Tesi

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MINISTERO DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA ALTA FORMAZIONE ARTISTICA E MUSICALE

ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI PALERMO

DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE E ARTI APPLICATE SCUOLA DI PROGETTAZIONE ARTISTICA PER L’IMPRESA

DIPLOMA ACCADEMICO DI PRIMO LIVELLO IN PROGETTAZIONE DELLA MODA

I PASSI DI MEDEA STUDIO E PROGETTO DI UN COSTUME PER LA DANZA di

ROSSELLA ZIMMARDI matricola 6627

Relatore PROF. VITTORIO UGO VICARI

A.A. 2012-2013



Alla mia famiglia



Indice Generale Introduzione

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Capitolo I : Medea. Note storoche

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I.1.1 Le fonti storico-letterarie I.1.2 Medea ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio I.1.3Medea nelle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone Capitolo II :Medea, variazioni sul mito II.1.1 Le fonti drammatiche. Medea di Euripide II.1.2. Le fonti drammatiche. Medea di Seneca II.1.3 Le fonti drammatiche. Medea di Luigi Cherubini II.1.4 Le fonti drammatiche. Medea di Franz Grillpazer II.1.5 Le fonti drammatiche. Medea Corrado Alvaro II.1.6 Le fonti frammatiche. Medea di Dario Fo e Franca Rame. II.2.1 Le fonti letterarie Moderne. La Medea di Porta Medina di Francesco Mastriani II.2.2 Le Fonti letterarie moderne. Medea di Christa Wolf II.3.1 Le fonti saggistiche. Renzo Ricchi, Femminilità e ribellione la donna greca nei poemi omerici e nella tragedia Attica II.3.2 Le fonti saggistiche. Page DuBois, Il corpo come metafora. Rappresentazioni della donna nella Greaciaantica II.3.3 Le fonti saggistiche. Fabio La Mantia, Salvatore, Andra Rabbito, Il dramma della straniera, Medea e le variazioni novecentesche del mito II.4 Le fonti cinematografiche. II.4.1 La Medea di Pier Paolo Pasolini II.4.2 La Medea di Lar Von Trier II.4.3 La Medea di Jules Dassin: A Dream of Passion II.4.4 La Medea di Arturo Riespetin: Asi es la vida II.4.5 La Medea di Tonino De Bernardi: Médée Miracle

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Capitolo III: Le interpretazioni costumistiche III.1.1 Costumi di Medea nel teatro greco di Siracusa III.1.2 I costumi di Duilio Cambellotti per Medea, regia di Ettore Romagnoli, teatro greco di Siracusa, 1927 III.1.3 I costumi di Ezio Frigerio per Medea, regia di Virginio Puecher Teatro greco di Siracusa, 1958 III.1.4 I costumi di Emanuele Luzzati e Santuzza CalĂŹ per Medea, regia di Franco Enriquez, teatro greco di Siracusa, 1972 III.1.5 I costumi di Enrico Job per Medea, regia Mario Missiroli, teatro greco di Siracusa, 1996 III.1.6 I costumi di Moidel Bickel, Medea, regia Peter Stein, teatro grco di Siracusa, 2004 III.2.1 I costumi di Piero Tosi per la Medea di Pier Paolo Pasolini. III.2.2 I Costumi di Annalise Baily per la Medea di Lars Von Trier.

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Capitolo IV: Il progetto IV.1 Distinta costume IV.2 La Tintura Naturale

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Fotografie coreografa e ballerina Cinzia Tartamella in I Passi di Medea

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Apparati

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Note Indice delle Illustrazioni Bigliografia Filmografia Sitografia

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Introduzione Nel seguente progetto, I Passi di Medea, danza, arte e progettazione del costume si mescolano insieme per dare vita ad un personaggio senza tempo. Medea, tra le figure mitologiche dell’antica Grecia più controversa e particolare, si è introdotta con grande fortuna e successo nel vasto scenario letterario di tutti i tempi. Un personaggio che ha spaventato e inorridito, capace di suscitare al pubblico diverse emozioni, tante quante sono le sue sfaccettature. In lei si ritrova un simbolo che nel corso dei secoli ha fatto lungo cammino: dalle prime versioni greche, essa ha saputo radicarsi nel teatro latino, continuando la sua strada fino ad arrivare ai giorni nostri. La protagonista, mutando continuamente la sua natura, è stata riadattata alla contemporaneità, alla nostra cultura e società, è sopravvissuta ai cambiamenti della storia senza mai perdere il suo successo. La sua fortuna è legata forse proprio a questa continuità, concessale dalla possibilità di potere adattare i temi che la sua vicenda suscita a quanto ha caratterizzato nel tempo la collettività. Per tale motivo, mediante il linguaggio del corpo, in una danza si ripercorre brevemente la sua storia, il suo destino in un esplorazione più che altro psicologica della protagonista. Un’autoanalisi sulla propria esistenza condotta nell’errore. Una consapevolezza di sé ove si abbandona l’irrazionalità, ma nella quale si prende coscienza della propria sorte che resta comunque immutabile. Lo sviluppo di tesi ci ha convinti dell’esigenza di “mettere in scena” ancora una volta Medea come in una sintesi di tutte le sue “vite” passate e presenti. Tale scelta era lo strumento performativo della nostra idea di costume. -. In collaborazione con la ballerina Cinzia Tartamella, abbiamo infine tentato di ripercorrere il “cammino” di Medea creando un costume adeguato alla performance ed ideando una coreografia che riuscisse a mescolare le nostre personali interpretazioni della vera essenza di Medea, nel tentativo di racchiudere e plasmare il carattere e la natura del mito. L’utilizzo di materiali semplici, la particolare costruzione sartoriale e la tintura naturale dei tessuti hanno permesso di dare vita ad un abito che tenta nel modo più verosimile di avvicinarsi allo spirito arcaico di Medea. Esso non si limita alla semplice funzione di veste. Durante la performance il costume diventa protagonista della scena e chiave di lettura per la comprensione della stessa; elemento di fondamentale importanza. 9


Doverosi sono i ringraziamenti alle personalità e all’ente che ha permesso la messa a punto del progetto: In primo luogo ringrazio il Prof. Vittorio Ugo Vicari, relatore del progetto di tesi, il quale mi ha sostenuto in questo lungo percorso aiutandomi al meglio. Con lui la Prof.ssa Francesca Pipi per i contributi forniti al miglioramento del costume di scena, ed il Prof. Sergio Pausig per la cura dei materiali editoriali e del mio portfolio online. Ma ringrazio soprattutto la ballerina e coreografa Cinzia Tartamella che, in maniera del tutto gratuita e spontanea, oltre all’ideazione e rappresentazione della performance, ha collaborato al perfezionamento del costume di scena. Un ulteriore ringraziamento va alla coreografa Silvia Giuffrè, che ha fornito contributi utili al sodalizio con la Tartamella ed alla progettazione della coreografia. Ringrazio infine l’Associazione Palermo in danza nella persona del suo presidente, Santina Franco, che è stata punto di partenza e di coordinamento iniziale del progetto nel suo insieme.

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Capitolo I - Medea. Note storiche-mitiche

La tragedia Medea fu scritta e messa in scena per la prima volta ad Atene nel 431 a.C1. Il capolavoro di Euripide2 proponeva per l’epoca

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una donna spaventosa perché capace di sgomentare, ma al tempo stesso viva, dinamica, piena di passioni e soprattutto ribelle ai soprusi maschili. Ella era così capace di mostrare al pubblico i suoi lati più sensibili di donna vittima dei sentimenti, ma al contempo non disposta alla rinuncia dell’animo selvaggio della sua terra natia. Euripide in tal modo faceva trapelare l’aspetto più sinistro della Medea maga, terribilmente orgogliosa e malefica al punto di commettere un infanticidio. Il drammaturgo apriva dunque con Medea le porte ad uno scenario stimolante, un mito arcaico pieno di fascino che ha alimentato ed ispirato in ogni epoca tutta una serie di versioni sviluppate da molti scrittori e artisti che nei secoli hanno proposto una protagonista sempre meno malefica, diversa, ma piena d’ incanto e di grande attrattiva. Nel corso 11


del tempo, quindi, si sono succedute tante interpretazioni e variazioni del mito originario, più contemporanee a noi ed alla nostra società; in esse l’immaginario di donna fredda ed assassina dei propri figli si va attenuando, Medea viene sempre più vista come una donna del nostro tempo, vittima del pregiudizio in quanto barbara in terra straniera che non viene integrata da un popolo il quale l’ emargina, una società che non l’accetta e alla quale lei stessa non vuole integrarsi. Si arriverà così, di versione in versione, ad una recente edizione della scrittrice Christa Wolf3, in cui Medea perde del tutto la sua natura selvaggia, accettando quasi senza agire la sua sorte. Nel romanzo dissipa del tutto l’immagine enigmatica del personaggio primitivo. Da Euripide quindi bisogna partire per analizzare a fondo come esso, cosi controverso, sia variato nelle sue più famose interpretazioni.

I.1.1 Le fonti storico-letterarie Dalle fonti antiche Medea ci è pervenuta come figlia del re della Colchide4 Eate (anche Eata, Eete), figlio di Helios, pertanto devota a questi e sacerdotessa custode del Vello d’oro. Secondo la mitologia greca il vello d’oro era la pelle di un montone capace di volare. Il mito fa risalire la sua leggenda ad Atamante5 che ripudiò la moglie Nefele per sposare Ino. Quest’ultima odiava Elle e Frisso, i figli che Atamante aveva avuto dalla stessa Nefele. Frisso e sua sorella fuggirono al sacrificio a cui il padre li voleva immolare secondo i suggerimenti della matrigna Ino, poiché questa odiava i due giovani e desiderava che non salissero al trono. Grazie al montone inviato da Zeus, i due riuscirono a scappare in volo, ma durate il viaggio Elle cadde in mare, mentre Frisso raggiunse la Colchide, dove il re Eate lo accolse. A questo punto, con Frisso giunto sano e salvo, il volere di Zeus era compiuto e il montone avrebbe dovuto tornare in Grecia per volontà divina. Ma Frisso sacrificò l’animale donandone il vello ad 12


Eate che lo nascose in un bosco, ponendovi a guardia un drago. La figura di Medea è strettamente legata al mito degli Argonauti, che già in età omerica (VIII secolo a.C.) era generalmente nota nell’ellade. L’antico poema è oggi perduto, ma possediamo per intero l’ode di Pindaro6 e il poema ellenistico di Apollonio Rodio7 a loro dedicati.

Fig. 2

Gli Argonauti furono un gruppo di eroi capeggiati da Giasone. Essi partirono per un avventuroso viaggio a bordo della nave Argo, che li condusse in terre lontane ed ostili fino a raggiungere la Colchide, dove s’ impegnarono nella conquista del vello d’oro. Giasone e gli Argonauti erano spinti verso tale pericolosa impresa da Pelia re di Iolco. Esone padre di Giasone, era il legittimo re di Iolco, in Tessaglia, ma fu detronizzato dal fratellastro Pelia, nato dall’unione della loro madre con Poisedone; alla morte del padre adottivo Creteo, Pelia prepotentemente divenne re. Egli, avvisato da un oracolo, sapeva che un discendente di Eolo lo avrebbe ucciso, cosi che fece sterminare tutti i discendenti del dio; solamente Esone venne risparmiato il quale ebbe un figlio, Giasone, che venne nascosto, portato fuori dal palazzo e affidato al Centauro Chirone che lo allevò come un figlio. Un altro oracolo aveva predetto 13


a Pelia che il suo regno sarebbe finito per mano di un giovane che si sarebbe presentato al suo cospetto con un solo sandalo ai piedi. Quando Giasone diventò un uomo, decise di andare a Iolco a rivendicare il suo trono, ma durante il viaggio perse un sandalo nel fiume Anauro, avendo aiutato una donna anziana ad attraversare le tortuose e fangose acque del fiume. La donna in verità era la dea Era che, offesa da Pelia perché non la onorava, aveva deciso di punirlo. Quando Giasone si presentò a suo zio senza un sandalo, questi lo riconobbe subito e, volendo scacciare la minaccia di morte che incombeva su di lui, decise di proporre al giovane una condizione: In cambio del trono, Giasone doveva partire verso la lontana Colchide e riportare il vello d’oro in patria. Pelia confidò al giovane che la sua terra era afflitta da una terribile carestia, che, secondo l’oracolo sarebbe durata fino a quando il vello d’oro non fosse tornato in patria. Quindi, se Giasone voleva salvare la sua terra e riavere il regno di suo padre, era obbligato a partire ed a recuperare

Fig. 3

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il vello che era custode dell’anima di Frisso. Giasone, nonostante la difficile prova, accettò di partire per la spedizione, alla quale si unirono alcuni tra i più valorosi eroi della Grecia, uomini e semi dei in cerca di onore e gloria. Gli Argonauti, durante il viaggio si imbatterono in difficili avventure che riuscirono a superare con grande valore. Arrivati finalmente in Colchide, il loro destino, sopratutto quello di Giasone, si legherà strettamente a Medea.

I.1.2 Medea ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio Medea ne Le Argonautiche8 di Apollonio Rodio è una giovane vestale, amante della natura, capace di creare filtri magici, devota al dio Sole e custode del vello d’oro. Quando gli Argonauti (nel terzo libro) si presentano al palazzo del padre, Era e Atena, preoccupate per il destino degli Eroi, escogitano un piano per favorire la riuscita dell’impresa. Conoscendo la superbia del re Eate, che non intendeva consegnare veramente il vello d’oro agli Argonauti, decisero di recarsi da Afrodite per chiederle aiuto. Essa convinse il figlio Cupido a far innamorare Medea di Giasone in cambio di un prezioso dono, poiché solo Medea, con le sue arti magiche, sarebbe stata capace di mettere a punto il volere

Fig. 4

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degli dei, permettendo agli Argonauti di portare a buon fine l’impresa Quando gli eroi arrivarono al palazzo, Medea fu la prima persona che videro. Al cospetto di Giasone ella fu colpita da una freccia di Cupido che la fece innamorare perdutamente. Ciò la condurrà ineluttabilmente ad aiutarlo, rubando il vello e scappando insieme a lui. Medea, condotta da questi sentimenti indomabili ucciderà il fratello in modo da poter fuggire dall’orda di soldati che l’inseguiva per mare. Grazie ai suoi poteri riuscirà a ricondurre gli eroi in patria dando loro infinita gloria. Apollonio Rodio descrive Medea come una giovane piena di grande fascino, seducente e inizialmente ricca di buoni sentimenti: ha biondi capelli (simbolo di bellezza e divinità), indossa uno splendido peplo tenuto fermo da fibbie ed in testa è coperta da un velo bianco. Con grande abilità egli illustra tutti i sentimenti, gli sconvolgimenti e i turbamenti che le provoca l’amore per Giasone, al quale Medea non può sottrarsi. Questo Amore intenso, irrazionale è pericoloso, attraverso le fonti ci mostra una Medea che viene oscurata dalla sua magia, ed in virtù di un volere che la sovrasta si fa assassina capace di tramare azioni infami. Nel poema tutto ruota intorno al volere degli dei, tal che Medea diventa l’arma segreta di Giasone e la sua fortuna in ogni occasione. In virtù di tale mania9, ella si renderà capace di eliminare lo stesso Pelia, ultimo ostacolo alla sovranità del marito, come riferito più avanti trattando Ovidio. La sua immagine, inizialmente chiara, giovanile e pura, viene offuscata dal male che la condurrà verso una sorte sempre più oscura. I personaggi che le ruotano intorno ed ella stessa sono coinvolti in un destino già scritto da forze maggiori, divine, che ci sovrastano.

I.1.3 Medea nelle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone Trattiamo solo qui Medea, nelle Metamorfosi. di Ovidio10, perché, pur essendo l’autore precedente ad Apollonio Rodio, nella sintassi della struttura narrativa del mito e delle sue variazioni, in realtà finisce per 16


essere conseguente alla narrazione dell’alessandrino. Con lo stesso spirito abbiamo inteso anteporre le Metamorfosi alle Eroine, dello stesso Ovidio, invertendo la cronologia delle due opere per la funzionalità del discorso qui presentato. Nelle Metamorfosi troviamo molte vicende mitologiche dove sono

Fig. 5

presenti tutti gli eroi della Grecia. In cinque episodi distinti ci viene raccontato il mito di Medea: Giasone e il vello d’oro. dove viene raccontata l’impresa di Giasone aiutato da Medea a recuperare il vello d’oro nell’ostile Colchide. Medea ringiovanisce Esone. In questo racconto Medea e Giasone sono tornati in patria, il popolo festeggia gli eroi, ma manca Esone suo padre poiché ormai prossimo a morire, logorato dall’età avanzata. Giasone cosi supplica Medea di salvarlo e di volergli donare i suoi anni; la maga non accetta di togliere anni allo sposo per darli al padre, semplicemente decide di allungargli la vita. Quella notte si incammina solitaria nella selva dove invoca gli dei e la terra, chiedendo di aiutarla a trovare un filtro per ringiovanire Esone. Dal cielo scende il carro mandato dal 17


suo avo Sole trainato da draghi; salendovi andrà in terre sacre che lei conosce bene, alla ricerca delle erbe adatte alla preparazione del filtro. Trascorre nove giorni sul carro perlustrando ovunque fino alla notte per trovare le erbe necessarie. Tornata a casa, prepara i sacrifici a Ecate e alla giovinezza, incomincia ad eseguire i suoi riti magici ed infine ordina che gli sia portato Esone a cui inciderà la gola per infiltrarvi

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la pozione. Subito il filtro magico farà effetto ed in un istante Esone, sgomento, si rivedrà giovane come era un tempo. Medea Inganna le figlie di Pelia. In questo episodio Pelia, oramai vecchio e quasi in fin di vita, fa disperare le sue figlie; queste sperano nell’aiuto di Medea affinché con le sue arti possa ringiovanirlo. Medea con astuzia si fa preziosa alle figlie di Pelia, ma avendo già in mente un piano, si offre di aiutarle. Per rassicurale mostra l’incantesimo che avrebbe dovuto fare a Pelia per ringiovanirlo: alle figlie fa scegliere da un gregge il montone più vecchio, gli taglia la gola e ne immerge le membra nell’acqua ricca di magici filtri. Ad un tratto il vecchio montone uscirà dall’acqua apparendo ai loro occhi trasformato in un agnello. Le giovani, assistendo a questo prodigio, le affidano la sorte del padre. In una notte piena di stelle Medea, insieme alle figlie mette 18


in atto il rito magico, ma essa questa volta finge soltanto di porre nell’acqua le pozioni magiche. Addormenta in un sonno profondo Pelia e i suoi custodi, invita le figlie ad entrare nella stanza del padre ed a dissanguarlo cosi che il vecchio sangue possa esser sostituito dal nuovo sangue giovanile. Incitate da Medea, le giovani incominciano a colpire il padre alla cieca, che, grondante nel suo sangue, cerca di svincolarsi dai colpi delle figlie, tende le mani tra le spade, chiede loro cosa le spinga ad ucciderlo, ma poi le forze gli vengono meno e le

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braccia cedono sul suo corpo esanime. Infine Medea gli taglia la gola e lo immerge nell’acqua calda, ma l’incantesimo non ha nessun esito, cosi la maga rende le figlie di Pelia assassine del padre. Medea uccide i figli. L’eroina adesso è a Corinto dopo essersi vendicata contro la sposa di Giasone e suo padre Creonte. Essa fugge via sul suo carro trainato da draghi, volando su terre lontane e, dopo un lungo viaggio, arrivata a Efira Pirenea, luogo sacro, nel quale uccide i suoi figli. 19


Medea ad Atene. Con il suo carro trainato dai dragoni Medea, avendo lasciato Corinto, arriva ad Atene. Egeo11 la accoglie come le aveva promesso e si uniscono in matrimonio. Teseo giunge dal padre Egeo che era ignaro della sua esistenza. Medea preoccupata della sua sorte in presenza di questo figlio, prepara la sua morte mescolando un

Fig. 8

potente veleno chiamato acònito. Persuaso dai malefìci della moglie, il padre porge al figlio il calice pensando che lui gli fosse nemico, ma si accorge che l’elsa del pugnale reca le insegne della stirpe reale, gli strappa dalle mani il calice e lo salva da un atroce destino. Medea è nuovamente costretta alla fuga, si cela e scompare alla vista di tutti. Nonostante la sfiorata tragedia, Egeo si rallegra di aver potuto salvare il figlio. Quel giorno si festeggiò e il padre lodò con ardore le gloriose gesta del figlio. Ovidio in brevi episodi narra gli eventi più salienti del mito, percorrendo la vita di Medea dalla Colchide alla fuga ad Atene, 20


illustrando in maniera efficace la potenza della maga capace di usare le sue arti a piacimento, sia per il male che per il bene. Egli presenta un altro aspetto di Medea in Heroides12. Qui si da voce al suo animo attraverso una lettera ricca di dolore e rimpianto, rivolta a Giasone. Ovidio mette in luce i suoi sentimenti più profondi “di donna”, racconta con enfasi ed emozione le passioni che aveva provato la prima volta che aveva visto Giasone: «Ti vidi e fui come morta, non bruciai di un fuoco qualsiasi, ma come la torcia di pino davanti agli onnipotenti»13 E Ancora Medea dice: «te ne accorgesti perfido …»14. Attraverso un intimo sfogo e in una luce umana, Medea racconta di come pianse tutta la notte al pensiero di non vedere più Giasone se non fosse stato in grado di superare la prova proposta da Eate. Ivi Medea ripercorre tutta la sua storia e tutti gli avvenimenti accaduti in Colchide, un racconto che riassume il suo lungo cammino nel quale per la gloria dello sposo ha macchiato le sue mani di atroci delitti. Forte è il rimpianto che Medea manifesta quando parla del padre e di come lo ha tradito, pensa alla sua cara madre e al fratello che ha ucciso. Per quell’impeto incontrollabile rese le figlie di Pelia assassine del padre. Medea a mente lucida si rende consapevole che per lui ha sacrificato tutto, portandola alla rovina. Giasone, tornato in patria con il Vello d’oro, è ricco della sua gloria, lei invece si ritrova sola e senza nazione, priva di una casa dove tornare. Dice rivolgendosi al marito: «Gli altri mi incolpino, ma tu mi devi lodare, io per te mi costrinsi a tanto delitto»15. Medea, seppur annientata dal dolore delle nuove nozze del marito, non veste le comuni spoglie di maga capace di spaventosi sortilegi, non manifesta la sua collera, l’istinto le suggerisce di dirigersi al corteo nuziale, di distruggere tutto, ma infine decide di non farsi deridere dal popolo di Corinto e affoga il suo dolore e la sua rabbia nel profondo dell’anima. Al contrario della tipica Medea proposta anche in Metamorfosi, qui ella assume nuove sembianze: la ragione sembra essersi fatta strada nel suo animo selvaggio; Medea diventa una donna comune capace 21


di provare i piĂš profondi sentimenti che attraverso Ovidio esprime e confida con dignitĂ .


Capitolo II - Medea, variazioni sul mito

Le Origini di Medea, se sia stata un personaggio realmente esistito o meno, sono incerte: alcune leggende narrano che i Corinzi non volevano Medea come signora, essi allora ne uccisero i figli (sette maschi e sette femmine). Che sia vero o meno, è certo che la mitologia greca ha saputo trasformare questo personaggio in una delle figure femminili più coinvolgenti di tutta la letteratura greca. Un’ eroina di grande impatto e forza. La Medea di Euripide è stata senza dubbio una delle Fig. 9 tragedie più affascinanti e di successo, figura femminile emotiva e passionale nella sua complessità sentimentale, è quella cha ha attratto maggiormente il pubblico. A Corinto Medea, sola e senza patria, abbandonata dal marito, oltre a subire l’umiliazione del ripudio viene esiliata dal re, che teme per la sorte della figlia. Medea, mossa dalla vendetta e dall’ardente desiderio di punire il marito, ucciderà Glauce e Creonte con un dono avvelenato ed infine completa il castigo uccidendo i suoi figli, lasciando Giasone annullato e solo. La sua Medea esibisce un’ampia gamma di stati d’animo, che raggiungono l’apice negli omicidi della giovane sposa e dei bambini. Il conflitto di Medea con Corinto, episodio molto più antico di quello narrato da Euripide e dal quale il drammaturgo certamente venne influenzato, diede vita ad una tragedia sconvolgente e inesauribile perché discussa e interpretata fino 23


ad oggi, fortuna critica che ha donato al personaggio immortalità e che è oggetto del capitolo qui proposto.

II.1.1 Le fonti drammatiche. Medea di Euripide Euripide nella sua scrittura è stato molto influenzato dal movimento sofistico16 nelle sue opere rende soprattutto protagonista l’uomo. Medea rappresenta il suo personaggio più complesso e controverso, il ritratto di una femminilità inquieta, agitata da forti contrasti interiori; in lei si scatenano passioni e volontà opposte e contrastanti. Nell’animo di Medea coesistono l’amore materno e l’orgoglio di donna ferita. Euripide apre subito le porte in uno scenario greco a Corinto. Medea, afflitta dal dolore, si dispera per la sua condizione: ha perso tutto, la sua famiglia, la sua terra e ora viene abbandonata dal marito che, ingrato agli occhi di lei, cercherebbe un matrimonio di miglior convenienza. Infatti, sposando la figlia del re di Corinto egli avrebbe condotto una vita migliore e consona al suo status sovrano. La scelta finisce per creare un profondo divario tra i due principali protagonisti della tragedia. Medea e Giasone rappresentano due mondi diversi;

Fig. 10

essi sono uniti per un volere divino, ma questa diversità di culture – lui greco, civile e razionale agli occhi dello spettatore ateniese, lei colchidea, barbara ed irrazionale 24


ai medesimi occhi - traccia un divario profondo tra i due. Giasone rappresenta la società dell’ellade, dove tutto ha un valore concreto rispetto alla terra d’origine di Medea, lontana e arcaica, ancora selvaggia, legata fortemente ai culti della terra e del cielo. Questa lontananza culturale sempre più porta ad incrinare il loro rapporto, fino a far nascere una vera e propria lotta tra i due che sfocerà nella tragedia più totale. Medea attua nella sua mente un terrificante piano: fingendosi sottomessa al volere dei più forti, costretta ad andare via da Corinto sola senza i suoi due figli, fa mandare da loro alla novella sposa Glauce in dono augurale le vesti del suo guardaroba che, avvelenati, fanno morire la giovane tra atroci sofferenze insieme al padre che era corso in suo aiuto. Questi passi di estrema crudezza non hanno fine: la sua vendetta si compie completamente con l’assassinio dei figli, colpendo Giasone nella sua progenie, lasciandolo solo e distrutto incapace di reagire a tanta follia. L’unica ragione di Medea è la vendetta. Anche se combattuta tra l’amore di madre e l’orgoglio ferito, tra momenti di lucidità e altri accecati dalla rabbia, più forte è tenibile sarà il suo orgoglio e la sua natura selvaggia finirà per prendere il sopravvento. Essa non lotta per riavere l’amore del marito, ma vuole causarne la rovina. Medea uccide la discendenza di Giasone e gli impedisce di averne altra. La vendetta sembrerebbe un atto stabilito per diritto divino: gli dei stessi non proteggono Giasone e Medea riesce ad operare la sua vendetta indisturbata. Nell’opera vi sarebbe anche un riscatto legato alla sessualità, evidente in un passo della tragedia in cui Medea si rivolge al coro denunciando la sua sofferenza di donna e moglie: Di tutte le creature che hanno anima e cervello, noi donne siamo le più infelici; per prima cosa dobbiamo, a peso d’oro comprarci il marito, che diventa padrone del nostro corpo e questo è il male peggiore. Ma c’è un rischio più grande: sarà buono sarà cattivo? Separarsi è un disonore per le donne, e rifiutare lo sposo è impossibile. Se poi

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vieni a trovarti tra le nuove usanze e le abitudini diverse da quelle di casa tua, dovresti essere un’ indovina per sapere come comportarti con il tuo compagno. Se ci riesci e le cose vanno bene e il marito sopporta la convivenza di buon grado, la vita è bella; se no, meglio morire. Quando si stanca di stare a casa, l’uomo può andarsene fuori e vincere la noia in compagnia di coetanei o di amici: noi donne invece dobbiamo restare sempre con la stessa persona. Dicono che viviamo in casa, lontano dai pericoli, mentre loro vanno in guerra: che follia! È cento volte meglio imbracciare lo scudo che partorire una volta sola.17

Euripide sembra conoscere il cuore e la sofferenza delle donne ed è evidente in questo passo in cui Medea diventa voce di tutte le donne. Nell’antica Grecia era alquanto normale ripudiare una sposa e sposarne un’altra, ma Medea non doveva pagare con l’esilio. Ciò avviene a causa del pregiudizio, della paura per le sue arti magiche. La sua diversità sarà la sua condanna. Ciò che distruggere Medea e Giasone è un incomprensione linguistica, culturale e morale che prende il sopravvento sul loro destino. Medea e Giasone hanno due modi profondamente diversi di pensare la vita: lei è legata al valore delle terra, al culto, alle promesse suggellate di fronte agli dei; non accetta, come avrebbe fatto ogni donna comune di quell’epoca, il nuovo matrimonio del marito, non accetta che il marito non le abbia confidato le sue idee, che non l’abbia resa partecipe Fig. 11

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e che non mostri un minimo di gratitudine per le azioni commesse contro la sua famiglia, solo per i suo beneficio. Medea non dimentica quello che ha fatto per lui e vanta i meriti della sua gloria. Giasone invece non comprende l’ira della moglie e rimane stupito e offeso dai suoi comportamenti. Non la capisce perché ella non fa parte della sua cultura, non intuisce il dolore della moglie, il rimpianto che lei prova ripensando ai delitti, ai tradimenti da lei compiuti per aiutarlo ad essere grande e vittorioso. Sempre più si crea un abisso che assimila i due in un destino immutabile e devastante. Medea si presenta agli occhi del mondo greco come una donna spietata. Nessuna donna greca avrebbe mai compiuto un’azione simile. Lo stesso Giasone, annientato dall’ira della donna, negli ultimi passi le dice:«Nessuna donna greca avrebbe osato tanto»18. In questa frase è evidente quanto forte sia la diversità sentita dal marito verso sua moglie che per la sua natura non è stata mai integrata in quella cultura cosi civilizzata. In tutta la tragedia è forte il senso di emarginazione e di pregiudizio che si ha verso la donna straniera. Medea, da vittima in un attimo è capace di stravolgere le carte in tavola e da donna abbandonata, esiliata, in un baleno vendica i suoi soprusi colpendo con ferocia tutti i suoi nemici e in fine assapora la vedetta colpendo per ultimo il marito, l’ orgoglio più grande per un uomo greco: la sua prole. Medea non colpisce però solo l’orgoglio di Giasone, ma quello di tutto il genere maschile che lo rappresenta. La tragedia di Euripide tanto lontana e remota, mettendo da parte l’aspetto fantastico, sembra raccontare una storia attuale della nostra società che, nonostante i secoli, sembra rimasta immutata: la diversità tra uomo e donna che crea grandi dissidi tra i due sessi, un rapporto di incomprensioni e incomunicabilità che va ad intaccare l’armonia della famiglia. In esso i figli diventano le vittime in un dramma ancora oggi reale e attuale.

II.1.2 Le fonti drammatiche. Medea di Seneca 27


Fig. 12

La tragedia di Seneca19 che risale al 60 d.C. circa, rispetto a quella di Euripide presenta una spirito del tutto diverso. Maggiormente, l’autore racconta la vicenda secondo il suo punto di vista. Medea è una donna spregevole capace di mettere in atto malefiche magie, una donna perfida che inizia la sua via sanguinaria con l’assassinio del fratello e che è intenta a proseguire senza sosta questa strada. Seneca vede in Medea un cattivo modello e la sua interpretazione non lascia nessun margine di riflessione sul personaggio. Fin dall’inizio Medea è generata letterariamente come una donna diabolica, già condannata prima che la tragedia si compia; in lei è esplicita una natura selvaggia e crudele legata alla magia. Tutta l’opera ruota intorno a questa figura sanguinaria. La sua vendetta supera il naturale amore per i figli, e tanto è grande questo desiderio di annientare Giasone che ucciderli solo non le basta, troppo grande ed insaziabile è la sete di rivalsa contro il marito. Seneca ci presenta sin dall’inizio una Medea perfida che non viene sostenuta da nessun personaggio, anche il coro stesso è a sfavore suo. La tragedia ha inizio con Medea che invoca tutti gli dei, chiede loro 28


aiuto nel poter dare la morte alla nuova sposa del marito Giasone, al suocero e alla stirpe regale di Corinto. Al marito augura di vivere e di dover patire una vita in solitudine e disperazione. In queste invocazioni si percepisce un’atmosfera pervasa da oscurità e maleficio. Medea ha già meditato la sua vendetta, chiede al padre dio del sole di donargli un carro con il quale scappare da Corinto, ed infine invoca la sua magia primitiva affinché torni da lei in modo da poter compiere la sua vendetta. Medea, accentando il fatto del suo prossimo esilio, chiede clemenza almeno per i figli che Creonte, seppur diffidente, le concede. Aiutata dalla nutrice, ella prepara i doni avvelenati per Glauce che i figli consegnano personalmente alla principessa. La vendetta si compie, la giovane sposa muore e insieme a lei il padre corso in suo aiuto; il fuoco che ha bruciato le vittime divampa per tutta la città. L’atmosfera si colora di un’ estrema tragicità rendendo gli ultimi passi dell’opera ancor più aspri; tutto si carica negativamente quando Medea porta a definitivo completamento la sua vendetta uccidendo la sua prole; il primo bambino viene ucciso in casa tra urla disperate e strazianti; infine, recatasi sul tetto, uccide il secondo davanti agli occhi di Giasone e del suo esercito. Per concludere il misfatto lancia i corpi dei figli al marito e fugge via su un carro trainato da draghi. Giasone viene lasciato nella disperazione. Nella sua tragedia Seneca elabora la vicenda in un ambiente crudo e desolato, dove non c’è via di scampo, dove tutto è irreparabilmente destinato a concludersi nel più atroce dei modi. Medea ci appare una madre snaturata che non manifesta il più impercettibile timore, non viene pervasa da sentimenti che contrastano la sua indole selvaggia, nessun pensiero amorevole di madre la distoglie dalla vendetta. L’autore ostenta una donna perduta nel male, che si contrappone ad un Giasone innocente e buono, vittima del male stesso. Liberarsi di sua moglie viene visto come un atto giusto. Una visione sicuramente meno complessa dunque, in quanto Seneca presenta una donna veramente spietata in cui la sua natura impervia prende il sopravvento. Medea lancia i suoi figli al marito in un gesto freddo e deciso;ella una madre 29


senza amore, personaggio che non possiede nessuna umanità rispetto alla Medea di Euripide, che ci regala invece un personaggio pervaso da molti sentimenti seppur contrastanti. Qui Medea è mostrata come una donna perduta nel male.

II.1.3 Le fonti drammatiche. Medea di Luigi Cherubini (Mèdèe) Là Medea di Cherubini20 è un opera lirica divisa in tre atti che è stata rappresenta per la prima volta al Théâtre Feydeau di Parigi il 13 marzo 1797. Nel primo atto appare evidente il turbamento di Glauce, che non riesce ad essere felice fino in fondo per le sue nozze con Giasone, angosciata dal pensiero di Medea, angoscia che si acuisce maggiormente durante un colpo di scena inaspettato alla reggia di Corinto presso cui la maga è venuta in cerca del marito. Il dialogo tra i due è Fig. 13 intenso, in Medea traspare la sofferenza del ricordo del loro amore passato, costretta adesso a vivere drammaticamente l’abbandono del marito; evidente è la sua angoscia, per la futura sorte dei figli. È questa una disperazione coinvolge l’anima di tutti i presenti. Medea prega il ritorno di Giasone a casa ma, vistasi rifiutata anche in quest’ultima supplica, in lei si scatena una collera inaudita che preannuncia una tragica fine. Nel secondo atto Creonte ordina a Medea di allontanarsi immediatamente 30


dalla città. Medea, subdola ed ingannatrice nelle intenzioni dell’autore, si mostra moderata e sottomessa al volere del re ed implorandolo umilmente riesce a farsi concedere ancora un giorno da passare con i suoi figli. Ma nella sua mente calcolatrice ella ha progettato il castigo riservato ai suoi oppositori. La Maga ordina all’ancella di portare in dono a Glauce il manto e la corona che un tempo aveva ricevuto da Fig. 14 Apollo. Ingannando in tal modo maggiormente i suoi nemici, Medea apre così una diversa via che la conduca più facilmente verso la vendetta. Nel terzo atto, i doni che Medea aveva avvelenato conducono Glauce e Creonte alla morte. Nel trambusto della città la folla del popolo adirato si scaglia contro la maga e i suoi figli, che vanno a rifugiarsi dentro ad un tempio. Medea completa il suo piano ed ivi li uccide. Giasone, inconsapevole del misfatto, si reca al tempio per punirla, ma lei uscendo dall’edificio mostra al suo uomo il coltello grondante di sangue innocente, a questo punto Medea, invasata e posseduta da una energia sovrumana, appicca il fuoco al tempio. L’opera si conclude con Giasone terrorizzato e sconvolto dal dolore, che alla vista di tanta crudeltà muore straziato. Medea rientra al tempio in fiamme in uno scenario di grande drammaticità e distruzione. Il tema sviluppato nell’opera di Cherubini – che prende le mosse dalla tragedia di Euripide attraverso Seneca - ci conduce ad un’ immagine di Medea spietata e distruttiva. Questa uccide non solo i suoi nemici ed i figli, ma anche se stessa nella distruzione della reggia e del tempio; 31


infine strazia Giasone conducendolo alla morte. La figura della terribile sacerdotessa della Colchide si manifesta in un totale annientamento di Giasone e di chi gli sta intorno. Medea è condotta dalla disperazione in una follia che inghiotte tutto nelle tenebre e nel suo vortice di distruzione. In questo dramma non c’è futuro per nessuno, dopo la vendetta non c’è una via di espiazione. Il conflitto delle passioni, la ricerca dei sentimenti, la tragedia che implica l’esistenza umana, sottolineano tutti la debolezza dell’uomo, la forza del destino, il mistero della vita e soprattutto la forza dell’amore.

II.1.4 Le fonti drammatiche. Medea di Franz Grillparzer Franz Grillparzer21 nella sua Ottocentesca opera su Medea compone una trilogia L’ospite, Gli Argonauti22, e Medea. Quest’ultima è suddivisa in cinque atti. Tutto inizia con una Medea intenta a diventare una greca, seppellire il proprio passato, le arti magiche e, soprattutto, il vello d’oro simbolo della sua rovina. Tenta di allontanare da se quella brutta fama di maga malefica che si è trascinata addosso e che ha influenzato anche Giasone, che velocemente ha mutato i suoi sentimenti verso di lei. A Corinto arrivano voci che l’ accusano

Fig. 15

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dell’assassino del padre, del fratello e del re Pelia. Questo non fa che peggiorare la sua condizione, osteggiata senza sosta dal sovrano di Corinto. Creonte, temendola per le sue arti, cerca di allontanarla influenzando il marito a tal punto che diventa sempre meno tollerante alla sua presenza. Sarebbe questa la ragione per cui egli s’invaghisce della giovane principessa Creusa, che si presenta ai suoi occhi come tenera e pura. Anche i figli stessi di Medea preferiscono la principessa alla loro madre, provocando nel suo cuore uno squarcio insanabile. In questa versione molto sentimentale ella appare fragile, facile all’umiliazione. Tutti quegli eventi scuotono il lei un forte desiderio di punire chi l’ha offesa e beffeggiata, cosi, anche questa volta, Medea pianifica la sua vendetta che va a buon fine. La principessa Creusa riceve in dono il vello d’oro nel quale era avvolto un vaso di fuoco che la maga aveva fatto portare a palazzo dalla sua nutrice come dono di nozze. Quando la principessa apre il vaso, viene investita dal fuoco morendo tra le fiamme che finiscono per incendiare il palazzo reale. Nel momento in cui Medea torna in sé e si rende conto del terribile gesto compiuto, come se non ci fosse altra soluzione, uccide i figli volendoli salvare dalle conseguenze che li avrebbe investiti dopo il suo terrificante gesto. Nell’opera di Grillparzer la protagonista non è di natura malvagia, non è responsabile di tutte le morti che le vengono attribuite, lei vuole essere una semplice donna. Desiderosa di liberarsi dei suoi poteri, di un passato macchiato di sangue, nonostante questo ardente desiderio, il suo destino è legato al vello d’oro dominato dalla maledizione che porta con sé, prima seppellito poi ritrovato. Il dramma si conclude con un’ ultima apparizione di Medea a Giasone ormai anch’egli perduto e scacciato da tutti, distrutto dal dolore. I due adesso dovranno vivere e sopportare quel che rimane della loro vita, espiando cosi i loro peccati nella speranza di una liberazione e grazia. Tutto é narrato nell’atmosfera romantica tipica dell’epoca di Grillparzer, contraria alla tradizione tragica secondo cui tutto finirebbe nella dissoluzione di Medea; qui è invece forte una voglia di rivalsa, 33


di speranza e di rinascita. Nel dramma di Grillparzer è potente, come nell’originale di Euripide, l’incomprensione tra culture diverse. È evidente l’insofferenza per una straniera che viene sempre più isolata ed emarginata, condizione che tende a farsi sempre più forte nelle interpretazioni successive di Medea. La storia sembra trattare il pregiudizio ancora che si ha per gli stranieri, il difficile adattarsi alle diverse usanze, la solitudine che si prova a non essere mai accettati, i difficili rapporti di comunicazione che si creano tra culture diverse. Medea seppur infanticida, assassina di Creusa, qui ci appare meno terribile e spietata rispetto ad altre versioni, tendenza che si farà sempre più forte ed evidente nelle successive interpretazioni, specialmente dopo la seconda guerra mondiale dove il tema razziale della diversità e dell’intolleranza diventeranno l’argomento centrale per denunciare le avversità contro i popoli considerati diversi. In tal modo, lentamente, l’immagine di Medea muta sempre più diventando il simbolo delle vittime del pregiudizio.

