta a questo improvviso dire ‚basta‛, che ne è forse la forma più elementare, ma che rappresenta l’istituzione di un limite invalicabile oltre il quale non si è più disposti ad andare. Ecco allora che il ‚NO‛ diventa espressione di un ideale positivo di umanità, generatore di un processo in fieri che porterà all’istituzione di nuovi valori nei quali sarà scritto l’alfabeto di una nuova società. ‚Nulla al mondo - scriveva Simon Weil nel 1934 - può impedire all’uomo di sentirsi nato per la libertà. Mai, qualsiasi cosa accada, potrà accettare la servitù; perché egli pensa‛ (Weil 1934,74). Il pensiero, questo tarlo che scava incessantemente tra le pieghe della mente, che penetra gli spazi infinitesimali della coscienza, è sicuramente il ‚nemico pubblico‛ di qualsiasi tipo d'oppressione. Contro di esso i regimi totalitari

hanno

sempre

scatenato

la

più

feroce

repressione impedendone l’espressione, annientandone gli strumenti. ‚L’intellettuale era respinto, perseguita to 152


nel momento stesso in cui le ‚ cose ‛ apparivano nella loro ‚ verità ‛ ,

nel momento in cui non bisognava dire che il re

era nudo‛ (Foucault 1971-76,109). I roghi dei libri nella Notte dei Cristalli, che hanno rappresentato

‚l’esordio‛

del

nazismo,

volevano

distruggere non solo il pensiero ma anche la memoria, la storia, smaltire il passato affinché non lasciasse traccia di sé. Invano però. Come scriveva Tacito nei suoi Annali tanto è degna di scherno la cecità di coloro che cr edono si possa spegnere con un atto di prepotenza anche la memor ia dei posteri. In realtà la condanna accresce il prestigio dei nobili ingegni; e i re stranieri, o coloro i quali hanno usato la medesima ferocia, non altro hanno guadagnato che vergogna per sé e per quelli rinomanza maggi ore (Tacito 1981, 270).

Leo Lowenthal, filosofo ebreo e tedesco, ha scritto un breve saggio in cui rievoca la storia di un oscuro rito, il rogo dei libri appunto, che contrariamente a quanto si possa pensare ‚non è affatto un atto simbolico, ma anzi più

materiale

di

quanto

non

si

possa

immaginare‛

(Lowenthal 1984,14). L'atto simbolico è di per sé un segno di cultura, mentre quei roghi rappresentavano uno strumento di distruzione della cultura. Essi sono ‚per eccellenza

l’estinzione

della

storia

della

memori a,

dell’individuo; l’estremo atto dell’ansia di rimozione, di un’autorità che per imporsi non può che rifondare la storia,

riproporre

una

nuova

(Ibidem).

153

creazione

del

mondo‛


Il sapere ha rappresentato una minaccia costante e i potenti, pur ignoranti e privi di cultura, hanno sempre capito che dietro ogni libro sta un uomo col suo pensiero, la sua consapevolezza, le sue ragioni, la sua libertà. Quale insidia maggiore, quale timore più grande per loro, abituati a imporre la ragione della forza, se non esser e smascherati dalla forza della ragione? La paura, di nuovo e ovunque, come elemento che scatena le reazioni più dure, la repressione più feroce. L’individuo

e

il

Potere

appaiono,

allora,

come

un’insanabile dicotomia dove i diritti dell’uno si scontrano con le prepotenze dell’altro. I regimi totalitari hanno provveduto e provvedono a sanare i contrasti eliminando gli individui e la loro capacità di ricreare il mondo con la loro fantasia e la loro attività critica. Roghi, libri all’indice, inquisizione, cac cia alle streghe, tribunali

e

continuare.

carceri Nelle

speciali... opulente

e

l’elenco

società

potrebbe

capitalistiche

occidentali, in quelle democrazie, culle di cultura e civiltà, il Potere si è attrezzato, usa metodi e mezzi più ‚soft‛, ma il risultato non è di molto diverso. Scriveva sempre Simone Weil: Mai l’individuo è stato così completam ente abbandonato a una collett ivit à cieca, e mai gli uom ini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai lor o pensier i, ma persino di pensar e. I termini di oppressor i e di oppressi, la nozione di classe,

tutto

ciò

sta

perdendo

ogni

signif icato,

tanto

sono

evident i l’impotenza e l’angoscia di tutti gli uomini dinanzi alla macchina sociale, diventata una macchina per infrangere i cuori, 154


per

schiacciare

gli

spir iti,

una

macchina

per

fabbricare

incoscienza, stupidit à, corruzione, ignavia e soprattutto vertigine (Weil 1934,108).

Queste parole lucidamente premonitrici della catastrofe che stava per abbattersi sul mondo intero risultano ancora di stringente attualità. Essere liberi oggi vuol dire riuscire a non uniformarsi ai modelli e alle pratiche dominanti che la ‚macchina sociale‛ produce e impone. Non basta appellarsi ai riconosciuti

diritti,

ai

principi

sanciti

dalle

Carte

Costituzionali per dire che la Libertà, con la lettera maiuscola, è ormai parte del nostro codice genetico. La

società

tesse

quotidianamente

sull’individuo

una

ragnatela sempre più fitta di obblighi, vincoli, imposizioni che scandiscono i ritmi di vita, condizionano le scelte, modificano Potere,

la

siano

personalità. essi

Coloro

politici,

che

gestiscono

il

industriali,

economisti

o

massoni, conoscono bene gli ingranaggi del ‚mostro‛ e vi agiscono con cognizione di causa. Non

è

un

caso

che

oggi

attorno

alle

televisioni,

all’editoria, ai mass-media in generale, si accendono gli scontri più duri tra le forze politiche e le ‚lobbies‛ economiche; strumento

essi per

rappresentano veicolare

155

formidabile

comportamenti

determinare i gusti e gli ‚status symbol‛.

Il coraggio della libertà

un

sociali,


Come un individuo possa essere libero di emanciparsi da tutto ciò senza necessariamente rimanere ai margini della società è forse la grande sfida del presente. Quale strada, cioè, hanno davanti i soggetti che non accettano di far parte di quello che Nietzsche chiamerebbe ‚il gregge‛,

rifiutando

schematismi

e

moralismi

necessariamente insoddisfacenti e ipocriti? La solitudine, il dolore o il delirio, l’impotenza? La risposta che dà Aldo Carotenuto appare tra le più convincenti.

Egli,

infatti,

in

Le

lacrime

del

male,

sottolinea la necessità del male appunto, del conflitto come transizione e ricerca della propria individualità, scoperta dell’essenza più profonda del proprio animo, presupponendo una scelta assoluta di libertà non solo dai vincoli esterni, ma anche da quelle parti inautentiche di noi stessi che abbiamo ereditato dalla nostra cultura. Accettare di compier si - scrive - signif ica accettare la solitudine, il dolore, l’ignot o, connessi alla crescita. Significa in qualche modo raggiungere q uella trasparenza dello sguardo che per metta di esperire la soffer enza senza necessariamente definir la come ‚male‛, senza mai pensare al male come a una realtà irr iducibile, solo nafasta per l’uomo (Carotenut o 1996(a),15).

Gli animi sensibili che sono alla ricerca della libertà dovranno prima o poi scontrarsi con la ‚pesantezza‛ del vivere, scoprire gli orizzonti della sofferenza; tutto ciò, però, osservato con sguardo retrospettivo, apparirà non solo inevitabile, ma quale discriminante rispetto a chi invece ha preferito uniformarsi e accettare. 156


Non si tratta, come dice lo stesso Carotenuto, di sentirsi una sorta di ‚élite psicologica‛, ma solo di prendere atto che la scelta della libertà (e quindi della felicità) è una scelta che va pagata a caro prezzo, m a è quella che identifica le grandi individualità. Non è semplice vincere la paura di abbandonare una quotidianità misera, ma comunque fondata su poche, solide certezze per intraprendere il viaggio nel territorio immenso, quanto duro e difficile, della lib ertà. Lo stesso popolo d’Israele, narrano le Sacre Scritture, guidato da Mosè verso la Terra Promessa, provato dal peregrinare

nel

deserto,

spaventato

dalla

nuova

dimensione di una libertà fino ad allora sconosciuta, arrivò a rimpiangere la schiavitù: Oh fossimo perit i, per mano del Signore, nel paese d’Egitto quando

sedevamo

dinanzi

alle

pentole

di

carne,

quando

mangiavamo pane a sazietà. Mentre voi ci avete condot ti in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltit udine (Esodo 15,22 - 18, 27).

Il coraggio della libertà non è una merce; esso è il risultato di un percorso individuale difficile, condizione ‚sine

qua

non‛

della

trasformazione

della

propria

esistenza e della propria coscienza in strumenti capaci di svelare l’inganno del Potere. Come quel ragazzo che sulla Piazza Tien An Men, nel giugno del 1989, solo e immobile, scrutando negli occhi soldati armati fino ai denti, riuscì a bloccare una colonna di carri mandata a zittire col fuoco la protesta degli studenti; o come Jan 157


Palac che, nell’agosto del 1968, preferì bruciarsi sulla Piazza San Venceslao piuttosto che accettare l’invasione sovietica contro la ‚primavera di Praga‛; o, ancora, come le centinaia di migliaia di neri sudafricani che, da Soweto a Joannesburgh, seguendo l’esempio di St eve Biko e Nelson Mandela, hanno lottato contro l’apartheid e le discriminazioni razziali a costo di migliaia di morti, di torturati, di persone lasciate marcire nelle galere del regime. Bisogna, allora, rifiutare una dimensione di isolamento, e vivere le contraddizioni della propria condizione umana con la voglia,

sempre

e comunque,

di

lottare per

trasformarla. Non è questo, come affermava Leibniz, il migliore dei mondi possibili, ma soltanto l’esito di un processo storico che ha visto gli uomini subire il Potere, da sempre concentrato nelle mani di pochi, a discapito dei molti. E in questo processo, il coraggio della libertà è stato l’elemento risolutore, il motore che ha permesso di vincere la paura e dare voce a un desiderio davvero irresistibile.