II.1.5 Le fonti drammatiche: Medea di Corrado Alvaro Per la prima volta nel 1949 viene rappresentata La Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro23. Qui Medea sembra assumere le sembianze di una donna calabrese, del sud dunque, fedele e premurosa al marito, che si preoccupa di rispettare le usanze della sua terra. Nel corso del dramma Medea non è più una maga capace di malefici sortilegi, è una moglie devota che cura i suoi figli e aspetta con ansia il ritorno del marito, desiderosa di accoglierlo come sa fare una tipica donna greca. L’opera ha inizio a Corinto nella casa di Giasone e sua. La donna si fa bella aspettando che questi torni dall’incontro con il re Creonte; con l’aiuto di alcune serve fa in modo che tutto sia perfetto come se egli stesse tornando da un lungo viaggio. Calata la sera, Giasone non torna a casa e Medea incomincia ad insospettirsi. Insieme alla nutrice 34


Nosside, tramite uno specchio magico, la veggente riesce a scrutare cosa succede al palazzo del re. Lo specchio le mostra ciò che nessuna moglie mai vorrebbe vedere. Giasone cerca di amicarsi il favore del re ed usa tutto il suo fascino per farsi apprezzare; anche la principessa al primo sguardo sembra attratta da lui e Giasone sembra ricambiare gli stessi sentimenti. Medea lo conosce bene e nei suoi occhi è in grado di leggere quanto lui se ne sia invaghito. Nei loro atteggiamenti rivede se stessa e Giasone quando s’incontrarono la prima volta. Angosciata da tale visione interrompe la magia. Durante una conversazione con Nosside si accorge su una mensola che il marito aveva dimenticato l’amuleto donatogli dalla divina Giunone, amuleto che gli avrebbe impedito d’innamorasi di qualsiasi donna, e decise di farglielo portare. Dal palazzo in tarda notte un corteo con fiaccole e tamburi si dirige verso la casa di Medea. Creonte entrando in casa disdegna l’ospitalità della padrona, le ordina di andarsene dalla sua terra accusandola di malefici sortilegi. Le dispone di andarsene quella notte stessa e quando Medea chiede del marito, le annuncia - infierendo maggiormente nell’animo della mal capitata - che questi avrebbe sposato sua figlia. Nella consapevolezza di dover accettare la decisione del re, Medea chiede allora solamente asilo per i suoi figli, ma Creonte non le concede neanche questo ed esce dalla casa abbandonandola nell’umiliazione. Quella stessa notte a Corinto era arrivato in cerca di Medea il re di Atene Egeo. Egli viene accolto con gentilezza da Medea che lo spinge a spiegarle le motivazioni della sua visita. Il re le confida che, non potendo avere figli ed essendosi già recato a Delfi per sentire un responso dall’oracolo che gli era incomprensibile, era venuto a cercarla per farsi aiutare. La maga lo assiste con garbo e gli dona una gemma ritenuta capace di renderlo fertile. In cambio, Medea cerca il sostegno del re, confida la sua dolorosa condizione e lo prega di aiutarla, di salvare almeno i suoi figli; ma Egeo, avendo paura di una guerra contro Corinto, non soccorre la sventurata e va via anch’egli lasciandola senza

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Fig. 16

nessuna speranza. In quella stessa notte Giasone, tornando da Medea, l’avvisa che Creonte le concedeva un altro giorno per organizzare la sua partenza e che i figli sarebbero rimasti con lui. La mattina seguente la donna fa vestire i suoi figli nel migliore dei modi, decide di mandare in dono nuziale a Creusa i più preziosi che ella possedeva: la corona di sua madre e un velo tramato d’oro. Medea prepara i figli e con grande dolcezza, indicando loro come comportarsi al cospetto della principessa. Quando i bambini arrivarono al palazzo vengono accolti con gioia; Creusa, che in un primo momento sembra infastidita, alla vista dei doni rimane sbalordita e affascinata. Prima che i bambini le porgano i doni, il re ordina alla figlia di non toccarli, accusando quegl’innocenti di aver portato a palazzo dei doni malefici. Il popolo, eccitato dal re, si avventa contro i poveri sventurati che sono costretti a fuggire rischiando di morire lapidati ma, grazie all’aiuto di alcuni vicini di casa si salvano. In breve tempo Medea si ritrova una folla in rivolta contro lei e i suoi figli. La porta di casa viene abbattuta. Preso un pugnale, ella decide di uccidere i suoi bambini prima che 36


questi vengano uccisi dalla folla. Alla vista dei figli morti, il padre si dibatte nel dolore. Viene è raggiunto da un Creonte che ora è dimesso ed affranto dal dolore; il re gli racconta ciò che è accaduto mentre lui era alla ricerca dei suoi bambini. La sfortunata Creusa, salita su una torre per vedere quello che stava accadendo, sconvolta dagli eventi, coprendosi il viso con il velo era caduta dalla torre perdendo la vita. Tutto si conclude nel dramma con la morte d’innocenti. La Medea di Alvaro, diversamente dalle altre rivisitazioni del mito, non perde la ragione e non trama nessuna vendetta. Quando viene abbandonata dal marito per le nuove nozze con la principessa, non scongiura gli dei, non prepara sortilegi, ma con umiltà ed accettazione al suo destino prepara dei meravigliosi doni alla sposa. Sarà il preconcetto su di lei a danneggiare definitivamente la sua sorte e quella dei figli. Alla vista dei doni, Creonte viene sospinto da brutti presentimenti; temendo la maga non permette alla figlia di accettarli scacciando via i bambini accusati di aver portato doni nefasti al palazzo. La situazione di conseguenza precipita. Medea è vittima del pregiudizio su di lei di terribile fattucchiera ed anche i suoi figli ne vengono coinvolti. Nel dramma di Alvaro questa non si vendica contro i suoi nemici; sarà poi Creusa, in un fatale incidente, a perdere la vita. Anche l’assassinio dei figli non è compiuto per vendetta. La Medea di Alvaro uccide per sottrarli ad una vita fatta di persecuzioni, di vagabondaggio e, ancor di più, per evitare loro il linciaggio della folla. Alvaro stesso con queste parole genera la sua Medea: Medea mi è parsa un’antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale, e di tante che, respinte dalla loro patria vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e i campi di profughi. Secondo me, ella uccide i figli per non esporli alla tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame: estingue il seme di una maledizione sociale e di razza, li uccide in qualche modo per salvarli, in uno slancio disperato di amore materno.24

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Da queste parole è facile intuire come Alvaro cerchi di spostare maggiormente la colpa delittuosa sul popolo di Corinto. Medea diventa allora il personaggio perfetto per denunciare la sua società, dove il pregiudizio razziale è manifesto.

II.1.6 Le fonti drammatiche: La Medea di Dario Fo e Franca Rame La Medea di Dario Fo25 e Franca Rame26 si trova nel volume.8 di Le Commedie di Dario Fo, venticinque monologhi per una donna27. I monologhi, prima di essere scritti e pubblicati, sono nati su palcoscenico, sviluppo di emozioni che hanno coinvolto i due artisti attraverso prove ripetute, correzioni, modifiche: un lavoro di elaborazione e meditazione. La Medea di Dario Fo e Franca Rame, si rifà alla tragedia di Euripide. Ciò non di meno, essa è condotta con gusto popolaresco umbrotoscano, come dice l’attrice stessa nel monologo che interpreta interamente, alla lingua di un antico dialetto dell’Italia centrale, donando un sapore più nostrano al personaggio. Tutto ha inizio Fig. 17 a Corinto. Medea, rinchiusa in casa e stravolta dalla gelosia, maledice Giasone; tutte le donne del 38


popolo, preoccupate, si recano da lei; una tra le più vecchie cerca di farla calmare chiedendole buon senso, di non pensare alla sua disgrazia ma al futuro dei suoi figli. La donna chiede a Medea di aprire la porta di casa e di parlare con loro; esse conoscono il suo dolore e vogliono aiutarla e confortarla. Medea apre e le spaventa per il suo aspetto scarno e addolorato. Domanda loro se la sposa del marito era bella come lei un tempo, quando era giovane e piacente. Ripensando a quei tempi incomincia a descriversi in ogni parte, come se volesse rimodellare di quelle forme sinuose il suo corpo ormai invecchiato. La donna più anziana cerca di farla ragionare, ricordandole che è naturale sfiorire e che è consuetudine dei mariti posare l’occhio su donne più giovani, che, infine, era nel loro diritto giuridico il poter ripudiare la moglie. L’anziana dice in proposito:«da sempre, è la legge de lu munnu»28. Questa frase fa impazzire Medea poiché lei non appartiene a quel tipo di donna che tace di fronte ai soprusi ed accetta con sottomissione il volere degli uomini. Medea confessa alle popolane di voler uccidere i suoi figli; il suo desiderio è d’essere ricordata come una madre scellerata. Dice: «Meglio esser ricordata come bestia feroce, che dementecata come cavra mansueta… che se pole mungere… e tosare, e desprezzare, e poi vendere al mercato senza che de bocca soa n’esca belato! Acciddere debb’io li miei figlioli!»29. Spiega che tante volte ha pensato di togliersi la vita e il suo cuore si è battuto pur di non arrivare a tale conclusione, ma una donna con il suo orgoglio non può sopportare di scappare via, essere dimenticata dai suoi figli che non vedendola più non la riconoscerebbero come madre. Infine dice: «… morta s’ongh’io e ognugno m’ha già seppellita… come pozz’io farmi morta de novo? Vivere vogghio, ma solamente lo pozzo esser viva se morire fazzo li miei figlioli… la carne mea… meo sangue, la vita mea…»30. Le donne inorridite scappano ed avvertono tutta la gente dei suoi piani malefici. Giasone, preoccupato dalle notizie, si reca da Medea; La donna l’accoglie premurosamente, lo inganna con dolci parole, chiarisce che le voci sulle sue malefiche intenzioni sono solo una burla per far 39


chiacchierare il popolo. Si mostra dimessa e ragionevole, rassegnata alle nozze del marito; chiede anche perdono per la sua gelosia, per le follie che pensava di fare. Nel cuore della conversazione, come un lampo nella quiete, Medea stronca il suo discorso lasciando tutti di stucco dicendo: «Coteste follie pensavo, Giosone … coteste follie pensavo… e le penso ancora!»31. Da un momento all’altro ella tramuta un animo remissivo in uno spietato, rabbioso, pieno di collera e rancore. Riversa un odio profondo per il genere maschile, suo nemico, prima di armare la sua mano dice: «Necessità è, che ‘sti figlioli a mia abbiano a morire perché tu Giasone, e le tue leggi infami abbiano a morire».32 Il monologo della Rame iniziato con una lunga introduzione, sarcastica ed ironica, riesce a donare al dramma di Medea una vera nota comica almeno durante tutto il prologo. L’attrice stressa all’inizio del discorso dice: «Eccoci arrivati all’ultimo brano dello spettacolo quello al quale teniamo maggiormente: La Medea di Euripide. Dico subito che questo pezzo è assai diverso dagli altri, non è comico. Anzi, è profondamente drammatico e con il più alto contenuto politico femminista di tutto lo spettacolo»33. Effettivamente, il prologo della Rame fin da subito prende le parti di Medea; in lei si ritrova l’animo di tutte quelle donne abbandonate dal marito e che sopportano i soprusi degli uomini. Mentre racconta la vicenda tra Medea e Giasone tutto è divertente: Giasone viene sminuito nelle sue azioni di gloria, diventa oggetto di scherzo. Ridicolizzare il personaggio diviene un modo per colpire il genere maschile tanto pieno di se. Nella scelta di Medea vi è la necessità di dare luogo ad un tema caro alla nostra attrice: la parità dei sessi, i diritti delle donne, la difficoltà di vivere in un mondo fatto dagli uomini per soli uomini. La Rame, comicamente prima, drammaticamente dopo, tramite Medea si fa portavoce di quella realtà femminile che parla sottovoce, o che non parla neanche. L’attrice dagli anni Settanta partecipa al movimento femminista e Medea rappresenta un modello indicato per esprimere i suoi pensieri, per denunciare la condizione infelice della donna. Di forte impatto è l’inizio del monologo, quando la Rame diventa Medea 40


mutandone i toni; poi lo scenario si fa cupo e più denso, si entra realmente nel drammatico. Ciò che rende ancora più apprezzabile questa interpretazione non è solo il genio degli artisti e drammaturghi, il loro modo di vedere Medea, di pensare ai dialoghi; ma di grande effetto è l’uso Fig. 18 particolare del dialetto che rende tutta la storia carica di un vissuto popolaresco. In esso non c’è nulla di poetico, di romantico; sembra di sentire nei lamenti di Medea il cuore straziato di una povera donna del popolo, una donna che non ha nulla da perdere perché tutto ha già perduto. Leggendo il monologo scritto in questo gergo ogni parola si carica maggiormente, in un certo modo il significato diventa più corposo garantendo un maggior senso di reale. Sembra di vivere un episodio di spaccato meridionale, ci si proietta in una realtà che, se pur lontana, ci appartiene, è radicata nella nostra cultura. Un dramma cosi intenso, se pur scritto in poche pagine, che riesce ad emozionare straordinariamente il lettore; un interpretazione di grande impatto, capace di straziare, angosciare e far riflettere; un intento mirato, quello della Rame, di rappresentare Medea come simbolo del femminismo, di rivalsa contro la forza maschile, eroina delle donne capace di punire terribilmente l’uomo.

II.2.1 Le fonti letterarie Moderne. La Medea di Porta Medina di Francesco Mastriani

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Francesco Mastriani34 guardava costantemente alla costruzione dei suoi complicati strumenti narrativi a sfondo realistico sociale, si fa a suo modo cronista della realtà napoletana attraverso La Medea di Porta Medina in cui ritrae e denuncia le ingiustizie e le miserie di una realtà del tutto fedele a quella della sua società. Il romanzo fu pubblicato postumo nel 1915, ventiquattro anni dopo la sua morte. La storia è ambientata tra fine Settecento - inizi Ottocento a Napoli. Tutto comincia in un orfanotrofio detto dell’Annunziata; qui “Medea” è Coletta Esposito, una giovane ragazza di cui sono ignote le origini, cresciuta all’Annunziata stessa dove tutti i bambini abbandonati, solitamente da Fig. 19 prostitute, venivano detti figli della Madonna. A questi si dava il cognome Esposito che era marchio per tutti gli orfani. Ogni anno per l’Annunziata, quando le ragazze erano in età da marito, venivano vestite di bianco e mostrate ad alcuni uomini che avevano intenzione di prendere moglie; tutti potevano assistere a tale evento che era un giorno di grande festa. Il rigattiere Nunzio Pagliarella, posò gli occhi su Coletta e decise che sarebbe diventata sua moglie. Questi era vecchio ed aveva un aspetto orribile, tal che la giovane, ripugnata, si ribellava a quel matrimonio. Una dama che aveva assistito alla scena, preoccupata per la sorte di Coletta, propose alla giovane due condizioni: la prima, di andare con lei a Caserta e di vivere una vita serena in casa sua facendo la cameriera; la seconda, di sposare il vecchio prendendo in dono da lei una somma di mille ducati come dote. Coletta, non volendo fare da serva a nessuno, decise di prendere 42


Fig. 20

la dote e di sposare il vecchio. A nozze avvenute, la sera, quando il marito tentò di avvicinarsi a Coletta, lei ebbe una reazione violentissima. Denunciata dal marito alla polizia e richiamata più volte, infine venne arrestata. Qualche giorno dopo, dama Cesarina - la donna che le aveva offerto la dote - non si sa come, forse per qualche sua conoscenza riuscì ad ottenere la scarcerazione della giovane; quindi decise di portare con se Coletta a Caserta offrendole protezione ed alloggio, fino a quando non fosse riuscita ad annullare quel matrimonio tanto odiato. Da questo momento in poi tante coincidenze travolgono la vita di Coletta, che la condurranno lentamente verso il dramma che già ci è preannunciato dal titolo del romanzo. La giovane in realtà era innamorata segretamente di Cipriano Barca, un giovane che lavorava come scritturale alla Santa casa dell’Annunziata. Cipriano, come secondo lavoro per arrotondare faceva dei prestiti, dal quale traeva onestamente il suo guadagno. Coletta con la scusa di poterlo vedere ogni tanto, gli aveva affidato la sua dote. La sorte volle che questo giovane una sera venisse aggredito e derubato da due suoi amici ai quali aveva confidato di aver ricevuto in affidamento il denaro di Coletta. Con grande astuzia i due architettarono la rapina in modo da non essere 43


minimamente sospettati. La notizia si propagò velocemente, e quando Coletta venne a sapere della disgrazia del giovane si precipitò subito da lui. Il suo timore non era per il denaro rubato ma di perdere il suo amore segreto. Cipriano, costatando l’amore sincero della ragazza verso di lui ed il totale disinteresse verso il denaro rubato, inizialmente spaventato e disorientato di tanto affetto, con il tempo anch’egli s’ innamorò. Nonostante Coletta avesse un carattere forte ed irrequieto e la sua fama di donna irascibile e pericolosa si fosse propagata dovunque, Cipriano si prese cura di lei e le promise di sposarla una volta che il matrimonio con il rigattiere fosse annullato. Durante questo lungo periodo Coletta alloggiava da una signora presso Porta Medina35, luogo dal quale prende il nome appunto il romanzo. I due giovani, travolti dalla passione, s’incontravano di nascosto e dal loro amore nacque anche una bambina bellissima. Coletta, dannatamente gelosa di Cipriano, non sembrava amare molto la figlia, poiché dalla sua nascita il giovine non aveva occhi che per lei, trascurando la compagna. Ciò rendeva Coletta irrequieta e nervosa, che sempre più manifestava insofferenza e disinteresse per quella indifesa creatura. Le sue scenate di gelosia anche nei confronti di altre donne cominciarono a terrorizzare il giovane. Questi suoi atteggiamenti velocemente cominciarono a raffreddare il cuore di Cipriano, che ben presto trovò un nuovo amore in un’altra donna, la giovane Teresina. Alle spalle di Coletta venne organizzato il matrimonio con Teresina, che insieme alla madre si era trasferita a

Fig. 21

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Casoria un paesino vicino Napoli. Coletta, venutolo a sapere, contrariamente dal solito non fu attraversata dalla sua nota furia, ma tranquillamente e silenziosamente meditò nella sua mente una fredda e devastante vendetta al pari della protagonista di Euripide. Decisa nella sua ritorsione, non voleva colpire Cipriano fisicamente ma al cuore, lasciandogli un dolore profondo nell’anima per tutta la vita, e questo poteva farlo solo togliendogli Fig. 22 la cosa più cara che lui possedeva, la sua piccola bambina. Il giorno delle nozze partì da Napoli con la bambina per Casoria. Quando i due furono sposi, Coletta, che aveva assistito alle nozze tacitamente, prese il corpo della bambina che aveva soffocato con un fazzoletto e lo gettò ai piedi di Cipriano, completando il suo folle gesto colpendo la sposa a morte. Coletta venne giustiziata e la sua testa fu esposta davanti alla Vicaria di Napoli insieme ad altri cinque condannati. Il romanzo di Mastriani rappresenta una finestra aperta verso quella società di Napoli che racconta la povertà e la miseria del popolo, che accusa le dure condizioni della vita dei bassifondi. Nella sua opera si sente il gusto genuino di una popolarità napoletana a tratti quasi comica. Mediante un’attenta descrizione dei luoghi e dei personaggi ci si sente immersi, proiettati nella realtà che narra l’autore; sembra di respirarne l’aria, di sentire la semplicità di un popolo bisognoso che fa quel che può per 45


sopravvivere. Mastriani rivela le vicende di una società in cui il potere e la ricchezza possono tutto; la storia, che per la crudeltà di Coletta ci rimanda alla Medea di Euripide, in effetti sembra proprio una versione moderna dell’opera greca: gli dei sono i ricchi e i potenti di oggi che possono cambiare le sorti di tutti grazie al loro potere, ed i protagonisti sono sempre le genti comuni che subiscono il volere dei potenti. Nel romanzo, già dalle prime righe si percepisce la tragedia di una povera donna vissuta senza amore e senza guida, fin dalla nascita marchiata da un cognome nefasto, con un destino già segnato ad inizio. Ci troviamo di fronte ad una povera derelitta che sarà condotta dalla vita stessa a compiere un atto disumano e terribile. Come nella tragedia di Euripide è affrontato il tema della diversità tra uomo e donna e la lotta ricorrente tra i due sessi che sfocia anche qui nel dramma. Il conflitto tra uomo e donna è un tema attuale e ciò che sconvolge è come i genitori usino i loro figli come pretesto di contesa o nel più peggiore dei casi facciano di loro le vittime delle loro incomprensioni e frustrazioni. Il mito di Medea non rimane solo un’ opera tragica ma diventa per i suoi molteplici aspetti e temi trattati, una fonte per le tante problematiche sociali della Napoli di allora. Mastriani, attraverso l’immagine del mito euripideo, trasforma Medea in un’ umile popolana ed è così capace di mostrare uno spaccato di vita pubblica e privata. Medea non si reincarna attraverso Coletta solamente per rappresentare il dramma originario in chiave moderna, ma per descrivere attraverso il suo personaggio e gli altri protagonisti argomenti importanti che testimoniano soprattutto la tangibilità storica della nostra cultura.

II.2.2 Le fonti letterarie Moderne. Medea di Christa Wolf Il romanzo Medea. Voci36 di Christa Wolf ha una struttura particolare; la storia infatti prende corpo attraverso i punti di vista di alcuni personaggi, tra cui anche quello di Medea: undici capitoli raccontati secondo l’ottica 46


di sei personaggi attraverso l’espediente letterario del monologo. Nel romanzo Medea non è né fattucchiera, né madre che uccide i suoi figli. In Wolf ancora maggiormente si acuisce un aspetto sempre più debole e mite della protagonista, che dalla versione di Euripide ci appare ancora più lontana. Forte è sicuramente l’influenza romantica di Franz Grillpazer e del suo notevole interesse per i sentimenti; nel romanzo infatti, attraverso i racconti dei vari personaggi, veniamo coinvolti da un infinità di opinioni, emozioni e riflessioni che danno vita secondo i loro ragionamenti all’opera nel suo complesso. Tra questi una storia nuova di Medea, inedita. La vicenda ha inizio a Corinto. Medea, che insieme ai suoi figli è stata espulsa dal palazzo reale, si ritrova sola e disperata ad invocare la madre ed a confidarle un segreto del quale è venuta per caso a conoscenza. Una sera, quando si trovava ancora alla reggia, seguendo la regina Merope moglie di Creonte lungo un corridoio che portava ad una caverna, scopre un atroce delitto: uno scheletro di bambina giaceva lì da tempo e la regina in segreto andava a piangerla. La scoperta devasta Medea che però non ne fa parola a nessuno. La sorte volle che quella notte però anche Medea fosse seguita da un’altra persona: Agameda, una sua allieva che, invidiosa e ostile nei suoi confronti, si precipitò ad andare a raccontare tutto quello che aveva visto ad Acamante, l’astronomo di corte. Il trono di Creonte era dunque fondato su un grave assassinio. Questi, infatti, per non perdere il trono, aveva fatto uccidere la figlia primogenita Ifinoe. Il regno, che vantava gesta gloriose, Fig. 23 47


era pertanto fondato su di un crimine. La scoperta travolge Medea, che prima viene diffamata e poi accusata di aver procurato la peste per vendicarsi degli affronti subiti. Sarà la folla, aizzata dalla corte, a lapidare i suoi figli. La Medea di Crista Wolf è sicuramente la più estranea a noi. Nella condizione per cui il marito l’abbandona per seguire un matrimonio di miglior convenienza, lei non appare gelosa ed affranta, anzi: ella si rigenera in un nuovo amore che trova nello scultore Oistros. Nel romanzo Medea è una donna capace di moltissimi rimedi usati per guarire la gente, compie gesti generosi che inevitabilmente le si rivoltano contro a causa del pregiudizio e dell’ignoranza. Medea è premurosa verso i sofferenti e dispensatrice di bontà, come quando aiuta Glauce nella sua malattia, oppure quando l’aiuta a superare il trauma del sequestro della sorella e il suo assassinio. Gesti che però si tramutano da parte di Glauce in odio ed anche in invidia. L’invidia infatti è il sentimento che dà origine a tutta la storia: per questo sentimento Medea viene tradita dalla sua allieva nata nella Colchide e cresciuta da lei, Agameda. Così la maga diventa il capo espiatorio su cui si vendicano i veri colpevoli che, intenti a nascondere i loro misfatti, l’accusano di ogni disgrazia e di ogni cattivo evento. Medea è priva di ogni forza per combattere, accetta questa condizione e subisce l’intolleranza del popolo, diventa la causa di tutte le calamità di una città che non l’ha mai accetta. La superstizione, il pregiudizio l’inciviltà l’investono devastandola, rendendola vittima di un popolo in tumulto. Nuovamente si tratta sempre del rapporto difficile che vi è tra diverse culture. Medea non è più la strega e l’infanticida che ci è stata tramandata, ma in quest’opera è vittima dello Stato. Quello che maggiormente colpisce è il desiderio di Crista Wolf di discolpare Medea dall’accusa di madre infanticida, non soltanto cambiando la sua versione del romanzo, ma attraverso una vera e propria tesi storica in cui si tenta di dimostrare che all’epoca Euripide fu pagato per cambiare il finale della tragedia, poiché una città greca che lapidava dei poveri innocenti 48


non dava di sé l’immagine di una cultura superiore. Cosi Medea per secoli venne accusata di un delitto non suo. Crista Wolf si prende cosi il merito di aver dissepolto una verità del tutto nuova e sconvolgente, sfatando il mito di Medea maga e assassina. Attraverso il romanzo, la scrittrice tratta un evento spesso ricorrente nella storia degli uomini, ovvero quello di trovare sempre un capro espiatorio da punire. I temi che si erano presentati nel dramma di Alvaro, come l’intolleranza, il pregiudizio, l’emarginazione per il “diverso” nel romanzo della Wolf si intensificano maggiormente. Una luce nuova è gettata su Medea: una maggior umanità e sensibilità tipica dell’essere femminile, conoscenza della femminilità che ci mostra una Medea profonda nelle riflessioni e nei sentimenti di amore che la pervadono. Anche attraverso gli altri personaggi femminili dell’opera ci viene mostrato il mondo delle donne, denso di problemi, insicurezze, gelosie, fatto di segreti, intrighi e misteri. Medea non è inabissata nell’irrazionalità; al contrario, è mostrata come donna capace di ragionare con chiarezza, di vivere la sua vita con dignità nonostante le avversità. Donna forte e fragile allo stesso tempo. Medea non è più mito ma diventa donna comune “voce” di tutte le donne, “voce” delle vittime dei tabù.

II.3.1 Le fonti saggistiche. Renzo Ricchi, Femminilità e ribellione, la donna greca nei poemi omerici e nella tragedia Attica. Nel saggio di Renzo Ricchi37, dalle origini del poema epico di Omero alla tragedia greca, si traccia un percorso molto chiaro della figura femminile, con precisa attenzione alle varie epoche e tradizioni ed al mutamento del ruolo della donna nei testi attici. Le opere di tradizione omerica - l’Iliade e l’ Odissea - rappresentarono per la cultura greca una specie di Bibbia, il libro dei libri contenente la gloria di un popolo che attraverso il racconto delle gesta dei suoi eroi, delle usanze, della sapienza e della tradizione, riassumeva la storia di una grande civiltà 49


antenata della nostra cultura. Attraverso la rilettura dei due testi si comprende maggiormente la posizione della donna e il valore che essa assumeva all’interno della famiglia. Le origini dei poemi di Omero sono incerte; essi risalirebbero all’VIII secolo, secondo Cicerone38, mentre sarebbe stato Pisistrato39 a raccogliere e ordinare i canti sparsi da Omero. Nel periodo ellenistico i poemi vennero finalmente raccolti nella grande biblioteca di Alessandria. Per molti secoli i poemi di Omero vennero narrati a mente dagli aedi40; essi cercavano di conservare i poemi nella forma in cui l’avevano ereditata dai loro padri, quindi è inevitabile pensare che vi siano stati molti mutamenti nel corso dei secoli, e questo spiegherebbe perché le opere omeriche sembrano più ambientate nell’epoca della loro stesura scritta che non in quella che le ha generate del IX secolo. Nei versi di Omero vi è una grande voglia di vivere, di conoscenza, di scoperta; l’uomo è libero, gli dei assomigliano agli uomini. Nelle opere Omeriche sono contenenti tutti i valori importanti per l’uomo greco arcaico, tra cui anche il matrimonio. Un istituto che viene difeso in quanto rappresentava la conservazione dei titoli familiari, la legittimazione dei figli e quindi l’estensione della propria dinastia. Le donne avevano la direzione della casa e della servitù, Fig. 24 50


lavoravano al telaio, si occupavano della dote nuziale dei figli e dunque erano figure molto importante. Fin dalle origini della civiltà ellenica la donna è stata associata al telaio ma, oltre a simboleggiare il lavoro tessile, specialità femminile, la donna assume un ruolo fondamentale nella narrazione; infatti è colei che, grazie alla sua mente raffinata ed astuta, è capace di filare le trame della storia. Nelle opere di Omero la donna ha un ruolo considerevole, così come storicamente, in età ancor più remota, ebbe periodi di grande prestigio e rispetto. Dai ritrovamenti di Creta, ad esempio, tale primato è testimoniato sia nelle pitture ritrovate che nelle moltissime statuette votive rappresentanti dee femminili. È noto che a Cnosso41 le donne non vivevano recluse in casa, ma svolgevano attività maschili, guidavano i carri, cacciavo e praticavano gli sport. Alla donna si portava rispetto in quanto generatrice di vita. Le donne potevano aver riconosciuto un ruolo fondamentale nella società anche se, visto che si sposavano giovanissime, non potevano avere un’autorità pubblica particolare. Al pari degli esempi cretesi, Omero è molto sensibile alla bellezza della donna e nei suoi poemi la tratta con stima ed ammirazione. Essa non è chiusa in casa ma è libera di movimento e di espressione. C’è lo dimostrano alcune delle figure più importanti delle sue opere come Elena42 che durante una battaglia tra Paride e Menelao esce di casa e corre per seguire la battaglia presso le mura della città; in quest’episodio, ad esempio, ella dimostra un notevole sapere militare consigliando ad Ettore una strategia bellica. Arete, moglie di Alcinoo43, gira liberamente rispettata in tutta la città; Nausica, giovanissima, se pur accompagnata dalle ancelle, esce di casa, guida il carro e va a fare il bucato in un luogo lontano dalla casa paterna. Le donne vivevano in ambienti separati dal marito e non erano ammesse ai banchetti, ma dopo potevano raggiungere gli ospiti e prendere parte alle conversazioni diventandone spesso le animatrici. Nell’Iliade, Andromaca, moglie di Ettore44, è il simbolo della sposa amante del marito, piena di apprensione per la sorte del compagno, madre dolce, affettuosa e innamorata. Per la donna omerica l’eroismo 51


non è importante quanto il quieto vivere della propria famiglia; ama sì l’uomo forte deciso ed impavido, ma per lei la guerra è sofferenza e strazio; dalla sua bocca non escono mai parole di incitamento durante le battaglie, nemmeno di augurio prima che gli uomini scendano in

Fig. 25

campo. Attraverso Andromaca, ad esempio, Omero ci restituisce la realtà della condizione che spettava alle donne e ai bambini delle città sconfitte, costretti a schiavitù e umiliazioni. Nell’Odissea il filo conduttore è Penelope; lei rappresenta la moglie fedele che Ulisse vuole raggiungere; lei rappresenta la radice dell’uomo, il luogo di ritorno, la patria. Penelope, altresì, è donna forte che sa manifestare la sua autorità di padrona di casa in mancanza del marito, poiché la condizione di sposa all’epoca di Omero assegna un posto di primo piano in sua assenza. Omero tratta anche personaggi femminili più ambigui come Calipso che s’ innamora perdutamente di Ulisse e lo tiene con sé per sette anni; oppure Circe, dea maga figlia del sole, che in primo tempo trasforma i compagni di Ulisse in maiali, ma poi, infatuata, cade sotto il potere dell’amore ed alla fine della vicenda, quando l’eroe prega di lasciarlo andare, non può restare indifferente. La 52


partenza viene oscurata da un tragico incidente nel quale un compagno di viaggio di Odisseo muore e l’evento sembra collegarsi all’ambiente stregato e maligno che ruota intorno a Circe. Questi personaggi femminili, di punta come di secondo piano, hanno tutti un ruolo molto importante nelle due opere di Omero; coinvolte nelle loro passioni, nella loro fragilità, nella loro forza, in tutte le loro azioni sembrano tal quali a donne d’oggi. Attraverso di loro arriva a noi quell’antica anima femminile che nei secoli, pur mutata, fondamentalmente è rimasta fedele alla sua natura e che ci porta dalle origini più antiche un grande messaggio di umanità civile. Nel V secolo di fondamentale importanza furono le battaglie dei greci contro i persiani, che sconfissero per ben tre volte. Dal 462 a.C. la direzione politica Ateniese passò nelle mani di Pericle.45 Il suo nome è legato al maggiore sviluppo politico, economico e culturale di Atene. In questi anni Echilo46, Sofocle47 ed Euripide scrivono il teatro, fioriscono la tragedia e la commedia. In questa situazione generale la storia sembra scritta dagli uomini per gli uomini. Le notizie sulla vita delle donne sono reperibili in letteratura, negli scritti filosofici ed anche nell’arte con la pittura vascolare. Secondo vari studi la sua condizione ad Atene non era cosi favorevole come quella d’età micenea ed omerica. Nel IV secolo Aristotele48 nella Politica49 afferma con drasticità che l’autorità domestica presuppone il comando di un solo capo famiglia (l’uomo) e questo in base alla sua natura, ritenuta più forte rispetto a quella delle donne, ragione per cui egli è libero di comandare. Le ragazze vivevano sotto la tutela del padre che sceglieva il marito; le donne aristocratiche non uscivano mai e se capitava che dovessero farlo, venivano accompagnate e dovevano mantenere un atteggiamento dimesso. Le donne meno abbienti uscivano per aiutare il marito e per lavorare, ma ciò non era ben visto. Avere la pelle bianca era segno di nobiltà e di aristocrazia, solo le donne ricche che non lavoravano al sole potevano averla. Le pratiche religiose erano un opportunità di avere contatti sociali e per questo motivo le donne erano anche molto legate 53


ai culti. Lo scopo del matrimonio era avere figli e stringere alleanze tra famiglie. Per l’uomo la moglie era la madre dei figli legittimi e se aveva qualche bisogno insoddisfatto lo cercava altrove. Non era raro che gli uomini avessero amanti o concubine. Tra marito e moglie non vi era intimità; la donna viveva reclusa nei suoi appartamenti in compagnia delle ancelle. Se il marito banchettava con amici, questa non era invitata. Il marito poteva ripudiare la moglie oppure ottenere facilmente il divorzio, e ucciderla anche in certi casi se vi era stato un tradimento. Anche la donna poteva chiedere il divorzio se dimostrava i maltrattamenti ricevuti dal marito, ma questo comportamento non era visto di buon occhio. Le donne anziane godevano di maggior libertà perché ormai meno appetibili, ma non godevano lo stesso di rispetto, anzi: nella Grecia antica la donna anziana era ritenuta una strega, incantatrice e dispensatrice del malocchio. Le donne, anche se emarginate, si curavano molto sia nella bellezza, nell’eleganza degli abiti e nel corpo. Secondo altre ipotesi le donne praticavano molti sport allo scopo di irrobustire il corpo per affrontare maggiormente i dolori e le fatiche del parto. Sicuramente erano emarginate dal potere politico, ma avevano una forte presenza nella società, e al contrario di come si pensa, dovevano avere una forte personalità. Erano docili ma non sottomesse; il loro mondo era la casa come quello dell’uomo era la politica. I conflitti con quest’ultimo, che cercava di affermare la sua supremazia, non evitavano i contrasti e ciò è plausibile in un epoca dialettica aperta alla critica come dev’esser stata quella di Pericle. Su questo aspetto la tragedia greca ci offre molti spunti. Ivi infatti le donne si ribellano contro le norme sociali, si ribellano all’uomo “capo” dimostrano di avere un forte carattere. Tale attitudine spinge alcuni studiosi a pensare che le eroine della tragedia siano ben distinte da quelle della realtà, che esse sono solo versioni drammaturgiche delle donne rispetto ai miti, pertanto forti e potenti. Oltretutto si tratta spesso di donne aristocratiche. Ma tutte queste obiezioni e punti di vista secondo Ricchi non sono 54


coretti. Egli ci dimostra che nelle tragedie prendono posizione anche donne umili, del popolo, singole o in gruppo. Le donne più deboli, le donne comuni inclini a piegarsi ai più forti, anche per opportunismo o per paura, vengono giudicate inferiori; la donna ribelle, pronta a battersi ed a sfidare l’autorità diventa vera e propria eroina. Il saggista illustra come nella tragedia una delle componenti di maggior spicco sia il conflitto tra i due sessi. I drammaturghi avevano un ruolo stimolante ed anche provocatorio nella società ed entravano nel dibattito pubblico delle idee; ciò induce a pensare che le donne prendessero spunto dagli argomenti teatrali per dibattere la propria condizione civile o vice versa, considerato che Euripide, ad esempio, agiva secondo sofistica e metteva in discussione ogni cosa: dalle credenze tradizionali a quelle religiose. Eschilo poneva questioni spinose come il diritto d’asilo, il tribunale per la giustizia, l’ordine della città. Attraverso alcuni passi delle tragedie si può capire se e quanto queste figure di eroine ribelli fossero spunto o sintesi di cambiamenti, ovvero se erano mere invenzioni letterarie da cui la società restava passiva e distante. Quel che è certo e che i drammaturghi erano consapevoli della realtà in cui vivevano e tale passività ci appare dunque improbabile.