158


CAPITOLO NONO AL TERMINE DELLA “NOTTE”

Allora che dal buio dell’errore Con la calda parola persuasiva Io trassi fuor i l’anim a caduta, E, tutta piena di un dolor profondo, Torcendoti le mani, t u imprecasti Al vizio che t’aveva circuita. (Nekrasov, cit. in D ostoevskij 1864,43)

La coscienza della "ferita"

Uomini

di

potere

ne

sono

sempre

esistiti:

uomini

bisognosi di far subire la loro coercizione ad altri esseri, per non essere sopraffatti dal senso di nullità e di impotenza,

o

per

esaltarsi

dinanzi

all' esercizio

di

un'onnipotenza che li libera dall'insignificanza e dalla paura. Piccoli o grandi, meschini o superbi, ritti su imponenti palcoscenici

o

nascosti

nell'ombra

dei

ghetti,

tutti

comunque contagiati da una "malattia" che ha un suo preciso decorso. Sappiamo che troppo spesso i potenti macchiatisi di oscuri delitti sono rimasti impuniti, e questo ci indigna. Tuttavia, se osserviamo le parabole 159


esistenziali di molti e se analizziamo le loro biografie, ci accorgiamo che un medesimo destino li ha obbliga ti a una tragica esistenza e all'inevitabile fine. E’ un percorso obbligato, una sorta di parabola discendente che citando il titolo di un noto romanzo di Celine, potremmo chiamare ‚viaggio al termine della notte‛. Anche noi cercheremo di intraprendere un ‚viaggio‛ immaginario sulle tracce di questo destino; un viaggio attraverso la storia così come ci è stata raccontata da alcuni artisti di epoche diverse.

Tutti i personaggi incontrati, da Hitler a Stalin, al Duca di Gloucester,

sono

caratterizzati

da

que lla

sorta

di

"malattia" che, talvolta, si manifesta sotto la forma di una brama sadica di potere. "Et iudico bene questo - aveva scritto Machiavelli - che sia meglio essere impetuoso che rispettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario volendola tene re sotto, batterla e urtarla" (Machiavelli 1513,XXV). Tutti i potenti, nel

costruire

la

implicitamente

propria o

azione,

esplicitamente,

si

sono alle

rifatti, parole

dell’intellettuale fiorentino. Ma se all’inizio di questo lavoro le differenze potevano se mbrare marginali, giunti "al termine della notte" esse appaiono assolutamente sostanziali. Difficile,

se

non

impossibile,

risulta

discriminare

e

circoscrivere la soglia oltre la quale l'esercizio del potere si trasforma in arbitrio e sopraffazione. Se vole ssimo risalire indietro nel tempo, e tentare di definire un 160


qualsivoglia modello di 'uomo di potere', arriveremmo seguendo a ritroso la nostra tradizione - al "Principe" di Machiavelli, l'apoteosi del rinascimentale "homo faber": l'uomo che comprende, costruisce, edifica il suo destino su questa terra, avvalendosi delle sue capacità fisiche e intellettuali. Machiavelli definisce queste capacità come quelle ferine del "lione", cioè la forza, e della "golpe", cioè l'astuzia che lo difende dagli inganni. Pur giustificando la crudeltà - e questo già ci risulta di difficile comprensione - egli concepiva il potere come "capacità", non come "dominio". Il potere, per l'umanista Machiavelli, è gestione della cosa pubblica; è "potestas" e "auctoritas" insieme; è conduzione e miglioramento dell'interesse comune. La crudeltà è una delle tante leggi di tale gestione. Essa, però, non deve mai esacerbarsi, perché romperebbe l'equilibrio precario su cui si muove il Principe. Deve farsi audacia, virtù quanto mai "creativa", non morboso piacere del dolore altrui, che rende odioso il potere a chi lo subisce. La malvagità, che il Machiavelli giustifica, deve essere funzionale al potere e non viceversa (come fare, anche in questo caso, a individuare una soglia?). Ne Il Principe troviamo una "vitalità" di fondo che è attivazione di capacità operative, audacia dei giovani. Essa

è

ben

totalitarismi

diversa del

dal

"vitalismo"

Novecento,

che

contenuto

nei

coincide

con

l’accensione di brevi entusiasmi destinati a spegnersi e a 161


lasciare il posto alla desolazione, al desiderio d'oblio e di morte. La vitalità presuppone la valorizzazione dell’individuo e delle sue capacità, anche se all’interno di un contesto sociale. Il vitalismo, invece, nasce da idee collettivistiche e

totalizzanti

che,

facendo

leva

sulle

attese

più

elementari dell’uomo e sul senso di appartenenza al gruppo, calpestano l’individuo trasformandolo in un mero elemento di una massa indifferenziata. Per questo motivo le ideologie totalitarie debbono proprio al vitalismo molta della loro ‚fortuna‛. Tuttavia l'ambiguità del dettato di Machiavelli lascia adito a svariate interpretazioni, così che in età barocca si assiste alla degenerazione delle teorie politiche del Machiavelli, e quindi, dell'idea classico -umanistica della monarchia assoluta. Il

pensiero

machiavelliano

si

trasforma

in

"machiavellismo" e "ragion di stato": imposizione di una realtà lontana ed estranea al tessuto sociale. Per cui se Machiavelli, come scrive Aron, è stato "il primo

nell’Europa

moderna

ad

aver

conc epito

una

politica del tutto indipendente dalla morale e dalla religione, arte autonoma ricavata dall’esperienza storica" (Aron 1993,49), il ‚machiavellismo‛, fenomeno che da lui prende il nome, non ha mai saputo ‚dosare‛ il male e la violenza. Coloro che nei secoli hanno praticato il machiavellismo non hanno dato risposta a quella che Aron considera una questione centrale nella gestione del potere: 162


se è lecito impiegare, in buona coscienza, mezzi immorali, perché

lim itarsi

nel

male?

Se

‚la

violenza

senza

lim iti,

l’ingiustizia senza limiti, la menzogna e l’immoralit à senza limiti‛ sono più fruttuose, perché fermarsi a metà strada?" ( Aron 1993,387)

La

monarchia

spagnola,

nel

XVII

secolo,

ne

fu

l'espressione più compiuta: "malata" perché minata al suo interno da una sfiducia generalizzata nella bontà del vincolo sociale tra gli uomini, soffocata dal moltiplicarsi delle leggi che "gridavano" la sua impotenza.

E' il nostro Alessandro Manzoni che ci fornisce ne I Promessi Sposi un efficace ritratto di una socie tà a tal punto contagiata, che le sue componenti sadiche e le sue dinamiche

di

potere

pervadono

l'intera

trama

delle

relazioni, permeando il gioco dei rapporti tra molti personaggi

del

romanzo:

si

pensi

al

macroscopico

sadismo di Don Rodrigo o a Donna Pras sede, ostinata benefattrice che "ingabbia" i suoi protetti, o al Principe padre

di

Gertrude,

la

futura

monaca

di

Monza,

a

Gertrude stessa che esercita il suo ambiguo potere sulle novizie e su Lucia. La

storia

dell’‚infelice‛

nobildonna

costretta,

suo

malgrado, alla vita del monastero rivela meglio di altri episodi e personaggi tutta la violenza intrinseca nelle regole strutturali di quella società. Ultima figlia di un gentiluomo milanese, già prima di nascere aveva la vita segnata. Era prassi, infatti, per non 163


disperdere il patrimonio familiare, fare in modo che questo finisse nelle mani del solo primogenito. Gli altri figli, quindi, erano inesorabilmente destinati al "chiostro". Gertrude non sfugge a questa logica e, fin da piccola, viene educata in funzione della sua futura ‚occupazione‛: i regali erano bambole vestite da monaca, santini che rappresentavano monache e richiami ‚affettuosi‛ che, ci dice il Manzoni, "stampavano nel cervello della fanciulla l’idea

che

già

lei

doveva esser monaca"

(Manzoni

le

che

1827,169). Erano

soprattutto

impressionavano

la

parole bambina

del

padre

in

questa

più

violenza

quotidiana. Esse avevano il sapore di una "necessità fatale", cui non ci si poteva sottrarre, e Gertrude non vi si sottrarrà. Dopo essere entrata in monastero , come educanda, tenterà più volte di cambiare la trama della sua storia già scritta, ma proprio il timore del padre, le punizioni umilianti che gli infligge, la faranno desistere. Gertrude aspira alla libertà e con le sue compagne sogna un avvenire felice nella mondanità, ma dietro quest’idea ne compare sempre "infallibilmente un’altra": quella della reazione del padre a una sua simile scelta. "Il terrore di Gertrude - racconta il Manzoni - al rumor de’ passi di lui, non si può descrivere né immaginare: e ra quel padre, era irritato e lei si sentiva colpevole" (Ibidem, 174). E’ un rapporto sadico da cui non riesce a sottrarsi. Gli

occhi

del

padre

la

tengono

continuamente

in

soggezione, occhi "a’ quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, 164


ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili" (Ibidem). Significativa

la

scena

in

cui

Gertrude,

giunta

al

monastero di Monza, deve pronunciare la risposta di rito alla domanda, anch’essa rituale, della madre badessa su cosa

desiderasse

in

quel

luogo.

Mentre

sta

per

pronunciarla vede una di quelle compagne con cui aveva immaginato un avvenire ben diverso. Per un momento ritrova la forza e lo spirito, esita, ma quando al za gli occhi verso il volto del padre vi scorge "un’inquietudine così cupa, un’impazienza così minacciosa, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile" (Ibidem, 184) risponde come deve. Divenuta monaca i risultati di una simile educazione non tardano a manifestarsi e se l’inquietudine riesce a placarsi di tanto in tanto "nel comandare", Gertrude riversa tutto il suo astio, la sua ansia di vendetta, sulle educande destinate a quella vita dalla quale lei era stata rapita per sempre. Non c’è, comunque, solo la storia della monaca di Monza: tutto il romanzo è la narrazione di una giostra sadica, di un gioco fine a se stesso, poiché chi lo inventa e lo persegue sa, sin dal principio, di non essere anima to da un reale desiderio dell'oggetto, ma dall'ebbrezza narcisistica che nasce dal sapere di poter decidere del destino dell'altro. 165


Manzoni ha cercato di controllare e razionalizzare questa sua intuizione della radice malata dell'arbitrio del potere. Nella prima stesura del romanzo, infatti, egli condannava Don Rodrigo a una morte terribile: reso folle dal delirio della peste, costui si lancia a cavallo in una corsa forsennata fino alla morte. Questa scena inquietante verrà abolita nella stesura definitiva. In questo modo Manzoni censura la folle agonia di Don Rodrigo e sublima il "male"

che viene ricomposto,

nell'ordine provvidenzialistico delle cose, dal perdono di Renzo e Lucia. L'autore, acuto indagatore dell'animo, denuncia, anche se a costo di dolorose rimozioni, che la "malattia" non è solo di un'età, ma dell'uomo di sempre, e ammonisce affinché si prevenga o si curi il morbo dell'inettitudine politica e del sacrilegio del potere. Lo scrittore getta un sorriso ironico sui "fantocci" della pantomima del potere "spagnolesco", ma fa sentire, anche, tutto il peso del significato che dava al potere come gestione di qualcosa di sacro e di inviolabile: la comunità umana come "ecclesia

dei",

come

"ecumene

di

Dio",

ovvero

la

sovranità popolare.

In Manzoni parlano insieme e singolarmente uniti il Vangelo e Rousseau, il Romanticismo e l’Illuminismo, le istanze religiose e quelle patriottiche; ma nelle pagine dedicate alla carestia, alla folla animalesca e brutale della rivolta milanese, nelle pagine dedicate alla peste, 166


che è una specie di "discesa agli inferi", si sentono gli echi di Hobbes, cioè di un’inconfessata sfiducia nello stato di natura e nella sovranità popolare. Si alzano come due "spettri sinistri": quello del sadismo del potere e quello del Leviatano hobbesiano, cioè della metafora

del

potere

come

imposizione

di

forza

necessaria a un mondo già naturalmente malvagio, a un "uomo" già naturalmente "lupo" nei confronti dell'altro uomo. A

questi

fantasmi

perturbanti

Manzoni

risponde

"inquadrando" lo sguardo ingenuo e buono di Renzo, attraverso il quale contempliamo quadri di pietà, di solidarietà, di bellezza e di purezza in mezzo alla desolazione della peste: la donna che gli chiede aiuto da una finestra, le capre che allattano i bambini rimasti orfani, l'abnegazione di Fra Cristoforo e dei cappuccini tra gli appestati, ma soprattutto la scena dedicata alla madre di Cecilia. E’ una scena, quest’ultima, di rara poesia dove emerge subito il contrasto stridente tra la bellezza

seppur

"offuscata e velata" della madre di Cecilia, il vestito "bianchissimo"

della

bambina

e

il

colore

tetro,

l’atmosfera cupa che è tutt’intorno a loro. La donna accompagna la figlia sul carro dei morti di peste, come se la stesse accompagnando a una "festa promessa da tanto tempo": la sua compostezza e la sua nobiltà riescono a penetrare persino i monatti, abituati a macabri e sciagurati saccheggi ai danni delle vittime. 167


L'episodio

sembra

quasi

distaccarsi

dal

resto

del

racconto, assurgendo, per l’alto valore morale e l’intensa pietà che lo pervadono, a evento archetipico, a ritratto esemplare. La razionalità neoclassico-illuministica e il cattolicesimo integrale e liberale di Manzoni si coagulano in questa scena e riscattano l'uomo che ha prodotto un potere iniquo, una sorta di "sonno della ragione".

Questa scena trova una sua eco iconografica, degna della sua efficacia, in una sequenza del celebre film di Spielberg Schindler List. Il regista, che utilizza per il suo film il bianco e nero, inserisce una nota di vibrante colore in una s equenza, per esaltare il rosso di un cappottino indossato da una bambina che si aggira nell'inferno del ghetto di Varsavia. Si tratta di una bambina solitaria che girovaga in mezzo a

una

folla

di

ebrei

disorientati,

in

procinto

di

abbandonare le loro abitazioni su imposizione dei nazisti. Unica

nota

di

colore,

la

bimba

diventa

il

simbolo

dell'anima, della sacralità della vita, delle potenzialità dell'essere sacrificate dalla follia del potere. Ritroveremo più tardi la piccola con lo stesso cappottino rosso, riversa su un carro di cadaveri. Il cadavere dal cappottino rosso, come il corpicino composto di Cecilia sul carro dei monatti, fungono da elementi narrativi-soglia, immagini del dolore che ha oltrepassato il limite oltre il quale l'abiezione della "malattia-peste-potere-nazismo" è irrimediabile. La loro 168


visione muta la coscienza di chi osserva, trasformando la "malattia" in un "iter" che dalla coscienza della "ferita" giunge

alla

coscienza

di

sé:

un

"viaggio"

che

intraprendono e terminano sia Renzo che Sc hindler. Per entrambi è stato necessario giungere sino in fondo, al termine della notte. La letteratura novecentesca - si pensi ad esempio al romanzo di Camus La peste (1947) - denuncia la caduta del

provvidenzialismo

narrativo

che

riscatta

ottocentesco gli

umili

e

e

del

ricerca

buonismo soluzioni

metafisiche al male, e ci precipita nell'"assurdo" della malattia del secolo: il nichilismo.

La caduta degli dei

Dopo

il

tramonto

dei

grandi

miti

razionalistici

e

progressivi del Romanticismo e del Positivismo, dopo la prima guerra mondiale e dopo il possente movimento culturale del Decadentismo, le certezze e le fedi non sono più le stesse. Si fa strada una presa di coscienza che confina con il Nichilismo: la consapevolezza di un "assurdo", di un "nulla"

che

come

un

triste

sudario

cala

sull'intero

orizzonte del mondo. Una ripresa del sentimento puro dell'Ottocento romantico non

è

più

praticabile

con

la

consapevolezza

della

sparizione del soggetto unitario, della "deflagrazione" dell'unità della coscienza umana, q uale Freud aveva intuito parlando di un inconscio vivo e latente, soffocato 169


dai modelli di comportamento condivisi e imposti dalle istituzioni della socialità occidentale: la famiglia e lo Stato. Nietzsche tracciava una storia della cultura in cui, alla decadenza

delle

epoche

razionalistiche,

si

potesse

opporre un'età "tragica", cioè un'età che avesse a che fare col mito e col fato, ovvero con quella tensione di forze

antitetiche

(il

dionisiaco

e

l'apollineo)

che

costituiscono l'integrale umanità al di là d egli steccati anima/corpo, bene/male. Il "Superuomo" incarnava questa tensione e poteva essere cosciente non solo dell'assenza della verità assoluta

nell'uomo

dell'esistenza,

ormai,

e di

nella

storia,

un'umanità

ma

spogliata

anche dalle

illusioni metafisiche e religiose, gettata nel magma dei condizionamenti materiali e psicologici che premevano e pretendevano una loro cittadinanza. La mente di Hitler lesse queste dichiarazioni di sconfitta e approfittò della diffusa esigenza di palingenesi per organizzare un potere personale: la civiltà e la cultura europee non possedevano un antidoto per neutralizzarlo subito. Il morbo doveva estendersi, dilagare, arrivare al "termine della notte", per essere curato. Le sue componenti sadico-masochistiche esplosero e non f u semplice follia se grandi, lucidissimi intellettuali europei ne anticiparono o ne seguirono i contenuti nichilisti e vitalistici. Gli antesignani furono nordici come Ibsen e Strindberg; i 170


seguaci Hamsun, oppure Celine e Drieu de La Rochelle i due più grandi scrittori francesi collaborazionisti. Non fu follia se noi, oggi, possiamo ricostruire le forze e gli elementi che interagirono al suo interno:

fu la

"malattia", la "notte" scesa su un mondo che si stava perdendo, le cui opposte tensioni verso l'indi vidualismo e il totalitarismo avevano deflagrato ogni possibile accordo tra coscienza e società, tra individuo e potere. La patologia del potere è una "malattia" umana, non superumana: le sue radici affondano nel nostro profondo, sta a noi elaborarle alla "luce" della più profonda "notte" che sia mai scesa sulla nostra storia recente e passata. E' per questo che non ci sentiamo di concordare in pieno con le parole di Primo Levi quando scrive che la degenerazione

massima

del

Nazismo,

cioè

l'antisemitismo folle di Hitler e della Germania che lo seguì, è un avvenimento che non si può comprendere, che non si deve comprendere, perché "comprendere è quasi giustificare". Levi continua: ‚comprendere‛ un proponiment o o un comportamento umano signif ica

(anche

etimol ogicamente)

contenerlo,

contenerne

l'autore, mettersi al suo post o, identif icarsi con lui. Ora, nessun uomo

normale

pot rà

mai

ident ificar si

con

Hit ler,

Himmler,

Goebbels, Eiechmann e inf init i altr i. Questo ci sgoment a, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desider abile che le loro parole [...] non ci r iescano più compr ensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro -umane, senza pr ecedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l'esistenza (Levi 1958,2 44).

171


Certo

non

possiamo

identificarci

con

Hitler

o

con

Himmler, ma possiamo analizzare e ricostruire la loro "malattia", per capire che non si è trattato di una "personale

malattia",

ma

di

un

"cancro"

entrato

in

"metastasi" in un corpo sociale vulnerabile , e perciò destinato a soccombervi. Le parole di questi uomini purtroppo sono state umane (troppo umane!) se hanno potuto penetrare le menti di milioni di persone: ed è solo riconoscendo

che

parole

simili

possono

essere

comprese, risuonare oscuramente con i propositi più lontani dalla coscienza e, tuttavia, non per questo essere meno penetranti, che potremo scongiurare il pericolo di assecondare altre bocche che le pronuncino.

Le voci più avanzate dell'arte del Novecento hanno voluto rappresentare e sviscerare le dinamiche di questa patologia. Il cinema, ad esempio, ha raccolto un'eredità culturale e letteraria sull'analisi del potere, che va da Shakespeare ad Alfieri, da Manzoni a Dostoevskij, ad alcune delle più grandi coscienze critiche della nostra modernità. Da

Shakespeare

a

Dostoevskij,

dalla

letteratura

novecentesca più avanzata al cinema, il potere è sempre stato rappresentato come il luogo di un equivoco della coscienza umana quando viene sopraffatta dalla hybris: dall'illusione di una libertà assol uta, di un assoluto arbitrio nel costruire il proprio destino; che scivola nella tentazione della violenza e precipita infine nel più totale 172


smarrimento, in preda delle forze più incontrollabili dell'inconscio. Ci piace ricordare un grande autore italiano che ha dedicato tanta parte della sua cinematografia all'analisi del potere. Parliamo di Luchino Visconti e del trittico dedicato al potere: Il Gattopardo, La caduta degli dei e Ludwig.