Fig. 26

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Il popolo greco aveva un forte senso del sacro; le feste religiose erano molte e tutte importanti, minuziosa era l’esecuzione dei riti ereditati dagli antenati, tutto era essenziale nella fabula, anche il rapporto che si creava con l’ambiente stesso; tutto doveva essere in armonia. Le rappresentazioni iniziavano all’alba perché a quell’ora la scenografia naturale era più suggestiva. Gli argomenti base della tragedia erano i grandi eventi della vita come della morte ed il rapporto dell’uomo con gli dei. Gli intrecci si ispiravano sempre ai poemi e alle saghe. I tragediografi più famosi del V secolo a.C. furono accomunati, ad esempio, dall’evento storico della battaglia di Salamina (480 a.C.). Eschilo vi partecipò come combattente, Sofocle giovanissimo celebrò la vittoria cantando e danzando, ed Euripide nacque il giorno e l’anno della battaglia. Le protagoniste di questi drammaturghi sono forti coraggiose ed anche astute. Analizziamo meglio Euripide: nella sua scrittura si avverte forte il condizionamento della scuola sofista. Fig. 27 Gliene derivava un metodo critico che sottoponeva ad analisi tutta la realtà ateniese, dalla politica alla morale, dalla religione all’arte. Egli era attratto da ogni nuova idea, vedeva gli dei in una luce nuova. Essi gli appaiono come forze irragionevoli dai quali discenderebbero agli uomini influssi negativi. Euripide non è irreligioso o ateo; è, piuttosto, agnostico: non crede negli dei tradizionali; essi lo irritano. Nelle 56


sue opere rende pertanto protagonista l’uomo e guarda con interesse all’intera umanità piuttosto che agli dei. Raffinato analista della società in cui vive, egli si dedica ad una forte introspezione dei suoi personaggi, non dimenticando i meno abbienti, la gente che soffre nelle strade. Dalle sue pagine emana dunque una profonda pietà per gli uomini. Da i suoi protagonisti si sviluppano tutte le passioni più profonde. I deboli sono i suoi soggetti preferiti e su di loro proietta il suo compianto. Per Euripide la tragedia è un fatto interamente umano ed in questo quadro nascono le sue bellissime figure femminili: fragili, calme, sovrastate da sentimenti ingenui ed istintivi, dalle debolezze, sanno riscattarsi nel sacrificio supremo di se. Protagoniste arditissime e dalla forte personalità, di forti sentimenti anche violenti e distruttivi sono, ad esempio: Alcesti50, Ifigenia51, Ecuba52, Fedra53 e Medea. Donne che reagiscono seguendo la loro impulsività, il loro sentimento più che la razionalità. Donne in cui l’amore è presente in tutte le sue sfaccettature: geloso e violento come quello di Medea; nobile e d eroico come quello di Alcesti; passionale come quello di Fedra. La visione del mondo di Euripide va contro corrente, le sue donne sono il ritratto di una femminilità inquieta; nelle sue protagoniste si agitano accesi contrasti interiori, debolezze umane anche violente, feroci; in loro si alternano passioni e volontà apposte e contrastanti. Ad Euripide non sfugge nulla delle violenze subite dall’uomo, violenze che egli denuncia in varie maniere e attraverso il mito. Della donna conosce i principali problemi: la sofferenza del parto, il tabù della verginità, l’obbligo di avere una dote per sposarsi, il ripudio da parte del marito; conosce il dolore delle donne. Nel tempo egli è stato assolto dall’accusa di misoginia; se analizza le figure femminili con spietata accortezza lo fa solo a loro vantaggio, per denunciare i luoghi comuni e le arretratezze di una cultura e di un costume maschilista. In tal senso Medea rappresenta il personaggio più sconvolgente del teatro greco: la protagonista euripidea subisce da parte del marito l’affronto della nuova unione con Glauce, figlia del re di Corinto; riceve l’umiliazione dell’esilio, ragione per cui la lettura del saggio ci 57


convince che l’oltraggio di Giasone nei confronti di Medea non è solo quello di avere abbandonato il letto nuziale - gesto di per se gravissimo, insopportabile – ma, maggiormente, Medea è ferita nell’orgoglio, nell’onore. Per l’argonauta ha dovuto lasciare la sua casa, la sua terra; ha voltato le spalle al padre e non tollera, ora, di essere ripagata in questo modo. Ciò che muoverebbe Medea è dunque la certezza di aver subito un’ ingiustizia, mentre le sue passioni, la sua disperazione, vengono fatte passare dal marito e da Creonte come banale gelosia, pura manifestazione di egoismo. Giasone rappresenta la concezione aristocratica secondo cui tutto è ordinato in funzione del successo dell’uomo, dell’eroe. I sentimenti della donna contano ben poco, ella è solo lo strumento del destino dell’uomo. Medea rappresenta, in ultima analisi, colei che rivendica i diritti di moglie e che rifiuta di essere sottovalutata. Non accetta che il marito sia l’unico a dover decidere il destino della famiglia; si sente parte integrante della coppia e per tale motivo non sopporta le sue scelte arbitrarie. Euripide dimostrerebbe qui di avere una concezione paritaria del rapporto tra uomo e donna nel matrimonio. Medea è ferita si, ma non è donna debole; i suoi aspetti indomiti prendono il sopravvento; nel dolore, in preda ad una furia distruttrice e autodistruttiva, scatena la sua ferocia sui figli. Tentata dal non uccidere i suoi bambini, dopo una lotta interiore l’orgoglio prende il dominio e decide che non esiste altra soluzione se non quella di compire il delitto. E se per l’uomo greco i figli e la discendenza erano molto importanti, il gesto di Medea annienterà il marito che perciò la definirà un mostro, poiché a suo dire nessuna donna greca avrebbe mai osato tanto. In quest’ultima frase sarebbe evidente un pensiero razzista nei confronti di una barbara, selvaggia che non si è mai conformata alle usanze del mondo civile greco. Il gesto di Medea non ferisce solo Giasone ma investe tutto il genere maschile che lui rappresenta. Infine, tra tutti i modi di uccidere i figli, lei sceglie il più esemplare e violento per farne un simbolo di ribellione al potere dell’uomo per dare prova fin dove possa arrivare la forza femminile. 58


II.3.2 Le fonti saggistiche. Page duBois, Il Corpo come metafora. Rappresentazioni della donna nella Grecia antica Page DuBois54 nel suo saggio esamina una serie di metafore con le quali gli antichi greci usavano riferirsi al corpo femminile, descrivendo una varietà di queste metafore e il loro mutare nel tempo. Attraverso un’attenta analisi della scrittrice mediante alcuni esempi presi dalla mitologia, si comprende maggiormente come, attraverso la metafora, essi vedevano la figura della donna e il ruolo che assumeva nella cultura classica. Nel V secolo a.C. il corpo femminile veniva associato alla terra, al campo, in quanto esso è fertile e fonte di vita come la terra. Il corpo della moglie, quindi, doveva essere coltivato, lavorato dal marito, per garantire buoni raccolti. In questo caso ci si riferiva metaforicamente alla nascita dei figli, che rappresentavano la raccolta nei campi. La metafora esprime un legame fondamentale sentito nella cultura del tempo, nei testi letterali, nelle pratiche religiose, nell’arte e nei racconti mitologici. Essa si ritrova in molte opere del V e del IV secolo a.C., periodo più produttivo a livello letterario in Atene. Ancor prima, anche dai testi omerici si può derivare il rapporto che vi è tra corpo femminile e la terra, ovvero l’analogia che ricorre tra il vaso di terracotta e il corpo della donna. La forma del vaso rappresenta le forme sinuose femminili, al vaso si associa la metafora di contenitore nel quale si introduce la terra, generosa e capace di produrre e conservare dentro di se la ricchezza; basti pensare che il vaso in generale veniva usato dagli uomini del tempo per tutto, anche per contenere le ceneri funerarie, poiché come la terra dona la vita essa accoglie anche i morti. Si sa bene che i poemi Omerici hanno un’ origine incerta; si pensa che nascano da una composizione orale e che i testi facciano riferimento ad una stratificazione di molte situazioni storiche: da quella micenea fino al mondo ellenico dell’VIII secolo a.C. Nelle opere di Omero la terra è colei che dà, che offre il cibo e che accoglie i defunti. Omero considera gli uomini come alberi che si sostituiscono gli uni agli altri. Un eroe 59


che cade in battaglia corrisponde alla caduta di un albero. Il seme viene piantato dentro la terra che lo riceve e lo nutre; essa però riceve anche semi promiscui e li alimenta tutti. Nell’agricoltura la terra deve essere di proprietà perché se ne possano raccogliere i frutti; allo stesso modo per l’uomo sono i figli, che gli assicurano una legittima discendenza. Egli infatti ha la necessità di assicurarsi dei figli propri ed il matrimonio combinato era un ottimo strumento per garantire le proprie origini. Per la donna, al contrario della terra, era vietata la promiscuità, la prole doveva essere identificabile. Nel mondo di Omero i figli non sono una proprietà, rappresentano l’immortalità delle proprie origini. Nel V secolo a.C. la cultura ateniese si trasforma radicalmente sia dal punto di vista politico che sociale; le vittorie contro i Persiani furono molto importanti in tale processo, che finì per mutare anche la collocazione della donna. Esse erano le garanti della cittadinanza, importanti per la discendenza maschile. Venivano custodite, tesaurizzate nelle famiglie senza maschi e donate ad uomini di buone origini o di valore e fama. In un mondo che stava cambiando socialmente, la metafora della donna associata alla terra che attraverso l’agricoltura rappresentava la riproduzione, viene riscritta e trasformata. L’enfasi per la terra generosa, capace di produrre e conservare dentro di se la ricchezza perfino dei corpi umani, si tramuta in slancio per la coltivazione. Secondo la DuBois, nel contesto della tragedia al tempo d’ Euripide, la metafora era stata sovraccaricata di significato e non rappresentava più il corpo, diventava piuttosto una rappresentazione arcaica, religiosa, politica. Le metafore toccate dai greci, flessibili e volubili, vengono messe in discussione dalla storia; la sfida più efficace alla metafora terra/corpo proviene dalla tragedia, che era essa stessa ad un tempo effetto e causa della democrazia. La tragedia nasce con la polis, il potere dell’aristocrazia viene spezzato e permette alla democrazia di affermare la propria esistenza come corpo di eguali. La città rappresentava l’ideologia, il coro era un corpo anonimo di cittadini che attraverso la poesia parlava, esprimeva le sue idee, dava 60


tono elevato alla tragedia. I personaggi che provenivano dai miti e dalle leggende rappresentavano il passato aristocratico, l’arcaicità della città; parlavano in forma semplice usando il linguaggio tipico della vita quotidiana di Atene. La tragedia cercava di risolvere la condizione tra il popolo e l’aristocrazia e rendeva possibile al primo di farsi esso stesso teatro, di agire nei confronti della politica sociale di ogni giorno. Per la città il vocabolario delle metafore ereditate dal passato, orientato alle famiglie, comprendeva anche l’analogia tra la terra e il corpo della madre. Se ella produceva bambini come piante, se la donna era come un vaso, un recipiente di terra che contiene e fornisce i beni, l’elaborazione della metafora femminile prende spunti nuovi, il campo è ulteriormente segnato, tagliato, arato dal marito. Questa superficie che egli rompe, apre e coltiva è il solco, così la metafora del campo diventa metafora del solco. Medea la rappresenta nell’episodio in cui Giasone mette in atto la prova impostagli dal re Eate per conquistare il vello d’oro: Giasone deve arare un terreno; per poterlo fare, prima deve domare dei feroci buoi; resili docili, incomincia ad arare seminando i denti velenosi di un serpente da cui nascono uomini armati che dovrà poi eliminare. L’attività dell’aratura è associata al rapporto sessuale con Medea e serve a Giasone per ottenere il vello d’oro. In altro “campo”, Eschilo, per esempio, usa l’ immaginario dell’aratura nella tragedia Sette contro Tebe55. Il coro, nel descrivere la terribile maledizione che pesa sulla casa di Edipo56 - ovvero di colui che, inconsapevole, torna alla casa paterna e si congiunge con sua madre associa il rapporto sessuale con l’aratura: il rapporto di Laio e di Edipo con Giocastra rappresenta la ripetizione della semina mortale, semi della terra che germogliano per farsi la guerra tra loro. L’odio tra Etocle e Ponicle è la battaglia dei primi uomini seminati da Giocastra, come la terra in cui furono seminati i denti di serpente che produceva guerrieri autoctoni. Giocastra nella tragedia rappresenta il solco già aperto una volta; il suo essere madre di Edipo e ripetutamente la madre dei suoi figli, inseminata sia dal padre che dal figlio; il suo essere terra arabile e 61


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suolo lavorato al contempo, tutti questi eventi la rendono contaminata: l’accoglimento del padre e poi del figlio rappresenta la corruzione. Edipo si acceca gli occhi con le fibule del vestito della madre e consorte; si toglie la vista in modo che, attraverso il sangue che cade come una pioggia nera, si cancelli il misfatto. Egli si identifica come padre che ha generato nel campo in cui lui stesso ha avuto origine. La metafora del solco è forzata fino al limite. Un’ altra metafora è quella della pietra, essa per la sua natura è impenetrabile per l’uomo, non può essere arata e rappresenta pertanto, metaforicamente, la verginità. Tuttavia vi è necessità di lavorare la pietra, di modellarla, renderla duttile è inserirla negli spazi adatti. La pietra non riproduce, ma viene resa pronta per ricevere come l’interno di un tempio. La pietra rappresenta il capovolgimento della terra fertile. Essa suggerisce le potenzialità incompiute della donna, il corrispondente in negativo della fecondità della terra; allo stesso tempo però suggerisce il suo potere di accumulare i beni della comunità, ruolo molto importante nella Grecia del tempo. Ulteriore analogia del corpo femminile o meglio dell’utero della donna è il forno, una similitudine usuale nel pensiero greco. L’aspetto della metafora non fa solo considerare i figli della madre come frutto della terra ma anche come cibo, idea che si fa coerente con il mito, per esempio, di Crono, che mangia i suoi figli, o quello di Relope, il ragazzo che viene cucinato e servito come pasto agli dei. La metafora del forno è analoga a quella della terra e del solco. Essa è congiunta con la riproduzione delle piante, immaginario agricolo che si accompagna al lavoro dell’artigianato e del cuoco. Qui il corpo della donna appare in modo inattivo, luogo che riceve il seme al suo interno e con il calore lo protegge e lo fa crescere come il cuoco fa cuocere il pane. Vi è dunque una riscrittura ideologicamente forte del corpo femminile associata all’agricoltura, rielaborazione che mantiene una certa continuità con la metafora della terra. Si definisce in un modo diverso la posizione della donna come spazio. La metafora del forno rappresenta un altro 63


stato rispetto alla figurazione del corpo femminile come un campo autonomamente fertile. Il forno è un opera dell’uomo, come il vaso è fatto di terra e di pietra ma prende forma grazie alla sua manualità. Il forno che viene collocato in casa è come una terra nel quale sono collocati i semi del contadino, uno spazio produttivo. Esso può essere considerato anche come un piccolo pezzo di terra al servizio del padrone. Lo storico del V secolo a.C. Erodoto57 allude metaforicamente ai poteri del corpo femminile, anche se vi sono tracce della metafora della terra nella sua rappresentazione della donna. Qui la donna è associata Fig. 30 anzitutto al grano, è colei che concepisce il preparato. Erodoto descrive il corpo femminile non come campo che produce, non come solco che deve essere arato dal marito, ma come un forno che cuoce la prole. Aristofane58, autore comico del V secolo a.C., si è servito molto della metafora del cuocere per alludere al rapporto sessuale, denotando l’organo femminile come un forno. Egli collega la metafora al piacere riproduttivo e al desiderio di una generazione generosa. Un’altra metafora che concorre a tale complesso semantico è quella del corpo della donna visto come superficie su cui scrivere, ovvero come tavoletta. Questa immagine rappresenta un nuovo significato, identificativo del ruolo assunto dalla scrittura nella cultura greca del V secolo a.C. Il corpo della donna rappresenterebbe dunque una superficie vuota su cui scrivere. La donna è deltos, il triangolo pubico 64


appunto, simile al delta di un fiume, ovvero al papiro che deve essere prima disteso per essere poi scoperto e scritto. La metafora della tavoletta è più vaga rispetto a quella dell’aratura; se l’aratro infatti lavora la terra e traccia il solco, la penna traccia semplici segni sulla tavoletta e questi rappresentano i semi. I segni sulla tavoletta indicano possesso e generano nuovi segni. È questo il significato di una cultura più lontana dalla produzione agricola primaria, in quanto la tavoletta risulta superficie passiva, solo pronta a ricevere, non capace di generare nuove lettere o nuova discendenza. Una rappresentazione che allontana la metafora della donna come terra feconda e autonoma.

II.3.3. Le fonti saggistiche. Fabio La Mantia, Salvatore Ferlita, Andrea Rabbito, Il Dramma della straniera, Medea e le variazioni novecentesche del mito Tra le tante tragedie greche, Medea è una tra le più discusse è analizzate nella storia della drammaturgia greca, ma essa rappresenta anche il più moderno dramma per vitalità e struttura. Esso ha offerto dunque sempre nuove forme di rappresentazione che si sono adattate in maniera spontanea ai linguaggi della società contemporanea. Il Dramma della straniera59 propone la scoperta di nuove rivisitazioni di Medea nel Novecento, soffermandosi sulle diverse forme espressive del teatro, della letteratura, del cinema. Medea si ritrova in una Grecia civilizzata; considerata una barbara, è isolata, lontana dalla sua terra natia e dalla propria famiglia; ha sacrificato il proprio linguaggio, le sue usanze i suoi culti. Tradita dal marito, denuncia il suo completo annullamento sociale. La sua calma apparente viene superata dallo slancio naturale delle sue origini quando, diffondendo terrore e uccidendo i suoi figli, intende vendicarsi contro Giasone. Secondo La Mantia60, nel coso dei secoli Medea sarebbe diventata un 65


simbolo di segregazione sessuale, vittima della politica e del razzismo. È la principessa venuta da lontano, la barbara che ha abbandonato tutto per dedicarsi a Giasone. Una donna senza città, priva di ogni diritto. Essa ha favorito la gloria del marito ma viene ripudiata. Tale ingratitudine, mescolata alla sua superbia, definitivamente convincono Medea a punire le offese subite. Una vicenda comune oggi, ma messa in scena nel 431 a.C. e che ha tormentato l’immaginario umano per secoli. L’opera di Euripide è stata realizzata in un’ epoca in cui gli uomini credevano, per diritto divino, di poter trattare tutti i barbari, cioè in non greci, come selvaggi senza dignità. Gli uomini potevano divorziare dalle mogli con una semplice dichiarazione di fronte ad un testimone anch’egli di sesso maschile. Al tempo della sua prima rappresentazione, la tragedia di Euripide venne assistita da circa diciassettemila spettatori per lo più uomini, da cui sicuramente dipese molto il terzo posto di Euripide al concorso, ovvero l’opera venne accolta con perplessità e riserve di vario genere. Essa creava scalpore in quanto una moglie, per giunta barbara, aveva punito il marito ma, di più, nell’opera di Euripide sarebbe possibile ravvisare una critica aperta all’uomo greco, convinto della sua egemonia su tutti gli altri popoli. Medea è una donna arcaica di natura, capace di suscitare benevolenza ma anche terrore, di far provare turbamenti. Secondo l’analisi di La Mantia, ciò che ha innescato la vendetta di Medea contro Giasone sono il suo giuramento violato e la discriminazione sessuale. I delitti di Medea non vengono interpretati come atti di malvagità, ma come gesti di rivalsa nei confronti di un uomo che non ha mantenuto le sacre promesse del matrimonio davanti agli dei, e che non la considera nelle decisioni familiari. Medea uccide la sua discendenza e gli impedisce di averne altra. Il suo piano è mirato a cancellare la vanità e i sogni del marito alla quale lei si era affidata e che adesso l’abbandona e l’umilia. Sarebbe inoltre evidente come nell’azione di Medea vi sia anche un desiderio di rivincita legato alla sottomissione sessuale. Per secoli la tragedia ha rappresentato una storia di gelosia che spinge una donna 66


ad uccidere i suoi figli in un gesto incomprensibile, che ha condannato Medea come folle e madre snaturata. Ma l’autore smentisce tutto ciò, sostenendo che essa non è pazza ma straordinariamente razionale. Nei suoi ragionamenti, nell’ideazione del suo piano, Medea ragiona, pensa ad ogni minimo dettaglio e non trascura nulla. Viene pervasa da due facoltà, la razionalità e la voglia di vendetta, che si scontrano l’una con l’altra. Medea non è una madre priva di affetto, anzi, in molti passi si rivolge con amore ai suoi bambini. Soltanto quando guarda i figli somiglianti al padre e ne riconosce la paternità i suoi sentimenti di vendetta prendono il sopravvento. Lei vuole eliminare non i figli ma ciò che essi rappresentano: il legame con Giasone di cui nega la paternità. Di qui, La Mantia ci propone moltissime interpretazioni teatrali del Novecento che mostrano come Medea abbia preso direzioni nuove è sempre più vicine alle nostre problematiche sociali. Tra le più interessanti elenchiamo: La Médée (1946) di Jean Anouilh61, opera originale e moderna che fonde le fonti euripidee e senechiane. Medea è qui un’ emarginata che vive in un carrozzone insieme alla nutrice; dopo aver ucciso i suoi figli tormentata dal rimorso si toglierà la vita. Nella trasposizione russa di Nikolay Okhlopkov62, Medea (1961) è vittima sociale, anche se il suo personaggio ha assunto analogie con Stalin, in quanto entrambi georgiani e assassini dei propri figli. La Medea (1977) di Dario Fo e Franca Rame (v. sopra), contenuta in un breve monologo di cinque pagine, sposta il personaggio di Medea ad una visione femminista di vera emancipazione. Il monologo interpretato dalla Rame è una brillante messa in scena comica e ironica fatta di giochi di parole, in un dialetto tosco-umbro; un’esposizione che coinvolgeva il pubblico in un atmosfera simpatica e umoristica .L’opera poi si chiude con l’infanticidio che rappresenta l’unico modo per mettere fine ai soprusi subiti dalla protagonista, che finisce per rappresentare l’intero genere femminile. Nella Medea (2004) di Emma Dante63 la protagonista è ancora incinta, 67


non è ancora la madre che ucciderà i suoi figli. La regista siciliana, attraverso un’interpretazione mescolata ad elementi greci e cristiani, tra molteplicità linguistiche ci offre una denuncia della tradizione culturale misogina mediterranea. La Madre. ‘I figli so piezze ‘i sfaccimma (2010) di Mimmo Borrelli64 trasforma Medea in un dramma campano ambientato in un clima di malavita. Medea è la figlia di un camorrista; Giasone, interpretato dallo stesso Borrelli, è un marito brutale boss di una cosca. Medea non uccide i suoi figli ma li svezza segretamente con il vino, deformandoli fisicamente e mentalmente. Ignaro della loro identità, sarà Giasone stesso ad ucciderli. African Medea (1968) di James Magnuson65, è una storia ambientata nella prima parte dell’Ottocento, fedele al modello euripideo. Le azioni di Medea si caricano di nuovi significati, l’uccisione dei figli acquisisce un connotato politico, razziale; i figli vengono uccisi perché per metà bianchi e per metà portoghesi. Se ogni azione progressista necessita di un sacrificio, un azione tremenda è fondamentale per la riuscita finale. Medea infine abbandona la scena da una porta con i figli morti in braccio. Frederick Guy Butler66, crea una Medea (Demea) d’ispirazione euripidea ma in cui si trattano i forti temi dell’intolleranza nei confronti dei popoli che sono stati colonizzati in Sud Africa. I coloni, pur essendo in una terra che non gli appartiene, pretendono di comandarla ed applicare le loro leggi. Medea è Demea, principessa di una tribù nera; Giasone è il capitano di una colonia, l’ufficiale britannico Jonas Barker. I figli si chiamano George e Charlie, nomi di origine occidentale. Si nota già da qui la prevaricazione patriarcale colonialista. Il matrimonio con la principessa della tribù permette al capitano accesso a nuove e lontane reti commerciali sconosciute e proibite all’uomo bianco. Johannes Cristian Kroon, a capo di una spedizione, rappresenta il Creonte di Euripide; egli è un Boero razzista ed ambizioso di potere. Nelle prime sequenze 68


Figg. 31, 32

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dell’opera vengono ripercorsi i momenti fondamentali della relazione tra Demea e Jason, una storia che oltre tutto ripercorre le condizioni politiche e sociali del sud Africa. Questi, partendo per una spedizione multirazziale, viene plagiato e condizionato da Kroon, che lo invoglia a scacciare tutti gli uomini di colore e lo allontana dalle sue idee iniziali di pace e collaborazione tra i popoli. Decidendo cosi che la spedizione sarebbe continuata solo con i bianchi, Jason allontana la moglie e i figli. Demea, che aveva abbandonato il suo popolo per seguire i suo sposo, rimasta sola, abbandonata e tradita, costretta ad assistere al nuovo matrimonio di Jason con la figlia di Kroon, come nel dramma Euripideo intraprende gli stessi passi di Medea che, inizialmente offesa, si mostra remissiva e sconfitta ai suoi nemici. Il momento più significativo avviene durante le nuove nozze di Jason. Tutti sono vestiti a festa, Demea sembra la più felice. Ma improvvisamente si spoglia dei suoi abiti occidentali ed indossa gli abiti tradizionali della sua tribù. È questo il momento simbolico in cui si avvia la vendetta progettata insieme al popolo degli Abomena. La donna aveva mandato a Kroon dei barili con finta polvere da sparo come dono di nozze da parte sua e dei suoi figli. Quando gli Abomeni sferrarono il loro attacco uccidendo tutti i presenti, solo Jason viene risparmiato in modo da poter assistere all’assassinio dei suoi figli da parte di Kroon che, nel momento in cui si accorge della sabbia nei barili al posto della polvere sparo, uccide senza pietà i due innocenti. Com’è grande il desiderio di Medea di vendicarsi contro l’egoismo di Giasone e del popolo greco, cosi è forte il desiderio di Demea di farsi giustizia, cercando di riscattare se stessa e il suo popolo dalla crudeltà dei coloni. Medea e Demea agiscono secondo un medesimo impulso segnato da prevaricazioni di ogni tipo, accumulando rabbia e risentimento che si trasformano in azioni decise e fredde. Demea vince la sua lotta contro i bianchi attraverso l’unico modo che conosce: una violenza più eminente della loro. Demea però non fugge su di un carro ma rimane ad aspettare il suo sposo, unico sopravvissuto a quella strage. Jason, ora privato di ogni bene, viene 70


frustrato e punito per aver tentato di stabilire un nuovo ordine coloniale. La punizione di Jason non è casuale, perché pone l’uomo bianco allo stesso livello dell’uomo nero; egli viene trattato alla stessa maniera. In questo contesto la morte che ha preso tutti diventa un elemento che unisce bianchi e neri, tutti sono morti alla stessa maniera, senza discriminazione. Il sud Africa diventa il vero eroe dell’opera di Butler. Il messaggio dell’autore si proietta verso una Demea che si vendica e punisce il suo nemico in modo da riscattare i mali subiti da lei e dai popoli africani, affinché i diritti non vengano estesi a tutti i popoli a tutte le culture. Salvatore Ferlita67 nelle sue pagine tratta la Medea di Corrado Alvaro. Egli scorge in questo personaggio una modernità paragonabile a una donna del nostro tempo, donna appartenente a una cultura del sud Italia, come se Alvaro si fosse ispirato a una femminilità della sua terra, quasi una semplice popolana, donna devota alla casa, alla famiglia e soprattutto al marito, Medea perde le spoglie di donna spregevole, di maga capace di terribili sortilegi. Come una tipica donna del sud si preoccupa di compiacere i desideri del marito, di mantenere l’ordine in casa. È tutt’altro che una principessa della Colchide. Dal punto di vista di Ferlita la vera riforma nella tragedia di Alvaro non è legata all’aspetto diverso di Medea ma maggiormente alla violenza sui suoi figli. Nel dramma, contrariamente dalla versione euripidea, lei non uccide la sua prole per vendicarsi del marito, ma in quel terribile gesto nasconde un atto necessario: salvare i figli da un orribile destino. Il suo infanticidio viene interpretato dunque come un grande sacrificio dettato da un inconcepibile amore. Medea li ucciderebbe in un impeto disperato di bene materno. Nell’ attimo in cui si trova di fronte al pericolo riaffiora in lei la sua natura orgogliosa, preferisce dare la morte ai figli pur di non condannarli ad una vita di patimenti, umiliazioni e di esilio o, ancora peggio, vederli uccisi dalla mano dei suoi nemici, un popolo che l’ha sempre osteggiata. È dimostrato nelle pagine della Lunga notte di Medea che ella perde del tutto l’aura malefica che c’era 71


stata proposta nelle varie versioni storico letterarie; ora Medea è una donna che accetta con rassegnazione la condizione di straniera, la “barbara” bersaglio del potere politico. Ma nel momento in cui si trova davanti alla folla accanita contro lei e i suoi figli, preferisce uccidere ciò che ha generato pur di non offrire al popolo di infierire anche sulla vita di due innocenti. La “straniera” per quanto tale è istintivamente vista agli occhi del popolo come pericolosa, da temere, e per questo motivo Fig. 33 è lecito emarginarla dalla comunità. Il disdegno nei suoi confronti viene acuito maggiormente dalle parole di Creonte che la manda via dalla città; questo non fa altro che aumentare l’insofferenza nei confronti di un personaggio in nessun modo integratosi in una società chiusa nelle sue regole, nelle sue leggi, nella sua cultura. Dal punto di vista di Ferlita, Alvaro riesce a mutare in un certo senso le colpe di Medea, l’assolve dalla colpa dell’infanticidio che trasforma in una necessità inevitabile, condotta dal popolo a macchiarsi di tale delitto. In questa interpretazione Medea è resa quasi innocente. Accetta la sua condizione senza ribellarsi, non invoca gli dei, non usa i suoi poteri, non fa nulla di malefico. Ha perso la sua vera natura, una donna della sua potenza e fama subisce senza reagire. Solo nel momento in cui uccide i suoi bambini ci sembra di riconoscerla, ma anche in questo gesto vi è da parte dell’autore il volere discolpare la madre infanticida per scaricare il male verso la comunità corinzia. E nell’imminenza della 72


fine più atroce che Medea arma la sua mano e non più l’ossessione di ferire Giasone. L’ atrocità conosciute durante la seconda guerra mondiale hanno immancabilmente influenzato il pensiero di Alvaro, che ha trasformato e riadatto la vicenda di Medea in un forte messaggio sociale, trattando argomenti sulla discriminazione, il pregiudizio e l’intransigenza, conosciuti e vissuti durante gli anni del Nazismo. Medea diventa un simbolo, un personaggio perfetto per denunciare una società corrotta. Andrea Rabbito68 nel suo saggio tratta la Medea di Pier Paolo Pasolini69. Con Medea Pasolini manifesterebbe maggiormente la profonda lontananza tra il nostro mondo moderno e quello dei miti della tragedia greca. Questa lontananza va a creare un’ impossibilità di dialogo tra i due mondi, riflessione dello scrittore che analizziamo nel paragrafo successivo.

II.4 Le fonti cinematografiche Il personaggio di Medea come costatato nell’immaginario letterario, ha occupato un posto di spicco ed ancora oggi continua a godere del suo successo. La Medea di Euripide è stata fonte d’ ispirazione e modello per le più variate interpretazioni, personaggio capace di tante sfaccettature, è stata madre crudele, snaturata, donna abbandonata, argomento di approfondimento per analizzare le più intime passioni umane, paladina del femminismo nel XX, è stata eletta come simbolo delle minoranze sottoposte a maltrattamenti e intolleranza da parte delle società culturali più elevate e dominanti. Medea così ha ispirato l’arte, la poesia, la musica, la danza, il teatro ed anche il cinema. Nel 1969 Pier Paolo Pasolini ha creato la trasposizione cinematografica della tragedia di Euripide. Nel 1978 un’altra versione filmica di Medea è stata realizzata da Jules Dassin70, nel 1988 Lars Von Trier71 crea una variante filmica per la televisione, dove la vicenda è inserita in un mondo remoto e quasi senza tempo. Il regista messicano Arturo Ripstein72 nel 2001 con 73


Asi es la vida ha messo in scena una rivisitazione della Medea di Seneca ambientando la storia nei quartieri di Città del Messico, in una versione che rivela la crudezza della malavita organizzata. Un’ ultima versione cinematografica di Medea è Médée Miracle del 2007, realizzata dal regista Tonino de Bernardi73, film prodotto in Francia che propone una versione contemporanea del personaggio.

II.4.1 La Medea di Pier Paolo Pasolini Alla fine degli anni Sessanta il celebre artista si accosta alle tragedie greche sviluppando un progetto che comprendeva la realizzazione di una trilogia. Essa annoverava il mito di Edipo re di Sofocle(1967), Medea di Euripide (1969) e Appunti di un Orestiade africana, ispirata dalla trilogia Orestea di Eschilo (Agemennone, Coefore, Eumenidi) opera di grande successo che condusse il drammaturgo alla vittoria del concorso Ateniese del 458 a.C. Di quest’ultimo progetto che concludeva il lavoro di Pasolini ci rimangono solo alcuni appunti filmici prima della sua prematura morte. Se l’intento era di cimentarsi, come avveniva tra i drammaturghi di età classica nella realizzazione di una trilogia tragica, Pasolini ha voluto realizzare un’opera filmica che andava ad unificare le tragedie di tre grandi artisti come Sofocle, Euripide ed Eschilo. Medea ha rappresentato anni di lavoro intenso, in quanto Pasolini può considerarsi autore dei suoi film nel senso più stretto della parola. Nelle sue opere cinematografiche vi è sempre una linea psicologica molto forte, spesso anche scomoda. Egli mette in discussione la vita borghese, discute di religiosità, esprime il suo dissenso sulla nascente società dei consumi, con giudizi anche radicali, suscitando molte polemiche. Il cinema di Pasolini è pensato come pochi. In lui era viva una sempre più approfondita ricerca espressiva. Medea è un personaggio non indifferente, utile insieme a tutti i personaggi che la circondano per affrontare e discutere la società in cui il regista si trova. Si parla della 74


violenza, dei miti e dei falsi miti, del disadattamento dei popoli primitivi all’interno della società moderna. Nelle sue opere, anche attraverso le scenografie, le inquadrature e i costumi vi è una sensibile riflessione sulla condizione moderna, fatta di gesti semplici e decisi, una ricerca di essenzialità e di forza espressiva insieme. Medea è stata interpretata da Fig. 34 Maria Callas74 e Giasone dall’atleta Giuseppe Gentile75. Il film è stato girato per le scene esterne in Turchia, in Siria ed a Grado. La scenografia è stata curata da Dante Ferretti. Per i costumi Pasolini si è affidato alla genialità di Piero Tosi76 che ha contribuito a rendere la produzione di questo film epica ed insuperata. Il film inizia con l’introduzione dei due mondi in cui vivono Medea e Giasone. Pasolini si allontana dalla struttura drammatica di Euripide e mostra un affresco della vita di Medea in Colchide e di Giasone in Grecia, verità diverse che finiranno per separare i due personaggi, contrasto che ha determinato un’incomunicabilità continua ed insolubile. I due, pur unendosi fisicamente, non sono stati mai capaci di unirsi spiritualmente rimanendo sempre estranei l’uno all’altro. Rabbito ne fa un’accurata analisi ponendo alcune questioni molto interessanti. Il centauro Chirone viene visto come un Virgilio pagano che conduce verso le risposte alle domande che ci si è posti. Tutti i suoi discorsi sono rivolti a Giasone all’inizio del film, e nella seconda metà del film quando egli rende cosciente Giasone della tragedia che lo attende. Essi ci permettono di capire maggiormente 75


cosa vuole trasmettere Pasolini nel suo film. Nella prima parte del film, il centauro fa tre discorsi al Giasone bambino, adolescente ed

Fig. 35

adulto. Ad essi corrisponde un mutamento linguistico di Chirone che è anche mutamento del suo aspetto fisico, mentre Giasone rinnova la sua immagine di volta in volta attraverso la crescita. Il primo discorso è strutturato secondo una sapere arcaico che coincide con la fase infantile di Giasone; il secondo discorso è articolato secondo un sapere classico che corrisponde alla fase adolescenziale; il terzo è articolato secondo un sapere moderno, conforme con la fase adulta. Nel primo discorso del centauro a Giasone viene svelata la verità sulle sue origini, cosa è accaduto prima della sua nascita. La figura mitologica parla in un linguaggio arcaico, la storia che egli racconta risulta complicata ed incomprensibile, tanti sono i legami e gli intrecci che legano tutti i personaggi e i nomi pronunciati, rendendo il discorso difficilmente seguibile. Tutto è reso tale in modo da poter rappresentare al meglio la logica con il quale l’uomo antico si orientava, rappresentando il mondo in una fabula. Una logica che si dipana attraverso la fantasia, allontanandosi dalla lezione scientifica. Il mito, differenziandosi dalla 76


favola, cercava di spiegare l’esistenza umana, rispondendo a tutti quei quesiti di carattere esistenziale dell’uomo. Stando al saggio di Rabbito quindi Pasolini cercherebbe di mostrare una mente diversa da

Fig. 36

quella moderna, un pensiero più innocente, fantastico ed ingenuo, una mente primitiva. La fanciullezza di Giasone corrisponde all’antichità dell’umanità e il centauro è la proiezione dell’ideale dell’uomo antico. Nel secondo discorso Giasone è un ragazzo ormai; intento a pescare ascolta il centauro che sembra continuare il ragionamento precedente. Questo passaggio è importante perché la crescita di Giasone simboleggia anche il mutamento del pensiero del Centauro. Il centauro tra l’altro nelle inquadrature è ripreso a mezzo busto, la figura mitologica va svanendo e va prendendo sembianze umane; tale tecnica è usata da Pasolini per far abbandonare gradualmente l’immagine fantastica e mitica che caratterizzava il personaggio. Il discorso del centauro adesso è più razionale egli ha abbandonato il mito, adesso egli trova la verità nella ragione. Nel terzo discorso del Centauro Giasone è un uomo: ha perso le sue sembianze mitologiche, è vestito e non porta più la barba e i capelli in disordine. Durante il discorso di Chirone egli si mostra per la prima volta interessato e partecipe. In quest’immagine moderna il Centauro attira la sua attenzione, i due parlano lo stesso linguaggio, 77


sono vicini e sono complici. Giasone non si mostrava interessato ai due primi discorsi del suo istitutore perché questi non rappresentavano la razionalità, quella logica non appartiene a Giasone, egli è simbolo dell’uomo moderno, colui che non vuole intendere la spiritualità religiosa che sovrastava la cultura arcaica e classica. Giasone emblema della modernità da attenzione a ciò che è reale, non ha interesse per le fantasie che non riconosce. Nella seconda parte del film Giasone incontrerà di nuovo Chirone; egli gli appare nella forma mitologica e umana, spiegandogli che così razionale non potrà capire Medea la quale fa parte di un mondo arcaico per lui incomprensibile. Nonostante in tenera età avesse conosciuto il mondo del sacro, egli non gli appartiene più e cosi non può capire lo spirito di Medea come noi moderni non possiamo capire il mito, la tragedia e Medea stessa. Questa, invece, rappresenta la cultura legata al divino, al sacrificio, all’antichità. Il centauro fa capire a Giasone che tutti i riti religiosi, quel sapere del passato che ha conosciuto nell’infanzia sono comunque importanti perché fanno parte della storia delle sue origini. Secondo Rabbito, quindi, Pasolini vuole farci capire attraverso Medea che l’uomo moderno ha modificato nei secoli la sua cultura e le tradizioni, non riuscendo più a comprendere il mondo arcaico del mito, e di conseguenza anche quello classico dove si sviluppa la tragedia. Ciò è avvenuto inesorabilmente e si è acuito con il pensiero illuminista e materialista. Pasolini però mette in evidenza che nulla del passato è stato dimenticato, una sua reminiscenza è rimasta nell’animo umano, cosi come è sopravissuta nel nostro intimo l’alterità offerta dal mito e dalla tragedia. Nel mondo del centauro è in quello di Medea, antico e mitico, il sacrificio è un’azione di grande valore. Colui che viene offerto in sacrificio ha la possibilità di raggiungere uno stadio sacro, anche a coloro che prendono parte al rito viene data un’ importante occasione di vivere l’imminente e profonda importanza che vi è nel rito sacrificale, anche se per questi ultimi si tratta di un esperienza temporanea.

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Fig. 37

Essere sacrificati è un atto di grande coraggio e Pasolini nel film ci mostra un giovane sorridente felice di andare incontro al suo destino; egli pare non avviarsi verso la morte ma, anzi, è contento perché si

Fig. 38

introduce al mondo divino. La paura c’è, solo in quanto pauroso è il trapasso dalla vita terrena a quella celeste. Momenti di gioia, di 79


angoscia e violenza si mescolano nell’atto sacrale coinvolgendo tutti i partecipanti; tutti sono interessati all’evento sacro. Ma in questa naturalezza l’uomo moderno non percepisce la partecipazione emotiva che appassionava l’uomo antico. Egli percepisce solo l’atto brutale, quello della violenza. Non vede alcuna prospettiva religiosa, poiché l’assassinio è per l’uomo moderno l’atto più violento che si possa compiere. Per Medea, invece, e per la cultura arcaica che Fig. 39 ella presiede, il sacrificio è la generazione del divino. L’offerta di vita è un mezzo attraverso cui la vittima e i partecipanti si allontanano dalla loro condizione terrena per raggiungere la completezza. Tale ricerca della totalità, il potere di superare i propri limiti, sono necessità particolarmente sentite nella cultura antica, che trovavano il loro compiacimento nel rito sacro. Quando Medea sparge le ceneri del giovane sacrificato ella dice: «Dai vita al seme e rinasci con il seme»77. Anche se la morte è un momento violento, la ciclicità della vita è associata ad un senso di unità consacrata che rende la morte origine d’ incessanti cambiamenti. Essa non è considerata la fine dell’esistenza ma il passaggio per una vita migliore in costante armonia. Quest’idea dell’ essenza vitale è vivida nella cultura di Medea: il sacrificio è un atto importante e di estrema necessità, fa parte della sua concezione di vita. Per Rabbito, Pasolini dispone lo spettatore a vedere ed a vivere l’uccisione dei figli attraverso gli occhi arcaici e religiosi della sacerdotessa della Colchide. Il suo delitto non deve indurre a pensare che Medea sia una donna tremenda; lei ci appare tale perché non apparteniamo alla sua cultura, alle sue credenze, al suo modo di pensare. Medea è consapevole di trovarsi in 80


una terra straniera. Nonostante Giasone l’abbia condotta in una terra civile dove è forte il concetto di giustizia, e lei sarebbe capace di seguire le regole di questa terra, la sua natura le rimane intimamente legata alle sue tradizioni che la conducono ad agire secondo la sua istruzione. Perciò bisogna interpretare le azioni di Medea non solo come atti disumani, ma comprendendo la natura del suo essere, l’infanticidio sarebbe dunque per Medea un sacrificio, come lei stessa afferma nella tragedia: «Bambini entrate in casa. E se a qualcuno non è lecito assistere ai miei sacrifici ci pensi lui: la mia mano non tremerà». Medea ancora afferma:«passeranno ad un altro tipo di esistenza»78. Per Medea i figli non muoiono definitivamente, essi chiudono il loro legame con la vita terrena per avviarsi in un cammino che li porti ad una vita nuova e diversa. L’uccisione dei figli assume per noi aspetti inaccettabili, ma per lei il gesto è intriso di spirito arcaico e di senso molto importante. Prima del fatale evento, pertanto, lava e veste i bambini con una tunica bianca, azione che rimanderebbe ai preparativi sacri di un rito di purificazione; le azioni di Medea sembrano un cerimoniale, un atto necessario e giusto. Pasolini attraverso genio e sensibilità non ha voluto raccontare solo un dramma della mitologia greca, egli segna, piuttosto, un potente legame tra leggenda mitica e brutale con la realtà della sua epoca fredda e sovvertitrice (siamo nel 1969). Tra l’altro, in quegli anni in Italia vi era molta povertà e l’immigrazione era un evento attuale. Pasolini divulga e mette in evidenza il dolore, lo smarrimento e la confusione

Fig. 40

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che si prova quando si lascia la propria terra; affronta, inoltre, con profondità il problema dell’incomunicabilità tra culture diverse. Nulla è dato per scontato, ogni dettaglio del film è stato curato nei minimi particolari. Di grande importanza è stata anche l’interpretazione di Medea da parte di Maria Callas, cantante lirica che da poco, dopo tanti anni, aveva terminato la sua relazione con Aristotele Onassis79, che per motivi di convenienza aveva finito per sposare Jacueline Lee Bouvier80 vedova di John Fitzgerald Kennedy81, all’epoca presidente degli Stati Uniti d’America. La Callas più di chiunque altra era adatta ad interpretare quel ruolo, poiché sulla sua pelle aveva vissuto il dolore dell’abbandono. Pasolini era attento ad ogni particolare; non poteva sfuggirgli l’occasione di far interpretare la parte ad una donna che aveva provato, in tutto o in parte, ciò che aveva provato Medea. Se l’interesse del regista era di rendere ogni cosa il più reale possibile, sicuramente la sua vicenda biografica ha permesso alla Callas d’ immedesimarsi nel personaggio nel migliore dei modi. Oltretutto ella apparteneva a quella categoria di attori capaci di diventare fisicamente come il personaggio da interpretare. Se oggi infatti si pensa a Medea ed al suo aspetto, nel nostro immaginario s’impone, più di altre, la figura di Maria Callas.

II.4.2 La Medea di Lars Von Trier La Medea di Lars Von Trier è un film per la televisione realizzato nel 1988. La direttrice del dipartimento teatrale della Danmsrks Radio82, che aveva già lavorato per una rappresentazione teatrale sulla Medea di Euripide riscuotendo successo, aveva proposto al regista di collaborare per una rappresentazione televisiva, su sceneggiatura scritta da Carl Theodor Dreyer83, il quale non era riuscito a giare il film. Nel 1965 aveva scritto la sceneggiatura e sua intenzione era di avere, vedi caso, Maria Callas come interprete di Medea. Il progetto poi fallì per lo 82


scarso interesse mostrato dai produttori. Tale sceneggiatura rappresenta l’ultima opera di Dreyer, che morì tre anni dopo. Nella Medea di Dreyer vi è una trasformazione evidente rispetto all’originale testo di Euripide, anche se, comunque, egli voleva rimanere legato alla tradizione mitologica. La sua sceneggiatura elimina tutti gli elementi soprannaturali, rendendo la rappresentazione il più reale possibile. Un’altra modifica comprendeva l’incontro tra Medea e Giasone in un inedito e nostalgico ricordo del lontano amore che per qualche breve attimo li aveva travolti. Scena che probabilmente ha influenzato Pasolini oltre alla scelta dell’attrice protagonista, poiché nei carteggi di Pasolini è stata ritrovata una copia scritta a macchina ripresa dalla sceneggiatura di Dreyer. Il drammaturgo elimina tutti i tratti demoniaci di Medea. L’infanticidio è realizzato in una maniera molto delicata: i bambini sono avvelenati con una Fig. 41 pozione zuccherata, dopo che Medea li avesse addormentati cantando loro una ninna nanna. Ciò che è messo invece in forte rilievo è il suo orgoglio. Del dramma di Euripide sono presenti tutti i passi proto femministi, quelli in cui la principessa sottolinea la sua condizione di donna e straniera. Von Trier non mostra interesse per la mitologia greca, ma poiché stimava molto Dreyer, che considerava il suo maestro spirituale, decise di accettare un’offerta che gli consentiva di poter interpretare ed omaggiare la sceneggiatura della sua guida. Lars Von Trier usò molto il materiale del maestro ma non si limitò a seguirne la sceneggiatura: ne prese spunto creando una sua personale interpretazione. Il risultato finale è un film che rappresenta a pieno lo stile cinematografico del 83


regista. Lo stesso Von Trier all’inizio del film edita una frase :«Questo non è un tentativo di fare un film alla ʽʽDreyer’’ma, nel pieno del rispetto del materiale, un’ interpretazione personale e un omaggio al maestro». A differenza di Dreyer, che voleva seguire più strettamente il testo di Euripide, inserendo anche la presenza del coro ed ambientando il film in Grecia, Von Trier ambienta il film nel Nord Europa, nello Jutland, collocando la storia in luoghi suggestivi che sembrano senza tempo. Elimina il coro e riduce il dialogo ai minimi termini. I personaggi comunicano attraverso molti primi piani in cui è forte il senso del drammatico; le atmosfere sono torbide e misteriose, le immagini e la luce, fondamentali per tutto il film, esprimono molto più di tante parole. Di stile dreyeriano sicuramente è la recitazione arida, quasi sussurrata, e la preferenza per i primi piani dei personaggi, dai volti espressivi, inquadrati obliquamente, dal

Fig. 42

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basso verso l’alto, quasi una ripresa delle tecniche del cinema muto. Il film è stato girato in video, poi trasportato in pellicola e successivamente riportato in video, fino a conferire al film un aspetto particolare. La fotografia sgranata color seppia, ad esempio, e le riprese mosse, realizzate a mano, hanno dato al film un aspetto irreale. Medea si muove tra primi piani e fantastiche inquadrature paesaggistiche, dall’aspetto selvaggio. Tutto è accompagnato dal fruscio del vento e soprattutto dall’acqua, una componente molto importante nel film. La narrazione ha inizio con Medea che emerge dall’acqua. Quando raccoglie le bacche velenose per Glauce, si trova in una palude dove Creonte la raggiunge. L’acqua è usata anche nelle inquadrature come uno specchio, elemento acquatico associato a Giasone e al suo ruolo di conquistatore. Essa è presente in tutto la pellicola in maniera quasi ossessionante. L’intento di Von Trier era di creare un aspetto ancestrale dove dominasse la natura selvaggia. Tutto si lega all’ambiente, che rimanda a sua volta alla sacralità. Diversamente da Dreyer, che voleva rendere la morte dei bambini meno brutale rispetto a quella d’ Euripide, Von Trier, al contrario, la rende più brutale e cruda possibile. Inconsapevolmente, il regista si avvicina in tal modo all’aspetto originario del dramma, pur non avendo nessun interesse per il mondo classico. Medea è interpretata da Kirsten Olsen84, che già aveva avuto la parte nella rappresentazione teatrale di Brigitte Prise85, la parte di Giasone è Stata interpretata da Udo Kier86.

II.4.3 La Medea di Julias Dassin: A dream of passion Il film di Jules Dassin si basa su un episodio accaduto nel 1961. Una donna americana, Joanita Baker, che abitava ad Atene aveva lasciato il suo paese per seguire il marito, ma non sopportando più i suoi continui tradimenti uccise i propri tre figli. Questo evento tremendo indusse i 85


giornali ad etichettare la donna come “La Medea americana”. Quindici anni dopo Dassin, sposato con l’attrice greca Melina Mercouri87, la quale stava lavorando ad una produzione ateniese su Medea, venne ispirato da tale evento di cronaca; nacque così l’idea di realizzare un film su Medea, imponendosi di interpretare in tal modo l’incontro tra mondo antico e moderno. La pellicola esplora pertanto l’effetto della cultura maschilista sulle donne, secondo una lettura in chiave femminista. La protagonista Maya, interpretata da Melina Mercouri, è un’ attrice greca molto famosa all’estero che, avendo vissuto per molto tempo lontana dal suo paese si sente una straniera. Essa è stata ingaggiata per recitare nel teatro di Atene la parte di Medea. Maya non riesce ad avvicinarsi profondamente al suo personaggio. Non riuscendo a relazionarsi con la vera natura di Medea, il regista, anche per una trovata pubblicitaria, frustrato dall’incapacità dell’attrice, organizza un

Fig. 43

incontro con Brenda Collins, interpretata da Ellen Burstyn88, una donna americana, quest’ultima, che si trovava in carcere per aver ucciso i propri figli, vendicandosi in tal modo con il marito che l’aveva tradita. Nel 1978 il lavoro di Dassin è stato nominato per il Golden Globe come miglior film straniero ed è stato anche nominato per la Palma d’oro al festival di Cannes. 86


II.4.4 La Medea di Arturo Ripstein: Asi es la vida Il film di Arturo Ripstein riprende i tratti della Medea di Seneca in una chiave moderna lontana dai classici canoni. Esso è ambientato nei poveri sobborghi di Città del Messico. Il suo stile è molto essenziale, gli attori danno ai propri personaggi personalità forti ed intense, raccontando un tratto realistico della malavita messicana. Medea è Julia, interpretata da Arcelia Ramìrez89; Giasone è Nicolas, un giovane belloccio interpretato da Luis Felipe Trovar90. Anche Julia come Medea abbandona tutto per seguire Nicolas. In quest’ambiente povero e crudo dove predomina la legge dei più forti, Julia è una ragazza che pratica la magia e l’aborto clandestino. Quando Nicolas l’abbandona per sposare una donna più giovane, tra l’altro figlia del boss del quartiere, Julia si sente distrutta. La sua vendetta sarà spietata; il momento in cui lei uccide i figli è rappresentato in una maniera brutale alla stregua della Medea di Seneca. Julia pugnala il primo figlio in bagno; lo spettatore non vede direttamente la scena ma soltanto il coltello insanguinato; procedendo nella sua vendetta, trascina il corpo del figlio morto fuori casa, dall’alto di una gradinata lo mostra al marito atterrito e davanti a lui compie il secondo infanticidio. Il gesto non è visibile perché nascosto dalla figura di Nicolas che vi sta di fronte, ma ad ogni modo è percepibile l’orrore del gesto. L’odio estremo di Medea viene rappresentato in maniera diversa rispetto ad altre versioni del Novecento. Medea non è vittima né del colonialismo né del neocapitalismo, non è un’emarginata, non si ribella ai più ricchi ed ai più forti; è, piuttosto, una diseredata come lo è Nicolas, come lo è il boss del quartiere o come lo sono le ragazze che ricorrono da lei per abortire. Ripstein mostra apertamente al pubblico un mondo duro, quasi spietato, fatto di gioie e dolori, in cui si lotta per sopravvivere al costo della vita. Il personaggio di Medea rappresenta solo un appello all’antico per rivelare al pubblico una società nascosta, lontana dalla nostra realtà. Si apre cosi una finestra ad una realtà fatta di povertà che conduce alla malavita. Un film inquieto, dove la gelosia 87


diventa un’ ossessione, dove il risentimento e la rabbia prendono il sopravvento su ogni cosa in una realtà misera e tormentata in cui non esiste riscatto.

II.4.5 La Medea di Tonino De Bernardi: Médée Miracle La Medea di De Bernardi è una giovane immigrata dell’est Europa in Francia. Il film è ambientato nei banlieu di Parigi. Medea è Irene, interpretata da Isabelle Huppert91; Giasone è Jason, recitato da Tommaso Ragno92. Lei ha lasciato il suo paese per seguire Jason, con il quale ha avuto due bambine. A Parigi aprono un caffè dove Irene canta la sera ma, nonostante si sia integrata bene ed abbia imparato la lingua, si sente sempre una straniera. In Francia il marito la tradisce e, separatosi da lei, si sposa con una parigina figlia del sindaco di Pautin. Irene rimane sola con le figlie e Martha, una giovane donna che aveva portato con se dal suo paese; le due sono legate da un grande affetto. La protagonista è una donna emancipata e per vendicarsi del marito intraprende una vita dissoluta, legandosi ogni sera con un uomo diverso incontrato nel locale del marito. Isolata nella sua crisi esistenziale, affronta l’allontanamento di una società che non accetta il suo modo di essere. La sua discussa condotta conduce Jason a chiedere l’affidamento delle figlie, che gli viene concesso. Fig. 44 88


Irene perde in tal modo ciò che ha di più caro. Entrata dentro un vortice di depressione, ossessionata dalle paure che l’assalgono, diversamente da Medea Irene non affonda in quell’abisso senza ritorno, non rivolge la sua rabbia verso le due figlie innocenti, piuttosto indirizza la sua violenza verso se stessa, finendo per essere travolta da un periodo di squilibrio mentale. L’uccisione delle figlie è soltanto una fantasia, un’allucinazione che si materializza nella sua mente ossessivamente, un’immagine in cui si rivede con le mani sporche del sangue delle figlie. La vendetta dunque non si compie ma rimane solo un momento irreale. Fig. 45 Martha con il suo affetto riesce a salvarla, la conduce a cambiare vita rifugiandosi in campagna, lì Irene riesce a sfuggire al destino che aveva segnato il personaggio di Medea. Il vero miracolo sta proprio in questo: nel riuscire a risalire dal baratro in cui la sofferenza l’aveva fatta cadere. Non si ribella alle offese subite ma oltrepassa il suo male inducendosi nella speranza di un futuro migliore e positivo. De Bernardi racconta la storia di una donna comune, un dramma femminile che nella nostra società è sempre più attuale, lasciando narrare la storia attraverso gli stati d’animo e l’ espressioni del volto della protagonista. In questo caso Medea è una donna fragile, il dolore è una componente fissa del personaggio. Il regista cerca di mantenere un rapporto tra mitologia e presente. Estimatore della mitologia greca, per De Bernardi Medea risulta una figura facilmente adattabile al mondo contemporaneo. La sua tragedia rivela un percorso che investe tante donne di oggi. Così il regista 89


ha cercato di raccontare la storia di un mito nel modo piÚ realistico possibile, vicino al nostro vissuto. Si sente fortemente l’eco delle strade, le molteplici sensazioni dello spazio urbano fanno pulsare la città con un effetto ancor piÚ realistico e coinvolgente.

Fig. 46

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Capitolo III -Medea. Interpretazioni costumistiche I testi su Medea non riportano nulla sulle caratteristiche stilistiche del personaggio, soltanto nell’opera di Apollonio Rodio vi sono alcune descrizioni dell’abito. Una riguarda l’innamoramento di Medea quando vede Giasone per la prima volta. Ivi si menziona il velo che ella indossa: Uscirono dalla stanza e fra tutti splendeva il figlio di Esone per la bellezza e la grazia; e addosso a lui la fanciulla fissava lo sguardo obliquo, scostando lo splendido velo e struggendosi il cuore di pena; come in sogno la mente volava, trascinandosi sulle tracce di lui che partiva93

Le vere e proprie vesti di Medea vengono citate nel momento in cui ella offre il filtro magico a Giasone in segreto, filtro che lo aiuterà a superare la prova impostagli dal re Eate: Medea quando vide la prima luce dell’alba, raccolse con le mani i biondi capelli irrequieti, che le cadevano senza cura, poi lavò le guance secche dal pianto, ed unse la pelle con un unguento di nettare e indossò uno splendido peplo. Tenuto fermo da fibbie eleganti; e si mise sul capo bellissimo un velo bianco94

Le vesti di Medea compaiono anche quando lei fugge dalla sua casa: Correva a piedi nudi per le vie strette; con la sinistra, sollevava il peplo sugli occhi, sopra le belle guance e la fronte, e intanto la destra reggeva in alto un lembo di tunica.95

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Nel poema il termine ʽʽsplendidoʼʼ viene usato più volte per indicare le sue vesti indossate in Colchide; in quanto sacerdotessa di Ecate e nipote del Sole Medea era votata alla luce e ciò accentuava la sua sacralità e purezza. Nel corso dei secoli il costume di Medea ha subito interpretazioni diverse, fondate anche sulle fonti storiche a cui si è fatto da riferimento, o anche basate sulla fantasia dei costumisti. Fig. 47 Come s’è detto nell’antica Grecia durante l’anno si tenevano alcune feste pubbliche, tra cui, la più importante,: le Grandi Dionise di Atene in primavera. Allora (e siamo non prima del VI secolo a.C) si tenevano due concorsi tra le popolazioni dell’Attica: uno per la migliore poesia tragica e uno per il miglior inno satiresco. Dal V secolo venne inserito nella gare anche un terzo concorso per la migliore commedia (487 -486°a.C). Durante le rappresentazioni nulla era lasciato al caso; anche se gli attori non erano in scena, scenografia e costumi potevano essere molto importanti. Nel tempo, gli espedienti scenografici diventarono sempre più ingegnosi, in modo tale da stupire il pubblico e rendere il tutto più realistico. La produzione delle grandi Dionisie iniziava con un maestoso corteo, in cui si caratterizzavano i Correghi: cittadini benestanti che assumevano il compito di finanziare le pentalogie di ogni singolo drammaturgo (una tragedia in tre episodi, un dramma satiresco e una commedia). Egli si occupava anche dell’ingaggio degli attori, della loro preparazione, del 92


necessario per allestire la scenografia, dell’affitto o della confezione dei costumi e, infine, dei pagamenti. Originariamente l’autore era interprete delle sue opere ed in scena vi era dunque un solo attore. Con Eschilo e Sofocle questa pratica venne abbandonata, e vennero aggiunti il secondo e il terzo attore. Questi erano solo uomini riuniti in congregazioni o gilde professionali, e venivano pagati dallo Stato. Nella tragedia e nella commedia era molto importante la gestualità, che

Fig. 48

doveva essere molto enfatizzata. La voce e i vari toni vocali servivano a rendere maggiormente lo stato d’animo dei personaggi. Nelle rappresentazioni più antiche quando andava in scena un solo attore, il ruolo del coro era molto importante e il numero dei coribanti era considerevole. Essi davano consigli al personaggio stimolandolo nelle sue scelte, conferivano tono all’opera, ed esprimevano approvazione o dissenso durante l’operato del protagonista. Il ruolo del coro era fondamentale e rimase tale, ma con l’aggiunta di più personaggi sulla scena il numero dei coribanti venne diminuito. Nel periodo arcaico, il costume scenico era una tunica con maniche lunghe detta Poikilon simile ad un chitone96. La tragedia, che ruotava intorno al tema del lutto, usava colori lugubri per i tessuti. Oltre al chitone gli attori indossavano la clamide97 e 93


l’himation98. I personaggi femminili indossavano anche il peplo99 una abito esclusivamente femminile. Non escludendo che gli attori potessero recitare a piedi scalzi, nella tragedia si usavano vari tipi di calzature, tra cui stivaletti, alcuni alti al polpaccio, altri bassi fermati da lacci. Un particolare tipo di calzari Fig. 49 erano i coturni, alti tra i dieci e i venti centimetri. Questa tipologia di scarpa probabilmente derivava da una calzatura femminile di origine orientale che fu introdotta nel IV secolo a.C. Essa era usata probabilmente per i personaggi femminili e le sue elevate zeppe permettevano d’ innalzare l’attore verso il pubblico. Nei costumi erano di fondamentale importanza gli accessori che simboleggiavano il rango e le caratteristiche dei personaggi. Il tutto veniva completato dalla parrucca e dall’uso della maschera, per identificare i ruoli: i capelli bianchi indicavano la saggezza e la vecchiaia, i capelli biondi, rari tra le genti del Mediterraneo, indicavano la bellezza o la divinità. Dal IV al V secolo a.C. tutti gli attori portavano le maschere, che potevano realizzare in cuoio, carta pesta, lino, sughero, stucco o con la corteccia. Le maschere del coro erano tutte uguali, invece quelle degli attori cambiavano a seconda del ruolo; erano molto espressive, amplificando lo stato d’animo del personaggio. Le maschere avevano anche una funzione di megafono, l’imboccatura infatti amplificava la voce. Conoscendo questi elementi che caratterizzavano il teatro greco, non è difficile immaginare come potevano apparire agli occhi degli spettatori le tragedie all’epoca. Si può supporre quindi che la Medea d’ Euripide durante la sua prima rappresentazione abbia indossato 94


degli abiti lugubri tipici della tragedia: un peplo o un chitone finemente lavorato, completato da un’himation portato sulla testa. Il suo personaggio, interpretato da un uomo, avrebbe indossato una maschera con accentuati tratti di dolore, completato da parrucca e coturni ai piedi. Lo tesso Fig. 50 Giasone sicuramente avrebbe vestito un semplice chitone completato da clamide, maschera,

Fig. 51

parrucca e calzari ai piedi; possibilmente portava anche la corazza, a simboleggiare il suo versante eroico. L’immaginazione può condurre a pensare alle più svariate forme e combinazioni di abbigliamento tra quelle usate nell’antica Grecia, ma sicuramente non saranno lontane da quelle esposte. Per molti secoli il personaggio di Medea non avrà assunto molte modifiche a livello stilistico, a parte l’uso dei tessuti o di qualche accessorio che col trascorrere del tempo andava più o meno in uso. 95


Il Teatro greco ha influenzato moltissimo anche quello romano. Le prime rappresentazioni in stile ellenistico avvennero a Roma intorno al 240 a.C. durante i Ludi Romani, feste in onore degli dei. La tragedia era un genere molto apprezzato nell’antica Roma. Esistevano due generi esemplari sul modello greco: la fabula crepiata che prendeva il nome dalla crepida (una specie di coturno), nella quale l’abbigliamento seguiva propriamente lo stile greco. La fabula praetexta che prendeva il nome da una toga100 trattava argomenti della vita romana. La maschera era un elemento fondamentale, realizzata in tela camottata, corredata da parrucca, era realizzata secondo i modelli greci. È documentato l’uso di maschere bifacciali, con due espressioni del volto diverse, per evitare i cambi di scena. Alcuni codici d’abbigliamento distinguevano i personaggi sulla scena: la donna oggetto del desiderio era rappresenta in abiti barbari, orientali o laceri, privi del decoro usato nell’abito delle donne romane. Il giallo era simbolo di cupidigia, il personaggio parassita usava un mantello di questo colore. Al tempo di Seneca, anche se la sua Medea non venne mai messa in scena, la rappresentazione romana dell’eroina greca non doveva differire molto da quella tradizionale ellenica. Con l’avvento del cristianesimo la tragedia come la commedia persero il grande successo che avevano avuto e nel 692 d.C., con il Concilio Trullano101, le rappresentazioni teatrali pubbliche e metropolitane vennero messe al bando. Per tutto il Medioevo gli spettacoli si basarono prevalentemente sul genere epico-religioso (vite di santi, vita, passione e morte di Cristo). Nel Rinascimento il teatro classico venne riscoperto; nella letteratura teatrale il testo di maggior riferimento tornò ad essere la Poetica di Aristotele. La sua riscoperta portò alla riaffermazione di alcuni canoni drammaturgici, primo fa tutti la verosimiglianza. I coreghi del tempo cercavano di rendere più reali i personaggi del tempo attraverso l’uso di alcuni paludamenti antichi, come le toghe, e accessoriando i costumi con corazze, elmi, spade, corone e scettri, ornamenti di gusto 96


classico. Le nudità del tempo venivano realizzate con calze color carne, ma per il resto prevaleva il senso del decoro lussuoso ancora nel teatro del Seicento e fino al Settecento, quando la maggior parte dei personaggi vestiva abiti alla moda, abiti che, ad eccezione degli attori che provvedevano personalmente ai propri abiti, questi erano resi il più possibile lussuosi ed eleganti. Dall’Ottocento in poi nacque un sempre maggiore interesse per il realismo nelle opere teatrali, da cui derivò un fiorente interesse per la ricostruzione storica dei costumi, strada percorsa fino al Novecento. In tutte le interpretazioni teatrali e cinematografiche l’attenzione per il costume diventa sempre più precisa e dettagliata. Soltanto con la versione cinematografica di Pasolini si tocca il culmine del realismo, grazie alla collaborazione con il costumista Piero Tosi. Nella sua grande opera vi è uso di materiali poveri, lavorati in maniera unica ed autentica, i colori per le vesti sono stati realizzati in maniera naturale come avveniva anticamente. Tutto è stato studiato per dare vita a un’atmosfera ancora primitiva e molto suggestiva.

III.1 I Costumi di Medea nel teatro greco di Siracusa Un importante sguardo alle interpretazioni costumistiche di Medea va dato alle varie rappresentazioni che si sono succedute al teatro greco di Siracusa. Per cinque volte Medea è stata protagonista del teatro aretuseo. La prima nel 1927 e l’ultima nel 2004. A testimoniare questi eventi è stata l’inaugurazione della mostra Le Vesti di Medea, Siracusa, Palazzo Greco, Museo e centro degli studi INDA102, dal 26 febbraio al 25 aprile 2005. La mostra di rilevante importanza, attraverso le documentazioni d’archivio, fotografie, plastici, stoffe, bozzetti e frammenti di scenografie è riuscita a ripercorrere l’itinerario evolutivo e costumistico del personaggio di Medea dagli anni Venti ad oggi, ricostruendo cosi la sua storia non solo costumistica ma anche 97


culturale e sociale. Essa ha rappresentato una vera e propria guida entro il viaggio visivo di Medea nel corso del XX secolo. I Costumisti che hanno firmato gli abiti di Medea al teatro di Siracusa sono stati: Duilio Cambellotti103 per la regia si Ettore Romagnoli104 (1927). La Medea di Cambellotti può essere definita un elegante e potente donna della Bell’epoque; Ezio Frigerio105 nel 1958 ha creato i costumi per la regia di Virginio Puecher106 mettendo in scena una donna arcaica e malefica; Emanuele Luzzati107 e Santuzza Calì108 hanno realizzato gli abiti per una Medea, principessa bambina, destinata a diventare una donna Hippy, per la regia di Franco Enriquez109 (1972); Enrico Job110 per la regia di Mario Missiroli111 ha creato le vesti per una Medea Mediterranea e selvatica, 1996; Moidele Bickel112 per la regia di Peter Stein113 (2004) ha proposto con i suoi costumi un mito dall’abito essenziale indicato a rappresentare una donna assoluta e potente. Dal particolare abito arcaico di Cambellotti, che s’ ispira ai modelli antichi per conformarli al linguaggio della moda degli anni Venti, si passa ad una stilizzazione più intellettualistica dei costumi della Bickel in cui i colori dalle tinte accese hanno una funzione importante in un’ opera fatta altrettanto di suoni e di luci.

III.1.2 I costumi di Duilio Cambellotti per Medea, regia di Ettore Romagnoli, Teatro greco di Siracusa, 1927 Duilio Cambellotti, durante la creazione dei suoi abiti, aveva pensato ad una veste elaborata in cui il drago, protettore del vello d’oro, fosse rappresentato nella parte anteriore dell’abito; le sue spire venivano riprese sia nel mantello che nella pettorina a indicare la natura magica di Medea. Un figurino rappresenta la maga con una foltissima capigliatura riccia, lo sguardo infossato da un trucco che va a delineare maggiormente la personalità drammatica del personaggio. Il suo abbigliamento non presentava maniche, le braccia erano aperte e nude ma arricchite da 98


bracciali. Sotto il mantello e la pettorina vi era una veste semplice che arrivava fino ai piedi. La documentazione testimonia che l’abito doveva essere colorato di verde e dorato. Da un confronto con una foto dell’attrice Maria Laetitia Celli (attiva 1920-1947), interprete di Medea, si nota Fig. 52 che, rispetto al bozzetto sono state apportate leggere modifiche: il mantello risulta piÚ ridotto e semplice, la tunica invece risulta piÚ corta alle caviglie e decorata con strisce dorate disposte orizzontalmente. Da alcune fotografie fatte durante la rappresentazione si possono ammirare anche le vesti del coro, diviso in danzante e recitante. Il costume del coro danzante presentava una tunica cinta in vita e rimborsata, arricchita da una mantellina posta sulle spalle. Esso non indossava scarpe, i capelli erano portati a caschetto e bloccati da una

Fig. 53

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fascia. Il coro recitante a differenza del precedente indossava sandali, mantelle, himathia e veli, ma sostanzialmente la veste era la stessa. Da un altro figurino che illustra Giasone si nota che l’abito era molto semplice. In testa egli portava un petaso114, la sua veste era corta, lasciava le braccia e le gambe scoperte. A completare il tutto vi era un ampio mantello decorato con motivi geometrici e calzari a polacchino. Dalle foto Giasone è di spalle, ma si nota bene come l’abito sia stato riprodotto precisamente seguendo il figurino. Il Petaso non è Fig. 54 portato in testa ma lasciato appeso al collo, a decorare il capo dell’attore vi era una corona d’alloro. Il mantello era di colore bianco e gli copriva le spalle ricadendo sulla schiena fino alle ginocchia. La veste di Creonte nel bozzetto ritrae il personaggio frontalmente ma con il volto di profilo, mettendo maggiormente in evidenza la capigliatura alla greca e la lunga barba appuntita. La veste ha un taglio semplice ed è arricchita da una pettorina decorata dalla quale si dispiega una stola. Un ampio mantello avvolge il corpo ed ai piedi indossa dei bassi sandali. Anche in questo caso, grazie alla documentazione fotografica è stato possibile fare confronto con il modello poi realizzato. L’ampio mantello fu sostituito da una lunga stola raccolta sull’avambraccio. La tunica invece lascia le braccia nude, solo il braccio destro è arricchito da bracciali. La barba a punta invece è stata mantenuta insieme ad una folta capigliatura bianca mossa. 100


Per Cambellotti importante non era solo ideare e disegnare il costume, nel taglio o nel colore, ma tutto ciò che andava a caratterizzare il personaggio, come l’acconciatura, il trucco, l’espressione e il gesto. Bisognava rendere chiara allo spettatore l’indole del personaggio. Tali tratti sostituivano quell’importante accessorio espressionistico

Fig. 55

del costume greco che è la ‘ʻmascheraʼʼ. Il gusto archeologico del costumista in questa interpretazione di Medea viene reso più moderno, concentrato maggiormente nel non far perdere l’aspetto drammatico dei personaggi. Per Cambellotti il figurino stesso doveva rappresentare da capo a piedi lo stato interiore del personaggio. Per ogni figurino aveva cercato di creare una rappresentazione più spirituale, che veniva 101


maggiormente accentuata dalla concretizzazione dell’abito. Non si era imposto di realizzare abiti storici, più che altro si era dedicato a creare un’ atmosfera intorno al personaggio. La sua Medea sottolinea la natura della protagonista, resa come una maga dei serpenti capace di sprigionare il suo essere malefico e barbarico. Il costume è stato ricostruito dallo scenografo Dino Pantano115 in occasione della mostra Le vesti di Medea, 2004. L’abito è stato realizzato in lino tinto in verde e decorato con inserti in stoffa dorata, ricostruito in base alle fotografie di scena dello spettacolo del 1927 ed attraverso le documentazioni d’archivio.

III.1.3 I costumi di Ezio Frigerio per Medea, regia di Virginio Puecher, Teatro greco di Siracusa, 1958 Il regista da all’opera un tono realistico e un forte gusto popolaresco. Per la realizzazione degli abiti Ezio Frigerio s’ ispira ad un ambiente mediterraneo, anche se effettivamente il costume di Medea assume forti accenti orientali, evidenti nell’uso di pantaloni alla turca, dal pesante mantello con motivi geometrici drappeggiato sul corpo. Il coro viene vestito con abiti contadini, tuniche di lana bianca con grembiuli stretti in vita da cinture di corda. In testa indossava lunghi scialli o cappelli di paglia e ai piedi le ciocie116. I vestiti delle donne erano tinti di verde e di viola. I costumi maschili s’ ispiravano al gusto romano. Giasone indossava una lorica muscolata117 su cui scendeva un mantello trattenuto in vita da una cintura. Creonte invece portava la barba e una tunica bianca con orli scuri. Il costume di Medea è stato ricostruito da Dino Pantano nel 2005. L’abito è stato realizzato con gabardine di lana ed applicazioni in trucioli di ottone. Esso è composto di calzoni, tunica interiore, piviale118 e mantello. Il colore predominante della veste è un senape molto caldo. 102


I calzoni alla turca formano delle ampie pieghe e sono legati alle caviglie con lacci di vari colori. Sopra la tunica interior, di colore bianco è una specie di piviale asimmetrico nello stesso tono dei bragoni, che copre interamente solo il braccio destro, lasciando libero il sinistro. Esso è operato con fili metallici in motivi geometrici quadrati. Completare la veste un ampio mantello di tinta purpurea, drappeggiato intorno

Fig. 56

Fig. 57

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al corpo alla maniera senatoria. Anche se questi accessori non sono stati realizzati, nel costume del 2005, nella versione del ’58 Medea indossava sandali con il tacco a zeppa molto bassi, legati alla caviglie. In testa una scurissima e fitta parrucca arricchita d’ anelli.

Fig. 58

III.1.4 I costumi di Emanuele Luzzati e Santuzza Calì per Medea, regia Franco Enriquez, teatro greco di Siracusa 1972 La Medea di Franco Enriquez viene proposta al pubblico con una 104


immagine più attuale, l’elemento archeologico viene del tutto eliminato per dare spazio ad un ambiente più contemporaneo. Il regista cerca di ricreare un ambiente di miseria e degrado, consono alla sua interpretazione personale del mito ed a quella tipologia di teatro sperimentale di cui faceva parte. Il costume di Medea non ha un gusto orientalizzante, da parte del costumista Emanuele Luzzati è stata elaborata una proposta del tutto nuova. Medea sembrava Fig. 59 più una principessa barbarica dell’Africa. Dalle fotografie d’archivio si presentava con una folta chioma nera e riccia, il suo abito lungo e colorato, dai toni di rosso, bruno, arancio e blu, decorato con disegni in batik. Questi elementi danno l’idea che il personaggio provenisse da luoghi lontani. Anche i suoi figli e la nutrice indossavano abiti colorati al contrario di tutti i personaggi in scena. Un espediente usato proprio per mettere in risalto la condizione sociale della protagonista e di chi fa parte del suo nucleo familiare. Poiché appartiene ad una cultura completamente diversa da quella greca, il suo abito diventa una chiave molto utile per accentuare tale diversità. Le donne del coro, in contrasto con l’aspetto selvaggio di Medea, erano vestiste con tuniche grigie e drappeggiate. La testa era coperta da un lungo e pesante mantello. L’insieme, reso anche dal un trucco che infossava gli occhi, le rendeva rigorose e molto inquietanti. Un effetto visivo ricercato sia dal regista che dal costumista al fine di trasmettere il significato voluto. Le figure maschili come Giasone e Creonte erano vestite con abiti eccentrici, metallici e al limite del 105


reale. Il bozzetto di Medea realizzato da Emanuele Luzzati, conservato nell’Archivio della Fondazione INDA, è costituito da un’innumerevole quantità di colori e materiali: pezzi di velina, ritagli di carta a fiori, frammenti di vassoio per dolci. Rosa, verdi, bruni, piccoli tratti veloci di nero danno vita all’immagine di Medea. Un aspetto esotico della protagonista rimanda a terre lontane. Le vesti ricche anche di gioielli creati con l’utilizzo di più materiali, conducono ad un ricordo di antiche culture mescolate in epoche diverse. La Medea del figurino colpisce anche per la sua postura e il suo sguardo: è volta a sinistra mentre il suo corpo è proteso verso destra, come se volesse fuggire da qualcosa che sta succedendo davanti a lei. Il costumista non ci propone una Medea imponente, grandiosa nella sua malvagità, ma una giovane fanciulla impaurita. Dal bozzetto alla realizzazione dell’abito, come mostrano le foto nell’Archivio INDA, furono apportate alcune modifiche, come nei colori.

Fig. 60

Fig. 61

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Ora abbondano maggiormente i rossi, il blu, l’ocra e l’arancio. L’abito, di linea molto semplice, è composto da una lunga tunica e da due mantelli, decorati elegantemente con motivi geometrici. A completare il carattere selvaggio della donna, una parrucca riccia e nera che viene sostituita da quel copricapo ricco di pendenti che invece appare nel bozzetto, tipico delle culture del Caucaso. Il bozzetto di Giasone è sempre realizzato con la tecnica del collage, l’abito è regale ed elegante, creato con pezzi di Fig. 62 carta lucida e carta di vassoi per dolci in pizzo; il corpo del personaggio è accennato con tratti di pastello nero. Per il resto, tutte le parti del vestito sono ricoperte di carta color argento e metallizzata, solo il bavero del mantello è colorato in nero. L’abito di Giasone sia nel bozzetto che nel costume reale ha un aspetto quasi spaziale dato dall’uso di materiali metallici. Un’ immagine che si contrappone fortemente con i colori caldi presenti nella veste di Medea. Il suo abito privo di colore, dall’aspetto freddo, rispecchia il carattere di Giasone, privo di Fig. 63 107


passione, mosso nei suoi comportamenti solo dalla brama di potere. Interessanti sono anche i figurini rappresentanti i figli di Medea e Giasone. Anche qui Luzzati utilizza la tecnica del collage, usando velina colorata, pezzi di carte fiorite e parti dorate di vassoi per dolci. Nella sua essenzialitĂ dal tratto pastello egli imprime nei volti de bambini una

Fig. 64

personalitĂ che li distingue in maschio e femmina. Ritratti in un tenero gesto, i due innocenti si tengono la mano. I fanciulli indossano piccole tuniche senza maniche, rosa per la bambina, turchese per il bambino. La carta a fiori e il dorato richiamano molto la veste della madre. 108


L’abito di Medea è stato ricostruito da Dino Pantano nel 2005. La veste è realizzata con tessuto di cotone stampato con motivi a stencil, decori in macramè. Un abito semplice ma particolare nelle decorazioni utilizzate. Una lunga tunica fino ai piedi con maniche all’altezza dei gomiti, tinta con colori naturali, nei toni caldi, del rosso, dell’arancio dell’ocra, impreziosita da decorazioni varie che rendono l’abito ricco e prezioso. Due Lunghi mantelli panneggiati sulle spalle e fatti ricadere lungo la veste la completano. Uno di questi riprende le tonalità rosse del vestito, il secondo invece è colorato di un azzurro molto intenso decorato con motivi a stencil la Medea di Luzzati, per le sue caratteristiche costumistiche, s’ inserisce perfettamente sia all’ interpretazione del registra Franco Eniquez sia nel clima culturale degli anni Settanta.