Visconti, ripercorrendo le orme dell'amato Dostoevskij, meditò a lungo sulla libertà dell'individuo, sulla necessità e sulla natura del potere. Come Dostoevskij, anche lui indagò su quelle zone psichiche che esulano dalla coscienza e dalla morale comune, scoprendo nell'uomo aspetti segreti e demoniaci. Nelle pagine di Dostoevskij e nelle sequenze di Visconti le antitesi e i conflitti dell’anima si dispiegano e si rivelano agli occhi del lettore-spettatore in tutta la loro valenza: con il fascino convive l’abiezione, con il sublime l’orrore. Il sadismo si lega al masochismo, la bellezza alla violenza. I loro personaggi non si lasciano guidare da moralismi o utopie, ma da una concreta realtà psichica che dilania, con le sue ambizioni e delusioni, l’animo umano.

Visconti non dà risposte, preferendo, nel corso della sua filmografia, mantenere vive le contraddizioni che egli coglie in se stesso e nel rapporto tra individuo e potere: contraddizioni proprie di una sensibilità post -romantica e decadente di cui è ‚figlio‛ il suo trittico sul potere. 173


C'è una continuità nel percorso esp ressivo di Visconti da Il Gattopardo (1963) a La Caduta degli dei (1969) a Ludwig (1973). Tre grandi melodrammi storici sulla sconfitta di un'idea di potere e di gestione della socialità: una sconfitta nata dal senso di un'inadeguatezza insanabile tra indi viduo e società, dal sentimento di una "disabitazione interiore" del singolo, che intuisce un desiderio di oblio e di morte. Il Principe di Salina ne Il Gattopardo è il personaggio a cui Visconti affida la sua vigorosa critica al trasformismo politico della classe dirigente risorgimentale, espresso nel motto "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". L'immagine di denuncia è rappresentata dalla scena di un ballo memorabile, una sorta di "danza macabra", in cui il nuovo potere si sostituisce al vecchio senza nulla cambiare nei suoi riti di oppressione e di immobilismo. La "malattia" del potere, di cui il Principe comincia a "morire" proprio dal momento in cui si aprono le danze, è la coscienza non solo del proprio isolamento e del declino del proprio mondo, ma anche del nulla che pervade l'esistenza. La composta e solitaria intuizione di morte di questo personaggio trova, sei anni dopo, ne La Caduta degli dei (1969),

una

deformazione

inquietante

e

allucinata,

realizzata attraverso il ritratto impietoso di un'umanità degradata: la classe dirigente tedesca, che consegnò la Germania nelle "mani" del Nazismo. 174


La

storia

del

film

e

quella

della

Germania

si

compenetrano: nel 1933, il vecchio industriale Joachim von Essenbeck nomina vicepresidente delle acciaierie di famiglia un nazista e costringe alle dimissioni il liberale Herbert. Joachim viene assassinato da sua moglie Sofia e dal suo amante Friedrich Bruckman, vicino alle S.S.. Il figlio del vecchio Joachim e di Sofia, Martin, in quanto erede, viene usato dalla madre e dal suo amante. Tutti e tre sono vittime, a loro volta, di ricatti da parte di alcuni personaggi delle S.S., di cui si liberano attraverso l'omicidio. Ma Martin, pieno di odio e di desiderio di rivalsa, stupra la madre e, dopo av er acconsentito al suo matrimonio

con

Friedrich,

li

costringe,

entrambi,

al

suicidio.

Quella "malattia" del potere, che ne Il Gattopardo era solo suggerita per allusioni, esplode in quest'opera - che lo stesso regista ha definito ‚un Macbeth moderno‛ - in tutta la sua violenza. Il passo dalla deformazione al delirio del potere è breve: nel 1973 Visconti firma il suo terzo film sul tema, Ludwig, ritratto della malattia-follia di Luigi II di Baviera. Sul corpo dell'attore Helmut Berger, che lo interpreta, Visconti "incide" la degradazione fisico -morale di un mondo in dissolvimento.

L'anno dopo, nel 1974, seguendo un'ideale continuitĂ cronologica,

la

perturbante

lezione

del

cinema

viscontiano sul potere trova, in una pellicola di Liliana 175


Cavani, la sua degna prosecuzione e conclusione: Il portiere di notte. Il film è ambientato nel 1957, in un vecchio albergo di Vienna, in cui si danno convegno alcuni criminali nazisti rimasti

impuniti:

insieme

istruiscono

dei

cosiddetti

"processi terapeutici" in cui, in realt à, fanno sparire testimoni e prove che li riguardano. Tra di essi c'è l'ex gerarca Max Altdorfer, appunto, portiere di notte dell'albergo. Svolge mansioni di "servo-padrone" con alcuni ospiti abituali

dell'albergo,

attraverso

delle

prestazioni

"straordinarie", che lo rendono spettatore impassibile di una sorta di lazzaretto di personaggi compromessi con il grande morbo da poco "estinto": il regime nazista. Dietro la sua vita notturna da talpa braccata, anche lui cela

la

sua

'malattia':

si

chiama

Lucia

e

ria ppare

all'improvviso. Max riconosce, infatti, nella donna che entra nella hall dell'albergo al braccio del marito, famoso direttore d'orchestra, la giovane ex -prigioniera ebrea, alla quale - come mostrano una serie di flash -back - è stato legato da un morboso rapporto sado-masochista. Nel

periodo

della

sua

reclusione

nel

campo

di

concentramento, Lucia era poco più di una bambina: era proprio la sua innocenza a scatenare in Max atti da padre-padrone,

il cui sadismo

trovava una risposta

positiva nella tacita accettazione di Lucia. A distanza di anni, riproducendo il medesimo scenario, la donna si veste di bianco, secondo un antico rituale, e gli si 176


consegna totalmente come allora, quando era la "sua bambina". Questo

sadismo

del

potere

come

contaminazione

dell'infanzia si esaspera in un'altra sequenza del film, che appartiene ai ricordi che Lucia ha del lager: insieme ad altre bambine e ragazzine ebree, veniva vestita di bianco e fatta salire su una giostra, una specie di ruota con piccoli sedili sospesi nel vuo to. La ruota girava velocemente facendo gridare di gioia e di emozione le bambine: ma ad un tratto quelle grida di divertimento si trasformavano in grida di terrore e di morte perché alcuni gerarchi, da terra, giocavano al tiro al bersaglio con i loro corpi. Il rapporto di bisogno reciproco tra il sadismo di Max e il masochismo

di

Lucia

si

esprime

in

tutta

la

sua

drammatica evidenza in un flash-back in particolare: Lucia inscena una danza davanti a lui e agli altri gerarchi e riceve in dono la testa di un p rigioniero che la infastidiva. Max e Lucia sono servi e padroni l'uno dell'altra, legati indissolubilmente a un

amore

"necessario",

"fatale",

malato e senza pietà. Muoiono in una livida alba viennese, in una di quelle albe che Max non sopportava: "voglio e ssere una talpa‛ diceva, ‚perché ho un senso di vergogna alla luce". In questa frase è racchiuso un significato profondo: la "malattia" del potere è uno stato di coscienza. Quella non troppo lontana "malattia", che è stata il nazismo,

non

è

un

errore 177

da

dimenticare.

"E'


un'università della vita", come diceva Primo Levi. Una "scuola" con la quale Max aveva imparato a convivere, ma che non aveva voluto comprendere. Per lui non era stata un'"università" né una "scuola", ma una degradazione, una "discesa agli i nferi" di cui non ha voluto scendere tutti i gradini. Per questo non le è sopravvissuto.

178


CAPITOLO DECIMO I TERRITORI DELLA SFIDA

Arte e gioco [...] contraddistinguono la potenza posit iva del nostro vivere:

l’artista che sconfigge il nichilismo e il

bambino che gioca ritrovando l’innocenza al di là della colpa. (Rovatt i 1998,61)

Ragione, ironia, innocenza

Spesso

nei

precedenti

capitoli

abbiamo

sottolineato

come i potenti si siano sempre serviti di maschere, di inganni, di violenze per tutelarsi dal con fronto con la loro meschina realtà e con le loro perversioni. Pur avendo sempre trovato adulatori e seguaci delle loro terribili imprese, altrettanto spesso si sono scontrati con uomini e comunità che hanno rifiutato il sopruso e condannato l'ingiustizia. La storia è costellata di mirabili esempi di uomini che non si sono piegati ai soprusi e alle ingiustizie e hanno avuto il coraggio di lanciare la loro sfida al potere. Certo si è trattato di una sfida impari e questo non ci induce di certo a un marcato ot timismo. Ma conosciamo esempi di gruppi sociali - se non di intere popolazioni che sono riusciti a sollevarsi contro il potere. Sarebbe un grave errore dunque cedere alla tentazione di accettare supinamente la realtà della prevaricazione. 179


Se osserviamo gli scenari internazionali, ci rendiamo conto che nessun paese al mondo può dirsi affrancato dalla necessità di emanciparsi da una schiavitù che, marcatamente

visibile

o

"democraticamente"

diffusa,

tocca egualmente il Nord e il Sud del mondo, Occidente e Oriente. Sarà realmente possibile questa liberazione? O siamo di fronte a un'illusione, a una vana speranza? Certamente, se non si tenta di scardinare le basi del consenso su cui poggia ogni relazione di dominio, non si offre a chi subisce il potere lo strum ento conoscitivo principale per emanciparsi. La via della demistificazione diventa

la

strada

maestra

per

una

sfida

che

può

cambiare, nel tempo, le regole del gioco. Dobbiamo quindi innanzitutto imparare a ‚leggere‛ e riconoscere quei segnali che ci indicano l’esistenza di territori in cui il potere perde forza, non trova spazio e incontra il suo vero limite, perché viene messo a nudo e riportato alle sue reali dimensioni. Il lavoro principale è quello che opera all’interno delle coscienze, perché il potere nasce dall'uomo, è voluto dall'uomo, dalla dimensione di inconsapevolezza e di cecità in cui vive. Il pericolo maggiore, per chi si trova quotidianamente a fare i conti con coloro i quali esercitano il potere, sembra quello di rimanerne schiacciato, ma la cosa più deleteria è finire per accettarne come inevitabile l’uso distorto, l’abuso consacrato a regola. 180


Devono allora moltiplicarsi gli uomini che hanno il coraggio di dire ‚no‛ alle regole dettate dal potere e che sanno riconoscere e smascherare gli impo stori che da secoli continuano a dominare il mondo indisturbati. Vedremo che a volte basta lasciarsi andare a uno sguardo più lieve sul mondo e assumere un sano e razionale distacco dai piedistalli e dai monumenti che troppo spesso ci si affretta a costrui re per non cadere nella ‚tela di ragno‛. La

ragione,

l’ironia,

l’innocenza

sono

forse

le

doti

principali per chi non vuole cadere nell’inganno del potere. La laica apertura di un animo intelligente e ironico, innocente e acuto, si dimostra vincente nell'ar te dello smascheramento del potere. Un'arte potentissima, se è vero che il potere senza la maschera, "il potere ‚nudo‛", come scrive Pasquino, "perde molta della sua efficacia" (Bobbio-Matteucci-Pasquino 1990, VII). La ragione in primo luogo è un'arte peri colosa e sgradita ai potenti che, naturalmente, non amano la libera pratica del dibattito e della riflessione critica. Primo Levi affermava che Hitler odiava furiosamente gli Ebrei perché erano gli "eredi di una cultura in cui si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato inchinarsi agli idoli, mentre lui stesso aspirava ad essere venerato come un idolo" (Levi 1958,241), e non esitava a proclamare: "Dobbiamo diffidare dell'intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti" (Hitler, cit. in Levi 1958,241). Il disprezzo per la cultura, del resto, è stato, fin dall’inizio, il tratto distintivo del 181


nazismo, tenuto a battesimo con il rogo dei libri durante la "notte dei cristalli". E sotto questo aspetto è facile comprendere perché i rigurgiti antisemiti, i deliri nazi fascisti, e più in generale ogni forma di totalitarismo e di estremismo, prendano piede - oggi come allora - proprio sul terreno dell'ignoranza. L’ironia e l’innocenza, dal canto loro, possono sembrare strumenti

lontani

da

quelli

utilizzati

per

un'analisi

razionale del fenomeno "potere". Sembrerebbero più consoni ai luoghi della fantasia e dell'immaginazione, ed è

anche

così,

se

pensiamo

che

il

potere

dell'immaginazione è uno dei più irresistibili e potenti . La

parola

‚ironia‛

è

di

origine

greca

e

indica

letteralmente un modo di interrogare gli altri fingendo di non sapere. Si è notato, sotto questo aspetto, che l’ironia è il contrario della millanteria. Ma dietro questa finzione si nasconde un carattere chiaramente intellettualistico che è proprio di coloro che non si fermano di fronte all’apparenza delle cose, ma costantemente la mettono in dubbio con le loro domande. Il linguaggio ironico non è violento, non raggiunge mai l’asprezza del sarcasmo, eppure i potenti lo temono perché sanno che un semplice giullare può indicare, col gusto dello sberleffo e della risata, dove stanno ‚il turpe e il vile‛. L’ironia conosce anche il "sentimento del contrario" che, come insegna Pirandello, è prerogativa razionale e intellettuale;

la

semplicità

e 182

l’innocenza,

che

come


vedremo caratterizzano l’infanzia, sono pervase da una sapienza naturale che confonde i potenti. Non è un caso che il decennio di potere di Hitler dipese in gran parte dalla "macchina" della propaganda e dell'educazione

nazionale,

creata

da

un

formidabile

"pedagogo" quale fu Goebbels. Goebbels aveva capito che il puro è un individuo libero e autonomo.

Aveva

intuito

che

l’infanzia

è,

sostanzialmente, il regno di tale libertà: imbrigliarne e catturarne

la

purezza,

assecondandone

certe

inclinazioni, significava aver partita vinta contro ogni possibile tipo di dissenso. Se l'infanzia esige il confronto con i modelli e si fa "tribunale" della loro credibilità, così l’ironia, che è anche esercizio dell'attività razionale, consente il distacco e la demistificazione. Nel 1940, all'inizio della guerra, Charlie Chaplin utilizzava tutta l'energia provocatoria del suo levissimo apologo, "Il grande Dittatore", per condannare il

nazifascismo,

mettendo

a

nudo

gli

aspetti

p iù

grotteschi di colui che voleva spacciarsi per l’uomo del destino.

Ragione, ironia, innocenza: sembrano i frammenti sparsi di un puzzle incomprensibile. Invece sono le isole fertili di un arcipelago in cui i potenti non vorrebbero mai trovarsi: un luogo fecondo di creatività, che è la prima antagonista di ogni totalitarismo. Questo luogo è libertà, movimento, varietà, mescolanza; disturba le strategie e le promesse dei potenti. 183


E' la trama di cui è intessuto il pensiero dell'uomo nella sua

accezione

precipuamente

più

ampia,

umana

che

cioè

ingloba

come la

attività

logica

e

il

sentimento, la ragione e la fantasia, che ha un'enorme carica demistificante perché si nutre dei contrasti o dei legami che l'inesauribile vitalità delle cose offre in continuazione. Il potente teme la varietà e il confronto, è paralizzato dalla paura dell'imprevisto; perciò conculca il pensiero cristallizzandolo nella ripetitività, nell'ipertrofia e nella banalità. Gli uomini anti-potere, invece, sono aperti, disponibili allo

spaesamento,

al

"viaggio",

sempre

indotti

da

un'insofferenza del limite. Proprio così, "insofferenti al limite": sono persone che, come i bambini, gli adolescenti, gli artisti, i poeti, si trovano da sempre al centro degli incubi dei potenti, perché

la

loro

voce

libera

nasce

da

un'ansia

di

conoscenza, da una curiosità per la vita che esige libertà, che non si lascia "catturare". Essi "viaggiano" e la mobilità è per loro una necessità intrinseca per esprimersi e per crescere, pur sapendo che ogni viaggio di crescita e di conoscenza è lotta, rischio, pericolo, come il viaggio di Dante ci insegna. Il potente promette la liberazione da quest'ambiguità, dall'angoscia che ne deriva: adombra sempre dei giorni di luce eterna e di riscatto definitivo.

184


La lotta per la conoscenza, al contrario, è sempre un'incognita, una tensione estenuante. Ma essa conduce alla conquista di sé, in quanto individuo irripetibile. Non è un caso che la lingua italiana usi la parola "temperamento" per indicare il carattere e l'unicità di un singolo individuo. "Temperare" significa "correggere qualcosa mediante la mescolanza con altra cosa di natura contraria e diversa". Il potente, invece, aspira a una purezza incontaminata, disumana, ma rassicurante. Un poeta, un bambino o un creativo cercano "il diverso", vivono come degli "esploratori curiosi" e la loro lotta per vivere non ha mai pace. Lottare significa accettare la conquista di certezze da ridiscutere

incessantemente;

significa

accettare

di

essere soli, di crearsi come "singolarità" irripetibil e; significa accettare il rischio di dire "no", di negare le armonie

prestabilite,

non

per

distruggerle,

ma

per

ricostruirle su basi più ricche e complesse. Quello che spaventa il potente è proprio questa tensione alla perfettibilità e non alla perfezione, in cui la posta in gioco sono l'individuo e una misura sociale basata sull'autorevolezza

e

non

sull'autorità,

sullo

scambio

reciproco di fiducia e non sull'inganno di una promessa di eternità. La grande paura del tiranno è anche solo il sospetto che si possa levare il "perché" di un bambino, il canto di un poeta, il sorriso di un "Giullare" o che degli occhi si possano sollevare a contemplare quella che Pasolini 185


chiamava "la straziante bellezza del creato", quella stessa bellezza che Pirandello ha offerto al caruso Ciaula, nella sua stupenda novella. Gli spiriti liberi

Chi sono allora questi uomini anti potere? Chi incarna queste caratteristiche che ancora non trovano spazio nell’anima collettiva della nostra società? Di fronte a molti esempi possibili ci soffermeremo solo su alcuni tra i più significativi. Albert Einstein occupa senza dubbio un posto di tutto rispetto in questa breve, ma densa carrellata di uomini dell'anti-potere. Forse siamo abituati a pensare a quest’uomo geniale nelle

vesti

di

puro

scienziato,

con

un’intelligenza

superiore e irraggiungibile. In realtà egli non si limitò agli studi e alle ricerche scientifiche. Era un uomo che, come tutti, avvertiva il fardello dei mali che affliggevano la comunità mondiale. Le sue riflessioni spaziavano dagli orrori delle guerre ai problemi di vita quotidiana, alle religioni. Può apparire strano, ma leggendo i suoi scritti scopriamo di avere a che fare con una persona di estrema semplicità,

dotata

proprio

di

quell’innocenza

di

cui

abbiamo poc’anzi accennato. Fu proprio la sua "innocenza", il suo spirito curioso e affascinato dal mondo, che gli consentì di raggiungere traguardi straordinari. 186


Basti pensare che per elaborare la "teoria della relatività" bisognava rinunciare in qualche modo alle conoscenze tradizionali e ormai consolidate della scienza; c’era bisogno di un uomo semplice appunto, neppure molto bravo

a

scuola;

occorreva

un

ragazzo

di

appena

trent’anni privo di condizionamenti. Fu proprio la sua "innocenza", l’assenza di pregiudizi, che gli consentirono di "accettare" quello che fu il presupposto

della

teoria

della

relatività:

la

velocità

costante della luce. Può sembrare una banalità, eppure, nessuno dei grandi luminari del suo tempo era mai riuscito a liberare la sua mente dai preconcetti che os tacolavano le ricerche di molti altri scienziati. Forse è proprio quello che capitò a Galileo,

quando

contemporanei

la

tentò

invano

verità

sul

di

rivelare

movimento

dei

ai

suoi

pianeti.