III.1.5. I costumi di Enrico Job per Medea, regia Mario Missiroli, teatro greco di Siracusa, 1996 La proposta del regista Mario Missiroli per la sua Medea non è di rappresentare una donna del passato, con costumi, maschere, scenografie che richiamino l’antico. Nella sua interpretazione vince il desiderio di creare un’ immagine ordinata rispetto a quella del mito che giunge alla contemporaneità. Il regista si muove su due aspetti del suo personaggio: quello di una donna straniera in esilio e quello di donna sapiente, consapevole della sua potenza e della sua magia. I costumi e le scenografie Fig,65 realizzate da Enrico Job riprendono a pieno l’idea del regista. Le scenografie con i suoi alberi, le pietre 109


bruciate dal sole, richiamano un’ atmosfera mediterranea. Le vesti dei personaggi si distinguono in due tipologie, espediente che il regista e il costumista hanno voluto per sottolineare maggiormente la diversità tra il mondo di Medea e quello greco. Giasone e Creonte indossano dei moderni abiti in stile coloniale, non portano armi o elementi che simboleggiano regalità. Sembrano degli eleganti uomini che indossano cappello in stile panama119 e portano bastoni che donano maggiormente quell’aria signorile e chic. Le vesti del coro e delle donne di Corinto erano lunghe, nere e grezze, coperte da ampi scialli che cingevano anche la testa. Medea invece, avvolta in una veste nera, è stata resa ancora più selvaggia dalla sua capigliatura lunga, riccia e scura. Il suo essere maga e principessa è manifestato dall’enorme quantità di gioielli indossati che risaltavano maggiormente

Fig. 66

Fig. 67

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Figg. 68; 69

sul colore scuro della veste. Anche quest’abito è stato ricostruito da Dino Pantano nel 2005 per la mostra le vesti di Medea. L’abito è realizzato in cotone grezzo, suddiviso da una sottoveste sempre nera, decorato nella parte della scollatura da motivi floreali ricamati in argento di gusto orientale. La sopravveste, aperta davanti a mostrare la veste di sotto, nera ed operata in oro, presenta ampie maniche. Il costume vero e proprio è andato perduto, ma grazie all’abbondante documentazione fotografica della rappresentazione è stato possibile ridargli vita il più fedelmente possibile all’originale. L’abito di Medea ha contribuito molto alla qualità della rappresentazione. Enrico Job ha tentato d’ uniformare le forme classiche dei panneggi alle linee di diverse fogge orientali tradotte nell’uso dei gioielli di ascendenza orientale indossati sulla 111


fronte, alle braccia e al collo, non dimenticando l’enorme ricamo nel pettorale della veste. Il costumista, cosi facendo, è riuscito a dare al personaggio una natura complessa e di grande impatto visivo.

III.1.6 I Costumi di Moidele Bickel, Medea, Peter Stein, teatro greco di Siracusa, 2004 Il regista per questa rappresentazione del mito di Medea ha deciso di portare sulla scena uno spettacolo libero dalle solite convezioni. In chiave moderna Stein ha creato un’opera molto incisiva, condotto da un’ idea di una Medea barbara, passionale, vendicativa, una sacerdotessa devota agli dei. La messa in scena è stata molto fedele al testo, soprattutto nei momenti finali quando Medea uccide i suoi figli e quando fugge via, innalzata da una gru a trenta metri d’altezza, un sole creato da una luce abbagliate lascia il pubblico meravigliato e allo stesso tempo incantato da quest’effetto Fig. 70 trascendente. L’opera ha coinvolto fortemente critica e pubblico. Di forte impatto sono stati anche gli abiti che hanno contribuito a questa mescolanza tra passato e contemporaneo che si fondono in un clima quasi senza tempo. I costumi sono stati realizzati dal laboratorio dell’INDA. La costumista si è ispirata sia all’antichità che alla modernità: per le vesti del coro si è ispirata ad antiche statuette di donne che indossavano himatia drappeggiati su corpo, di cui rimangono schizzi e bozzetti all’archivio della Fondazione. 112


Per Giasone e Creonte invece è forte l’influsso moderno, con la predilezione per l’uso di cappotti e trench. Per Medea ed Egeo, la costumista torna all’uso di morbidi drappeggi. Per la protagonista il gusto è più indirizzato verso l’oriente. Ella indossa pantaloni alla turca ed una casacca a maniche lunghe, stretta in vita che si chiude a portafoglio in una cintura dello stesso tessuto; a completare la veste un lungo cappotto. Tutti gli elementi del suo costume sono di colore nero. L’Abito di Egeo è più classicheggiante: egli porta una lunga stola che ricopre la giacca e il pantalone. Tutto è sobrio, non sono presenti gioielli o utilizzo di accessori particolari. Essenziale è anche l’uso dei colori, che nell’opera determinano un valore simbolico. Il coro indossa giacche e gonne in tinta unita, avvolti da himatia decorati con batik e con una bordatura dorata. I colori utilizzati sono molto sfumati in tinte di ocra, grigio, avorio e verde, con tonalità pacate e calde. Le vesti di tutti i personaggi sono dominate da un unico colore: nero per Medea e i suoi figli, bianco per Creonte, rosso per la nutrice ed Egeo. Solo Giasone e il messaggero indossano abiti distinti in due colori diversi. Il primo ha una maglia e i pantaloni neri in contrasto con i cappotto bianco. Il messaggero anch’egli ha una veste in due colori, ma questa è sfumata come quella del coro; i colori sono più neutri e meno intensi. Si può dire che il nero rappresenti la natura selvaggia ed oscura di Fig. 71 113


Medea. Il bianco è associato ai personaggi negativi per lei, infatti lo indossa Creonte, simbolo del potere e della prepotenza. Esso rappresenta anche il razionalismo della cultura greca di cui Giasone si fa vanto. Il rosso invece è il colore dei personaggi a cui Medea si affida, che

Fig. 72

l’aiutano a compiere la sua vendetta. La Bickel si è ispirata all’antichità nelle forme semplici degli abiti e nell’utilizzo dei colori. Nonostante l’influsso volutamente moderno, ha creato drappeggi che richiamano le vesti greche. I tessuti utilizzati sono magline leggere, efficaci nel creare questi morbidi effetti. Per i colore delle vesti la costumista si è dedicata ad una lunga preparazione fatta di prove, scegliendo le tonalità finali in accordo con il regista. Tutto doveva armonizzarsi in scena, anche i colore tra le varie vesti. Ciò che colpisce nella realizzazione dei suoi costumi è la forte sobrietà, la mescolanza tra gusto classico e 114


Fig. 73

Fig. 74

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moderno: un contrasto molto forte che ha reso la tragedia essenziale ma di fortissimo impatto visivo.

III.2.1 I costumi di Piero Tosi per la Medea di Pier Paolo Pasolini Piero Tosi veste la Medea di Pier Paolo Pasolini seguendo le linee del regista, che desiderava una mescolanza di tutte le usanze piÚ antiche tra le civiltà del Mediterraneo, in un lavoro molto lungo ed intenso fatto di ricerche sulle usanze tipiche e costumistiche delle popolazioni, sumere, fenicie, greche, osservando statuette, gioielli tipici del tempo, proiettando infine la sua attenzione anche su abiti di folklore italiano come quelli sardi. Tosi ha posto la sua attenzione anche alle culture africane, del Messico e della Spagna. Inizialmente i bozzetti da lui creati non avevano colpito il regista. Ma l’intuito del costumista lo condusse a realizzare dei prototipi partendo da un principale interesse per i materiali. Facendosi aiutare da Umberto Tirelli120, i due incominciarono a lavorare su i tessuti piÚ poveri esistenti come: garze (quelle usate per le ingessature) il cencio della nonna e

Fig. 75

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il mollettone, tessuti di cotone utilizzati per foderare gli scheletri dei divani e il riscaldo realizzato con residui di lana cardata. Prima d’allora mai nessuno aveva usato tessuti cosi poveri per un abbigliamento cinematografico. Anche la Fig. 76 loro tintura ha comportato studio e ricerca; per ricreare al meglio il realismo desiderato dal regista, Tosi ha usato coloranti naturali rendendo ogni capo unico ed inimitabile. Per gli abitanti della Colchide ha utilizzato colori scuri, ocre, marroni, tonalità di blu di varie sfumature; vi si percepisce un’atmosfera

Fig. 77

primitiva, arricchita da gioielli ed accessori realizzati con materiali poveri che richiamano gusti di più civiltà. Specialmente qui si percepisce maggiormente un richiamo all’abbigliamento folkloristico sardo. Per 117


gli abiti di Corinto Tosi ha usato colori più brillati, dai toni pastello, rosa, verdi, arancioni e gialli accessi, creando un’atmosfera del tutto diversa da quella barbara da cui Medea proveniva. In questo clima si sente una briosità di vita e civilizzazione tipico della cultura greca. Lo stesso Tosi afferma: «Per i costumi della Colchide, della sequenze furono girate in Cappadocia, usammo terre naturali, ocre e marroni. Per quelli di Corinto, mi ispirai a Pontorno121, a Rosso Fiorentino122: Fig. 78 rosa, rossi, verdi pistacchio. Fummo sperimentali anche nella lavorazione. Per esempio, garza e riscaldo cuciti insieme, bagnati con vinavil, plissettati a mano, seccati in forno»123. La veste sacra di Medea ha un ruolo fondamentale in tutto il film come nella tragedia di Euripide. Ella indossa un ampio chitone nero

Fig. 79

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che crea delle finte maniche. I due rettangoli di stoffa che andavano a comporre l’abito sono uniti da eleganti spille poste a una determinata distanza dalle altre; esse lasciano delle piccole fessure che mostrano la pelle delle spalle e delle braccia. Una veste semplice ma elegante è raffinata. Il tutto è completato da una sopravveste sacra priva di maniche indossata dalla testa e ricca di decori, ricami che richiamano sempre le tonalità dei blu e dell’ oro. Infatti Medea Fig. 80 indossa gioielli vistosissimi e pesantissimi, collane che rappresentano la sua semidivinità, ed una corona su cui s’appunta un lungo mantello. L’immagine di Medea è imponente e di grande impatto scenico. Quando ella va a Corinto, viene spogliata dalle figlie di Pelia. In questo momento - che ci appare come un vero e proprio rituale - Medea abbandona le sue vesti barbare per indossare le vesti civili greche. In tal modo rinnega cosi le sue origini, i suoi culti per abbracciare la cultura moderna. Quando Medea decide di vendicarsi contro i suoi nemici, ritrovando i suoi poteri, dona a Glauce i suoi preziosi abiti sacri, i quali la condurranno ad un’ atroce destino di morte. L’abito in questo caso non funge solo da mezzo per compiere la sua vendetta, esso segna il personaggio pasoliniano anche a livello psicologico. Il costume di Medea oggi si trova in mostra presso la Galleria del costume di Palazzo Pitti a Firenze, insieme a tutti gli altri abiti del film.

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III.2.2 I Costumi di Annalise Baily, Medea di Lars Von Trier Per il film di Medea il regista Lars Von Trier ha incentrato la visione del personaggio su i suoi sentimenti, che infondono la vendetta in un’anima tradita. Nel film domina un’atmosfera molto figurativa, composta da un imponente presenza di luci e paesaggi naturalistici. In queste ambientazioni spicca fortemente anche il senso di Fig. 81 solitudine, stato che viene accentuato anche dalla costumista Annelise Baily124 che ha firmato i costumi per il film. Questi, in collaborazione con il regista con il quale ha restituito un’immagine di Medea molto particolare: una donna che, seppur forte è decisa, manifesta attraverso i suoi movimenti un profondo disagio fisico e psicologico. Gli abiti della costumista riprendono molto l’ intenzioni del regista. Nel film tutto è scarno, non c’è nulla di lussuoso, la dimora di Creonte si trova all’interno di una grotta scura e umida dove i personaggi camminano in cunicoli bui. Allo stesso modo i costumi sono semplici, dai toni spenti, privi di decori e d’accessori lussuosi. Essi racchiudono lo stato profondo di ogni personaggio. Medea indossa un abito scuro, che simboleggia, il suo animo cupo e ribelle. Giasone e gli altri uomini indossano semplici tuniche strette in vita da cinte, pantaloni e stivali, sia Creonte che Egeo, i due re presenti nella tragedia, non indossano alcun accessorio che faccia riferimento al loro status, essi appaiono come dei comuni uomini. Anche i tessuti usati sono poveri e lavorati grezzamente, con un effetto di usurato molto evidente. Glauce e le sue ancelle indossano vesti che s’ avvicinano maggiormente 120


ad un abbigliamento classicheggiante. La principessa ha una lunga veste bianca, candida e pura come il suo animo, decorata soltanto da una lunga e seducente capigliatura. La costumista ha plasmato le sue creazioni con le ambientazioni nordiche usate dal regista, sospese in un mondo lontano e senza tempo. Il costume di Medea è nero, realizzato con una pelle lavorata che dà effetti di squamatura. Lo stesso effetto è riportato anche nella cuffia che indossa sulla testa per tutto il film, dalla quale non fuoriesce neanche una ciocca di capelli. La veste è aderentissima al corpo arriva fino ai piedi, presenta maniche lunghe e sempre aderenti; si avverte in Medea chiaramente il suo essere, il suo stato d’animo, afflitto e pervaso dal desiderio di vendetta. L’immagine che ci viene offerta è di una donna filiforme, cupa e molto austera. tale abito, cosi stretto, sembra intrappolare Medea, come il suo destino l’ha intrappolata in una sorte drammatica dove tutto si compie senza nessuna possibilità di salvezza. Soltanto nell’ultima scena del film, quando Medea si trova sulla nave di Egeo, ella mostra finalmente i capelli senza cuffia. Li lascia liberi nel vento, un’espressione di dolore le segna fortemente il viso, finalmente si lascia andare ad un sentimento diverso da quello della vendetta. Adesso è commossa ed afflitta. Non si presenta il mito vittorioso contro i nemici, ma una donna distrutta

Fig. 82

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che ha perso tutto. Attraverso l’operato della Baily attenta ed intuitiva nel capire le idee di Lars von Trier, è stato possibile realizzare, anche se solo per un film del piccolo schermo danese, un vero capolavoro di immagini, ricche di suggestione e fascino.

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Capitolo IV: il progetto

Il progetto I passi di Medea nasce dalla collaborazione con la coreografa e ballerina Cinzia Tartamella125, nel quadro della collaborazione tra gli insegnamenti di storia del costume (Prof. Vittorio Ugo Vicari) e Tecniche sartoriali per il costume (Prof.ssa Francesca Pipi) dell’Accademia di Belle arti di Palermo – Corso di I livello in Progettazione della moda, e l’associazione culturale Palermo in danza, nella persona di Santina Franco. Il progetto, è doveroso ricordare, è fortemente debitore degli indirizzi forniti dalla coreografa Silvia Giuffrè, che si coglie qui l’occasione di ringraziare, insieme alle istituzioni e persone or ora menzionate. Volendo proporre una performance danzante che rappresentasse il personaggio di Medea, attraverso una lunga analisi di tutte le interpretazioni da Euripide ad oggi, si è inteso comprendere come il personaggio sia cambiato nel corso dei secoli. Un mutamento radicale che vede Medea trasformarsi da maga malefica capace di terribili azioni, a vittima dell’intolleranza e dell’emarginazione. Questo lungo studio sulle variazioni letterarie e teatrali del mito ci ha condotto ad una personale interpretazione del personaggio; mediante un lungo confronto di pensieri e d’individuali modi di sentirlo, si è arrivati ad elaborare una performance incentrata maggiormente sul rapporto tra Medea e Giasone, tra la loro diversità di uomo e donna, e le loro differenti culture che si scontrano immancabilmente. Tutto è centrato su di un percorso psicologico profondo della protagonista. In questa performance Medea è una donna forte né vittima né assassina. È lucida e cosciente, in grado di riconoscere i suoi errori, pronta a liberarsi dell’ombra oscura che l’ha condotta verso il male, qui raffigurato da un mantello indossato da Medea fin dall’inizio della performance. Esso appartiene a Giasone e rappresenta la sua figura, 123


proiezione di lui che non è in scena. Il manto, oltre a rappresentare la passione di Medea per cui ha tradito suo padre e la sua terra, simboleggia anche la cultura greca alla quale Giasone appartiene. Indossandolo, la maga manifesta la scelta consapevole d’aver voluto abbracciare tale nuova cultura rinnegando la sue origini, spogliandosi cosi delle sue vesti tradizionali. Ma le sue buone intenzioni le si rivolteranno contro: la veste improvvisamente non le sta più bene addosso, la soffoca, l’imprigiona. In questa fase si vuole indicare metaforicamente come Giasone e la sua patria non abbiano mai accettato Medea, giudicandola sempre barbara. Tutto ciò in cui aveva creduto le si rivolterà dunque contro. Nella danza costei esprime i suoi stati d’animo, le sue riflessioni interiori. Sulle note di Iva Bittovà126, tra attimi di calma e altri più frenetici, tramite i movimenti del suo corpo dà voce alla sua anima. Infine riuscirà a liberarsi del mantello e quindi da Giasone con una gestualità grintosa, dai tratti forti e pieni d’ energia, Medea simbolicamente esprime un atto di pura ribellione, come un riscatto dalla potenza prevaricatrice dell’uomo, ma nonostante ciò non potrà cancellare il suo passato, perché natura e destino sono immutabile. Un passato che è rappresentato al termine della performance. Medea si accanisce anche contro la sua veste originale- sacerdotale, magica e barbarica - cercando di strapparne alcune parti come se volesse liberarsi e rinnegare in parte di se stessa, la sua sorte e la sua indole che però non possono cambiare: il suo destino è stato scritto ancor prima che lei e i protagonisti del mito potessero incontrarsi.

IV.1 Distinta costume Partendo dall’idea di una performance danzante, dopo alcuni bozzetti in cui era evidente il chiaro riflesso interpretativo di una moda greca oleografica e generica (Tav.1, a, b, c, d), dopo lunga ponderazione e 124


ridisegno, anche con la realizzazione di piccoli abiti in miniatura, si è giunti all’ideazione di alcuni modelli particolari e lontani dagli schemi compositivi consueti. La caratteristica che doveva comunque conservare l’abito di Medea era un senso di forte primitività, d’ usurato, nel modo più reale; per tale motivo la scelta dei materiali è stata tra le più semplici possibili. Per ottenere l’effetto, e comunque non appesantire troppo l’abito, è stata usata della semplice tela di cotone. Dopo vari tentativi e prove su modelli in scala, si è arrivati all’ideazione di alcune vesti che a nostro avviso incarnavano meglio l’idea di una Medea barbara, (Tav.2 a, b) primitiva, dalle origini nobili ma allo stesso tempo selvaggia. Allo stesso modo, in maniera del tutto casuale, tali presupposti hanno reso l’abito adatto anche ad accompagnare i movimenti della coreografa durante la danza (Tav.5 a, b, c). L’abito di Medea non è altro che una semplice veste da allacciare al collo con lunghi nastri che sono parte della veste di cotone. Sul davanti presenta una profonda scollatura e la schiena è lasciata nuda. La veste si chiude a portafoglio sui fianchi, con l’incrocio passante da due fessure che la bloccano cosi in vita. La particolarità del costume sta nell’applicazione di strisce di cotone larghe qualche centimetro, cucite orizzontalmente su tutto il vestito. I brandelli sono stati posizionati in verticale e bloccati da cuciture lungo i lati corti, in modo da lasciarli liberi per tutta la loro lunghezza, creando cosi un sistema di balze. Le strisce di cotone sono state tagliate manualmente, in modo da creare dei lacerti di stoffa sfilacciata, effetto voluto per rendere l’abito vissuto ed usurato. Esse sono molto piccole e corte all’inizio della veste, sulla parte toracica, e vanno allungandosi sempre di più arrivando fino ai piedi. Non dimenticando che Medea era una principessa, la veste è stata arricchita con perline e ciondoli piccoli e medi ad emulazione dell’oro, inseriti alla fine di ogni striscia di tessuto. Tali decorazioni sono state realizzate con pasta sintetica modellata a mano e cotta alla temperatura 125


di 110°. Il processo di lavorazione dei monili ha permesso di ottenere al meglio la manifattura desiderata, simile ad un artigianato tipico dell’oreficeria arcaica, unico ma al contempo imperfetto. Le perle ed i ciondoli sono poi stati dipinti con pittura acrilica dorata ed applicati e cuciti uno per uno. La veste, ornata di questi piccoli punti di luce, pur nella sua semplicità assume un effetto elegante che lascia trapelare al contempo il vissuto barbaro di Medea. Il suo costume ha reso viva l’immagine della protagonista; maestosa e primitiva, di natura selvaggia e magica (Tavv.11, 12). Esso si correda dai una cuffia che rievoca, nelle nostre intenzioni, le terre caucasiche da cui Medea proviene. Arricchita anch’essa con perline dorate e decorazioni in oro, la cuffia è realizzata ad uncinetto e guarnita con lo stesso procedimento spiegato in precedenza (Tavv.16, 17). Il particolare che arricchisce la sua calotta rappresenta il Sole (Tav.20, a), divinità a cui Medea era devota e legata da vincoli di discendenza. Una serie di frange ricche di perline completa il copricapo. La veste di Giasone, pur non andando in scena, è stata realizzata ugualmente. Essa è una semplice tunica senza maniche, sempre in cotone, arricchita da pezzi di stoffa ritagliati, ripiegati a metà e cuciti in orizzontale per lungo. Anche qui si ricrea un sistema di balze, ma del tutto diverso da quello proposto nella veste di Medea. Per la progettazione della veste di Giasone si è effettuata una ricerca di tutte le vesti maschili utilizzate dalle principali culture antiche del Mediterraneo, con maggiore riferimento alla cultura rodio cretese e minoica. Assemblando tali ricerche nella realizzazione di una semplice tunica è stato possibile rappresentare la figura di Giasone come quella di un nobile per origine, allo stesso tempo avventuriero e guerriero. Così, i pezzi di tessuto disposti in orizzontale rimandano ad una tipologia di corazza. In sostanza la veste di Giasone è una sintesi del suo personaggio (Tav.19). 126


Completa il tutto il mantello (Tav.18), sempre realizzato in tela di cotone, già descritto per parte coreografica in precedenza. La sua forma è circolare, con due aperture per fare passare le braccia. Esse sono decorate con occhielli dorati da cui passano degli intrecci di tessuto in forma di brioni sulle spalle (Tav.20, b). Tale sistema di intrecci è stato riportato anche sulla parte superiore del mantello (Tav.15), in modo che esso copra la testa e vada a creare una sorta di maschera sul volto di chi l’indossa. Se si considera che il mantello è portato sulla scena non da Giasone ma da Medea, la soluzione è volta a conferire alla maga un senso d’ imprigionamento e un richiamo all’aspetto marziale del suo sposo antagonista (Tavv.13, 14). Nell’elaborazione dei costumi per il progetto I passi di Medea è stata grande fonte di ispirazione Piero Tosi e la sua metodologia di lavoro. sia nella progettazione dei costumi del film Medea di P.P. Pasolini, sia durante tutta la sua eccellente carriera. Prendendo quindi insegnamento dai suoi criteri di lavoro - che si basavano su ricerche storico-costumistiche molto dettagliate e su un forte interesse per il trattamento dei materiali -, si è partiti da una prima fase di ricerca e poi da una seconda di sperimentazione. Il trattamento dei tessuti ha permesso di rendere un effetto stilistico unico ed autentico, affine maniera di Tosi.

IV.2 La tintura Naturale. Dall’estrazione del succo di gelsi neri si è ottenuto il colore naturale per la tintura delle vesti di entrambi: di Medea e di Giasone. Un colore viola scuro che ha colorato la tela di cotone in tante variazioni di rosa e viola. La colorazione è realizzata con colori naturali proprio per raggiungere quel livello di autenticità desiderato. Nel caso della veste della protagonista, la tintura ottenuta non è monocromatica e piatta ma volutamente irregolare, ricco di sfumature tono su tono, tal che tutte 127


quelle pezze applicate casualmente rendessero l’abito meno statico e pesante. Prima della realizzazione degli abiti è stata effettuata la tintura della tele di cotone. Esse sono state lavate una prima volta per eliminare l’appretto con del semplice sapone neutro. La sua presenza sfavorisce una buona tintura della stoffa e per Fig. 83 tale motivo deve essere eliminato. In una seconda fase sono state tagliate tutte le parti componenti il vestito. Per l’abito di Medea, per esempio, tutte le strisce di stoffa sono state tagliate prima e divise secondo le diverse lunghezze. L’intento era appunto quello di tingere i vari brandelli in tempi differenti in modo da ottenere differenti sfumature di colore. Tra fine giugno e luglio sono state effettuate varie raccolte del Gelso nero (Morus nigra): un frutto che conferisce alla pezza una tintura variante dal viola al blu, secondo il periodo in cui avviene la raccolta. Nei mesi in cui i gelsi sono meno maturi, ad esempio, si ottengono sfumature di lilla e blu; quando il frutto è decisamente maturo si ottengono invece tinte di colore viola scuro. Dopo la raccolta, i gelsi sono stati bolliti per un’ ora in una grande pentola con dell’acqua (Tav.7, a). In questo frangente di tempo le tele da tingere, ormai pulite ed asciutte sono state preparate a ricevere la colorazione attraverso un passaggio che viene chiamato mordenzatura: ovvero l’operazione preliminare nella tintura di tessuti naturali che consentirà il fissaggio delle sostante tintorie “indirette”128 (Tav.7, c). Tali mordenti possono essere il sale, l’aceto, l’allume di rocca128, o i tannini129 tra quelli di più facile reperimento. Il mordente è un composto che serve a modificare la struttura molecolare della fibra rendendola più adatta a ricevere il colore. In questo caso il mordente utilizzato è stato 128


l’aceto; tale impiego nasce dalla volontà di ottenere una colorazione che col tempo potesse scolorire naturalmente alla luce, poiché l’aceto per la mordenzatura di fibre di origine naturale non è molto efficace. Questo trattamento ha permesso alla veste di sbiadire naturalmente ottenendo l’effetto d’ usura desiderato (Tosi docet) poiché forte era il desiderio di manifestare il carattere di dissoluzione della vicenda di Medea anche attraverso l’abito. Se si fosse usato un mordente più consono, come l’allume di rocca o la noce di galla, la tintura si sarebbe fissata permanentemente sulle fibre del tessuto lasciando il colore vivo ed intenso. La mordenzatura è stata effettuata per un’ora ad una temperatura costante dell’acqua di 100°. Dopo la cottura dei gelsi, avvenuta per all’incirca un ’ ora, il colore ottenuto è stato filtrato, eliminando i resti del frutto (Tav.7, b) a questo punto è stata unita la stoffa mordenzata alla tintura. La colorazione è durata all’incirca un’ora, portando la tintura ad ebollizione (Tav.8, a) In questo caso alcune parti di stoffa sono state tinte in tempi diversi, come detto, ottenendo vari tipi di sfumature. Le pezze tenute per un tempo breve hanno dato un colore rosa, altre tenute più a lungo un colore quasi purpureo e in fine altre un colore tendente al viola. Dopo la tintura si è proceduto all’ultima fase che è il lavaggio delle pezze in acqua fredda, procedimento che serve per eliminare l’eccesso di colore. Nel nostro caso, le stoffe al lavaggio hanno perduto gran parte del colore schiarendo ancor di più le tonalità ottenute (Tav. 8, b, c). Dopo l’asciugatura della stoffa all’aria ed in una zona in ombra, il risultato definitivo è stato di tante strisce di stoffa di colore rosa (Tav. 9, a) variante in tante sfumature fino al lilla-azzurro. Per l’abito di Giasone lo stesso. Unica diversità il trattamento della tintura al fine di ottenere effetti particolari ed un colore diverso. Inizialmente il tessuto per l’abito è stato tinto sempre con i gelsi, in una colorazione violacea (Tav.9, b) . Volendo ottenere un effetto marmorizzato, la stoffa ormai asciutta è stata annodata su se stessa ed immersa in un bagno d’indaco130 (Tav.9, c). Dopo il bagno, il dilavamento e l’essiccazione 129


della pezza l’effetto finale è stato di un blu molto scuro marmorizzato in una tinta violacea nelle parti di stoffa che erano state annodate e che non hanno assorbito appieno la colorazione dell’indaco (Tav.10, b). Il mantello è stato trattato come l’abito; unica diversità consiste nell’aver diluito con acqua le tinte ottenute in precedenza, volendo raggiungere delle nuance più chiare. In un primo tempo la stoffa è stata tinta con la colorazione ottenuta dai gelsi, la stoffa asciutta e stata disposta in tutta la sua ampiezza su di un piano. Partendo dal centro, con le mani si è creata una specie di spirale che ha concentrato tutto il taglio circolare verso l’interno. A questo punto, usando semplici lacci, la forma concentrica creata con le mani è stata fissata e bloccata in modo tale che, durante il secondo bagno di colore nell’indaco, la stoffa non perdesse la sua forma. Il risultato finale è stato di una marmorizzazione a raggiera, molto particolare e di grande impatto (Tav.10, a). Esso rappresenta il palmo della mano di Giasone, in cui è possibile leggere e riconoscere un destino che è stato già segnato in modo indelebile sulla sua pelle. Un’ultima tintura è stata effettuata sulla cuffietta, realizzata inizialmente in cotone bianco. Per la tintura s’è impiegato il colore estratto nei mesi estivi dal Gelso nero, conservato in contenitore per molti mesi. Senza usare nessun tipo di conservante, la tintura si è mantenuta in ottimo stato e ha regalato un meraviglioso viola sfumato. Chiudo questa breve illustrazione del processo ideativo e produttivo richiamando il “difetto” della tintura in pezza nella veste di Medea, che è poi “difetto” più vasto della sua anima.

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TAVOLA 1

a

b

c

d Evoluzione progettuale dei bozzetti per la veste di Medea.


TAVOLA 2

a

b

c Evoluzione progettuale dei bozzetti pe la veste di Medea.


TAVOLA 3

a

b

c

d Bozzetti per la cuffia di Medea e prova trucco.


TAVOLA 4

a

b Bozzetti e studio, simbologia del sole per la cuffia di Medea.

c, progettazione definitiva del decoro b, bozzetto, particolare, decorazione mada inserire nella calotta della cuffia, nica mantello. la decorazione è realizzata con piastrine in pasta sintetica e dipinte con colore acrilico oro.


TAVOLA 5

a

b

c

d Bozzetti definitivi per la veste di Medea


TAVOLA 6

a

b Bozzetti definitivi per la veste di Giasone

c; Medea indossa il mantello di Giasone


TAVOLA 7

a, Succo di Gelso nero (Morus nigra) dopo la cottura.

b, Succo di Gelso nero (Morus nigra) filtrato.

c, Tela di cotone mordenzata nell’aceto.


TAVOLA 8

a, tela mordenzata, immersa nella tinta di Gelso.

b, risultato della tinta in pezza bagnata.

c, altre tonalitĂ di colore in pezza bagnata.


TAVOLA 9

a, asciugatura della stoffa.

b, colorazione della veste di Giasone nella tinta del Gelso nero (Morus nigra).

c, secondo bagno di colore per la veste di Giasone nell’ Indaco, la tela di cotone è stata legata per non ottenere un colore uniforme.


Tavola 10

a, sopra, colorazione ottenuta per il mantello di Giasone; b, sotto,colorazione ottenuta per la veste di Giasone.


TAVOLA 11

Costume di Medea, realizzato in tela di cotone tinta in pezza con Gelso nero (Morus nigra), applicazioni di perlne e ciondoli in pasta sintetica, colorate con colore acrilico oro.


TAVOLA 12

Costume di Medea, visione laterale.


TAVOLA 13

Costume di Medea, Mantello di Giasone in tela di cotone tinta in pezza con Gelso nero (Morus nigra) e indaco.


TAVOLA 14

Particolare mantello Giasone


TAVOLA 15

Particolare mantello di Giasone


TAVOLA 16

Particolare frontale cuffia di Medea, realizzata con tecnica ad uncinetto, filo di cotone tinto con Gelso nero (Morus nigra), perline realizzate con pasta sintentica colorate con colore acrilico oro.


TAVOLA 17

Particolare cuffia, vista laterale.


TAVOLA 18

Costume Giasone completo di mantello


TAVOLA 19

Costume di Giasone, tela di cotone tinta in pezza con Gelso nero (Morus nigra) e indaco.


TAVOLA 20

a, particolare, simbolo del sole, decorazione realizzata con piastrine in pasta sintetica, colorate con colore acrilico oro.

b, particolare, occhielli e decorazioni del mantello di Giasone.


Fotografie Coreografa Cinzia Tartamella in I passi di Medea

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Apparati

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Note L’opera di Euripide fu messa in scena durante le feste di Dionisio, in un’epoca in cui gli uomini credevano di possedere il diritto divino di trattare tutti i non greci come barbari, e le donne come delle semplici datrici di vita e guardiane dei beni della casa. Pertanto, la tragedia suscitò al suo debutto molto scalpore; non a caso l’opera non venne accolta con successo guadagnando soltanto il terzo posto nel concorso trilogico che caratterizzava allora le Grandi dionisie ateniesi. In onore di Dioniso in Attica si tenevano quattro feste annuali. Le piccole Dionisie, le Lenee, le Antesterie, e Le Grandi Dionisie che erano le feste più importanti poiché corrispondevano con la riapertura del porto di Atene dopo la pausa di navigazione invernale e con il conseguente arrivo di molti stranieri nella polis. Nei giorni di festa si tenevano due concorsi tra le varie popolazioni dell’Attica: per l’esecuzione del miglior Inno satiresco, e per la migliore poesia tragica. Intorno al 501 a.C. venne introdotto anche il concorso per il dramma satiresco. Così, in definitiva, ogni autore partecipava alle Grandi Dionisie con tre tragedie collegate tra loro per tema o argomento, un dramma satiresco e, dal V secolo a.C., anche una commedia 2 Euripide di Salamina (Atene, 485 a.C.–Pella, 407-406 a.C.). Si distingue dai suoi contemporanei per uno spiccato realismo e una forte riflessione psicologica dei suoi personaggi, per una spontanea analisi ai valori della tradizionale società Greca e per una complessa tecnica drammatica, tutti fattori che lo sfavorirono in vita rispetto ai suoi contemporanei, tra quelli a noi noti Sofocle ed Eschilo. Del drammaturgo ci pervengono solo diciassette tragedie: Alcesti, Medea, Gli Eraclidi, Adromaca, Ecuba, Eracle, Le Supplici, Ione, Le Troiane, Elettra, Ifigenia in Tauride, Elena, Le Fenicie, Oreste, Le Baccanti, Ifigenia in Aulide. Della sua produzione è sopravvissuto anche un dramma satiresco intitolato Il Ciclope, che racconta la vicenda intercorsa tra Ulisse e Polifemo. 3 Christa Wolf, Christa Ihlenfeld, nata (Landsberg an der Warthe, 18 marzo 1929 – Berlino, 1 dicembre 2011). Scrittrice tedesca contemporanea tra le più note. Alcune delle sue opere più famose: Der geteilte Himmel (Il Cielo diviso) 1963; Unter den Linden (Sotto i tigli) 1974; Kindheitsmuster (Trama d’infanzia), 1976 Kassandra (Cassandra) 1983; Störfall (Guasto)1987; Ein Tag im Jahr (Un giorno all’anno) 2003; Mit anderem Blick (Con uno sguardo) 2005; Stadt der Engel oder The Overcoat of Dr Freud (La città degli angeli) 2011. 4 Nella percezione degli antichi la Colchide corrispondeva a ciò che oggi potrebbe essere assimilato, in tutto o in parte alla Georgia, al margine estremo orientale del Mar Nero. 5 Atamante è un personaggio della mitologia greca, figlio di Eolo dio del vento, re della Tessaglia e di Orcomeno. 6 Pindaro è stato un poeta lirico greco (Cinoscefale, Beozia 518 a.C – Argo 438 a.C). Discendente di una nobile famiglia, ricevette un’ educazione musicale e letteraria che si espresse nella realizzazione d’ importanti carmi epici. Nelle sue opere celebrava le competizioni agonistiche cantando i modelli ideali del suo tempo, ovvero i principali canoni dell’antica Grecia fondati sulla bellezza, la prestanza fisica e l’intelligenza, mescolati alla bontà e all’armonia delle cose, valori che appartenevano anche alla sua educazione aristocratica. Tra il 480-460 a.C. si pone il periodo della sua più ampia produzione letteraria. La sua copiosa opera poetica, conservata interamente in quattro libri di Epinici comprendenti: quattordici Olimpiche ( dedicate a Zeus), dodici Pitiche (dedicate ad Apollo), undici Nemee (dedicate a Zeus), otto Imistiche ( dedicate a Po1

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seidone). Sono pervenuti a noi anche alcuni frammenti di altre composizioni. Il Poeta durante i suoi viaggi fu ospitato da nobili famiglie, da cui ricevette molti incarichi. Ad Agrigento, ospite presso Tirone, compose gli Epinici. A Siracusa, accolto alla corte di Ierone, dedicò altri Epinici. Oltre che con i tiranni siciliani, Pindaro ebbe buoni rapporti con Arcesilo IV, re di Cirone, per il quale compose la Pitica IV e la Pitica V, scritte dal poeta per celebrare le vittorie che il re riportò nella corsa delle quadriglie ai giochi Pitici del 462 a C. Delle due, la Pitica V narra l’epinicio vero e proprio, dove il poeta canta e loda la vittoria conseguita dalla quadriga del re, il quale era riuscito a salvarsi da un pauroso incidente che coinvolse i partecipanti alla gara. Nella Pitica IV l’impresa del re è accennata rapidamente, la narrazione si spinge quasi interamente per tutta l’ode al racconto di alcuni episodi del viaggio degli Argonauti, utilizzato però per finalità apocrife ed apologetiche del sovrano e perciò stesso poco utile alla comprensione del mito originario degli Argonauti e di Medea. Alla quarta pitica viene dato un valore esemplare del mito di Giasone e Pelia, che attraverso un accordo pacifico evita una guerra sanguinosa tra loro, un intento del poeta a legittimare il potere del sovrano Arcesilo. L’impresa del vello d’oro è data dall’encomio di un sovrano che non è solo il destinatario del carme, ma è legato a quel mito antico da rapporti genealogici, messi in luce dal poeta nel corso del suo componimento. Le Pitiche cantavano i vincitori dei grandi giochi panellenici di Pito (Delfi) che si svolgevano ogni quattro anni in onore di Apollo, gare atletiche e concorsi poetici che attiravano un vasto pubblico proveniente da tutta la Grecia. 7 Apollonio Rodio (Alessandria d’Egitto, 295-215), secondo direttore della biblioteca d’Alessandria e poeta. La sua gloria è legata a Le Argonautiche, quarto poema epico dell’antichità classica pervenutoci per intero dopo l’Iliade e l’Odissea di Omero e l’Eneide di Virgilio. 8 Le Argonautiche è suddiviso in quattro libri che narrano le avventure di un gruppo di eroi i quali, sotto la guida di Giasone, partirono per un’avventurosa spedizione sulla nave Argo (la prima nave del mondo mediterraneo, secondo gli antichi, costruita con l’aiuto della dea Atena) alla conquista del Vello d’oro. Secondo Apollonio Rodio, Giasone era figlio di Esone re di Iolco antica città della Tessaglia. Egli venne detronizzato dal fratellastro Pelia, nato dall’unione della loro madre con Poseidone. Crescendo lontano dalla corte, in età matura Giasone si presentò a Pelia per rivendicare il trono di suo padre. Pelia attraverso l’oracolo aveva saputo che l’aspettava una sorte atroce e che tra i suoi sudditi gli sarebbe apparso un giovane senza sandalo che gli avrebbe dato la morte. Quando Giasone gli apparve al cospetto senza un sandalo, per allontanare tale minaccia, alla richiesta di lasciargli il trono che era suo, egli promise di concederglielo solamente se lui avesse recuperato il vello d’oro. Nonostante il prospetto di una difficile impresa, Giasone partì insieme al suo gruppo di eroi alla volta della Colchide. La dea Era, trascurata da Pelia che non le rendeva onore ed adirata con lui, benedì la spedizione di Giasone tal che, nonostante il lungo viaggio dal mare Egeo al mar Nero, lo sbarco in terre sconosciute e i tanti perigli, gli eroi riuscirono ad arrivare a destinazione. Giasone venne accolto con grandi onori dal re Eate, ma quando gli chiese pacificamente il Vello d’oro scatenò le sue ire, così scacciandolo insieme ai suoi compagni. Successivamente, Eate propose con l’inganno a Giasone di sottoporsi ad una prova molto difficile, che fino ad allora solo il Re era stato in grado di compiere. Se Giasone l’avesse superata con successo il vello d’oro sarebbe stato suo. Medea, che per volere degli dei si era innamorata perdutamente di Giasone, grazie alla sua capacità di creare filtri magici, aiutò Giasone a superare la prova. Ma Eate, che non aveva nessun intenzione di consegnare il vello, fece ordinare ai suoi soldati di sorprendere gli Argonauti nella notte e