Quella verità fu ostacolata proprio dai pregiudizi da cui può essere immune solo un animo innocente. Einstein

era

proprio

così,

un

uomo

semplice

e

intelligente: "Io non ho particolari talenti‛, diceva di sé, ‚Sono solo appassionatamente curioso". E ancora: "Per uno scherzo del destino, i miei simili mi hanno fatto oggetto di un’ammirazione e di un rispetto spropositati, senza che io ne abbia né colpa né merito" (Einstein 1996,32). Una personalità così fuori dal comune non poteva non essere uno spirito contro il potere. La studiosa Alice Calaprice, curatrice di una tra le più interessanti e complete raccolte di pensieri di Einstein, 187


ha evidenziato come il grande scienziato abbia spesso cambiato idea o modificato le proprie opinioni su diversi argomenti.

Ma

l’incessante

riferimento

alle

sorti

dell’umanità e la priorità assoluta sulla scienza, sulle ricerche, sui giochi di potere, che egli riserva all’uomo rappresentano le costanti, fortissime, che li lega. Così se, ad esempio, nel 1929 dichiarava: Il mio pacifismo è un sentimento istintivo, un sent imento che mi abita perché l’o micidio è r ipugnante. Non nasce da una t eoria intellettualistica, ma da un profondo orror e per ogni forma di odio e crudeltà (Ibidem,99);

nel 1953, dopo gli orrori del nazismo, affermerà: Sono un pacifista militante ma non assoluto: ciò signif ica che sono contrario all’uso della forza in qualsiasi circostanza, salvo contro un nem ico che persegue la distruzione della vit a in sé (Ibidem,101).

Sull’aspetto

che

più

ci

interessa,

quello

delle

sue

concezioni riguardo lo stato e il potere, Einstein è ugualmente molto chiaro: "lo Stato è fatto per l’uomo, non già l’uomo per lo Stato [...] Lo Stato dovrebbe essere il nostro servitore, e non noi gli schiavi dello Stato" (Ibidem,102). Einstein era un fermo sostenitore della democrazia, ma non manca certo nei suoi scritti, nei suoi pensieri, la consapevolezza della labilità di ogni sistema e del possibile degenerare di ogni forma di governo. 188


Egli

aveva

intuizioni

messo

al

scientifiche.

servizio Nel

dell’umanità

1939

aveva

le

sue

scritto

al

presidente americano Roosev elt affinché finanziasse e incoraggiasse gli studi di Fermi e Szilard sull’energia nucleare. Dopo Hiroshima, nel pieno della "guerra fredda", gli era chiaro, però, che il potere non avrebbe usato tali scoperte per il bene dell’umanità, ma che al contrario ne avrebbe fatto strumenti di morte. Forse per questo, una settimana prima di morire, l’11 aprile

1955,

considerato

sottoscrisse il

rappresenta

suo

testamento

una

preoccupazioni

di

quello

sintesi scienziato

che

spirituale

mirabile e

oggi

dei

delle suoi

viene e

che sue timori

schiettamente umani per il futuro. Forse è uno dei documenti più significativi, un manifesto per sollecitare tutte le nazioni a rinunciare alle armi nucleari, sottoscritto da diversi studiosi di fama mondiale e "Premi Nobel". Questo dunque, è il problema che vi presentiamo, netto, terr ibile ed inevitabile: dobbiamo porre f ine alla razza umana oppure l’umanità dovr à rinunciare alla guerra? E’ arduo affrontar e questa alternativa poiché è così difficile abolir e la guerra. L’abolizione della

guerra

chiederà

spiacevoli

lim itazioni

della

sovranità

nazionale, ma [...] gli uomini stent ano a rendersi conto che il pericolo è per loro, per i loro figli e loro nipoti e non solo per una gener ica e vaga umanità [...] Se vogliamo, possiamo avere davant i a noi un continuo progr esso in benessere, conoscenze e saggezza. Vogliamo invece scegliere la morte perché non siamo capaci di diment icar e le nostre controversie? Noi rivolgiamo un 189


appello come esseri umani ad esser i umani: ricordate la vostra umanità e dimenticat e il resto (Einstein 1955,108 -110).

Continuando nella nostra "carrellata", se Einstein può essere eletto "rappresentante" di tutti coloro che con la ragione e la semplicità hanno condotto il loro attacco al potere, Andersen può degnamente farsi portavoce di tutti coloro che da un confronto con i valori dell’infanzia hanno tratto la forza vitale per smascherare i potenti. Hans Christian Andersen è stato uno dei più grandi favolisti occidentali e, tra l'altro, grande cantore della nudità ridicola degli impostori. Egli capì che una favola può esprimere, nel modo più autentico e diretto, il 'viaggio' interiore di ogni piccolo o grande eroe che tenti di raggiungere la sua realizzazione lottando contro il potere, le norme, le convenzioni che soffocano il suo sogno di emancipazione: la lotta di quel sognatore deriso, di quel ribelle soffocato che è in ognuno di noi. Una delle fiabe più significative è forse quella dei "vestiti nuovi dell’imperatore" con l’immagine, ormai nota a tutti, del bambino che grida "il Re è nudo". E’ la storia di un imperatore che amava sempre sfoggiare lo splendore dei suoi abiti e trascurava ogni altro interesse o attività. La sua vanità lo portò ad accettare la proposta di due impostori, i quali lo convinsero di poter tessere p er lui abiti di singolare bellezza, con una stoffa che aveva il

190


potere di diventare invisibile a chi non fosse degno della propria carica e agli stupidi. Gli impostori iniziano il loro lavoro fingendo di tessere e di

lavorare

al

telaio

e

tutti

gli

incarica ti

mandati

dell’imperatore per controllare a che punto fossero coi vestiti, pur non riuscendo a vedere nulla, preferiscono tacere per non apparire stupidi. Tutti tornano soddisfatti e raccontano di aver visto cose incantevoli. Quando all’imperatore viene c hiesto di provare l’abito alla presenza dei suoi funzionari che ne decantano la bellezza, egli si accorge di non vedere nulla ma pensa bene di non lasciarlo trapelare per non apparire stupido o peggio non degno della corona. Decide così di farsi portare tr a la gente con il suo baldacchino a sfoggiare gli abiti nuovi e parte con il corteo tra la folla che commenta la bellezza di quelle vesti. Nessuno

confessa

di

non

vedere

niente,

finché

all’improvviso interviene un bambino che senza ipocrisia esclama: "Ma se non ha niente addosso!". Da quel momento tutti cominciano a capire che il Re è nudo e all’imperatore non rimane che continuare suo malgrado nella patetica sfilata con i ciambellani che fingono di reggere la coda di un vestito inesistente. Si tratta di una favola semplice, ma racchiude una grossa carica demistificante, una forza che trova delle sorprendenti simmetrie in una gustosissima scena di Mistero Buffo (1977) che Dario Fo recita in Gramlot, il 191


linguaggio popolare che racconta dei potenti, delle loro glorie e delle loro cadute. Dario Fo è di certo un personaggio temuto dai potenti e forse per questo si sono tanto preoccupati quando gli è stato conferito il premio Nobel. Fo, con la sua ironia, non ha risparmiato nessuno: uomini potenti e temuti, come B onifacio VIII, sono tratteggiati come personaggi ridicoli, grotteschi. Ma torniamo alla scena di Mistero Buffo. Il grande "giullare"

italiano,

con

la

sua

straordinaria

carica

gestuale, mima la preparazione del papa Bonifacio VIII per una processione. Vanesio e dispotico, dà in continuazione ordini ai suoi servi sul modo in cui sollevare il suo mantello lungo, preziosissimo e greve di ori e di gemme e minaccia di punire

il

servo

distratto.

Improvvisamente

incrocia

un’altra processione portata avanti da Gesù Cristo che, però, era vestito di stracci e trascinava a fatica la sua croce. Bonifacio VIII allora comincia a provare vergogna e fa di tutto per nascondere i suoi ori e le sue vesti. Il risultato scenico e l'effetto comico sono irresistibili, ma soprattutto è straordinario il legame che immediatamente lo spettatore stabilisce tra il Bonifacio VIII di Fo e l'imperatore nudo della favola di Andersen. Nella scena di Mistero Buffo, infatti, il mantello viene mimato, il pubblico non lo vede e l'andatura tronfia e pomposa dell'imitazione di Dario Fo è proprio quella che, 192


forse, ognuno di noi, ha conferito con la fantasia alla nudità grottesca del personaggio di Andersen. La psicologa Serena Foglia, attenta studiosa dei simboli dell'inconscio,

in un

suo denso libre tto,

dedica un

interessante capitolo al simbolismo degli indumenti e cita Carlyle, il quale affermava che "gli indumenti ci hanno dato l'individualità, le distinzioni, le modalità sociali, che però, pur essendo qualificative della nostra specie, rischiano di trasformarci in manichini" (Foglia 1994,39). Hitler,

Mussolini

e

Stalin

si

offrono

all'immaginario

collettivo proprio come manichini, pupazzi, risibili nelle loro divise da militarismo di parata, irrimediabilmente e metaforicamente "nudi". Forse un’immagine che dovrebbe rimanere impressa nella mente di tutti è proprio quella in cui Kruscev, all'assemblea

dell'ONU,

si

toglie

un

indumento,

la

scarpa, e la batte con forza sul tavolo per denunciare l'impettita

"nudità"

della

"nomenklatura"

dei

suoi

predecessori. Quel gesto fu un urlo, una "svestizione" simbolica dei manti e delle divise di tutti i dittatori della prima metà del Novecento, delle loro nefandezze e dei loro abusi. Dario Fo e Andersen, e con loro molti altri uomini che hanno lottato contro il potere, ci hanno aperto la strada per scoprire il vuoto che si cela sotto il lusso e la magnificenza delle vesti regali. La loro lotta contro il potere non fa uso della violenza, ma non per questo può considerarsi una lotta debole. 193


Al contrario, il loro impegno contribuisce allo sviluppo di una nuova coscienza sociale e mina le basi del consenso al potere. Sotto questa prospettiva persino una fiaba può dare il suo

contributo

coscienza.

e

sollecitare

Basti pensare che

una

nuova

il re,

presa

di

l'imperatore,

il

principe sono da sempre i personaggi ricorrenti delle fiabe. Ora, i contenuti e le funzioni di questi racconti per bambini mostrano un mondo parallelo a quello reale, in cui vengono presentate allo stato puro alcune delle dinamiche profonde che determinano i comportamenti umani. Insieme ai sogni, le fiabe, come diceva Bettelheim (1976), aiutano i bambini e gli adulti a gestire se stessi e la realtà in cui vivono: le paure si visualizzano, si drammatizzano e possono venire elaborate, e questo lavoro sul conflitto psichico aiuta a prendere sempre più conoscenza del linguaggio dei sentimenti, ed educa a entrare più facilmente in relazione con gli altri. Se

dunque

l'educazione

allo

smascheramento,

alla

demistificazione dei potenti cominciasse dall'infanzia, molta

strada

si

svilupperebbe

verso

una

coscienza

culturale più matura e più libera. Molte

"autorevoli"

voci

comincerebbero

a

suonare

stonate e questa nostra società, che si autoproclama erede della tradizione umanistica e cristiana, potrebbe recuperare le radici più autentiche della propria identità. Andersen, come Perrault o i fratelli Grimm, si colloca consapevolmente come autore di un genere letterario 194


che assume l'obiettivo di educare i bambini, gli uomini del domani, a orientarsi nel mondo. I bambini sono un pubblico esigente: vogliono risposte chiare alle loro domande, ai loro perché, ma soprattutto vogliono che gli adulti si sappiano "spogliare". I personaggi delle favole svolgono esattamente questa funzione catartica: essi testimoniano della possibilità di "svestirsi" delle categorie 'adulte' di pensiero. Per questo il mondo delle fiabe non è solo un territorio d'evasione o d'intrattenimento. Attraverso di esso non si pratica solo una fuga dal reale, ma s'intraprende un "viaggio" alle radici del nostro e ssere. E una fiaba può dirci molto sul significato che l'infanzia attribuisce alle regole del gioco sociale. L'"abito" è una di queste regole. Anzi, è la regola che distribuisce

i

ruoli,

ne

perpetua

l'ordine

e,

quasi

deterministicamente, parla un linguaggi o più efficace di mille parole. L'"abito" genera pregiudizi e partiti presi; ha eternato classicismi e steccati sociali, ma ha sempre parlato la "lingua" del potere, dell'opinione dominante. Il potere deve in qualche modo dare un segno visibile della sua forza e della sua potenza: l’abito, le cerimonie, i cortei e le scorte servono proprio a questo scopo. La veste è dunque ciò che conferisce uno status, evidenziando ciò che di sé si desidera esibire. Esibizione di ciò che luccica e appare, mai di ciò che ef fettivamente si "è". Mai il potente renderà note tutte le sue azioni politiche: alcune devono rimanere occulte, appartengono 195


al segreto di stato. I sudditi devono interessarsi solo dei pettegolezzi, delle vicende amorose del re, delle sue nozze, dei suoi divorzi, dei suoi ricevimenti. Il resto non deve trapelare. Il popolo è solo chiamato ad applaudire alla

magnificenza

delle

vesti

e

alle

promesse

di

liberazione da ogni male. L’abito,

dunque,

diventa

l’espressione di

un

potere

visibile a cui corrisponde una polarità segreta, quella parte che, se dovesse diventare di pubblico dominio, costituirebbe il vero scandalo. Scarpe, mantelli, abiti preziosissimi o poverissimi, sono frequenti nei racconti di Andersen e di Perrault. E non dimentichiamo che in Andersen anche la coda di pesce della sirenetta e il piumaggio poco attraente del brutto anatroccolo assumono la medesima funzione di abito. Indossare

questi

l'appartenenza

indumenti

dell'individuo

a

determina un

universo,

sempre a

una

"massa": perderli o ritrovarli testimonia di un passaggio di stato, di una trasformazione. Certamente, quando avviciniamo la parola "massa" a quella "individuale",

ci accorgiamo dell'accostamento

incongruo, della contraddizione di termini. Sono due entità contrapposte, irriducibili. Se Canetti, come abbiamo visto, per sondare la psicologia del potente sotto la "maschera", ha avuto bisogno di evocare la complementare psicologia della massa, Perrault e Andersen per offrire lo scheletro delle regole sociali hanno avuto necessità di chiamar e in causa la psicologia dell'individuo, chiamandolo di volta in volta Cenerentola, 196


Pelle d'asino, La Sirenetta, Cappuccetto Rosso, Il gatto con gli stivali o Il brutto anatroccolo. In

particolare,

in

Andersen

si

trova

espressa

la

consapevolezza che la poesia, lo spessore mitopoietico di una fiaba contiene l'eterna "epopea" dell'individuo, della sua ricerca, che lo muove a confrontarsi con gli altri e con un kosmos in cui vuole entrare o che vuole rifiutare. Perciò i veri protagonisti delle sue fiabe sono d elle "persone" che lottano per trovare il loro posto non in una massa indistinta, ma in un consorzio di individualità consapevoli. Il loro dramma è che, spesso, si scontrano con la cecità materica, con l'opacità della società che li circonda, delle norme vuote, delle pure convenzioni. La

piccola

fiammiferaia,

La

Sirenetta,

Il

brutto

anatroccolo subiscono una caduta, vivono un'abiezione, ma ne traggono una misura individuale di riscatto. Come i Re shakespeariani, essi cadono e risorgono, si "spogliano" e poi si "rivestono", in una lotta incessante contro l’ipocrisia di ogni tempo. Ecco allora che ogni attacco al potere che sia diretto alla demistificazione può nel tempo risultare vincente. Poco importa se questo avvenga con l’uso della ragione, dell’ironia o attraverso un uso più intelligente della letteratura per l'infanzia. Ciò che conta è che con questi strumenti si può fare molto per illuminare e accrescere la consapevolezza individuale, per liberare dall'opacità lo sguardo, così che ci sia concesso di sc orgere, sotto 197


l'abito e lo splendore di un manto regale, quella nuditĂ che tutti ci accomuna.

198


CAPITOLO UNDICESIMO UNA NUOVA DIMENSIONE

Lottando con una falsa immagine del mondo soggiaciamo al prepotere della realt à. [...] Ogni visione del mondo è ipot esi, e non art icolo di fede. (Jung 1942,211)

Una nuova concezione del potere

Solitamente l'ultimo capitolo di un libro risponde alla necessità dell'autore di tracciare un consuntivo del significato complessivo del suo lavoro. Assolve insomma alla funzione di contenitore: un "porto" ove attraccare al termine della navigazione. Abbiamo seguito la parabola della parola "potere" e le sue vicissitudini: dai suoi attributi neutri e positivi, al suo incarnarsi in forme e formule grottesche, da dissacrare con l'ironia. Abbiamo osservato i "teatri" dove le maschere del potere inscenano la loro pantomima: l'economia, la politica, i mass-media, le religioni. Dalle miserie dei Re all'impersonalità dei regimi, da quelli più chiaramente dispotici a quelli più ipocrita mente "democratici", abbiamo cercato di tracciare una mappa per

orientarci

in

quel

deserto,

nessuno". 199

in

quella

"terra

di


Abbiamo

parlato

diffusamente

dei

potenti

come

di

individui tragici, patetici, ridicoli, di cui bisogna diffidare per

difendere

l'irrinunciabile

tesoro

della

libertà

individuale e collettiva. Sappiamo ora che esisteranno sempre le degenerazioni del potere: infatti esse allignano in una facoltà (la ragione) e in un bisogno (la società) che sono parti integranti dell'essere umano. La coercizione e l’autorità rispondono, quindi, a un bisogno e costituiscono una costante dell’evoluzione sociale. Ma, come scriveva Herbert Marcuse: il r iconosciment o dell'autor ità come di una forza f ondamentale della prassi sociale colpisce le stesse radici dell a libertà um ana: signif ica [...] la rinuncia dell'autonomia a se stessa [...], la subordinazione della propria ragione e della propr ia volontà a contenuti assegnati da altr i, e ciò in modo che t ali contenut i non formano

-

per

così

dir e

-

il

"mat eriale"

per

la

volontà

trasformatrice dell' individuo, ma in modo che essi, così come sono, valgono come norme vincolanti per la sua ragione e la sua volontà (Marcuse 1969,6).

E’ necessario, allora, impegnarsi a costruire per se stessi

una

coscienza

culturale

vigile,

sensibile

e,

soprattutto, capace di riconoscere quelle note stonate che

risuonano

nei

discorsi

ottimistici

di

politici

e

politicanti di ieri e di oggi. Il potente non conosce la creatività e l'umiltà, egli si ripete

e

si

abbandona

sempre

alla

tentazione

di

calpestarci. Per questo è facilmente riconoscibile, ma possiede,

al

contempo,

una 200

straordinaria

capacità


mimetica, che gli deriva dall’ineffabile dote di captare i bisogni e le debolezze altrui, di accentuarle e proporsi, quindi, come indispensabile. Attrezzarsi contro ogni potente che attenti alla nostra libertà, individuale e collettiva, è possibile. Questo libro ha voluto dare un contributo in questa direzione. Un militante generoso della controcultura studentesca degli anni Sessanta e Settanta, Mario Capanna, continua a scrivere parole ancora attuali sui pericoli e sulle tentazioni insite nella gestione della ‚cosa pubblica‛: ‚Il potere è il piano più inclinato verso la sopraffazione e la prepotenza‛ (Capanna 1996,30), combatterlo con le sue stesse armi significherebbe soltanto averne accettato la logica distorta e aberrante. Purtroppo, oggi gli scenari dei poteri e dei potenti si sono enormemente complicati. La convivenza sociale e politica sta assumendo i tratti dell'atomismo culturale, etnico e comunicativo, che si dissolve e si riafferma nell'attuale "economia

dell'informazione",

nell'ormai

planetario

territorio della comunicazione. Questa situazione sta favorendo quella che abbiamo definito

la

metamorfosi

del

potere.

Infatti,

l'azione

pervasiva della cultura di massa e della civiltà delle immagini sta ormai plasmando un'idea "debole" del potere. Gradualmente informazioni ideologie

nella e

produzione

immateriale

di pura ‚visibilità‛,

storiche

pretendevano

di

di

l'identità, costruire,

pure

che le si

é

frammentata in un arcipelago d'infinite specificità che 201


rischiano di trasformarsi in una realtà incontrollabile perché, per la prima volta nella sua storia, il potere non ha ‚territorio‛. Un'autorevole studioso degli effetti sociali dei media, Mauro Wolf, ha parlato di ‚mutazione della percezione del tempo e dello spazio‛, poiché le tecnologie della riproduzione elettronica delle informazioni ci hanno fatto perdere la realtà del nostro rapporto con lo spazio e con il tempo. Esse annullano le distanze e comp rimono le durate, riducendole a frazioni di tempo infinitesimali, inaccessibili

alla

percezione

umana.