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di ucciderli. Medea, spinta dall’amore, finì per tradire il padre consegnando il vello a Giasone e fuggendo con lui. Con l’inganno, Medea attirò il fratello Assirto (Apsirto), che l’inseguiva per mare, in un incontro segreto, dove Giasone lo uccise freddamente. Da quel momento in poi il viaggio degli Argonauti verso la Grecia fu lungo e pieno di tante altre peripezie. 9 Per il filosofo Platone ( Atene 428/427 a.C. - Atene 348/347 a.C.) la mania è un furore, un entusiasmo che rende folli o eletti. Il soggetto viene posseduto dal dio. Platone aveva identificato quattro diversi tipi di mania che adempivano a specificare funzioni dell’esistenza umana. C’era la mania mantica o profetica, che aveva come connessione mitologica il dio Apollo; gli aspetti che presiedevano questa mania erano: la disciplina, la concentrazione e la premonizione. La seconda mania distinta da Platone era la mania telestica o misterica, connessa al dio Dioniso, dedicata alla gioia, all’entusiasmo e alla spontaneità. La Terza mania era la poetica, riferita alle muse, dedita a tutelare la fantasia, il genio e la bellezza. La quarta mania, era quella erotica, che sotto Eros ed Afrodite riguardava l’amore, l’erotismo e la passione. Le manie platoniche sono una metamorfosi del piacere di un’ idea, che è una realtà superiore a quella attuale. Esse sono piaceri direzionati dalle nostre scelte, dalle nostre azioni e comportamenti, sono le passioni, gli interessi e persino gli ideali e i valori che guidano l’uomo nelle relazioni interpersonali. Nel Fedro (IV secolo a.C.) Platone, attraverso un dialogo tra il suo maestro Socrate e un giovane ateniese, Fedro per l’appunto, appassionato di retorica, parla dell’amore. I due personaggi discutono un pensiero dell’oratore Lisia, il quale definiva l’amore l’opportunità di concedere favore a chi non è innamorato. Socrate non si contrappone al pensiero di Lisia, ma egli definisce il discorso sull’amore chiamandolo “mania umana”, mania che tende al piacere, che trova maggior soddisfazione a concedersi a chi non è innamorato. Platone, oltre dell’amore quale mania umana, parla anche di Eros come mania divina. Infatti, per comprendere la natura dell’amore bisogna, parlare di quale sia la vera natura della vita al di là della vita terrena. Platone lo spiega attraverso il mito della biga alata. Definendo l’anima degli uomini come due metà divise in due, una razionale e una passionale. Egli rappresenta l’anima come una biga dotata di ali, guidata da un auriga che rappresenta la ragione, e trainata da due cavalli, uno nero e uno bianco. Il cavallo bianco rappresenta l’intelletto, il coraggio e la determinazione, obbedisce alla ragione e conduce la biga verso il bene. Il cavallo nero è ribelle, indomabile, rappresenta l’anima passionale, ricca di sentimenti e desideri legati alla sessualità, alla gola a tutto il compiacimento della vita terrena che conduce verso il male. Le bighe, guidate dall’anima di una divinità, cercano d’ innalzarsi sempre più rispetto alla loro posizione in modo da poter raggiungere oltre il cielo la pianura della verità, dove vi sono le idee. Il mito della biga spiega come le passioni, le emozioni, i sentimenti legati alla vita terrena debbano essere guidati dalla ragione. L’uomo, non potendo eliminare le passioni attraverso giudizio, intelligenza e saggezza, può e deve cancellare gli errori da esse causati e che inducono all’errore. Il carro quindi deve andare dove decide l’auriga e non dove lo dirigono i cavalli. Quando l’anima arriva nell’aldilà, prima di rincarnarsi in un altro corpo, contempla per un lungo periodo la pianura della verità; in questo tempo essa riesce a cogliere un breve istante di sapere che però gli lascia un ricordo delle idee, una traccia della verità che l’uomo riesce a riconquistare attraverso l’esortazione del ricordo che avviene attraverso l’eros. La divina mania spinge l’uomo verso il bello. Questa propensione aiuta a recuperare il ricordo delle idee. Nell’incontro tra due amanti, l’eros pervade l’anima del corpo innamorato, che nella bellezza rende viva quell’immagine la quale, se pur per poco, rigenera il ricordo delle idee che ha contemplato nella pianura

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della verità. 10 Publio Ovidio Nasone, (in latino: Publius Ovidius Naso; Sulmona, 20 marzo 43 a.C. – Tomi, 18 d.C.), fu un celebre poeta romano. Il capolavoro di Ovidio è Metamorfosi, contiene le storie di più di 250 miti. Scritto in esametri, in quindici libri (per circa 12 000 versi), vi si trova tutta la mitologia greca, ma riorganizzata da Ovidio in una serie di racconti continuati. Il criterio generale di compilazione segue l’ordine cronologico, ma molto spesso Ovidio introduce eventi al fatto narrato o posteriori, collega le storie in base a rapporti familiari, elabora i racconti secondo affinità o diversità. Insomma si tratta di un racconto mosso e articolato, talvolta al limite dell’artificio, che mostra l’abilità stupefacente del poeta di legare tra di loro storie che apparentemente non hanno un filo logico comune. L’unico principio unificatore è la metamorfosi. Tra gli strumenti adottati dal poeta vi è il racconto nel racconto, grazie al quale il poeta trasforma i personaggi “narrati” in personaggi “narranti” che raccontano vicende proprie o altrui. L’opera lo rese illustrissimo presso i contemporanei. 11 Egeo è, nella mitologia Greca, re di Atene. Ebbe due mogli, la prima Meta e la seconda Calciope. Non riuscendo ad avere figli, chiede aiuto all’oracolo di Delfi, le cui parole recitano: «tieni chiuso il tuo otre di vino finché non avrai raggiunto il punto più alto di Atene, altrimenti un giorno ne morirai di dolore». Non capendo il responso, chiese chiarimenti a Terenze Pitteo che, capendo il significato delle parole dell’oracolo, fece ubriacare Egeo dopo averlo presentato a sua figlia Etra che già in precedenza si era unita con Poseidone dalla cui unione era nato Teseo. Prima che questi nascesse, Egeo decise di tornare in patria lasciando alla madre le armi da dare al figlio come segno di riconoscimento, quando egli sarebbe cresciuto e si sarebbe presentato al suo cospetto. Nella tragedia di Euripide Medea, esiliata da Creonte, chiede Asilo a Egeo che glielo concede in cambio dell’aiuto ad avere un erede. Da altre fonti mitologiche quando Medea arriva ad Atene, si unisce in matrimonio con Egeo dal quale nasce un figlio, chiamato Medo. Teseo all’età di sedici anni si reca senza dichiarare la sua vera identità al padre. Egeo lo accolse con sospetto, mentre Medea più volte cercò di attentare alla vita del giovane. Ma quando il re stava per avvelenare il giovane secondo i consigli di Medea, casualmente riconobbe quelle armi che aveva lasciato ad Etra da donare al figlio, a quella vista Egeo tempestivamente riuscì a strappare il calice dalle mani del figlio salvandolo da un atroce sorte. Medea anche stavolta fu costretta a scappare. Nonostante la scampata tragedia, la felicità pervase Egeo che adesso, potendosi riunire con il figlio, diede grandi feste in suo onore. La mitologia narra che il figlio di Minosse Androgeo in visita ad Atene, durante le feste in tutte le gare riuscì a battere Teseo che, invidioso, lo uccise. Minosse, offeso e infuriato, dichiarò guerra ad Atene, tramite un compromesso però la guerra venne evitata: ogni anno gli ateniesi dovevano inviare a Creta sette ragazze e sette ragazzi da offrire in sacrificio al Minotauro che reclamava le sue vittime. Teseo, stanco di questi terribili sacrifici, decise di andare a Creta e di liberarla dal Minotauro. L’impresa venne compiuta anche grazie ad Arianna, la figlia di Minosse che aiutò il valoroso Teseo. Il giovane prima di partire si era messo d’accordo con il padre d’ issare delle vele bianche se la missione si fosse compiuta con successo, e nere se invece fosse morto. Al ritorno, arrivati ad Atene Teseo si era dimenticato di issare le vele bianche. Ed Egeo non scorgendole, pensando che il figlio fosse morto, in preda al dolore si gettò in mare. 12 Heroides (Eroine) è una raccolta di lettere composte tra il 25 ed il 16 a.C., circa ventuno, che Ovidio immagina scritte dalle famosi personaggi femminili della mitologia greca ai loro amanti. Tra le lettere troviamo quella di Medea a Giasone, in uno strazian-

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te sfogo di dolore dopo l’abbandono subito dal marito. 13 Ovidius Naso, Publius, Heroides, traduzione e note, Nicola Gardini, Classici Greci e Latini, A. Mondadori, Milano,1994, p. 111 (vv. 30-35). 14 Ivi p. 111 (vv. 35–40). 15 Ivi p.114 (vv. 130 – 135). 16 Il pensiero sofistico, nato in Grecia e soprattutto ad Atene nel V secolo a.C., applicava un sistema critico ad ogni parvenza della vita e dell’idea, sottoponeva quindi ad analisi tutta la realtà ateniese, dalla politica alla morale, dalla religione all’arte, Euripide era attratto da ogni cosa nuova e la sofistica ebbe un forte influsso su di lui e sulle sue tragedie. 17 Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro, Medea variazioni sul mito, a cura di Maria Grazia Ciani, Grandi classici tascabili Marsilio, Venezia 2003,cit. pp. 30- 31. 18 Ivi, pp. 60- 61. Giasone, in preda alla disperazione dopo aver scoperto la morte dei figli, impreca contro la moglie e s’ incolpa di averla portata da una terra barbara in Grecia; si accusa di aver preferito Medea, di natura selvaggia e crudele, ad una greca incapace di commettere un azione cosi atroce. 19 Lucio Anneo Seneca (Cordova 4.a.C. - Roma 65 d.C. ), filosofo, drammaturgo, poeta e politico romano. Cresciuto a Roma, è più noto per la sua opera retorica e politica, ma tra tutti i suoi interessi non mancò certo quello per il dramma. Seppur le diverse tragedie da lui scritte non vennero mai rappresentate nel teatro romano, le sue opere hanno avuto un grande influsso sui drammaturghi del Rinascimento. Delle sue opere sono rimastre nove tragedie: Hercules furens (Ercole furente), Troades (Le Troiane) Medea, Phaedra (Fedra), Oedipus (Edipo), Agamennon (Agamennone), Thyestes (Tieste), Hercules Oetaeus ( Hercules sull’Eta. 20 Luigi Maria Cherubini (Firenze, 1760 – Parigi, 1842) compositore italiano di grande fama, autore di numerose opere liriche tra cui Medea del 1797. 21 Franz Grillparzer (Vienna, 1791-Vienna, 1872) è stato uno scrittore e drammaturgo austriaco. Fra le sue opere principali si annoverano: Blanca von Castilien (Bianca di Castiglia) 1807-1809; Spartacus (Spartaco)1809; Alfred der Grosse (Alfredo il Grande) 1809; Die Ahnfrau (L’avola)1817; Sappho (Saffo), 1818; Das goldene Vlies (Il Vello d’oro) 1821; trilogia composta da: Der Gastfreund (L’ospite), Die Argonauten (Gli Argonauti); Medea. König Ottokars Glück und Ende (Fortuna e caduta di re Ottokar) 1823; Ein treuer Diener seines Herrn (Il fedele servitore del suo signore) 1826; Des Meeres und der Liebe Wellen (Le onde del mare e dell’amore) 1831; Weh dem, der lügt (Guai a chi mente), 1838; Der arme Spielmann (Il povero suonatore) 1848; Ein Bruderzwist im Hause Habsburg (I fratelli rivali d’Asburgo) 1848; Die Jüdin von Toledo (L’ebrea di Toledo), 1851. 22 In tale percorso l’autore traccia un completo mutamento sentimentale e psicologico dell’eroina colchidea. Ne L’Ospite Medea è una giovane ragazza amante della vita e della natura, giusta ed anche ancora pura ed ingenua, capace però di manipolare filtri ed erbe magiche che il padre le farà usare contro i suoi nemici. L’uccisione di Frisso, indottale dalla volontà del padre che voleva impossessarsi del vello d’oro in suo possesso, segnerà profondamente la principessa. Negli Argonauti il cambiamento di Medea è evidente: adesso lei vive in una torre diroccata; votata a cupe magie, ivi nasce l’amore per Giasone, che è combattuto con quello per la famiglia e per la patria che in seguito abbandonerà insieme al capitano rubando il mitico Vello d’oro. In Medea, infine, si è di fronte ad una donna che vorrebbe cambiare, diventare una donna nuova, una buona sposa greca, ma che viene tradita dal marito ed emarginata da tutti.

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Corrado Alvaro (San Luca, 1895 – Roma, 1956) è stato scrittore, giornalista e poeta italiano. Ancora studente liceale, pubblica il suo primo opuscolo Polsi nell’arte, nella leggenda, e nella storia .Combattente della guerra 1915-18, entrò poi nel giornalismo come redattore de «Il Mondo» di G. Amendola, schierandosi fra gli avversari del Fascismo .Tra le sue opere ricordiamo: Gente in Aspromonte (1930), che gli vale il primo importante premio letterario italiano, collabora per «La Stampa» nel 1931. Tra le sue opere : Terra Nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino (1934); L’uomo è forte (1938) per il quale riceve il Premio dell’Accademia d’Italia della letteratura nel 1940; Incontri d’amore (1940); L’età breve (1946), primo romanzo del ciclo Memorie del mondo sommerso, Lunga notte di Medea (1949); Quasi una vita (1950), per il quale ottenne il premio Strega nel 1951; Belmoro (1957, postumo). 24 Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro, Medea variazioni sul mito, cit., p. 20. 25 Dario Fo (Sangiano, 24 marzo 1926) è un drammaturgo, attore, blogger e scenografo italiano. Ha vinto nel 1997 il premio Nobel per la letteratura (già candidato nel 1975). I suoi lavori teatrali usano i tratti distintivi propri della Commedia dell’arte italiana conducendolo ad una fama internazionale. È conosciuto per le sue opere teatrali contenenti tematiche satiriche sulla politica e il sociale, oltretutto attivo nella politica di sinistra. Tra le sue numerose opere si annoverano: Il dito nell’occhio,1953; Le commedie di Dario Fo,1966; Mistero buffo(1969); Vorrei morire anche stasera se dovessi pensare che non è servito a niente, 1970; La storia di un soldato, 1979; Diario di Eva, 1989; Manuale dell’attor comico, 1991; Il diavolo con le zinne, 1998; Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, 2004; L’Apocalisse rimandata, ovvero Benvenuta catastrofe!, 2008; La Bibbia dei villani, 2010; Un clown vi seppellirà, 2013. 26 Franca Rame (Villastanza di Parabiago, 1929 - Milano, 29 maggio 2013) è stata attrice teatrale, drammaturga e politica italiana. Dal 24 giugno 1954 moglie di Dario Fo, insieme al marito ha fondato la Compagnia Dario Fo-Franca Rame. Dalla fine degli anni Settanta la Rame ha partecipato attivamente al movimento femminista. Come attrice e autrice insieme al marito ha trattato, i temi sulla condizione femminile: Tutta casa, letto e chiesa (1978); Coppia aperta (1984); Parliamo di donna (1991); È stata protagonista di molte commedie di Dario Fo: La signora è da buttare (1968); Fabulazzo osceno (1981); Sesso?grazie tanto per gradire (1994); Dei successivi lavori si ricordano: Il diavolo con le zinne (1997); Marino libero!Marino è innocente (1998); Lu Santo jullare Francesco (1999); Insieme a Dario Fo ha scritto l’autobiografia: Una vita all’improvvisa (2009). 27 Dario Fo, Franca Rame, Le commedie di Dario Fo, Venticinque monologhi per una donna, Einaudi, Torino, 1989. 28 Le commedie di Dario Fo, Venticinque monologhi per una donna, cit., p. 71. 29 Ivi, p. 72. 30 Ivi, p. 73. 31 Ivi, p. 74. 32 Ibidem. 33 Ivi p. 67. 34 Francesco Mastriani (Napoli, 23 novembre 1819 – Napoli, 7 gennaio 1891) è stato uno scrittore italiano, autore di romanzi d’appendice, anche drammatugo e giornalista. Tra le sue opere si ricordano: Sotto altro cielo ,1847; Un destino color di rosa; 1857; Una figlia nervosa, 1865; Una martire, 1973; Le memorie d’una monaca,1879; L’orfana del colera 1884; I delitti dell’eredità, 1890; La Medea di Porta Medina (1882) postumo 1915. 23

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Porta Medina era un’antica porta della città di Napoli, essa si trovava di fronte la stazione della Cumana; attualmente un’ epigrafe posta su un edificio ricorda il luogo dove essa si erigeva. 36 Medea. Stimmen (Medea. Voci) traduzione dal tedesco di Anita Raja, postfazione di Anna Chiarloni, edizioni e/o, Roma, 2012. 37 Renzo Ricchi, Femminilità e ribellione – la donna greca nei poemi omerici e nella tragedia Attica, Vallecchi Editore, Firenze, 1987. Renzo Ricchi ( Firenze 1936) è scrittore, poeta, giornalista, drammaturgo. Nasce come poeta e scrittore e solo successivamente intraprende la carriera del giornalismo che lo vede redattore del quotidiano L’Avanti dal 1974 al 1978, anno in cui passa alla RAI-Radio televisione Italiana addetto ai servizi culturali. Contemporaneamente per dieci anni dirige la rivista Quaderni di Teatro. Negli anni Settanta inizia la sua produzione letteraria di poesia, narrativa, testi teatrali e saggistica, tradotta anche in lingua stranire, tanto che una larga parte dei suoi componimenti in versi sono sati tradotti e pubblicati in Jugoslavia, Grecia, Turchia, Giappone, Irlanda, Stati Uniti, Slovacchia, Ucraina e Germania. Attualmente si occupa di letteratura come critico letterario in varie riviste italiane e straniere fra cui: Nuova Antologia, Libri e Riviste d’Italia (del Ministero per i Beni e le Attività Culturali), Rivista di Studi Italiani (dell’Università di Toronto) e Bibliotheca (periodico di scienze bibliotecarie). Come poeta ha pubblicato varie raccolte di versi: Mozione di sfiducia (Città di Vita, 1969); Uomo dentro la prova (Vallecchi, 1971); La storia ha tempi lunghi (Vallecchi, 1973); Itinerari della coscienza (Marsilio, 1977); Dal deserto (Vallecchi, 1977); Notizie dal mondo scomparso (Vallecchi, 1979); Un evento tra i fatti (Vallecchi, 1983); Poesie d’amore (Lucarini, 1985); Le radici dello spirito (Vallecchi, 1986 e 1992; Nel sabato dell’eternità (Amadeus, 1993); La pietà della mente (Passigli, 2001); Perché fiorisce la rosa (Passigli, 2005); La cetra d’oro – antologia 1950-2005 – (Rocco Barabba, 2007). 38 Marco Tùllio Ciceróne Arpino, (3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.) è stato scrittore romano, avvocato e politico. Una delle figure più di rilievo in tutta l’antichità romana. La sua ricca produzione letteraria varia dalle orazioni politiche, alla filosofia e retorica. Egli è stato testimone della società romana negli ultimi anni della Repubblica, offrendo un prezioso ritratto di questo difficile periodo. Un esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., considerato il modello della letteratura latina classica. Attraverso l’opera di Cicerone, amante della cultura greca, i romani poterono acquisire una superiore conoscenza della filosofia. 39 Pisistrato, tiranno di Atene intorno al 560 a.C d’ origine aristocratica , si mise dalla parte dei poveri, ottenendo il loro sostegno, anche a livello militare, infrangendo le leggi della polis, abrogando l’Assemblea assunse i pieni poteri. Tuttavia utilizzando il suo potere pose fine ai gravi problemi sociali della città; ridistribuendo terre, togliendo ettari di terreno ai ricchi per darli ai contadini. Gli aristocratici che si opponevano venivano uccisi o esiliati senza processo; altri accettando le riforme riuscirono a mantenere parte dei loro privilegi. Gli anni di Pisistrato furono complessivamente anni di pace e di benessere; i mercanti intensificarono i loro commerci e la città si arricchì di opere d’arte. Per incarico personale del tiranno, l’Iliade e l’Odissea furono trascritte in caratteri alfabetici su papiro e conservate negli archivi della città. Grazie a Pisistrato, quindi, questi poemi sono giunti a noi in quanto, affidati solo alla memoria dei poeti, sarebbero andate certamente perduti. 40 Gli Aedi nell’antica Grecia erano i cantori dei poemi Omerici e di tutti i racconti mitologici. Queste figure erano considerate importanti come profeti, poiché si credeva 35

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che nel loro narrare le storie mitologiche fossero ispirati dalle divinità stesse. Essi non possedevano testi scritti a cui fare riferimento, ma la trasmissione orale delle storie avveniva attraverso l’uso della memoria. Esistevano anche delle scuole dove si formavano gli aedi, dove la capacità di saper raccontare l’epica veniva tramandata di generazione in generazione. Oltretutto, attraverso il racconto mitologico si metteva in luce tutto il percorso storico della cultura greca ,specialmente a livello bellico, poiché per i greci le conquiste erano molto importanti, fonte di grande orgoglio e gloria. Nell’isola di Chio si trovava una scuola eccellente, detta degli Omerici; la sua fama poggiava sulla presunta discendenza diretta dallo stesso Omero. 41 Cnosso, posizionata nella parte più alta dell’isola di Creta, è stata un’ importante centro della civiltà minoica, che prende il nome dal re Minosse che la governava. La civiltà cretese ebbe il suo grande sviluppo nell’età del bronzo. Abitata già nel neolitico, diviene un ricco centro della civiltà minoica verso il 2000 a.C., epoca della costruzione del grande palazzo che, privo di mura difensive, permise a molte popolazioni vicine e potenti come quella micenea di attaccarlo e distruggerlo in seguito. La città era molto ambita per la sua posizione geografica che permetteva ottimi scambi commerciali. Testimonianze pittoriche trovate a palazzo dimostrano i notevoli rapporti mercantili con la civiltà egiziana, nell’arte e nell’architettura, ad esempio, è evidente l’influenza dei rapporti intercorsi tra le due culture. Ricca ed evoluta, Cnosso vantava ingegnosi acquedotti ed una grande predisposizione per l’artigianato, ammirato in tutto il Mediteraneo. Cnosso è legata ai miti della Grecia; attraverso testi e varie ritrovamenti conosciamo la bellezza e la grandezza del popolo che l’abitava. 42 Elena è una figura della mitologia greca presente nell’Iliade che nell’Odissea. Famosa per la sua bellezza, era sposata con il re di Sparta Menelao; rapita da Paride principe di Troia, venne usata come pretesto dai Greci per dichiarare guerra alla città di Troia, scatenando cosi la più grande guerra narrata nella mitologia greca. Il suo personaggio dalle fonti è controverso ed assume diversi ruoli nei vari racconti, ma più che altro la sua figura è stata ricondotta al fascino, alla bellezza e alla seduzione. 43 Alcinoo è un personaggio mitologico presente nell’Odissea di Omero, Re dei Feaci sposato con Arete, ebbe una figlia di nome Nausica che aiutò Ulisse (protagonista del poema), quando questi, superstite, arrivò sulle coste dell’isola. Nausica lo soccorse e lo invitò alla reggia del padre, il quale, una volta ascoltate le disavventure dell’eroe, gli regalò una nave per riprendere il viaggio e tornare nella sua amata patria. Nelle Argonautiche, quando sull’isola giunsero Giasone e Medea, Alcinoo li accolse con grande ospitalità. Ma quando Giasone e compagni vennero raggiunti dai soldati del padre di Medea con lo scopo di vendetta, questi, non volendo una guerra, decise di consegnarla al padre. Solo se Medea fosse stata sposata con Giasone egli poteva estraniarsi dall’obbligo di doverla rimandare dal padre. Così Arete, moglie di Alcinoo, preoccupata per la sorte di Medea a cui si era affezionata e riuscita a conoscere in tempo le condizioni poste dal marito, avvertì Medea che si unì in matrimonio con Giasone, scampando anche questa volta alla terribile sorte di dover tornare in Colchide. 44 Ettore eroe della mitologia greca, nell’Iliade è tra i personaggi principali, figlio primogenito di Priamo, re di Troia, e di Ecuba, sposo di Andromaca e padre di Astianatte. Durante la guerra egli dimostra di avere grande valore e fermezza, sensibile e giusto, amante della propria famiglia e della patria, combattendo personalmente i nemici. Durante lo scontro contro Achille, andato a vendicare l’uccisone del cugino Patroclo, Ettore affronta il suo grande nemico con coraggio e dignità in un duello leale. Vi troverà la morte lasciando Troia senza guida e senza il più grande principe e battagliere.

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della città. La forza dell’eroe Omerico rimase esemplare nei successivi secoli come personaggio di grande forza, coraggio e lealtà. 45 Pericle (Cholargos, 495 a.C. circa – Atene, 429 a.C.), è stato un politico, oratore e a ateniese durante il periodo d’oro della città, al momento tra le guerre persiane e la guerra del Peloponneso (431a.C. – 411 a.C.). 46 Eschilo di Eleusi ( Eleusi, 525 a.C. – Gela, 456 a.C.) è stato un drammaturgo greco antico. Viene considerato l’iniziatore della tragedia greca nella sua forma matura ed è il primo dei poeti tragici dell’antica Grecia di cui ci siano pervenute opere per intero. La maggiore innovazione introdotta dal drammaturgo nella struttura della tragedia e l’avvento del secondo attore. Una caratteristica di Eschilo era l’impiego nelle sue opere di danze corali e l’utilizzo di costumi fastosi. Tutte le sue tragedie, ad eccezione dei Persiani, sono trilogie unite da un’unica trama o da uno stesso tema mitologico. L’Orestea è una triologia che narra l’assassinio di Agamennone da parte di sua moglie Clitennestra (nell’Agamennone); nelle successive Coefore, il figlio Oreste, dieci anni dopo, per vendicare l’omicidio del padre Agamennone uccide la madre Clitennestra; nell’ Eumenidi, terza parte dell’Orestea, viene narrata la persecuzione delle Erinni nei confronti di Oreste. Le Erinni erano chiamate anche Eumeni, da cui prende il nome la tragedia, sono dee che impersonano la vendetta. Braccato dalle Erinni per il matricidio Oreste si dirige al tempio di Apollo per chiedere aiuto al Dio. Quest’ultimo offrendo il suo aiuto, lo manda dalla dea Atena. Le dee infernali vanno in cerca di Oreste, quando egli è ormai arrivato al tempio di Atena e ne sta invocando l’aiuto esse lo raggiungono, minacciandolo di infliggergli la meritata punizione. In quel momento Appare Atena, la dea della giustizia che si offre come giudice di questa vicenda. Si svolge cosi un regolare processo. Tutto culmina nella celebrazione di un processo presso il tribunale dell’Areopago, dove il giudizio vede le Erinni come accusatrici di Oreste, Apollo come difensore e Atena a presiedere la giuria. Durante processo le Erinni accusano Oreste dell’omicidio della madre, il quale si difende spiegando di aver agito per una vendetta legittima in quanto Clittennestra aveva ucciso suo marito, non che suo padre. Il figlio avendo lo stesso sangue del padre sente il diritto di vendicarlo. Al termine del processo la giuria infine vota. L’ultima a votare è Atena, la quale vota a favore di Oreste. Le Erinni infuriate per il verdetto, minacciano una rappresaglia. Atena nonostante tutto riesce a calmarle e le convince a diventare Eumenidi, divinità della giustizia anziché della vendetta. Tutto si conclude con un canto di benedizione delle dee ad Atene in un corteo di sacerdotesse guidato da Atena, le Eumenidi vengono condotte nella loro nuova dimora. 47 Sofocle di Colono (Colono, 496 a.C. – Atene, 406 a.C.) è stato un drammaturgo ateniese. La sua principale innovazione è l’introduzione del terzo attore e l’aumento del numero dei coribanti. Egli si dedica maggiormente a rendere la personalità dei suoi attori più complessa ed intensa. Non amava le invenzioni sceniche, ma teneva concentrata l’attenzione del pubblico maggiormente sull’azione attraverso un coinvolgimento emotivo del dramma. Della sua opera ci rimangono sette tragedie in versione integrale: Aiace, Antigone, Edipo Re, Elettra, Le Trachinie, Filottete, Edipo a Colono ed un ampio frammento satiresco, i Seguaci. 48 Aristotele (Stagira, 384/383 a.C. – Calcide, 322 a.C.) è stato un filosofo e scienziato greco, considerato una delle menti filosofiche più innovative, produttive e stimate del mondo antico occidentale per la vastità dei suoi campi di conoscenza, apprezzato come simbolo dell’uomo sapiente e come anticipatore di scoperte è stato discepolo del filosofo Platone rimando al suo fianco fino alla morte Nel 342 a.C venne invitato dal re Filippo II in Macedonia per educare il figlio Alessandro Magno. Aristotele fece da

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precettore al giovane per tre anni, fino a quando Alessandro incominciò a partecipare alle spedizioni militari del padre. L’educazione che Aristotele impartì ad Alessandro era basata sui fondamenti della cultura greca, grazie a quest’educazione Alessandro Magno può essere considerato un uomo greco per gli ideali trasmessigli dal maestro che sicuramente influenzarono anche la sua politica. 49 La Politica di Aristotele tratta della direzione della polis. L’opera è divisa in otto libri il cui ordine segue l’analisi dell’autore nel descrivere la città dalle sue origini fino al suo buon mantenimento mediante l’educazione politica. 50 Alcesti è una tragedia di Euripide presentata alle grandi Dionisie Ateniesi 438 a.C. il suo lieto fine comunque spinge a definire l’opera da alcuni critici un dramma satiresco. Con questo personaggio femminile Euripide tratta l’eroismo delle donne. Il dio Apollo volendo vendicare l’uccisione del figlio Asclepio per mano di Zeus si era fatto giustizia a sua volta uccidendo i Ciclopi. Infuriato, Zeus decise di condannare Apollo ad un periodo di schiavitù per pagare le sue colpe presso la dimora di Admeto, re di Fere in Tessaglia. Il dio trattato nella casa del re con ospitalità e bontà, sentendo riconoscenza nei confronti di Admeto, quando la morte si presentò al cospetto di quest’ultimo, riuscì ad ottenere dalle Moire che egli potesse scampare alla morte solo a condizione che qualcuno si sacrificasse per lui. Nessuno però era disposto a farlo, né gli amici, né gli anziani genitori. Solo la sposa Alcesti decise di offrirsi in sacrificio per amore del marito. Dopo il tragico evento arrivò sulla scena Eracle, per chiedere ospitalità. Admeto senza nascondere il suo dolore lo accolse generosamente nella sua casa, ma non raccontò nulla sul’accaduto. Si limitò a raccontare all’eroe che era morta una donna che viveva nella sua casa. Prima del funerale un servo andò a lamentarsi del comportamento di Eracle, il quale si era perfino ubriacato non tenendo conto del reale lutto. Nonostante allo schiavo fosse stato ordinato di non rimproverare il semidio, lo schiavo decise di raccontare a Eracle la verità sulla vera morte avvenuta in quella casa. Quando Eracle venne a conoscenza che la donna morta era la moglie di Admeto. fortemente pentito, decise di recarsi nel mondo degl’ inferi per riportarla in vita. Eracle fece ritorno con una donna velata. Senza rivelare la sua identità la offrì in dono al re che inizialmente, disgustato nel dover toccare un’altra donna, approvò solo di guardarla per non dispiacere il suo ospite. Nel momento il cui il viso della donna venne scoperto dal velo, nello stupore di tutti, si scoprì che la donna era Alcesti, grazie all’eroe era stata riportata alla vita e all’affetto della sua famiglia. 51 Ifigenia in Aulide è una tragedia di Eupide scritta tra il 407 – 406 a.C. l’opera non venne mai messa in scena. La protagonista è la figlia di Agamennone. Secondo l’oracolo Ifigenia doveva essere sacrificata prima della partenza per Troia, in augurio della vittoria e di un buon ritorno a casa. Agamennone combattuto tra l’amore della figlia e quello per la gloria, in un primo momento, cerca di ideare uno stratagemma per salvare la figlia, ma Menelao il fratello lo scopre e lo minaccia di denunciare il suo comportamento. Agamennone decide cosi di sacrificare la figlia. Clitennestra si dibatte e cerca di far ragionare il marito, non volendo perdere la giovane figlia. Ma improvvisamente Ifigenia smette anch’essa d’ implorare il padre e decide lei stessa di offrirsi in sacrificio, decide cosi di morire per la sua patria. Essa non vuole più morire da vittima ma da protagonista. Durante il sacrificio si verifica un prodigio: agli occhi di tutti appare un cervo, il sangue inonda l’altare e Ifigenia viene assunta in cielo. Sorte che tocca a gli eroi 52 Ecuba è una tragedia di Euripide ispirata alla moglie di Priamo re di Troia. L’opera risale al 424 a.C. La prima parte della tragedia s’incentra sul dolore di Ecuba per la sorte della figlia Polissena, sacrificata in onore di Achille. Neanche le suppliche fatte

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ad Ulisse, mandato a prendere la giovane poterono salvarla dalla sua sorte. Polinessa orgogliosa e piena di coraggio decise di sua volontà di morire, preferendo la morte ad una vita da schiava. Essa con il suo coraggio riscatta la dignità delle donne Troiane oltraggiate dalla schiavitù . La sventura si accanisce contro Ecuba dopo la perdita della figlia che la strazia dal dolore, apprende che anche suo figlio Polidoro era morto, egli era stato mandato presso il re tracio Polimestore, che si era offerto di proteggerlo, ma questo interessato solo alle sua ricca dote lo uccise spietatamente. Dopo questa notizia nasce in Ecuba un grande senso di ribellione contro quel vile omicidio. Decide cosi di vendicarsi e con abili parole chiede ad Agamennone il capo dei suoi nemici di aiutarla. Inizialmente Agamennone pensa che Ecuba voglia la libertà, ma essa è decisa a rimanere una schiava tutta la vita pur di riuscire a vendicarsi contro Polimestore. Agamennone impietosito dalla donna decide di aiutarla e di lasciarla libera nella sua vendetta. Il re Tracio viene invitato da Ecuba che fingendosi ignara della morte del figlio chiede della sua salute, alla quale Polimestore risponde con bugie. Riuscendo a farlo allontanare dalla servitù con un finto pretesto il re viene assalito da tutte le donne troiane che si accaniscono contro di lui. Lo accecano con delle fibule e uccidono i suoi figli. 53 Fedra è un personaggio femminile molto importante presente nella tragedia di Euripide L’Ippolito. La tragedia venne rappresentata per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 428 a.C. dove vinse il primo premio. Ippolito, figlio di Teseo, re di Atene, era un giovane disinteressato all’amore, egli si dedicava solo alla caccia ed ad onorare la dea Artemide, trascurando tutto il resto. Per tale motivo la dea Afrodite decide di punire il giovane, facendo innamorare Fedra la seconda moglie di Teseo, di lui, nonché sua matrigna. Questa passione sconvolge Fedra, consapevole dell’insanità di quest’amore è in continua lotta con la ragione e il cuore. Non riuscendo più a nascondere i suoi turbamenti si confida con la nutrice. Questa, credendo di agire in buona fede, racconta tutto ad Ippolito che reagisce in modo offensivo contro la matrigna. La donna umiliata ed addolorata, decide di uccidersi, ma prima di farlo scrive un biglietto dove accusa il giovane di averla stuprata. Quando Teseo trova la moglie morta e il messaggio lasciato da Fedra, maledice Ippolito. Mentre il giovane lascia la città la maledizione invocata dal padre si compie, un gigantesco toro esce dalle acque del mare spaventando i cavalli che trainavano il suo carro facendo schiantare il giovane. Ippolito viene riportato agonizzante a casa. Di fronte a Teseo appare la dea Artemide che racconta tutta la verità a Teseo che riesce ad ottenere il perdono del figlio prima di morire. 54 Page DuBois, Il corpo come metafora. Rappresentazioni della donna nella Grecia antica Quadrante, Editori Laterza, Bari 1990. Page DuBois è insegnate di letteratura classica presso la Univerity of California San Diego. Scrittrice di numerosi saggi, tra questi si ricordano: History, Rhetorical Description and the Epic: From Homer to Spenser (1982); Torture and Truth (1991); Sappho Is Burning (1997); Trojan Horses: Saving the Classics from Conservatives (2001) Slaves and Other Objects (2003). 55 I sette contro Tebe, è una tragedia di Eschilo, rappresentata per la prima volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 467 a.C. L’opera si inserisce all’interno del ciclo tebano; è la terza ed ultima parte di una trilogia legata ad una successione che racconta un’unica vicenda. La prima e la seconda parte della trilogia, raccontano le tragedie Laio ed Edipo, che sono andate perdute. I Sette contro Tebe racconta la tragedia di Eteocle e Polinice, figli di Edipo. Dopo che il padre era stato scacciato dalla città, essi si erano accordati per spartirsi il potere della città. Nell’accordo avevano stabilito di regnare un anno l’uno alternandosi sul trono. Ma Eteocle allo scadere del proprio anno non aveva voluto lasciare il proprio posto, facendo così torto a Polinice che decise di dichiarare

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guerra al proprio fratello ed alla propria patria. All’inizio del dramma Eteocle viene avvertito da un messaggero: gli uomini di Polinice sono vicini alla città ed hanno deciso di occupare le sette porte di Tebe con sette dei loro più abili guerrieri. Necessariamente, Eteocle sceglie come controparte sette guerrieri da contrapporre loro, ognuno a difendere una porta. Il messaggero riferisce che i sette guerrieri nemici, tirando a sorte, hanno deciso ciascuno a quale porta essere assegnati. Eteocle viene informato sul nome e le caratteristiche principali dei guerrieri che dovranno combattere contro i suoi; quando il messaggero nomina il settimo guerriero, che è suo fratello Polinice, decide di affrontarlo direttamente, consapevole che uno dei due sarebbe morto, ignorando i tentativi del coro di dissuaderlo. Le giovani coribanti, in attesa di notizie sull’esito della battaglia, intonano un canto pieno di paura al termine del quale arriva il messaggero che le informa; sei delle sette porte di Tebe sono rimaste incolumi e l’attacco è stato respinto, ma tragicamente i due fratelli che avevano combattuto nella settima porta si erano dati la morte l’un l’altro. Di fronte a questa notizia, la felicità per la battaglia vinta passa in secondo piano: vengono portati in scena i cadaveri dei due fratelli Etocle e Ponicle, ed il coro piange la loro triste sorte. 56 Edipo è un eroe della mitologia greca figlio di Laio e Giocastra. Il padre inizialmente afflitto per la mancanza di un erede, decise di andare a Delfi a consultare l’oracolo questi lo rassicurò che la disgrazia che addolorava i due sposi era in verità una fortuna, in quanto un eventuale figlio nato dalla loro unione avrebbe finito per portare la rovina nella loro casa. Laio, per tentare di salvare il suo regno ripudiò la moglie, ma questa, con l’inganno, una notte riuscì a congiungersi con lui dando alla luce un bambino. Il re, un’altra volta tentando di allontanare la sventura che l’oracolo gli aveva predetto, fece consegnare il bambino ad un servo che aveva il compito di ucciderlo, ma questi, non avendone il coraggio, lo abbandonò. IL bambino venne trovato da un pastore che lo condusse presso la corte del re di Cortinto, Polibo che lo accolse e lo allevò come un figlio dandogli il nome di Edipo. Credendo di essere figlio del re di Corinto, un giorno, quando un avversario lo chiamò ‘ʻtrovatello’’, egli cominciò ad avere dubbi sulle sue origini e chiese chiarimenti al padre, il quale si fece molto vago e non gli raccontò nulla su la sua vera storia. Edipo non convinto decise di partire per interrogare l’oracolo di Delfi e sapere chi erano davvero i suoi genitori. Quando si recò presso il santuario, la Pizia, inorridita, lo cacciò predicendogli che avrebbe ucciso il padre e sposato sua madre. Atterrito dalla profezia, Edipo, per paura di uccidere Polibo e di sposare sua madre Peribea, decise di non tornare più a Corinto e di recarsi invece a Tebe. La sorte volle la predizione dell’oracolo si compisse. Edipo durante il cammino uccise suo padre e casualmente sposò sua madre, compiendo quanto il destino gli aveva predetto. 57 Erodoto (Alicarnasso, 484 a.C. – Thurii, 425 a.C.) è stato uno storico greco, famoso per il suo interesse verso lo studio dei popoli considerati barbari. In particolare, ha scritto a riguardo dell’invasione persiana in Grecia nell’opera Storie. 58 Aristofane (c.488 a.C. – c. 380 a.C.) è stato un commediografo greco antico di cui ci rimangono le sue opere. Della sua vasta produzione ci sono pervenute solo undici commedie: Gli Acarnesi, con la quale vinse il suo primo premio al concorso tenuto durante le Lenee (festa greca che si teneva a fine Gennaio) del 425 a.C. I Cavalieri del 424 a.C.; Le Nuvole del 423 a.C; Le Vespe del 422 a.C.; La Pace del 421 a.C.; Gli Uccelli del 414 a.C.; Lisistrata; 411 a.C. Le Donne alla festa di Demetra (Tesmoforiazuse) del 411 a.C.; Le Rane 405 a.C., Le Donne al parlamento (Ecclesiazuse) del 391 a.C. ; Plauto. del 388 a.C. 59 Fabio La Mantia, Salvatore Ferlita, Andrea Rabbito, Il dramma della straniera, Me-

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dea e le variazioni novecentesche del mito, introduzione Gianni Puglisi, critica letteraria e linguistica FrancoAngeli, Milano, 2012 60 Fabio La Mantia insegna Critica Letteraria e Letterature comparate presso L’università degli studi di Enna ‘ʻKoreʼʼ.Tra i suoi studi si ricirdano: La tragedia greca in Africa: Edipo re di Ola Rotimi (Franco Angeli 2010); Leadership nei dramma storici di Ola Rotimi (CLUEB 2008); Il golfo della transizione:Wole Soynka riscrive le Baccanti di Euripide (CLUEB 2004). 61 Jean Marie Lucien Pierre Anouilh (Bordeaux, 23 giugno 1910 – Losanna, 3 ottobre 1987)), drammaturgo francese. Alcune tra le sue opere: Léocadia (1940); Antigone (1942); Roméo et Jeannette (1946); Medee (1946); L’Invitation au Château (1947); Colombe (1951); La valse des toréadors (1952); L’Alouette (1952); Ornifle ou le courant d’air (1955); Pauvre Bitos ou le dîner de têtes (1956); La petite Molière (1959); Becket ou l’honneur de Dieu (1959); La Grotte (1961); Le boulanger, la boulangère et le petit mitron (1968); Les poissons rouges; ou Mon père, ce héros (1970); Tu étais si gentil quand tu étais petit (1972); Monsieur Barnett (1974); Chers zoizeaux (1976);Vive Henri IV (1978); La Culotte (1978); La Foire d’empoigne (1979); Le Nombril (1981). 62 Nikolay Pavlovich Okhlopkov. (15 maggio 1900 - 8 gennaio 1967) è stato un attore sovietico e regista teatrale. E ‘nato a Irkutsk, in Siberia e ha iniziato la sua carriera di attore lì nel 1918. Dal 1930, ha diretto il Teatro Realistico a Mosca, anche se il suo stile di regia era poco realistica: è stato il primo a mettere gli spettatori sul palco intorno agli attori, al fine di ripristinare l’intimità tra il pubblico e la società. Nel 1943 ha fondato il Teatro Majakovskij, che continua le sue tradizioni a questo giorno. Ha anche diretto una produzione di Amleto. Tra le sue opere di ricordano: Alexander Nevsky (1938); Lenin in 1918 (1939). 63 Emma Dante (Palermo, 6 aprile 1967) è un’attrice teatrale, regista teatrale e drammaturga italiana. Nel 1990 si diploma come attrice all’accademia Nazionale d’Arte Drammatica chiamata Silvio D’amico. Dal 1993 al 1995 è stata socia del gruppo la Rocca. Nell’Agosto 1999 crea a Palermo la sua compagnia ʽʽ Sud Costa Occidentale’’.Con la sua compagnia vince nel 2001 il primo premio del concorso ʽʽPremio scenario 2001’’ con il progetto mpaliermu . Sempre nel 2001 vince i il premio lo straniero assegnato da Goffredo Fofi, come giovane regista emergente. Nel 2002 vince il premio Ubu con lo spettacolo mpaliermu, come novità italiana. Nel 2004 vince il Premio Gassman come migliore regista italiana sempre nello stesso hanno viene premiata con il Premio della Critica (Ass. Naz. Critici del Teatro) per la drammaturgia e la regia. Nel 2004 vince il Premio Donna di scena. Premio nazionale regia. Nel 2005 vince il Premio Golden Graal miglior regia per lo spettacolo con Medea. Nel 2009 vince il Premio Vittorini e il premio super Vittorini per il romanzo Via Castellana Bandiera. Il 7 dicembre 2010 inaugura la stagione del teatro alla Scala con Carmen di Bizet con la direzione di Daniel Barenboim. Nel 2010 vince il Premio Sinopoli per la cultura. Tra le sue opere teatrali si annoverano: Battute d’arresto; Il sortilegio; Odissea; Insulti; La principessa sul pisello; Il filo di penelope 2000/2001. L’arringa; La favola di Farruscad e Cherastani; Mpalermu; Carnezzeria 2002/2003 alla stagione 2006/2007; Medea, tournee per la stagione 2003/2004; La Scimia per le stagioni 2004/2005, 2005/2006; Vita mia Mishelle di sant’oliva; Cani di bancata; Il festino prodotto dalla compagnia Sud Costa Occidentale; Eva e la Bambola tour 2007/2008; Le Pulle, 2010. 64 Mimmo Borrelli (Napoli, 7 maggio 1979) è attore, poeta, regista, drammaturgo e scrittore. Dall’età di diciotto anni si esprime con le molteplici piccole-grandi realtà dell’intricato panorama teatrale napoletano e non. La Madre: ’i figlie so’ piezze ’i sfac-

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cimma, prodotto dallo Stabile di Napoli, ha riscosso un enorme successo di pubblico e critica. Attualmente Borrelli collabora con il Teatro Mercadante (Stabile di Napoli), nonché con la propria compagnia “Marina Commedia Società Teatrale” di cui è presidente e socio fondatore. 65 James Magnusonè nato nel 1941 ed è cresciuto in Wisconsin e North Dakota . Dopo la laurea presso l’Università del Wisconsin , ha intrapreso la strada del teatro diventando drammaturgo, a New York ,inizia a produrre le sue prime opere teatrali in alcuni teatri poco conosciuti della città. Nel 1970, Magnuson ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Without Barbarians. Tra le sue opere si ricordano: The Rundown (1977); Open Seasons (1982); Ghost dancing (1989); The hounds of winter: a novel (2005); Windfall (2009). Ha ricevuto l’ Hodder Fellowship of Princeton University per i suoi drammi, una borsa di studio dal National Endowment for the Arts, e un premio dell’Istituto del Texas di lettere per la sua narrativa. La sua carriera include anche un periodo di lavoro come autore televisivo. 66 Frederick Guy Butler (Cradock, Eastern Cape Sud Africa 1918 - Grahamstown, Sud Africa 2001) è stato poeta e scrittore sudafricano. La sua prima commedia, The Dam (1953), ha vinto un premio al Van Riebeeck Festival, i suoi successivi drammi comprendono: The Dove Returns (1954); Take Root or Die (1966); Cape Charade (1967); Kaatjie Kekkelbek (1968); Richard Gush of Salem (1982); Demea (1990).Tra i suoi libri di poesia si annoverano: Stranger to Europe (1952; South of the Zambezi (1966); Selected Poems (1975); 24 Songs and Ballads (1978); Oxford Book of South African Verse (1959). Ha scritto anche tre libri autobiografici: Karoo Morning (1977); Bursting World (1983); A Local Habitation (1991). 67 Salvatore Ferlita (Palermo, 1974). Assistant professor di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli studi di Enna ‘ʻKoreʼʼ, ha pubblicato L’ironia mio vizio mia allegria. L’esperienza poetica di Basilio Reale, (Salvatore Sciascia 2003); Altri siciliani. Scritti sulla letteratura isolana del Novecento ( Kalós 2004); I soliti ignoti. Saggi sulla letteratura siciliana sommersa del Novecento (D. Flaccovio 2005); L’isola che non c’è. Saggi, ritratti, divagazioni (Di Girolamo 2007); Sperimentalismo e avanguardia (Sellerio 2008); Novecento futuro anteriore ( Di Girolamo 2009); Le Arance non raccolte. Scrittori siciliani del Novecento (G.B. Palumbo 2011). All’attività saggistica alterna quella giornalistica come critico letterario, sulle pagine siciliane di «Repubblica»; collabora al mensile «Segno». Dirige per gli editori Di Girolamo e Kalòs rispettivamente le collane “Il monocolo” e “Carte segrete”. È direttore del trimestrale di arte, cultura e società «21». 68 Andrea Rabbito insegna “Cinema e cultura moderna” presso l’Università degli studi di Enna “Kore”. Qui scrive un terzo capitolo dal titolo: La violenza del sacro e il disordine del dolore. Il Mito di Medea Secondo Pasolini. Tra le sue pubblicazioni: L’illusione e l’inganno. Dal Barocco al cinema, (Bonanno Editore, 2010); Il Cinema è sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità (Mimes, 2012). 69 Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Lido di Ostia, 2 novembre 1975) è stato poeta, giornalista, regista, sceneggiatore, tra i più importanti scrittori Italiani del novecento. La sua grande genialità e versatilità hanno permesso che si distinguesse in molti campi, lasciando preziosi contributi, nel cinema, nella letteratura. Tra le sue opere poetiche si ricordano: Poesie a Casarsa, Libreria Antiquaria Mario Landi, Bologna 1942; Poesie, Stamperia Primon, San Vito al Tagliamento 1945; Diari, Pubblicazioni dell’Academiuta, Casarsa 1945 (ristampa anastatica 1979, con premessa di Nico Naldini); I pianti, Pubblicazioni dell’Academiuta, Casarsa 1946; Dov’è la mia patria, con

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13 disegni di G. Zigaina, Edizioni dell’Academiuta, Casarsa 1949; Tal còur di un frut, Edizioni di Lingua Friulana, Tricesimo 1953 (nuova edizione a cura di Luigi Ciceri, Forum Julii, Udine 1974); La meglio gioventù, Sansoni (Biblioteca di Paragone), Firenze 1954; Il canto popolare, Edizioni della Meridiana, Milano 1954; Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957 (nuova edizione Einaudi, Torino 1981, con un saggio critico di Walter Siti); L’usignolo della Chiesa Cattolica, Longanesi, Milano 1958 (nuova edizione Einaudi, Torino 1976). Roma 1950; Diario, All’insegna del pesce d’oro (Scheiwiller), Milano 1960; Sonetto primaverile (1953), Scheiwiller, Milano 1960; La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961 (nuova edizione Einaudi, Torino 1982); Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, Milano 1964; Poesie dimenticate, a cura di Luigi Ciceri, Società filologica Friulana, Udine 1965.Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano 1971; La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi, Torino 1975; Pasolini, Poesie e pagine ritrovate, a cura di Andrea Zanzotto e Nico Naldini con disegni di Pier Paolo Pasolini e Giuseppe Zigaina, Lato Side, 1980. Nella narrativa ha realizzato: Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 1955 (nuova edizione: Einaudi, Torino 1979, con un’appendice contenente (Il metodo di lavoro e I parlanti); Una vita violenta, Garzanti, Milano 1959 (nuova edizione: Einaudi, Torino 1979); L’odore dell’India, Longanesi, Milano 1962 (nuova edizione Guanda, Parma 1990, con un’intervista di Renzo Paris ad Alberto Moravia); Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano 1962; Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano 1965; Teorema , Garzanti, Milano 1968; La Divina Mimesis, Einaudi, Torino 1975 (nuova edizione 1993, con una nota introduttiva di Walter Siti). Tra i suoi saggi si annoverano: Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976; con un’introduzione di Alfonso Berardinelli, 2003; Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi, Einaudi, Torino 1979 (nuova edizione Garzanti, Milano 1996, con una prefazione di Giampaolo Dossena); Poesia dialettale del Novecento, a cura di Mario dell’Arco e Pier Paolo Pasolini, introduzione di Pasolini, Guanda, Parma 1952 (nuova edizione Einaudi, Torino 1995, con prefazione di Giovanni Tesio); Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, a cura di Pier Paolo Pasolini, Guanda, Parma 1955 (nuova edizione Garzanti, Milano 1972 e 1992); Pier Paolo Pasolini e il setaccio 1942-1943, a cura di Mario Ricci, Cappelli, Bologna 1977, con scritti di Roberto Roversi e Gianni Scalia (contiene i seguenti saggi pasoliniani: «Umori» di Bartolini; Cultura italiana e cultura europea a Weimar; I giovani, l’attesa; Noterelle per una polemica; Mostre e città; Per una morale pura in Ungaretti; Ragionamento sul dolore civile; Fuoco lento.Collezioni letterarie; Filologia e morale; Personalità di Gentilini; «Dino» e «Biografia ad Ebe»; Ultimo discorso sugli intellettuali; Commento a un’antologia di «lirici nuovi»; Giustificazione per De Angelis; Commento allo scritto del Bresson; Una mostra a Udine); Stroligut di cà da l’aga (1944) - Il Stroligut (1945-1946) - Quaderno romanzo (1947), riproduzione anastatica delle riviste dell’Academiuta friulana, a cura del Circolo filologico linguistico padovano, Padova, 1983 (contiene i seguenti saggi pasoliniani: Dialet, lenga e stil; Academiuta di Lenga Furlana; (Alcune regole empiriche d’ortografia; Volontà poetica ed evoluzione della lingua) Le opere cinematografiche da lui firmate sono: La ricotta, episodio del film Ro.Go.Pa.G., (1963); La rabbia (1963); Comizi d’amore (1964); Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo (1964); Il Vangelo secondo Matteo (1964); Uccellacci e uccellini (1965); La Terra vista dalla Luna, episodio del film Le streghe, (1966); Che cosa sono le nuvole?, episodio del film Capriccio all’italiana (1967); Edipo re (1967); Appunti per un film sull’India (19671968); Teorema (1968); La sequenza del fiore di carta, episodio del film Amore e rabbia, (1968); Porcile (1968-1969); Appunti per un’ Orestiade africana (1968-1969);

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Medea (1969); Il Decameron (1971); Le mura di Sana’a (1971); I racconti di Canterbury (1972); Il fiore delle Mille e una notte (1974); Salò o le 120 giornate di Sodoma; Porno-Teo-Kolossal (1976) (incompiuto a causa della morte di Pasolini nel 1975). Ha scritto anche opere teatrali: Italie Magique, in Potentissima signora, canzoni e dialoghi scritti per Laura Betti, Longanesi, Milano 1965, pp. 187–203; Pilade, in «Nuovi Argomenti», luglio-dicembre 1967; Affabulazione, in «Nuovi Argomenti», luglio-settembre 1969; Calderón, Garzanti, Milano 1973; I Turcs tal Friùl (I Turchi in Friuli), a cura di Luigi Ciceri, Forum Julii, Udine 1976 (nuova edizione a cura di Andreina Nicoloso Ciceri, Società filologica friulana, Udine 1995); Affabulazione-Pilade, presentazione di Attilio Bertolucci, Garzanti, Milano 1977; Porcile, Orgia, Bestia da stile, con una nota di Aurelio Roncaglia, Garzanti, Milano 1979; Teatro (Calderón, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile), prefazione di Guido Davico Bonino, Garzanti, Milano 1988; Affabulazione, con una nota di Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino 1992; La sua gloria (dramma in 3 atti e 4 quadri, 1938), in «Rendiconti», 40, marzo 1996, pp. 43–70; Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con due interviste a L. Ronconi e S. Nordey, Mondadori, Milano 2001; Bestia da stile, a cura di Pasquale Voza, Editrice Palomar, Bari, 2005. 70 Jules Dassin, vero nome Julius Dassin (Middletown, 18 dicembre 1911 – Atene, 31 marzo 2008), è stato un regista e attore statunitense. La sua produzione cinematografica, molto prolifera, va dal 1941 al 1980. Essa comprende anche un film sul mito di Medea Kravgi gynaikon. A Dream of Passion, film del 1978 che rivisita il dramma di Euripide in chiave moderna. 71 Lars von Trier (Copenaghen, 30 aprile 1956) è un regista, sceneggiatore, attore, direttore della fotografia e montatore danese. Autore cinematografico tra i più innovativi e poliedrici della sua epoca, ha firmato le seguenti opere: Europa, (1991); Le onde del destino (Breaking the Waves), (1996); Idioti (Dogme#2: Idioterne), (1998); Dancer in the Dark, (2000); Dogville ,(2003); Le cinque variazioni, (De fem benspænd) (2003); Manderlay ,(2005); Il grande capo, (Direktøren for det hele), (2006); Antichrist (2009); Melancholia (2011); Nymphomaniac, (2013). Ha firmato anche le sceneggiature per le seguenti opere: Il giardiniere delle orchidee (Orchidégartneren), (1977) Cortometraggio; Menthe - la ragazza felice (Mynthe - Der lyksalige), (1979), Cortometraggio; Nocturne ,(1980), Cortometraggio; Immagini di una liberazione (Befrielsesbilleder) (1982), Cortometraggio; L’elemento del crimine (Forbrydelsens element) (1984); Epidemic (1988); Medea (1988), Film TV; Europa (1991); Lærerværelset (1994 ); Miniserie TV; The Kingdom - Il Regno (Riget) (1994), Miniserie TV; Le onde del destino (Breaking the Waves) (1996); The Kingdom 2 (Riget 2) (1997), Miniserie TV; Idioti (Dogme#2: Idioterne) (1998); Dancer in the Dark (2000); Dogville (2003); Le cinque variazioni (De fem benspænd) (2003); Dear Wendy (2005); Manderlay (2005); Il grande capo (Direktøren for det hele) (2006); Erik Nietzsche (Erik Nietzsche - De unge år) (2007); Antichrist (2009); Melancholia (2011). 72 Arturo Ripstein y Rosen (Città del Messico, 13 dicembre 1943) è un regista messicano. Nella sua lunga filmografia, uno dei temi più trattati è la descrizione della solitudine dell’essere umano. Ad oggi ha firmato le seguenti opere: Los Heroes y El Tiempo (2005); Il Vangelo Delle Meraviglie (El evangelio de las maravillas) (2002); La virgen de la lujuria (2002); Así es la vida (2000); La perdición de los hombres (2000); Nessuno scrive al colonnello (El coronel no tiene quien le escriba, 1999, dall’omonimo racconto di Gabriel García Márquez); El evangelio de las maravillas (1998); Profundo carmesí (1996); La reina de la noche (1994); Principio y fin (1993); La mujer del puerto (1991);

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Mentiras piadosas (1988); El imperio de la fortuna (1985); El otro (1984); Rastro de muerte (1981); La seducción (1980); La ilegal (1979); La tía Alejandra (1979); Cadena perpetua (1978); El lugar sin límites (1977); La viuda negra (1977); El borracho (1976); El palacio negro (Lecumberri) (1976); La causa (1975); Foxtrot (1975); El Santo Oficio (1973); El castillo de la pureza (1972); Autobiografía (1971); El náufrago de la calle de la Providencia (1971); La belleza (1970); Crimen (1970); Exorcismos (1970); La hora de los niños (1969); Salón independiente (1969); Los recuerdos del porvenir (1968); Juego peligroso (Jôgo perigoso) (1966); Tiempo de morir (1965). 73 Tonino De Bernardi (Chivasso, Torino, 1937) è un regista italiano. Il suo cinema indipendente sporadicamente viene introdotto nella distribuzione commerciale. De Bernardi comunque è riconosciuto a livello internazionale come appartenente al cinema underground e di sperimentazione dalla fine degli anni Settanta agli inizi degli anni Ottanta. Ha lavorato con tutti i tipi di pellicola, passando dal video al digitale. È fondatore della casa di produzione torinese Lontane Province Film, da lui stesso gestita. Le sue opere realizzate fino ad oggi comprendono: Dèi, 1968; Elettra, 1987; Uccelli di terra/ Uccelli che vanno, 1993; Piccoli orrori (Little horrors), 1994; Sorrisi asmatici, parte terza, 1997; Sorrisi asmatici - Fiori del destino, 1997; Appassionate, 1999; Rosatigre, 2000 Working The Streets, 2002; Lei, 2002; Serva e padrona, 2005; Marlene de Sousa, 2005; Past preste, Lay Angels Fall, 2006; Accoltellati, 2006; Médée miracle, 2007; Butterfly - L’attesa, 2010; Iolanda tra bimba e corsara, 2012; Casa dolce casa, 2012. 74 Maria Calls è il nome d’arte del soprano Cecilia Sophia Maria Anna Kalogeropoulus (New York, 2 dicembre 1923 – Parigi, 16 settembre 1977). Di famiglia greca, ha studiato ad Atene. La sua vera carriera ha avuto inizio in Italia, suo Paese di adozione nel 1947, esordendo con la Gioconda all’arena di Verona. Il suo successo la rese in breve tempo famosa in tutto il mondo. La capacità vocale e la prestante imponenza sulla scena l’anno resa una delle più grandi personalità del teatro lirico del secondo Novecento. Tra le innumerevoli opere di cui è stata interprete si annoverano solo alcune di esse: La Gioconda (1952); regia Arturo Basile; Tosca(1953) regia Victor De Sabata; Madame Butterflay (1955) regia Herbert von Karajan; Norma (1960) regia di Tullio Serafin; Carmen (1964) regia Georges Prêtr. 75 Giuseppe Gentile (Roma, 4 settembre 1943) è un ex atleta italiano. Pier Paolo Pasolini vedendo una sua foto lo scelse per la parte di Giasone nel film di Medea. 76 Piero Tosi (Sesto Fiorentino, 10 aprile 1927) è un costumista italiano. Si è formato presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, allievo di Ottone Rosai. Durante la sua carriera ha lavorato sia per il teatro che per il cinema, firmando alcune delle opere più importanti del secondo novecento, collaborando con Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Mauro Bolognini, Per Pier Paolo Pasolini e Vittorio De Sica. Ha realizzato i costumi per molti film tra questi si ricordano: Bellissima, regia di Luchino Visconti (1951); Senso, regia di Luchino Visconti (1954); L’arte di arrangiarsi, regia di Luigi Zampa (1954); Il padrone sono me..., regia di Franco Brusati (1955); Marisa la civetta, regia di Mauro Bolognini (1957); Le notti bianche, regia di Luchino Visconti (1957); Vacanze a Ischia, regia di Mario Camerini (1957); Arrangiatevi!, regia di Mauro Bolognini (1959); Policarpo, ufficiale di scrittura, regia di Mario Soldati (1959); La contessa azzurra, regia di Claudio Gora (1960); Il bell’Antonio, regia di Mauro Bolognini (1960); Rocco e i suoi fratelli, regia di Luchino Visconti (1960); Un amore a Roma, regia di Dino Risi (1960); La viaccia, regia di Mauro Bolognini. (1961); A cavallo della tigre, regia di Luigi Comencini (1961); Adultero lui, adultera lei, regia di Raffaello Matarazzo (1963); Il Gattopardo, regia di Luchino Visconti (1963); I compagni, regia

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di Mario Monicelli (1963); Ieri, oggi, domani, regia di Vittorio De Sica (1963); La visita, regia di Antonio Pietrangeli (1963); Caccia alla volpe, regia di Vittorio De Sica (1966); Le streghe, regia di Mauro Bolognini, Vittorio De Sica, Pier Paolo Pasolini, Franco Rossi e Luchino Visconti (1967); Matchless, regia di Alberto Lattuada (1967); Lo straniero, regia di Luchino Visconti (1967); Arabella, regia di Mauro Bolognini (1967); Questi fantasmi, regia di Renato Castellani (1968); La caduta degli dei, regia di Luchino Visconti (1969); Medea, regia di Pier Paolo Pasolini (1969); Bubù, regia di Mauro Bolognini (1971); Morte a Venezia, regia di Luchino Visconti (1971); Ludwig, regia di Luchino Visconti (1972); Il portiere di notte, regia di Liliana Cavani (1974); Per le antiche scale, regia di Mauro Bolognini (1975); L’innocente, regia di Luchino Visconti (1976); Al di là del bene e del male, regia di Liliana Cavani (1977); Il malato immaginario, regia di Tonino Cervi (1979); La storia vera della signora delle camelie, regia di Mauro Bolognini (1981); La pelle, regia di Liliana Cavani (1981); Oltre la porta, regia di Liliana Cavani (1982); La Traviata, regia di Franco Zeffirelli (1983); Matrimonio con vizietto, regia di Georges Lautner (1985); Storia di una capinera, regia di Franco Zeffirelli (1993); Le chiavi di casa, regia di Gianni Amelio (2004). Durante la sua carriera ha ricevuto molti premi tra cui: cinque Nomination ai Premi Oscar per i Migliori Costumi per: Il Gattopardo(1964); Morte a Venezia(1972); Ludwig (1974); Il vizietto (1980); La Traviata(1983). Ha vinto due premi BAFTA PER Migliori Costumi con : Morte a Venezia (1972); La Traviata (1984).Tre David di Donatello come Miglior Costumista con: La storia vera della signora delle camelie (1981); Storia di una capinera (1994); David del Cinquantenario (2006). Ha vinto otto Nastri d’argento per i migliori costumi: Policarpo, ufficiale di scrittura (1960); La viaccia (1962); Senilità (1963); Il Gattopardo (1963); Morte a Venezia (1972); Malizia (1974); La Traviata (1983); Storia di una capinera (1995). 77 P.P.Pasolini, dialoghi definitivi di «Medea» in P.P.Pasolini, Il vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Garzanti, Milano 2006 p.546, citato in, Il dramma della straniera, Medea e le variazioni novecentesche del mito,op. p.150. 78 Euripide, Medea, in Euripide, Medea, Ippolito,Garzanti, Milano 1999, p.49, citato in, Il dramma della straniera, Medea e le variazioni novecentesche del mito,op. p.152. 79 Aristoteles Sokrates Homer Onassis (Smirne, 15 gennaio 1906 – Neuilly-sur-Seine, 15 marzo 1975). 80 Jacqueline Lee Bouvier (Southampton, 28 luglio 1929 – New York, 19 maggio 1994). 81 John Fitzgerald Kennedy, comunemente chiamato John Kennedy, (Brooklin 29 maggio 1917 – Dallas, 22 novembre 1963). 82 Danmarks Radio è la radiotelevisione di stato danese, il nome è stato mantenuto fino al 1996 adesso viene chiamata semplicemente DR. È stata fondata nel 1925 come organizzazione di servizio pubblico. È ad oggi l’impresa più grande e più antica nel settore dei media in Danimarca. Trasmette sei canali televisivi, quattro canali radio nazionali e una serie di radio regionali. È finanziata dal canone televisivo e non trasmette spot. 83 Carl Theodor Dreyer (Copenaghen, 3 febbraio 1889 – Copenaghen, 20 marzo 1968) è stato un regista e sceneggiatore danese, tra i più grandi cineasti del XX secolo. Dreyer ha così realizzato alcuni tra i migliori classici della cinematografia internazionale. Tra i suoi film si ricordano: Præsidenten (1919); La vedova del pastore (Prästänkan) (1920); Pagine dal libro di Satana (Blade af Satans bog) (1921); Gli stigmatizzati (Die Gezeichneten) (1921); C’era una volta (Der Var Engang) (1922); Desiderio del cuore (Mikaël) (1924); Il padrone di casa (Du skal ære din hustru) (1925) - anche noto come

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L’angelo del focolare; La fidanzata di Glomdal (Glomdalsbruden) (1925); La passione di Giovanna d’Arco (La Passion de Jeanne d’Arc) (1928);Vampyr - Il vampiro (Vampyr - Der Traum des Allan Grey) (1932); Jungla Nera (L’esclave blanc) (1936); Mødrehjælpen (1942); Dies Irae (Vredens Dag) (1943); Due esseri (Två människor) (1945); L’acqua nella campagna (Vandet på landet) (1946); Kampen mod kræften (1947); Landsbykirken (1947); De nåede færgen (1948); Thorvaldsen (1949); Il ponte di Storstrom (Storstrømsbroen) (1950); Un castello in un castello (Et Slot i et Slot) (1954); Ordet (1955); Gertrud (1964). Delle sue numerose sceneggiature si ricordano: Bryggerens datter (1912); Krigskorrespondenter (1913); Ned Med Vaabnene (1914); Penge (1915); Den hvide djævel (1916); Den Mystiske selskabsdame (1917); Lydia (1918); Gillekop (1919); La vedova del pastore (Prästänkan) (1920); Pagine dal libro di Satana (Blade af Satans bog) (1921); C’era una volta (Der Var Engang) (1922); Desiderio del cuore (Mikaël) (1924); Il padrone di casa (Du skal ære din hustru) (1925) - anche noto come L’angelo del focolare; La passione di Giovanna d’Arco (La Passion de Jeanne d’Arc) (1928); Vampyr - Il vampiro (Vampyr - Der Traum des Allan Grey) (1932); Mødrehjælpen (1942); Dies Irae (Vredens Dag) (1943); Due esseri (Två människor) (1945); L’acqua nella campagna (Vandet på landet) (1946); Kampen mod kræften (1947); De nåede færgen (1948); Thorvaldsen (1949); Il ponte di Storstrom (Storstrømsbroen) (1950); Rønnes og Nexøs genopbygning (1954); Ordet (1955); Noget om Norden (1956); Gertrud (1964). 84 Kirsten Olsen (10 Maggio 1949 a Horsens, Danimarca). 85 Brigritte Pirce ( 29 aprile 1934 in Frederiksberg - 17 luglio 1997 a Copenaghen ) è stata un’attrice e regista teatrale Danese. La sua carriera ha avuto inizio come attrice. Nel 1977 ha debuttato come regista con la Tragedia Elettra di Euripide. Dal 1985 al 1989 è stata direttrice del dipartimento Teatrale della Danmarks Radio, in quegli anni dopo aver realizatto per il teatro la versione classica della Medea di Euripide, che ebbe un notevole successo, interpetrata dall’all’attrice Kistern Olsen, decise di voler addattare la tragedia per una vesione televisiva basandosi su una sceneggiatura che Carl Theodor Dreyer aveva scritto prima della sua morte . Da qui nacque la collaborazione con il Regista Lars Von Trier al quale la Pirce aveva chiesto di realizzare il film. Lar Von Trier si dedicò cosi alla realizzazione del film modificando in parte la sceneggetura di Dreyer Nel 1988 il film venne trasemesso per la televisione Danese. 86 Udo Kierspe, noto come Udo Kier (Colonia, 14 ottobre 1942). 87 Maria Amalia Mercouri, conosciuta più comunemente con il nome Melina Mercouri (Atene, 18 ottobre 1920 – New York, 6 marzo 1994). 88 Ellen Burstyn, pseudonimo di Edna Rae Gillooly, (Detroit, 7 dicembre 1932. 89 Arcelia Ramírez ( Città del Messico 7 December 1967). 90 Luis Felipe Tovar (Puebla, 2 dicembre 1959). 91 Isabelle Anne Madeleine Huppert (Parigi, 16 marzo 1953). 92 Tommaso Ragno (Italia, Vieste 1967 93 Apollonio Rodio, Le Argonautiche, traduzione Guido Paudano, Bur Rizzoli, Milano 2010. III, vv. 444 – 447, p. 435. 94 Ivi: III, vv.883 – 885, pp. 479-480. 95 Ibidem, IV,vv. 44 -46, p. 545. 96 Il chitone era il capo base dell’abbigliamento sia maschile che femminile, composto da due teli rettangolari di lana (in epoca più arcaica) finemente lavorata, successivamente sosituita dal lino. Esso veniva cucito sui lati lunghi e parzialmente sui lati corti, in modo da creare tre aperture, per la testa e le braccia. Ne esistevano moltissime va-

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rianti. I giovani lo indossavano corto, gli uomini anziani lungo. L’uomo celibe indossava amphimaschalos, allacciato su entrambe le spalle, oppure vi era un’altra variante in cui la spalla sinistra era lasciata aperta. Questo tipo veniva chiamato eteromaschalos. Gli artigiani e gli schiavi indossavano l’exomis che scopriva la spalla destra. Il chitone corto veniva allacciato solitamente alla vita con una cintura, ma se lungo era lasciato libero. Tra il 550 e 500 a.C. le donne attiche incominciarono a preferire il lino, più leggero. Ne esistevano tantissime varianti: lungo fino ai piedi, con fitte pieghe, con la cintura o senza. Con la cintura si creava uno sboffo all’altezza della vita che prendeva il nome di kolpos. Esistevano varianti che avevano l’orlo simmetrico o asimmetrico. Una tipologia di chitone con le maniche veniva indossata dagli stranieri, Persiani e Sciti, o dagli attori quando interpretavano i ruoli femminili. 97 La clamide era un mantello quadrangolare oppure di forma ovale che veniva portato a coprire la spalla sinistra, chiuso da uno spillone o da una fibula, veniva portato anche chiuso sul davanti da un fermaglio in modo da lasciare libere le mani. Per la sua comodità questo mantello veniva usato durante il combattimento o l’equitazione. La clamide veniva donata ai giovani quando entravano a far parte della lista civica in modo che potesse essere indossata durante gli anni di formazione militare. Era un simbolo di passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta. La clamide era comunque uno dei capi che facevano parte del corredo militare per la sua praticità. 98 L’himation era indossato sopra il chitone; era un mantello molto grande, di lana, decorato con ricami, indossato sia dagli uomini e dalle donne. Si indossava in tanti modi, attorno al corpo, bloccato da una fibbia sulla spalla, come nella clamide. Passante in diagonale dalla spalla sinistra sotto al braccio destro e nuovamente sulla spalla sinistra, tutto comunque dipendeva sempre dal rango di appartenenza che ne condizionavano la lunghezza della sopraveste, dei drappeggi e dei decori. Le donne lo indossavano coprendosi la testa, oppure mettendolo sulle spalle con due lembi laterali che ricadevano sul davanti, anche per le donne la preziosità del mantello era condizionata dal ceto al quale apparteneva. 99 Il peplo è il termine con il quale si può identificare l’abito dorico veste più antica rispetto al chitone. Un abito non cucito e fissato alle spalle da degli spilloni o fibule. Il termine era usato anche nelle opere omeriche ma non si identifica in una veste precisa, è certo che però indicasse una veste femminile. Probabilmente era il termine generico usato per indicare il telo quadrangolare che formava l’abito. Il peplo consisteva in un grande telo piegato in senso verticale e nuovamente ripiegato in senso verticale nella parte superiore, formando un riporto chiamato diploide. Tutto veniva tenuto ben fermo dalle fibule che bloccavano il tessuto dalle spalle; il peplo dorico era cucito nella parte che rimaneva aperta. Quello Attico invece non era cucito ma veniva tenuto ben fermo da una cintura in vita, il peplo ionico non veniva anch’esso cucito ma solamente bloccato alle spalle. 100 La toga è l’indumento più significativo per i romani; essa discende dalla Tebenna etrusca. La forma dell’abito era semicircolare e poteva essere indossata in vari modi. La toga di epoca repubblicana effettivamente aveva forma semiciclica. Nel corso del tempo essa diventa sempre più complessa, drappeggiata e ricca di decori, passando alla forma ellittica. Per indossarla vi era bisogno dell’aiuto degli schiavi, in quanto il suo drappeggio era veramente difficile. La toga era un simbolo molto importante per la società ed indicava lo status di chi l’indossava; era anche un segno distintivo dei diritti del cittadino. Se non si era cittadino romano non si poteva indossare. Il bordo decorato delle toga aveva un significato molto importante: ai magistrati e i sacerdoti era riser-

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vata la toga praetexta: presentava un bordo di cinque/otto centimetri color porpora. La stessa toga veniva indossata dai ragazzi fino alla maturità sessuale; a tale passaggio si indossava la toga virilis. La toga pura del colore naturale della lana, era l’indumento usato giornalmente dal cittadino. La toga pulla o sordida, di colore scuro s’ indossava in caso di lutto. La toga picta era usata dai generali trionfanti dopo una guerra. Durante il periodo repubblicano la toga s’ indossava ponendo un lembo sulla spalla sinistra, a coprire l’avambraccio. Quando le dimensioni della toga diventarono più consistenti e capaci di ricreare drappeggi più ricchi, si determinarono due pieghe caratteristiche: il sinus, lembo che ricadeva sotto al braccio destro, e l’umbo, piega che si formava sulla parte anteriore. In epoca Imperiale la toga diventa un indumento usato solo per eventi cerimoniali. 101 Il Concilio Trullano, detto anche Trullo, più comunemente chiamato anche Quinisesto, prende il primo nome dal luogo dove si è tenuto il concilio, ovvero nel palazzo Imperiale di Costantinopoli. Il trullo era la cupola della sala dove si trattavano gli affari di stato. Quinisesto invece deriva dal motivo che questo evento segnava il completamento dei precedenti Concili avvenuti: uno nel 553 (V Concilio) e l’altro nel 680 -681 d.C. (VI Concilio). Il Concilio fu convocato da Giustiniano II per rivisitare alcune decisioni che erano state prese in precedenza, per questo chiamato Quinisesto. Fu tenuto all’insaputa della Chiesa di Roma dalla quale dipendeva. Il Concilio in quest’occasione confermava le condanne contro l’eresie stabilite in precedenza ed altri canoni di carattere disciplinare. 102 Le vesti di Medea a cura di Monica Centanni; Lombardi Editori; 2005 Caltanissetta. L’Istituto Nazionale dramma antico (INDA) nasce dall’iniziativa del conte Mario Tommaso Gargallo (Firenze 1886 - Roma 1958) nel 1913. Un progetto nato dal desiderio di voler riportare in scena il dramma antico ricostruendo la scena all’interno di un vero teatro greco. Siracusa in questo modo ritorna a vivere la bellezza e lo splendore della tradizione teatrale classica, un ritorno al passato in una dimensione contemporanea. A questo scopo è stato costituito un comitato esecutivo per poter dare vita al progetto. Il primo ciclo venne inaugurato il 16 Aprile 1914 con l’Agamennone di Eschilo. Solo durante le due guerre mondiali il cammino del prestigioso istituto è stato interrotto, pur mutando nel tempo l’assetto istituzionale: nel 1998 l’INDA si trasforma da Ente pubblico in fondazione che annualmente progetta e organizza i cicli di spettacoli classici al teatro greco di Siracusa. 103 Duilio Cambellotti (Roma, 10 maggio 1876 – Roma, 31 gennaio 1960) è stato un artista italiano di arti grafiche e di arti visive. Dopo gli studi all’ Accademia di Belle Arti di Roma Cambellotti inizia una eccellente carriera piena di soddisfazioni come designer, progettando lampade e interni per la casa dalle linee moderne e lineari. Famosa è la sua lampada chiamata appunto Cambellotti in stile liberty. Mediante l’incontro con il funzionario del ministero delle pubbliche istruzioni Alessandro Marcucci che organizzava in casa sua spettacoli teatrali, Cabellotti incomincia ad interessarsi al teatro. Trovando nella realizzazione dei costumi e delle scenografie uno stimolante sfogo alla sua creatività e fantasia. Per tali ragioni l’artista intraprese questa nuova strada che contnuò per tutta la vita. Le sue collaborazioni comprendono quella con il Teatro stabile di Roma e con l’INDA , per quest’ultima ha realizzato tra l’altro, l’apparato scenografico per l’Agamennone di Eschilo, la cui rappresentazione inaugurò nel 1914 l’attività dell’istituto. 104 Ettore Romagnoli (Roma, 11 giugno 1871 – Roma, 10 maggio 1938), grecista e letterato italiano. Ettore Romagnoli per il cinema ha firmato: Ieri, oggi, domani (1963),

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I cannibali (1969), Le hussard sur le toit (1995), Le roi des aulnes (1996), Per il cinema ha meritato la candidatura all’Oscar alla migliore scenografia nel 1991 per il film Cyrano de Bergerac di Jean-Paul Rappeneau, lavoro che gli valse nello stesso anno il Premio César per la migliore scenografia, lo European Film Award e il Nastro d’Argento alla migliore scenografia nel 1992. 105 Ezio Frigerio (Erba, 1930) è uno scenografo e costumista italiano. Dopo studi di architettura e di pittura, è divenuto costumista e scenografo al Piccolo Teatro di Milano (1954), dove inaugurò la collaborazione con Giorgio Strehler (Trieste, 14 agosto 1921 – Lugano, 25 dicembre 1997). Il loro sodalizio li condusse a realizzare molte opere insieme tra le quali si annoverano: I giganti della montagna (1966); Simon Boccanegra (1971); Le nozze di Figaro (1973); L’illusion comique (1984), Don Giovanni (1987); L’isola degli schiavi (1994); Le lac des cygnes (1984); The house of Bernarda Alba (1986) ed Elektra (1990); entrambi per la regia di N. Espert, Falstaff (regia di L. Pasqual, 1994); La tour de Nesle (1996); Fidelio (1999); Rigoletto (2001); Ettore Romagnoli per il cinema ha firmato: Ieri, oggi, domani (1963), I cannibali (1969); Le hussard sur le toit (1995). 106 Virginio Puecher ( Lamburgo, Como 1927 – Milano 1990). Regista Italiano, debutta nel 1955 al Teatro Odeon in Lunga giornata verso la notte (1955) di O’ Neill, con la compagnia di Ricci, le scene di Damiani e i costumi di Frigerio; e l’anno dopo al Piccolo Teatro con I vincitori (1956); L’eredità del Felìs (1962); Il successo arriva con Mercadet l’affarista (1958-59); Come nasce un soggetto cinematografico (premio Idi, 1959); I burosauri (1963) e L’annaspo (1964). Un aspetto fondamentale hanno i suoi lavori politici, tra i quali spicca L’istruttoria (1966-1967); la sua opera più nota e forse più sentita, per il riflesso di esperienze personali e La vita immaginaria dello spazzino Augusto (1969). 107 Emanuele Luzzati (Genova, 3 giugno 1921 – Genova, 26 gennaio 2007) è stato uno scenografo, animatore e illustratore italiano. Ha realizzato insieme a G. Giannini alcuni film d’animazione di sottile ironia e di raffinata invenzione figurativa: La gazza ladra (1964); Alì Babà (1971); Il flauto magico (1978); Pulcinella e il pesce magico (1981). È stato anche illustratore di libri di favole: Pinocchio di C. Collodi (1996); Alice nel paese delle meraviglie di L. Carroll, (1998); Le Fiabe del focolare dei fratelli Grimm (1998). 108 Santuzza Calì (Pulfero, 1934) è una costumista e scenografa italiana. Ha condiviso con Emanuele Luzzati trentacinque anni di stretta collaborazione, di creatività e di amicizia. Tra gli spettacoli ai quali ha contribuito, si ricorda O Cesare o nessuno di Vittorio Gassman (1975); Il mercante di Venezia, regia di Gianfranco De Bosio (1973). Nel 1975 ha realizzato i costumi di Un bel dì vedremo - La vera storia di Madama Butterfly di Ruggero Rimini, con scenografia di Emanuele Luzzati. 109 Franco Enriquez (Firenze, 20 novembre 1927 – Ancona, 30 agosto 1980) è stato un regista teatrale e d’opera italiano. Inizia l’attività artistica come aiuto regista di Luchino Visconti e Giorgio Strehler. Nel 1951 esordisce come primo regista mettendo in scena Cesare e Cleopatra di George Bernard Shaw con la compagnia Ricci-Magni. Nel corso della carriera mette in scena con grande successo decine di opere teatrali e liriche. Fra i tanti lavori di prosa ricordiamo: I fisici di Friedrich Dürrenmatt ( 1965); Il gabbiano di Anton Cechov; Il mercante di Venezia di William Shakespeare; La vedova scaltra di Carlo Goldoni, tutti del 1967. Per il Teatro Greco di Siracusa ha firmato: Elettra di Sofocle (1970); l’Ippolito (1970) e Medea (1972) di Euripide. È stato attivo anche in campo televisivo; tra le varie collaborazioni.