L'iperspazio

telematico non ha punti cardinali e non si definisce in rapporto a realtà naturali. Questa

mutazione

antropologica

ha

scardinato

la

consueta logica delle opposizioni e delle dialettiche: ha creato la ‚cultura a mosaico‛. Essa si offre come un insieme di elementi in cui tutto convive, tutto stabilisce relazioni, tutto può apparire denso di significato oppure completamente privo di senso. Perciò, in questo contesto, il problema è quello di inventare una nuova concezione del potere, che sempre più vada inclinando verso una politica della ‚gestione del disordine‛. Gli antichi principi d'identità e di territorio, scomparendo, non lasciano solo un vuoto incolmabile, ma anche la possibilità di riscrivere una nuova grammatica del potere. Svanendo, essi svelano la presenza di un nuovo campo in cui esercitare una produttiva gestione del disordine: l'interdipendenza. 202


Essa è la forma inedita che il potere s ta assumendo: è ancora in una fase iniziale, ma sicuramente non tarderà a

richiedere

nuovi

strumenti

e

nuove

strategie

di

comprensione. E' certo che queste strategie esigeranno quelle doti che, indefessamente,

in

questo

volume

abbiamo

indicato

come gli antidoti alla malattia del potere: la creatività, il sorriso, il buon senso e la ragione. Qualità che possono aiutarci a non scivolare nell'ideologia de "la vita è dolore" e nella mistica della sofferenza. Dovremmo risvegliare questo amalgama e ritrovare quel coraggio che ci consente di fronteggiare un prepotente anche quando siamo soli in questa società banale, confusa e conformista. Solo così si può rivoluzionare il modo di ribellarsi e di dire ‚no‛. Ma chi saranno gli attori e i protagonisti di questa rivoluzione?

Quale

avanguardia

intellettuale

avrà

il

compito di guidarla? Ebbene, nessuno di coloro che avrà il coraggio di raccogliere questa sfida potrà sentirsi dispensato o potrà delegare. E’ scritto nelle Sacre Scritture che Gesù disse ai suoi apostoli: "Voi sarete il sale della terra". Se può bastare poco sale per dare sapore al pane, possono bastare pochi uomini, con il loro esempio, per smuovere le coscienze di migliaia di altri uomini e per segnare la strada per una diversa dimensione spirituale e intellettuale. 203


La sofferenza di certo è una componente ineliminabile dell’esistenza, ma la ‚pesantezza di vivere‛, concetto che è riecheggiato spesso in questo lavoro, non è un dato di fatto oggettivo e assoluto, bensì la conseguenza di un sistema sociale e di potere dove molte delle prerogative e delle esigenze più autentiche dell’uomo non trovano né spazio, né strumenti per compiersi. La

prepotenza

prevaricazione

dell’emarginazione, possono

scoraggiare

l’arroganza

della

chiunque

abbia

scelto di lottare contro il potere, e indurlo a isolarsi dal mondo, a porsi fuori dagli eventi per ricostruire in solitudine il proprio equilibrio interiore. Ecco perché non dobbiamo cedere a una simile tentazione e continuare la caccia alle belve del potere, pur nella consapevole zza del buio e degli smarrimenti che tutto questo potrà costarci. E' ciò che fa la protagonista dello splendido romanzo Il senso di Smilla per la neve di Peter Høeg. Smilla è una scienziata artica dall'identità complessa: è metà danese e metà groenlandese. Le hanno ucciso un piccolo amico, Esajas, di cui lei, pur così spaesata e confusa, si sentiva madre putativa. Smilla sa che la morte di Esajas è servita al potere per mantenersi in vita. L'unica abilità che può mettere al servizio della memoria di Esajas è la sua capacità di "leggere" quanto di più evanescente e inafferrabile ci sia: la neve, dove si sono consumati gli ultimi attimi di vita del piccolo. Questa dote la conduce ai colpevoli, la porta al cuore veramente 204


gelido

del

potere,

in

cui

Smilla

ha

il

coraggio

di

proprio

la

avventurarsi. Una

delle

pagine

più

alte

del

libro

è

descrizione di uno dei tanti smarrimenti di Smilla, di uno dei tanti momenti in cui incontra il buio, nel cercare un senso all'omicidio del bambino: ci sono diversi modi per cercar e di mascherare una depressione. Si possono ascoltare le composizioni per organo di Bach nella Frelserskirke. Si può stendere con una lametta una striscia di buon umore in polvere su uno specchietto tascabile e aspirarla con una cannuccia. Si può gridare c hiedendo aiuto. Per esempio al telefono, così uno è sicuro di chi lo ascolta. Questa è la via europea. Sperare di uscire dai problemi agendo. Io scelgo la via groenlandese. Chiudersi nell'umore nero. Mettere la pr opria sconfitta sotto il micr oscopio e soff ermarsi a guardare. Quando va davvero male - come or a - vedo davant i a me un tunnel nero. Mi avvicino. Mi tolgo i bei vest iti, la biancheria int ima,

il

cappello

rigido

e

il

passaporto

danese

ed

entro

nell'oscurit à (Høeg 1992,107).

In effetti il modo più frequente di affrontare le asprezze della vita nelle società occidentali è quello di una sterile e improduttiva nevrosi, che intende superare il disagio esistenziale con l’oblio di un’attivismo frenetico fine a se stesso. La

creatività,

invece,

presuppone

un

atteggiamento

mentale ben diverso, che ‚rivoluziona‛, assumendola come essenziale momento maieutico, la risposta al proprio malessere. Il creativo è il nemico naturale del potere perché non subisce né accetta, ma diventa egli stesso

creatore

di

senso. 205

Smilla

conclude

il

suo


monologo affermando ‚So che nel tunnel, sotto le ruote, fra le rotaie, c’è un puntino di luce‛ (Ibidem). Quel puntino di luce soltanto intravisto rappresenta la potenzialità creativa, che è anche voglia di vivere; quella stessa voglia innata in ogni bambino e quindi nello stesso Esajas di cui Smilla vorrebbe riscattare la morte. E’ l’infanzia stessa che sfugge ai meccanismi di potere, anche se costretta spesso a subirli. Un grande autore contemporaneo, Primo Levi, aveva trovato nella scrittura il modo per affrontare il proprio tragico passato, la drammaticità della guerra e della deportazione, il gelo e il deserto del disincanto. ‚Se

non

avessi

vissuto

la

stagione

di

Auschwitz,

probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere‛ (Levi 1958,246): invece l’esigenza di combattere contro ogni possibile negazione o revisionismo, il voler mantenere sempre viva la memoria di quanto accaduto, lo hanno portato ad essere

un

intellettuale

militante,

trasforma ndo

la

sofferenza nella forza e nell’orgoglio di chi non si rassegna. ‚I problemi di stile mi sembravano ridicoli

[...]

mi pareva,

questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta‛ (Ibidem), sosteneva riferendosi a Se questo è un uomo. Non ci si può infilare rassegnati in quel ‚tunnel nero‛ di cui parla Smilla.

Occorre

attraversarlo

per

raggiungere

quel

puntino di luce. Bisogna saper lasciare uscire le parole, la

voce,

la

rabbia;

modellarne 206

il

corso,

l’intensità,


addolcirne le forme o accentuarne gli spigoli, insomma trasformare, inventare, creare, di nuovo, il senso di atti, di gesti, di idee, lavorandoci sopra come su un pezzo d’argilla.

Un sorriso "rivoluzionario"

Vogliamo, ora, concludere con l'idea che ci sia, sempre e comunque,

un

territorio

che

non

si

lascerà

mai

conquistare dalla disperazione, dall'infinita tristezza dei potenti: il sorriso. Su ‚La domenica‛, inserto culturale de Il Sole 24 ore del 20 luglio 1997, compare un piacevole articol o di Laura Leonelli, dal titolo ‚Il potere preso a torte in faccia‛. Si

notizia

fotografia,

di

‚Dérison

un'interessante e

Raison‛,

mostra al

belga,

Musée

de

di la

Photografie di Charleroi. ‚Ogni tanto una bella linguaccia la fotografia se la merita.

Magari

d'autore,

come

quella

di

Einstein,

dedicata all'impertinenza di un fotografo, Arthur Sasse, e alla stupidità del mondo, di regola anonima‛ (Leonelli 1997). La Leonelli sottolinea come la fotografia abbia sempre ambito al potere e come, ad ogni fotograf o allineato all'ordine morale e politico, abbia sempre risposto un non piccolo gruppo di ‚autori meno spettacolari, che alla descrizione di un mondo gestito da altri hanno preferito 207


la

creazione

di

uno

scenario

intimo

e

irriverente‛

(Ibidem). Lo sberleffo di Einstein a questa presunzione della fotografia è stato scelto come manifesto della mostra dal titolo sintomatico ‚Dérison e Raison‛; la comicità e la razionalità, il sorriso e la ragione; le due caratteristiche con

cui

l'istituzione

Belga

ha

voluto

desi gnare

e

celebrare i fotografi della trasgressione alle regole del potere, ‚sicura che per ridicolizzare il potere di chi taglia e distribuisce le fette della torta nella giusta proporzione per sembrare generoso e non perdere il boccone più dolce, non vi è

immagine migliore di una informe

meringata e di una bocca sporca di panna‛ (Ibidem). Questi fotografi ‚outsider‛, come tutti i folli, creativi e solitari sberleffi al potere, non sono un gruppo omogeneo e organizzato. Spesso l'indice puntato contro qualche grottesco despota o tronfio signorotto dei nostri giorni non è programmato, voluto: è spontaneo e sincero. Schietto come una risata di gusto. Gli individui e gli artisti veramente liberi, veramente ‚contro‛, non partecipano ai concorsi né accettano premi, sapendo, come ricorda Erik Satie, che ‚l'importante non è rifiutare la legion d'onore, ma non meritarla‛.

208


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