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figurano diversi allestimenti operistici negli anni cinquanta; in particolare Otello di Giuseppe Verdi con Mario Del Monaco nel 1958. Nel 1980 mette in scena una novità di Diego Fabbri L’hai mai vista in scena. Nello stesso anno muore all’ospedale di Ancona, in agosto, per una grave disfunzione epatica all’età di 52 anni. 110 Enrico Job (Napoli, 31 gennaio 1934 – Roma, 4 marzo 2008) è stato uno scenografo e costumista italiano. Marito della regista teatrale e cinematografica Lina Wertmuller. Come costumista Job ha debuttato alla Scala con una Semiramide di Rossini (1962), per la regia di Margherita Wallmann .Due incontri successivi segnarono il decollo della sua personalità nel mestiere che ormai si era scelto. Il primo fu col coetaneo Luca Ronconi per il quale ha firmato i costumi del 1968 per Riccardo III con Vittorio Gassman e per Il candelaio, l’impianto scenografico per l’Orestea di Eschilo (1972). Il secondo fu con la regista Lina Wertmüller, da subito sua compagna per tutta la vita, per la quale ha firmato: Pasqualino Settebellezze (1975); Sotto.. sotto.. strapazzato da anomala passione (1984); In una notte di chiaro di luna (1989); Sabato, domenica e lunedì, film televisivo (1990); Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica (1996); Ferdinando e Carolina (1999); Francesca e Nunziata, per la televisione (2001). Ha lavorato con Mario Missiroli per le opere: Verso Damasco (1978) e Medea di Euripide (1996), ma anche per Mina Mezzadri e Francesco Rosi. In fine è stato scrittore, la sua opera più recente: Il cavallo a dondolo (2006). 111 Mario Missiroli (Bergamo, 13 marzo 1934) è un regista teatrale e regista cinematografico italiano. Prima di debuttare nella regia teatrale e cinematografica, è stato assistente di Giorgio Strehler, in teatro, e di Valerio Zurlini al cinema. È del 1963 il suo film: La bella di Lodi. Ma è in teatro che s’ impone maggiormente. Tra le sue opere si annoverano: La Maria brasca di Giovanni Testori (1960); Assasinio nella cattedrale di Thomas Stearn Eliot (1963); La locandiera di Carlo Goldoni (1971); L’ispettore generale d Nicolaj i Gogol’ (1972); Verso Damasco di August Strindberg (1978); Antonio E Cleopatra di William Shakespeare (1982); Amadeus di Peter Shaffer (1987); Il Gabbiano di Anton Cechov (1990); La fastidiosa di Franco Brusati (1994); L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde (2000); Amleto in prova di Rocco Famigliari (2004). 112 Moidele Bickel è una costumista nata in Germania nel 1937. Ha firmato i costumi per i film: La marchesa Von di Eric Rohmer (1973); Germinal di Claude Berri (1993); La regina Margot di Patrice Chéreau (1994) per il quale è stata nominata per il premio Oscar per i migliori costumi ; Il nastro bianco di Michael Haneke (2009). 113 Peter Stein (Berlino, 1 ottobre 1937) è un regista teatrale tedesco. Tra le opere si citano: Peer Gynt di Henrik Ibsen (1971), Il principe di Homburg di Heinrich von Kleist (1972); I villeggianti di Maxim Gorky (1974); Come vi piace di William Shakespeare (1977); Orestea di Eschilo (1980). Di Anton Čechov, propone Tre sorelle (1984); Il giardino dei ciliegi (1989 e 1996) e Zio Vania (nel 1996 al Teatro Argentina di Roma). I114 Il Petaso era un antico cappello a cono allargato; di origine Macedone, veniva usato nei paesi in cui il clima era molto caldo e necessitava riparasi dal sole. Il petaso era usato molto in Grecia, da contadini, pescatori, guerrieri e soprattutto dai viaggiatori. Infatti era utile per ripararsi anche dalla pioggia. I greci lo associavano al messaggero celeste Ermes (Hermes o Ermète). Al tempo di Sofocle tale copricapo era molto in voga anche nell’abbigliamento femminile. Realizzato in cuoio, paglia o feltro, per la sua versatilità riscosse molto successo anche tra i romani in epoca imperiale. 115 Dino Pantano è un costumista e scenografo Siracusano, ha ricosturuito per la mostra, Le Vesti di Medea, presso, Palazzo Greco, Museo e Centro studi INDA, a Sircusa (26 febbraio-25 aprile 2005) i costumi del mito usati durante le cinque edizioni tenutesi al

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teatro greco di Siracusa dal 1927 al 2004. 116 Le ciocie erano le scarpe tipiche di Lazio, Abruzzo e Molise, diffuse anche in Basilicata, Calabria e nei Balcani. L’utilizzo di queste scarpe diede in nome agli abitanti di buona parte della campagna e della marina laziali, detta appunto Ciociaria. Erano realizzate in cuoio ma senza tomaia, con la punta rivolta all’insù, ed erano fissate ai piedi con dei lacci posti ad incrocio, legati alle caviglie. Queste scarpe erano usate da contadini e pastori, sia uomini che donne. La forma favoriva una gran libertà di movimento su qualsiasi tipo di suolo. Le origini di queste scarpe sono incerte. In realtà già i Persiani ne indossavano modelli simili e non è detto che esse non derivino da influenze orientali. Le ciocie vengono chiamate anche zampitti nella Sicilia orientale e sciòscie in Napoletano. Tutt’oggi fanno parte dell’abbigliamento folkloristico tradizionale della Ciociaria e vengono usate dai pochi suonatori di zampogna rimasti. 117 La lorica muscolata era una corazza usata dagli antichi romani. Questa protezione per il busto poteva essere realizzata in cuoio o in metallo; su questi materiali poi veniva riprodotta la muscolatura del petto e del torace. Le loriche muscolate potevano essere lavorate anche con decorazioni realizzate a sbalzo di grande sfarzo e raffinatezza, con rappresentazioni mitologiche o allegoriche. Venivano usate durante parate e trionfi, dai generali di alto rango o dagli imperatori. Ne esistevano svariati modelli: la segmentata realizzata con segmenti di metallo rivettati su uno strato di cuoio. I romani in epoca Imperiale ne utilizzavano un modello composto da due placche di metallo che coprivano il torace e la schiena unite da spallacci e protezione intorno ai fianchi. Un altro tipo di lorica era squamata: composta da lamelle metalliche poste una di fianco all’altra. La lorica plumata era realizzata a scaglie nervate, somiglianti a piume. 118 Il piviale è una veste liturgica d’età paleocristiana, tratta dalla guardaroba romana e più precisamente dai pluviali d’uso civile Ampio mantello di taglio semicircolare o anche rotondo, per tale ragione ed origine inizialmente era in cappuccio, che con il tempo perderà la sua funzionalità e resterà come mero ornamento. Il piviale liturgico è dunque un manto utilizzato nelle celebrazioni pontificali ed extraeucaristiche. Un tempo usato anche dai cantori e chierici, oggi è appannaggio dell’alto clero nei riti processionali e dal vescovo. 119 Il cappello in stile panama è realizzato a mano con fibre di palma nana, di colore chiaro, leggero, a tesa larga. Questo tipo di capello è prodotto principalmente in Ecuador e nello stato Messicano. IL suo nome deriva dalla città di Panama, un tempo principale luogo di scalo commerciale. Questo simbolo del caldo esotico viene invece prodotto da ormai 300 anni nel cuore delle montagne dell’Ecuador, a 2.550 metri, in una città di nome Cuenca. La paglia proveniente dalle coste dell’Ecuador, in particolare dalla città di Montecristi. Uomini e donne lavorano a mano questa paglia con l’utilizzo di pochi macchinari essenziali. Il che spiega il costo finale. Di cappelli se ne producono al massimo una decina al giorno, e dai modelli più economici il prezzo può salire fino a toccare quote altissime, specialmente se si utilizzano paglie pregiate. Dietro ogni singolo pezzo confluiscono migliaia di anni di storia. Già gli Inca lavoravano la «paja toquilla» per fabbricare i loro abiti e quando i colonizzatori spagnoli giunsero a Cuenca rimasero colpiti da questi insoliti tessuti e dalla loro particolare leggerezza. Un prodotto doc che nel 2012 persino l’Unesco ha dichiarato Patrimonio, seppure intangibile. Nato come cappello per ripararsi dal sole cocente, il «sombrero de paja toquilla», come è chiamato ancora oggi in spagnolo, è un accessorio simbolo. Grazie al Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt nel 1906 durante l’inaugurazione del Canale di Panama, il presidente, indossò questo capello. Le foto dell’evento apparse sulla rivista newyor-

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kese «Times», fecero aumentare notevolmente la fama del copricapo. Nel Novecento, da re Edoardo VII a Winston Churchill che ne facevano sfoggio, il Panama divenne un lasciapassare obbligatorio per accedere all’immaginario collettivo di un’intera epoca. 120 Umberto Tirelli è stato sarto, costumista, designer, storico del costume e collezionista (Gualteri, 28 Maggio 1928 – Roma, 26 Dicembre 1990). Ha lavorato nella sartoria Safas per le sorelle Emma e Gita Maggioni fino al 1964. Successivamente ha acquistato la stessa Safas e fondato una sua sartoria, dando vita così un intenso rapporto di collaborazione con registi prestigiosi, per i quali ha saputo creare abiti unici nel loro genere per l’uso anche dei materiarli. La collaborazione con Visconti ha avuto risultati brillanti nei film Il Gattopardo (1963), Morte a Venezia (1971) e Ludwig (1972); i costumi ivi rappresentano fedelmente le caratteristiche storiche del tempo, magnifici nelle linee e nella scelta delle stoffe. Ma Tirelli raggiunge l’apice nel film Medea (1969) di Pasolini. Dalla sua morte la sartoria è gestita da Dino Trappetti, Gabriella Pescucci e Giorgio D’Alberti. Grande collezionista di abiti egli stesso si è definito un ʻʻarcheologo della moda’’. Ha realizzato una delle più importanti collezioni private del mondo con oltre quindicimila capi. Nel 1986 ha donato alla Galleria del costume di Palazzo Pitti a Firenze più di cento costumi Teatrali. Tutt’oggi La Sartoria Tirelli continua a godere di grande prestigio. 121 Jacopo Carducci, alias Pontorno (Pontorme 1495 – Firenze 1556) fu allievo di Andrea del Sarto insieme a Rosso Fiorentino. Egli contribuì alla nuova innovazione artistica Italiana del Cinquecento di pieno gusto Manierista. Tra le sue opere più famose: La Deposizione(1525-28) olio su tavola, Firenze, S. Felicità, Cappella Capponi. 122 Giovanni Battista di Jacopo, detto Rosso Fiorentino (Firenze 1495 – Fontainebleau 1540). Tra gli artisti della nuova generazione Manierista, fu personalità audace fin dai suoi esordi. Tra le sue opere più famose: la Deposizione dalla croce (1521) olio su tela, Volterra, Pinacoteca. 123 D’amico De Carvallo Caterina, Vergani Giulio, Piero Tosi. Costumi e scenografie, Leonardo Arte, Ed., Milano 1997, pag 117. 124 Annalise Baily (Attiva 1980-2004) costumista di numerose serie televisive danesi tra le quali si annoverano: Ude pa naget (1984); Kròlestwo II (1997); Rejeseholdet (20002004); Lepszecrazy (2000). Ha realizzato i costumi per due film la televisivi: Medea (1988) regia di Lars Von trier e Den Sebiske Danker, regia di Jacob Grønlykke (2001). 125 Cinzia Tartamella (Palermo 1988). Inizia la formazione all’età di sei anni, approcciandosi allo studio della danza presso la Scuola di Danza Classica diretta da Marisa Benassai, Palermo. Intorno agli 11-12 anni contemporaneamente a questa tecnica ha deciso di avvicinarsi anche alla danza contemporanea, studiando per svariati anni con Giovanni Zappulla e Carlo Mauro Maggiore. Durante la sua formazione ha avuto la possibilità di partecipare a vari stage sia di danza classica che di danza contemporanea tenuti da professionisti italiani e stranieri, come Brigitte Hyon, Bruce Taylor, James Urbain, Tuccio Rigano e tanti altri. Finiti i normali studi scolastici, nell’estate del 2006 ha preso parte ad uno stage di tre settimane, a Chiasso (Svizzera), avendo l’opportunità di incontrare artisti come Simona Bucci, Larrio Ekson e Raffaella Giordano. Proprio da questi incontri, ed in particolare da quello con Simona Bucci, ha ricevuto una borsa di studio per studiare presso il M.A.S. di Milano, con la possibilità di seguire solo le lezioni del terzo anno del dipartimento “Professione Mas” e conseguendo alla fine di quest’ultimo il Diploma. Nel corso di quell’anno, è entrata a contatto con nuove tecniche di contemporaneo: la contact improvisation, release technique, Limon technique, Cunningham technique e Nikolais technique, e ha avuto la possibilità d’ incontrare

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durante dei laboratori coreografici i danzatori e coreografi Fabrizio Monteverde e Bradley Shelver. Nel 2007, previa audizione, entra all’ “Amsterdamse Hogeschool voor de Kunsten” (Università delle arti) ad Amsterdam, dove perfeziona la sua preparazione ottenendo il Diploma di Danzatrice Professionista nel 2011, preso il dipartimento di Modern Dance Theatre. Nel 2008 partecipa ad un workshop, organizzato dall’ITs Festival (International Theatre School Festival), di improvvisazione con Michael Schumacher e di danza classica con Derrick Brown. Durante la sua permanenza in Olanda ha lavorato con coreografi e danzatori d’ importanti compagnie straniere come Liat Waysbort (Batcheva Dance Company), Marco Goecke, Heidi Vierthaler (Forsythe Company), Damian Munoz, Giulia Mureddu, Kenzo Kusuda, Ann van den Broek, Marta Coronado (ROSAS), Barbara Gutierrez (Emio Greco/PC) e nell’ inverno 2010-2011 ha preso parte come tirocinante alla compagnia “Scapino Ballet Rotterdam” diretta da Ed Wubbe, avendo la possibilità di andare in scena in svariati loro spettacoli. Tornata a Palermo nello stesso anno, ha preso parte a diverse manifestazioni di danza e teatro ( Quintessenza, Premio Scenario), ha lavorato con altre colleghe ad un paio di spettacoli andati in scena nel corso del 2012, come per esempio “Foemina” di Valentina Tilotta e Federica Marullo. Nell’edizione 2012 di “Palermo in Danza” toccante è stato l’incontro con il danzatore Fernando Suels Mendoza (Tanztheater Wuppertal Pina Bausch). Ha continuato il suo perfezionamento studiando e lavorando con Silvia Giuffrè, e andando in scena con lo spettacolo Nero Inchiostro da lei diretto. Ultimo spettacolo nel quale è andata in scena è stato Di latte-Di sangue, con regia di Ilaria Palermo e coreografie dirette da quest’ultima e Cinzia Tartamella. Iva Bittova è nata il 22 luglio 1958 nel comune di Bruntàl; Slesia ceca; in quella che era allora la Repubblica della Cecoslovacchia.Violinista, cantante e compositrice, la sua carriera inizia come attrice ma, amante della musica, negli anni Ottanta incomincia maggiormente a dedicarvisi. Per la per la sua particolare maniera compositiva oggi la Bittovà è conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo. Durante la sua carriera ha pubblicato otto album, tra i quali s’ annoverano: Balada pro banditu (1986); River of milk (1991); Divna slecinka ( 1996); Iva Bittova (2013). 127 Le sostanze coloranti possono distinguersi in due categorie: dirette ed indirette. I coloranti diretti hanno la capacità di fissarsi ai tessuti senza l’ausilio di altre sostanze. La caratteristica principale dei coloranti diretti e la resistenza ai cicli di lavaggio. I coloranti diretti sono solitamente solubili in acqua e si fissano maggiormente ad alte temperature. I coloranti indiretti non hanno la capacità di penetrare all’interno delle fibre e di fissarsi in maniera permanete su di un tessuto. Per tale motivo si ricorre al mordente. I mordenti sono principalmente costituiti da sali metallici (ma anche da sostanze naturali vegetali ed animali) che disciolti in acqua vengono assorbiti dalle fibre rimanendo legati in modo permanente per mezzo di forti legami chimici. 128 L’allume di rocca o di potassio è solfato doppio di alluminio e potassio dodecaidrato, poiché composto d’alluminio e potassio dell’acido solforico. A temperatura ambiente si presenta come un solido incolore ed inodore. I suoi usi sono svariati. Nell’antichità era già conosciuto come ottimo fissante dei colori naturali sui tessuti ed era usato anche per il trattamento delle pelli. Inoltre era usato come emostatico in medicina. L’allume di rocca nell’uso domestico può essere impiegato anche come deodorante naturale anallergico o come dopobarba per le sue proprietà emollienti e cicatrizzanti. 129 I tannini sono sostanze vegetali presenti nella corteccia di piante come la quercia, il castagno, l’abete e l’acacia. Sono dei mordenti ottimi per la colorazione delle fibre vegetali e durante la mordenzatura conferiscono alla fibra un colore di intensità varia-

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bile a seconda del tipo usato. La noce galla della quercia è il tannino che offre il colore più neutro e per tale motivo è più usato nelle mordenzature, poiché non interferisce sul risultato del bagno di colore. L’indaco è un colorante naturale che si ottiene dalle foglie di una pianta chiamata Indigofera tintoria. Dalla loro cottura si ottiene un colore che tende al giallo-verde. Tale effetto è poi fatto ossidare all’aria in grandi vasche. La tintura ossidata diventa gradualmente blu. Nel fondo delle vasche si va a depositare il reale colorante che è una specie di melma molto densa. Questa viene estratta e fatta asciugare in forma di panetto. 130 L’indaco in questa forma può essere commerciato e usato per la realizzazione di colori per la tintura tessile, per la pittura ed anche per la pigmentazione di colori usasti nella cosmetica. Con esso si ottengono meravigliose sfumature, da un azzurro intenso al blu. I maggiori produttori di questo colorante sono i paesi asiatici tra cui l’india, da cui il nome botanico della pianta.

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Indice Illustazioni Fig 1

Medea fra due serpenti, Lekytos Attica ,ca 530 a.C, Brithis 11 Museum, London.

Fig 2

Frisso ed Elle, Affresco Romano 495 a.C, Pompei.

Fig 3

Medea offre il filtro magico a Giasone, John William Wa- 14 terhouse 1907, olio su tela, collezione privata.

Fig 4

Francois The Troy, Jason swearing eternal affection to Me- 15 dea, 1742 -43, olio su tela, National Gallery, London.

Fig 5

Giasone sta per essere inghiottito dal drago custode del vel- 17 lo d’oro, Athena lo salva. Kylix Attica, 480 a.C, pittura a figure rosse, Cevertari.

Fig 6

Medea ringiovanisce Esone particolare 500- 47 a.C Hydria, 18 da Vulci, Brithish Museum, London.

Fig 7

Medea e le Peleadi, Medea inganna le figlie di Pelia, 420- 19 410 a.C, copia di un originale greco, Pergamonmuseum, Berlino.

Fig 8

William Russel flint, Medea offere la coppa avvelenata a 20 Teseo, 1910.

Fig 9

Medea uccide i suoi figli, Anfora Campana, ca 330 a.C, pit- 23 tura a figure rosse, Museo di Louvre, Parigi.

Fig 10

Gustave Moreau, Jason et Médèe,1865, olio su tela, Museo 24 D’Orsay, Parigi.

Fig 11

Medea prima dell’infanticidio, 67-79 d.C, affresco, casa dei 26 Dioscuri, Pompei.

Fig 12

Creonte, Glauce, Medea e i figli, II sec a,C (particolare) alto 27 rilievo, marmo, Pergamonmuseum, Berlino.

Fig 13

Maria Callas in Medea di Cherubini, 1953, Teatro comunale, 30 Firenze.

Fig 14

Ferdinand Victor Eugène Delacroix, Medea uccide i suoi fi- 31 gli, 1862, olio su tela, Louvre, Parigi.

Fig 15

Henri Klagam, Medea, 1868, olio su tela, Musèe di Beaux 32 Arts De Nancy.

Fig 16

Egeo consulta l’oracolo della Pizia, 440 - 430 a.C, pittura a 36 figure rosse, da Vulci, Altes Museum, Berlino.

Fig 17

Paul Cèsanne, Medea (dopo Delacroix), 1879-1882 acqua- 38 rello, 20 x 35, Kunsthaus Zürich, Svizzera.

Fig 18

Bernard Safran, Medea, 1966 olio su masonite, Fitzgerald 41 Gallery, New York.

Fig 19

Lina Sastri in Medea di Porta Medina, regia Armando Pu- 42 gliese, Teatro Diana, Napoli, 1991.

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Fig 20

Luca Nastri (a sinistra) interpreta Cipriano Barca in La Me- 43 dea di Porta Medina, regia Armando Pugliese, Teatro Diana, Napoli, 1991.

Fig 21

Lina Sastri, primo in una scena della Medea di Porta, regia 44 Armando Pugliese, Teatro Diana, Napoli, 1991.

Fig 22

Lina Sastri in una scena della Medea di Porta Medina, regia 45 Armando Pugliese, Teatro Diana, Napoli, 1991.

Fig 23

Anselm Feurbach, Medea e i suoi figli (particolare) 1870, 47 olio su tela Neue Pinakothek, Monaco di Baviera.

Fig 24

Amasis, Lekythos, particolare, donne al telaio, 550- 530 a.C, 50 Lekythos, pittura Attica a figure nere, Grecia.

Fig 25

Telemaco con Penelope al telaio, particolare Skifohos Attica, 52 440 a.C, pittura a figure rosse, Museo Archeologico Nazionale, Chiusi.

Fig 26

Preparativi per una cerimonia in onore di Dionisio, partico- 55 lare vaso Attico, 450 . 400 a. C, Museo Nazionale di Atene.

Fig 27

Medea, 45-47 d.C, affresco, casa dei Dioscuri, Pompei.

Fig 28

Silvia Mangano (Giocasta); Franco Citti (Edipo) in una sce- 62 na del Film Edipo re, regia Pier Paolo Pasolini, Italia, 1967.

Fig 29

Franco Citti (Edipo), scena del film Edipo re, 1967,regia Pier 62 Paolo Pasolini, Italia, 1967.

Fig 30

Francesco Goya, Crono divora i suoi figli,1819-1823, olio su 64 intonaco, Museo del Prado, Madrid.

Fig 31

Tommaso Ragno (Giasone) Iava Forte (Medea), Medea di 69 Emma Dante, Teatro studio Sandacci, Firenze, 2004.

Fig 32

Milvia Mariglione (Maria Sibilla Ascione), La madre‘i fi- 69 glie sò piezze ‘i sfaccimme, regia Mimmo Borrelli, Teatro dell’arte di Milano, 2010.

Fig 33

Giuditta Leio (Medea) in una scena, La Lunga notte di Me- 72 dea, di Corrado Alvaro, regia Giuditta Leio, Teatro Leio Palermo, 2004.

Fig 34

Maria Callas in Medea, Pier Paolo Pasolini,1969, Italia.

Fig 35

Laurent Terzieff ( Chirone) con giovane Giasone, in Medea 76 di Pier Paolo Pasolini, 1969

Fig 36

Laurent Terzieff ( Chirone), primo piano in Medea di Pier 77 Paolo Pasolini, 1969.

Fig 37

Laurent Terzieff( Chirone) a sinistra in forma mitologica, a 79 destra in forma umana, scena del Film Medea di Pier Paolo Pasolini, 1969.

Fig 38

Scena di sacrificio in Medea di Pier Paolo Pasolini,Italia 79 1969.

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Fig 39

Maria Callas in Medea, scena dal film di Pier Paolo Paolini, 80 rituale di un sacrificio Italia, 1969.

Fig 40

Maria Callas in Medea, scena finale con i bambini uccissi, 81 dal film di Pier Paolo Paolini, Italia, 1969.

Fig 41

Kirstren Olsen (Medea) scena tratta dal film Medea di Lars 83 Von Trier, Danimarca, 1988.

Fig 42

Figlio maggiore di Medea, scena dal film Medea di Lars Von 84 Trier, Danimarca, 1988.

Fig 43

Melina Mercuri (Maya); Ellen Bustyn(Breanda Collins), A 86 dream of passion regia Julias Dassin, Grecia-USA, 1978.

Fig 44

Arcelia Ramìre (Julia) in una scena di Asi es la vida, regia di 88 Arturo Ripstein, Messico, 2001.

Fig 45

Isabelle Huppert (Irene) insieme alle figlie in una scena di 89 Mèede Miracle, regia di Tonino De Bernard, Francia, 2007.

Fig 46

Isabelle Huppert (Irene) in una scena di Mèede Miracle, re- 90 gia di Tonino De Bernard, Francia, 2007

Fig 47

Antonio Canova, Ebe, la figura indossa un peplo, 1800-1805, 92 scultura su marmo, Museo, dell’ Ermitage, San Pietroburgo.

Fig 48

Cratere Apulo, particolare scena Dionisiaca, IV sec a.C, pit- 93 tura a figure rosse, Museo Archeologico Nazionale Ratta, Ruvo di Puglia.

Fig. 49

Apollo e Artemide, i personaggi in chitone e himation 460 94 a.C, pittura a figure rosse, Louvre, Parigi.

Fig 50

Artemide e Apollo saiettano i figli di Niobe, 460-450 a.C, 95 pittura a figure rosse su cratere, da Orvieto, Louvre, Parigi.

Fig 51

Maschera tragica e maschera comica, I secolo a. C mosaico 95 Romano I, Musei capitolini, Roma.

Fig 52

Duilio Cambellotti, figurino di Medea, Medea regia Ettore 99 Romagnoli, Teatro greco Siracusa, 1927

Fig 53

Personaggi del coro e Medea ( Maria Laetitia Celli), azione 99 scenica di fronte alla reggia di Corinto, Medea regia Ettore Romagnoli, Teatro greco Siracusa, 1927.

Fig 54

Maria Laetitia Celli nelle vesti di Medea, Medea regia Ettore 100 Romagnoli, Teatro greco Siracusa, 1927.

Fig 55

Dino Pantano, ricostruzione (2004) dell’abito di Medea rea- 101 lizzato da Duilio Cambellotti per la Medea di Ettore Romagnoli, Teatro greco Siracusa, 1927.

Fig 56

Lilla Brignone nelle vesti di Medea, Medea, regia di Virginio 103 Puecher, Teatro greco di Siracusa, 1958.

Fig 57

Lilla Brignone (Medea) Tino Carraro (Giasone), Medea, re- 103 gia di Virginio Puecher, Teatro greco di Siracusa, 1958.

191


Fig 58

Dino Pantano, ricostruzione veste di Medea (2004), Medea, 104 regia di Virginio Puecher, Teatro greco di Siracusa, 1958.

Fig 59

Valeria Moriconi (Medea), Medea, regia Franco Enriquez, 105 teatro greco di Siracusa,1972.

Fig 60

Valeria Moriconi (Medea), Medea, regia regia Franco Enri- 106 quez, teatro greco di Siracusa 1972.

Fig 61

Emanuele Luzzati Figurino di Medea, Medea regia Franco 106 Enriquez, teatro greco di Siracusa 1972.

Fig 62

Emanuele Luzzati, figurino di Giasone Medea, Medea regia 107 Franco Enriquez, teatro greco di Siracusa 1972.

Fig 63

Emanuele Luzzati, figurini figli di Medea, Medea regia Fran- 107 co Enriquez, teatro greco di Siracusa, 1972.

Fig 64

Dino Pantano, ricostruzione veste di Medea (2005) Medea, 108 regia Franco Enriquez, teatro greco di Siracusa, 1972.

Fig 65

Valeria Mariconi (Medea) Medea, regia Mario Missiroli, te- 109 atro greco di Siracusa, 1996.

Fig 66

Valeria Mariconi (Medea) Medea, regia Mario Missiroli, te- 110 atro greco di Siracusa, 1996.

Fig 67

Enrico job figurino Medea, Medea, regia Mario Missiroli, 110 teatro greco di Siracusa, 1996.

Fig 68

Paolo Graziosi (Giasone) con bambini, Medea, regia Mario 111 Missiroli, teatro greco di Siracusa, 1996.

Fig 69

Dino Pantano, ricostruzione veste di Medea, (2005), Medea, 111 regia Mario Missiroli, teatro greco di Siracusa, 1996.

Fig. 70

Moidel Bikel, figurino Medea, Medea regia Peter Stein, tea- 112 tro greco di Siracusa, 2004.

Fig 71

Maddalena Crippa (Medea), e le donne del coro, Medea, re- 113 gia Peter Stein, teatro greco di Siracusa, 2004.

Fig 72

Fabio Sartori ( Egeo); Maddalena Crippa, Medea, regia Peter 114 Stein, teatro greco di Siracusa, 2004.

Fig 73

Paolo Graziosi (Creonte); Maddalena Crippa (Medea), Me- 115 dea, regia Peter Stein, teatro greco di Siracusa, 2004.

Fig 74

Nutrice e il coro, Medea regia Peter Stein, teatro greco di 115 Siracusa, 2004.

Fig 75

Maria Callas (Medea) insieme alla famiglia reale, Medea, 116 Pier Paolo Pasolini, Italia, 1969.

Fig 76

Abitante della Colchide, Medea, Pier Paolo Pasolini, Italia 117 1969.

Fig 77

Abitante della Colchide, Medea, Pier Paolo Pasolini, Italia 117 1969.

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Fig 78

Piero Tosi, costume di Maria Callas indossato in Grecia dopo aver abbandonato le vesti sacre della Colchide, Medea, Pier Paolo Pasolini, 1969.

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Fig 79

Margareth Clementi (Glauce), Medea, Pier Paolo Pasolini, Italia 1969.

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Fig 80

Maria Callas in Medea Pier Paolo Pasolini, Italia, 1969.

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Fig 81

Kristen Olsen (Medea) di spalle, Medea di Lars Von Trier, 120 Danimarca,1988.

Fig 82

Kristen Olsen (Medea) sulla nave di Egeo, Medea di Lars 121 Von Trier, Danimarca,1988.

Fig 83

Gelso nero (Morus nigra).

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Bibliografia D’amico De Carvallo Caterina, Vergani Giulio, Piero Tosi. Costumi e scenografie, Leonardo Arte ed., Milano 1997. DuBoi Page, Il Corpo come metafora. Rappresentazioni della donna nella Grecia antica, Laterza ed., Bari 1990. Euripide, Medea, a cura di Filippo Amoroso, Gruppo ed. D’Agostini, Novara. 2003. Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro, Medea variazioni sul mito, a cura di Maria Grazia Ciani, Marsilio ed., Venezia 2003. Fo Dario, Rame Franca , Le Commedie di Dario Fo, Venticinque monologhi per una donna, Einaudi ed., Torino 1989. Fusillo Massimo, La Barbarie di Medea. Itinerari novecenteschi di un mito, [2009], www.indafondazione.org. La Mantia Fabio, Ferlita Salvatore, Rabbito Andrea, Il Dramma della straniera. Medea e le variazioni novecentesche del mito, Franco Angeli ed., Milano, 2012. Marchese Rosa Rita. Medea, le violenze parentali e la crisi del soggetto tragico, Luxograph ed., Palermo 2003. Mastriani Francesco, La Medea di Porta Medina, Lucarini ed., Roma, 1988, prima ed. it., 1915. Pasolini Pier Paolo, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Garzanti ed., Milano 1991. Pindaro, Pitiche, a cura di Franco Ferrari, BUR ed., Milano 2008. Publius Ovidius Nasone, Heroides, traduzione e note Nicola Gardini, A. Mondadori ed., Milano 1994. Idem, Metamorfosi traduzione di Gina D’Angelo Matassa, Nuova Ipsa ed., Palermo 2002. Ricchi Renzo, Femminilità e ribellione. La donna greca nei poemi omerici e nella tragedia Attica, Vallecchi ed., Firenze 1987. Rodio Apollonio, Le Argonautiche, traduzione Guido Paudano, BUR ed., Milano 2010. Rubino Margherita, Medea contemporanea. Lars Von Trier, Crista Wolf, scrittori britannici, Darficlet ed., Genova 2000. Seneca Lucio Anneo, Medea, Fedra, Tieste, traduzione Vico Faggi, Garzanti ed., Milano 2002. Wolf Crista, Medea voci, traduzione Anita Raja, E/O ed., Roma 2012.

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Filmografia A Dream of Passion, regia di Jules Dassin, interpreti: Melina Mercuri (Maya/Medea); Ellen Burstyn (Brenda Collins); Dimitris Papamichael (Dimitris). Costumi di Dionysis Fotopoulos. Jules Dassin/Brean Film – Melina Film. Grecia/ USA, 1978, 110 minuti. Asi es la vida, regia Arturo Rispetin, interpreti: Arcelia Ramìrez (Julia/Medea); Luis Felipe Tovar ( Nicolas/Giasone); Ernesto Yanez (La Marrana/ Creonte). Costumi di Claudio Contreras. Wanda Visiòn S.A, Messico, 2000, 98 minuti. Medea, regia Pier Paolo Pasolini, interpreti: Maria Callas (Medea), Giuseppe Gentile (Giasone), Massimo Girotti (Creonte). Costumi di Piero Tosi. San Marco S.P.A. Roma - Les film number One, Parigi Janusfilm Ferrnsehen, Francoforte, Italia/Francia/Germania, 1969, 110 minuti. Medea, regia Lars Von Trier, interpreti: Kristen Olsen (Medea); Udo Kier (Giasone); Hennig Jensen (Creonte). Costumi di Manon Rasmunssen. Danmarks Radio, Danimarca, 1988, 75 minuti. Mèdée Miracle, regia Tonino De Bernardi, interpreti: Isabelle Huppert (Iréne/Medea); Tommaso Ragno (Jason/ Giasone); Lou Castel (Créon/ Creonte). Costumi di Annelise Baily. Lontane Province Film, Francia/ Italia 2007, 81 minuti.

197



Sitografia www.Engramma.it. Fusillo Massimo, Medea sullo schermo. www.Engramma.it. Rimini Stefania, La tragedia di una femme revoltèe,cinematografia di Lars Von Trier e Carl Theodor Dreyer. www.Engramma.it. Sul tradurre il Greco. Appunti per Medea di Euripide (Inda, Siracusa 2009) www.IMDb.com www.indafondazione.org www.Medeaonline.net www.Treccani.it

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